LAVORO - puntorosso · Con il Governo Monti, è que-st’ultima. Il programma di questo Governo...

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progetto LAVORO per una sinistra del XXI secolo 10 mensile gennaio 2012 6 Euro Emiliano Brancaccio Marcos Del Roio John M. Keynes Clément Lacombe Guido Liguori Lucio Magri Raul Mordenti Nicola Nicolosi Luca Nivarra Corrado Oddi Giuseppe Prestipino Vittorio Rieser Roberto Romano Zaira Rodrigues Vieira Massimo Villone COSTITUZIONE DELLA REPUBBLICA ITALIANA A fini di utilità generale la legge può riservare originariamente o trasferire, mediante espropriazione e salvo indennizzo, allo Stato, ad enti pubblici o a comunità di lavoratori o di utenti determinate imprese o categorie di imprese, che si riferiscano a servizi pubblici essenziali o a fonti di energia o a situazioni di monopolio ed abbiano carattere di preminente interesse gene- rale. (Art. 43) Registrazione Tribunale di Milano n. 650 del 03-12-2010

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progetto

LAVOROper una sinistra del XXI secolo

1100mensileggeennnnaaiioo 22001122

66 Euro

Emiliano BrancaccioMarcos Del RoioJohn M. Keynes

Clément LacombeGuido LiguoriLucio Magri

Raul MordentiNicola Nicolosi

Luca NivarraCorrado Oddi

Giuseppe PrestipinoVittorio Rieser

Roberto RomanoZaira Rodrigues Vieira

Massimo Villone

COSTITUZIONE DELLA REPUBBLICA ITALIANAA fini di utilità generale la legge può riservare originariamente o trasferire, mediante espropriazione e salvo indennizzo, alloStato, ad enti pubblici o a comunità di lavoratori o di utenti determinate imprese o categorie di imprese, che si riferiscano aservizi pubblici essenziali o a fonti di energia o a situazioni di monopolio ed abbiano carattere di preminente interesse gene-rale. (Art. 43)

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Dove (non) si va con Monti

Occorre intervenire con attenzione nella rivolta del lavoro autonomo

Nicola Nicolosi Le sfide di un sindacato di classe contro le politiche di Monti

Roberto Romano Una manovra di governo antisociale

Emiliano Brancaccio Quanto fumo sulla Tobin Tax!

Massimo Villone Referendum elettorale

Dialogo tra Sir J. Stamp e John M. Keynes Assurdità dei “sacrifici”

Clément Lacombe Grecia, Argentina: somiglianze e differenze

Luca Nivarra Referendum “sull’acqua” e crisi democratica

Corrado Oddi Il Movimento per l’acqua dentro la crisi economica e sociale

Antonio Morandi Autoritarismo e crisi affondano l’Ungheria.

Matteo GaddiInvatec-Medtronic di Brescia

M. G. CF Gomma di Passirano (Brescia)

Raul Mordenti Introduzione al dossier

Guido Liguori La ricerca di Gramsci

Giuseppe Prestipino La rivoluzione in Occidente nei “Quaderni del carcere”

Pasquale Voza “Egemonia” e “blocco storico” in Gramsci

Lucio Magri Il Gramsci di Togliatti

Vittorio Rieser Riflessioni senili a ruota libera

Giancarlo Saccoman Il contributo del marxismo all’analisi delle grandi crisi epocali

Marcos Del Roio Il pensiero di Gramsci in America latina

Zaira Rodrigues Vieira Marx, Gramsci, Lukács, “teologia della liberazione”

Recensioni

RIVISTA MENSILE PROMOSSADALL’ASSOCIAZIONE PUNTO ROSSO E DALMOVIMENTO PER IL PARTITO DEL LAVORO

ESSA RITIENE CENTRALE NELLA CRISISISTEMICA IN CORSO LA RICOSTITUZIONEDEL VERSANTE POLITICO DI MASSA DELMOVIMENTO OPERAIO

Registrazione presso il Tribunale diMilano n. 650 del 03/12/2010

Edizioni Punto Rosso

DIRETTORE RESPONSABILEGiancarlo Saccoman

CONDIRETTORELuigi Vinci

DIREZIONE EDITORIALESilvana Cappuccio, Anna Cotone,Saverio Ferrari, Matteo Gaddi, SilviaGarambois, Roberto Mapelli, MariaRosaria Marella, Giorgio Mele, AndreaMontagni, Antonio Morandi, CorradoMorgia, Luca Nivarra, Roberto Passini,Gian Paolo Patta, Paolo Repetto,Giorgio Riolo, Vittorio Rieser, GiancarloSaccoman, Alberto Scanzi, Luigi Vinci.

COLLABORATORIMario Agostinelli, Anna Belligero, Paola Bentivegna, Elio Bonfanti,Giacinto Botti, Franco Calamida,Giovanna Capelli, Tatiana Cazzaniga,Bruno Ceccarelli, Leo Ceglia, LucaCiabatti, Paolo Ciofi, Erminia EmprinGilardini, Marcello Graziosi, PaoloHlacia, Igor Kocijancic, Gian LucaLombardi, Emilio Molinari, RaulMordenti, Gianni Naggi, Nicola Nicolosi,Giuliano Pennacchio, Roberto Polillo,Mimmo Porcaro, Roberto Romano,Stefano Squarcina, Gianni Tamino,Leopoldo Tartaglia, Mauro Tosi.

SEGRETERIA DI REDAZIONE PRODUZIONE EDITORIALE E AMMINISTRAZIONE c/o Associazione Culturale Punto Rosso Via G. Pepe 14, 20159 Milano Tel. 02/874324 [email protected]

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Questo numero della rivista è statochiuso il 26 gennaio 2012

NOTE DI POLITICA

CRISI

REFERENDUM

ESTERI

INCHIESTE E RICERCHE

SUL LAVORO

DOSSIER

DALLA PARTE DI GRAMSCI

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DOVE (NON) SI VA CON MONTIValenze antisociali e illusioni economiche del liberismo

Abbiamo portato sistematicamente in questa rivistauna critica argomentata agli orientamenti delle isti-

tuzioni di comando dell’Unione Europea e deigoverni dei paesi membri, di quelli italiani in primoluogo, sino a quello attuale, dinanzi alla crisi, che

abbiamo definito non solo antisociali ma ancheanti-economici. Abbiamo precisato più volte, dentro

ai nostri ragionamenti, come la ragione dell’insi-stenza di questi poteri sulla linea in tutta evidenzaanti-economica dei Trattati fondativi dell’UE fosse

nell’orientamento antisociale di questi ultimi, nel fatto cioè di comportare un continuo trasferi-

mento di ricchezza dalle tasche delle classi popo-lari alla tasche borghesi, per mille

vie legali e anche illegali

Non ci piace oggi constatarela validità della nostra criti-ca: perché le prove di que-

sta validità sono che l’Italia si trovabendata sulla soglia di un burrone, chel’UE per iniziativa del governo didestra tedesco ce la sta spingendo, eche il governo Monti non è un paraca-dute ma un masso al collo che renderàrovinosa la caduta. Non ci piace con-statare la subalternità ossequiosa delPD al Governo Monti, perché ciòimpone alle confederazioni sindacali,fortunatamente ricomposte, l’onere diessere l’unica linea di tenuta, indeboli-ta quindi dal fatto che non c’è partner-ship politica. E ci fa davvero nausea lapiaggeria dei grandi mezzi di comuni-cazione, impegnati pancia a terra nel-l’apologia del Monti “decisionista” chelavora di notte e alla domenica, cheintende finalmente spezzare le reni aitassisti, e con loro alle lavoratrici, ailavoratori già in vista della pensione, aquelli “garantiti” dallo Statuto deiLavoratori, tutti ostacoli fondamentali,con i loro “privilegi corporativi” o“monopolistici” (non banche, assicu-razioni, petrolieri, autostrade…) allaripresa economica del paese, così comenell’apologia del Monti che si illude diconvincere il Governo Merkel a tenerconto di elementari necessità economi-che di un’UE (tutta, Germania com-presa) in recessione e la cui prospettivaè una depressione prolungata. Questasituazione siamo a un pelo dal pagarlacarissima, come classi popolari (i ricchiovviamente si salveranno, molti faran-no ancora più soldi), come economiadel paese e come sua democrazia.

Le cose sono molto chiare. A duemesi dalla costituzione del GovernoMonti constatiamo come (contraria-mente ai dichiarati alla partenza) il ren-dimento dei titoli di stato a lungo ter-

ma com’è che esso opera un condizio-namento assoluto su professori cultu-ralmente dotati? Il fatto è che c’è qual-cosa di ben più rilevante a orientarli:l’appartenenza a una borghesia italianache ha sempre pensato che la sua ric-chezza avesse a base la miseria popola-re. Non che questo Governo sia lacontinuazione di quello berlusconiano,espressione della parte delinquentedella borghesia, esso è invece espres-sione di quella colta, intelligente, evo-luta, parlamentare: ma è sempre diborghesia italiana che si tratta.

Non facciamoci illusioni, abboccan-do alla chiacchiera di governo e deisuoi altoparlanti mediatici, o perché cipare tutto sommato valida, o perché cidemoralizza. La recessione sta accele-rando, la speculazione ci sta addosso,le piccole imprese continueranno achiudere, la disoccupazione crescerà, iconti pubblici non torneranno, e primao poi salterà fuori la “necessità” di unanuova “manovra”. Per fortuna diMonti, dei suoi tutori politici e istitu-zionali e dei suoi apologeti, ci sarà lapossibilità di dare la colpa a FrauMerkel (il tam-tam è già cominciato) ealla debolezza istituzionale dell’UE. Senon ci fossero questi impacci l’econo-mia italiana non c’è dubbio che vole-rebbe.

Niente va trascurato e ogni settari-smo di bottega va bandito, al fine dirimotivare il mondo del lavoro, di ren-derlo più consapevole della sua grandeforza potenziale, di aiutarlo a giungerea grandi mobilitazioni unitarie. I mezzifinanziari per affrontare su un’altralinea l’emergenza economica e quellasociale ci sono: ma perché quest’altralinea diventi pratica occorrerà imporlo.

mine (i BTP, quelli decennali in specie)continui a essere molto elevato, confi-gurando così, in solido alla recessione(prevista al 2,2%), l’eternità del debitopubblico al 120% in rapporto al PIL,quindi l’eternità di manovre da 40-45miliardi l’anno; che la caduta recessiva,registrata nella seconda metà del 2011,sta accelerando; che le banche, benchéabbiano avuto 210 miliardi di euro inregalo dalla Banca Centrale Europea,non si azzardano a effettuare prestiti aimprese e famiglie, non sentendosisicure della restituzione; che FrauMerkel insiste sul “rigore” e rifiuta difinanziare il “fondo salva-stati”, stro-picciandosene delle stesse convenienzedell’industria tedesca, perché questaposizione la premia nei sondaggi dun-que potrebbe consentirle di vincere asettembre 2013 le elezioni (data a cui,se non cambia l’orientamento dell’UE,saremo tutti stesi); che la speculazionedi marca statunitense, essendo questoil quadro europeo, è ripartita alla gran-de, usando quelle agenzie di rating neicui consigli di amministrazione stannofondi di investimento nei cui consiglidi amministrazione stanno grandi ban-che d’affari. Tutto il resto, il PIL che(tra due anni) aumenterà del 10% gra-zie alle liberalizzazioni, i salari del 12%,l’aumento di questo o quel tipo dirisparmi per le famiglie ecc. sono solofantasticherie propagandistiche un po’ridicole, fumo per annebbiarci i cervel-li.

Cosa c’entra Monti con la prospetti-va sociale pesantissima del paese.C’entra, perché ha avviato una mano-vra non solo brutalmente antisocialema che la recessione ha accelerato, eperché si è illuso di poter convincereFrau Merkel. Si tratta di cantonateimpressionanti. Sono in parte l’effettodi una fede dogmatica nel liberismo:

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Così come è evidente che l’ac-canimento contro pensioni ediritti del mondo del lavoro e

più recentemente contro piccolo lavo-ro autonomo (spesso, in realtà, finta-mente tale, cioè sostanzialmentedipendente da grandi committenticapitalistici) costituisce un’operazionediversiva, orientata a polarizzare altro-ve l’attenzione popolare, a dare l’im-pressione di un grande impegno inrazionalizzazioni necessarie, come pre-condizioni, alla ripresa. Ma c’è di più adeterminare queste iniziative. In lineagenerale, in più forme, dirette e indi-rette, legate alle diverse tipologie lavo-rative, il loro obiettivo è il rialzo delsaggio generale, “sistemico”, del pro-fitto. Nei sistemi capitalistici il suoabbassamento (che in verità ha prece-duto la crisi, e che della crisi è tra i fat-tori) tende a bloccare gli investimenti, ainasprire le forme della concorrenza, afar chiudere imprese. Ciò potrebbeessere ovviato grazie alla sostituzionedei capitalisti, nella produzione dimerci come nell’investimento finanzia-rio in essa, attraverso lo stato. Questasoluzione reca anche il beneficio dellatutela dei lavoratori, nel loro comples-so. Oppure può essere ovviato attra-verso misure che rechino beneficio aicapitalisti, e, correlativamente, dannoai lavoratori, sempre nel loro comples-so. E se al governo ci sono dei “libera-li” (dei liberisti) la soluzione è quest’ul-tima. Con il Governo Monti, è que-st’ultima.

Il programma di questo Governo(come pure le indicazioni europee chelo ispirano) anzi intende rialzare il sag-gio sistemico del profitto applicandopure misure socialmente devastanti,sulla scia della sua dogmatica liberista.

strategici così come in sede finanziaria:cose del tutto inaccettabili per il gran-de capitale industriale e finanziario,quindi inaccettabili eresie per la dog-matica liberista.

Alle operazioni del Governo Montila reazione del mondo del lavorodipendente risulta ancora debole etroppo difensiva; appare rassegnata,largamente convinta che non esistauna possibilità alternativa di uscitadalla crisi. Al contrario si stanno mobi-litando altre categorie di lavoratori,quelli “autonomi”. Spesso, in altritempi e in altre situazioni, come nelCile di Salvador Allende gli autotra-sportatori, queste categorie hanno rap-presentato la massa di manovra didisegni golpisti e di restaurazione.L’esplosione del movimento dei “for-coni”, i blocchi dei autotrasportatori,gli scioperi di tassisti, pescatori, conta-dini, benzinai, avvocati e notai, farma-cisti, commercianti evidenziano tutta-via primariamente una situazionesociale esplosiva, dunque che deveessere affrontata nei suoi terminiobiettivi. La maggior parte di questecategorie sono prevalentemente costi-tuite da lavoratori in condizioni di red-dito più o meno simile a quelle dellavoro dipendente. Il giudizio non puòessere il medesimo dinanzi a contadini,autotrasportatori, tassisti, pescatori,piccoli commercianti colpiti dagliaumenti delle tasse e dal rincaro digasolio, assicurazioni, autostrade,oppure dinanzi ai privilegi (i minimitariffari esosi, le difficoltà di accessoalla professione da parte dei giovanilaureati) di notai e avvocati, le evasionifiscali di professionisti e orefici, ecc. Inogni caso, se l’esplosione in corso sitrasformerà in un movimento reazio-

In tutta evidenza, intanto, esso staportando un attacco generalizzato atutte le forme del salario (diretto, indi-retto e differito), con una strategia“senza tabù”, cioè radicale, di indivi-dualizzazione del rischio lavorativo e diprivatizzazione dello stato sociale.Riguardo ai licenziamenti esso tende arendere impraticabili le stesse tutelecostituzionali alla dignità della posizio-ne lavorativa, prevedendo un sempliceindennizzo e intendendo sostituire gliattuali ammortizzatori sociali consostegni alla miseria. In questo mododisoccupazione e precarizzazione tor-nano a svolgere i ruoli storici di eserci-to di riserva e di proletariato fluttuan-te, indebolendo strumenti di lotta e diresistenza e quindi rifacilitando il con-trollo capitalistico del conflitto sociale.Parimenti tutele universali lasciano ilposto a un particolarismo assicurativofortemente segmentato e limitato acoloro che possono pagarselo, a unarimercatizzazione dello stato sociale.Ancora, l’erosione “egualitaria” dellepensioni rappresenta essa pure unpasso verso la generalizzazione dellamiseria.

Le privatizzazioni a loro volta ten-dono a garantire nuovi ambiti al profit-to capitalistico. L’esperienza delle pri-vatizzazioni dell’acqua lo ha affermatonel modo più chiaro: ovunque il servi-zio è peggiorato e il suo prezzoall’utenza aumentato. Perfinol’Economist sottolinea il successo nelmondo del “capitalismo di stato”: è aesso infatti che si deve l’impetuoso svi-luppo dei paesi “emergenti”. Tuttaviaciò ha comportato una regolazionepotente del capitalismo privato e altret-tanto potenti limitazioni alle sue possi-bilità di iniziativa, in settori economici

OCCORRE INTERVENIRECON ATTENZIONE NELLARIVOLTA DEL LAVOROAUTONOMO, difendendone alcunerichieste, correggendonel’andamento generale

Che le iniziative del Governo Montiabbiano carattere prociclico, tendano a

incentivare la recessione in corso inItalia (in sintonia, d’altra parte, con gli

andamenti del complesso delle econo-mie capitalistiche sviluppate), è cosaevidente, anche a quegli apologeti, ameno che siano fessi, che si accani-

scono sui media a dichiarare che essesono funzionali, al contrario, alla ripresa

della nostra economia.

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nario che ridarà fiato alla destra politi-ca populista e ne rilancerà le possibili-tà reazionarie, dipenderà anche dalcomportamento delle altre parti politi-che e sociali, tra le quali il lavoro dipen-dente e le sue organizzazioni sindacali.La massima attenzione, quindi, e lamassima solidarietà da questo latorispetto alle rivendicazioni delle cate-gorie lavorative a basso reddito; la cri-tica alle forme di lotta antisociali eanarcoidi che esse tendono ad adottarevale se a essa si combina un appoggio,altrimenti equivale a chiedere loro dirinunciare all’unico modo per farsivalere e impegnare il Governo in unatrattativa. E bisogna sapere che se ilGoverno prevarrà, dopo ci sarà unrilancio della sua azione contro il lavo-ro dipendente.

L’Italia presenta una caratteristicapeculiare, in quanto vi è storicamentemancata quella grande razionalizzazio-ne di classe che ha condotto negli altripaesi capitalistici sviluppati a una vastaproletarizzazione delle classi interme-die lavorative (contadini, artigiani, pic-coli professionisti, piccoli commer-cianti, ecc.). In parte ciò si deve a retag-gi sociali antichi, in parte allo sviluppocapitalistico ritardato del paese, inparte a un’unificazione che ha penaliz-zato il Mezzogiorno; in parte, infine,alle politiche clientelari del fascismo epoi dei governi a guida democristiana,da parte di questi ultimi anche a base diconcessioni fiscali comprensive dellafacilità a larghe evasioni. Ciò ha ali-mentato orientamenti reazionari eindividualisti di massa di tipo tradizio-nale, facili in gruppi sociali subalternidispersi, parimenti ha costituito, inquesto dopoguerra, un poderoso ser-batoio di voti per il “centro” politico,più recentemente per il populismo ber-lusconiano e per quello leghista.

Questa fisionomia della composi-zione sociale del paese anomala rispet-to a quella degli altri paesi capitalisticisviluppati ha certamente anche pena-lizzato lavoratori dipendenti e pensio-nati. Essi non possono evadere il fisco,e sono stati caricati dell’onere fiscale diquella larga parte del popolo che pagapoco e anche evade. L’INPS, in attivoriguardo alle pensioni a ex lavoratoridipendenti, mette a carico di questiultimi (contenendo la possibilità diloro pensioni più alte) gran parte delpiccolo lavoro autonomo. Tuttavia èanche vero che gran parte delle figure

serve alla ripresa: in realtà, come stia-mo vedendo, la danneggia. Ma ciò chealla borghesia capitalistica non è laripresa in astratto che interessa: è cheessa avvenga a condizioni che ne con-solidino forza economica e potere.Quella attuale è quindi una parentesicritica prolungata sostanzialmentenecessaria.

In ultimo occorre sapere che tuttoquesto tende pure al compattamentodi portatori di interessi materiali ogget-tivamente divergenti, per esempiodegli interessi dei piccoli negozianti diCortina, che a stento riescono a sbar-care il lunario, e quelli dei suoi orefici.La base può essere fornita, sempre peresempio, da operatori politici (vedi laLega Nord: ma fenomeni analoghistanno intervenendo nelMezzogiorno) che agitino obiettivi diabbattimento fiscale indifferenziato,propongano forme di rivolta fiscale erilancino iniziative di lotta capaci dibloccare l’economia del paese (gliautotrasportatori gestiscono il 90%delle merci circolanti). Le difficoltà aquesto punto del lavoro dipendentepotrebbero diventare immense, sulpiano delle condizioni materiali, deidiritti, della stessa agibilità democrati-ca. Prevenire, tuttavia, nuove e piùestese saldature di fronti eterogenei,riassorbire quelle in corso che abbiamovisto sfilare per le vie della Sicilia, chehanno messo assieme contadini, pesca-tori, autotrasportatori, studenti, centrisociali, in parte orientati da figure diCosa Nostra, da potenti lobby politi-che clientelari, da militanti di ForzaNuova, da rivendicazioni separatiste:tutto questo richiede, come già scritto,un intervento politico capace, egemo-nico e articolato, del mondo del lavorodipendente. Più concretamente, vista ladebolezza estrema della sinistra politi-ca e la corrività o l’inconsistenza con-fusionaria del PD, richiede l’interventodelle grandi organizzazioni sindacali,in primo luogo della CGIL, anche tra-mite piatteforme di portata immediata.

lavorative autonome sono solo appa-rentemente tali, essendo totalmenteeterodirette, in balia del monopolio difatto sia di committenti (vedi autotra-sportatori ecc.) che di acquirenti (vedicontadini, pescatori, ecc.), spessoobbligate a un autosfruttamento estre-mo. Vanno quindi assimilate, nel ragio-namento a sinistra, al lavoro dipenden-te, occorre ragionarvi del diritto di essepure a essere tutelate.

Questo vale tanto più in quanto nonc’è nessuna relazione diretta tra le“liberalizzazioni” che colpiscono ilpiccolo lavoro autonomo, da un lato, eil recupero di evasione fiscale sul ver-sante del lavoro autonomo nel suocomplesso oppure la fantomaticaripresa economica, dall’altro. In realtà,così come il peggioramento delle con-dizioni materiali del lavoro dipendente,la sua perdita di diritti, l’erosione dellostato sociale, le privatizzazioni diimprese pubbliche in attivo sono fun-zionali alla ripresa del profitto capitali-stico, rappresentando incrementi disfruttamento o nuovi settori di presen-za capitalistica, analogamente rappre-sentano questa cosa le operazioni con-tro il piccolo lavoro autonomo. Unaparte di esso verrà distrutto, e saràsostituito nell’esercizio delle medesimeattività dalle imprese capitalistiche chegià operano nei suoi settori: e, trattan-dosi di ambiti economici che si presta-no a razionalizzazioni comportantil’abbattimento quantitativo del lavoroivi impiegato, ciò concorrerà, oltre chea buoni livelli di profitto di settore,anche al rialzo del saggio sistemico delprofitto capitalistico. Si badi: i “consu-matori” non vedranno un euro dibenefici, analogamente a quanto acca-duto con la privatizzazione dei servizipubblici locali.

Non meravigli dunque il paradossoche corre tra i dichiarati di equità socia-le del Governo e di sua volontà dicostruire una ripresa a breve dell’eco-nomia, e il fatto che questo Governosin dal primo giorno della sua esisten-za abbia mostrato di essere “forte coni deboli e debole con i forti”, evitandodi disturbare banche, assicurazioni,autostrade, ecc. Gli obiettivi diGoverno sono altri, tutti dal lato delleconvenienze di banche, assicurazioni,gestori di autostrade, petrolieri, grandiimprese industriali, grande commercio,ecc. Ciò non solo non c’entra per nien-te con l’equità sociale ma neppure

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LE SFIDE DI UNSINDACATO DICLASSE.Contro le politiche di Monti, è ora di andare al voto

E’ di importanza straordinaria il recenteincontro unitario tra le segreterie di CGIL,CISL e UIL, così come lo è il documento

comune che denuncia la mancanza di poli-tiche adeguate ad affrontare il tracollo eco-

nomico e invoca un piano urgente per illavoro, anzi il fatto che si sta andando in

senso opposto

di NICOLA NICOLOSI

L’area programmatica diLavoro-Società ritiene che acomplemento di questa linea

unitaria debba essere proposta alpaese, e in primo luogo al mondo dellavoro, una politica economica, e inessa una politica industriale, effettiva-mente portatrici di ripresa, in quantobasate su uno sviluppo qualificato del-l’apparato industriale.

In primo luogo, il paese dovrebbeessere portato ad allargare la propriabase produttiva nei settori emergentiad alto contenuto di conoscenza. Ciòanche recupererebbe una fetta dellapopolazione inattiva giovane ben for-mata. Il problema occupazionaledell’Italia è, soprattutto, giovanile esenza un allargamento della base pro-duttiva difficilmente il tasso di occupa-zione italiano (56%) potrà raggiungerequello medio europeo (64%). Inoltrel’allargamento della base occupaziona-le permetterebbe una riduzione dellapolarizzazione del reddito e della suadistribuzione. Mentre il reddito dalavoro nell’Unione Europea è pari aquasi il 48% del PIL, in Italia è pari41%.

Giova sottolineare che a ciò necessi-terebbe l’investimento e la program-mazione dello stato: si tratta di obietti-vi che il sistema privato non è in gradodi affrontare. Non bisogna dimentica-re che in Italia la spesa privata in ricer-ca e sviluppo è più bassa di quella pub-blica.

In fatto di liberalizzazione dei servi-zi pubblici molte esperienze consiglia-no quanto meno cautela: si tratta diservizi che operano per lo più in regi-me di “fallimento del mercato”, inoltre

crisi temporanea; c’è il tempo dellatutela reddituale in caso di assenza dilavoro, magari accompagnata da servi-zi pubblici per il reinserimento lavora-tivo; c’è il tempo del non lavoro. Infineper quanto riguarda il lavoro pubblico,aggredito dalle manovre economichedi questi anni in tutta Europa, occorredire “basta” allo stillicidio di interventia suo danno. La rivendicazione di rin-novare i contratti nazionali di settore,riguardanti oltre 3,5 milioni di lavora-tori, non può essere accantonata anome del recupero di economie digestione o spostando il conflitto sinda-cale dal centro alla periferia. Il governoha deciso il blocco dei contratti e hadeterminato il taglio delle risorse eco-nomiche a enti locali e regioni: ciò varespinto.

Infine l’opportunità di una prosecu-zione del Governo Monti ci sembrascomparsa nel momento stesso in cuiha prodotto una manovra correttivaantisociale e recessiva. Esso è servito atogliere di mezzo un governo di destraantidemocratico, rappresentativo dellaparte peggiore del paese e che lo por-tava al tracollo finanziario, noi diLavoro-Società siamo per le elezionianticipate quanto prima. E ciò nonsolo non impedisce ma richiede dirilanciare la piattaforma della CGILalla base dello sciopero generale del 6settembre.

C’è un punto cruciale da affrontare:come affermare questa piattaforma. E’sempre più palpabile la disaffezionenel mondo del lavoro nei riguardi delleforze politiche e un difetto di credibili-tà dello stesso sindacato: basti pensareche la partecipazione allo sciopero del12 dicembre è risultata assai più tiepida

è solo attraverso l’esercizio pubblicoche può essere garantito l’esercizioefficiente e democratico delle infra-strutture. La stessa UE a propositodelle “public utilities” ha declassato ilmercato da “principio” a “regola”,inoltre lo ha subordinato alla fruibilitàdel servizio. Inoltre l’UE non obbliga aliberalizzare i settori a rete e con alticosti fissi. Ci stanno poi ragioni piùche valide per essere contrari alla pro-mozione dell’azionariato diffuso deiservizi a rete. Tutte le reti italiane(acqua, trasporto su gomma e ferro,gas ed energia, ecc.) necessitano diingenti finanziamenti, ciò che significache l’azionariato diffuso non funzione-rebbe ma sarebbe sostituito da investi-menti finanziari privati, alla ricerca inquanto tali di ampi utili anziché dell’ac-cessibilità sociale a basso prezzo deiservizi. Va da sé, infine, che per quan-to riguarda il sistema idrico, più ingenerale i servizi pubblici locali, siamo,conseguentemente, per rispettare ilrisultato referendario del giugno scor-so, quindi mantenerli pubblici o ripub-blicizzarli.

Una politica di programmazioneservirebbe anche in sede di stato socia-le, guardando al complesso delle que-stioni. C’è il tempo dell’apprendimento(che dovrebbe arrivare almeno a 18anni); c’è il tempo dell’inserimentolavorativo, che non può in nessunmodo essere confuso con la fase del-l’apprendimento; c’è il tempo per illavoro indeterminato, salvo i casi dilavoro stagionale e particolare; c’è iltempo della formazione per aggiorna-re le capacità operative dei lavoratoriquando sopraggiungano investimentiproduttivi di portata qualitativa; c’è iltempo della tutela nelle situazioni di

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di quella del 6 settembre. Tantecoscienze hanno interiorizzato unasorta di primato dell’emergenza finan-ziaria, mettendo da canto i pesantissi-mi effetti antisociali della politica delGoverno e la sua palese concreta inef-ficacia in sede economica. Non solo:quel poco di equità che era stato pro-messo non c’è stato, niente patrimo-niale, niente tassazione di SUV e “bar-che”, ecc. E’ stata anzi riattivata investe “tecnica” la cultura sociale edeconomica del centrodestra. Così ilPopolo delle Libertà, larga parte delcui blocco sociale tira un sospiro disollievo, può addirittura armare la pro-pria propaganda contro una serie dimisure vessatorie, come la reintrodu-zione dell’ICI. Sul versante opposto ilcentrosinistra dichiara una propria sot-tomissione appena moderata da qual-che riserva. Ciò rischia seriamente,durando in ipotesi il Governo Monti,di ricostituire le condizioni di una vit-toria della destra.

Negli ultimi tre anni la CGIL ha rea-lizzato ben 6 dei 13 scioperi generalidella storia repubblicana fino a oggi: enoi riteniamo che alle operazioni anti-sociali del Governo Monti sia statobene opporsi con la lotta di massa eoccorra continuare a farlo. Ma c’è unadifficoltà addizionale di oggi, di tipopolitico, accanto a quel disorientamen-to popolare che abbiamo indicato: ilfatto è che oggi ancor più di ieri perportare a risultato la lotta di massal’azione sindacale deve essere accom-pagnata da quella di attori politici, nelleistituzioni e nel paese.

Se oggi ci troviamo in questa situa-zione pericolosa di incertezza di massaè principalmente perché la politica delcentrosinistra (fondamentalmente, delPD) non è portatrice delle istanzemateriali ed emancipative del mondodel lavoro, trae invece alimento daimpianti interclassisti e liberali. Mai eraaccaduto nella storia della CGIL chenon esistessero un partito o più partitidi “riferimento”. Ma in assenza di ade-guata rappresentanza politica delmondo del lavoro il rischio di andare atempi peggiori è enorme. Si tratta dun-que di operare anche dal lato del sinda-cato di classe, ovviamente preservan-done la totale autonomia, a un nuovomovimento operaio egemonico, capa-ce di rappresentare l’intero mondo dellavoro, parimenti di unirlo alle altrearee popolari e ai movimenti orientati

Società è portatrice di questa secondaposizione. C’è ormai qualche campa-nello d’allarme da ascoltare: sono statipochi i casi di RSU che, dopo la mano-vra Monti, hanno avviato un processodi mobilitazione dentro i luoghi dilavoro. Si tratta dunque di moltiplicaree consolidare le relazioni con la base,facendo in modo che essa stessa possatorni a diventare protagonista del suodestino.

