Le forze del lavoro. Movimenti operai e globalizzazione dal 1870 - Beverly J. Silver
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Beverly J. SilverLe forze del lavoro. Movimenti operai e
globalizzazione dal 1870
Titolo: Le forze del lavoro. Movimenti operai e globalizzazione dal 1870
Autore: Beverly J. Silver
Editore: Bruno Mondadori
Pubblicazione: Milano, 2008; 1a ed. Cambridge University Press, 2003
Pagine: 296
Biografia
Beverly J. Silver è docente di Sociologia presso la Johns Hopkins University di
Baltimore (Maryland). È autrice di Forces of labor. Workers’ Movements and
Globalization since 1870 (CUP, Cambridge 2003). Ha ricevuto due volte il
“Distinguished Scholarly Publication Award” dalla sezione Pews (Political Economy of
the World-System) dell’American Sociological Association. Per Bruno Mondadori ha
pubblicato Caos e governo del mondo (con G. Arrighi, 2003) e Le forze del lavoro.
Movimenti operai e globalizzazione dal 1870 (2008).
Abstract
Un libro innovativo, imparziale e rigoroso, un’analisi comparativa di lungo periodo che
si avvale di un’imponente raccolta di dati. Nell’esaminare le trasformazioni storiche, le
forme di resistenza e il ruolo dei movimenti operai nei paesi del Nord e del Sud del
mondo, l’autrice dimostra che i movimenti su scala locale sono sempre connessi con i
processi politici e socio-economici che avvengono su scala globale coincidendo con
l’avvicendarsi dei settori nevralgici dello sviluppo capitalistico e la localizzazione
geografica della produzione. Punto di partenza della monografia è un quesito: il
movimento operaio è destinato irreversibilmente a perdere la sua forza e la sua capacità
negoziale? L’autrice studia le trasformazioni principali delle lotte operaie, il passaggio
dalla centralità del settore tessile a quella del settore automobilistico fino a quelle
odierne dei settori dei trasporti e delle comunicazioni e mostra il ruolo che ancora oggi
in molte parti del mondo, specialmente dove è stata delocalizzata parte dell’attività
industriale, giocano i movimenti dei lavoratori. La ricerca è condotta in maniera
rigorosa, e il ventaglio di possibilità di azione e organizzazione che presenta non
derivano da una tesi a priori, ma da un’attenta disamina dei dati sull’andamento delle
lotte operaie in una pluralità di paesi del Nord e del Sud del mondo. Il libro è un
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esempio raro di sociologia rigorosa, basata su analisi comparative di lungo periodo
capaci anche di fornire ragionevoli previsioni sulla direzione che i fenomeni sotto
osservazione prenderanno nel futuro.
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Capitolo 1. Introduzione
La crisi dei movimenti operai e degli studi sul movimento operaio
Nell’ultimo ventennio del Novecento si registra, nell’ambito delle scienze sociali, una
condizione di crisi avanzata dei movimenti operai, con il relativo affievolirsi degli studi
ad essi dedicati. I fattori che conducono a tale conclusione possono essere in tal modo
schematizzati: diminuzione del numero di scioperi e di altre espressioni di militanza dei
lavoratori; calo delle adesioni al sindacato; riduzione dei salari a fronte di una crescente
precarietà lavorativa. William Sewell, a tal proposito, nota che l’inadeguatezza della
classe operaia nello svolgere quel compito liberatorio assegnatole tanto dai discorsi
rivoluzionari quanto da quelli riformisti, fa perdere parte del proprio peso allo studio
della sua storia (Sewell, 1993). Questa doppia crisi si configura come “strutturale” e “di
lungo periodo”, poiché correlata alle trasformazioni epocali caratterizzanti gli ultimi
decenni del ventesimo secolo e derivanti dal fenomeno globalizzante. Aristide Zolberg,
in linea con tale constatazione, ritiene che gli stravolgimenti propri degli ultimi decenni
del Novecento abbiano comportato un’irreversibile sparizione della classe operaia
(Zolberg, 1995). Analogamente, Manuel Castells sostiene che l’avvento dell’era
informatica abbia trasformato la sovranità statale e le esperienze lavorative ledendo la
capacità del movimento operaio di agire come gruppo socialmente coeso in
rappresentanza degli operai (Castells, 1997). Parallelamente a queste posizioni, se ne
registrano altre totalmente contrapposte che, invece, a partire dalla fine degli anni
novanta, mettono in evidenza una netta ripresa dei movimenti operai in relazione alla
crescente reazione contro i disagi scaturenti dalla globalizzazione: nella Francia del
1995, lo sciopero generale contro i tagli al settore pubblico segnava ufficialmente la
prima ribellione contro la globalizzazione (da Le Monde). Negli Stati Uniti, si rinnova
l’interesse nei confronti dei movimenti operai, in seguito a questo attivismo, con la
conseguente volontà di coinvolgimento degli intellettuali nello studio del fenomeno
attraverso la divulgazione di pubblicazioni ad esso pertinenti.
Data l’evidente ambivalenza delle posizioni ideologiche registrate in materia,
l’autrice, al fine di palesare lo scopo principale nonché punto di partenza della sua
monografia, si chiede quale fra le due attese divergenti sia la più plausibile; per poter
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condurre un’indagine analitica esauriente ed oggettiva, e dare un’adeguata risposta
all’interrogativo sotteso all’opera in questione, è necessario ricostruire gli studi sul
lavoro in un quadro di riferimento storicamente e geograficamente ampio ed articolato.
A seconda della prossimità o dello scostamento da parte degli studiosi rispetto alla
concezione che vede nel mondo contemporaneo un elemento di “novità storica”, sarà
possibile registrare differenti valutazioni sul futuro dei movimenti operai. Nello
specifico, coloro che circoscrivono tali movimenti in una fase di crisi irreversibile ed
inarrestabile, ritengono che l’epoca contemporanea sia fondamentalmente nuova e senza
precedenti; coloro che, invece, s’attendono una ripresa significativa dei movimenti
operai considerano lo stesso capitalismo storico in termini di dinamiche ricorrenti.
Dunque, le previsioni circa il futuro dei movimenti devono basarsi sul confronto tra le
dinamiche contemporanee ed analoghe dinamiche emerse nel passato: in tal modo sarà
possibile separare i fenomeni ricorrenti da quelli effettivamente nuovi. L’obiettivo è
esplicitamente quello di distinguere, da vari punti di vista, per le agitazioni operaie
mondiali, i meccanismi ricorrenti da quelli fondamentalmente nuovi e senza precedenti.
Dibattiti sul presente e il futuro dei lavoratori e dei movimenti operai.
Nelle parole dell’autrice, prima di procedere con l’esplorazione effettiva della
tematica trattata, occorre analizzare due giudizi diametralmente opposti circa gli effetti
che il fenomeno della globalizzazione sortisce in relazione all’istituto del movimento
operaio. Da un lato, ci si chiede se i processi contemporanei di globalizzazione abbiano
indebolito lavoratori e movimenti operai, innescando una “gara al ribasso” dei livelli
salariali e delle condizioni di lavoro; dall’altro, ci si interroga sulla natura del fenomeno
globalizzante e sulle conseguenze che ne derivano in relazione alla presunta creazione
di condizioni oggettivamente favorevoli all’emergere di un forte internazionalismo
operaio. La crisi dei movimenti operai è stata spesso considerata come effetto
dell’ipermobilità del capitale produttivo del tardo Novecento, che ha dato origine ad un
mercato del lavoro unico caratterizzato dalla competizione individuale tra lavoratori su
scala planetaria. Nell’ideologia di Jay Mazur, le aziende multinazionali hanno innalzato
il livello di concorrenza tra i singoli lavoratori, mettendo sotto pressione il movimento
operaio internazionale (Mazur 2000). Con tale constatazione s’intende sottolineare la
drastica diminuzione del potere contrattuale dei lavoratori con il conseguente ribasso dei
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salari. In linea con tale ideologia, secondo altri studiosi, l’ipermobilità del capitale
indebolisce la sovranità dello stato e con essa la capacità di controllare i flussi di
capitale, nonché la capacità di proteggere il tenore di vita dei propri cittadini e i diritti
dei lavoratori. Ed ancora, un’altra spiegazione della crisi del movimento operaio si
focalizza sulle trasformazioni dell’organizzazione dei processi di produzione: tali
“innovazioni di processo” minano alla base il potere contrattuale dei lavoratori. Nelle
parole di Craig Jenkins e Kevin Leicht, il sistema fordista di produzione di massa
concorre a rinforzare e rinvigorire l’identità sociale e collettiva dei movimenti operai
che, al contrario, è resa flebile ed inconsistente dall’affermarsi del sistema postfordista.
Inoltre, le pressioni esercitate dalla concorrenza globale costringono i datori di lavoro ad
implementare sistemi di produzione “flessibile”: ciò è causa della trasformazione della
solida classe operaia in una rete di rapporti temporanei e sbrigativi (Jenkins e Leicht,
1997). Al contrario, rispetto alle aree da cui il capitale è emigrato, nei luoghi di recente
investimento si assiste alla formazione ed al rafforzamento di nuove classi operaie.
Ci si interroga a questo punto, circa l’eventuale presenza di tracce di un nuovo
internazionalismo della classe operaia nel processo stesso che ha portato alla crisi dei
vecchi movimenti operai: in questo caso specifico la globalizzazione della produzione
avviene nell’ambito di ciascun paese, piuttosto che tra diversi paesi, di conseguenza la
scissione tra Nord e Sud diviene sempre meno accentuata e rilevante. Ci si avvia verso
la formazione di un’unica classe di lavoratori mondiale ed omogenea, che condivide
condizioni di vita e di lavoro sempre più simili, come avviene, ad esempio, nel settore di
produzione globalizzata delle multinazionali.
La possibilità di sovvertire il processo produttivo mediante un’eventuale azione
oppositoria collettiva deve indurre i lavoratori a riunirsi in organizzazioni transnazionali
ed estese, proprio come le aziende datrici di lavoro. Anche in tale ambito di riflessione,
si registrano posizioni contrapposte tra coloro che promuovono l’internazionalismo dei
lavoratori, in base all’idea che solo un movimento operaio globale possa rispondere
efficacemente alle sfide poste dalle istituzioni globali, e coloro che considerano essere
strategia più efficace l’esercitare pressioni sui propri governi al fine di ottenere
l’implementazione di politiche favorevoli ai lavoratori. In definitiva, è opportuno
sottolineare quanto le tendenze contemporanee e gli orientamenti delle politiche
internazionali sul lavoro siano soggetti ad interpretazioni molto differenti. Il punto di
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vista espresso dagli intellettuali in relazione a tali problematiche dipende, in primo
luogo, dalle valutazioni delle dinamiche di lungo periodo che contestualizzano il potere
contrattuale dei lavoratori nei confronti dei rispettivi governi e dei datori di lavoro.
I conflitti della classe operaia in una prospettiva storico-mondiale: quadro teorico
e concettuale.
Il fatto che la situazione attuale della classe operaia mondiale sia caratterizzata da
molteplici controversie circa la sua effettiva carica reazionaria ed il suo potenziale
oppositorio, obbliga a considerare diverse visioni dell’impatto della globalizzazione sul
potere contrattuale dei lavoratori. Pertanto, è utile esporre la distinzione operata da Eric
Olin Wright tra “potere associativo” e “potere strutturale”: il primo si riferisce alle varie
forme di potere derivanti dal costituirsi di organizzazioni collettive di operai; il secondo,
invece, scaturisce dalla specifica collocazione dei lavoratori nel sistema economico. La
prima forma citata, inoltre, subisce un’ulteriore partizione in due sottocategorie: la
prima, “potere di contrattazione legato al mercato”, deriva direttamente dai mercati
rigidi del lavoro; la seconda, “potere contrattuale legato al luogo di lavoro”, si configura
come potere connesso alla posizione strategica di in gruppo di lavoratori nell’ambito di
un settore industriale fondamentale. Questo tipo di potere contrattuale si manifesta in
tutta la sua intensità e valenza nell’ambito di processi produttivi strettamente integrati
ed interrelati. Coloro che colpevolizzano il fenomeno globalizzante per aver condotto i
movimenti operai verso una condizione di crisi, individuano il pericolo proprio nella
capacità delle varie manifestazioni della globalizzazione di indebolire tutte queste forme
di potere contrattuale dei lavoratori. Ad esempio, il potere contrattuale connesso al
mercato potrebbe essere minato dalla mobilitazione di un “esercito industriale di
riserva” su scala mondiale. Inoltre, tale fenomeno ha danneggiato il potere di
contrattazione dei lavoratori delegittimando sindacati e partiti politici, impossibilitati,
oramai, nella distribuzione di vantaggi alla classe lavoratrice per i propri diritti: si
verifica un indebolimento del potere associativo di contrattazione con la conseguente
erosione del potere di contrattazione legato al mercato. Una parte degli studi sulla
globalizzazione e sul lavoro sostiene che la crisi dei movimenti operai sia dovuta non
alle trasformazioni delle condizioni lavorative strutturali, ma ai mutamenti avvenuti nel
dibattito intorno a tali tematiche: l’idea della assoluta mancanza di alternative alla
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globalizzazione esercita un potente effetto di smobilitazione sui movimenti operai.
Nelle parole di Piven e Cloward, il processo di accumulazione del capitale su scala
mondiale determina una distruzione della convinzione del potere dei lavoratori (Piven e
Cloward, 2000). L’analisi descritta nell’ambito del testo, finalizzata all’esposizione
delle fasi evolutive nello spazio e nel tempo del potere contrattuale dei lavoratori in tutte
le sue forme, segue due differenti teorie sull’interpretazione della relazione tra le lotte
operaie e i processi attivati dalla globalizzazione: pur essendo entrambe incentrate sulle
contraddizioni sociali insite nella trasformazione del lavoro in merce, l’una si focalizza
sulla discontinuità temporale di tale fenomeno, l’altra sulla sua disomogeneità spaziale.
In questo specifico ambito analitico, si collocano le riflessioni teoriche di Karl Marx e
Karl Polanyi atte a spiegare lo sviluppo storico mondiale dei movimenti operai.
Entrambi considerano il lavoro una “merce fittizia”: ogni tentativo di considerare gli
esseri umani come un merce uguale alle altre non può che condurre a reazioni
oppositorie violente e contrastanti. In tale contesto, la lettura interpretativa di Marx
induce ad accentuare la natura a fasi delle trasformazioni nelle forme di resistenza
opposta dai lavoratori caratterizzante il capitalismo storico; invece, la lettura di Polanyi
mette in evidenza la natura oscillatoria di questa attesa resistenza.
L’analisi di Polanyi si basa sull’idea che l’estensione del mercato autoregolato
determina un movimento di opposizione in quanto stravolge i patti sociali comunemente
accettati e stabiliti che riguardano il diritto ai mezzi di sussistenza: la resistenza è quindi
alimentata da un senso di “ingiustizia”. L’analisi di Marx, invece, si incentra anche sul
potere nell’identificare i limiti del capitale: questo non ha alcun valore senza forza
lavoro, e lo sviluppo capitalistico stesso porta ad un rafforzamento strutturale di coloro
che la detengono. Da un lato, l’espansione della produzione capitalistica tende a
rafforzare i lavoratori e induce il capitale a un confronto diretto e ricorrente con
movimenti operai forti. Le concessioni finalizzate a tenere tali movimenti sotto
controllo sono causa dell’avanzamento del sistema verso una crisi di redditività: per
risollevare i profitti si determina, però, la rottura di patti sociali prestabiliti, nonché una
maggiore mercificazione del lavoro con la conseguente crisi di legittimazione degli
operai. Crisi di redditività e crisi di legittimazione delineano una tensione costante
all’interno del capitalismo storico.
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In particolare, l’osservazione secondo la quale lavoratori e movimenti operai sono
continuamente costituiti e ricostituiti è utile a contrastare alcune definizioni
eccessivamente rigide della classe operaia. Dunque, è necessario identificare le reazioni
“dal basso” contro gli aspetti creativi quanto distruttivi dello sviluppo capitalistico: in
questo libro si tenta una combinazione fra il modello di Marx e quello di Polanyi al fine
di enucleare da tale fusione un’analisi oggettiva delle dinamiche di lungo periodo della
classe operaia globale.
Metodi e strategie della ricerca.
La piena comprensione delle dinamiche dei movimenti operai contemporanei
necessita di un’analisi di vasto respiro storico e di ampia portata geografica. Le
valutazioni circa il futuro dei movimenti dei lavoratori si fondano su di un giudizio a
proposito della novità storica rappresentata dal mondo contemporaneo. Coloro che
pongono i movimenti degli operai in una situazione di crisi irreversibile ritengono che
l’epoca attuale sia fondamentalmente nuova e senza precedenti, un’epoca in cui i
processi economici globalizzati hanno completamente stravolto l’impalcatura propria
della classe operaia. Al contrario, coloro che attendono un ritorno significativo dei
movimenti operai attribuiscono allo stesso capitalismo storico dinamiche ricorrenti, tra
cui il continuo riprodursi di contraddizioni e conflitti tra capitale e lavoro.
L’analisi descritta in questo libro si rivolge al passato alla ricerca di modelli di
ricorrenza e di evoluzione, in modo da poter circoscrivere l’elemento di innovazione
nella situazione che i movimenti operai si trovano attualmente a dover fronteggiare: solo
attraverso questo paragone è possibile distinguere i fenomeni storicamente ricorrenti da
quelli realmente nuovi e senza precedenti. Una delle premesse metodologiche su cui si
fonda l’indagine qui descritta sta nell’assunto secondo il quale lavoratori e movimenti
operai situati in contesti territoriali differenti sono tra loro collegati dalla divisione del
lavoro su scala mondiale e da fenomeni politici globali. Dunque, occorre capire i
processi che mettono in relazione ai singoli casi su scala mondiale, sia nel tempo sia
nello spazio. Ci si riferisce, nello specifico, ai processi relazionali “diretti”, che,
assumendo la duplice forma di diffusione e solidarietà, comportano un’influenza
dell’azione di attori sociali distanti nello spazio e nel tempo ad opera della conoscenza
del comportamento degli altri e delle relative conseguenze, nel primo caso, mentre
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necessitano del contatto diretto e dello sviluppo di reti sociali, nel secondo; ed ai
processi relazionali “indiretti” nell’ambito dei quali gli attori coinvolti non sono del
tutto consapevoli dei loro legami, ma sono uniti senza saperlo da processi di tipo
sistemico. L’approccio strategico proposto si basa sulla ricerca delle variazioni,
analizzando come la stessa esperienza di proletarizzazione abbia portato ad esiti
differenti: questo è assimilabile a quello che Philip McMichael (1990) definisce
incorporating comparison (“paragone incorporante”), ovvero una strategia secondo cui
le interazioni tra una molteplicità di sottounità del sistema crea il sistema nel corso del
tempo. In definitiva, questo libro intende tracciare una storia della formazione della
classe operaia in cui gli eventi si sviluppano in una dinamica spazio-temporale.
Al fine di attuare tale strategia di ricerca, è necessario disporre di un quadro delle
forme generali della militanza operaia di notevole ampiezza storica e geografica:
occorrono informazioni inerenti a tutti i casi su scala mondiale, dagli inizi del
movimento operaio moderno, cioè dal tardo Ottocento, fino a oggi. Fino a pochi anni fa
non esistevano dati sulle mobilitazioni dei lavoratori che coprissero un ambito storico-
geografico così ampio: solo alcuni paesi industrializzati sono muniti di archivi storici
degli scioperi, ed inoltre i dati statistici su questi stessi fenomeni sono stati spesso
raccolti secondo criteri che escludono alcune tipologie di pratiche oppositorie ritenute
secondarie.
L’indagine qui condotta può, tuttavia, avvalersi di un nuovo database concepito
appositamente per superare i limiti geografici e tipologici delle fonti precedenti: è il
database World Labor Group (WLG). Questo nasce dal ricorso alle maggiori testate
giornalistiche come fonti di dati utili per costruire indici di protesta sociale. Il WLG,
nell’elaborazione del database, fa riferimento solo al “Times” di Londra ed al “New
York Times”. Dal punto di vista metodologico, i ricercatori del WLG hanno letto gli
indici di queste testate dal 1870 al 1996, registrando ciascun episodio di mobilitazione
operaia identificata su schede standard per la rilevazione dei dati. Sottoposto ad
approfonditi studi di attendibilità, il database WLG risulta essere uno strumento valido
ed efficace per identificare gli anni in cui sono stati raggiunti livelli particolarmente
elevati di mobilitazione operaia in paesi specifici. La mappa fornita da questo sistema
informatico è alla base dello studio della storia delle principali ondate di protesta dei
lavoratori nello scorso secolo.
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Capitolo 2. I movimenti dei lavoratori e la mobilità del capitale
Il seguente capitolo si propone di analizzare le mobilitazioni operaie nell’ambito
del settore fondamentale del capitalismo del ventesimo secolo, l’industria
automobilistica. Dapprima viene delineato il modello spaziale e temporale dei conflitti
operai di questo settore a livello mondiale, dal 1930 all’età contemporanea sulla base di
indici desunti dall’elaborazione dei dati raccolti nel database WLG. Successivamente, si
descrive il processo attraverso il quale si attua uno spostamento della militanza operaia
in parallelo a successive fasi di ricollocazione del capitale. La produzione di massa
dell’industria automobilistica determina contraddizioni sociali simili nei vari luoghi in
cui essa si diffonde ed afferma. In seguito al verificarsi di questo fenomeno, si assiste
all’attuazione di strategie specifiche da parte dei capitalisti mediante lo spostamento
della produzione in zone caratterizzate da un minor costo del lavoro e da una
manodopera più gestibile, provocando una duplice variazione strutturale: indebolimento
dell’organizzazione operaia nelle zone di disinvestimento, rafforzamento della stessa
nelle aree di nuova espansione.