Anche da questo punto di vista lavertenza FIAT ha assunto un significa-to molto importante. E siamo contrariall’idea che si possa definire “sconfit-ta” l’esito di questa vertenza: le batta-glie perse sono quelle che non si com-battono. Ovviamente adesso occorreimpegnarsi a fondo per riconquistaregli spazi che la CGIL occupava dentroa questo gruppo.

In parallelo, si è aperta da un mesela questione della “riforma” del merca-to del lavoro. La CGIL ha elaborato unbuon documento, proponendo cinqueforme di inquadramento contrattualecontro le 46 attuali: ma il concretorischio sul tappeto è la facilitazione deilicenziamenti, sulla base delle richiestedel sistema delle imprese, della BCE edella Commissione Europea. Avanzal’idea di un contratto unico che nontutela adeguatamente dai licenziamentisenza giusta causa nessuno, ed è evi-dente che per la CGIL si è aperta unatrattativa difficile. Non possiamo inol-tre non constatare come i nostri tenta-tivi di difesa delle pensioni di anzianitànon abbiano ottenuto apprezzabilirisultati.

in senso critico rispetto ai rapportisociali del capitalismo.

Come può la sinistra sindacale, inquesto quadro di obiettivi, contribuirea questa ricostruzione del lato politicodel movimento operaio? Occorre met-tere in campo una libera ricerca strate-gica, inoltre selezionare gli interlocuto-ri politici sulla base della coerenza trale loro intenzioni e questa ricostruzio-ne. Ci può aiutare anche una modifica-zione della condotta del sindacato diclasse, nel senso che agli interessantidocumenti di analisi, propositivi e cri-tici corrispondano impegni e praticapolitico-sindacale conseguenti. Inoltre,se non si tratta certo di dar corda agruppi che guardano a “rivolte deipazzi”, tuttavia occorre cambiare lastruttura, in quanto gerarchica, dellaCGIL. Lavoro-Società ha storicamentecriticato questa degenerazione, chelimita la democrazia, e che viene dalontano, poiché la storia del movimen-to socialista e comunista non ha certobrillato in questa sede. Intendiamodunque continuare ostinatamente lanostra battaglia per la democrazia e ilpluralismo.

Non è un caso che Lavoro-Societàsi sia assunta l’impegno di rafforzare larete delle Rappresentanze SindacaliUnitarie (RSU): essa ritiene di vitaleimportanza il rapporto con i luoghi dilavoro. Abbiamo anche lavorato moltoaffinché i lavoratori potessero entrarenegli organismi dirigenti della CGIL.Dentro alla CGIL operano oggi duespinte: una debolmente riformatrice euna che si richiama più organicamenteal sindacalismo di classe. Lavoro-

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Per l’Europa la soluzione dellacrisi passa attraverso la messain sicurezza dei conti pubbli-

ci, cioè per un significativo conteni-mento della spesa pubblica e per unridimensionamento del debito pubbli-co. Sempre secondo l’Europa, la messain sicurezza dei conti pubblici riduce ilrischio di insolvenza degli stati, ripristi-nando un clima di fiducia negli opera-tori economici. Purtroppo le misure dicontenimento della spesa pubblicahanno determinato una rincorsa senzafine tra minore crescita del PIL e rico-stituzione dello stock di debito pubbli-co. Stando solo all’Italia, quindi, nel2012 per via di recessione, necessità dirifinanziare almeno 400 miliardi didebito pubblico, per non parlare di 150miliardi di obbligazioni private, servi-rebbe una manovra aggiuntiva da 20miliardi entro i primi quattro mesi,oltre a quella appena predisposta dalgoverno Monti.

Un quadro macroeconomico moltopericoloso

E’ una spirale che ricorda tanto lacrisi del 1929. Si prefigura inoltre unoscenario economico e sociale pari aquello del 1936. Riprendendo Minsky:“Nel tormentato periodo che va dal1929 al 1936 gli economisti accademi-ci… non avevano saputo offrire pres-soché nessun suggerimento politica-mente accettabile circa un pianod’azione governativo, in quanto essierano fermamente convinti della capa-cità d’autoregolamentazione del mec-canismo di mercato”, in virtù del quale“l’economia prima o poi si sarebberipresa da sola, a patto che la situazio-

pubblico, piuttosto una crescita econo-mica sempre più contenuta, che com-plica il pagamento degli interessi suldebito pubblico, per non parlare deiprofondi squilibri della bilancia com-merciale all’interno della stessa UE. E’noto che la realizzazione dell’euro hapermesso alla Germania una svaluta-zione implicita dell’euro-marco del40%, moltiplicandone quindi le capaci-tà competitive in sede di esportazioninella stessa Europa. Inoltre, più che glispread dei titoli pubblici, il vero nodoeuropeo è come non lasciare al merca-to il rinnovo dei titoli pubblici in sca-denza.

Con la chiusura del ciclo finanziariodi tutti i paesi europei, ovvero con laconclusione delle loro manovre corret-tive dei conti pubblici per riportare ibilanci pubblici in pareggio entro il2012 o al più tardi entro il 2013, nonsarà difficile trovare il segno menonella crescita del PIL europeo per il2012, mentre per l’Italia già ci sonosegnali di una rotta ben più preoccu-pante. Se dopo la manovra Tremonti diagosto molti analisti avevano previstouna crescita economica per il 2012 alribasso, con la manovra Monti, ben piùrecessiva di quella Tremonti, le previ-sioni per il 2012 sono l’accelerazionedella recessione.

Nemmeno il grande risparmio dellefamiglie italiane potrà compensare lacontrazione del reddito. Il terrorismomediatico antisociale continua a confi-dare sulla capacità di risparmio dellefamiglie italiane per supplire alla ridu-zione della spesa pubblica, ma la realtàè molto diversa. Le diverse manovre

ne non venisse aggravata ulteriormen-te dall’adozione di un’errata politicaeconomica, inclusa la manovra fisca-le”.

Il principale effetto dunque del con-tenimento della spesa pubblica aggre-gata europea è quello di un ridimensio-namento delle aspettative di crescitaper il 2012. Il doppio tuffo recessivo(double dip), più che un esercizio discuola, è diventato uno scenario eco-nomico probabile. Si tratta solo dicapire quanto sarà profonda la secon-da caduta del PIL.

Analizzando le previsioni di crescitadel PIL dei DEF 2011 (Documenti diEconomia e Finanza, a opera del rela-tivo ministero) e della CommissioneEuropea, si osserva una contrazionesignificativa dei tassi di sviluppo. IlDEF a settembre prevedeva una cre-scita del PIL europeo per il 2011 pari a0,7%, per il 2012 a 0,6% e per il 2013a 0,9%. Questo scenario, si scontracon quello più recente dellaCommissione UE, che immagina unacrescita del PIL pari a 0,5% nel 2011, a0,1% nel 2012 e a 0,7% nel 2013.Inoltre tutte le proiezioni e analisi eco-nomiche avvertono dell’imminentenuova caduta del PIL italiano.

La crisi internazionale, il rifiutodelle forze di governo europee diaffrontare i nodi strutturalidell’Europa, ovvero di dotarsi di unbilancio autonomo europeo e di unaBanca Centrale Europea sul modellodella FED, alimentano gli scenari peg-giori. Infatti il principale problemadell’Europa e dell’Italia non è il debito

UNA MANOVRADI GOVERNOANTISOCIALEe di rinforzo alla recessione

La crisi economica e finanziaria internazionalemanifestatasi nel 2007 sembra avvitarsi su se

stessa, fino a compromettere e ridimensionareuno degli attori fondamentali della soluzione

stessa della crisi: lo stato, quindi la spesa pub-blica. Paradossalmente, è proprio l’Europa

liberista, intesa come area euro, l’istituzioneche più di altre condiziona le politiche

pubbliche, introducendo vincoli di bilancio che mal si conciliano con la forte

caduta della domanda

di ROBERTO ROMANO

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correttive hanno ridotto il tasso dirisparmio delle famiglie italiane a livel-lo anglosassone. Da paese risparmiato-re, quasi il 12% del PIL, il tasso dirisparmio delle famiglie italiane è scesoal 5%. Le famiglie italiane sono statecostrette ad utilizzare i propri risparmiper mantenere livelli di consumo digni-tosi, con il paradosso di un aumentodella propensione al consumo (ridu-cendosi il reddito disponibile, granparte dello stesso percentualmenteappare destinato al consumo). Nonsolo.

Le reiterate manovre di conteni-mento della spesa pubblica e la reitera-ta crescita della pressione fiscale suiredditi (accertati, cioè da lavoro dipen-dente e poco più), ha prodotto unapolarizzazione dei redditi seconda soloa quella degli USA, ma a tassi di cresci-ta del PIL molto più bassi, ciò cheaggrava ulteriormente la polarizzazio-ne sociale.

Una manovra economica Montioltre che socialmente iniqua tuttarecessiva

Se solo un governo dei tecnici pote-va affrontare i problemi di struttura delpaese, forse era il caso fare a meno diquesti tecnici. Infatti il peso delle mag-giori entrate rispetto alle minori speseè molto più accentuato di ciò che eracon il governo Berlusconi. Il peso dellemaggiori entrate rispetto al complessodella manovra correttiva diventerà pariall’88% nel 2012, al 79% nel 2013 e al75% nel 2014: sostanzialmente quindila manovra agisce solo dal lato delleentrate, tra l’altro dalle tasche dei solitinoti: e una tale crescita della pressionefiscale, ormai prossima al 45% del PIL,sicuramente comporta l’inibizionedelle possibilità di consumo e di inve-stimento.

Soltanto il sistema delle impresebeneficia di una significativa riduzionedella pressione fiscale, pari a 4.052milioni nel 2012, 6.770 milioni nel2013 e 7.325 milioni nel 2014.Sostanzialmente sono la deindicizza-zione dei trattamenti pensionistici e larevisione del sistema previdenziale tra-mite l’innalzamento dell’età di accessoa finanziare la riduzione delle tasse alsistema delle imprese. Si tratta infatti diuna minore spesa previdenziale pari a4.088 milioni per il 2012, 5.829 milioniper il 2013 e 9.989 milioni per il 2014.

sono le imprese, non solo dal lato dellariduzione del prelievo fiscale sulla pro-pria base imponibile ma anche, conse-guentemente, da quello della lottaall’evasione fiscale, depotenziata a lororiguardo.

Le misure per lo “sviluppo”, inoltre,ruotano largamente attorno al presun-to vantaggio di competitività per leimprese nazionali legato alla riduzionesu di esse del prelievo fiscale.L’intervento su IRAP, IRES e IRPEF èdi gran lunga maggiore rispetto a quel-lo del governo Prodi tra il 2006-2008:ma anche solo grazie a quest’interven-to, se il costo del lavoro o fiscale fossedavvero il principale vincolo alla cre-scita, il PIL dell’Italia avrebbe dovutomanifestare ben altri tassi di crescita, oessi almeno avrebbero dovuto allinear-si a quelli medi europei. Purtroppoqueste misure sono del tutto inutili, senon per affrontare una competitivitàinternazionale fondata sul costo dellavoro e sul costo del sistema fiscale.

Indiscutibilmente alcune misureintercettano vincoli ben noti al sistemaproduttivo dell’Italia, come la capitaliz-zazione delle imprese via ACE (Aiutoalla Crescita Economica), ovvero comededucibilità del rendimento del capita-le proprio. Ma gli interventi legati allariduzione del costo del lavoro IRAPdall’IRES e dall’IRPEF, pari a 1.475milioni nel 2012, 1.921 milioni nel2013 e 2.041 milioni nel 2014, benpoco potranno contribuire alla ricon-versione del nostro sistema produttivo:infatti il principale nodo in questionedella struttura produttiva del paese è

Complessivamente la manovra cor-rettiva vale 20.185 milioni per il 2012,34.429 milioni per il 2013 e 37.823milioni per il 2014. I tagli di spesa sonopari 2.289 milioni nel 2012, 6.925milioni nel 2013 e 9.333 milioni nel2014, mentre le maggiori entrate sonopari a 17.896 milioni nel 2012, 27.504milioni nel 2013 e 28.490 milioni nel2014.

E’ inoltre la composizione dellemaggiori entrate e del carico fiscale adinfastidire. Infatti l’inciso delle mag-giori entrate sono i cittadini, in partico-lare pensionati e lavoratori a redditofisso-certo.

L’aumento dell’IVA vale sia per il2013 che per il 2014 quasi 13 miliardi;il mancato aumento degli assegni pre-videnziali oltre i 1.400 euro lordi valeminori spese per 3.850 milioni nel2012, 6.700 milioni nel 2013 e 6.700milioni nel 2014; l’accisa vale maggiorientrate per 4.877 milioni per il 2012,4.858 milioni per il 2013 e 4.840 milio-ni per il 2014; l’IMU, che pur avrebbeuna ragione fiscale, cioè quella di avvi-cinare i cittadini all’ente che offre i ser-vizi, vale per 11 miliardi per ciascunanno 2012, 2013 e 2014. Dunque se èvero che i 3/5 delle nuove entrate siconfigurano come “patrimoniali” (sulreddito, sulla casa, sui risparmi, su pro-prietà d’altra natura, ecc.), è pure veroche i loro 2/3 riguardano pensionati elavoratori. Indiscutibilmente c’è “clas-se” anche nei patrimoni.

A conti fatti, gli unici soggetti a trar-re beneficio dalla manovra correttiva

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una specializzazione produttiva cherichiede pochissima spesa in ricerca esviluppo.

Tutte queste misure fiscali a favoredelle imprese, dipinte come misure perla competitività, eludono dunque ilproblema storico del sistema italianodelle imprese: larga parte di esse non ècompetitiva sul mercato internazionaleperché produce beni e servizi che ilmercato internazionale non chiede.Non sarà una ulteriore riduzione delcosto del lavoro a migliorare la situa-zione.

Se proprio si voleva fare una mano-vra di struttura per competere sui mer-cati internazionali, si poteva industria-lizzare la ricerca pubblica in sede diattività che i privati sono del tuttoimpreparati a realizzare (e per questavia offrire una prospettiva di lavoro aigiovani).

Ci sono infine le misure vessatorie:tagli alla sanità, compensati da unaumento delle addizionali regionali acarico dei cittadini (le imprese inoltrecontribuiranno in misura sempre piùcontenuta alla spesa sanitaria); inoltreaumenti dell’età pensionabile peranzianità e vecchiaia, senza porsi ilproblema del coefficiente di trasfor-mazione che sarà più basso in ragionedalla caduta del PIL, e assieme a lorodisallineamento tra inflazione e assegnipensionistici. Infine sono in molti asostenere che quest’ultima misura“allude” a soggetti che non sono i pen-sionati: appare cioè come l’avvio anchedi una politica dei redditi da lavorodipendente. Essendoci crisi, cioè, sidirà che è impossibile sostenereaumenti salariali.

Conclusioni

Sostanzialmente il paese ha soppor-tato un taglio della domanda aggregatapari a quasi 100 miliardi di euro nel2011, senza che vi sia stato un qualsia-si miglioramento né dei conti pubblici,né della crescita.

Il mercato si sta ormai rendendoconto che questa manovra impedirà lacrescita: quindi stanno ritornando lepressioni finanziarie internazionali,con il balletto dello spread sui titolipubblici. Tra un po’ a quale tecnicodovremo rivolgerci?

oggettivamente interessante propo-sta dei due maestri del pensiero eco-nomico viene ridotta alla stregua diun piccolo pedaggio: si dice infattiagli operatori finanziari che essi sonoassolutamente liberi di scorazzaresulle autostrade dei mercati interna-zionali, purché ad ogni passaggiopaghino un modestissimo obolo.

Naturalmente, l’adozione di unaimposta sulle transazioni finanziariepotrebbe comunque esser salutatacon favore, se non altro perchémagari, in seguito, lo strumentopotrebbe essere riorientato sui suoiveri obiettivi originari.

E’ chiaro però che considerarequesta imposta – specialmente lasua attuale versione – come una“panacea” è semplicemente ridicolo.La polemica corrente intorno alla“imposta pedaggio autostradale” èdunque in gran parte fatta di fumo, eci distrae soltanto dai problemiurgenti che incombono sulle nostreteste.

* Estensore della proposta di legge di ini-ziativa popolare per l’istituzione di unaimposta sulle transazioni valutarie, avan-zata dalla associazione ATTAC e deposi-tata in Parlamento nel 2002 con 180.000firme di sostegno.

Quando Keynes (1936) e Tobin(1972) proposero, rispettivamente,un’imposta sulle transazioni finanzia-rie e un’imposta sulle transazionivalutarie, il loro scopo prioritario eraquello di fissare un’aliquota sufficien-temente elevata in modo da scorag-giare le transazioni. Il proposito prin-cipale, infatti, non era quello di rica-vare gettito dagli scambi di titoli o divaluta. Al contrario, l’intento era discoraggiare quegli scambi. In parti-colare, Keynes mirava a rendercostose le transazioni al fine di ridi-mensionare il ruolo della Borsa,Tobin puntava a rendere onerosi imovimenti internazionali di capitale inmodo da ripristinare almeno in partela sovranità dei singoli paesi sullapolitica monetaria.

L’imposta di cui si parla oggi, inve-ce, viene concepita con un’aliquotabassa, che cioè non scoraggi le tran-sazioni. Il motivo è semplice: si vuoleottenere gettito fiscale dagli scambi,per cui questi non devono esseredisincentivati. Apparentemente, tirarefuori un po’ di soldi dagli operatorifinanziari sembra una mossa giusta eradicale, degna della tassa talvoltaribattezzata “Tobin Hood”. Ma la veri-tà è che, in tal modo, la vecchia e

Emiliano Brancaccio*QUANTO FUMO SULLA TOBIN TAX!

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REFERENDUMELETTORALE e inammissibileresurrezione del Mattarellum

Quest’articolo è stato scritto prima dellasentenza della Corte Costituzionale sulla

legge elettorale vigente. Ci pare tuttavia che l’analisi

proposta conservi intatta la sua validità e attualità

di MASSIMO VILLONE

Anzitutto, i quesiti. Il primo ètotalmente abrogativo dellalegge elettorale vigente. Il

secondo è apparentemente più artico-lato, avendo ad oggetto non la leggenel suo complesso, ma le singoledisposizioni di essa che hanno sostitui-to, abrogato o modificato il dettatolegislativo in precedenza vigente.Cancellare quelle disposizioni vorreb-be, nell’intento dei promotori, porrenel nulla l’innovazione normativa daesse prodotta sulla legislazione preesi-stente (il Mattarellum). E va anchedetto che, avendo il quesito ad oggettooltre settanta siffatte disposizioni, l’ef-fetto ultimo del secondo quesito coin-cide con quello del primo. Entrambipuntano – l’uno formalmente, l’altrosostanzialmente – alla cancellazionedella legge oggi vigente. Lo riconosco-no gli stessi promotori [si veda laMemoria all’Ufficio centrale per il refe-rendum presso la Corte di Cassazione,2 dic. 2011], per cui i due quesiti – purdiversi nella portata abrogativa – ten-dono allo stesso fine mediato.

Il punto nodale è che entrambi iquesiti presuppongono che all’abroga-zione segua la reviviscenza della normapreesistente. Questo è l’obiettivo, delresto dichiarato, dei promotori delreferendum. Per il primo quesito, talepremessa concettuale e di principio èresa inevitabile dal carattere integral-mente abrogativo. Una pluridecennaleconsolidata giurisprudenza della CorteCostituzionale ci dice che l’inammissi-bilità è certa e radicale. Assumendoche ciò non fosse ignoto ai promotori,un siffatto quesito potrebbe essere

seguito del voto referendario si deter-mina proprio perché non si producealcuna reviviscenza. Per converso, sereviviscenza vi fosse, non verrebbemai in essere – per definizione – unvuoto normativo. O meglio, il vuotopotrebbe aversi solo nel caso cheoggetto del quesito fosse una legge chenon avesse alcun precedente specificosul piano della legislazione, e alla cuiabrogazione non potesse sopperirsiattraverso i normali strumenti dell’in-terpretazione. Un caso davvero remo-to, e comunque non realizzato nellaspecie.

1.2) In applicazione delle considera-zioni ora svolte la Corte ha affermatoin una consolidata giurisprudenza chela legge elettorale può essere investitada un quesito referendario, a condizio-ne che esso sia volto a una abrogazio-ne parziale. E sempre che la normativadi risulta sia suscettibile di una imme-diata applicazione, anche in caso diinerzia del legislatore. L’horror vacui èdunque particolarmente intenso pro-prio nel caso della legge elettorale, pergli effetti assai gravi che potrebberodeterminarsi a carico di una istituzionecardine del sistema democratico.

E’ appena il caso di notare che l’ipo-tesi della reviviscenza toglie ogni signi-ficato a tale argomento. Rendendo anziparadossalmente preferibile l’abroga-zione totale a quella parziale, poiché lasostituzione della legge oggetto delquesito abrogativo con l’intera leggeelettorale previgente è certo una solu-zione più favorevole al fluido funzio-namento delle istituzioni.

proposto solo joci causa: cosa assoluta-mente disdicevole nei confronti delpopolo italiano. Se ne esce solo scom-mettendo su una reviviscenza delladisciplina preesistente a quella cancel-lata dal voto popolare. Per il secondoquesito, la necessità di una analogareviviscenza è appena velata dalla rap-presentazione – del tutto inconsistente– di una abrogazione solo parziale.Nella sostanza, il secondo quesito èassimilabile al primo. Si vuole far rivi-vere il Mattarellum attraverso l’abroga-zione referendaria del Porcellum.

1. Profili di inammissibilità

La reviviscenza della norma preesi-stente al voto popolare è il fulcro dellainiziativa referendaria. Ed è al tempostesso il suo punto debole, per molte-plici considerazioni.

1.1) L’ipotesi della reviviscenzatoglie qualsiasi ragion d’essere a cate-gorie che la Corte Costituzionale ha dadecenni elaborato intorno all’istitutodel referendum abrogativo. Se fossevera quella ipotesi [della reviviscenzadella norma precedente], non potreb-be mai aversi una inammissibilità delquesito referendario che abbia adoggetto una legge costituzionalmentenecessaria o obbligatoria, o a contenu-to costituzionalmente vincolato,secondo la terminologia variamenteadottata dalla Corte. Queste categoriesono stata costruite dalla Corte sull’ar-gomento che in tali casi non è costitu-zionalmente consentito un vuoto nor-mativo, per i danni di sistema che neverrebbero. Ora, il vuoto normativo a

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1.3) La Corte Costituzionale ha qua-lificato i limiti esplicitamente posti dal-l’art. 75 Cost. come frutto di una valu-tazione politica discrezionale del costi-tuente, che bene avrebbe potuto –volendo – non prevederli affatto.Mentre ha definito i limiti all’ammissi-bilità elaborati nella propria sentenza16/1978 e nella successiva giurispru-denza come geneticamente propri del-l’istituto referendario. Per oltre untrentennio di ininterrotte decisionidella Corte, sono intrinseci al concettostesso di referendum. Da questo vieneche sia particolarmente intenso il vin-colo sulla stessa Corte ad attenersistrettamente ai precedenti, senza sba-vature dettate dalla contingenza politi-ca.

1.4) La reviviscenza della normapreesistente viene dalla Corte accettatanel caso della dichiarazione di illegitti-mità della disposizione abrogatrice[avvenuta per via legislativa: CorteCost., sent. 408/1998: “Tale disposi-zione abrogativa deve dunque esseredichiarata costituzionalmente illegitti-ma, con l’effetto di ripristinare l’effica-cia della disposizione abrogata”]. Ed èuna posizione corretta, dal momentoche nella pronuncia di accoglimento sitrova una fattispecie assimilabile all’an-nullamento, che produce i suoi effettiex tunc, fatti salvi i rapporti esauriti. Lanorma abrogata rivive perché vienemeno – tamquam non esset – quella abro-gatrice. L’abrogazione è stata in realtàmera apparenza. Invece, la impossibili-tà di una reviviscenza della normapreesistente nel caso di abrogazionereferendaria viene chiaramente affer-mata dalla Corte nella sentenza28/2011: “L’abrogazione, a seguitodell’eventuale accoglimento della pro-posta referendaria, di una disposizioneabrogativa è, infatti, inidonea a renderenuovamente operanti norme che, invirtù di quest’ultima, sono state giàespunte dall’ordinamento (sentenza n.31 del 2000)”.

E’ proprio in questo che si esprimela natura ablativa e preclusiva – e nonpropositiva – del referendum.Cancellare una norma esistente, eimpedire nel quinquennio una nuovainiziativa referendaria nel caso di esitonegativo del voto (artt. 37 e 38 l.352/1970). Questi sono i soli effettidella manifestazione di volontà popo-lare. Del resto, vi è piena coerenza conil concetto di abrogazione, che non è

nea allo stesso contesto normativo: sitratta di una abrogazione parziale, enon della costruzione di una nuovanorma mediante la saldatura di fram-menti lessicali eterogenei, che caratte-rizzerebbe un inammissibile quesitopropositivo (sentenze n. 34 del 2000 en. 36 del 1997)”. Mentre è inammissi-bile il quesito che non propone la meraeliminazione del vigente regime, maattraverso abrogazioni che investonoparole o locuzioni verbali inespressivedi contenuto normativo, tende, in real-tà, alla instaurazione di un sistemadiverso, in sostituzione di quello vigen-te [Corte Cost., sent. 43/2003]. Il car-dine concettuale è dato dalla “sostitu-zione” della disciplina oggetto del que-sito con un’altra “estranea allo stessocontesto normativo”. La Corte eviden-zia che proprio in siffatta sostituzioneemergerebbe una – costituzionalmenteinaccettabile – natura propositiva delreferendum. L’argomento è posto conriferimento alla “sostituzione” deri-vante da tecniche di ritaglio. Ma ancorpiù sarebbe vero quando la “sostitu-zione” fosse il risultato della revivi-scenza di un intero sistema normativoin precedenza vigente. Ed è del tuttoevidente che tale sarebbe appunto ilcaso se a seguito del voto referendariotrovasse applicazione un sistema elet-torale radicalmente diverso da quellovigente prima del referendum. Effettoche nella specie si produrrebbe egual-mente – come si è detto – sia per ilprimo che per il secondo quesito.

1.7) Si potrebbe forse obiettare cheuna situazione non dissimile si siadeterminata nel 1992-1993 con il refe-rendum sulla legge elettorale delSenato, su cui fu poi costruito legislati-vamente il Mattarellum. Ma sono quipossibili tre considerazioni.

La prima: il principio del collegiomaggioritario esisteva nella legge alloravigente, sia pure nella ipotesi residualedella elezione con il 65% dei voti, nel-l’ambito di un sistema proporzionaledi collegio. Dunque, il referendumdava luogo ad una evoluzione, certorilevante, ma partendo da elementistrutturalmente presenti nella legge. Alcontrario, nella legge 270/2005 l’interaarchitettura per collegi del precedentesistema elettorale è del tutto scompar-sa, per l’introduzione delle liste blocca-te. La seconda: la giurisprudenza dellaCorte Costituzionale sulla manipolati-vità del quesito si è venuta affinando in

scomparsa della norma abrogata, bensìè cessazione della sua applicabilità alleevenienze future [Corte Cost., sent.63/1970]. Da ciò dovendosi trarre cheil ripristino di tale applicabilità richie-derebbe una nuova volontà di produ-zione normativa. Ma è appunto talenuova volontà che il referendum – peressere abrogativo – non può porre inessere.

1.5) E’ esattamente per questi moti-vi che nelle sedi di iniziativa e di pro-duzione legislativa si richiede che lareviviscenza a seguito di abrogazione –laddove voluta – sia espressamentedichiarata. Il principio è esplicitamenteposto nella circolare PCM [Presidenzadel Consiglio dei Ministri] 2 maggio2001, n. 1/1.1.26/10888/9.92, “Guidaalla redazione dei testi normativi”. Alpunto 3.5 si legge: “Se si intende farerivivere una disposizione abrogatanon è sufficiente abrogare la dispo-sizione abrogativa, ma occorre speci-ficare espressamente tale intento, abro-gando la norma abrogatrice e richia-mando esplicitamente la norma abro-gata; ovvero, più semplicemente, abro-gando la norma abrogatrice e ripropo-nendo ex novo la disposizione giàoggetto di abrogazione. In ogni caso,la reviviscenza ha effetto ex nunc”.Identica formulazione si trova nellecircolari adottate dai Presidenti delleassemblee parlamentari.

Siffatte esplicite indicazioni si giusti-ficano proprio sull’assunto che per lareviviscenza sia necessaria la volontà diuna nuova produzione legislativa. Cheappunto è possibile e opportuno espli-citare nella sede appropriata, e che nonpotrebbe invece trovare fondamentonell’evento referendario.

1.6) Laddove invece si volesse acce-dere alla tesi della reviviscenza, i quesi-ti sarebbero – coerentemente con lepremesse poste – eccessivamentemanipolativi, rimanendo per tale diver-so motivo inammissibili.

Il rischio di un eccesso di manipola-tività trova radici nell’art. 75 Cost., lad-dove consente una abrogazione parzia-le, ed è intrinseco alla tecnica del “rita-glio”. La Corte afferma con chiarezza[Corte Cost., sent. 26/2011] che si puòescludere tale eccesso quando il quesi-to referendario è “diretto ad abrogareparzialmente la disciplina stabilita dallegislatore, senza sostituirne una estra-

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note politiche

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un momento successivo a quei primianni ’90. La terza: può ben essere chequella sentenza 32/1993 della Cortenon sia, alla fine, un buon precedente.La Corte avrebbe potuto trovare,anche nella giurisprudenza allorarecente, sostegno adeguato a unadichiarazione di inammissibilità delquesito rivolto verso la legge elettoraledel Senato. La sent. 47/1991 dichiarainfatti inammissibile un quesito analo-go – ancorché non identico – per lamancanza di chiarezza e di omogenei-tà del quesito, e per il rischio di unaparalisi, anche temporanea, nel funzio-namento di un organo costituzional-mente necessario qual è il Senato. Neltempo intercorrente fra le due decisio-ni, a partire dal marzo 1992, il terremo-to di Tangentopoli colpisce il sistemapolitico-istituzionale. Probabilmente,la tempesta politica ormai in pienosvolgimento al momento della secondapronuncia indusse la Corte a favorirel’introduzione nel sistema politico-isti-tuzionale di una forte innovazione.Sapendo bene, peraltro, che la decisio-ne rientrava a fatica nei precedenti,come testimoniano le frasi di chiusura:“La Corte non si nasconde che la nor-mativa di risulta può dar luogo adinconvenienti… Ma questi aspetti nonincidono sull’operatività del sistemaelettorale, né paralizzano la funzionali-tà dell’organo, e pertanto non mettonoin causa l’ammissibilità della richiestadi referendum. Nei limiti del divieto diformale o sostanziale ripristino dellanormativa abrogata dalla volontàpopolare (sent. 468 del 1990), il legisla-tore potrà correggere, modificare ointegrare la disciplina residua”.

Che sia stata una scelta giusta eopportuna, e che soprattutto spettassealla Corte farla, rimane un giudizioaperto.

2. Le ragioni di un referenduminammissibile

Ma come mai si giunge a quesiti chenon tengono conto della consolidatagiurisprudenza della CorteCostituzionale, e sono quindi gravatida forti e oggettivi dubbi di inammissi-bilità?

La spiegazione si trova nella genesidell’iniziativa, che era stata precedutadalla presentazione – con il sostegno distudiosi ed esponenti della società civi-le* – di altri, e diversi, quesiti referen-dari [ pubblicati in G.U. 10 giu. 2011, n.

giugno 2011, e l’orientamento dei que-siti in cui essa si traduceva. Ma nonmancava l’opinione contraria, forte-mente sostenuta in specie nel PartitoDemocratico, e fondata sulla convin-zione che la strada del bipolarismomaggioritario dovesse ad ogni costoessere difesa.