A tal proposito, David Harvey sostiene che lo spostamento della produzione
costituisce una soluzione di tipo spaziale che, tuttavia, non risolve il problema in modo
permanente (Harvey, 1989). L’analisi si incentra sulle similitudini e sui legami tra le
varie ondate di agitazioni operaie sorte nei punti strategici dell’espansione dell’industria
automobilistica. Pur nella omogeneità e nella similarità dei processi verificatisi in
diversi contesti industriali, tuttavia occorre isolare il caso del Giappone per la
particolarità del suo sistema di produzione e per le conseguenze che da esso
scaturiscono, in relazione alla quasi totale assenza di lotte operaie. Nello specifico, in
Giappone, già prima del decollo dell’industria automobilistica, si assiste ad una forte
mobilitazione operaia per far fronte alla quale, le aziende decidono di apportare
significativi cambiamenti al modello fordista della produzione di massa. I produttori
giapponesi di automobili creano dunque un sistema stratificato di subappalti, ai fini di
garantire un alto livello occupazionale e di stringere un parrò di collaborazione con la
forza lavoro, ottenendo flessibilità e costi contenuti. La strategia appena descritta ha
consentito al Giappone di evitare le agitazioni operaie tipiche di altre parti del mondo e
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di adottare una serie di misure di mercato volte alla riduzione dei costi mediante la
cosiddetta “produzione snella” (lean production).
Ritornando al contesto globale, occorre precisare che le trasformazioni della
struttura produttiva susseguitesi nel corso degli anni non hanno avuto sempre e solo
effetti negativi sul potere contrattuale dei lavoratori: in alcuni casi i metodi di
produzione snella hanno aumentato la vulnerabilità del capitale rispetto alle interruzioni
del flusso produttivo, incrementando il potere contrattuale aziendale degli operai. In un
ambito più recente, le grandi aziende automobilistiche si sono impegnate per ottenere
una cooperazione attiva da parte dei lavoratori ed un abbattimento dei costi di
produzione. Tuttavia, tali strategie hanno creato una forte stratificazione della forza
lavoro lungo la linea di demarcazione geografica tra centro e periferia ed in relazione
alle differenze di genere.
Al fine di sintetizzare le fasi caratteristiche del processo di determinazione dei
modelli storico-mondiali di militanza operaia nell’industria automobilistica, risulta
opportuno schematizzare i momenti salienti di questo fenomeno in relazione a tre
contesti geografici specifici rappresentativi: Stati Uniti, Europa occidentale, Brasile.
In particolare, si verifica uno spostamento geografico-temporale dell’epicentro
della militanza degli operai del settore automobilistico, dal Nord America negli anni
trenta e quaranta, verso l’Europa occidentale e poi meridionale negli anni sessanta e
settanta, per arrivare ai paesi di nuova industrializzazione negli anni ottanta e novanta.
Queste ondate di contestazioni, pur essendosi attuate in contesti culturali, politici e
storici estremamente diversi, presentano caratteristiche simili in relazione a determinati
parametri: tutte hanno adottato forme non convenzionali di protesta, come le
occupazioni, che paralizzavano la produzione di interi poli industriali; gli operai erano
prevalentemente immigrati di prima o seconda generazione e potevano contare sul
sostegno da parte delle comunità di appartenenza. Punti di contatto possono essere
ravvisati anche nelle modalità di contenimento delle maggiori ondate di contestazione,
nella misura in cui le vittorie operaie inducono ad attuare strategie manageriali dirette a
indebolire strutturalmente il movimento dei lavoratori. I numerosi tentativi finalizzati
all’individuazione di una soluzione spaziale al problema del controllo della forza lavoro
suggeriscono una specifica lettura analitica di queste ondate di mobilitazione: esse sono
poste in relazione tra loro dai successivi spostamenti della produzione verso le aree di
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minor agitazione. Dunque, militanza operaia e mobilità del capitale possono essere
considerati come parti integranti di un unico processo storico: il potere contrattuale dei
lavoratori subisce un contenimento nei luoghi dai quali il capitale viene spostato, mentre
si istituisce, fortificandosi, una nuova classe operaia nei luoghi di recente espansione
industriale.
Il percorso appena delineato si ripete con una certa similarità strutturale ed
omogeneità di tratti caratteristici in un contesto globale più ampio a partire dagli anni
trenta e quaranta negli Stati Uniti.
Il 30 dicembre 1936 gli operai occuparono gli stabilimenti Fisher Body n.1 e n.2 della
General Motors a Flint, nel Michigan. Il 12 marzo dell’anno seguente l’industria
statunitense fu costretta a cedere firmando un contratto con la United Workers Auto.
Questo evento segna l’inizio del processo di affermazione dei modelli storico-mondiali
di militanza operaia nel settore produttivo automobilistico L’elemento chiave che spiega
il successo della UAW è collocabile nel potere contrattuale legato al luogo di lavoro,
con la relativa capacità dei lavoratori di sfruttare la loro posizione nell’ambito del
complesso modello di divisione del lavoro tipico della produzione di massa: attraverso
pratiche di occupazione e di interruzione dell’attività lavorativa in specifici settori,
infatti, è possibile paralizzare un’intera azienda. La strategia oppositoria di
contenimento attuata dall’industria automobilistica nei riguardi delle mobilitazioni
operaie si concretizza nello spostamento della produzione lontano dalle roccaforti del
sindacato. A partire da questo episodio peculiare, si registrano altri simili avvenimenti
che si sviluppano secondo le stesse modalità esposte, e che quindi, a buon diritto,
possono essere ritenute costanti effettive del processo di formazione di movimenti
operai in seguito all’affermarsi delle caratteristiche proprie della mobilità del capitale.
Stesso discorso per l’Europa occidentale. Durante il periodo compreso tra le due guerre
mondiali, l’Europa occidentale, arretrata rispetto agli Stati Uniti nell’applicazione del
modello fordista di produzione di massa nel settore automobilistico, presenta un sistema
produttivo estremamente differente: l’industria europea era infatti caratterizzata dalla
presenza di una molteplicità di piccole imprese impegnate nella produzione di auto “su
ordinazione” (custom-manifacture), prive di quella forza coercitiva necessaria al
raggiungimento di livelli di sviluppo simili rispetto alla ben più evoluta situazione
statunitense.
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Data la limitata espansione del modello di produzione di massa, il potere
contrattuale legato al luogo di lavoro degli operai europei era relativamente basso,
mentre negli anni successivi alla prima guerra mondiale prevaleva il potere associativo.
In questo periodo, infatti, si registra un aumento esponenziale dei movimenti operai e
dei partiti di sinistra con il relativo guadagno di notevoli vittorie dal punto di vista
elettorale e dei diritti dei lavoratori. A partire dagli anni cinquanta e sessanta, tuttavia, si
assiste ad un processo di progressiva convergenza dei livelli del potere contrattuale
legato al luogo di lavoro sulle due sponde dell’oceano Atlantico, in seguito allo
spostamento del fulcro della crescita dell’industria automobilistica in Europa
occidentale, come conseguenza delle forti mobilitazioni dei lavoratori statunitensi negli
anni trenta e quaranta. Secondo Altshuler (1984), infatti, si può collocare la prima fase
di espansione dell’industria automobilistica tra il 1910 ed il 1950 negli Stati Uniti,
mentre la seconda si pone nell’Europa occidentale tra gli anni cinquanta e i sessanta
(Altshuler, 1984).
La rapida diffusione del modello di produzione di massa determina il presentarsi di
effetti contraddittori sulla forza lavoro europea, non molto diversi da quelli sperimentati
in precedenza dai lavoratori statunitensi: si riduce il potere contrattuale dei lavoratori
specializzati dotati di abilità artigianali in seguito all’affermarsi delle nuove modalità di
produzione, da un lato; si costituisce una nuova classe operaia semispecializzata,
composta da immigrati di recente proletarizzazione, a causa della trasformazione e
dell’espansione del settore, dall’altro. Anche nel contesto europeo è possibile registrare
un repentino mutamento della situazione: i lavoratori della nuova produzione di massa,
a causa delle durissime condizioni di lavoro, come i loro omologhi negli anni trenta,
sfruttando il potere contrattuale derivante dalla loro posizione all’interno del complesso
sistema di divisione del lavoro, mettono in atto una serie di scioperi in punti e tempi
strategici al fine di arrecare notevoli danni alle aziende automobilistiche. Pur nella
differenziazione tra area settentrionale e meridionale dell’Europa occidentale, dovuta
all’andamento ben più esplosivo delle agitazioni degli operai nel Sud rispetto a quelle
verificatesi al Nord, tuttavia i clamorosi successi dei movimenti operai provocano da
parte dei costruttori di automobili una reazione analoga a quella attuata negli anni trenta
e quaranta dalle aziende statunitensi: ci si affida dunque a misure risolutive già
precedentemente sperimentate, come l’innovazione dei processi, la promozione di un
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sindacalismo responsabile e la ormai nota delocalizzazione della produzione.
Quest’ultima strategia, adottata principalmente dalla Volkswagen con il trasferimento
dei suoi investimenti in Messico ed in Brasile, sposta l’analisi in questione nel contesto
geografico del Brasile, quale ulteriore ambito analitico dello studio sulla determinazione
dei modelli storico-mondiali di militanza operaia nell’industria automobilistica.
In particolare, gli anni del “miracolo economico” brasiliano, tra il 1968 e il 1974,
corrispondono al periodo in cui il capitalismo del Primo Mondo era alla ricerca di un
nuovo territorio nel investire. L’industria automobilistica brasiliana viene investita da
un aumento esponenziale della produzione a partire dagli anni settanta: la rapida
espansione del settore produttivo determina il costruirsi di una nuova classe operaia, in
termini di esperienza e di numero. I lavoratori si trovano dunque in una posizione
strategica all’interno del complesso sistema di divisione del lavoro, proprio come i
colleghi statunitensi ed europei, e, rispetto a questi, sono strategicamente posizionati
anche nel settore chiave delle attrezzature per i trasporti.
Gli scioperi e la mobilitazione operaia assumono in questo contesto un valore
potenziale ben più determinante rispetto alle situazioni precedentemente analizzate,
potendo avere effetti non solo sui profitti del settore in questione, ma anche sulla
capacità del governo brasiliano di provvedere al pagamento del suo consistente debito
estero. Alla fine degli anni settanta, scuotendo i lavoratori da quasi quindici anni di
torpore, si affaccia sulla scena brasiliana un nuovo movimento sindacale. A partire dal
1978, si assiste ad una forte ondata di scioperi, in seguito al rifiuto da parte degli operai
dello stabilimento Saab-Scania di São Bernardo di mettere in funzione i macchinari: tale
fenomeno dà ufficialmente avvio ad una serie di episodi simili nelle fabbriche della
Mercedes, della Ford, della Volkswagen e della Chrysler, fino ad interessare tutte le
principali industrie automobilistiche brasiliane. Risulta più che evidente il parallelo, in
termini di caratteristiche e modalità attuative, con le forme di protesta attuate negli Stati
Uniti degli anni trenta e nell’Europa occidentale degli anni sessanta. Anche in questo
caso i lavoratori riescono ad ottenere un incremento sostanziale dei salari ed il
riconoscimento di nuovi sindacati indipendenti.
Nonostante i numerosi tentativi di contenimento delle rivolte e di eliminazione dei
sindacati nelle fabbriche da parte delle multinazionali del settore automobilistico,
queste, costrette all’accettazione degli effetti delle mobilitazioni a partire dal 1982,
16
vedono tuttavia affermarsi una nuova classe di operai consapevole dei propri diritti
lavorativi. Appare infine rilevante il fatto che il movimento operaio, nonostante le
innumerevoli strategie oppositorie operate al riguardo, non sia riuscito ad ottenere le
dovute garanzie relative alla sicurezza del posto di lavoro. Ad attirare l’attenzione degli
investimenti delle multinazionali è, oltre il Brasile, anche il Sudafrica: qui si forma un
vasto proletariato urbano nero, concentrato nelle mansioni semiqualificate delle
industrie di produzione di massa. Il processo storico che si attua in questo ulteriore
contesto geografico appare estremamente simile a quello sviluppatosi nei continenti
precedentemente sottoposti ad analisi: costituitosi un movimento attivo di lavoratori, si
assiste ad un’ondata di militanza operaia tra il 1970 e i primi anni ottanta, a partire da
una serie di scioperi del 1973 concentrati nelle fabbriche di Durban, con la relativa
acquisizione di legittimità da parte dei sindacati neri nel 1979. Il fallimento delle
politiche repressive volte a mantenere il controllo sui lavoratori induce il capitale
internazionale ad abbandonare l’industria automobilistica sudafricana, e a dirigersi,
ancora una volta, verso un territorio caratterizzato da un basso grado di mobilitazioni
operaie.
Lo scenario d’applicazione del modello fordista di produzione di massa si sposta
nel contesto della Corea del Sud, il cui governo si rivolge proprio al settore
automobilistico al fine di attuare politiche di sviluppo del paese. Il caso coreano si pone
in leggero contrasto rispetto a quello statunitense, a quello europeo, a quello brasiliano
ed a quello africano, per il fatto che, inizialmente, il regime autoritario vigente bandisce
sindacati autonomi e scioperi, contribuendo a mantenere bassi i salari e tiranniche le
condizioni di lavoro, con il conseguente aumento esponenziale dei tassi produttivi.
Tuttavia, a partire dal 1987, un’ondata di mobilitazioni inizia a travolgere il paese,
consentendo ai rivoltosi di ottenere rapide vittorie significative. Ai tentativi di
repressione, si risponde con ulteriori forme di protesta che conducono ad un
peggioramento di altri problemi strutturali (Rodgers, 1996). Un pieno riconoscimento
della legittimazione dei movimenti e dei sindacati sudcoreani si ha nel 1997.
In sintesi, si può affermare che le multinazionali del settore automobilistico
abbiano inseguito l’improbabile obiettivo di un lavoro “docile” e a basso costo in ogni
angolo del mondo, per poi rendersi conto della sconcertante similarità delle dinamiche
di militanza dei movimenti operai: la strategia della delocalizzazione non ha fatto altro
17
che trasferire le contraddizioni da un luogo di produzione all’altro, non risolvendo
affatto i problemi di redditività e di controllo della forza lavoro. In quest’ottica, le
tendenze più recenti osservabili nel contesto storico contemporaneo possono essere
interpretate come inizio di un nuovo ciclo di delocalizzazione e di militanza: la Cina ed
il Messico, nelle parole dell’autrice, costituiscono i nuovi siti adatti ad una rapida
espansione e caratterizzati da bassi salari, dove, presumibilmente, potrebbe emergere un
movimento operaio forte ed indipendente nell’industria automobilistica, appunto, cinese
e messicana.
A questo punto, risulta necessario esplorare un altra caratteristica strutturale
propria del settore industriale automobilistico legata alla strategie attuate dalle
multinazionali in concomitanza con il progressivo affermarsi dei movimenti di militanza
operaia. Accertata la sostanziale inconsistenza dell’applicazione della soluzione
decolonizzante ai problemi di redditività e controllo della forza lavoro, si manifesta la
minaccia competitiva rappresentata negli anni ottanta dal grande successo dei marchi
giapponesi, che spinge i costruttori statunitensi e quelli dell’Europa occidentale ad
implementare un piano di innovazione tecnologica come possibile soluzione dei loro
problemi, emulando selettivamente i processi produttivi caratterizzanti il settore
automobilistico giapponese. In seguito all’affermarsi di questa strategia, si assiste ad
una progressiva diffusione e ad una sempre più convinta adozione di regole di lavoro
flessibile e forme di consegna just in time, nonché del lavoro di team e dei cicli di
qualità, con il conseguente abbandono dell’integrazione verticale a favore
dell’outsourcing, uso estensivo di risorse subappaltate ad aziende esterne.
La sostanziale differenza che intercorre tra il modello originale giapponese e quello
adottato dalle multinazionali nordamericane ed europee è ravvisabile nella mancanza,
da parte di queste ultime, dell’offerta alla forza lavoro, impegnata nei settori strategici
della produzione, della garanzia di un lavoro sicuro: l’imitazione, dunque, è circoscritta
alle misure tipiche della produzione snella giapponese, non estendendosi alle politiche
del lavoro ad esse correlate. Il modello che ne scaturisce può essere definito come lean
and mean (“snello e miserabile”) (Harrison, 1997), mentre quello “toyotista” originario,
offrendo sicurezza in cambio di cooperazione, si configura come lean and dual (“snello
e duale”). La differenza tra i due modelli è cruciale per comprendere le dinamiche delle
agitazioni operaie contemporanee nel settore dell’industria automobilistica. Infatti, in
18
molti dei vari siti di espansione della stessa, le politiche di impiego mantengono le
medesime caratteristiche del passato, determinando il perdurare del modello lean and
mean e delle dinamiche di costituzione di nuovi movimenti operai ad esso collegato. Pur
nella sua generale validità, tuttavia, il modello della produzione snella, nelle forme in
cui esso è stato prevalentemente sfruttato, presenta dei limiti attuativi legati
all’incapacità di adottare contestuali politiche d’impiego atte a favorire la cooperazione
attiva tra lavoratori.
In definitiva, tali strategie non si sono limitate alla ricollocazione del capitale
industriale o alla riorganizzazione delle linee di produzione esistenti: il capitale, nella
costante ricerca di maggiori rendimenti e di un più saldo controllo, si è esteso in nuovi
settori ed in nuove tipologie di prodotti. Gli spostamenti geografici della conflittualità
non sono più circoscritti in uno specifico settore industriale, ma si configurano come
intersettoriali di lungo periodo nella localizzazione del conflitto tra capitale e lavoro.
Dunque, il conflitto operaio si lega inscindibilmente alla soluzione basata sulla
riorganizzazione del prodotto (product fix) quale ulteriore variabile da considerare
nell’analisi del fenomeno in questione.
19
Capitolo 3. Movimenti operai e cicli del prodotto
Il terzo capitolo si propone di ampliare la dimensione temporale dell’analisi dei
modelli di mobilitazione operaia attraverso il confronto dell’industria automobilistica
con quella tessile, ed il tentativo di identificazione dei settori predominanti del secolo
attuale in relazione al possibile attuarsi di processi simili a quelli precedentemente
descritti. È possibile sinterizzare schematicamente gli obiettivi che intende raggiungere
la trattazione qui sviluppata, in termini di dimostrazione della validità di tue tesi
principali: gli ambiti principali di formazione della classe operaia e delle agitazioni si
spostano all’interno di ogni settore parallelamente agli spostamenti geografici della
produzione; tali ambiti sono soggetti a spostamenti anche da settore a settore,
parallelamente all’ascesa ed al declino dei settori trainanti dello sviluppo capitalistico.
Propedeutico alla comprensione di questa dinamica intersettoriale è il concetto di
“innovazione di prodotto”: il capitale può rispondere alla contrazione dei profitti in un
determinato settore con la delocalizzazione (soluzione spaziale) oppure con
l’innovazione dei processi di produzione (soluzione tecnologica), ma anche tentando di
trasferire gli investimenti verso nuovi settori meno soggetti ad una forte competizione e
nuove linee di prodotti innovativi e più redditizi.
Il ciclo del prodotto dell’automobile.
Viene proposta una riformulazione critica della teoria del ciclo del prodotto , al
fine di collegare tra loro le dinamiche intra- ed inter-settoriali e fornire una base per la
comparazione analitica dei cicli intra-settoriali. Il capitalismo storico si è caratterizzato
per una serie di cicli produttivi parzialmente sovrapposti, nell’ambito dei quali gli stadi
maturi di un ciclo coincidono con l’inizio del ciclo successivo.
La storia dell’industria automobilistica mondiale viene quindi riconcettualizzata in
termini di “ciclo del prodotto”, parallelamente ad una comparazione con l’industria
tessile. Il modello originale del ciclo di vita del prodotto proposto da Raymond Vernon
(1966) si caratterizza per una specifica articolazione: in prodotti di recente innovazione
nascono tendenzialmente nei paesi più ricchi, ma, nel corso del loro ciclo di vita, gli
impianti di produzione vengono poi dislocati in paesi dove i costi sono più bassi. Tale
fenomeno si spiega in relazione al fatto che, durante le prime fasi del ciclo, la
20
concorrenza è bassa e quindi i costi sono poco determinanti; successivamente, quando il
prodotto raggiunge lo stadio della maturità con la relativa “standardizzazione”, i
concorrenti aumentano, insieme alle pressioni per ridurre i costi. Il percorso descritto in
precedenza, a proposito dell’industria automobilistica, corrisponde all’andamento della
dinamica appena illustrata, nella misura in cui la produzione si disloca progressivamente
nei paesi caratterizzati da bassi salari. Tuttavia, le teorie del ciclo del prodotto,
concentrandosi esclusivamente sulle variabili economiche (concorrenza e costi) come
cause ed effetti del ciclo, non considera la variabile sociale costituita dalla formazione
della classe operaia e dalle contestazioni correlate. Una grande ondata di agitazioni
operaie è uno dei fattori che concorrono alla spinta verso un nuovo stadio di dispersione
della produzione, ed ogni nuovo stadio rappresenta anche un nuovo momento di
formazione della classe operaia. Nello specifico, lo stadio innovativo del ciclo di vita
dell’automobile, raggiunto il proprio limite negli Stati Uniti con le lotte sindacali
condotte dal CIO, cede il posto al secondo stadio, quello della maturità, che, a sua volta,
arriva ad un punto di non ritorno con le agitazioni degli operai europei nei tardi anni
sessanta e nel decennio successivo; il terzo stadio, quello della standardizzazione, ha
cominciato a raggiungere la sua fase-limite finale con l’esplosione della militanza
operaia nei paesi di recente industrializzazione tra gli anni ottanta e novanta.