Autorevoli esponenti scendono incampo nel luglio 2011, tra cui Veltroni.La raccolta delle firme sui quesiti delgiugno 2011, che era stata appenaavviata, si blocca. E parte un controre-ferendum, orientato a resuscitare ilMattarellum attraverso i quesiti di cuioggi si discute. Un parto difficile,segnato dalla contesa interna ad unpartito, e probabilmente non privo diconseguenze. Tra queste, una apparen-te disattenzione per l’argomento didiritto…

* Tra gli altri, Stefano Passigli, GiovanniSartori, Enzo Cheli, Tullio De Mauro,Gianni Ferrara, Massimo Villone, JacopoSce, Daniel Pommier, Andrea Carandini,Gustavo Visentini, Claudio Abbado, DaciaMaraini, Renzo Piano, Inge Feltrinelli,Innocenzo Cipolletta, Margherita Hack,Benedetta Tobagi, Franco Cardini, MassimoTeodori, Umberto Ambrosoli, DomenicoFisichella, Enrico Scoppola.

(tratto da www.costituzionalismo.it)

133. Anche questi perseguivanol’obiettivo di uscire dal Porcellum. Mal’intervento abrogativo era orientatonel senso di cancellare dalla leggevigente il premio di maggioranza, l’in-dicazione del candidato premier e capodella coalizione o della lista, le listebloccate, e di uniformare le soglie disbarramento.

Nessun ritorno al Mattarellum, dun-que. E non solo per la impraticabilitàdi una impossibile reviviscenza, ma perun giudizio politico sulla necessità diuscire dal Porcellum con una soluzionediversa dal maggioritario uninominaledi collegio a turno unico. Sistema elet-torale che aveva forse anche avuto unpositivo impatto nella prima fase dellasua applicazione, nel pieno della crisidi sistema dei primi anni ’90. Ma cheaveva poi certamente contribuito adinnalzare la febbre politica e istituzio-nale. Il paese del Mattarellum non eraesempio di buon governo, di sana ecorretta amministrazione, di forti isti-tuti di responsabilità politica e istitu-zionale, di efficace rappresentanza. Erainvece il paese del populismo demago-gico, del leaderismo esasperato e dellapersonalizzazione estrema della politi-ca, del bipolarismo coatto e di trincea.Era il paese in cui il berlusconismo didestra e di sinistra prosperava.Bisognava uscirne. Questa letturasosteneva l’iniziativa referendaria del

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ASSURDITÀDEI “SACRIFICI”

Dialogo tra Sir Josiah Stamp e John Maynard Keynes,

BBC, 4 gennaio 1933, nel pieno della Grande Depressione

STAMP: E’ passato molto tempo,Keynes, da quando abbiamo avutooccasione di fare una chiacchierataconfidenziale, e molti giorni da quandoti ho insegnato qualcosa. Ora leggiamocontinuamente sui giornali, credorestando noi stessi confusi, tutte que-ste controversie sullo spendere e sulrisparmiare. A che conclusioni pensiche il pubblico sia giunto in merito?Ritieni che tutte queste discussioniabbiano fatto emergere dei punti parti-colari, rendendoli chiari, o è tutto cosìconfuso come all’inizio?

KEYNES: La mia impressione èche l’umore della gente stia cambian-do. C’era un bel po’ di panico circa unanno fa. Ma non è forse vero che ora cisi sta rendendo conto abbastanzageneralmente che la spesa di un uomoè il reddito di un altro uomo?Comunque, questa mi sembra essere laverità fondamentale, che non deve maiessere dimenticata. Ogni volta chequalcuno taglia la sua spesa, sia comeindividuo, sia come consiglio comuna-le o come ministero, il mattino succes-sivo sicuramente qualcuno troverà ilsuo reddito decurtato; e questa non èla fine della storia. Chi si sveglia sco-prendo che il suo reddito è statodecurtato o di essere stato licenziato inconseguenza di quel particolare rispar-mio, è costretto a sua volta a tagliare lasua spesa, che lo voglia o meno.

STAMP: Ciò significa che egli ridu-ce il reddito di un secondo uomo, e chequalcun altro rimarrà senza lavoro.

KEYNES: Sì, questo è il guaio. Unavolta che la caduta è iniziata, è diffici-lissimo fermarla.

STAMP: Un momento. Osserviamo

connesso col fatto che il contribuenteavrà di più, a compensare la perdita direddito dell’individuo che subisce iltaglio.

STAMP: Allora, ciò che intendiamorealmente è che, salvo il caso in cui lamancata spesa pubblica venga bilancia-ta da una spesa personale aggiuntiva, cisarà troppo risparmio. Dopo tutto, ilnormale risparmio è solo un differentetipo di spesa, trasmessa a qualche auto-rità pubblica o alle imprese, per pro-durre mattoni o macchinari. Il rispar-mio equivale a più mattoni, la spesa apiù scarpe.

KEYNES: Sì, questo è il problemain generale. A meno che qualcuno stiaeffettivamente usando il risparmio peri mattoni o per qualcosa di simile, lerisorse produttive del paese vengonosprecate. Insomma il risparmio non èpiù un altro tipo di spesa. Ecco perchédico che la deliberata riduzione di inve-stimenti utili, che dovrebbero normal-mente essere attuati con il debito, misembra, nelle attuali circostanze, unafollia e, addirittura, una politica oltrag-giosa.

STAMP: La difficoltà sta nell’indivi-duare ciò che tu chiami “investimentiutili normali”.

KEYNES: Al contrario. Il Ministrodella Sanità, se sono ben informato, stadisapprovando praticamente tutte lenormali richieste delle autorità locali diindebitarsi. Ho letto, per esempio, inun giornale – anche se non possogarantire i dati di persona – che unquestionario spedito al ConsiglioNazionale delle Imprese Edili mostrache qualcosa come 30 milioni di sterli-ne in lavori pubblici sono stati sospesi

il risparmio di un ministero o di unindividuo, e consideriamo il suo effet-to. Un paese o una città, proprio comeun individuo, debbono vivere nei limi-ti delle loro risorse o si troverebbero ingrave difficoltà se provassero a spin-gersi oltre. Molto presto intacchereb-bero il loro patrimonio.

KEYNES: Ci può essere solo unobiettivo nel risparmiare, ed è esatta-mente quello di sostituire una spesacon un altro e più saggio tipo di spesa.

STAMP: Sostituire! Questo mi facomprendere il punto. Ad esempio, seil governo o le autorità locali rispar-miassero per ridurre le imposte o isaggi di interesse e permettessero agliindividui di spendere di più; o se gliindividui spendessero meno in consu-mi, per usare essi stessi il denaro nellacostruzione di case o di fabbriche, oper prestarlo ad altri a tale scopo. Nonservirebbe tutto ciò ad aggiustare lecose?

KEYNES: Ma, caro Stamp, è que-sto che sta accadendo? Ho il sospettoche le autorità spesso risparmino senzaridurre i tassi di interesse o le imposte,e senza passare il potere di acquistoaggiuntivo agli individui. Ma anchequando il singolo riceve il potere diacquisto aggiuntivo, di solito sceglie lasicurezza o, quanto meno, pensa chesia virtuoso risparmiare e non spende-re. Ma non sono veramente questirisparmi, tesi a far abbassare i saggi e leimposte, che sono al centro delle miepolemiche. Sono piuttosto quelleforme di risparmio che comportanoun taglio della spesa, nei casi in cuiquest’ultima dovrebbe essere natural-mente coperta con il debito. Perché inquesti casi non c’è alcun vantaggio

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come risultato della campagna nazio-nale per il risparmio. La si dovrebbechiamare “campagna nazionale perl’intensificazione della disoccupazio-ne”!

STAMP: Per quale ragione si sonospinti fino a questo punto? Perchéstanno facendo questo?

KEYNES: Non posso immaginarlo.È probabilmente l’eredità di qualchedecisione presa in un momento dipanico molti mesi fa, che qualcuno hadimenticato di invertire. Pensa a quelloche significherebbe per lo stato d’ani-mo della nazione, e in termini umani,se avessimo anche solo un quarto dimilione di occupati in più. E non sonosicuro che le ripercussioni della ridu-zione della spesa si fermerebbero aquella cifra.

STAMP: Sono piuttosto suscettibileper quanto riguarda gli interventigovernativi. Comunque, prenderselacon un ministero, che lo meriti o no, èuna cosa completamente diversa dal-l’incitare gli individui a spendere di più.Anche se una sollecitazione a questiultimi potrebbe sembrare una cosasciocca e pericolosa; sciocca a causadella riduzione dei loro redditi, chepotrebbe rendere una spesa superioreinsopportabile; pericolosa perché, se siinizia con l’incoraggiare le persone aessere imprudenti e a rinunciare alleloro abitudini di frugalità, non si sadove si va a finire.

KEYNES: Sono pienamente d’ac-cordo. Non è l’individuo il responsabi-le, e non è quindi ragionevole attender-si che il rimedio venga dall’azione indi-viduale. Ecco perché pongo così tantol’accento sull’intervento delle pubbli-che autorità. Sono loro che debbonoavviare il processo. Non ci si deveaspettare che gli individui spendano dipiù, quando alcuni di loro stanno giàindebitandosi. Non ci si può aspettareche gli imprenditori procedano a degliinvestimenti aggiuntivi, quando stannogià subendo perdite. E’ la comunitàorganizzata che deve trovare modisaggi per spendere e avviare il proces-so.

STAMP: Voglio affrontare la que-stione anche dall’altro lato. Al fine diconservare l’abitudine individuale allaparsimonia, non è necessario che lepubbliche autorità sentano la loro

il bilancio nel lungo periodo sta nelriportare le cose nuovamente alla nor-malità, evitando così l’enorme aggra-vio che deriva dalla disoccupazione.Per questo sostengo che, anche nelcaso in cui si prende il bilancio comemetro di giudizio, il criterio per giudi-care se il risparmio sia utile o no è lostato dell’occupazione. In una guerra,per esempio, tutti sono al lavoro, e tal-volta anche attività importanti e neces-sarie non vengono svolte. Allora se siriduce un tipo di spesa, una spesa alter-nativa e più saggia la sostituirà.

STAMP: La stessa cosa accadrebbese il governo stesse attuando un gran-de progetto edilizio e un programmadi risanamento delle aree degradate.

KEYNES: Sì, o di costruzione dialtre ferrovie. O stesse bonificandoaltre terre, o ci fosse un’industria inrapida espansione a causa di nuoveinvenzioni, o qualsiasi altra ragione diquesto tipo.

STAMP: Ma se, come accade oggi,una metà della forza-lavoro e degliimpianti del paese sono inattivi, ciòindica che se un tipo di spesa vieneridotto, essa non sarà rimpiazzata dauna spesa alternativa più saggia.Significa che niente prenderà il suoposto: nessuno sarà più ricco e tuttidiverranno più poveri.

KEYNES: Trovo che siamo d’ac-cordo più di quanto pensassimo. Mamolte persone ritengono oggi che per-sino le spese praticabili costituiscano

responsabilità in questa direzione? Sequesta abitudine, così utile nella vitaindividuale, deve recare giovamentoalla comunità, è essenziale che si trovi-no modi utili di usare il denaro rispar-miato.

KEYNES: Sì, questo è ciò che dico.E inoltre, quello della diminuzione del-l’attività, e quindi del reddito naziona-le, non è un modo incredibilmentemiope in cui cercare di pareggiare ilbilancio?

STAMP: Bene, lasciando da partequalsiasi questione complessa riguar-dante il debito nazionale, mi sembrache tutto questo riguardi comunque ilMinistro delle Finanze in due modi.Innanzi tutto, deve far fronte alleindennità di disoccupazione per gliuomini licenziati, e poi deve tenerconto che il gettito delle impostedipende dal reddito degli individui odalle loro spese. Cosicché tutto ciò cheriduce sia il reddito che le spese degliindividui riduce il gettito delle imposte.E se si subisce una diminuzione dallato delle entrate e un incremento dallato delle uscite, si deve trovare unrimedio. Un bilancio squilibratodistrugge infatti il nostro credito,anche se c’è una differenza tra unperiodo normale e uno anomalo.

KEYNES: Ma, Stamp, non si potràmai equilibrare il bilancio attraversomisure che riducono il reddito nazio-nale. Il Ministro delle Finanze nonfarebbe altro che inseguire la sua stes-sa coda. La sola speranza di equilibrare

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una vera sciocchezza. Quando il consi-glio della contea decide la costruzionedi case, il paese sarà più ricco anche sele case non garantiranno alcuna rendi-ta. Se non si costruiscono quelle case,non avremo nulla da mostrare fattaeccezione per il maggior numero diuomini che ricevono un sussidio.

STAMP: Fermo restando che si pre-sti una ragionevole attenzione alle ideedella gente sul credito pubblico. Nonsarà una cosa buona per il governo, eper qualsiasi altra autorità, se si pensache sia sull’orlo della bancarotta.

KEYNES: Non credo che dellemisure che arricchiscono realmente ilpaese possano danneggiare il creditopubblico. Ti sei dimenticato chesostengo che è il peso della disoccupa-zione e la diminuzione del redditonazionale che mettono sottosopra ilbilancio. Risolviamo il problema delladisoccupazione e il bilancio si aggiu-sterà.

STAMP: Ciò per quanto riguarda laspesa pubblica. Perché non parliamodel risparmio individuale? Questo devecontinuare se ciascuno è ragionevol-mente prudente. Quali impieghiapprovi, e quali suggerimenti nuovifornisci?

KEYNES: Lasciami fare un esem-pio del tipo di cosa che mi sembra par-ticolarmente apprezzabile. Le coopera-tive edilizie hanno fatto uno splendidolavoro dalla guerra in poi, da una parteorganizzando la raccolta del risparmioe allo stesso tempo organizzando, dal-l’altra, l’impiego di ciò che raccoglieva-no nella costruzione di case. Hannocioè fatto in modo che le due attivitàcomplementari andassero di paripasso. E non è forse vero che corronoil rischio di attrarre più fondi di quelliche possono impiegare?

STAMP: Non farei alcun commen-to su ciò, salvo dire che mi fai sentirevirtuoso (NB: Stamp aveva una posi-zione di responsabilità nell’organizza-zione delle cooperative). Spero peròche non vorrai riferirti alle cooperativeper giungere alla conclusione che unmovimento come quello dei Certificatidi Risparmio Nazionali debba essereeliminato.

KEYNES: Stamp, stai pensandoalla nostra conversazione radiofonica

risparmio di essere utile e produttivoper la comunità. I nemici della parsi-monia sono quelli che, inibendo glisbocchi a ciò che viene accantonato, laprivano del suo scopo, e trasformanoquello che dovrebbe essere un pubbli-co beneficio in uno strumento cheaggrava la disoccupazione. Questo, loripeto, è ciò che accade nelle attuali cir-costanze. Se si tagliano le spese deiconsigli delle contee e delle altre pub-bliche autorità, non c’è la più piccolapossibilità che l’imprenditoria privatanazionale da sola sia in grado di usarerisorse per un ammontare che si avvi-cini anche soltanto lontanamente aquello che un’Inghilterra che crede nelprincipio della parsimonia, e che è inbuona salute e con un alto livello dioccupazione, sceglierebbe di rispar-miare.

STAMP: Non sei troppo pessimistasull’incapacità dell’impresa privata diassorbire disoccupati? Hai affrontatola questione tenendo conto delle stati-stiche sul risparmio del passato? Nonpensi che con una vera ripresa degliaffari possa esserci un’utilizzazione deirisparmi più rimarchevole di quella chesiamo propensi a immaginare oggi?

KEYNES: Ne dubito. Devi tenerconto del divieto ora in atto nei con-fronti della maggior parte dei prestitiesteri, che assorbivano una gran partedei nostri risparmi. Dobbiamo sosti-tuire tutto ciò. Dubito che l’imprendi-toria privata nazionale, perfino nei suoigiorni migliori, abbia mai assorbito lametà del risparmio nazionale, e consi-derando l’estensione in cui le pubbli-che utilità sono oggi in mani pubbli-che, sono certo che non potrannonemmeno in futuro. Sono per dare lamassima libertà all’imprenditoria pri-vata, e consentirle di impiegare tutto ilcapitale che può. Ma credo che ci sirifugi in un falso paradiso se si imma-gina che, in un qualsiasi futuro preve-dibile, essa possa assorbire l’ammonta-re che questo paese potrebbe rispar-miare se fosse prospero e tutti fosseroopportunamente occupati.

STAMP: Credo che non molte per-sone si siano confrontate con questomodo di porre il problema. Qual è ilsuo fondamento statistico? I risparmiraggiungono un certo ammontare.Essi sono vincolati, con le diverseopportunità di accantonamento esi-stenti – assicurazioni e simili – ad

di circa un anno fa. Sono stato moltofrainteso sulle cose che ho detto. Unadiminuzione del risparmio da partedelle classi di persone che acquistano icertificati mi sembra un rimedio dipoco conto. Avanzavo piuttosto la tesiche, quando i lavori pubblici vengonofermati, particolarmente in unmomento in cui gli imprenditori priva-ti si stanno bloccando a causa di unatemporanea eccedenza di capacità pro-duttiva, ovvero non si trovano nellaposizione di espandere la loro attività,il risparmio privato può determinaresolo danni. Ricordi quello che dissi –ogni sterlina risparmiata è un’occupa-zione cancellata. Mantengo ferma que-sta affermazione, e dubito che vorrainegarla.

STAMP: No, certamente. Se non sifa nulla con le risorse che sono stateliberate, le persone si saranno privatedi qualcosa di utile o piacevole, conl’unica conseguenza di cancellare illavoro di chi avrebbe dovuto lavorareper loro. Da ciò non devi però desu-mere che la spesa privata sia il rimedioche preferisco.

KEYNES: Al contrario. Io spingosulla spesa privata solo come un modoattraverso il quale degli individui bendisposti potrebbero porre un parzialerimedio al danno che il governo stafacendo, nel momento in cui riduce illavoro che dovrebbe mettere in motocome comunità organizzata. Secondome, non spetta ai privati cittadini spen-dere più di quanto spontaneamentefarebbero, non più di quanto lo sia ilfar fronte alla disoccupazione con lacarità privata. Queste cose dovrebberoessere fatte dalla comunità organizzatacome un tutto – vale a dire, dalle pub-bliche autorità.

STAMP: Sono contento di averticonsentito questo chiarimento, perchépenso che molte persone non abbianorealmente compreso che questa era lalinea di pensiero che stavi seguendo.Sono contento che tu non avanzi delleobiezioni alla parsimonia privata, fin-tanto che questa è in grado di assicura-re benefici, altrimenti nel lungo perio-do credo che produrresti dei guai mag-giori.

KEYNES: Certamente. Io stessorisparmio, talvolta. E sono dalla partedel risparmio per il fatto che sollecitouna politica che permetterebbe al

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andare avanti. Se un individuo, ragio-nevolmente previdente nei confrontidella sua stessa esistenza, accresce ilsuo risparmio, questo deve essereusato o con un’espansione degli inve-stimenti privati o con un aumento dellaspesa pubblica, o in entrambi i modi.Se questi due passaggi non intervengo-no emergono seri problemi sul pianodell’occupazione. Se c’è un divario, lacosa migliore è che gli imprenditoriaccrescano i loro affari per coprirlo. Seciò non accade, allora la cosa successi-va da fare è quella di accrescere laspesa pubblica. Se entrambe mancano,o per una qualsiasi altra buona ragionela spesa pubblica non può essereaumentata abbastanza, allora l’ultimoespediente o salvagente, per far equili-brare i due lati, è che gli stessi risparmidiminuiscano fino al punto in cui l’ec-cedenza rispetto ai due usi è scompar-sa. Ma in un modo o nell’altro la diffe-renza deve essere usata o fatta sparire.

KEYNES: Sì, e ripeto che non saràl’imprenditoria a farlo. Nel prossimofuturo non ci sarà un’espansione degliaffari privati in misura sufficiente perassorbire i risparmi. Pertanto le spesedelle diverse autorità pubbliche e deipubblici consigli, ecc. debbono essereaccresciute. Se questo non accadrà,l’alternativa dovrà essere quella diridurre i risparmi. Non si possonoavere entrambi.

STAMP: Condivido molto le tueconsiderazioni, ma ti prego di non trat-tare troppo superficialmente la que-stione dei bilanci pubblici non saggi esquilibrati. Quel tipo di principio deveancora oggi essere rispettato. Credoche la vera natura del nostro dilemmastia nel fatto che un principio non puòsempre andare avanti da solo nella vita,e due principi, ciascuno dei quali è insé eccellente, possono talvolta conflig-gere tra loro. Siamo costretti, ognivolta, a preferire l’uno o l’altro.Sappiamo che la persona saggia dicedue cose. Primo, il risparmio è cosabuona; risparmia tutto quello che puoi.Egli aggiunge, ridurre la spesa pubbli-ca è un male, smetti di farlo. Non sirende conto che se ciascuno di questiprincipi altamente virtuosi fosse porta-to ad un estremo, ne conseguirebbeuna grave alterazione dell’equilibrio deirisparmi. Insomma i due principisarebbero trattati, nell’ambito delnostro schema economico moderno,come una specie di necessità o di virtù

spendere in modo salutare dobbiamorisparmiare, ma è allo stesso tempovero il contrario, e cioè dobbiamospendere per rendere salutare il rispar-mio.

STAMP: In breve, questo nostrorisparmiare e spendere sono, o almenodovrebbero essere, pratiche gemelle.

meccanica; mentre gli orientamentisugli equilibri di bilancio rappresenta-no una necessità di tipo psicologico.

KEYNES: Tu torni sempre sullaquestione del bilancio. A questo pro-posito direi che questioni come quelladella copertura delle spese effettuatenon sono così importanti, ai nostrigiorni, come lo sarebbero in tempi diprosperità. E, penso, che il Ministrodelle Finanze sarebbe lungimirante seassumesse un punto di vista ottimisti-co e concedesse nel prossimo bilancioun maggior sollievo di quanto nonsarebbe strettamente giustificato daifatti effettivamente anticipabili. Se lofarà, aiuterà a rendere visibili i fatti chegiustificano l’ottimismo che avrà sceltodi praticare. Ma questo non è quelloche realmente voglio. Voglio le spese indebito. Voglio investimenti in infra-strutture di varia utilità. Concordo conte che, tradizionalmente, consideriamoappropriato finanziare tutte le iniziati-ve con il debito, e che le spese di que-sto tipo debbano essere sostenute dalleautorità locali o dal governo centrale.Credo inoltre che nel lungo periodouna politica di questo tipo aiuterebbeveramente il bilancio, più di quantonon possa l’altra politica, tesa a opera-re un taglio dopo l’altro.

STAMP: Quello che stai dicendo infondo è che nei periodi nei quali gliaffari vanno male le persone non intra-prendono, ed è in questi periodi chel’espansione dell’azione pubblicadovrebbe raggiungere il massimo. Nonfai invece alcun riferimento alle bancheo al saggio dell’interesse o ai prezzi!Meraviglioso! Penso che possiamo tro-varci d’accordo nel riconoscere cheattualmente non sia una cosa facileassicurare uno sbocco ai nostri rispar-mi, e pertanto concordo con te nelsostenere che non dovremmo ignorarequalsiasi opportunità si offra. Ci sonomigliaia di cose da fare se vogliamoessere una comunità attrezzata all’al-tezza delle nostre possibilità, unacomunità che si avvantaggia di tutti glisviluppi della scienza moderna.Potremo arricchirci solo facendo, nontagliando delle attività. Alziamoci ediamoci da fare.

KEYNES: Sì, il fatto è che il rispar-mio e la spesa sono nell’essenza attivi-tà complementari. Lo scopo del rispar-mio è quello di spendere il risparmiatoin attrezzature utili e necessarie. Per

JOHN M. KEYNES NOTA BIOGRAFICA

Nasce a Cambridge il 5 giugno 1883.Nel 1897 viene ammesso a Eton con

una borsa di studio. Nel 1902 entra alKing’s College. Nel 1906 vince un con-

corso per la Pubblica Amministrazione eviene assegnato all’Ufficio per l’India.

Nel 1908 è nominato lettore diEconomia all’Università di Cambridge.

L’anno successivo è ammesso comeFellow al King’s College. Nel 1911

diventa direttore dell’Economic Journal.Nel 1913 pubblica il suo primo testo

significativo, Indian Currency andFinance. Nel corso della Prima Guerra

Mondiale fa parte degli esperti delMinistero del Tesoro, e sarà il principale

rappresentante di questo Ministero allaConferenza di Pace. Nel 1919 si dimette

dal Ministero del Tesoro per dissensosulle condizioni del Trattato di Pace.

Subito dopo pubblica un’articolata criticadel Trattato con il titolo Le conseguenze

economiche della pace, che lo rendefamoso nel mondo. Nel 1920 lascia la

carica di lettore di Economia all’universi-tà. Nel 1921 pubblica un Trattato sulla

probabilità. Nel 1923 La riforma moneta-ria. Nel 1925 sposa una famosa balleri-na classica russa, Lydia Lopokova. Nel1930 pubblica il Trattato sulla moneta.Nel 1931 Esortazioni e profezie e nel1933 Politici ed economisti. Nel corso

della grande crisi è molto attivo neldibattere a favore di un profondo cam-

biamento nel sistema economico. I risul-tati di un complesso approfondimento

delle tendenze di lungo periodo delsistema capitalistico vengono raccolte

nella sua opera più importante, Unateoria generale dell’occupazione, dell’in-

teresse e della moneta, pubblicata nel1936. Durante la Seconda Guerra

Mondiale assume posizioni di responsa-bilità, tra le quali quella di Direttore della

Banca d’Inghilterra. Dopo la guerra,partecipa alla conferenza di Bretton

Woods e a quella di Savannah che cer-cano di fornire gli strumenti per una sta-

bile cooperazione internazionale. Nel1946 muore a Tilton. I suoi scritti e una

parte della sua corrispondenza sonoraccolti nei trenta volumi dei Collected

writings of John M. Keynes, curati da D.Moggridge, e editi da MacMillan.

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GRECIA,ARGENTINA:somiglianze edifferenze

I paragoni sono frequenti. E non solamenteperché a oggi quello dell’Argentina è il piùgrosso fallimento di uno stato della storia

recente. Lo psicodramma greco comportauna quantità di similitudini con la crisi che

ha spinto l’Argentina al fallimento del 2001:impossibilità della salutazione, brutale

degrado della competitività, esplosione deldebito pubblico, frode fiscale,

intervento del Fondo MonetarioInternazionale (FMI)…

di CLÉMENT LACOMBE

Tutto comincia nel 1991. perporre termine all’iper-infla-zione che disastra il paese

(5.000% nel 1989!), il governo argenti-no decide di agganciare il peso, lamoneta locale, al dollaro. Si tratta “didimostrare ai mercati finanziari che ilsuo sistema monetario non è statoscombinato”, spiega Christine Rifflart,dell’Osservatorio francese sulle con-giunture economiche.

Le notevoli somiglianze

Ma l’aggancio del peso al dollaro sitrasforma in palla al piede a partire dal1997, data della crisi asiatica e brasilia-na: questi paesi svalutano per rimetter-si in sesto. L’Argentina, però, è blocca-ta dalla parità fissa tra la sua divisa e ildollaro, la sua competitività cade, iconti pubblici degradano, la recessionenel 1998 si impone.

Nel novembre del 2000 l’FMIimpone un piano drastico di rigore…che aggrava ulteriormente la situazio-ne. Si installa un circolo vizioso. Nel2001 il prodotto interno lordo (PIL)cade del 15%, l’FMI reclama nuovitagli, finendo per bloccare un aiuto neldicembre del 2001… Il paese sfioral’esplosione, tre presidenti si succedo-no in dieci giorni. Buenos Aires sidichiara unilateralmente in fallimentoin relazione al suo debito e separa ilpeso dal dollaro allo scopo di poterrespirare.

Con la svalutazione, il debito pub-blico, definito in dollari, passa dal 60%al 150% del PIL. Il paese avvia perciò

brasiliano, a una politica protezionista,ma pure e soprattutto all’esplosionedel corso mondiale delle materie primeagricole, che rappresentano il 55%delle esportazioni del paese. Ora se lacrisi argentina è stata l’ultima di unciclo riguardante i paesi emergenti, lacrisi che colpisce la Grecia è piuttostola prima in Europa… E Atene non haniente della sua produzione da vende-re all’estero.

Altra differenza: la natura dei credi-tori. “Riguardo alla Grecia il potenzia-le di crisi sistemica è molto più forte”,ritiene Carlos Quenan, ricercatorepresso l’Istituto di alti studidell’America latina ed economistapresso Natixis. “Il debito argentino eramolto disperso, riguardava investitorisparsi dappertutto nel mondo. Il debi-to greco, invece, è molto più concen-trato presso le banche europee”.

Reste poi che l’Argentina aveva unhandicap di grande peso: il paese erasolo, non disponeva di un prestatore inultima istanza come l’Europa riguardoalla Grecia…

Dieci anni dopo, l’Argentina non haancora voltato totalmente la paginadella crisi: l’accesso la mercato interna-zionale dei capitali è tuttora bloccato,l’inflazione è largamente sottovalutatanelle statistiche ufficiali, e la classemedia del paese non ha ancora recupe-rato le condizioni di vita di un tempo.

(Da Le Monde via web, 21.11.2011)

duri negoziati con i suoi creditori pri-vati:: in due tempi, nel 2005 e nel 2010,l’Argentina impone loro uno scontomedio del 60% sui propri titoli in loropossesso, e il loro 90% alla fine accet-terà quest’offerta.

Il paese decide pure di rimborsareun una sola volta, nel 2005, il suo debi-to con il FMI, allo scopo di tagliaredefinitivamente ogni legame con que-st’istituzione. Resta ancor oggi da sal-dare il debito privato (per il 10% del-l’ammontare iniziale) e 9 miliardi didollari di debito bilaterale pubblico, inogni caso il debito è caduto al 45% delPIL.

Se il parallelismo delle cause chehanno portato alle crisi argentina egreca è evidente, Atene non ha tuttaviaassolutamente interesse a seguirel’esempio di Buenos Aires. In primoluogo perché il debito greco raggiungeattualmente il 160% del PIL, circa trevolte la percentuale in Argentina primadella svalutazione. E se Atene uscissedall’euro, la sua percentuale non man-cherebbe di esplodere…

Creditori però e andamenti econo-mici molto differenti

Oltre a ciò Buenos Aires ha potutobeneficiare, allo scopo di equilibrare ilsuo bilancio, di una crescita molto ele-vata lungo tutti gli anni 2000: con lasola eccezione del 2009 (+0,9%), ilpaese ha sempre visto accrescere il PILalmeno del 6,8%. Un boom legato inparticolare a dei recuperi di competiti-vità, allo slancio economico del vicino

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REFERENDUM“SULL’ACQUA”e crisi democratica

Il 12 e il 13 giugno 2011 il popolo italiano èstato chiamato alle urne per decidere, tra

l’altro, se abrogare o meno l’art. 23 bis d. l.n.112/2008 (il c.d. “decreto Ronchi”, unanorma molto complessa e farraginosa inmateria di servizi pubblici locali), nonchél’art. 154, co. 1 d.lgs. n. 152/2006 (il c.d.Codice dell’ambiente) limitatamente allaparte in cui prevedeva che la tariffa del

servizio idrico integrato incorporasse ancheun’adeguata remunerazione del capitale

eventualmente investito dall’affidatario del servizio medesimo

di LUCA NIVARRA

Come è noto, il quorum fissa-to dall’art. 75 Cost. è statoampiamente superato (a

votare si è recato il 57% degli aventidiritto) ed il 95% circa dei votanti si èpronunciato a favore dell’abrogazionedelle due disposizioni normativeoggetto dei quesiti referendari

Un referendum in realtà a tutela diuna vasta parte dei servizi pubblicilocali

Il referendum in questione, impro-priamente identificato nella vulgatapropagandistica e mediatica, come ilreferendum “sull’acqua”, o “contro laprivatizzazione dell’acqua” o, ancora,per la “ripubblicizzazione dell’acqua”,aveva, in realtà, una portata ben piùampia dal momento che la disciplinaintrodotta dall’art. 23 bis (oggetto delprimo quesito referendario) riguardavatutti i servizi pubblici locali, eccezionfatta per quelli inerenti la distribuzionedel gas naturale, la distribuzione del-l’energia elettrica, la gestione delle far-macie comunali ed il trasporto ferro-viario regionale: sicché il puntuale rife-rimento all’acqua poteva valere soloper il secondo quesito, relativo ad unacomponente della tariffa del servizioidrico integrato. Nella sostanza,l’obiettivo politico del “decretoRonchi” era quello di imprimere unabrusca accelerata ai processi di priva-tizzazione dei servizi pubblici locali: eciò, per un verso, restringendo ad alcu-ne ipotesi eccezionali la possibilità, perl’ente locale, di far ricorso alla gestionein house e, per altro verso, preveden-do un calendario di dismissioni coatte,

conflitto di attribuzione proposto dasette Regioni a statuto ordinario).