Gli studi sul ciclo di vita del prodotto sottolineano il fatto che ogni stadio avviene
in contesti sempre più concorrenziali, in seguito alla diffusione geografica della
produzione, ed il processo diventa sempre più standardizzato: il passaggio da uno stadio
all’altro del ciclo produttivo determina un declino della redditività, in relazione alla
diminuzione della sopravvenienza attiva monopolistica ed all’abbassamento dei livelli
salariali. In quest’ottica, i datori di lavoro che si trovavano allo stadio iniziale del ciclo
erano in grado di finanziare un accordo tra capitale e lavoro più stabile e meglio
remunerato, poiché beneficiari degli extraprofitti monopolistici, resistendo per oltre
quarant’anni anche dopo la conflittualità degli anni trenta. Ciò diviene sempre meno
economicamente sostenibile in prossimità dell’avvicinarsi alle fasi finali del ciclo del
prodotto, a causa dei bassi profitti derivanti dalle pressioni della concorrenza. Tale
fenomeno è stato definito come “contraddizione del successo semiperiferico” (Silver,
1990). La mancanza di accordi stabili tra capitale e lavoro stabilizza il tasso di militanza
operaia su livelli sostanzialmente alti, creando un’ulteriore motivazione a favore della
21
delocalizzazione. In linea con quanto dimostrato, appare evidente l’accelerazione
attuatasi nel passaggio da uno stadio del ciclo di vita del prodotto automobile al
successivo.
Il complesso ciclo del prodotto tessile in una prospettiva comparata.
Dal confronto tra le dinamiche di militanza operaia e ricollocazione del prodotto
automobilistico con quelle del precedente ciclo del prodotto tessile emerge una certa
somiglianza in relazione allo schema seguito: là dove il capitale del settore tessile si è
spostato sono emersi conflitti, e ogniqualvolta è emerso un conflitto i capitalisti hanno
risposto con una riorganizzazione spaziale e tecnologica. Un’unica differenza è
ravvisabile nell’esito negativo che hanno avuto quasi tutti i tentativi di mobilitazione
operaia, nonostante le potenzialità oppositorie legate ad una forte militanza. Le due
uniche eccezioni sono rappresentate dal caso del Regno Unito, dove, grazie agli
extraprofitti ottenuti dagli innovatori, fu possibile siglare accordi relativamente stabili e
di lungo termine tra capitale e lavoro, e da quello degli operai tessili che facevano parte
dell’ondata di movimenti di liberazione nazionale dei paesi coloniali, e che riuscirono
ad avvalersi di tale lotta. È opportuno specificare che il diverso esito delle lotte dei
lavoratori del settore automobilistico e del settore tessile trova una valida spiegazione
nella diversa organizzazione della produzione, con la conseguente variazione del livello
di intensità del potere contrattuale dei lavoratori. Al fine di condurre un’analisi
comparativa dei cicli dei due diversi fenomeni di militanza considerati, sarà opportuno
delineare le somiglianze e le differenze tre le mobilitazioni operaie nei due settori,
confrontando fase per fase i rispettivi cicli del prodotto. In entrambi i casi, le prime
grandi ondate vittoriose di mobilitazione avvengono nello stesso paese in cui il ciclo ha
inizio (Regno Unito per il tessile, Stati Uniti per il settore automobilistico); come gli
operai del settore automobilistico costituivano l’avanguardia del movimento operaio
statunitense della metà del Novecento, così i sindacati dei lavoratori tessili erano i più
forti nel Regno Unito della fine dell’Ottocento. Tali prime grandi vittorie sono sempre
avvenute nel luogo d’origine del ciclo, e nel momento in cui lo stadio d’innovazione
volgeva al termine. Al contrario, la fase successiva di diffusione geografica della
produzione, in seguito all’adozione della soluzione spaziale da parte degli imprenditori,
presenta notevoli differenze tra i due settori.
22
Infatti, nello stadio maturo dell’industria tessile si registra una dispersione della
produzione maggiore rispetto allo stesso stadio del ciclo del prodotto automobilistico, e
tale differenza permane anche negli stadi successivi. Questa difformità trova
spiegazione in alcuni fattori strutturali specifici: nel settore tessile, le barriere doganali
piuttosto basse consentivano anche a piccole imprese di poter essere competitive,
essendo le economie di scala di questo tipo di produzione poco significative ed i
macchinari facilmente importabili; anche se la produzione tessile meccanizzata
costitutiva un elemento di novità della rivoluzione industriale, tuttavia il settore tessile
esisteva fin dall’epoca premoderna. In seguito alle prime mobilitazioni operaie, le
aziende statunitensi iniziano ad attuare una strategia combinata di riorganizzazioni
saziali e tecnologiche, allo scopo di risolvere i problemi di controllo della forza lavoro:
a partire dal 1870 i filatoi intermittenti (mule-spinning machine) vengono sostituiti dai
filatoi ad anelli (ring-spinning machine) il cui controllo poteva essere gestito anche da
donne e ragazzi.
L’applicazione di questo nuovo tipo di macchina filatrice dà avvio ad un periodo di
sviluppo massiccio dell’industria tessile nel Sud degli Stati Uniti, in India, in Giappone
ed in Cina. Negli anni venti, la globalizzazione della produzione, similmente a quanto
verificatosi per l’industria automobilistica, è causa dell’applicazione di forti pressioni
concorrenziali a livello mondiale che, costringendo le aziende a fronteggiare tali
condizioni mediante pratiche di razionalizzazione della produzione e taglio dei costi,
scatena anche un’ondata di agitazioni operaie in tutto il mondo. Nello specifico, la già
affrontata questione della maggiore estensione superficiale del fenomeno militante
dell’industria tessile rispetto a quella automobilistica, non va interpretata in termini di
un maggior potere contrattuale dei lavoratori: a sostegno della veridicità di questa
considerazione è utile riflettere sull’esito quasi sempre fallimentare delle proteste degli
operai delle aziende tessili. Gli unici successi registrati sono circoscritti ai paesi
nell’ambito dei quali gli operai potevano contare sull’appoggio dei nascenti movimenti
nazionalisti: è questo il caso di Bombey e del contesto cinese. In definitiva, pur
nell’evidente somiglianza dei processi economici e politici attuatisi nel tempo, i modelli
storico-mondiali di militanza operaia dell’industria automobilistica e di quella tessile,
nel loro costituirsi in una dimensione diacronica in termini di ciclo del prodotto,
presentano due differenze sostanziali: la diffusione geografica dei picchi delle ondate di
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agitazioni è maggiore nel settore tessile che in quello automobilistico; il successo delle
lotte operaie, in relazione alla capacità complessiva di ottenere vantaggi dal capitale, è
maggiore nel settore automobilistico che in quello tessile. Gli operai di quest’ultimo
settore, infatti, non potendo interrompere il flusso produttivo, essendo l’industria tessile
disintegrata verticalmente ed il processo di lavoro suddiviso in fasi distinte, a differenza
della produzione di massa di tipo fordista caratterizzata da integrazione verticale e
produzione a flusso continuo, non ottengono particolari benefici dalle mobilitazioni
messe in atto, anche a causa delle ridotte dimensioni delle singole aziende, con la
relativa limitazione della quota di capitale fisso immobilizzato da uno sciopero.
È da considerare inoltre la progressiva diminuzione del livello di specializzazione
degli addetti alla produzione, come conseguenza dell’implementazione di macchinari
dal più semplice utilizzo. Questa debolezza strutturale del potere contrattuale degli
operai trova una parziale compensazione nel potere associativo: i lavoratori britannici
della fine del XIX ottengono alcuni risultati positivi grazie alle solide basi del sindacato.
L’analisi comparativa finora condotta è incentrata sui singoli stadi delle dinamiche di
conflittualità interne a ciascun settore. È necessario precisare che l’ascesa ed il declino
dei conflitti tra capitale e lavoro nei cicli del prodotto tessile ed automobilistico si
configurano come traiettorie collegate da una dinamica intersettoriale: essi si
sovrappongono e si influenzano, determinando uno spostamento del capitale
dall’industria tessile a quella automobilistica, in concomitanza con l’avanzamento della
prima nella fase di maturità.
In conclusione, è possibile affermare che la dinamica generale dei conflitti operai
mondiali è strettamente legata alle fasi dei cicli del prodotto ed alle variazioni correlate
del potere contrattuale dei lavoratori. In questi termini, il tentativo di comprendere le di
dinamiche future dei movimenti operai necessita di un’indagine circa il più probabile
successore del complesso industriale automobilistico come settore trainante del
capitalismo mondiale.
Cicli, innovazioni e mobilitazione operaia nel settore dei trasporti.
L’industria tessile e quella automobilistica si caratterizzano per una sostanziale
dipendenza dalle attività e dai sistemi di trasporto in varie fasi del processo produttivo,
dall’acquisizione di materie prime fino all’arrivo dei prodotti finali sul mercato: è quindi
24
assodata la centralità del settore dei trasporti per il capitalismo storico. I lavoratori che
operano nell’ambito di quest’ultimo contesto sono dotati di un potere contrattuale
connesso al luogo di lavoro relativamente forte: il loro "luogo di lavoro" è l’intera rete
di distribuzione. Lo sviluppo di nuove reti di trasporti ha sempre prodotto un grande
effetto sulle fonti di ricchezza dei capitalisti allocate in vari luoghi (Harvey, 1999) e, di
conseguenza, anche il malfunzionamento delle reti esistenti, compreso quello provocato
dalle lotte operaie. In questo caso specifico, risulta alquanto complesso pianificare
riorganizzazioni spaziali come strategie di risposta al potere contrattuale dei lavoratori.
Per questo motivo, una strategia cui i datori di lavoro hanno fatto ampiamente ricorso è
stata l’innovazione tecnologica: la “containerizzazione” e la meccanizzazione dei docks
nel trasporto marittimo si configurano come innovazioni responsabili della riduzione
della manodopera. Dove invece non si sono attuate trasformazioni nei processi
lavorativi, le pratiche di contenimento delle mobilitazioni dei lavoratori si sono
concretizzate nell’innovazione di prodotto, in termini di pressioni concorrenziali legate
alle diverse possibilità e modalità di trasporto delle merci. Infine, anche la
regolamentazione statale ha giocato un ruolo diretto nella dinamica delle agitazioni nei
trasporti.
Questione cardine che si pone come imprescindibile per la comprensione e l’analisi
degli esiti dei movimenti operai dell’inizio del XXI secolo, e che si afferma anche
nell’ambito settoriale dei trasporti, è la determinazione della previsione delle modalità
d’azione dei lavoratori provvisti di un forte potere contrattuale, in relazione ad un
eventuale utilizzo a vantaggio della categoria d’appartenenza o di tutte le classi
tipologiche di lavoratori.
A tal proposito, è necessario identificare il potenziale successore del complesso
industriale automobilistico come settore trainante del capitalismo globale, al fine di
indagarne le configurazioni interne del potere contrattuale dei lavoratori in esso
orbitanti. Risulta improbabile alquanto individuare un unico prodotto che svolga un
ruolo storicamente equivalente a quello ricoperto dal settore tessile nell’Ottocento e da
quello automobilistico nel Novecento: una delle peculiarità più evidenti del capitalismo
contemporaneo è proprio la sua eclettica flessibilità, che si manifesta nella grande
quantità di beni di consumo e nella rapida ascesa di nuovi prodotti. Come conseguenza
di quanto affermato, si palesa la necessità di identificare una serie di industrie che
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meritano uno sguardo analitico attento in quanto potenziali siti critici per la formazione
di una classe operaia mondiale e di nuovi conflitti operai.
L’industria dei semiconduttori.
La varietà di beni che caratterizza la società consumistica postmoderna è stata resa
possibile in gran parte grazie al semiconduttore: secondo Peter Dicken (1998), la
microelettrica ha rimpiazzato l’automobile nel ruolo di “industria delle industrie”.
L’impatto del settore microelettronico è indiretto, nella misura in cui si considera
l’inclusione dei semiconduttori in una enorme quantità di prodotti e processi produttivi,
ed allo stesso tempo non esercita una spinta pressoria diretta sulla formazione di una
nuova classe operaia paragonabile a quella del tessile e dell’industria automobilistica.
Nonostante la crescita esponenziale del volume della produzione a partire dagli anni
settanta, il numero di nuovi posti di lavoro si è mantenuto sostanzialmente basso a causa
dell’automatizzazione della produzione dei circuiti integrati. Inoltre, mentre la fase
innovativa e tecnologicamente sofisticata di progettazione avviene nei paesi avanzati,
dal momento che tale processo richiede personale altamente qualificato a livello tecnico,
la parte manuale del ciclo produttivo di assemblaggio della scheda, invece, viene
delocalizzata nei paesi a basso costo del lavoro. Ciò ha contribuito alla crescita del
proletariato industriale giovanile e femminile nei paesi più poveri, fenomeno che viene
definito “catena di montaggio globale”.
Servizi all’impresa.
Altro settore individuato come possibile successore dell’industria automobilistica è
quello dei servizi all’impresa: questi nuovi tipi di prodotti variano dalle
telecomunicazioni ai servizi specializzati di tipo legale, finanziario, pubblicitario, di
consulenza e di contabilità. Si tratta di servizi all’impresa che danno sostegno a grandi
organizzazioni che detengono la gestione di vaste reti globali di fabbriche, uffici e
mercati finanziari. A partire dagli anni settanta, si registra un aumento notevole del
livello occupazionale nei sevizi all’impresa, per la cui attuazione è necessario anche il
lavoro di sostegno fornito dai cosiddetti “colletti blu” e “colletti rosa”. È necessario
considerare che alcune mansioni facenti parte della categoria dei servizi alle imprese
non devono necessariamente avvenire nelle sedi centrali: mentre ad esempio il lavoro di
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pulizia di un palazzo aziendale è legato al luogo, la pratica routinaria di immissione dei
dati e stesura dei documenti, invece, può essere svolta in paesi caratterizzati da
retribuzioni più basse.
Nonostante la frammentarietà delle classi lavorative coinvolte in questi processi,
tuttavia, queste verso la fine degli anni novanta riportano vittorie significative. Ciò trova
spiegazione nelle opportunità offerte dal potere di contrattazione associativo. Il
segmento più mobile del processo di fornitura di servizi alle imprese, quello
dell’immissione dei dati, ha determinato una tendenza all’investimento delle società
statunitensi ed europee volto allo sfruttamento di lavoratori indiani scolarizzati e con
un’ottima padronanza della lingua inglese. Si tratta quindi di un’altra importante area
nella quale sta emergendo una nuova classe operaia con le relative potenzialità
conflittuali: anche in questo caso assume rilevanza il potere di contrattazione
associativo, purché non resti circoscritto a livello di comunità, ma si estenda ad un
livello globale. Tale considerazione riporta alla già ribadita necessità di un
internazionalismo operaio. Data la centralità della scolarizzazione di massa nel processo
di espansione di questa manodopera legata alle telecomunicazioni, si potrebbe
ipotizzare che il settore dell’informazione abbia assunto un ruolo centrale, tra la fine del
XX e l’inizio del XXI secolo, per l’industria che produce beni capitali.
L’industria della formazione.
Numerosi studiosi hanno evidenziato l’importanza assunta dal fattore
“informazione” e dall’economia basata sulla conoscenza nel contesto societario
contemporaneo, al fine di cogliere la natura delle trasformazioni postfordiste. In linea
con questa ideologia, Manuel Castells (1997) ha fornito una concettualizzazione di
quella che definisce “economia dell’informazione” e, analogamente, David Harvey
(1989) ha considerato il capitalismo sempre più dipendente dalla mobilitazione delle
potenzialità del lavoro intellettuale. Gli insegnanti pur dovendo “vendere” la loro
capacità lavorativa per poter guadagnare, tuttavia non vengono considerati alla stregua
degli operai dagli studiosi di scienze sociali, probabilmente perché la loro attività
presume un certo grado di specializzazione, perché si ritiene che godano di una certa
autonomia potendo esercitare un certo controllo sulla classe e sui programmi; inoltre, i
sistemi educativi non sono strettamente assoggettati alla regola del profitto. Date queste
27
peculiarità, occorre valutare se esse pongano i lavoratori del settore formativo
pienamente al riparo dalle conseguenze negative della mercificazione del loro lavoro.
Parallelamente all’incremento occupazionale attivatosi nella metà del Novecento,
nell’ambito del settore della formazione, si assiste ad un aumento delle agitazioni con
un ampia diffusione geografica di queste ultime su scala planetaria. Nel caso specifico
degli insegnanti, occorre precisare che il loro potere contrattuale legato al luogo di
lavoro è alquanto debole, essendo inseriti in un sistema complesso di divisione tecnica
del lavoro. Tuttavia, essi sono situati strategicamente nella divisione sociale del lavoro,
nella misura in cui un eventuale sciopero degli insegnanti comporterebbe una frattura
del sistema strutturale della società, considerando anche la questione dell’impatto a
lungo termine sul prodotto finale (formazione scolastica degli alunni). Allo stesso
tempo, la categoria dei docenti si caratterizza per un più forte potere di contrattazione
nel mercato rispetto ai lavoratori dei settori industriali precedentemente esplorati: il
mondo della scuola, infatti, resta sostanzialmente immune dalle innovazioni
tecnologiche e gli insegnanti sono stati risparmiati dall’implementazione di tecnologie
atte a ridurre l’impiego di manodopera.
A ciò si deve aggiungere anche un ulteriore caratteristica propria del settore della
formazione che si configura in termini di resistenza alle riorganizzazioni spaziali.
Dunque alla base del potere contrattuale degli insegnanti è possibile collocare
l’impermeabilità del settore alle delocalizzazioni ed alle innovazioni tecnologiche. In
relazione a quanto esposto, le attuali spinte alla riforma del sistema educativo possono
essere interpretate come un tentativo di individuare strategie ulteriori volte a sottoporre
gli insegnanti alle pressioni competitive. Sebbene l’insegnamento non sia stato
stravolto, strutturalmente e nelle sue fondamenta, dalle trasformazioni tecnologiche in
modo rilevante ed irreversibile, è difficile nonché prematuro anticipare in che misura
Internet ed altre tecnologie avanzate di comunicazione possano essere utilizzate per
aumentare la pressione competitiva sugli insegnanti, analogamente a quanto si è
precedentemente verificato per i settori manifatturieri.
I servizi alla persona.
Ultimo settore da considerare, caratterizzato da un rapido sviluppo in termini
occupazionali, è quello dei cosiddetti servizi alla persona, ambito definibile in generale
28
come “servizi riproduttivi”, trattandosi del processo di mercificazione di attività
precedentemente svolte all’interno della sfera domestica. Gli addetti di questo settore
accettano condizioni di lavoro precarie e sono dotati di uno scarso potere contrattuale,
essendo tale contesto lavorativo geograficamente disperso: i servizi alla persona, infatti,
si rivolgono ad un consumatore individuale, seguendo un modello di dispersione
corrispondente alla distribuzione della popolazione e della ricchezza. In particolare,
essendo il settore in questione anche estremamente competitivo, data la molteplicità
dell’offerta, risulta difficile alquanto per i lavoratori raggiungere un livello di
coordinamento tale da attuare un blocco totale della produzione. Inoltre, il potere
contrattuale legato al mercato è generalmente basso nei servizi alla persona, e tale
constatazione trova legittimazione nella disponibilità di un’ampia offerta di lavoratori
con le competenze necessarie a svolgere i compiti richiesti.
Lo sviluppo del settore in questione alla fine del XX secolo mette in evidenza una
tendenza generale verso il progressivo declino del potere contrattuale legato al luogo di
lavoro. Dunque, il percorso analitico sviluppato rivela una sostanziale impossibilità di
individuazione di un’unica industria manifatturiera che svolga nell’epoca
contemporanea quel ruolo chiave nei processi di accumulazione del capitale su scala
mondiale svolto dall’industria tessile ed automobilistica nei secoli passati. In definitiva,
poiché la traiettoria seguita dalle agitazioni operaie del Novecento non si è sviluppata
solo nell’ambito dei cicli del prodotto, ma anche dei cicli della politica mondiale,
occorre analizzare il rapporto intercorrente tra le dinamiche dei movimenti operai e la
politica globale, al fine di comprendere in modo più approfondito le mobilitazioni del
Novecento e di rafforzare un’analisi valutativa delle probabili tendenze future.
29
Capitolo 4. Movimenti operai e politica mondiale
Il quarto capitolo si propone di analizzare il rapporto tra politica globale e
movimenti operai. I processi economici globali sono profondamente implicati nelle
dinamiche politiche anch’esse globali, dalla formazione degli stati ai confini della
nazionalità, fino ai conflitti tra gli stati e alle guerre mondiali. In particolare, si possono
individuare due diversi movimenti oscillatori, l’uno tra la mercificazione del lavoro e lo
sgretolamento dei patti sociali, l’altro tra la demercificazione del lavoro ed il
consolidamento di nuovi patti sociali. Al fine di comprendere le dinamiche sottostanti
ad entrambi i processi di oscillazione, nonché di estrapolare l’impalcatura che ne
sorregge la struttura, occorre fornire, secondo l’ideologia della Silver, un quadro
empirico delle agitazioni operaie su scala mondiale del XX secolo, a partire dai dati
raccolti dal database del World Labour Group: questo percorso sottolinea l’impatto
delle guerre mondiali sulla traiettoria complessiva delle agitazioni operaie del
Novecento. Vengono proposti alcuni grafici cartesiani che evidenziano una notevole
influenza dei conflitti mondiali sugli sviluppi temporali delle lotte operaie: i due picchi
più importanti avvengono negli anni immediatamente successivi alle guerre. Questa
stretta interdipendenza risulta particolarmente evidente nei paesi metropolitani, pur
rimanendo apprezzabile anche nell’aggregato dei dati relativi ai paesi coloniali e
semicoloniali: le mobilitazioni si intensificano alla vigilia delle guerre mondiali, mentre
declinano fortemente in concomitanza con l’evolversi del conflitto, per poi ripresentarsi
sotto forma di grandi ondate di agitazioni nel dopoguerra. Da tempo, nell’ambito delle
scienze sociali, si tende a collegare le guerre alla militanza operaia od alla conflittualità
sociale in generale.