Successivamente, con la sentenza n.24/2011, la Corte costituzionaleammette il primo quesito referendariosulla base di una motivazione che, purnella sua sinteticità, si colloca in perfet-ta continuità con la già richiamata pro-nunzia n. 325/2010. Osserva, infatti, laCorte che “nel caso in esame, all’abro-gazione dell’art. 23-bis, da un lato, nonconseguirebbe alcuna reviviscenzadelle norme abrogate da tale articolo;dall’altro, conseguirebbe l’applicazioneimmediata nell’ordinamento italianodella normativa comunitaria (come si èvisto, meno restrittiva rispetto a quellaoggetto di referendum) relativa alleregole concorrenziali minime in temadi gara ad evidenza pubblica per l’affi-damento della gestione di servizi pub-blici di rilevanza economica. Ne derival’ammissibilità del quesito per l’insussi-stenza di impedimenti di natura comu-nitaria. Il quesito non ha ad oggettouna legge a contenuto comunitaria-mente vincolato (e, quindi, costituzio-nalmente vincolato, in applicazionedegli artt. 11 e 117, primo comma,Cost.), perciò l’eventuale abrogazionereferendaria non comporterebbe alcuninadempimento degli obblighi comuni-tari. Infatti, da essa non deriva, in temadi regole concorrenziali relative ai sud-detti servizi pubblici, né una lacunanormativa incompatibile con gli obbli-ghi comunitari né l’applicazione di unanormativa contrastante con l’assettoconcorrenziale minimo inderogabil-mente richiesto dall’ordinamentocomunitario”.

in virtù del quale, al più tardi entro il31 dicembre 2015, nella gestione deiservizi sarebbero dovute subentrare, aseguito dell’esperimento di una proce-dura di gara europea, o società a capi-tale interamente privato o società acapitale misto, con partecipazione delsocio privato non inferiore al 40% delcapitale sociale.

Secondo la Corte costituzionale,che, qualche mese prima della celebra-zione del referendum, in una suaimportante pronunzia si era prodottanell’accurata ricostruzione della mate-ria dei servizi pubblici locali, l’art. 23bis aveva, appunto, fornito un’applica-zione restrittiva del diritto comunitariorompendo quell’equilibrio tra le treforme di gestione che, viceversa, pro-prio sulla scorta del diritto dell’UE, erastato consacrato nell’art.113 TUEL[Testo Unico Enti Locali]: ma, lasciavaintendere abbastanza chiaramente laCorte, in realtà si trattava di una restri-zione solo apparente, perché il risulta-to pratico cui, in sostanza, la disciplinaindigena approdava con il decretoRonchi determinava un incrementosecco dei margini entro i quali sarebbestato possibile, anzi necessario, ricorre-re alla gara, con evidente beneficio perla concorrenza, vero principio ispirato-re della normativa comunitaria anchein materia di servizi pubblici locali(salvo quanto previsto dall’art.106,co.2 TFUE, su cui dirò qualche cosapiù avanti) e, al contempo, ambito dicompetenza legislativa esclusiva delloStato ai sensi dell’art. 117, co.2 lett. e)Cost. (ciò che consentì alla Corte, inquella sede, di rigettare il ricorso per

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In altri termini, là dove il decretoRonchi, in definitiva, restringeva a duele opzioni gestorie praticabili in mate-ria di servizi pubblici (società a capita-le interamente privato, società a capita-le misto, con partecipazione del socioprivato non inferiore al 40%), senzaper questo porsi in contrasto con ildiritto dell’UE, imperniato sullo sche-ma della tripartizione equivalente, lasua abrogazione avrebbe comportato ilpieno ripristino di quello schema, conin più la possibilità di fare ricorsoall’art.106, co.2 TFUE [Trattato sulFunzionamento dell’Unione Europea].Come si vede, nulla di eversivo e tuttonel solco di una piena conformità alladisciplina comunitaria la quale, anzi,come puntualizza la Corte, a seguitodell’uscita di scena dell’art. 23 bis (edell’art.113, co. 5, 5 bis, 6-8, 9 (esclusoil primo periodo), 14, 15 bis-15 quaterTUEL (tutte disposizioni che, comepure la Corte aveva chiarito, già abro-gate dall’art. 23 bis, non avrebbero inogni caso beneficiato di alcun effettodi reviviscenza), era destinata a trovarediretta applicazione. In più, risulta diassoluta evidenza come mai la Corte,in queste due importanti pronunzieche hanno preceduto il referendum,abbia dubitato (né avrebbe potutoessere altrimenti) della circostanza cheil decreto Ronchi valesse per tutti i ser-vizi pubblici locali, tranne quelli daesso espressamente esclusi.

I tentativi illegali di governo edell’UE di svuotare il referendum

In prossimità della celebrazione delreferendum, il Governo allora in caricaassume alcune iniziative volte, se nonad impedire, quanto meno a sterilizza-re l’appuntamento elettorale. Tra que-ste si segnala, un particolare, l’istituzio-ne dell’Agenzia Nazionale di Vigilanzasulle Risorse Idriche (art. 10, co. 11 –27 d.l.. n. 70/2011, c.d. decreto svilup-po), la famosa Authority che già duran-te la campagna per la raccolta dellefirme e, poi, nei mesi successivi, erastata oggetto di un’invocazione biparti-san (liberisti di destra: il MinistroRonchi; liberisti di sinistra: l’ammini-strativista Giulio Napolitano) qualeantidoto certo ed infallibile ai rischidella privatizzazione. Il nuovo organi-smo, munito delle competenze tipichedelle Autorità chiamate ad esercitareun controllo sui mercati delle publicutility, destinato a prendere il postodella incolore Commissione Nazionale

negli altri casi, l’attribuzione di diritti diesclusiva alle ipotesi in cui, in base aduna analisi di mercato, la libera iniziati-va economica privata non risulti ido-nea a garantire un servizio rispondenteai bisogni della comunità”. Dunque,come è evidente, la nuova disciplinareintroduce, a carico degli enti, unobbligo di privatizzazione dei servizipubblici anche se, naturalmente, lemodalità prescelte sono, almeno inparte, diverse da quelle davvero bruta-li a suo tempo adottate dal “Ronchi”.Infatti, gli esiti della “verifica” di cui alco.1 vanno consegnati ad una relazione(co.2) da inviarsi all’AGCM (AgenziaGenerale per la Concorrenza diMercato) e, in ogni caso, tale medesimaverifica va ripetuta annualmente (co.4).Ma v’è di più: esattamente come l’ap-pena abrogato art. 23 bis, anche il c.d.decreto d’agosto vulnera l’equiordina-zione di matrice comunitaria delle treforme di gestione del servizio pubbli-co (il ripristino della quale era stato,come si è visto, l’effetto più significati-vo del referendum) là dove consente ilricorso alla gestione in house soltantoquando “il valore economico del servi-zio oggetto dell’affidamento è pari oinferiore alla somma complessiva di900.000 euro annui” (co. 13). Inoltre,perfidamente, il legislatore introduceun ulteriore, anche se indiretto, limiteall’affidamento in house, assoggettan-do quest’ultimo al “patto di stabilità”(co. 14), ossia alle stringenti regole chegovernano l’indebitamento degli entilocali.

Infine, lo sbalordito lettore si imbat-te nel co. 34 a mente del quale “sonoesclusi dall’applicazione del presentearticolo il servizio idrico integrato, ilservizio di distribuzione di gas natura-le, il servizio di distribuzione di energiaelettrica, il servizio di trasporto ferro-viario regionale, nonché la gestionedelle farmacie comunali”. Dico lo sba-lordito lettore perché questa incredibi-le disposizione contiene l’esplicita con-fessione della circostanza, di cui il con-ditor iuris si mostra, appunto, perfetta-mente consapevole, che la “nuova”disciplina ripropone, nella sostanza,quella abrogata, infatti il servizio idricointegrato viene adesso posto sullo stes-so piano di quelle tipologie di serviziopubblico locale che, come si rammen-terà, l’art. 23 bis aveva esonerato dal-l’applicazione di sé medesimo. E nonsolo: perché anche il meno provvedutodegli interpreti si chiederà, del tutto

di Vigilanza sulle Risorse Idriche, vienesubito, e prevedibilmente, messo alservizio della causa del “NO” all’abro-gazione dell’art. 23 bis: ma con scarsosuccesso, posto che, al momento delvoto, a prevalere nettamente sarà il“SI”.

All’indomani del referendum, tuttosembra fermarsi. Mentre il Paese sci-vola verso la crisi finanziaria che poidivamperà nell’agosto successivo,Governo, forze politiche ed organi diinformazione tornano alla strategia delsilenzio e dell’indifferenza seguita neimesi precedenti, durante la raccoltadelle firme e la campagna elettorale:anzi, molti opinion maker economici,anche riconducibili all’area del PdR(“Partito di Repubblica”), che negliultimi giorni prima del 12 e del 13 giu-gno si era strumentalmente schierato asostegno del “SI” nella speranza, poirivelatasi vana, che il successo del fron-te referendario provocasse la immedia-ta caduta di Berlusconi, tornano areclamare un piano di rapida e radicaleprivatizzazione dei servizi pubblicilocali, nel duplice nome dell’efficienzae del risanamento della finanza pubbli-ca.

Il 20 luglio 2011 appaiono sullaGURI [Gazzetta Ufficiale dellaRepubblica Italiana] i due DPR[Decreti della Presidenza dellaRepubblica] nn. 113 e 116 con cui, inragione dell’esito della consultazionepopolare, viene disposta l’abrogazioneintegrale dell’art. 23 bis e quella parzia-le dell’art. 154, co. 1 D.lgs. n.152/2006.Orbene, a distanza di sole tre settima-ne, sulla GURI del 13 agosto 2011viene pubblicato il d.l. n. 138/2011(“Ulteriori misure urgenti per la stabi-lizzazione finanziaria e per lo svilup-po”), poi convertito con modifichenella l. n.148/2011, il quale, all’art. 4,(impudentemente rubricato“Adeguamento della disciplina dei ser-vizi pubblici locali al referendumpopolare e alla normativa dall’Unioneeuropea”) co. 1 dispone che “gli entilocali, nel rispetto dei principi di con-correnza, di libertà, di stabilimento e dilibera prestazione dei servizi, verifica-no la realizzabilità di una gestione con-correnziale dei servizi pubblici locali dirilevanza economica, di seguito "servi-zi pubblici locali", liberalizzando tuttele attività economiche compatibilmen-te con le caratteristiche di universalità eaccessibilità del servizio e limitando,

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legittimamente, come mai l’esenzioneriguardi il solo servizio idrico, dalmomento che la norma abrogata avevaad oggetto tutti i servizi pubblici loca-li, salvo quelli che lo stesso “Ronchi”aveva espressamente esentato (distri-buzione gas naturale, distribuzione dienergia elettrica ecc.). E la risposta èche il legislatore dell’emergenza finan-ziaria approfitta della fuorviante eti-chetta mediatica e propagandistica delreferendum, frutto, almeno per quelche riguarda i promotori, di un mistodi ingenuità e di inevitabile approssi-mazione, per abusivamente circoscri-vere gli effetti dell’abrogazione al soloservizio idrico. Non credo sia necessa-rio spendere altre parole sul punto, masono certo che quando domani siporrà mano alla ricostruzione di questafase della storia di Italia, l’imbroglioconsumatosi ai danni della sovranitàpopolare secondo le modalità levanti-ne che ho appena richiamato riveleràcon chiarezza quale fosse il livello didegrado raggiunto dalla nostra interaclasse dirigente, dentro e fuori le istitu-zioni. Non credo neppure sia necessa-rio richiamare quella giurisprudenzadella Consulta secondo la quale sussi-ste “il divieto di formale o sostanzialeripristino della normativa abrogatadalla volontà popolare”. Infatti, al di làdella disputa dottrinale che divide ifautori della intangibilità dell’esito refe-rendario in nome del primato dellasovranità popolare esercitata in formadiretta, da coloro per i quali il verointerprete e depositario della volontàpopolare sarebbe il Parlamento, cui,pertanto, sarebbe sempre consentito ditornare sulla materia incisa dal referen-dum, anche contraddicendone i risulta-ti, è fuor di dubbio che, qui, siamo inpresenza, appunto, di un vero e pro-prio imbroglio con il quale non soltan-to il referendum viene svuotato dellesue conseguenze normative, ma, per dipiù, secondo modalità che, almenonelle intenzioni degli artefici del truc-chetto, dovrebbero occultare il verosignificato dell’operazione e, quindi,preservare Governo e Parlamento dal-l’onere che sempre implica un’assun-zione di responsabilità politica.

Da ultimo, non sarà inutile rammen-tare che il d.l. n. 138/2011 viene adot-tato sotto la imperiosa pressione degliorganismi comunitari e, in particolare,della BCE la quale, in data 5 agosto2011, invia al Presidente del Consiglioallora in carica, Silvio Berlusconi, una

plesso politico, istituzionale ed econo-mico dominante. Da questo punto divista, esse finiscono per dirci moltosullo stato di crisi della democrazia(così come, del resto, sul caratterepuramente declamatorio di un princi-pio di sussidiarietà ridotto a contropo-tere): è evidente, infatti, che, in questocaso, il disallineamento tra “centro” e(alcuni pezzi di) “periferia” non hanulla a che vedere con la normale dia-lettica di un ordinamento multilivello,perché la posta in gioco non è l’esattadelimitazione degli ambiti di compe-tenza dell’uno o dell’altro livello istitu-zionale, quanto, piuttosto, la concretiz-zazione dell’indirizzo politico nella suaforma più impegnativa, quella che traelegittimazione formale e, al contempo,sostanza veritativa dalla manifestazio-ne diretta della volontà popolare.

Il 26 ottobre 2011 il Consigliocomunale di Napoli ha approvato, alarghissima maggioranza, la Deliberadi Giunta comunale 23.9.2011, n. 942recante “Proposta al Consiglio:Indirizzo per la trasformazionedell’ARIN SpA in azienda speciale eapprovazione dello schema di statuto”.Secondo Alberto Lucarelli, titolare delnuovo assessorato ai Beni comuni, “èstato scelto un modello giuridico pub-blico che non fosse una riproposizionedel passato ma un modello diverso, daassociare al bene comune oltre la dico-tomia pubblico/privato. L’Azienda(chiamata Società ABC, acqua benecomune) che ha l’obbligo di reinvestiregli utili e migliorare le infrastrutturecon progetti di interesse collettivo, pre-vede una partecipazione collettiva deicittadini, un potere consultivo dei lavo-ratori attraverso il comitato di sorve-glianza ma, soprattutto dà un ruolonuovo al Consiglio comunale non solodi indirizzo della gestione ma anche diapprovazione di atti fondamentalidell’Azienda, come il bilancio”. Ilsecondo firmatario della delibera, l’as-sessore Realfonzo, ha aggiunto che “ilritorno alla gestione pubblica dell’ac-qua a Napoli si è reso necessario dopol’esperienza della privatizzazione che,invece di incrementare gli investimenti,aveva determinato un notevole aumen-to delle tariffe. Sul piano fiscale – hadetto Realfonzo – vale il principio dellaneutralità e la trasformazione inAzienda Speciale, società di dirittopubblico, consentirà un controllopieno e totale sull’attivitàdell’Azienda”.

lettera (il cui contenuto sarà reso dipubblico dominio solo a distanza diqualche mese) nella quale esplicita-mente si individua, tra le misure urgen-ti da adottare per far fronte all’emer-genza finanziaria, “a comprehensive,far-reaching and credible reform stra-tegy, including the full liberalisation oflocal public services and of professio-nal services… This should apply parti-cularly to the provision of local servi-ces through large scale privatizations”(una complessiva, di vasta portata ecredibile strategia di riforma, compre-sa la piena liberalizzazione dei servizipubblici locali e dei servizi professio-nali… Ciò dovrebbe in particolareapplicarsi attraverso privatizzazioni suvasta scala alla fornitura dei servizilocali), spingendosi sino al punto didettare al governo precise istruzionianche in ordine modo di procedere,giacché, secondo l’ineffabile coppiaTrichet (l’uscente)-Draghi (l’entrante),le misure in questione vanno adottate“with decree-laws, followed byParliamentary ratification by endSeptember 2011” (con decreti-leggeseguiti da ratifica parlamentare entro ilsettembre 2011): ciò che, poi, è pun-tualmente accaduto.

Alcuni poteri locali hanno tuttaviaattuato il risultato referendario

Le uniche agenzie istituzionali chehanno provato a dare un concretoseguito al risultato del referendumsono stati alcuni enti locali che si sonomossi, come vedremo da qui a breve,nella triplice direzione di una “ripub-blicizzazione” della gestione del servi-zio idrico integrato (con ciò manife-stando una certa subalternità alla lettu-ra mainstream, strumentalmente ridutti-va della portata dell’art. 23 bis e dellasua abrogazione), di una razionalizza-zione del sistema di governo del setto-re, e della previsione di nuove forme dipartecipazione democratica che vor-rebbero tradurre e dare voce al profilopiù propriamente civile della parolad’ordine dei beni comuni. Prenderòbrevemente in esami alcuni casi emble-matici, non senza, però, aver formula-to un’osservazione di carattere prelimi-nare. Infatti, ciò che veramente colpi-sce di queste esperienze locali è il lorocarattere marcatamente controegemo-nico, nel senso di un uso di poteri eattribuzioni legali finalizzati ad oppor-si alla illegalità (formale e sostanziale)delle azioni e delle decisioni del com-

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Infine, sempre su iniziativa diLucarelli, è stata istituita la“Costituente per i Beni Comuni”, unorganismo aperto a singoli, associazio-ni e movimenti che dovrebbe proporsicome interlocutore attivo del Comunenella elaborazione e nella implementa-zione di tutte le politiche relative allamateria dei servizi, latamente intesi,destinati ai cittadini. Naturalmente,siamo in presenza di vere e propriesperimentazioni, circa le quali è impos-sibile, allo stato, azzardare un giudizio.E’ certo, però, che da esperienze comequeste si trae conferma di quantoosservato più sopra: e cioè che oggi siè determinato un contesto nel quale,perfino in presenza di un processo e diun esito tutti interni al quadro giuridi-co-istituzionale dato, le pratiche intesead attuare e valorizzare l’espressionedella volontà popolare finiscono perassumere i tratti di un’azione controe-gemonica, volta ad introdurre elemen-ti di contraddizione all’interno di unquadro caratterizzato da una uniformevolontà di sabotaggio del risultatoreferendario, che non quelli di policiesfinalizzate ad un fisiologico allinea-mento del sistema istituzionale e nor-mativo alle univoche indicazioni pro-venienti dal detentore di ultima istanzadella sovranità.

Per quanto riguarda la RegionePuglia, importanti novità in materia diservizio idrico integrato sono stateintrodotte mediante due recenti leggi.L’intervento più rilevante sembra esse-re quello di cui alla l.r. n. 11/2011 laquale, all’art. 5, ha istituito l’Aziendapubblica regionale denominata“Acquedotto pugliese (AQP)” Essa èun soggetto di diritto pubblico, non hafinalità di lucro e persegue il pareggiodi bilancio. Con la l.r. n. 9/2011 è stataistituita l’Autorità idrica pugliese, sog-getto rappresentativo dei comunipugliesi per il governo pubblico del-l’acqua, con sede legale avente perso-nalità giuridica di diritto pubblico econ funzioni di Autorità d’Ambito (v.art. 2).

Un cenno merita anche la propostadi legge di iniziativa popolare “Principiper la tutela, il governo e la gestionepubblica delle acque. Adeguamentodella disciplina del servizio idrico allerisultanze del referendum popolare del12-13 giugno 2011”, presentataall’Assemblea Regionale Siciliana dalForum dei Movimenti per l’Acqua.

referendum è stata decisa da una seriedi interventi informali provenienti dasoggetti privi di qualsiasi legittimazio-ne democratica (lettere e questionaridella Banca Centrale Europea e dellaCommissione Europea) e da provvedi-menti adottati dal Governo italianosotto forma di decreto in un clima diemergenza nazionale.

Scriveva Fraenkel all’inizio di DerDoppelstat, la sua opera più celebreuscita negli Stati Uniti nel 1940: “laCostituzione del Terzo Reich è lo statod’assedio. La sua carta costituzionale èil Decreto d’emergenza per la difesadel popolo e dello Stato del 28 febbra-io 1933”. Oggi, a distanza di ottantaanni, la nostra costituzione materiale siidentifica, in larga misura, con gli inte-ressi del capitale, a fronte dei qualineppure la più genuina espressionedella volontà popolare riesce ad impor-si. Da questo punto di vista, la vicendadel referendum “sull’acqua” si inseri-sce all’interno di un ciclo storico lungocaratterizzato dalla circostanza che ilcapitale ha ormai preso congedo dallademocrazia “storicamente realizzata”di cui pure era stato artefice, per entra-re in una fase di segno chiaramenteregressivo: a che cosa tutto ciò preludanon è possibile dire, ma di certo a nes-suno è più consentito di nutrire illusio-ni sulla riformabilità di un sistemaormai mosso solo da un’incontenibilevolontà di potenza.

Anche qui i punti salienti sono rappre-sentati dal ricorso, per la gestione delservizio, alla forma dell’AziendaSpeciale, o del consorzio tra Comuni(art.7, co.1) sulla scorta di un esplicitorichiamo all’art. 106, co.2 TFUE (art.4, co.1); dalla ripubblicizzazione di“Siciliacque” (art. 6), il vecchio “EnteAcquedotti Siciliano”, con compiti, alivello di sovrambito, di fornitura dellarisorsa idrica ai singoli ATO [AmbitiTerritoriali Ottimali]; dalla istituzionedi un organo di governo del settore suscala regionale (l’Autorità di BacinoDistrettuale: art.3); dalla previsione diforme di governo partecipativo delservizio idrico integrato (art.11).

Conclusioni

La storia che ho raccontato nellepagine precedenti riveste un significatodavvero emblematico. La mobilitazio-ne promossa con successo dal “Forumdei movimenti per l’acqua” contro laprivatizzazione coatta dei servizi pub-blici locali ha inferto al liberismo uncolpo durissimo, sia dal punto di vistastrutturale, impedendo o, quantomeno, ostacolando la svendita allemultinazionali del settore di risorsefondamentali per la vita delle comuni-tà; sia dal punto di vista sovrastruttura-le, riproponendo, contro il modellodella (non) società di mercato, cuoredel progetto liberista di integrale colo-nizzazione dell’immaginario individua-le e collettivo, un’idea di bene comune,come sinonimo di uso condiviso diquelle stesse risorse e come veicolo dirinascita di una democrazia partecipataed egualitaria, autentiche bestie neredel capitale trionfante degli ultimi tren-t’anni.

Ciò spiega la reazione rabbiosa dellatecnocrazia comunitaria (mirabilmentecondensata in un suo “malgrado gliesiti del recente referendum”); e spiegaanche il macroscopico furto di legalitàcostituzionale e di democrazia “stori-camente realizzata” posto in essere dalGoverno della Repubblica, con lacomplicità di tutti (o quasi) i vari seg-menti in cui si articola la sfera pubbli-ca, organi di informazione, partiti poli-tici (ivi inclusi quelli di opposizione),cariche dello Stato, i quali, dietro ilcomodo riparo dell’emergenza finan-ziaria, hanno sin qui attivamente sabo-tato l’esito del referendum, preferendoal rispetto della volontà popolare latutela di interessi privati. La sorte del

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IL MOVIMENTOPER L’ACQUAdentro la crisieconomica e sociale

Dopo la straordinaria vittoria referendariadel 12-13 giugno scorsi, in realtà poco

capita e analizzata, molti commentatoriinteressati o perlomeno disattenti si aspet-

tavano di poter archiviare in fretta quelrisultato e, assieme ad esso, quello del

soggetto che per primo l’ha costruito

di CORRADO ODDI

La manifestazione del 26novembre, sia per la parteci-pazione assai significativa sia

per la piattaforma che ne era alla base,comprova, in primo luogo, che il risul-tato referendario non è stato una sortadi miracolo o di fuoco di paglia, mache, per chi lo vuole vedere, esso èstato il prodotto di un’iniziativa pro-lungata e diffusa nella società e anchedi una soggettività politica specificache si è consolidata nel corso deglianni precedenti e che, appunto, conti-nua ad agire.

Un movimento politico consolidatoe che continua ad agire

Non è improprio, allora, tornare adalcune, sia pur sommarie, considera-zioni relative all’esito referendario del12-13 giugno scorsi, in specifico quellorelativo ai due quesiti sull’acqua benecomune, e ragionare sui fattori che cihanno portato allo straordinario risul-tato della realizzazione del quorum e diun consenso del 95% di SI, e cioè alfatto, da avere ben presente, di esserediventati maggioranza assoluta nelPaese rispetto all’idea che l’acqua siabene comune e il servizio idrico servi-zio di proprietà e gestione pubbliche.Senz’altro a questo risultato hannocontribuito parecchi elementi, ma alcu-ni vanno sottolineati ed evidenziati. Inprimo luogo, è chiaro che aver posto iltema dell’acqua e della sua privatizza-zione come questione su cui pronun-ciarsi con lo strumento referendario edessersi attenuti, almeno comeComitato promotore referendario, almerito di tale vicenda in tutta la cam-

largo e radicato socialmente e territo-rialmente, nonché da un’idea sufficien-temente chiara di come estendere ilconsenso nel momento in cui essoriguardava l’intero corpo elettorale.

Quali i caratteri di questo movi-mento

Da qui arriviamo ad una delle que-stioni centrali di questo mio ragiona-mento, e cioè alle caratteristiche delmovimento per l’acqua, che oggi sipresenta con elementi inediti e peculia-ri nel panorama sociale e politico delnostro Paese. Queste caratteristiche sisono sedimentate in ormai diversi annidi lavoro, visto che si può dire che ilmovimento per l’acqua muove i suoiprimi passi già con il Forum SocialeEuropeo di Firenze del 2002, dà vita adiverse vertenze territoriali, da Arezzoad Aprilia, in particolare lì dove avan-zano i processi di privatizzazione,diventa movimento nazionale con lanascita del Forum Italiano Movimentiper l’Acqua nel 2006 e con il suo veroatto fondativo, che è costituito dallapredisposizione della proposta dilegge di iniziativa popolare depositata(e mai discussa finora) in Parlamentonel 2007 con il sostegno di più di400.000 firme. Il primo elemento cheva sottolineato è che il movimento perl’acqua ha dato vita ad una vasta coali-zione sociale, basata, da una parte,sulla diffusione e su un reale radica-mento dei Comitati territoriali, e, dal-l’altra, su un esteso tessuto di associa-zioni e organizzazioni sociali di carat-tere nazionale, che vanno dal mondoambientalista a parti significative del

pagna referendaria, senza mai ridurlaad una logica riduttiva del rapporto tramaggioranza di governo ed opposizio-ne, ha costituito un grande punto diforza e ha consentito di allargare l’areadel consenso rispetto a quella da cuipartivamo. Non c’è dubbio che que-st’impostazione ha consentito nonsolo di “fare il pieno” nell’elettorato dicentro-sinistra, ma soprattutto di com-piere un vero e proprio “sfondamen-to” sia nell’area elettorale del centro-destra (quasi la metà dell’elettoratoleghista è andato a votare e lo stesso hafatto circa il 25% di quello del PdL), sianel bacino consolidato dell’astensione,che ha visto più di un quarto dello stes-so andare alle urne.

Ma, soprattutto, ciò che va sottoli-neato, a maggior ragione perché pochil’hanno capito sia prima del referen-dum ma anche ora, è che la vittoriareferendaria è il risultato del lavoro diun reale ed inedito movimento sociale,qual è oggi il Movimento per l’acquabene comune. Certamente ha contatomolto per l’affermazione referendariail tema del nucleare, soprattutto dopole tragiche vicende di Fukushima, maciò non può far mettere tra parentesi laspecificità e la forza del tema dell’ac-qua, e in particolare di ciò che l’hareso possibile, e cioè il lavoro delmovimento per l’acqua bene comune eil percorso che esso ha compiuto.

Insomma: il fatto di essere diventatimaggioranza assoluta nel Paese deriva,in primo luogo, dalla scelta, effettuatadiversi anni fa, di costituire il movi-mento per l’acqua come movimento

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movimento sindacale, dall’associazio-nismo laico e cattolico ai movimentidei consumatori. Quest’intreccio –non sempre valutato e consideratonella sua complessità e ricchezza – è, amio parere, il vero punto di novità e diforza della nostra esperienza, quelloche ci ha consentito di attrarre e met-tere in campo forze ed energie nuove,soprattutto tra le giovani generazioni, edi poter contare sull’apporto di asso-ciazioni e organizzazioni con una lorostruttura consolidata, ma disposte afarsi permeare dalla novità di que-st’esperienza. Sono convinto che èquesta forma peculiare che ci ha con-sentito di parlare a settori molto larghidella società e di diventare un realemovimento sociale dotato di soggetti-vità politica specifica. Il secondo trattodi originalità del movimento per l’ac-qua sta nel fatto di essere contempora-neamente movimento territoriale emovimento nazionale, fatto pratica-mente unico nelle vicende dei movi-menti sociali negli ultimi anni, di esse-re cioè protagonista di una vertenziali-tà diffusa e contemporaneamente diun’iniziativa nazionale di mobilitazioneper modificare il quadro legislativo inmateria.

E questo rapporto tra radicamentoterritoriale e ruolo nazionale, almenonei momenti più fecondi, ha rafforzatoentrambi questi livelli di iniziativa,facendo sì che le lotte territoriali non siconfinassero in una logica unicamentedifensiva e che la vertenzialità naziona-le non si esaurisse puramente in unoschema di pressione nei confronti delleistituzioni e delle forze politiche. Tral’altro, quest’intreccio, così come quel-lo tra Comitati territoriali eAssociazioni/organizzazioni nazionali,ha giocato un ruolo molto importantenel delineare un modello poco gerar-chizzato e orizzontale nei percorsidecisionali interni, costruito su un’ideadi leadership diffusa e orientata allacostruzione e alla ricerca, pur assaicomplessa, di forme di democraziapartecipativa. Ulteriore tratto distintivodella nostra esperienza è quello di aversempre lavorato sul binomio “opposi-zione alle scelte di privatizzazione del-l’acqua e del servizio idrico- costruzio-ne di proposte alternative”. Non acaso, come già richiamato, sin dal2006-2007 abbiamo elaborato unacompiuta proposta di legge di iniziati-va popolare per la tutela, il governo ela gestione pubblica dell’acqua per for-

Una politicità specifica

Queste caratteristiche peculiari delmovimento per l’acqua, che fanno diesso un movimento sociale dotato dipoliticità specifica, possono guidarcinella nuova fase sociale e politica che siè aperta nel nostro Paese e che imponea tutti un riposizionamento per esserneall’altezza. Questa nuova fase è caratte-rizzata – mi si perdoni la schematicità– dalla centralità di una crisi economi-ca e sociale che ha natura strutturale edal fatto che, in Europa e in Italia,appare egemone una risposta ad essache proviene dalla finanza e dal neoli-berismo, che peraltro l’hanno prodot-ta. E nessuno, volente o nolente, puòsottrarsi dal doversi misurare con ciò.Tocca farlo anche al movimento perl’acqua che, del resto, è pienamenteinvestito da questo processo: da quideriva, se ci pensiamo un attimo, l’idea,inaugurata dal governo Berlusconi eora continuata da quello Monti, dirispondere all’esito referendario sem-plicemente non rispettandolo e con-traddicendolo. E’ quanto è successocon la manovra estiva che, con l’art. 4della legge di stabilità, ha riproposto lastessa norma di obbligo alla privatizza-zione cancellata con il primo referen-dum, con l’eccezione del servizio idri-co, ma comprendendovi gli altri, comeil trasporto pubblico locale e l’igieneambientale, che pure sono stati interes-sati all’abrogazione referendaria. Ed èciò che è continuato con il fatto di nonaver dato corso al secondo pronuncia-mento referendario che ha eliminato iprofitti dalle tariffe del servizio idrico,tant’è che oggi, a distanza di 6 mesi, icittadini continuano a pagare il famoso7% di remunerazione del capitale nellebollette.

Ora, il primo compito che sta difronte al movimento per l’acqua, manon solo ad esso, è quello di ottenere ilrispetto dell’esito referendario, vistocome grande questione democratica ecome tema che evidenzia che il divor-zio tra capitalismo e democrazia diven-ta sempre più un tratto fondante diquesta fase. Non a caso abbiamomesso questo fatto al centro dellamanifestazione nazionale del 26novembre e, ancor più, abbiamo inizia-to a mettere in campo un’iniziativa cheandrà avanti per tutti i prossimi mesi,con l’idea di “riconquistare” i risultatireferendari nei territori. Abbiamointenzione di fare ciò con la campagna

nire una prospettiva e una cornicegenerale alle vertenze territoriali cheandavano diffondendosi, così come,nel corso di quest’ultima campagnareferendaria, non ci siamo limitati, conil secondo quesito, a chiedere un pro-nunciamento per abrogare il profittogarantito dei soggetti gestori, ma l’ab-biamo accompagnato con la messa apunto di una proposta precisa di finan-ziamento alternativo del servizio idri-co, coerente con una logica di gestionepubblica dello stesso, e quindi centrata,oltre che sulla rimodulazione tariffaria,su un nuovo intervento di finanza pub-blica e di ricorso alla fiscalità generale,assumendo peraltro il vincolo di nonaumentare né deficit, né debito pubbli-co e neanche incrementare la tassazio-ne. Questi fattori hanno costituito lefondamenta su cui abbiamo sviluppatouna capacità progettuale e dunque unareale autonomia politica del movimen-to per l’acqua rispetto agli schieramen-ti e alle forze politiche. Un passaggioquesto non ancora consolidato – infat-ti sarebbe non realistico non vederecome sono presenti ragionamenti chein un modo un po’ semplicistico stan-no dentro una schema oppositivo tra“società civile-sistema politico”, chenon è poi altro se non il rovescio dellamedaglia di posizioni che scontano ele-menti di subalternità nei confronti delruolo delle forze politiche – ma che ègià portatore dell’idea di una soggetti-vità politica specifica, che si misura allapari con le istanze provenienti dallasfera politica.

Allo stesso modo abbiamo provatoa tematizzare il rapporto con il sistemadei grandi mass-media, che continuanoa riproporre un approccio stantio dioscuramento dei soggetti esterni alla“rappresentanza politica” e di spetta-colarizzazione leaderistica della dimen-sione politica. Sia pure in modo nondel tutto consapevole e ancor menoteorizzato, la strategia comunicativa delmovimento per l’acqua si è imperniata,contemporaneamente, sullo sviluppodella relazione diretta con le persone,collettiva ma anche di tipo personale,fino a riscoprire nella campagna refe-rendaria la modalità del “porta aporta”, e sull’utilizzo massiccio deisocial network e dello strumento delweb, senza peraltro disdegnare, quan-do è stato possibile, la presenza neigrandi organi di informazione giorna-listica e televisiva.

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di “obbedienza civile” che partirà conl’anno nuovo, incentrata sul ricalcolodella bolletta da parte dei cittadinisenza la remunerazione del capitale esu altre iniziative di carattere giuridico,così come vogliamo estendere i pro-cessi di ripubblicizzazione del servizioidrico sulla base dell’esperienza avviataa Napoli, con la trasformazione delsoggetto gestore da società a totalecapitale pubblico ad Azienda speciale.E’ bene avere presente che ciò si puòfare – dopo il referendum è puramen-te questione di volontà politica – inquasi metà del territorio italiano, lìdove la gestione è appunto in mano aSpA totalmente pubbliche, a partire dagrandi città come Torino, Milano,Venezia, Palermo e altre ancora.

Uscire dalla crisi attraversoun’“economia dei beni comuni”

Queste iniziative sono fondamenta-li, ma non bastano. Occorre rendereancora più chiaro che battersi per l’ac-qua bene comune e per la ripubbliciz-zazione del servizio idrico significaanche indicare una strada alternativaper uscire dalla crisi. Si tratta dicostruire un orizzonte e un sensocomune per cui un nuovo ciclo di inve-stimenti pubblici finalizzati ad affer-mare un’“economia dei beni comuni”,assieme ad una seria redistribuzionedel reddito, costituiscono una realealternativa, capace di offrire una rispo-sta concreta per uscire dalla crisi,rispetto ad impostazioni recessive che,peraltro, producono semplicementel’avvitamento della stessa.

E’ un tema di grande rilievo, su cuipenso si tratti di applicarsi in molti: almovimento per l’acqua, ma anche aglialtri movimenti sociali e alla sinistra stail compito di collocarsi su questo terre-no. Il movimento per l’acqua ha avutoil grande merito di contribuire acostruire un nuovo senso comune,quello che si è espresso con il votoreferendario, per cui esistono beni,quelli comuni, e diritti fondamentalicui il mercato non può dare risposte eche, anzi, vanno sottratti ad esso; sitratta ora di produrre un salto di quali-tà per cui occorre costruire il “sensocomune” che solo l’affermazione del-l’economia dei beni comuni e la “cura”del lavoro sono in grado di prefigurarel’uscita dalla crisi. C’è, ovviamente,molto da fare: per quanto mi riguarda,mi limito ad indicare tre piste di appro-

gere una funzione anticiclica, di soste-gno alla domanda e di creazione dioccupazione aggiuntiva e, per questavia, di affrontare positivamente i nodiposti dalla crisi.

Infine, dobbiamo lavorare anche suisoggetti, per irrobustirli e renderli ade-guati a questa nuova fase. Anche quisolo un titolo, perché il ragionamentoandrebbe ben più articolato e sarànecessario farlo. Per l’intanto, mi pareutile avere presente che diventa neces-sario ragionare sull’insieme dei benicomuni e sull’“economia dei benicomuni” e che ciò non può esserepuramente un’estensione dell’esperien-za del Forum italiano dei movimentiper l’acqua, né una semplice costruzio-ne di un nuovo contenitore. Se devoguardare a come costruire questo per-corso, mi viene da pensare di dar vitauna sorta di Rete di secondo livello,che sia contemporaneamente sede dielaborazione teorica, di coordinamen-to di iniziative e che poggi su Forumnazionali tematici di settore (l’acqua,l’energia, la conoscenza, la difesa delterritorio ecc.) e su Forum territorialidi progettazione sociale, dove l’intrec-cio dell’iniziativa sui vari beni comuni èpiù facilmente realizzabile e, dunque, sipossono pensare come luoghi di prati-ca e vertenzialità sociale nel territorio.E’ ovviamente un’ idea grezza, mapenso che, magari raffinandola, possainiziare a farci percorrere quel nuovopezzo di strada di cui abbiamo biso-gno.

fondimento e iniziativa, che indicosolamente per titoli.

La prima è relativa al fatto che biso-gna occuparsi seriamente di Europa,provare a far emergere che non esistesolo l’Europa di Merkozy ma che è incampo, almeno potenzialmente, un’al-tra idea di Europa. Devo dire che nonmi convince, anche se non ho spazioper argomentarlo, un approccio limita-to al tema del debito, magari peraggiungervi che non va pagato: si trat-ta di mettere in campo, in realtà, unforte orizzonte progettuale, un po’come abbiamo provato a fare, comemovimento per l’acqua, all’inizio didicembre a Napoli quando abbiamolanciato il percorso per la costruzionedi una Rete europea per l’acqua pubbli-ca.

La seconda questione concerne ilfatto di far emergere come le proposteper “prendersi cura” dei beni comunidiventano proposte per uscire dallacrisi. Penso che, ancor più di quantoabbiamo tematizzato sino ad adesso,occorre esplicitare che l’idea di unnuovo ruolo dell’intervento pubblico edella democrazia partecipativa sonoassi portanti per definire una traiettoriadi uscita dalla crisi; per esempio, che lanostra idea di nuovo sistema di finan-ziamento del servizio idrico, basataanche su un nuovo ruolo della finanzapubblica, e, in specifico della Cassadepositi e prestiti, è in grado, nelmomento in cui produce un nuovociclo di investimenti pubblici, di svol-

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AUTORITARISMO E CRISI affondanol’Ungheria

L’Ungheria è in affanno: il suo debito pub-blico è il più alto tra i Paesi dell’Est,

declassificato “BB+” dall’agenzia FitchRatings, secondo la quale i titoli ungheresi

sono “altamente pericolosi”. Inoltre lerecenti approvazioni da parte del

Parlamento di leggi liberticide hanno avutocome effetto l’interruzione dei negoziati per

aiuti finanziari dall’Europa e dal FondoMonetario Iinternazionale

di ANTONIO MORANDI

Il declassamento “riflette l’ulte-riore peggioramento dei contipubblici, delle prospettive di

crescita e le crescenti difficoltà a finan-ziarsi sui mercati”, spiega Fitch, ricor-dando che questo “è stato causato inparte da politiche economiche nonortodosse che minano la fiducia degliinvestitori e complicano la messa apunto di un nuovo accordo conl’Unione Europea e il FondoMonetario Internazionale”. E’ eviden-te il riferimento alle scelte autoritarieche il governo di Viktor Orban hacompiuto in questi mesi, in particolarealla riforma costituzionale entrata invigore all’inizio di quest’anno, checambia lo statuto della banca centraleungherese, svincolandola dal controllodella Banca Centrale Europea e met-tendola sotto il controllo del governo,violando dunque i Trattati del’'Unione.Di conseguenza a metà gennaio la UEha avviato tre “procedure d’infrazio-ne” a carico dell’Ungheria, contestan-dole leggi liberticide (che colpisconostampa, magistratura e protezione deidati personali e limitano i poteri dellaCorte Costituzionale), oltre che laminaccia all’indipendenza della BancaCentrale. Secondo UE e FMI l’indi-pendenza della banca centrale resta“un prerequisito indispensabile” allaripresa delle trattative; e senza unpasso indietro di Orban a questoriguardo l’Ungheria rischia la bancarot-ta.

Sono trenta le leggi che hanno por-tato a una nuova Costituzione, tra lecui conseguenze menzioniamo la chiu-sura di Klubradio, l’emittente dell’op-posizione socialista, e l’arresto dideputati di quest’opposizione lo scor-

Centro-est europeo, con significativiinvestimenti da parte di grandi impresedel settore automobilistico (Mercedes,Audi, Opel, Bosch, Continental,Hankook), dell’industria cinematogra-fica, del turismo e del settore dei servi-zi. Anche la Cina aveva investito inUngheria (l’interscambio tra Cina eUngheria è il più alto tra tutti i paesi delCentro-est euroeo), acquisendo impre-se in settori strategici come l’elettroni-co (da parte di Huawei e Hisense), letelecomunicazioni (ZTE) e la chimica(Wanhua Industrial Group). Sempreimprese cinesi hanno comprato la cate-na ungherese di supermercati Skala einvestito nel settore turistico alber-ghiero sul lago Balaton.

Va anche ricordato come inUngheria otto delle principali banchesiano controllate da istituti europeiquali KBC, Erste Bank, Landesbank,Bayerische Bank, Zentral Bank,Commerzbank, Dz Bank. Anche duebanche italiane sono presenti con posi-zioni rilevanti: quinta è Intesa-SanPaolo (come CIB Bank, con 145 filiali)e settima Unicredit (con 134 filiali).

Centomila in corteo per la demo-crazia

Da parecchie settimane sono incorso proteste massicce (la più clamo-rosa proprio in gennaio con centomilaungheresi in piazza), scioperi e manife-stazioni, a Budapest con cortei di deci-ne di migliaia di persone, giovani eanziani, donne e uomini. A questo siaggiungono i richiami e le proteste dallato europeo e degli Stati Uniti. Inoltreil 9 aprile scorso, durante il semestreungherese di presidenza europea, si era

so 23 dicembre. Parimenti la nuovaCostituzione assegna al governo poteristraordinari: e tra essi già sono il pre-pensionamento di moltissimi giudici,sostituiti da altri nominati dalGoverno, e la nomina di Commissionigovernative che sorvegliano e control-lano la stampa.

Intanto a gennaio l’asta dei titolipubblici ungheresi ha venduto solo idue terzi dei 45 miliardi messi in ven-dita, e a un tasso di rendimento in rial-zo (9,96% contro il 7,91% dell’asta difine dicembre). La disoccupazione nelpaese resta alta (secondo le rilevazionidell’ufficio centrale di statistica KSHdell’ottobre 2011), abbondantementesopra il 10 %, quindi superiore allamedia dei 27 paesi della UE (9,7%). Indieci anni l’occupazione giovanile ècrollata al 18,1%. Inoltre a rendereancor più pesante la situazione è laprospettiva di un milione e mezzo diungheresi, che negli anni passati,soprattutto dal 2006, hanno contrattodebiti con banche straniere, ottenendomutui a basso costo soprattutto infranchi svizzeri: con il crollo del fiori-no (destinato a continuare senza unaccordo con UE e FMI) rispetto alfranco svizzero essi, i cui redditi sonoin fiorini, rischiano di perdere tutto. Loscorso settembre le autorità governati-ve avevano annunciato un piano costi-tuito di otto punti per venire in aiutoalle persone superindebitate per via diquesti mutui: la sua fattibilità è semprepiù problematica.

Sino a qualche anno fa l’Ungheria siproponeva come importante piazza diattrazione di investimenti e come piat-taforma strategica per l’area del

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svolta a Budapest un’imponente mani-festazione europea di protesta, conparecchie decine di migliaia di parteci-panti, cui si erano unite delegazioni datutta Europa: contro le politiche diausterità, i tagli alla spesa pubblica, ladiminuzione di servizi pubblici, il bloc-co dei contratti e dei salari. Poi inautunno quarantamila ungheresi ave-vano partecipato al D-day (cioè all’an-niversario dello sbarco alleato inEuropa del 1944), chiedendo la “finedel potere dittatoriale del premierOrban”.

Tuttavia il Governo ha proseguitonella distruzione dello stato sociale enella soppressione dei sussidi di disoc-cupazione, nella riduzione delle pen-sioni, nella demolizione del sistemasanitario e nell’incentivazione delsistema sanitario privato. In un este-nuante stop and go Orban, che dispo-ne di una maggioranza di due terzi inParlamento, ha proseguito la sua stradanazionalista-autoritaria (che standoallo scrittore Gyorgy Konrad tende alladittatura). Tutto questo sino alla vigiliadelle recenti contestazioni dellaCommissione Europea. Ora si vedrà:ma le intenzioni del Governo sono diresistere.

Un’estrema destra fascista semprepiù forte come prodotto della crisisociale. Tornano gli anni bui

La linea guida del Governo diOrban è un nazionalismo populista diestrema destra. La maggioranza parla-mentare gli è data dalla coalizione delsuo partito Fidesz con i Cristiano-democratici; esso inoltre beneficiadell’“attenzione” del partito di estremadestra Jobbik (i “migliori”), il terzo nelpaese, con il 17% dei voti e 47 seggiconquistati alle ultime elezioni del2010. Il programma di questo partito èultranazionalista e localista, le sue sim-bologie sono fasciste, con divise, stem-mi e slogan contro la globalizzazione,contro il commercio “gestito da romed ebrei”. Questo partito ha organizza-to campagne di “lotta” con dimostra-zioni contro le minoranze rom e hafondato centri para-militari di riservi-sti. Dalla crisi economica al nazionali-smo estremista la strada è semprebreve.

A un’ottantina di chilometri a nord-est di Budapest, nella cittadina diGyöngyöspata, sono attive le ronde del

Berlusconi né Putin lo hanno maidetto. Cuore straniero, quasi come dire“sangue straniero”, viene definita l’op-posizione”. Fascismo?, chiede l'intervi-statore. “Non amo i paragoni. I partitisiedono in Parlamento. Ma ilParlamento è diventato una macchinaper votare le leggi senza dibattito. Conle istituzioni attuali non ci sarebbe piùpossibile entrare oggi nell’UnioneEuropea. La gente ha paura sul postodi lavoro, ovunque. Paura di venirelicenziata senza ragione con ogni pre-testo legale di "ristrutturazione" se cri-tica il governo, se non gli piaci”.Europa può muoversi?, chiede semprel’intervistatore. “Nel suo interesse. Lapaura è diffusa in tutta la società, neimedia pubblici restano solo opportu-nisti incapaci o chi teme di perdere lostipendio. Ma molti credono a chi diceche la crisi è colpa di finanza interna-zionale, America, Israele. Slogan anti-capitalisti e anticomunisti rafforzano ilconsenso del regime, l’idea di cospira-zione internazionale e anche ebraicapaga ancora, molti sono apatici”.Occorre dall’Europa “aiutare i nostrimedia indipendenti, e parlare chiaro.Ma prima di tutto dobbiamo aiutarcida soli”.

Vale anche l’inverso: aiutandol’Ungheria democratica aiutiamo anchenoi in Italia.

Véderö, un gruppo “sportivo” di auto-difesa legato a Jobbik. L’ordine delpartito a questo gruppo è di combatte-re la “criminalità degli zingari”, ed aGyöngyöspata la caccia agli “zingari”ha assunto le caratteristiche delpogrom. I rom sono stati aggrediti perstrada e le loro abitazioni sono stateprese d’assedio da uomini in divisamimetica e armati di spranghe, catenee armi con proiettili di gomma. In apri-le trecento rom ungheresi sono statiportati in salvo dalla Croce Rossa, persottrarli alla caccia armata.

Parimenti è in corso un progetto delGoverno ungherese per i senza lavorodi etnia rom: per non perdere il sussi-dio di disoccupazione dovranno accet-tare i lavori forzati in cantieri pubblici.Quest’impiego per ora è un “esperi-mento” limitato, ma secondo le inten-zioni del Governo dovrebbe essereesteso, arrivando a coinvolgere circatrecentomila persone (in Ungheria irom sono seicentocinquantamila).Indossando maglie color arancio, essedovranno lavorare per otto ore al gior-no alla pulizia di strade, zappare lecampagne, costruire piste ciclabili, farela raccolta dei rifiuti, il tutto per l’equi-valente di 200 euro al mese: una ciframolto più bassa dei minimi salarialistabiliti per legge. L’opposizione socia-lista ungherese ha definito la pratica“paragonabile ai campi sovietici e nazi-sti”. Il piano, dicono i socialisti, èdiscriminatorio perché applicato sola-mente ai disoccupati di quell’etnia enon coinvolge tutta la popolazione,inoltre per la paga di fame.

L’Ungheria è vicina

Questo è l’esempio più orribile dellescelte del Governo Orban, non l’unico.Abbiamo già visto come la nuovaCostituzione attacchi indipendenzadella magistratura, libertà di stampa,ecc.

Qualche settimana fa Agnes Heller,la grande allieva di Lukács, in un’inter-vista al quotidiano “la Repubblica” haaffermato che “la gente in piazza puòessere un nuovo inizio, ma l’autocraziaresta. L’Europa deve aiutarci aiutandoi media indipendenti poveri, ostacolatidal regime. Nel suo interesse: l’autori-tarismo è contagioso. Come tutti itiranni, Orban è convinto di essere ilsolo ad avere ragione, e chi non è d’ac-cordo con lui non è ungherese. Né

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inchieste e ricerche sul lavoro

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INVATECMEDTRONIC, in lotta contro la chiusura

La Invatec nasce a Brescia nel 1995 comeazienda artigianale di 15 dipendenti che

produce tubi di gomma. Nel giro di qualcheanno fa il grande salto nel settore del bio-

medicale: la sua produzione perciò dasemplici tubi di gomma passa a una qualitàben più elevata, implicante ricerca scientifi-ca e rapporto continuo con il mondo medi-co e con le università. La gamma di produ-zione inoltre si amplia e al tempo stesso si

specializza nella produzione di catetericoronarici (destinati all’apparato cardiocir-colatorio centrale: cuore, aorte, ventricoli

ecc.) e periferici (destinati agli arti).

di MATTEO GADDI

Nel corso degli anni l’aziendasi espande ampliando sia laproduzione che i livelli

occupazionali, tanto da arrivare aimpiegare circa 600 dipendenti. Inoltrearriva a realizzare l’intero processo diproduzione. E’ dunque un processoproduttivo che comprende le fasi diricerca, progettazione, estrusione estampa tubi (realizzato nello stabili-mento di Concesio, ma che verrà spo-stato a Torbole), assemblaggio dei par-ticolari, lavorazione in camere bianche(asettiche), sterilizzazione, imballaggio,commercializzazione.

Con la crescita della produzioneaumenta il lavoro non solo in terminidi assunzioni ma anche di turnazioni edi aumento di ore straordinarie.

Il 1° maggio 2009 la Invatec vieneacquistata da una multinazionale ame-ricana del settore biomedicale, laMedtronic.

La Medtronic è un gigante del setto-re. Essa dispone di un ampia gamma diprodotti: trattamento di aritmie cardia-che (pace-maker, defibrillatori, stru-menti diagnostici); terapie del settoreneurologico (spasticità, disturbi delmovimento, disturbi ossessivi); cura didisturbi del cranio e della colonna ver-tebrale, cura del diabete, monitor edefibrillatori (rianimazione, prontointervento, ecc.), trattamento di pato-logie otorinolaringoiatriche. Mancavaperò di un segmento di produzione incui era specializzata la Invatec, i catete-

padroni USA non si rivela facile: lelavoratrici della Invatec parlano infattidi “tipiche relazioni americane: “loro”(i dirigenti dell’impresa) “vengono,informano e vanno”. Non c’è mai spa-zio per una vera trattativa: Medtronicintende le relazioni sindacali come unamera informativa alle RSU e successi-vamente all’intero intero corpo deidipendenti. E’ abitudine dellaMedtronic, cioè, convocare tutti idipendenti all’Hotel President per icosiddetti meeting: momenti di infor-mazione sulle strategie del gruppo, suirisultati produttivi e commerciali, perdiffondere la “vision” dell’impresa ecc.“I dirigenti proiettano le slide con tuttii dati produttivi, di mercato ecc., infor-mano sull’andamento dell’azienda edei suoi obiettivi… E’ uno dei tantimodi che avevano per creare la lorocultura aziendale”.

Ed è proprio in occasione della pre-sentazione del “Piano strategico” del-l’impresa, il 7 novembre 2011, nelcorso della quale vengono esposti ibuoni risultati complessivi diMedtronic (il buon posizionamento dimercato, il raggiungimento degli obiet-tivi di vendita e gli ottimi risultati rag-giunti nei paesi in via di sviluppo), chein un incontro immediatamente prece-dente con le organizzazioni sindacali idirigenti comunicano la “botta”: 300esuberi (su 554 dipendenti) entro ilmaggio 2013. Cinicamente, quando siera parlato dello stabilimento brescia-no le lodi non erano state lesinate: ilbusiness dei cateteri si era rivelato increscita, si erano instaurate ottime rela-

ri periferici: da qui appunto l’acquisi-zione. Ed è a cavallo dell’acquisizioneche cominciano i primi problemi occu-pazionali, con il ricorso alla cassa inte-grazione (una settimana al mese): il cuiimpatto risulta tuttavia contenuto gra-zie all’integrazione al 100% (garantitadall’azienda) del trattamento salariale.Inoltre, conclusa l’acquisizione, laMedtronic impone una seconda ed unaterza tornata di cassa integrazione, conun passaggio riduttivo al 90% dell’inte-grazione salariale. Ancora, alla quartatornata ogni forma di integrazionesalariale è cancellata; inoltre il ricorsoalla cassa integrazione passa a due set-timane al mese.

Questo continuo ricorso alla cassaintegrazione rappresenta una novitàper i dipendenti Invatec, visto che inprecedenza per far fronte al volume diproduzione crescente c’era stato unmassiccio ricorso allo straordinario(incentivato da generosi premi azien-dali). Con l’acquisizione da parte diMedtronic cambiano le condizioni:Invatec, abituata a produrre e a vende-re direttamente, adesso si trova a pro-durre per una multinazionale il cui set-tore commerciale è ovviamente centra-lizzato. Inoltre a questo cambiamentoorganizzativo si associa anche un calodi commesse. Non va dimenticato chel’acquisizione di Invatec rispondevaunicamente a esigenze di Medtronic diintegrazione della propria gamma pro-dotti, ovvero che gli interessava che aBrescia si continuassero a realizzaresoltanto i prodotti mancanti dal pro-prio catalogo. Il rapporto con i nuovi

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zioni sindacali, lo stabilimento avevalavorato nel rispetto delle indicazioni edelle regole fornite dalla casa madreUSA ecc.

Il “Piano strategico” riguardantel’Italia viene dunque articolato in cin-que decisioni: il mantenimento dellalavorazione di materie plastiche attra-verso il reparto dell’estrusione, cheperò verrà spostato dallo stabilimentodi Concesio (che verrà chiuso) a quellodi Torbole; lo sviluppo della capacitàtecnologica della formatura palloni;l’investimento in ricerca e sviluppo,ideazione e progettazione dei prodotti;investimento nell’education dei medici;il trasferimento a Brescia della realizza-zione di un prodotto di protezionecerebrale. Ma, viene detto, necessitanoanche margini di utile maggiori. Perciòverrà al tempo stesso dismessa entrol’aprile 2013 la produzione di catetericoronarici, che significa la riduzione di120 unità lavorative, ed entro il luglio2013 verrà dismessa anche la produ-zione di cateteri periferici, con unariduzione di 180 unità.

Appunto 300 esuberi. Ma si tengaanche presente che l’intenzione del-l’impresa è di tagliare 300 unità lavora-tive full-time: questo significa che, inuna realtà produttiva che conta anchesvariate unità part-time (tra 70 e 80), iposti concreti di lavoro persi potrannoessere di più. Su un organico di 594dipendenti significa decretare la mortedi questa realtà produttiva.

L’intera produzione persa verrà inMessico, lasciando in Italia la beffa disentirsi definire come “un centro dieccellenza su cui investire”. In Messicoil costo del lavoro è di gran lunga piùbasso rispetto a quello in Italia, seppurqui operi un contratto nazionale nonparticolarmente favorevole ai lavorato-ri. Con gli incrementi degli utili realiz-zati grazie allo spostamento in Messicodella produzione dei cateteriMedtronic intenderebbe realizzareinvestimenti in ricerca e sistemi di rela-zioni con i medici (la cosiddetto educa-tion): ma il timing dice pure che la rea-lizzazione del Piano strategico, nelquale l’education si colloca, riguardaun quinquennio, mentre il taglio di 300posti di lavoro l’azienda intende realiz-zarlo entro un anno e mezzo: quindi300 e più persone il lavoro comunquelo perderanno. Tanto più in quanto,giova sapere, la quasi totalità della

(cioè meno di sei giorni lavorativi).Nel marzo 2005, sempre per risponde-re a “esigenze di mercato”, era statointrodotto un turno di notte: e anchequi gli incentivi erano stati generosi,anche per via dell’azione del sindacato.Il lavoro dunque non mancava, e conesso le assunzioni: Invatec passava nelgiro di quindici anni da 15 a 600 dipen-denti circa; nel corso del tempo anchemolti precari erano stati stabilizzati (sitrattò di uno degli obiettivi principalidel sindacato, anche per ridurre il livel-lo di ricattabilità a cui erano soggettetra le 100 e le 200 dipendenti, assunteappunto con contratti atipici). Quartoelemento: la massiccia e pervasivacampagna Medtronic presso le lavora-trici. Venivano consegnate loro meda-glie nelle quali erano incisi i “valori”dell’impresa, a segnare il loro ingressonel “mondo Medtronic”, in occasionidi feste al PalaBrescia alla presenza delVice-presidente. Nel periodo natalizioe prima dell’estate l’impresa organizza-va feste alle quali invitava tutte ledipendenti e le loro famiglie: anche inqueste occasioni venivano distribuitiriconoscimenti, come targhe per leanzianità di servizio, inoltre premi.All’interno dello stabilimento venivanoaffissi e distribuiti materiali che propa-gandavano la “mission” e la “vision”dell’impresa. In una pubblicazione, lamission veniva presentata come orien-tata da “customer focus” (riunioni congruppi di clienti, cioè medici speciali-sti, dirigenti ospedalieri, ecc.) condottiall’insegna del “candor” (dell’onestà edella trasparenza). “Trust and respect”(fiducia e rispetto riguardo alle capaci-tà dei colleghi), “promotion” di unambiente di successo; “courage”(assunzione di responsabilità);“accountability” (conclusione positivadegli impegni assunti e supporto alledecisioni assunte dai team); “passionto win” (“entusiasmo nei riguardi del-l’impresa e sollecitazioni ai colleghi asentirsi allo stesso modo). Tuttavianonostante questa situazione noncerto favorevole alla sindacalizzazioneessa è sempre stata a buon livello. LaCGIL ha circa 200 iscritti, circa 60 laUIL e circa 30 la CISL. Alle ultime ele-zioni per la RSU la lista CGIL ha otte-nuto 225 voti, la UIL 99 e la CISL 30;7 delegate sono della CGIL, 3 dellaUIL e una della CISL.

Qualche difficoltà però è stata spes-so riscontrata a promuovere lotteall’interno dello stabilimento, larga-

forza-lavoro operaia è composta dadonne, cioè da persone particolarmen-te svantaggiate nella ricerca di unposto di lavoro; a maggior ragione,inoltre, anche in quanto una loro parteè costituita da immigrate, per le quali laperdita del posto di lavoro comporta laperdita della possibilità di rimanere inItalia.

Appresa la notizia dei 300 esuberiRSU e sindacati hanno abbandonato iltavolo della discussione con i dirigentie si sono precipitati a preparare unvolantino informativo da distribuire aidipendenti, per anticipare l’impresa:Medtronic, infatti, aveva già convocatoil meeting all’Hotel President per dareloro la “propria” informativa. La noti-zia crea nei dipendenti stupore, diso-rientamento, paura e però anche una“grossa incazzatura”.