Nello specifico, Michael Stohl (1980) ritiene che quella del nesso tra i conflitti
internazionali ed i conflitti civili sia una delle ipotesi più accreditate delle scienze
sociali, evidenziando le differenti direzioni assunte dal dibattito sulla questione di quali
forme esattamente questo nesso assuma, e quanto siano determinanti gli aspetti spazio-
temporali. Stohl identifica tre varianti di tale ipotesi: la prima sostiene che l’avvento
della guerra incrementi la coesione a livello nazionale conducendo la società verso una
condizione di pace interna; per la seconda, l’avvento della guerra aumenta la
conflittualità sociale a livello nazionale facendo crescere la probabilità di una
30
rivoluzione; la terza, infine, attribuisce alla conflittualità sociale interna alla nazione un
aumento della propensione dei governi ad entrare in guerra. Queste diverse
interpretazioni vengono spesso proposte come alternative: l’autrice, invece, ritiene che
esse siano complementari, essendo ciascuna delle tre ipotesi pertinente rispetto alle
differenti fasi temporali del conflitto: la prima ipotesi corrisponde alla durata del
conflitto, la seconda descrive la situazione del periodo del dopoguerra, la terza ipotesi
quella dei periodi che precedono le guerre mondiali. È utile considerare anche il
rapporto tra la dinamica del ciclo del prodotto e quella dei conflitti e delle egemonie
mondiali: i due processi hanno avuto effetti opposti sull’andamento spazio-temporale
delle lotte operaie. La dinamica delle guerre mondiali, infatti, ha determinato una
tendenza all’unificazione, portando a fasi di diffusione rapida su scala planetaria di una
forte militanza operaia, come nel caso dei due periodi post-bellici; al contrario le
soluzioni incentrate su pratiche di riorganizzazione spaziale del capitale, legate alle
dinamiche del ciclo del prodotto, tendono a sortire effetti distensivi, poiché la
dispersione geografica della produzione induce cambiamenti spazio-temporali nei centri
nevralgici del conflitto operaio: le insorgenze in un luogo specifico vengono
controbilanciate dal declino in altri luoghi.
La globalizzazione di fine Ottocento e l’ascesa del movimento operaio moderno.
La grande espansione dell’economia mondiale attuatasi nella metà del XIX secolo,
l’“età dell’oro del capitale”, culmina nella “grande depressione” degli anni 1873-1896,
un periodo caratterizzato da una notevole competitività su scala mondiale e da
mutamenti nei processi di accumulazione del capitale. In questo contesto di profonde
trasformazioni, nasce il movimento operaio moderno nell’Europa occidentale e nel
Nord America: ai tre tipi di soluzioni precedentemente analizzati (la riorganizzazione
spaziale, l’innovazione tecnologica dei processi, l’innovazione di prodotto), se ne
aggiunge un altro, ovvero la riorganizzazione finanziaria. A partire dall’ultimo quarto
del XIX secolo si assiste ad un aumento esponenziale dei livelli di concorrenza su scala
mondiale ed ad una diminuzione dei prezzi dei prodotti agricoli ed industriali, con una
conseguente contrazione dei profitti, alla quale gli imprenditori cercano di provvedere
mediante la combinazione di soluzioni basate sulla riorganizzazione spaziale e
sull’innovazione dei processi e delle tecnologie. Un ambito promettente, individuato dai
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capitalisti come ulteriore sito di innovazione del prodotto, è quello dell’industria bellica,
nella misura in cui la gara imperialistica in atto negli anni ottanta e novanta
dell’Ottocento trasforma il settore industrializzato degli armamenti in una nuova
importante sfera di investimento privato, divenendo uno dei siti fondamentali per la
rapida formazione di una classe operaia attiva e reattiva. La corsa agli armamenti apre la
strada verso la ricerca di un nuovo tipo si soluzione alle crisi, quella, appunto, basata
sulla riorganizzazione finanziaria.
La soluzione finanziaria presenta alcune analogie con l’innovazione di prodotto: i
capitali vengono dirottati al di fuori del commercio e della produzione ed immessi nelle
attività di prestito, di intermediazione finanziaria e di speculazione. La redditività di tali
attività finanziarie alla fine dell’Ottocento si collega all’impennata della corsa agli
armamenti, data la necessità da parte degli stati di accedere ai prestiti con i quali
finanziare gli investimenti militari. La finanziarizzazione del capitale, di conseguenza, è
causa dell’indebolimento del potere di contrattazione nel mercato del lavoro in quei
settori dell’attività industriale dai quali il capitale viene progressivamente ritirato. A
partire dagli anni novanta del XIX secolo, come conseguenza della combinazione di
diverse tipologie di soluzioni, il capitale inizia a subire una minore pressione
competitiva, con il relativo, ed opposto, aumento della stessa per i lavoratori. Inoltre, a
causa della crescita superiore e più repentina dei prezzi rispetto ai salari, la
disoccupazione strutturale diviene persistente e si accentua il divario tra stati ricchi e
quelli poveri.
La prima reazione alla ristrutturazione capitalistica nei paesi metropolitani si
concretizza una grande ondata di agitazioni attuate dalla classe operaia: questa, nella
seconda metà del Novecento, vede accrescere enormemente le sue dimensioni e la sua
estensione, pur essendosi verificata un’erosione della “aristocrazia operaia” a causa
dell’abbassamento degli standard di professionalità richiesta, in seguito
all’implementazione delle soluzioni tecnologiche e di processo. Di conseguenza, gli
operai qualificati si vedono costretti a coadiuvare quelli senza qualificazione. Il fatto
che la manodopera non specializzata stesse aumentando e che si trovasse concentrata
nelle zone industriali delle città e nei quartieri facilitava tanto la rapida propagazione
delle proteste da una categoria all’altra e da uno stabilimento all’altro, quanto la
diffusione di una coscienza di classe. Di conseguenza, l’emergere di una classe operaia
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politicamente organizzata e strutturata, novità cui la classe dominante non poteva far
fronte con una semplice modifica della linea tattica adottata, mette in evidenza la
necessità di un cambiamento radicale della strategia. Tale trasformazione può essere
definita come la “socializzazione dello stato”: come spiega Polanyi (1957), tutti i paesi
occidentali, a prescindere dalle differenze interne, iniziano ad istituire politiche di
protezione dei cittadini dalle crisi causate dall’autoregolazione del mercato, mediante
l’implementazione di misure di sicurezza sociale.
Il circolo vizioso dei conflitti interni e internazionali.
È possibile individuare una serie di aspetti relativi al rapporto tra conflitti mondiali
e mobilitazioni operaie, diretti alla verifica della validità delle tre ipotesi
precedentemente esposte. In particolare, le azioni e le reazioni che conducono allo
scoppio della prima guerra mondiale vengono considerate prove a favore della
congettura, terza nell’ordine, secondo la quale l’attuarsi della guerra si può considerare
come una mossa “diversiva” da parte di alcuni governi europei. Analogamente, lo
scioglimento della Seconda Internazionale ed il declino generale della militanza operaia
coincidenti con lo scoppio della guerra sembrano comprovare la validità della prima
ipotesi, che collega lo stato di guerra con la coesione sociale. Ed ancora, le crisi
rivoluzionarie del periodo conclusivo della prima guerra mondiale forniscono un
sostegno alla seconda ipotesi, che associa lo stato di guerra alla rivoluzione. Si
determina dunque un circolo vizioso che è causa del reciproco succedersi di fasi
peculiari che, come dimostrato, comportano una complementarità delle tre ipotesi in
sostituzione dell’ideologia che le vede come alternative, l’una escludente l’altra.
L’analisi, finora incentrata sui paesi centrali del sistema capitalista, deve essere estesa
anche alle aree coloniali e semicoloniali, dove i disagi e le trasformazioni legate alle
rivalità imperialistiche ed allo sviluppo del colonialismo danno vita ad una crescente
militanza operaia e ad aspri conflitti sociali. Infatti, il periodo che va dalle grande
depressione alla prima guerra mondiale è caratterizzato da vaste ondate di
proletarizzazione in tutto il mondo. Il potere contrattuale strategico degli operai viene
rafforzato in quelle aree inserite nel sistema di approvvigionamento delle potenze in
guerra, e l’aumento della militanza operaia si intreccia con le crescenti agitazioni
nazionaliste, in India, in Cina ed anche in Africa. Come al termine della prima guerra
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mondiale, anche alla fine della seconda si propagano forti ondate di agitazioni operaie in
tutto il mondo coloniale e semicoloniale, con la differenza che questa seconda ondata si
caratterizza per una maggiore intensità ed una più lunga durata rispetto alla precedente.
È importante osservare come il circolo vizioso creatosi tra la guerra e le agitazioni
operaie si esaurisca in concomitanza con il consolidamento dell’egemonia statunitense a
livello mondiale nel secondo dopoguerra. Nello specifico, si verifica un netto
cambiamento nelle dinamiche delle agitazioni operaie, con la transizione da una prima
metà del secolo in cui le mobilitazioni sono soggette ad un aumento sostanziale, ad una
seconda metà in cui esse sono stabili o in declino. Tale mutamento deriva dalla
concentrazione senza precedenti di potere militare ed economico nell’ambito degli Stati
Uniti alla conclusione della seconda guerra mondiale, evento che pone fine alla rivalità
tra le grandi potenze che avevano dato vita al circolo vizioso di guerre ed agitazioni
operaie. A sortire questo effetto, concorrono anche le profonde riforme a livello
aziendale, che conducono ad una parziale demericficazione del lavoro in seguito allo
stabilizzarsi della crescente forza dei lavoratori a livello mondiale ed ai grandi successi
riportati dai movimenti rivoluzionari nella prima metà del secolo. Il modo in cui si attua
questo processo è strettamente influenzato dalle strategie di differenziazione spaziale.
Infatti, l’equilibrio tra riforme e repressione era sbilanciato a favore di quest’ultima nei
paesi coloniali e postcoloniali piuttosto che in quelli metropolitani.