Per comprendere la situazione deidipendenti di Invatec-Medtronic biso-gna richiamare intanto alcuni elementi.Il primo è questo: come si è visto, èuna forza-lavoro quasi esclusivamentefemminile con una grossa componen-te di immigrate. Secondo, queste lavo-ratrici hanno storicamente dimostratouna grande disponibilità al lavoro, acausa di due elementi di possibile ricat-tabilità: una loro quota è stata a lungooggetto di contratti precari; e la pre-senza di numerose immigrate, ovvia-mente molto bisognose di denaro,faceva sì non disdegnassero gli incre-menti salariali connessi alle ore di mag-gior lavoro (lo stipendio medio diun’operaia è sostanzialmente rappre-sentato nel contratto nazionale di lavo-ro del settore gomma-plastica dalminimo, circa 1.110 euro, in passatoaddirittura 900). Terzo, straordinari esabati lavorativi si erano resi continua-mente necessari a far fronte agli ordi-nativi di produzione crescenti. Perquesto nel corso degli anni erano statidefiniti più accordi sindacali aziendali:nel 2004, per far fronte all’aumento delfabbisogno di pezzi conseguente all’in-gresso nel mercato USA (al tempoInvatec era di proprietà bresciana),erano stati introdotti i sabati lavorativi(e il 24 e 31 dicembre essi pure lavora-tivi), e un accordo pressoché identicoera stato definito nel 2005. Inoltre nel2008 un accordo sul premio di assidui-tà aveva previsto un premio aggiuntivodi 200 euro annui a favore di quelledipendenti che avrebbero effettuatomeno di 48 ore di assenza all’anno

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mente a causa della continua espansio-ne produttiva e occupazionale (Invatec“continuava ad assumere gente”). Levertenze principali hanno riguardato lastabilizzazione delle lavoratrici preca-rie: vertenze coronate da un certo suc-cesso, visto che oggi non ci sono piùcontratti a tempo determinato o insomministrazione, ma solo a tempoindeterminato. In un colpo solo le lotteorganizzate da RSU e sindacato riusci-rono a conquistare l’assunzione di 70figure interinali come dipendenti apart-time. Qualche anno fa è stataorganizzata una vertenza con un pac-chetto di 72 ore di sciopero a “sin-ghiozzo” lungo tre mesi; esso cioè pre-vedeva la sospensione del lavoro perqualche ora al giorno, in modo da pro-lungarne di fatto il più possibile ladurata, onde dunque minimizzare ildanno salariale alle operaie e massimiz-zare il danno economico all’impresa.Questa lotta, particolarmente dura, haportato alla definizione di un accordocomplessivo in grado di regolamentarele relazioni industriali, la formazioneprofessionale, l’organizzazione dellavoro, i permessi, l’orario di lavoro, ilpremio di risultato. Quest’ultimo vienelegato per un 70% all’indice di produt-tività (numero pezzi prodotti/totaleore lavorate) e per un 30% al fatturato(qualora l’impresa ne registrasse unincremento pari almeno al 10% rispet-to all’anno precedente). Si tratta di un

dei posti di lavoro che si sta lottando.Le RSU hanno adottato come mezzolo sciopero “a singhiozzo”: due ore neigiorni che di volta in volta vengonocomunicati con un volantino, anche asorpresa per ridurre al minimo la capa-cità di pressione e condizionamentodell’impresa sui dipendenti. I volantiniindicano ai vari turni gli orari disospensione dal lavoro, salvaguardan-do le pause e organizzando le sospen-sioni in modo tale da arrecare il mag-gior danno economico possibileall’azienda, disorganizzando l’attivitàlavorativa. Le ore di sciopero vengonocioè posizionate in modo tale da som-marsi con i tempi di pausa e vestizione:è un modo per ridurre al minimo le orelavorate senza pesare eccessivamentesulla basta paga, già alleggerita dallesettimane di cassa integrazione fattenegli ultimi due anni.

Una delle sfide maggiori è quella diconvincere tutte le lavoratrici che nes-suna può sentirsi in salvo: “nessuna sicreda indenne, tutti faranno la stessafine, accade così quando si inizia asmantellare”. In effetti, una voltadismessa gran parte della produzioneappare alquanto arduo credere cheMedtronic voglia davvero fare diBrescia “un centro d’eccellenza su cuiinvestire”.

accordo (giugno 2008) è stato definito“soddisfacente”, anche se “non si puòdire che la vertenza sia stata vinta finoin fondo, ma bisognava chiudere per-ché dopo così tante ore di sciopero sicominciava a perdere un po’ la gente”.Rimanevano cioè parecchie criticità, apartire dal meccanismo che regola ilpassaggio di categoria e che viene deci-so in maniera unilaterale da parte del-l’impresa: il responsabile di produzio-ne compila una “pagella” di gruppoattribuendo voti che vanno da 1 al 5:solo da 3 in su si ottiene il diritto dipassare al livello superiore di inquadra-mento.

L’ambiente di lavoro è indubbia-mente buono: trattandosi di una pro-duzione biomedicale, gli ambienti sonomolto puliti (“ambiente controllato”),le “camere bianche” sono ambientiprotetti, la vestizione e la strumenta-zione sono adeguate ecc. Questo nonsignifica che non ci siano patologieprofessionali: risultano colpiti in parti-colare gli arti superiori (per il lavororipetitivo), la schiena (per la posturatenuta nel corso delle operazioni diassemblaggio), gli occhi (per il lavorodi precisione che viene svolto e cheobbliga a indossare particolari occhiali-ni ingrandenti per poter lavorare sucateteri che misurano anche 1 solomm).

In questo momento però è a difesa

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CF GOMMA,PASSIRANO (BRESCIA): in lotta contro laristrutturazione

La CF Gomma è un’impresa del settoredell’automotive. A ottobre 2011 è stato sot-toscritto un verbale che prolunga la cassaintegrazione straordinaria (CIS) fino al 31

dicembre 2011 per 646 lavoratori, dei quali112 dello stabilimento di Grezzago

(Milano), 169 di Venaria (Torino) e 365 diPassirano (Brescia). Il ricorso alla CIS (l’ul-timo tipo di cassa integrazione nel tempo),che avviene dal 5 novembre 2010, si devea “evento improvviso ed imprevisto” dal 5

novembre 2010. In ogni caso la CFGomma ricorre periodicamente ad ammor-

tizzatori sociali da cinque anni.

a cura di M. G.

Le difficoltà non sono certofinite: al governo la CFGomma “ha rammentato che

le proprie difficoltà dipendono dallacrisi strutturale del mercato dell’auto-motive, che è dovuta alla presenza diconcorrenti internazionali che nonconsentono ai produttori italiani uncoerente posizionamento di prezzo divendita del prodotto finito rispetto aipropri costi di produzione”. Cioèsecondo la CF i suoi concorrenti inter-nazionali opererebbero con costi glo-bali decisamente inferiori. Essa dun-que si è vista costretta a realizzare pro-grammi di riorganizzazione recuperareefficienza, contenere costi diretti eindiretti e, su questa base, acquisirenuovi volumi produttivi. Ma le misuresinora realizzate, segnatamente la ridu-zione del costo del lavoro, tramitegestione del turn-over, prepensiona-menti, collocazioni in mobilità, outpla-cement (mai licenziamenti), non avreb-bero ancora permesso di raggiungeregli obiettivi ritenuti necessari.

All’incontro di settembre scorso inAssolombarda l’impresa ha comunica-to alle organizzazioni sindacali che inogni caso intende mantenere i tre sta-bilimenti in Italia. La base di quest’in-tenzione è la seguente: l’indebitamentocomplessivo è di 96 milioni di euro,l’organico si è ridotto nel frattempo di60 unità, attestandosi a 657 (di cui 299dipendenti indiretti), e dovrebbe essereridotto di altre 40; il sito di Passiranoha avuto un aumento dei volumi diproduzione grazie al mercato tedesco,arrivando a un peso percentuale dei

vibrazioni, ammortizzatori e mescole.A Torino si producono i tubi freno; sitratta della situazione che registra imaggiori profitti. A Milano si produ-cono le molle. Lo stabilimento polac-co, invece, realizza tutta la gamma deiprodotti CF Gomma. Il grosso degliinvestimenti produttivi non a casoviene ormai realizzato nello stabili-mento polacco: proprio a testimoniarel’indirizzo di Marchionne, incentratosul basso costo del lavoro come fatto-re competitivo dell’impresa. E’ nellostabilimento di Passirano però che siconcentra buona parte della ricerca,inoltre c’è il centro direzionale: è que-sto stabilimento il quartier generaledella CF. “A Brescia si fanno tutti i pro-dotti migliori, quelli che in Polonia nonriescono ancora a fare. Lì farebberotroppo scarto e ci sarebbero troppicosti per l’azienda. Quelli li lascianoancora qui in Italia”.

Va poi segnalato come la quota diproduzione per la FIAT sia fortemen-te calata nel corso del tempo (dal 90 al50%), nonostante tutti gli stabilimentidel gruppo FIAT siano committenti. Sitratta di un dato in linea con quellogenerale di tutta la filiera nazionale delsettore auto motive, che ormai produ-ce per il 50% per l’estero.

Il trasferimento di parte delle pro-duzioni in Polonia è dunque dovutoessenzialmente al differenziale salaria-le: in Italia il salario medio di un opera-io è di 1.300 euro al mese, mentre “inPolonia, anche se non ufficialmentenon ce lo hanno mai detto.., ci risulta

clienti così ripartito: 50% FIAT, 50%altro mercato; il sito di Grezzago havisto un aumento dei volumi grazie allaripresa di Iveco; il sito di Venaria haavuto un rallentamento della produzio-ne dovuto al fermo produttivo diMirafiori, anche se, secondo l’impresa,con la nuova Panda dovrebbe ripren-dersi. Da parte sindacale in quest’in-contro è stato lamentato che non sonostate fornite risposte sul futuro a brevené alle rivendicazioni che vorrebberosuperare lo squilibrio tra dipendentidiretti e indiretti. La RSU del sito diPassirano è stata molto critica: nonaccettando che l’impresa continui aparlare di esuberi, nonostante i taglioccupazionali ed essendo il personale(dipendenti indiretti) degli uffici sotto-dimensionato, inoltre sottolineandocome in Italia l’impresa ricorra alla CISmentre in Polonia dia avvio alla produ-zione di nuovi articoli, infine consta-tando come manchi un piano indu-striale che guardi al futuro. La ristrut-turazione è in atto ormai da sei anni enel frattempo la forza lavoro dello sta-bilimento di Passirano è calata da 580 a350 unità.

CF Gomma produce in parte inregime di piena subfornitura per laFIAT, in parte per produttori esterni,soprattutto tedeschi. Sui suoi lavorato-ri grava dunque lo “spauracchioMarchionne… con le sue teorie dellanuova organizzazione del lavoro, lariduzione dei costi, ecc.”. Tra i produt-tori esterni figurano big dell’auto comeVolkswagen, Audi, Ford, Mazda. APassirano si producono supporti anti-

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che un operaio costi 500 euro almese”. Ciò comporta due tipi di consi-derazioni. La prima: anche se gli operaidi Brescia non dispongono di un datocerto è plausibile che il salario dell’ope-raio polacco si avvicini ai 500 euro chevengono indicati (nel caso della delo-calizzazione Indesit erano addiritturameno: 250 euro). La seconda: il fattoche gli operai italiani non disponganodi notizie ufficiali dimostra l’inesisten-za di un coordinamento internazionalesindacale in grado di mettere insiemeinformazioni, documentazione ed,eventualmente, coordinare iniziativeunitarie. Quel che è certo è che inPolonia vengono trasferite le produ-zioni meno qualificate, conseguenzaanche del fatto che un operaio polaccoè meno qualificato professionalmentedi uno italiano: “in Polonia i direttifanno un po’ di tutto… non sono spe-cializzati… in Polonia hanno semprerifiutato responsabilità di produzioniqualificate”. Gli stampi, ad esempio,sono stati trasferiti in Polonia per il75% dei volumi produttivi, ma dalpunto di vista della qualità non hannoregistrato nessun miglioramento. InPolonia “si limitano a fare solo la pro-duzione… solo produzione pura…nessuna progettazione, niente. Quindil’articolo deve essere ben definito nellasua progettazione, nella fasi della rea-lizzazione, qui da noi… loro si limita-no a produrlo e basta.”.

Inoltre nello stabilimento polaccoc’è meno automazione delle produzio-ni, una maggior manualità del lavorooperaio e una organizzazione del lavo-ro molto meno razionalizzata: “uncesto con i pezzi viene passato ancheattraverso quattro mani”. A Brescia cisono molte più macchine automatizza-te e una diversa organizzazione dellavoro, che, non viene escluso, potreb-be essere oggetto di ulteriori interven-ti, nel caso cioè in cui si intendesseapplicare anche alla filiera dell’automo-tive la “dottrina Marchionne”. Conquesto non si intende affatto contrap-porre ad una organizzazione del lavoroper certi versi primitiva come quellapolacca, una organizzazione del lavoroscientifica e razionale come quella diMarchionne, finalizzata unicamente adaumentare il livello di sfruttamentodella forza lavoro. Si intende semmaisegnalare come da una parte (in Italia)l’aumento dello sfruttamento avvengaattraverso una intensificazione deiritmi di lavoro, in Polonia invece attra-

occupazionali: ciò serve alla FIAT adabbattere i propri costi di produzione.Anche la prima riduzione di personale,conseguente alle difficoltà finanziariedel 2006, fu in realtà dettata dallavolontà della FIAT di ridurre i propricosti di produzione.

Alla riduzione alle ristrutturazionioccupazionali e alla delocalizzazione inPolonia si deve poi aggiungere, sempreal fine dell’abbattimento dei costi diproduzione di CF Gomma e quindidella FIAT, l’esternalizzazione di alcu-ne funzioni e lavorazioni. Alcune fasilavorative come la zincatura sono stateesternalizzate, con conseguente chiu-sura dei precedenti reparti interni allaCF, sui quali, del resto, da tempo nonsi investiva. Questa d’altra parte è unastrategia molto in uso da parte diimprese che realizzano cicli produttivicomplessi: di non investire in determi-nate fasi di produzioni per renderle, difatto, obsolete e, quindi, per esternaliz-zarle. Anche il servizio di manutenzio-ne risulta quasi completamente ester-nalizzato. I manutentori interni, tral’altro figure specializzate, sono statipressoché dimezzati con la primacassaiIntegrazione del 2005: manmano che venivano accompagnati allapensione non venivano più sostituiti.

Le prospettive di mercato non sonocerto promettenti: in termini di volumisi è assistito alla continua contrazionedei quantitativi, fondamentalmenteperché la FIAT non appare in grado diprogettare nuove auto. Al massimonegli ultimi anni ci si è limitati al resti-ling delle vetture esistenti, “ma senzanessuna progettazione dietro”. A lorovolta “le auto di qualità come quelle amarchio Maserati o i SUV sono pro-dotti in quantità limitata… quindi nonè che ci diano molto lavoro. Poi c’è ilproblema dei costi: progettare un’autocome la Maserati costa parecchio,tanto più che di produzione ne faipoca”. Per garantire commesse inquantità tali da consentire la tenuta deilivelli occupazionali per gli operai dellaCF Gomma sarebbe meglio puntaresulle “auto di massa”.

Dal punto di vista sindacale non èfacile coordinare le rappresentanzesindacali dei tre stabilimenti italianidella CF Gomma. Esistono differenzenella contrattazione di carattere inte-grativo aziendale portata avanti nei trestabilimenti: i tentativi dell’impresa di

verso principalmente livelli salarialimolto bassi. Non si esclude, tuttavia,che in futuro in paesi come la Poloniasi possa assistere anche ad una combi-nazione dei due fattori: bassi salari eorganizzazione del lavoro in grado diintensificare ritmi e carichi.Ovviamente vale anche il ragionamen-to inverso: ossia che in Italia ad unaorganizzazione del lavoro centrata sul-l’elevata intensità dei ritmi lavorativi siaggiunga una politica di abbassamentisalariali (cosa, del resto, già in atto datempo in termini di contenimentosalariale).

Poiché l’impresa dispone già di unasoluzione di delocalizzazione, la batta-glia degli operai dello stabilimento diPassirano ha l’obiettivo di “mantenereil maggior numero possibile di lavora-zioni… cercare di farne uscire sempremeno”. In questo essi sono indiretta-mente aiutati dall’aspetto qualitativodelle loro produzioni: “le impresetedesche non vogliono comprare com-ponenti dalla Polonia… per via dellascarsa qualità. Li vogliono comprarequi da noi”. Inoltre per le impresetedesche che si riforniscono in Italiadelle componenti necessarie alle lorofiliere industriali, anche i salari italiani,seppur di gran lunga superiori a quellipolacchi, rappresentano una forma dirisparmio non indifferente sui lorocosti di produzioni.

L’influenza della FIAT, tuttavia, èsempre molto forte. Si tenga presenteche a lungo la CF Gomma è stata ilprimo fornitore per la FIAT; da quan-do la CF rischiò il fallimento, per erro-ri finanziari fatti dalla direzione, laFIAT entrò con capitale proprio nonpotendosi permettere che fallisse.Questo avrebbe significato restare alungo senza la fornitura diretta di com-ponenti necessarie alla produzionedelle auto. Esiste anche una vicendagiudiziaria che ha come protagonisti laFIAT e l’imprenditore campanoPugliesi, che avrebbe voluto rilevare laCF nel corso del 2006, quando que-st’ultima si trovava in piena crisi finan-ziaria. La FIAT, a detta di Pugliesi,avrebbe fatto di tutto per impedirgli direalizzare quanto si era prefisso, inmodo da tenere la CF sotto il propriocontrollo. Si comprende qui meglio,attraverso la necessità della CF per laFIAT, perché quest’ultima tenda aimporre alla CF piani di ristrutturazio-ne comportanti la riduzione dei livelli

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legare il premio di produttività all’an-damento del bilancio a Passirano sonostati fortemente contrastati dalla RSU:“il premio di produzione da noi èuguale per tutti… non è molto alto, maè garantito a prescindere dalla presen-za o meno, come invece avrebbe volu-to l’impresa”. Nello stabilimento diPassirano la RSU è composta da 9 per-sone, 5 della FILCTEM-CGIL permediamente il 70% dei consensi nelleelezioni. Il meccanismo di composi-zione delle RSU, data la quota di soli-darietà, penalizza la rappresentanzaCGIL. Anche l’andamento degli iscrit-ti non lascia adito a dubbi al riguardo:150 alla Cgil; 43 alla Uil, 13 alla Cisl.

Secondo gli operai intervistati,all’interno dello stabilimento la solida-rietà tra lavoratori sta andando sce-mando: “ormai si punta tutto sull’indi-vidualismo… abbiamo dovuto faredelle lotte dure con l’azienda per farrispettare il principio della rotazionedella cassaiIntegrazione, ma abbiamodovuto farlo capire anche ai lavoratoriche non era giusto che alcuni lavoras-sero sempre mentre altri erano semprein cassa”. La lotta per veder applicato ilprincipio della rotazione della cassaintegrazione viene ritenuta una delleconquiste più importanti dell’ultimoperiodo, “soprattutto se si tiene contoche a Torino c’è gente che è da dueanni che è fuori dalla produzione…sempre in cassa… addirittura alcunioperai di Torino venuti a lavorare quivedevano per la prima volta il principiodella rotazione”. Eppure nonostantequeste difficoltà imputate “all’indivi-dualismo dei lavoratori” i risultatigenerali degli scioperi sono buoni: lapartecipazione, sia per vertenze gene-rali che per vertenze aziendali, vieneritenuta molto soddisfacente: “grazieai picchetti riusciamo a tener fuorialmeno il 95% dei lavoratori, nono-stante UIL e compagnia cerchino sem-pre di tirare indietro”. Inoltre, ritenen-do che l’accordo del 28 giugno fosselesivo della democrazia e degli stru-menti di partecipazione, le RSU CGILhanno raccolto in fabbrica 244 firmedi lavoratori contrari a tale documento.Un’iniziativa simile è stata attuataanche per segnalare la contrarietàall’articolo 8 della manovra Tremonti.Viene rammentato che queste “peti-zioni vengono firmate anche da iscrittia CIIL e Uil”. Gli operai intervistatiritengono che la CGIL nella loro fab-brica sia un “sindacato che riesce a

La battaglia che attende i lavoratoridella CF Gomma è per ottenere unpiano industriale. “Usciamo da cinqueanni di cassa durante i quali sono cam-biati tre amministratori delegati, trecapi del personale, otto direttori diproduzione, i dirigenti sono passati daventisei a nove… e ogni volta che cam-biava qualche nome il nuovo arrivatopretendeva di rimettere tutto in discus-sione, di cambiare tutto… Ma adessobasta, dopo cinque anni così ci vuoleun piano industriale che dica con chia-rezza cosa faremo nei prossimi anni…vogliamo diventare una fabbrica nor-male!”.

contrattare, a farsi rispettare. Sa farsiseguire dai dipendenti e con la forzache ha porta a casa dei risultati”.Inoltre “qui come CGIL abbiamo unduplice ruolo: di forte controllo inter-no alla fabbrica, ma anche di stimolo edi critica verso la Confederazione,come nella vicenda del 28 giugno”.

Tra le materie oggetto di contratta-zione, tuttavia, non figura la questionedei ritmi, “al massimo facciamo unaverifica su quelli che l’azienda chiamatempi commerciali. Ma da noi non c’èil TMC2 e le altre cose fatte in FIAT.L’organizzazione del lavoro è preva-lentemente a isole, c’è la presa in cari-co del pezzo… fino a che è finito”.

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dossier DALLA PARTE DI GRAMSCI dossier

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RI-PENSARE (CON GRAMSCI) LARIVOLUZIONE IN OCCIDENTE

Introduzione al dossierIl “gesto” che proponiamo fin nel titolo di questo dossier, rappresenta oggi per il movi-mento operaio la più evidente delle necessità e, al tempo stesso, la meno praticatadelle abitudini.

di RAUL MORDENTI*

Ad argomentare della necessitàsono sufficienti i fatti, cioè la crisi capi-talistica. Il carattere sistemico di talecrisi, cioè il suo essere prodotta dalcapitalismo stesso e dalle sue caratteri-stiche essenziali (non da sue degenera-zioni marginali), è appunto un fatto,compreso perfettamente dai capitalististessi e dalle intelligenze di cui essi –nonostante tutto – dispongono. Sonoquelle intelligenze che parlano ormaiapertamente della necessità, per chiun-que voglia capire qualcosa della crisi inatto, di un “ritorno a Marx”. Comescrive Giancarlo Saccoman, «una parteminoritaria degli economisti, a partireda Nouriel Roubini, era giunta a preve-dere, anche con molto anticipo, loscoppio della crisi, e aveva convinto diquesta previsione persino analistifinanziari e alcuni grandi giornali eco-nomici, come il Financial Times, cheavevano argomentato, anche conrichiami a Marx, come le crisi fosseroun fenomeno fisiologico proprio delmodo di produzione capitalistico: lacui origine essendo nelle contraddizio-ni operanti nella sfera della produzionee la cui esplicitazione avvenendo inquelle della circolazione e della realiz-zazione del valore. Questo modo diproduzione è infatti portatore di unacontraddizione tra crescita produttivae appropriazione privata borghesedella ricchezza».

Si noti che il Marx che si rivelaattuale, anzi necessario, non è un inno-cuo Marx “culturale”, quale fu fattooggetto in passato di altri “ritorni”idealisti e liquidatorii, ma è esattamen-te il Marx analista del capitalismo e, suquesta base, teorico-pratico della rivo-luzione sociale. Naturalmente – sianotato en passant – i capitalisti italianinon riescono a spingersi fino a questilivelli di onestà intellettuale, e la“Repubblica” dell’8/1/2012 dedica sì

no concretamente le porte a un nuovofascismo del XXI secolo. A questoesito nefasto della crisi (che a tutt’oggi,occorre esserne coscienti, non è certoil più improbabile) si può opporre solouna posizione di critica politica delcapitalismo in crisi, che sappia esserealtrettanto sistemica della crisi a cui sicontrappone; in concreto, ciò significadotarsi di un’idea di rivoluzione socialeche sappia diventare patrimonio dellemasse e fondamento di un nuovo ciclounificato di lotte.

Per questo occorre ri-pensare larivoluzione, nel doppio significatodella parola “ri-pensare”, cioè (a) tor-nare a pensarla e (b) pensarla ex novo,rifondando le idee di rivoluzione di cui– per ipotesi – disponevamo. In veritàè più probabile che il movimento ope-raio del XX secolo non disponesse più,e non disponga oggi, di nessuna idea dirivoluzione (ma dunque di nessunavera autonomia ideale e politica rispet-to al capitalismo in crisi!), e questo è ilbel risultato del mix micidiale e distrut-tivo, ma coerente, fra l’ortodossia à lasovietica e il liquidazionismo più dis-sennato (di cui la vicenda del PCI-PDS-DS-PD è stato in Italia paradig-ma esemplare). Per questo siamo difronte alla situazione paradossale cheVittorio Rieser segnala: «Ci troviamodi fronte a una crisi del capitalismoaltrettanto e più profonda di quella del1929. Come mai il movimento operaio,la sinistra in generale, non ne “appro-fittano” per rafforzarsi, ed avanzare orealizzare (almeno parzialmente) unaproposta alternativa? E anzi sembranotoccare il loro punto massimo di debo-lezza?».

Siamo allora di fronte a un compitoteorico-pratico formidabile, per ilquale non siamo certo adeguati, e anzisi fa ora del tutto evidente il terribile

una doppia pagina con richiamo inprima a Marx, ma inventandosi di sanapianta un Marx che – finalmente! –“aveva rinunciato alla politica” (sic!),che “annotava la sua fiducia nel liberodibattito e confronto fra idee e forzepolitiche” (sic!), che sapeva solo (sinoti bene: solo!) di “non essere marxi-sta” e che, insomma, forse frequentavacon un secolo di anticipo i salotti delMondo di Pannunzio, a braccetto conEugenio Scalfari.

Dunque, ri-pensare la rivoluzione èoggi per noi una necessità urgentissi-ma, a cui sono legate strettamente duecose entrambe vitali per il movimento:non solo la prospettiva strategica diuna fuoruscita organica e storicamenteprogressiva dalla crisi capitalistica maanche, nell’immediato, la nostra capa-cità (tutt’altro che scontata) di impedi-re che del capitalismo in crisi e dei suoidisastri sociali approfitti l’estremadestra della Lega, dei neo-fascismi edei razzismi plebei per instaurare unanuova barbarie, di cui peraltro avver-tiamo già tutti i segnali. Come ricorda(nel contributo che qui pubblichiamo)Lucio Magri: «All’inizio degli annitrenta Hitler andò al potere con ilsostegno di una forte spinta di massa,non come risposta alla ‘minacciacomunista’ – peraltro in quegli anni giàlargamente contenuta –, ma come unadelle risposte possibili alla crisi delcapitalismo liberale». In altre parole, lepolitiche pervicacemente e ottusamen-te neo-liberiste della BCE e dellaMerkel (da noi del Governo Monti-Napolitano) disarticolando ogni resi-stenza operaia con precariato e disoc-cupazione, distruggendo diritti sinda-cali e democrazia, privatizzando tutto edi più, provocando miseria e dispera-zione sociale, insomma gettando labenzina di più liberismo sul fuocodella crisi prodotta dal liberismo apro-

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introduzione

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ritardo che abbiamo accumulato inlunghi decenni di colpevole trascura-tezza della riflessione e dell’elaborazio-ne sul tema della rivoluzione (unaparola, fino a poco fa, addiritturaimpronunciabile a sinistra). Ma ci sonofasi in cui porsi le domande giuste èancora più importante che non abboz-zare risposte presuntuose, e le doman-de giuste che la storia (non qualchemanìa estremistica) pongono oggi almovimento operaio sono, con ognievidenza, le seguenti: come si fuoriescedal capitalismo prima che il capitali-smo in crisi dispieghi i suoi carattericatastrofici (crisi occupazionale,ambientale, etico-politica, guerra, etc.)?E come si avvia un tale processo nonin un ipotetico “altrove” futuro, maoggi e qui, nel cuore dell’Occidentecapitalistico?

L’ipotesi che qui proponiamo è chel’originale elaborazione di AntonioGramsci sulla rivoluzione in Occidentepossa fornire il punto più avanzato peravviare la riflessione collettiva di cuiavvertiamo la necessità. Non è questoil luogo per argomentare una simileaffermazione: sarà sufficiente, credia-mo, la lettura dei saggi che il “Dossier”propone e che elenchiamo qui, a mo’di “invito alla lettura”.

Guido Liguori fornisce la tramafondamentale, dal punto di vista stori-co e politico, del pensiero di Gramsci,e lo fa – da vero gramsciano – renden-dosi comprensibile anche per i nonaddetti ai lavori (questo non è l’ultimodei pregi del suo contributo).Giuseppe Prestipino approfondiscemagistralmente la questione della rivo-luzione anche nei suoi risvolti filosofi-ci, che si rivelano – una volta di più –essenziali al tema, esattamente come funei momenti più avanzati e fecondidella storia del movimento operaio:«Nel quadro della moderna guerra diposizione, una episodica guerra dimanovra non è interdetta. Sarà possi-bile oggi, in assenza di un movimentooperaio compatto, unito e nella suainterezza cosciente? Forse sì, se tutte lesparse e disgiunte azioni di protestapotranno essere unificate come se idiversi obiettivi fossero uno solo (…)Cento libertà diverse sono una solalibertà soppressa. Lottare bisogna pertutte e riconquistarle come se fosserouna sola». Pasquale Voza, riprendendoun suo originale filone di ricerca, evi-denzia il nesso fra le categorie gramcia-ne di “rivoluzione passiva” e di “ege-monia”: «Anti-rivoluzione passiva e

lotta – e, su ambedue questi livelli,interviene l'interazione con le organiz-zazioni del proletariato stesso. Inassenza o debolezza di questa intera-zione, l’elaborazione a partire dal-l’esperienza di condizione e di lottarimane al livello di “senso comune”,cioè di elaborazione spontanea edapprossimativa, e non di coscienza diclasse, cioè di elaborazione più siste-matica e “politica”. Quindi, la prolun-gata assenza di una “prospettiva alter-nativa” da parte delle organizzazionidel movimento operaio ha fatto sì chenel “senso comune di massa” si sianoradicate idee delle classi dominanti, che“davano conto” dell'esperienza di clas-se in modi non contestati da qualchealtra interpretazione», (e, nonostante larenitenza dell’originale marxismo diRieser ad ogni “gramscismo” dimaniera, non si può non notare comesia eminentemente gramsciano il pro-blema da lui posto del “senso comu-ne”, inteso come luogo e – al tempostesso – come posta in gioco della lottaper l’egemonia fra le classi). «La crisi –scrive Giancarlo Saccoman - comportaanche una dissoluzione delle coscienze(…) e dei soggetti collettivi, distruttida un riassetto produttivo che disperdeinteressi e solidarietà generali, scom-ponendoli in “moltitudini” di individuiin concorrenza fra loro, incapaci diriconoscersi in un progetto comune ein un’azione collettiva, disposti ad affi-darsi al cesarismo di un capo carisma-tico e a identificarsi in un neotribali-smo rancoroso e xenofobo. Ma la“morte del proletariato” come “classeper sé” è provvisoria: la contraddizio-ne ineliminabile fra capitale e lavorodetermina, con l’avvio del nuovo ciclo,una nuova condensazione di soggetti-vità di coscienza e di lotta, sulla basedelle nuove forme assunte da tale con-traddizione».

Quest’ultima considerazione è lasolida base materiale se non dellanostra certezza almeno della nostralotta.

* curatore del Dossier

contro-egemonia erano per Gramscidue facce dello stesso processo dicostruzione di una radicale e organicalotta anti-capitalistica. Il processo dicostruzione di una egemonia alternati-va, in altre parole, era inteso semprecome costitutivamente critico e mairiconducibile alla dimensione, per cosìdire, positiva di un modello culturale,sociale, ideologico da contrapporre-sostituire all’egemonia esistente».Lucio Magri – leggendo la costruzionetogliattiana del “gramscismo” – dàprova di un modo di affrontare il pro-blema politico ancora capace di tenereinsieme la storia, la teoria marxista e lalotta di classe del movimento operaiointernazionale nelle terribili prove delNovecento. È questo un modo di pen-sare “a tutto tondo” che fu caratteristi-co dei comunisti, e di cui abbiamoavvertito molto la mancanza. InfineMarcos Del Roio testimonia (a partiredal suo Brasile) come il pensiero gram-sciano sia oggi utilizzato nel mondo“grande e terribile (e complicato)”, efornisce un saggio di quanto essopossa contribuire all’originale “sociali-smo del XXI secolo”.