Le sequenze temporali che emergono dal database del WLG forniscono un dato
coerente con questa differenziazione: nell’aggregato che comprende in paesi
metropolitani si nota un declino lento ed inarrestabile delle citazioni di agitazioni
operaie, mentre nel contesto geografico coloniale e semicoloniale il livello di
mobilitazione operaia rimane alto, raggiungendo vette storiche nel corso degli anni
cinquanta e sessanta. È quindi utile analizzare le trasformazioni subite dai modelli di
lotta operaia nel dopoguerra, in rapporto alla portata e alla natura delle riforme attuate e
al peso delle misure repressive, ed il ruolo giocato dai processi di riorganizzazione
dell’economia mondiale che hanno contribuito a determinare l’esito negativo per la
forza lavoro della crisi degli anni settanta. In particolare, le ricorrenti spinte
rivoluzionarie del dopoguerra inducono le classi dirigenti degli stati più avanzati ad
attuare una profonda riforma del sistema capitalistico mondiale, congiuntamente alle
strategie di ricostruzione postbellica: vengono presi rilevanti provvedimenti a livello
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politico, sociale ed economico, mediante l’adozione di specifiche strategie nell’ambito
dei paesi avanzati e non solo. I politici statunitensi sapevano che tali riforme del
dopoguerra non potevano essere limitate ai contesti geografici sviluppati, essendo anche
i movimenti operai di molti paesi del Terzo Mondo delle potenti armi di mobilitazione.
Considerata l’inconsistenza delle riforme offerte ai lavoratori del Terzo Mondo, non
sorprende che si dovesse ricorrere maggiormente alla repressione come meccanismo di
controllo del movimento operaio: nell’equilibrio tra riforme e repressione, quest’ultima
ha un peso molto maggiore nei paesi del Sud del mondo.
La decolonizzazione, ossia l’estensione della sovranità giuridica a tutte le nazioni,
si configura come la più grande riforma ottenuta da mondo coloniale in seguito
all’epoca delle guerra e delle rivoluzioni. Tuttavia, essa mina uno dei fondamenti da cui
trae forza il movimento operaio nel mondo coloniale: nell’ambito di una colonia,
ottenuta l’indipendenza, si dissolvono le alleanze interclassiste tipiche dei movimenti
nazionalisti, con la relativa perdita dell’appoggio delle altre classi sociali nelle lotte dei
contadini e dei lavoratori. Infine, i vasti processi di ristrutturazione dell’accumulazione
capitalistica mondiale costituiscono il terzo fattore da considerare nell’analisi della
reazione postbellica ai movimenti operai. Dagli accordi di Bretton Woods, alla
creazione della Comunità Europea, si assiste all’affermarsi di un processo di
“modernizzazione” che, negli anni cinquanta e sessanta, induce gli studiosi di sociologia
a parlare di “declino dello sciopero” come conseguenza inevitabile e benefica della
rapida diffusione delle tecniche statunitensi di produzione di massa, determinanti la
riduzione del potere contrattuale dei lavoratori, da un lato, ed il rafforzamento di una
classe di operai semispecializzati, dall’altro. Dunque, i vari tentativi di controllare e di
rispondere alla forza dei movimenti operai nei decenni successivi alla seconda guerra
mondiale hanno presentato diversi limiti e numerose contraddizioni.
La ristrutturazione del sistema capitalistico mondiale promossa dagli Stati Uniti
pone solide fondamenta per due decenni di profitti e di crescita senza precedenti, che
fornisce le basi materiali per sostenere i patti sociali del dopoguerra. Tuttavia, come già
accaduto nell’età dell’oro del capitalismo della metà del XIX secolo, la rapida crescita
degli scambi commerciali e della produzione conduce ad una crisi di
sovraccumulazione, caratterizzata da forti pressioni competitive e da una generale
contrazione dei profitti, cui si tenta di provvedere mediante un incremento sostanziale
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della produttività che, a sua volta, provoca un’accelerazione dei ritmi di lavoro con la
conseguente mancanza di collaborazione degli operai. Quindi, è ragionevole pensare
che i processi contemporanei della globalizzazione e delle lotte operaie stiano
ripercorrendo le tracce della fine dell’Ottocento e dell’inizio del Novecento. Inoltre, in
relazione all’ipotesi secondo la quale la politica mondiale e le guerre determinano le
modalità delle agitazioni operaie nel corso del tempo, emerge una domanda chiave,
ovvero se le dinamiche politiche e belliche dell’inizio del XXI secolo siano
fondamentalmente diverse da quelle che influenzarono le traiettorie del conflitto operaio
nel XX secolo.
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Capitolo 5. Le dinamiche contemporanee in una prospettiva storico-
mondiale
Nel quinto ed ultimo capitolo viene sviluppata un’analisi incentrata sulle
caratteristiche e sulla gravità della crisi che i movimenti operai stanno attraversando
nell’epoca contemporanea, alla luce delle riflessioni sul passato precedentemente
condotte. Attraverso un confronto tra le modalità di gestione delle mobilitazioni dei
lavoratori nelle diverse fasi storiche, si delinea un possibile scenario futuro di sviluppo
dei modelli di lotta operaia nel XXI secolo. Inserendo l’analisi della forza lavoro entro
una cornice teorica storico-mondiale, è possibile interpretare la sempre più diffusa crisi
dei movimenti operai contemporanei.
L’analisi condotta nel secondo capitolo a proposito delle riorganizzazioni spaziali
della produzione di massa nei settori industriali classici può essere letta anche come
l’adombramento di una tendenza globale all’omogeneizzazione delle condizioni
lavorative, in grado di colmare il divario tra Nord e Sud del mondo. Tuttavia, dalla
riformulazione critica del modello di ciclo del prodotto sono emerse controtendenze
sistematiche in termini di modi in cui la disparità tra Nord e Sud si riproduce
costantemente determinando forti differenze tra movimenti operai situati in luoghi e
posizioni diverse: ciò si spiega in relazione al fatto che ogni meccanismo analogo ha
avuto luogo in un ambito competitivo fondamentalmente diverso. Dunque, si assiste ad
una tendenza a riprodurre i profitti generati dalle innovazioni tecnologiche e del
prodotto solo nei paesi avanzati, mentre i paesi caratterizzati da un basso costo del
lavoro ne beneficiano raramente.
Se la riorganizzazione spaziale del capitale tende ad annullare le differenze tra
Nord e Sud del mondo, le soluzioni tecnologiche o bastate sul prodotto operano in senso
contrario. Inoltre, avendo precedentemente sostenuto che l’epicentro delle agitazioni
operaie non si è solamente spostato di luogo in luogo parallelamente alle successive
delocalizzazioni, ma anche di settore in settore, in seguito alle congiunte innovazioni di
prodotto, attestato il passaggio delle agitazioni operaie dall’industria tessile a quella
automobilistica, nel contesto attuale del XXI secolo è lecito attendersi la formazione di
nuove classi operaie e l’insorgenza di nuovi movimenti operai in quello che si
configurerà come nuovo settore trainante. In relazione a ciò, risulta fondamentale
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affrontare la questione del peso e della natura del potere contrattuale dei lavoratori in
queste stesse nuove industrie trainanti. Nello specifico, si può affermare che la tendenza
novecentesca all’aumento del potere contrattuale legato al luogo di lavoro appare
invertita nel nostro secolo e, al contrario, il potere di contrattazione associativo è in
ascesa: tale constatazione porta a prevedere che il destino dei movimenti operai del XXI
secolo sarà legato alle dinamiche mutevoli della politica mondiale e, in virtù dell’analisi
della situazione dei lavoratori tessili agli inizi del Novecento, che ha portato a conferire
rilevanza ai legami tra movimenti operai e movimenti di liberazione nazionale, oggi,
similmente, è necessario cercare analoghi collegamenti tra i movimenti operai
contemporanei ed altri movimenti.
Dunque, la questione relativa al probabile ripresentarsi nel XXI secolo di una
situazione di escalation e radicalizzazione dei movimenti operai su scala mondiale è
legata alla possibilità che si ricrei un clima di conflittualità internazionale analogo a
quello dei primi decenni del XX secolo: a questo riguardo, la guerra del Vietnam
rappresenta un caso significativo. Si tratta di un tipo di conflitto sostanzialmente diverso
rispetto a quelli che avevano avuto l’effetto di radicalizzare i movimenti dei lavoratori.
Nelle parole dell’autrice, le guerre recenti hanno danneggiato soprattutto i paesi
poveri, non colpendo interiormente le masse dei paesi ricchi: ne consegue che ben
difficilmente si produrrà quel tipo di movimenti operai forti, coesi, e combattivi tipici
della prima metà del secolo scorso. Agli inizi del XXI secolo la sfida più ardua per i
lavoratori di tutto il mondo consiste nella lotta non solo contro il proprio sfruttamento e
la propria esclusione, ma per un sistema internazionale capace di subordinare il profitto
alla sopravvivenza di tutti.
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Appendici
A conclusione dell’opera, vengono accluse tre appendici finalizzate
all’approfondimento di alcune procedure pratiche sottostanti all’elaborazione ed allo
sviluppo dell’analisi esposta nell’ambito dei capitoli precedenti. Pertanto, sarà utile
sintetizzare schematicamente il contenuto di ciascuna sezione, in modo da delineare
brevemente il contesto pratico dal quale la trattazione ha avuto origine. Nello specifico,
l’appendice A, Il database del World Labor Group: concettualizzazione, misurazioni e
raccolta dati, si focalizza sulla descrizione delle procedure che hanno condotto alla
creazione di questo importante strumento di raccolta dati. Quale principale fonte
empirica cui ci si riferisce nel volume in questione per documentare i modelli storico-
mondiali di agitazioni operaie, il database nasce da un progetto di ricerca di alcuni
dottorandi e docenti del Fernand Braudel Center presso l’Università di Binghamton, che
negli anni ottanta costituirono il World Labor Research Working Group. La stessa
autrice del testo analizzato, B. J. Silver, ha successivamente approfondito ed aggiornato
il database costruito inizialmente dal gruppo di lavoro. Vengono quindi esposte le
modalità di sviluppo ed attuazione del progetto di raccolta dati, nella sua
concettualizzazione, nelle misurazioni e nelle procedure di reperimento delle
informazioni, con la relativa descrizione dei risultati dei test di attendibilità dei dati
stessi.
Nell’appendice B, Indicazioni per la raccolta dei dati, sono riportate le linee guida
utilizzate da ogni ricercatore che ha proceduto alla schedatura dei dati indicizzati dai
quotidiani dai quali precedentemente erano state desunte le notizie pertinenti.
L’appendice C, Classificazione dei paesi, infine, elenca i paesi inclusi rispettivamente
nel gruppo “metropolitano” ed in quello “coloniale e semicoloniale”.
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Sommario
Capitolo 1. Introduzione............................................................................................................................- 4 -
Capitolo 2. I movimenti dei lavoratori e la mobilità del capitale......................................................- 12 -
Capitolo 3. Movimenti operai e cicli del prodotto..............................................................................- 20 -
Capitolo 4. Movimenti operai e politica mondiale.............................................................................- 30 -
Capitolo 5. Le dinamiche contemporanee in una prospettiva storico-mondiale.............................- 37 -
Appendici................................................................................................................................................- 39 -
AUGUSTO COCORULLO - UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI NAPOLI “FEDERICO II” -
DIPARTIMENTO DI SCIENZE SOCIALI - DOTTORATO DI RICERCA IN SCIENZE
SOCIALI E STATISTICHE - XXIX CICLO
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