Vittorio Rieser pone nei termini piùradicali la questione più radicale, e pre-cisamente quella della forza soggettivasenza cui non si dà iniziativa politicadel movimento operaio: si può fare ameno di una tale soggettività politicaorganizzata? E, se la risposta a questaprima domanda è no, come si costrui-sce una tale soggettività? Come partiredalle macerie che ci circondano e dicui, anzi, noi stessi siamo parte? ScriveRieser: «La categoria del “tradimentodei gruppi dirigenti” della sinistra ècertamente una semplificazione insuf-ficiente, ma forse è più reale di quelladella “integrazione/subordinazionedelle classi lavoratrici”: le lotte, sia pure“sparse”, contro una situazione di pro-gressivo peggioramento lo dimostrano.La categoria del tradimento dunquenon va scartata ma in ogni caso nonspiega tutto: quindi, tra l’altro, nonbasta una “organizzazione non tradi-trice” per ricostruire (…). Il fatto è,comunque, che oggi il proletariato – inItalia come in Europa – manca diun’organizzazione politica che sia ingrado di dare una “prospettiva unifi-cante” alle sue lotte – neanche nellaforma indiretta di sostegno a quei sin-dacati che, talvolta, le organizzanodirettamente. La coscienza del proleta-riato non si forma solo attraversol’esperienza della propria condizione,ma anche attraverso le esperienze di

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La rivoluzione russa “contro ilCapitale”

Poche settimane dopo egli scrisseun articolo di saluto e di commentoalla Rivoluzione russa. Un saluto, chesuonò molto strano – e può sembraretutt’oggi strano a chi non conoscabene i percorsi della militanza e dellaformazione culturale e politica diGramsci. Questo articolo, infatti, avevaun titolo particolare, poi divenuto cele-bre: “La rivoluzione contro ilCapitale”, dove il “Capitale” era pro-prio il libro di Karl Marx. Al di là deltitolo provocatorio, la rivoluzionerussa vi era vista come una rivoluzionevenuta a smentire non il pensiero diMarx, ma l’interpretazione che il mar-xismo ortodosso, economicista, deter-minista e riformista aveva dato delpensiero di Marx, cercando di “spiega-re” perché non sarebbe stato possibileche una rivoluzione potesse scoppiarein Russia.

Gramsci si era formato in un climaculturale particolare, quello della ribel-lione contro il positivismo e il marxi-smo positivista, contro il determini-smo economicista della SecondaInternazionale. I suoi maestri in questaoriginale via al socialismo erano stati –insieme ad Antonio Labriola, il primomarxista italiano – sindacalisti rivolu-zionari come Georges Sorel (alle spalledel quale vi era anche la filosofia diBergson), autori liberali come Croce eGentile, filosofi del linguaggio comeMatteo Bartoli, filosofi pragmatisticome William James, liberalsocialistimeridionalisti come GaetanoSalvemini. Cosa avevano in comunetutti costoro? Il fatto che essi nonaccettavano una visione della storiaoggettivistica e deterministica, concor-davano tutti nella rivalutazione delruolo del soggetto, della soggettività –anche se alcuni pensavano al soggetto

A Torino Gramsci continuò a fare lafame (visto l’insufficienza della borsadi studio). Nella città piemonteseconobbe la classe operaia, una dellepiù forti e organizzate del tempo . ATorino divenne pienamente socialista,per l’esattezza socialista rivoluzionario,schierato contro le correnti riformistedel partito socialista del tempo.

L’Ordine Nuovo, il 1919-20 aTorino, l’incontro con il bolscevi-smo

A Gramsci interessava nell’azionepolitica e nella cultura dell’epoca tuttociò che esaltava la volontà e l’azione,contro i socialisti riformisti che diceva-no che la storia ha leggi certe e ineso-rabili e che bisogna rispettarle e proce-dere con gradualismo. E anche controi marxisti deterministi ortodossi comeBordiga, per cui le leggi della storiaavrebbero portato inesorabili al sociali-smo – da cui il rischio del fatalismo, lasottovalutazione dell’importanze dellapreparazione culturale e politica dellarivoluzione.

Venne poi la guerra mondiale, e conessa la Rivoluzione russa. NellaRivoluzione leninista Gramsci videsubito la conferma della sua culturasoggettivistica, anti-fatalistica, anti-deterministica, anti-economicistica. Lavittoria dei bolscevichi gli parve la vit-toria del soggetto rivoluzionario, dellavolontà collettiva rivoluzionaria. InRussia – egli scrisse in quel famosoarticolo, “La rivoluzione contro IlCapitale” – il “Capitale” di Marx era illibro dei borghesi, di chi diceva che larivoluzione era impossibile perché laRussia era un paese arretrato. Ma laguerra aveva cambiato questa situazio-ne, aveva accelerato la presa di coscien-za delle masse, aveva permesso la rivo-luzione. La volontà degli uomini asso-ciati, diceva Gramsci in quell’articolo,

più sul piano filosofico o epistemologi-co e altri pensavano al soggetto su unpiano soprattutto storico e politico.

Gramsci, giovane povero e schiac-ciato dall’ingiustizia sociale nell’isoladove era nato, la Sardegna, coniugòquesta cultura soggettivistica italiana diinizio Novecento con la ribellione chegli veniva dalle ingiustizie che subiva lasua isola e tutto il Mezzogiorno. Eanche con le ingiustizie che egli avevasubito personalmente. Divenne unribelle, primo passo per divenire inseguito un rivoluzionario.

Con questa esperienza esistenzialealle spalle non sorprende che Gramscisposasse quella cultura antipositivisticae anti-deterministica che diceva che ilsoggetto può ribellarsi alle leggi stori-co-sociali, può cambiare la situazionestorica. Che affermava che le leggidella storia non sono scritte in tutto eper tutto, ma che sono le donne e gliuomini ad avere la possibilità di cam-biare il corso della storia. Tanto più ledonne e gli uomini associati, pensavaGramsci, che sapessero unirsi e forma-re insieme una “volontà collettiva”.

Il giovane ribelle sardo divenne dun-que più tardi a Torino, la più grandecittà industriale e operaia d’Italia, dovesi trasferì nel 1911 in seguito alla vinci-ta di una borsa di studio per frequenta-re l’università, un giovane socialistaanti-riformista, ancora con aspetti libe-rali e liberoscambisti – perchénell’Italia del tempo statalismo voleva-no dire non solo nazionalismo e milita-rismo, ma anche il protezionismo cheserviva a garantire lauti guadagni allaborghesia del Nord e un certo benes-sere alle aristocrazie operaie settentrio-nali, contro il Sud d’Italia e contro icontadini, che costituivano allora lamaggioranza della popolazione.

LA RICERCA DI GRAMSCI dall’“Ordine Nuovo” ai “Quaderni del carcere”Quando Antonio Gramsci nel 1917 a Torino seppe della Rivoluzione scoppiata inRussia, guidata dal partito bolscevico e da Lenin, salutò quell’evento con entusiasmo,come del resto fecero molti altri intellettuali e militanti socialisti della sua generazione,ovunque nel mondo.

di GUIDO LIGUORI

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può dunque modificare le leggi dellastoria e dell’economia: la politica non èe non deve essere subordinata all’eco-nomia, il rapporto è dialettico. La poli-tica può intervenire nell’economia enella storia e creare novità, aprire pro-cessi, far pesare la volontà collettivadelle donne e degli uomini associati.

Non mancano in questo scritto gio-vanile, e nel Gramsci di questo perio-do, aspetti vitalistici e idealistici ecces-sivi. Il Gramsci maturo, il Gramsci dei“Quaderni del carcere”, riformulerà lasua visione del processo rivoluziona-rio, arrivando a un rapporto di equili-brio e di influenza reciproca tra i sog-getti rivoluzionari e i “rapporti diforza”, cioè la situazione oggettiva incui i soggetti rivoluzionari sono inseri-ti e di cui devono tener conto. La real-tà storico-sociale apparirà all’autore dei“Quaderni” un campo di possibilità,che le condizioni oggettive offrono alsoggetto, all’interno del quale si deter-minerà un certo esito o un altro aseconda dell’azione, della volontà,delle capacità del soggetto stesso. È lospazio della politica.

L’ipersoggettivismo giovanile diGramsci sarà pian piano superato pro-prio a partire dalla situazione nuovache la Rivoluzione d’Ottobre avevacreato e che ricollocava la “visione delmondo” gramsciana su un terrenonuovo e più concreto, più politico.

Vennero poi gli anni 1919-1920, ilcosiddetto “biennio rosso”. Sono glianni dei Consigli di fabbrica, dei Sovietche sorsero a Torino sull’esempiorusso (come avvenne in Baviera, inUngheria e in altri paesi europei). IConsigli a Torino furono guidati dalsettimanale “L’Ordine Nuovo”, direttoda Gramsci, che in questo periodo fuuno dei principali teorici mondiali dellademocrazia consigliare: dualismo deipoteri, democrazia di fabbrica, convin-zione che il proletariato fosse unmondo a parte, fortemente contrappo-sto al mondo e allo Stato borghesi.Gramsci e il movimento proletarioerano guidati da un forte “spirito discissione”, come dirà Gramsci stesso,richiamandosi alla eredità non solo diLenin, ma anche del teorico francesedel sindacalismo rivoluzionario, Sorel.

Durò poco quella parentesi in cui sicredette che la rivoluzione fosse all’or-dine del giorno in Italia: solo due anni.Il rapporto che Gramsci allora stabilì

Negli anni Venti – di fronte alladrammatica vittoria del fascismo – ilruolo del partito, del Partito comuni-sta, aumentò di molto, nella teoria enella prassi di Gramsci, come in quel-le di tutti i comunisti.

Ma la domanda che Gramsci siponeva e che era alla base del suoripensamento era più di fondo, non sifaceva imbrigliare nella falsa alternativa“movimenti o partito”, “consigli o par-tito”. La domanda di Gramsci era: per-ché abbiamo perso? Perché pensava-mo di stare per fare la rivoluzione einvece aveva vinto il fascismo? Nel1923 egli dà – in un articolo significati-vamente intitolato “Che fare?” , comeil libro di Lenin – una prima significa-tiva risposta a questa domanda. Larisposta era la seguente: abbiamo persoperché non conosciamo l’Italia. Noicomunisti abbiamo perso perché nonconosciamo la storia del nostro paese ela sua struttura sociale, perché nonabbiamo saputo analizzare bene leforze politiche in campo, perché nonabbiamo studiato i rapporti fra le clas-se della società italiana.

Nei due anni successivi, con le“Tesi” per il Congresso di Lione delPartito comunista d’Italia e con loscritto (incompiuto a causa dell’arre-sto) intitolato Alcuni temi della qui-stione meridionale, Gramsci e il grup-po dirigente raccolto intorno a lui ini-ziarono a studiare da capo la realtà sto-rica e sociale dell’Italia del tempo.

Il carcere e i “Quaderni”. Politica estato in Occidente

Nonostante godesse dell'immunitàparlamentare, Gramsci venne arrestatol’8 novembre 1926 a Roma. Fu con-dannato nel 1928 dal Tribunale specia-le fascista a oltre vent’anni di carcere.Dal luglio dello stesso anno fino alnovembre 1933 fu nel carcere di Turi,presso Bari. In seguito all’aggravarsidelle sue condizioni di salute (avevarifiutato di chiedere la grazia aMussolini, considerandola una capito-lazione morale e politica), Gramsci furicoverato in una clinica di Formia epoi, dall’agosto 1935, in una clinica diRoma. Riacquistò la libertà appenapochi giorni prima di morire, per unaemorragia cerebrale, il 27 aprile 1937.

In carcere Gramsci aveva ottenuto ilpermesso di leggere e scrivere. E sibuttò disperatamente nel lavoro. Il

con gli operai (egli fu davvero «un capoche sapeva ascoltare gli operai», comepoi disse uno dei capi operai della Fiat)fu una lezione che non dimenticheràpiù. Ma l’esito di quella esperienzarivoluzionaria fu la sconfitta del movi-mento operaio e la vittoria del fasci-smo.

“Perché invece della rivoluzione havinto il fascismo?”. Le “Tesi diLione”

Iniziò lì, da quella sconfitta, inGramsci, un ripensamento. Anche inUnione Sovietica, dove Gramsci vissenel 1922-1923, era iniziato un ripensa-mento. Erano gli anni della NEP, laNuovo Politica Economica voluta daLenin, dopo gli anni del cosiddetto“comunismo di guerra”. Era in parteuna autocritica di fatto. I tempi dellarivoluzione dovevano essere più lenti.La situazione della Russia rivoluziona-ria era molto difficile. Bisognava creareintorno al proletariato – pensava Lenin– una rete di alleanze, o almeno di cetie classi neutrali, non ostili.

Si trattò anche di un ritorno parzia-le al mercato, di una maggiore atten-zione all’equilibrio tra settori stataliz-zati e non statalizzati dell’economia,alle esigenze dei contadini e di altri set-tori della società non proletari, cheavevano bisogno del mercato e a cui ilproletariato doveva fare delle conces-sioni sul terreno economico perchédoveva “conquistarli” politicamente,egemonizzarli (egemonia è un termineche Gramsci trarrà dai dibattiti di allo-ra della Terza Internazionale), “diriger-li” nella costruzione graduale di unasocietà socialista.

Più tardi lo stalinismo e i piani quin-quennali avrebbero spazzato via tuttoquesto. Si sarebbe tornati al trionfodella coercizione sociale, sia pure eser-citata non più in nome di forze socialiborghesi. Stalin sconfisse Trockij mapoi ne sposò il progetto di industrializ-zazione a tappe forzate che colpivaduramente i contadini e metteva forte-mente in crisi il progetto di alleanzevoluto da Lenin.

Quel progetto leninista di alleanzaintorno al proletariato – simboleggiatoanche, dal 1922, dalla parola d’ordinedel “fronte unico” – fu il punto di par-tenza della riflessione politica delGramsci maturo, che Gramsci non rin-negò mai.

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lavoro intellettuale fu il suo modo,l’unico modo possibile, per continuarela sua battaglia politica. L’asse centraledi questa battaglia politica e della suariflessione in carcere fu il tentativo dirispondere sempre alla stessa doman-da: perché abbiamo perso? Perché havinto la controrivoluzione? Come èpossibile per il movimento operaio ecomunista ripartire, ritornare a vince-re? L’analisi della sconfitta partiva perGramsci dalla distinzione tra Oriente eOccidente, due categorie geopolitiche,non solo geografiche. I comunisti ave-vano perso, in tutta Europa e non soloin Italia, perché non avevano compre-so pienamente che non era possibilenei paesi a capitalismo avanzato “farecome in Russia”. Perché non avevanocompreso che la Rivoluzione russa eral’ultima rivoluzione ottocentesca, fattanon a caso in un paese arretrato, e nonuna rivoluzione che poteva fungere damodello nei paesi capitalisticamentepiù avanzati. Dove vi era una realtàsociale e politica diversa e dove dun-que anche la rivoluzione non potevache essere diversa. L’Italia era perGramsci un paese “semiperiferico”, inparte arretrato e in parte avanzato, macomunque abbastanza moderno perrendere impossibile un ripetersi puro esemplice di una rivoluzione come quel-la che aveva vinto nella Russia zaristadel 1917.

Il problema per Gramsci era inprimo luogo quello della scarsa cono-scenza della storia e della società italia-ne, e i “Quaderni del carcere” furono iltentativo di iniziare a colmare questalacuna. Ma la sua indagine andò oltre.Egli mise a fuoco la morfologia dellasocietà capitalistica moderna, occiden-tale. Benché chiuso in una cella di uncarcere fascista, ad esempio, seppevedere nell’americanismo – nel model-lo americano, contraddistinto da unacerta struttura sociale, da un capitali-smo espansivo e dal modello politicoliberaldemocratico – il destino delcapitalismo, il vero futuro del capitali-smo. Quali sono, molto brevemente esommariamente, le convinzioni a cuipervenne Gramsci in carcere?

In primo luogo, Gramsci in carcerevalorizza un certo Marx, il Marx dialet-tico che a partire dalle “Tesi suFeuerbach” mette al centro la soggetti-vità, anche se non in modo assoluto eindiscriminato. Con questo Marx,Gramsci avanza una reinterpretazionedella “Prefazione del 1859” a “Per lacritica dell’economia politica” di Marx,

I “Quaderni”. Stato e “società civi-le” in Occidente

In terzo luogo, l’allargamento delconcetto di Stato avviene anche inun’altra direzione. Nelle società capita-listiche avanzate lo Stato e più in gene-rale il potere non si presentano conuna faccia puramente repressiva. Nellamoderna società di massa, affermaGramsci, accanto agli apparati repres-sivi dello Stato vi è quello che egli chia-ma “apparato egemonico”, ovvero l’in-sieme degli apparati che produconoconsenso. Questi apparati hanno ilcompito di elaborare e diffondere ilsenso comune, la visione del mondodelle grandi masse.

Partendo dalla concezione marxistaper cui lo Stato «non produce la situa-zione economica ma è l’espressionedella situazione economica», Gramscielaborava dunque una originale conce-zione dello Stato, che definiva «Statointegrale» o, come è stato poi detto,«Stato allargato» .

Con “Stato integrale” egli intendeche tra Stato e società civile la distin-zione è più apparente che reale, perchéspesso gli apparati egemonici si pre-sentano come luoghi della società civi-le, cioè privati, non statali, ma che inrealtà sono organicamente legatiall’azione dello Stato e delle classi chedetengono il potere. Non è esatto dun-que dire, come è stato detto da molti(anche da Norberto Bobbio), cheGramsci è il teorico della società civile.Gramsci è il teorico dell’unità dialetticadi Stato e società civile, intendendo persocietà civile, nel suo linguaggio,soprattutto l’insieme di quelle istituzio-ni dove si crea il consenso e che sonoinsieme pubbliche e private: Chiese,scuole, giornali e mass media, partiti esindacati legati alle classi al potere.Persino la toponomastica, i nomi dellestrade, scrive Gramsci, servono percreare e trasmettere il senso comunedominante. Per creare cioè egemonia,un consenso legato anche a un certomodo di garantire la produzione e lariproduzione sociale.

Certo, dietro gli apparati del consen-so – ricorda Gramsci – vi sono gliapparati coercitivi, esercito e polizia,che entrano in campo quando è stret-tamente necessario. L’«esercizio “nor-male” dell’egemonia nel terreno dive-nuto classico del regime parlamentare– egli scrive – [è] caratterizzato da unacombinazione della forza e del consen-

una re-interpretazione tutta tesa a valo-rizzare il rapporto dialettico tra baseeconomica e sovrastruttura, dando altermine sovrastruttura una valenza checomprende soprattutto la politica e leideologie. Le idee – dice Gramsci ripe-tendo un noto passo di Marx – sonoarmi nel momento in cui se ne impos-sessano le masse. La politica e le ideo-logie non sono un “riflesso” dellastruttura, reagiscono su di essa, hannoun ruolo attivo, sono determinanti nel-l’ambito del contesto storico prodottodall’evoluzione della base strutturale.Tutta la concezione gramsciana delmarxismo è basata sul fatto che il mar-xismo sia una nuova e integrale conce-zione del mondo che deve far fare ungrande balzo in avanti culturale allemasse, da sempre escluse dalla culturae dalla politica.

In secondo luogo, Gramsci ritieneche il modo di essere del capitalismosia quello di una “continua crisi”. Lacrisi cioè non è un evento epocale, nonè il crollo drammatico e risolutivo atte-so da molte correnti della Seconda edella Terza Internazionale. La crisi è ilmodo di essere stesso del capitalismo.Anche la grande crisi del ’29, l’apicedella crisi capitalistica del Novecento,non aveva determinato il crollo delsistema. Perché a fronte della crisi eco-nomica avevano resistito – diceGramsci – tutta una serie di istituzionisociali atte a garantire comunque ilconsenso (“trincee”, “fortezze” e“casematte”, le chiama Gramsci, con illinguaggio metaforico della Primaguerra mondiale). L’intervento delloStato sia in campo economico che nelcampo del consenso era stato fonda-mentale. Non a caso nel Novecento siè poi avuto – al di là di quel che voglio-no far credere le ideologie liberiste –un continuo intervento dello Stato perregolare e rendere produttivo tale statodi crisi ed evitare che degeneri.

Gramsci propone quindi quello cheè stato definito un «allargamento» delconcetto di Stato. Un nuovo concettoche fotografa il nuovo rapporto trapolitica ed economia che si crea nelNovecento e che interessa i paesisocialisti come quelli fascisti, le social-democrazie del Nord Europa come ilkeynesismo. A partire dalla consapevo-lezza della connessione dialettica diquesti due livelli della realtà storico-sociale, l’economia e lo Stato, Gramscicoglieva il nuovo ruolo che il politicoaveva acquisito anche in relazione allaproduzione economica.

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so che si equilibrano». Ma è il consen-so e sono gli apparati del consenso –egli aggiunge – a svolgere nelle societàmoderne il compito principale nell’as-sicurare il potere sociale.

Oggi in Italia più che mai vediamobene come questo sia vero. Un imperomassmediologico privato fa tutt’unocon gli apparati statali per la formazio-ne di un senso comune liberista e anti-comunista, o comunque moderato eimperniato sul convincimento che nonsi possa fare nulla né cambiare, perchéle regole del mercato e dell’economianon lo consentono. Un nuovo sensocomune determinista, economicista,che afferma che l’economia ha le sueleggi contro cui le donne e gli uominiassociati, la loro volontà collettiva nullapossono fare. E anche al di là dellestorture del caso italiano di oggi, restavero che gli apparati privati, dellasocietà civile, nei paesi capitalisticiavanzati sono tutt’uno con la gestionedel potere politico e culturale e con laproduzione di senso comune, che è ilmiglior collante del sistema vigente.

Questa descrizione del potere avvi-cina Gramsci ad alcune analisi delpotere a lui posteriori, dalla scuola diFrancoforte alla “scuola francese” diAlthusser o di Foucault. Ma vi era e viè una differenza fondamentale, per cuiil pensiero di Gramsci è un pensierorivoluzionario e utile alla nostra politi-ca. I processi descritti da Gramsci,infatti, non sono univoci, la «relazioneegemonica» pone di per sé le premessedella crescita di soggettività e dunquedi conflittualità del «subalterno», lo«Stato integrale» costituisce anche ilterreno dello scontro di classe, è insie-me strumento (di una classe) e luogodi lotta egemonica fra le classi.

I “Quaderni”. Come la rivoluzionein Occidente

Ovviamente, essendo cambiata laforma del potere, cambia anche il con-cetto di rivoluzione. Il potere non è piùvisto risiedere in un “Palazzod’Inverno”, appare a Gramsci articola-to, diffuso in innumerevoli siti politici,culturali ed economici, che tutti insie-me costituivano lo «Stato integrale». Diconseguenza la ridefinizione del con-cetto di rivoluzione passava per l’affer-mazione di una concezione della lotta«molecolare» e della necessità di una«riforma intellettuale e morale». Con ilvecchio linguaggio della prima guerra

ne sociale che viene dalla cultura, adesempio, o dalle tradizioni. Questa ealtre categorie gramsciane hanno oggimolta diffusione nel mondo –dall’India al Sud America, al mondo dilingua inglese – proprio per la loroflessibilità, adatta a cogliere un mondocomplesso e diversificato. Subalternisono potenzialmente tutte e tutti colo-ro che in vario modo sentono l’oppres-sione della egemonia capitalistica esono perciò potenzialmente interessatia costruire contro-egemonia.

È chiaro che la politica di oggi nonpuò essere messa sulle spalle diGramsci. Essa è tutta sulle spallenostre. È compito nostro studiare ecapire le forze in campo, i soggetticontro-egemonici, unificarli, costruirecon essi un’altra egemonia possibile.Resta il fatto che anche noi comeGramsci partiamo da una sconfitta. Eche di Gramsci ci restano alcune cate-gorie fondamentali, strumenti per lanostra comprensione del mondo, e unaimportante acquisizione di metodo .

Il metodo di partire dalla realtà,dalla conoscenza della realtà in cuioperiamo, come diceva Gramsci giànel 1923. Non si deve prendere lemosse dai nostri sogni e nemmenosolo dai nostri programmi, pure bellis-simi. Occorre prendere le mosse dallasituazione reale, dalla ricognizionedelle forze in campo, dai bisogni socia-li diffusi a livello di massa, dalle cor-renti culturali presenti nella società incui operiamo. Solo a partire dalla real-tà si può fondare una azione politicache abbia qualche possibilità di succes-so, interpretando i bisogni e le esigen-ze reali dei popoli.

Questo è l’insegnamento diGramsci. La lezione e l’esempio diGramsci possono e devono essere ilpatrimonio condiviso delle forzecomuniste e rivoluzionarie, in Italia, inEuropa e non solo. Come mostra ladiffusione odierna del suo pensiero, lecapacità analitiche di questo comunistaoriginale sono ancora attuali. È unpatrimonio che noi per primi dobbia-mo rivendicare e porre alla base dellanostra azione politica.

mondiale Gramsci dice che si devepassare dalla guerra di movimento allaguerra di posizione, una lotta lunga,dove la posta in gioco non è una vitto-ria sul campo di battaglia, in una batta-glia che dura pochi giorni, comenell’Ottocento, ma un paziente fron-teggiarsi degli eserciti che cercano diconquistare quelle che lui chiama “trin-cee” e “casematte”, o “fortezze”, cioèi luoghi in cui si produce consenso,cultura diffusa, senso comune.

Le classi subalterne lottano permantenere la propria autonomia e avolte per costruire una propria egemo-nia, alternativa a quella dominante,contendendo alla classe al potere le«trincee e casematte», gli apparati cul-turali e massmediologici, dalle quali sipropagano ideologia e senso comune.

Ma come possono i subalternidiventare egemonici? Come possonoelaborare e diffondere un senso comu-ne diverso rispetto a quello dominan-te? In questo quadro per Gramsci fon-damentale era la funzione del partitorivoluzionario, senza il quale la costru-zione di una diversa egemonia appari-va impossibile.

È questo uno dei punti più contro-versi della riflessione gramsciana. Ilpartito politico deve ancora essereinteso come uno strumento assoluta-mente privilegiato dell’azione politica?O i cambiamenti strutturali della socie-tà odierna, la stessa crescita delle sog-gettività rivoluzionarie, rendono possi-bile un diverso modo di intendere ilpartito e la sua centralità? E quale rap-porto può intercorrere tra il Partitocomunista e le classi sociali, oggi cheesse appaiono di più difficile definizio-ne, più sfuggenti, meno definite cultu-ralmente e socialmente? Perché inmolti paesi i partiti comunisti trovanoscarso sostegno, anche tra le classilavoratrici?

Gramsci parla di subalterni, nonsolo di proletari o operai. Subalterno,subalterni è una categoria più ampia diquella di proletari. Non è data solodalla collocazione economico-sociale(che per lui resta comunque un datofondamentale), ma è anche determina-ta dai rapporti di potere e culturacomunque definiti. Subalterno è oppo-sto a egemonico.

Molti soggetti sono subalterni, inmodi diversi. Non solo economica-mente. Ma anche per la gerarchizzazio-

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Il criterio cronologico non sempreci permette di accertare quale formula-zione, su un dato argomento, rispondepiù compiutamente ad un convinci-mento da Gramsci acquisito in viadefinitiva o almeno da lui espresso apreferenza di altri abbozzati in anni oin mesi antecedenti. Egli stesso, peral-tro, prevede rettificabili o ricusabilialcune sue enunciazioni, dal momentoche le considera, in linea di massima,non adeguatamente documentateoppure formulate in termini interlocu-tori e provvisori. Nondimeno, vi sonoin lui concetti che rimangono fermi,pur negli sviluppi problematici dellasua riflessione carceraria. I concetti dirivoluzione passiva, di egemonia e disocietà civile, ad esempio, conservanociascuno un proprio nucleo teoricopermanente, benché assumano caratte-ri diversi, nell’esser applicati alle diver-se situazioni storiche, e possano darluogo ad alcune varianti significative,introdotte non a invalidare, ma a con-validare la definizione generale di que-gli stessi concetti.

Dubito invece che si trovi, neiQuaderni, una definizione conclusivao (per lo stesso Gramsci) esaurientedella filosofia della prassi e del suo sta-tuto epistemologico e/o prasseologico.Il legame che unisce la filosofia dellaprassi alla prassi sociale e, specialmen-te, a quella politica è di identità o diuguaglianza, come si legge in qualchepasso di Gramsci giudicato risolutivoda Fabio Frosini in un libro (“La reli-gione dell’uomo moderno. Politica everità nei Quaderni del carcere diAntonio Gramsci”, Carocci editore,Roma, 2010. E, dello stesso Frosini, siveda anche “Da Gramsci a Marx.Ideologia, verità e politica”,DeriveApprodi, Roma, 2009) denso di

con il bisogno di attribuire ai suoienunciati la «saldezza di convincimentinecessaria all’agire»: così si esprimegiustamente Frosini. Aggiungo che ilproposito (confessato dal prigionieroin una lettera a Tania) di voler pensaree scrivere für ewig [= “per sempre”,“per l’eternità”] smentisce il «caratterecongiunturale» attribuibile, secondo lostesso Frosini, al momento teoriconella concezione gramsciana. In breve:nella filosofia della prassi, la prassi èintrodotta come un genitivo soggettivo(la filosofia promana dalla prassi,essendone un attributo) o come ungenitivo oggettivo (la filosofia devefarsi carico della prassi, deve analizzar-la e insieme prepararla o promuover-la)? La tesi 2 di Marx («se al pensieroumano appartenga una verità obbietti-va, non è una questione teorica, mapratica») dice che il vero è tale, ossia èverificato, nel fatto o, più esattamente,nella fattibilità dell’enunciato teorico:non anticipa pertanto il pragmatismo,ma riecheggia la formula vichiana (tut-tavia rovesciandola). Non dice che ilpensare stesso è una pratica (politica,in specie), ma che esso è fondato sepuò tradursi in un una pratica confor-me. E infatti, per Gramsci, la filosofiadella praxis «si basa tutta sull’azioneconcreta dell’uomo» (Q 657). Sulla tesi11 Gramsci scrive: «la filosofia devediventare “politica”, “pratica”, percontinuare ad essere filosofia: la“fonte” per la teoria dell’unità di teoriae pratica» (Q 1066). In altri termini, lafilosofia dev’essere “fonte” della prati-ca, facendosi perciò teoria dell’unità diteoria e pratica.

Paradossalmente, dunque, quandoHegel vede nell’Illuminismo la fontedella rivoluzione francese e scrive che,da allora, sappiamo come il mondo

analisi e di documentazioni ancoraterigorosamente a criteri cronologici? Oinvece la filosofia della prassi conservaun suo statuto (o un suo momento)teorico e Gramsci non rinuncia a con-siderarla, sotto il profilo teoricoappunto, innovatrice e autosufficientenella sua totalità, ossia tale da nonrichiedere alcun ancoraggio che la raf-fermi sul terreno di altre filosofie? Lalettura gramsciana di Marx è, in questoe in altri casi, una lettura “ermeneuti-ca”? Ancora: la filosofia della prassi è,per Gramsci, l’unica concezione stori-cistica che preveda di poter esseresuperata da una filosofia più idonea (opersino da un nuovo idealismo) se, infuturo, dovrà concettualizzare untempo storico nel quale altre contrad-dizioni potranno subentrare alla con-traddizione di classe. Se, nelle note car-cerarie, «catartico» è detto l’etico-poli-tico, quando Gramsci scrive: «la fissa-zione del momento “catartico” diventacosì […] il punto di partenza per tuttala filosofia della praxis» (Q 1254), biso-gna intendere che quel momentodiventerà il principio della nuova filo-sofia (quindi di un nuovo “idealismo”),superando così il marxismo in una ipo-tizzata società futura. Una tale previ-sione, come auto-riflessione proiettatasul lungo periodo (escludente, dunque,la contingenza politica), non può certoessere considerata alla stregua delleprevisioni storiche sull’esito di unalotta attualmente intrapresa, previsioniche Gramsci giudica irriducibili a quel-le proprie delle scienze empiriche oesatte e assimilabili invece ad atti divolontà, perché concorrono esse stes-se alla possibile attuazione della prassi(rivoluzionaria o conservatrice) cui siriferiscono. Ed difficile, per il materia-lismo storico, conciliare «la consapevo-lezza critica della propria transitorietà»

LA RIVOLUZIONE IN OCCIDENTE nei “Quaderni del carcere”

Nei “Quaderni” Gramsci ha scritto una densa mole di appunti per un’eventuale riela-borazione successiva, che potesse comporsi in uno o più libri organicamente conclu-sivi, qualora il suo pensiero avesse potuto liberarsi dagli impedimenti carcerari e sol-tanto allora consolidarsi, dopo il vaglio di ipotesi e di tentativi a volte tra loro divergen-ti, consegnati alle note e alle lettere degli anni 1929-1937.

di GIUSEPPE PRESTIPINO

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poggi sulla testa, non è in disaccordocon la tesi marxiana, secondo la quale,se già i nostri sensi hanno una funzio-ne attiva, a fortiori è attiva la teoria inquanto capace, nel moderno, di opera-re e di intervenire sulla realtà economi-ca, sociale e politica. Ripeto: la filologiacome cronologia, in questo caso, nonmi pare possa darci risposte esaustive.L’interpretazione di Fabio Frosini hapregi indubbi, ma forse non possonoessere scartati altri criteri interpretativi.

Il tema centrale nei Quaderni: larivoluzione in Occidente cioè neipaesi “moderni”

Porsi il problema della rivoluzionein Occidente equivale a interrogarsisulla possibilità di una rivoluzione cheabbia successo nei paesi modernamen-te evoluti. “Occidente” significa, nei“Quaderni”, modernità. Diversi stu-diosi di Gramsci vedono il suo princi-pale “cruccio” teorico-politico nella(mancata) rivoluzione in Occidente eleggono gran parte dei “Quaderni”come un tentativo di teorizzare nuovestrategie, e quindi di dare indicazionipratico-politiche, per una non periturarivoluzione nei paesi modernamentesviluppati. Forse è proprio questo iltema principale del libro che il prigio-niero non ha potuto scrivere. Le notesugli intellettuali, sui partiti e sulleorganizzazioni della società civile, sulletradizioni e sul senso comune, sulloStato, sul Risorgimento e i suoi limiti,sulle rivoluzioni passive o sulle crisicongiunturali e anche organiche che ilcapitalismo occidentale può teneresotto controllo o persino tramutare inoccasioni di recupero innovativo, sonotutte note funzionali a un’indagine ana-litica e a un programma politico riguar-danti il modo di rapportarsi, comemovimento comunista, con la piùavanzata modernità capitalistica. Ma,per capire una tale modernità “occi-dentale”, è necessario indicare i carat-teri della non-modernità, ossia di un“Oriente” nel quale «la storia è sta-gnante» (Q 567) o la modernità è sol-tanto incipiente, anche se la vittoriosarivoluzione di Ottobre vi ha fatto irru-zione, affrontando una prova cheGramsci, tra le righe o con enunciatiespliciti, giudica sempre a rischio di fal-limento, tanto più a rischio quantomaggiore vi si pratica una repressionedispotica, esercitata non soltanto sulnemico interno, ma anche sul dissensomanifestatosi nel partito-Stato.

fondirla solo teoricamente, mentre ilcompito fondamentale era nazionale,cioè domandava una ricognizione delterreno e una fissazione degli elementidi trincea e di fortezza rappresentatidagli elementi di società civile ecc. InOriente lo Stato era tutto, la societàcivile era primordiale e gelatinosa;nell’Occidente tra Stato e società civilec’era un giusto rapporto e nel tremoliodello Stato si scorgeva subito unarobusta struttura della società civile.Lo Stato era solo una trincea avanzata,dietro cui stava una robusta catena difortezze e di casematte» (Ivi, p. 866).

Ebbene, l’arretratezza del premo-derno è, appunto, di una società chenon è “strutturata” da superstrutturecomplesse: Oriente versus Occidente.Il Gramsci dei “Quaderni” si ponepertanto il problema della rivoluzionenelle società moderne, nelle quali loStato allargato o “integrale” compren-de, nella sua complessità, anche unasocietà civile capace di opporre diver-sificate resistenze all’irruzione delleforze avverse. La “rivoluzione controIl Capitale” non è, ora, giudicata unerrore, Gramsci non rinnega il suoentusiasmo giovanile, ma ora sa chel’Oriente bolscevizzato non può vince-re in modo duraturo la sfidadell’Occidente, ossia della modernitàcapitalistica e delle sue risorse ancoranon esaurite: rivoluzioni passive, fordi-smo, nuovi cesarismi regressivi (e,secondo la definizione togliattiana,regimi reazionari di massa).Nell’interazione tra struttura e super-strutture, queste ultime sono, nellamodernità, le principali fortezze ecasematte da conquistare con processimolecolari, fino a invertire i rapporti diforza complessivi, così da conferirepermanenza a quelle conquiste, al ter-mine di una prolungata guerra di posi-zione (in Q 802). La guerra di movi-mento, invece, perviene a risultatiincerti, o reversibili. Le sue vittorienon sono definitive. La sua rivoluzionepuò strangolare se stessa e restituire ilpotere ai suoi nemici.

La modernizzazione delle società“orientali” è dunque un presuppostonecessario perché vi si apra una via alsocialismo? Russia e Cina hannomodernizzato con strategie opposte.L’Unione sovietica ha tentato una suamodernizzazione, non già “superan-do” (e quindi, in certa misura, conser-vando) alcuni settori di capitale priva-

Il divario tra il pre-moderno e ilmoderno chiama in causa i diversi rap-porti tra struttura e superstrutture.Gramsci, nell’interpretare Marx,muove da premesse teoriche che sonouna forse consapevole forzatura deitesti marxiani. Potrei dire che Croce dàuna lettura sostanzialmente corretta(ancorché caricaturale) di quel rappor-to in Marx, attribuendogli il permanen-te primato della struttura e il carattereepifenomenico o passivamente deriva-to della sovrastruttura. Gramsci inter-preta invece (privilegiando “Miseriadella filosofia” e forse anche “La Sacrafamiglia”) con una sua innovazionedecisiva, benché forse non dubiti, incuor suo, di tradurre fedelmente Marx.L’innovazione è nel concetto di “bloc-co storico” inteso come unità, in ognidata epoca, di struttura e superstruttu-re nel loro essere, l’una e le altre, quel-le derivanti dai gruppi detentori deldominio e dell’egemonia in quel datotempo storico. Quei gruppi esercitanoil dominio e/o l’egemonia, pur doven-do confrontarsi con forze avverse,subalterne, ma potenzialmente domi-nanti in tempi successivi e/o conflit-tualmente egemoniche già nel tempopresente. Egemonia e contro-egemo-nia si fronteggiano, in tal caso, secon-do la formula gramsciana del «recipro-co assedio» (Q 802). Le superstrutturenon sono dunque un riflesso passivo,così come le ideologie non sono sem-pre falsa coscienza, ma sono soprattut-to rappresentazioni della realtà storicanelle quali la parzialità soggettiva nonfa ostacolo, anzi imprime vigore allaprassi sociale e politica. La strutturaeconomica e sociale è stratificata invari livelli di dominazione e servitù,specie in epoche premoderne, nellequali le superstrutture sono inveceprive di complessità, non sono dotatedi un articolato livello inferiore e diuno superiore, sono più direttamentecondizionate dall’invarianza strutturalee possono pertanto, insieme con lastruttura, essere rovesciate da un impe-to rivoluzionario, cui può approdare la“quarantottesca” guerra di “movimen-to” o di “manovra”. Scrive Gramsci:«Mi pare che Ilici [ossia Lenin, NdR]aveva compreso che occorreva unmutamento dalla guerra manovrata,applicata vittoriosamente in Orientenel 17, alla guerra di posizione che erala sola possibile in Occidente […].Solo che Ilici non ebbe il tempo diapprofondire la sua formula, purtenendo conto che egli poteva appro-

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to, ma “abolendo” ogni capitale priva-to già presente in quelle regioni. Ma ilcapitale privato, proprio perché “aboli-to” o “distrutto”, ha invece demolito isuoi presunti demolitori. La Cina,all’opposto, ha scelto una (forse trop-po) lunga marcia di convivenza traimpresa pubblica e impresa privata, alfine di procedere speditamente versouna crescita economica e anche tecno-logica a ritmi sostenuti, come irrinun-ciabile premessa per un futuro (manon garantito) socialismo ben piùavanzato e generalizzato. Che l’impre-sa pubblica vi si concentri soprattuttonel settore finanziario e bancario è unaulteriore conferma del ruolo centralesvolto oggi dal capitale finanziario nel-l’economia capitalistica. Pubblicizzarele banche è dunque un primo tentativodi sottrarre al capitale il suo principalepotere di controllo sull’economia ingenerale e sull’economia industriale inspecie. Forse nell’America latina odier-na ci si offrono alcune varianti demo-cratiche, o democratico-cesariste, dellavia cinese. Ma nell’America latina èmaggiore il tentativo di mitigare lapovertà dei gruppi subalterni, degliindios ecc. e di nazionalizzare alcunerisorse essenziali, pur nelle perdurantidifficoltà derivate da un’ingerenza sta-tunitense che non accenna ad attenuar-si e che riattiva, in quei paesi, la lottaper l’indipendenza nazionale.

“Egemonia” di partito come sinte-si di forza e consenso largo allariforma della società

Gramsci teorizza un misurato equi-librio nei rapporti tra la nuova forzaegemone-dominante e l’avversariosconfitto. Egli scrive che l’egemonia(esercitata dal partito) si dispiegherà«con il consenso e con l’aiuto dei grup-pi alleati, se non addirittura dei gruppidecisamente avversari». Trascriviamoqui il passo nella sua interezza:«Sebbene ogni partito sia espressionedi un gruppo sociale, e di un sologruppo sociale, tuttavia determinatipartiti appunto rappresentano un sologruppo sociale, in certe condizionidate, in quanto esercitano una funzio-ne di equilibrio e di arbitrato tra gliinteressi del proprio gruppo e gli altrigruppi, e procurano che lo sviluppodel gruppo rappresentato avvenga colconsenso e con l’aiuto dei gruppi allea-ti, se non addirittura dei gruppi decisa-mente avversari» (Q 1601-2). Questaconcezione, in quanto previsione di

come nostre bandiere. Il neoliberismogovernativo, in Italia specialmente, staabolendo con passi felpati, una dopol’altra, tutte le libertà individuali e col-lettive. Non tanto ai partiti antagonisti,deboli e a rischio di scomparire, ma aun qualche movimento “clandestino”di resistenza sarà possibile affidare lalotta non violenta, e tuttavia intensifi-cata con sabotaggi e disobbedienzacivile, per riguadagnare le perdutelibertà? Nel quadro della modernaguerra di posizione, una episodicaguerra di manovra non è interdetta.Sarà possibile oggi, in assenza di unmovimento operaio compatto, unito enella sua interezza cosciente? Forse sì,se tutte le sparse e disgiunte azioni diprotesta potranno essere unificatecome se i diversi obiettivi fossero unosolo: il lavoro che perdono in tanti, laprecarietà nell’impiego e nella vita, lalibertà dalle persecuzioni razziali (legi-slative, di governo e popolari), le“grandi opere” progettate contro ivalori paesaggistici o ambientali, inzone sismiche o in vallate montaneoperose, le mortifere basi militari stra-niere in territori italiani “immortali”,gli intollerabili conflitti di interesse,l’immoralità pubblica e privata, l’eva-sione fiscale e quella giudiziaria, leleggi elettorali capestro, le tribune elet-torali riservate ai partiti di maggioran-za e all’opposizione di Sua Maestà, icontributi che dovrebbero far vivere lastampa di dibattito e di opinione per-messi soltanto sotto forma di pubblici-tà commerciale redditizia, attirata daigrandi giornali “indipendenti” soltan-to. Cento libertà diverse sono una solalibertà soppressa. Lottare bisogna pertutte e riconquistarle come se fosserouna sola.

Già Engels, dopo la morte di Marx,aveva mosso obiezioni all’ipotesi diinsurrezioni armate in paesi i cuigoverni disponevano di armamentisempre più incomparabili, per potenzamicidiale e per capacità deterrente, conle vecchie armi accessibili agli insorti.Oggi verrebbe a mancare, a questi ulti-mi, anche la possibilità di essere affian-cati da una frazione ribelle dei militariin servizio di leva, perché il recluta-mento dei soldati ha oggi fatto ritornoai tempi in cui si assoldavano miliziemercenarie, giustamente avversatenelle proposte “giacobine” diMachiavelli, come leggiamo anche inGramsci (Q 1560). Ma gli ostacolimaggiori sono nel nuovo scenario geo-

una società futura che non “distrugga”o “abolisca” tutto il passato storico, inspecie il passato capitalistico, induceGramsci a considerare il comunismo,non come la fine del moderno, macome il suo compimento. In Q 953Gramsci dichiara, infatti, che la futurariforma intellettuale e morale sviluppe-rà la volontà collettiva «sul terreno diuna forma compiuta e totale di civiltàmoderna». Della modernità egli vuoleportare a compimento, in specie, unariforma morale che riproponga, investe laica e con una più coerente con-cezione dell’immanenza, la pre-moder-na religione, procedendo ben oltre lacrociana «religione della libertà», il cuinon dissimulato carattere è liberale edunque conservatore. Le catastrofi cheGramsci non ha potuto osservare, per-ché sono venute dopo la sua morte,dopo il 1937, ossia la seconda guerramondiale, le pratiche di sterminio conla barbarie nazifascista e, infine, le infa-mie dell’odierna globalizzazione neoli-berista, ci fanno ritenere invece cheuna ipotetica società comunista, sepotrà affermarsi nei tempi lunghi,segnerà l’inizio di un’epoca storica (ciappropriamo di un’espressione coniatada Enrique Dussel) “transmoderna”.

La rivoluzione conservatrice neoli-berista si è appropriata di un residualeriformismo socialdemocratico, facen-dolo diventare liberal-riformismo. InItalia, facendolo diventare opposizioneparlamentare tiepida, neoliberista adoltranza nella sua visione di prospetti-va (anche quando i conservatori si ras-segnino a un qualche intervento pub-blico indispensabile per arginare lacrisi), ma disponibile per la ricerca dicorrettivi ad alcune marginali distor-sioni nel funzionamento del sistema.Le sparute forze antagoniste, animateda volontà realmente innovatrice, sesapranno riprendere l’iniziativa,dovranno sussumere alcuni lasciti diun neoliberismo ipoteticamente“trionfato”? È compito del fronteantagonista l’appropriarsi o riappro-priarsi dei valori individuali, che la tra-dizione del movimento operaio havariamente sacrificato nella pratica piùche nella teoria e che il neoliberismoha potuto invece sventolare con le suebandiere. Aggiungerei (mi si perdoni-no gli echi staliniani della metafora)che il neoliberismo sta imbrattandoquelle sue bandiere e che dovremmonoi riprenderle dal fango nel qualesono state gettate per levarle in alto

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politico e nei suoi effetti ideologicisulle masse operaie. Nel 1848, ossianell’anno emblematico della guerra dimanovra in Occidente secondoGramsci, la parola d’ordine marx-engelsiana “Proletari di tutto il mondounitevi” era indirizzata, di fatto, ai pro-letari di Francia, Inghilterra, Germaniae di qualche altro paese europeo, ossiaa movimenti geograficamente contiguie facilmente influenzabili gli uni dallarisolutezza degli altri. Oggi, invece, laglobalizzazione compiuta del capitalegli procura il duplice vantaggio 1) didelocalizzare, non già i vecchi macchi-nari pesanti e ben piantati nelle fabbri-che, ma i ben più eterei investimentifinanziari e quindi di disinvestire inOccidente per trasferire le attività inun nuovo “Oriente”, 2) di far fuggire,da un “Oriente” più povero, neo-colo-nizzato e depredato, un nuovo e piùenorme esercito di riserva per lavori asempre più basso costo in Occidente. Idue vantaggi del capitale cognitivofinanziarizzato influiscono sui nuovioperai o lavoratori occidentali tramu-tando il quarantottesco coraggio nellagrande paura, tipica del nuovo millen-nio: paura delle minacciate delocalizza-zioni, che scatenano un’inedita compe-titività tra lavoratori occidentali e lavo-ratori orientali, paura per l’altra innatu-rale competizione, fomentata nellostesso Occidente, tra i lavoratori nativie quelli immigrati, con effetti di razzi-smo popolare disseminato per deviarela temuta avversione dei lavoratorinativi contro le alte sfere del padrona-to, volgendola invece all’odio controchi sta più in basso, nell’oscuro sotto-suolo dell’edificio sociale. La cancrenadel nuovo senso comune indotto nonfinisce qui. Il fordismo e, poi, le lotteoperaie novecentesche avevano, comeannotava con insistenza Gramsci, con-cesso o strappato aumenti salariali. GiàFord si augurava di poter ben prestovendere le sue automobili anche ai suoioperai. Negli anni sessanta delNovecento, in effetti, di molti operai èdifficile poter dire che, se fanno larivoluzione, “non hanno da perdereche le loro catene”. Tuttavia, il muta-mento del senso comune suol arrivarein ritardo. E tarda anche l’influssoideologico esercitato dalla parte avver-sa dominante-egemonica, nonché dallemutate “forme di vita” (ancoraGramsci) degli stessi subalterni.Costoro divengono vittime dell’ideolo-gia consumista, e si affiancano pertan-to a strati sociali piccolo-borghesi, solo

anch’esso come e più che la destrapadronale e populistica. Nella farsa tra-spariva la tragedia: proprio la forza delvecchio Pci (la compattezza dei quadrie la quasi cieca fiducia in essi ripostadai militanti e da molti simpatizzanti)sospingeva il grosso dei suoi iscritti edel suo elettorato ad assecondare laderiva e persino l’inversione di rottache avrebbero condotto all’odiernoPartito democratico e, in esso, alla nondissimulata persuasione sulla centralità,non più del lavoro, ma dell’impresa. Dipiù, l’ideologia neoliberista si accom-pagnava, nei nuovi democratici, a unbipolarismo elettoralistico condivisocon la destra, a un bipolarismo il cuiscopo era ed è di precludere fin la tri-buna parlamentare agli spezzoni mino-ritari di un comunismo italiano semprepiù residuale. E, anche sotto questoprofilo, è risaputo che gli stessi lavora-tori, specialmente oggi, sono riluttantia darsi pensiero dei partiti non presen-ti nelle aule parlamentari e nell’infor-mazione monopolizzata dal potere.Una tale riluttanza contribuisce a inari-dire, nell’elaborazione teorica e nellacapacità di azione, i piccoli partiti, purse animati dalle migliori intenzioni. Seil suo naturale referente politico è ina-ridito, anche la coscienza di classe sidilegua ulteriormente. Il novecentescocircolo virtuoso diventa, così, un per-verso circolo vizioso.

Un’appendice al discorso sulla rivo-luzione in Occidente potrebbe intito-larsi “Non post-democrazia ma trans-democrazia”. La democrazia modernaè la forma politica più avanzata, nellamodernità occidentale, ed è la più coe-rente con il principio illuministico(inaugurato specialmente da Rousseau)dell’uguaglianza tra i cittadini nei lorodiritti, qualora siano preventivamentesanciti e stabiliti dalla maggioranza diun’assemblea costituente o legislativaeletta dagli stessi cittadini, nella loroqualità di popolo-sovrano entro i con-fini di una data nazione. Ma, da Hegela Marx, quel concetto di uguaglianza èstato “demistificato” per la sua matriceintellettualistica (Hegel) e quindi per ilsuo carattere meramente formale(Marx), che perciò non elimina le disu-guaglianze di fatto esistenti nella socie-tà e (per riflesso o per conseguenza),possiamo aggiungere, anche nell’effet-tivo godimento dei diritti civili e politi-ci. L’art. 3 della Costituzione italianavorrebbe esprimere appunto il propo-sito di rimuovere gli ostacoli economi-

quando sono costretti a vendere l’auto-mobile acquistata o non possono piùpagare le rate del mutuo contratto perun misero appartamento di loro pro-prietà. Non l’accesso ai consumi, ma laperdita dei consumi fa sentire i suoieffetti, tramutando il sentimento d’es-ser produttori nel ri-sentimento d’esse-re (o di non poter più essere) consu-matori. La crisi dunque favorisce ladestra reazionaria? Non dappertutto enon necessariamente. Forse possonoancora ribellarsi, e non soltanto in“Oriente”, gli umiliati e gli offesi.Forse innumerevoli subalterni “nonhanno da perdere che le loro catene”.Essi per primi potranno darci il buonesempio e far invertire la tendenzaanche in coloro che oggi ci paionoanime in preda a un eterno castigoinfernale?

La complessità nei “Quaderni” delrapporto partito-classe

Da Marx a Lenin e da Lenin aGramsci, si approfondisce il concettodella “classe per sé” (Marx), della clas-se che trova la sua guida “esterna” nelpartito (Lenin) per sortire dalla limita-tezza “tradunionista”, dei gruppisubalterni che superano la fase “corpo-rativa” e si fanno partecipi dellacoscienza “etico-politica” animata daidirigenti, portatori di una “riformaintellettuale e morale” (Gramsci). InItalia, dopo la Resistenza, poté operareil più forte tra i partiti comunisti esclu-si dal potere in Occidente e nel mondonon investito dalle grandi rivoluzionivittoriose. Tra quel partito e le ardi-mentose lotte operaie (o contadine) nelnostro paese vi fu un’azione reciprocafortificatrice del partito, da un lato, edelle lotte, dall’altro. La fine di quelpartito spezzò il circolo virtuoso. Nonripercorro qui le fasi e le cause, internee internazionali, che contribuirono allafine del partito e anche al progressivodeclino della combattività di classe.Osservo soltanto che la Bolognina, inItalia, non fu un singolo episodio, madivenne un fenomeno ricorrente. Nonricondusse il Pci nell’alveo della social-democrazia o del riformismo pur sem-pre legato al mondo operaio o al movi-mento sindacale. Di cedimento in cedi-mento, quel che era stato un grandepartito comunista si trasformava, abrevi intervalli di tempo, in un non-partito e alfine in un conglomeratonon più di sinistra, ma soltanto demo-cratico e, per giunta, neoliberista

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ci e sociali che vanificano, a danno deigruppi subalterni, l’accesso ai dirittiuguali anche sul terreno civile-politico-giuridico e su quello culturale.

La democrazia moderna è stata inperiodi diversi (per le alterne vicendedella lotta di classe, per guerre oaggressioni belliche e per crisi econo-miche) revocata, ripristinata e poi dinuovo, nel nostro tempo, vanificataforse definitivamente per effetto, inprimo luogo, del trionfo celebrato dalgrande capitale dopo lo scontro nove-centesco con le variamente dislocateforze anticapitalistiche, ma anche per-ché l’odierna rimondializzazione ormaicompiuta del mercato capitalistico gliha conferito poteri informali chehanno decapitato lo Stato-nazione, inspecie nelle sue precedenti funzioni diregolatore del welfare, hanno infertoun colpo mortale alla democrazia poli-tica e, con essa, alla novecentescaforma partito, essendo l’una e l’altra (lademocrazia parlamentare e l’organiz-zazione partitica di massa) indissolu-bilmente legate alla defunta indipen-denza, sia pure relativa, dello Statonazione da poteri forti transnazionali,per loro natura, a-democratici e extra-partitici. In Gramsci, infatti, l’enfasi sulpartito (“moderno Principe”) e sul suointernazionalismo ne presuppone lacapacità di radicarsi su uno specificoterreno nazionale e di rintracciarvialcune tradizioni da conservare e rin-novare: ad esempio, prefigurando unnuovo umanesimo. Il cesarismo popu-lista, autoritario e plebiscitario odiernoè certamente letale, anche per la suapresunta aderenza alla volontà dei cit-tadini, che si manifesterebbe senza lamediazione dei partiti; ma la sua forzasoprattutto mediatica nasconde pro-prio la debolezza dello Stato-nazioneex-democratico. Il nuovo cesarismonon sopprime i parlamenti, ma viintroduce la logica dell’alternanza tradue schieramenti non dissimili l’unodall’altro, i quali appunto si alternano,per simulare un cambiamento al termi-ne di ogni legislatura, tanto deludenteper l’elettorato quanto le precedenti.Sul cesarismo secondo Marx e secon-do Gramsci mi soffermo nella relazio-ne per un seminario svoltosi nel feb-braio 2010 (in “Seminario suGramsci”, Edizioni Punto Rosso). Lapotenza-impotenza odierna dei gover-ni ne fa, più che in passato, i “comitatidi affari” (in termini marxiani) deigrandi magnati capitalistici, i quali in

del volere autonomo collettivamenteorganizzato nei gruppi subalterni, pro-grammi politici divaricati espressi dapartiti o associazioni di diversi esoprattutto opposti orientamenti,sistemi elettorali proporzionali, princì-pi istitutivi non soltanto della divisionedei poteri, ma anche della non commi-stione tra potere pubblico e interesseprivato, regole per una informazionepubblica imparziale e non insidiata oprevaricata da imprese private. Glioppositori devono reimpostare e rie-quilibrare il nesso tra sviluppo delleattività umane e conservazione deibeni naturali e culturali come benicomuni, così come dovranno esigere lapari dignità tra uomo e donna e la libe-ra scelta nella maternità e nella sessua-lità adulta. Dovrebbero chiedere allemasse di scegliere, non più capi cari-smatici designati attraverso le cosiddet-te primarie (“L’iperdemocrazia delleprimarie” è il titolo in un ottimo arti-colo di Michele Prospero, con ampiecitazioni da Gramsci), ma precise edesaustive proposte di legge, preventi-vamente elaborate da esperti e affidatea candidati capaci di farle divenire vin-colanti, nelle materie anzidette, comediritti non più aleatori o manipolabili,ma accompagnati da sanzioni severe,per i colpevoli di infrazioni, e quindifattualmente inderogabili. Non sareb-be l’“assalto al cielo” con la gramscia-na rivoluzione in Occidente, ma nesarebbe il preambolo o il preludiocome via d’uscita dall’inferno.

vari paesi amministrano direttamentela cosa pubblica, per i loro interessi diparte, deponendo essi stessi sulla pro-pria testa la corona regale o imperiale,con una sorta di auto-investitura, enon più, come in passato, reclutandointerposti mediatori di provata, o pre-sumibile, fedeltà.

Le forze che oggi si oppongono aldominio-egemonia del capitale finan-ziario-cognitivo globale e del suo mer-cato (la cui ragione calcolante allunga isuoi tentacoli anche sui beni e sui red-diti futuri), ossia che si oppongono allanuova modalità dell’uguaglianza mera-mente formale tra individui o popolifattisi, invece, disuguali come non mai,dovranno studiarsi di inventare nuoviesperimenti di autogoverno globale elocale, superando la fase della demo-crazia rappresentativa e della formapartito? Gramsci non prevedeva ildeperimento dello Stato in toto, ma iltrasferimento delle sue principali fun-zioni nel suo livello “inferiore”, ossianella superstrutturale “società civile”.Tuttavia, nelle more di una simile ten-tata invenzione, gli oppositori intransi-genti devono difendere con vigore oripristinare quegli stessi, sia pur fallacio a volte illusori e comunque deficita-rii, diritti derivanti dalle norme costitu-zionali, i diritti sindacali a tutela incon-dizionata del lavoro, diritti uguali allasalute, allo studio e alla giustizia, istitu-ti democratici largamente rappresenta-tivi, per quanto possibile aperti allapartecipazione e soprattutto rispettosi

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Processo di soggettivazione politi-ca di classe e “struttura” dei rap-porti di produzione

Era in connessione con ciò cheGramsci formulava nei “Quaderni”l’interrogativo cruciale su «come nasceil movimento storico sulla base dellastruttura». Si trattava di un interrogati-vo che egli dichiarava fondamentale inrelazione a «tutte le questioni […] nateintorno alla filosofia della praxis», eche a suo avviso chiamava in causal’esigenza di elaborare una teoria dellasoggettività politica, che non fosse giàdata (in termini idealistici e/o sponta-neistici), ma si concepisse e si costituis-se processualmente attraverso l’inizia-tiva storica e la prassi politica.

A tal proposito, più precisamente aproposito del percorso di formazione-soggettivazione politica dell’«uomoattivo di massa» del suo presente, deisuoi tempi, che egli chiamava «tempidi “socializzazioni”», Gramsci delinea-va un percorso articolato e complessoche, partendo dalla fase della «com-prensione critica di se stessi», prevede-va la successiva, superiore elaborazio-ne di una propria concezione del realeattraverso una lotta interiore (per cosìdire) di «“egemonie” politiche», sinoalla progressiva acquisizione dellacoscienza politica, in cui per il pensato-re sardo si risolveva e prendeva formala consapevolezza di essere parte diuna determinata forza egemonica: ciòcostituiva un passaggio decisivo per unulteriore momento di «autocoscienza»,in cui teoria e pratica «finalmente siunificano».

L’autore dei “Quaderni” sottolinea-va, contro le vulgate marxiste del suo

processi molecolari di trasformazione,di crisi-ristrutturazione, di passaggiodall’«individualismo economico»all’«economia programmatica», di«continua crisi» capitalistica. L’altra – laguerra di posizione – vuole indicare lenuove forme della lotta politica esociale, «le forme dello scontro di clas-se» così come esse si sviluppano den-tro, e in rapporto a, questi processi.

Critica dell’economicismo

In un paragrafo del Quaderno 13,intitolato Alcuni aspetti teorici e prati-ci dell’ “economismo”, nel quadro diun discorso di critica dell’economici-smo, con un particolare riferimento alliberismo e al sindacalismo teorico,Gramsci osservava che è «per lo menostrano l’atteggiamento dell’economi-smo verso le espressioni di volontà, diazione e di iniziativa politica e intellet-tuale, come se queste non fossero unaemanazione organica di necessità eco-nomiche e anzi la sola espressione effi-ciente dell’economia». Poi affermavache «se l’egemonia è etico-politica, nonpuò non essere anche economica, nonpuò non avere il suo fondamento nellafunzione decisiva che il gruppo diri-gente esercita nel nucleo decisivo del-l’attività economica».

La forza storico-teorica della rivolu-zione passiva, per Gramsci propria deitempi moderni, con la correlata «que-stione egemonica», voleva rappresen-tare la critica radicale ed organica del«catastrofismo» e delle teorie del crol-lo; al tempo stesso rendeva necessarioai suoi occhi l’approfondimento deltema marxiano “classico” del rapportoStato-società civile. Nel tempo dellarivoluzione passiva la concezione dello

tempo, come l’unità di teoria e praticanon fosse «un dato di fatto meccanico,ma un divenire storico».

In questo complesso divenire stori-co, così delineato, acquistava una spe-cifica centralità gnoseologica e politicala nozione di molecolare, che chiamavain causa lo stesso nesso spontaneità-direzione consapevole, fondamentaleper Gramsci – come si sa – all’internodel problema della prassi politica. Se –come è stato osservato – molecolaredesigna nei “Quaderni” «il carattere diun processo di trasformazione» relati-vo all’ambito della personalità indivi-duale e all’ambito della realtà socialeovvero – più propriamente – alla tramadi nessi intercorrenti fra tali ambiti,ebbene ciò indubbiamente acquista lasua più piena efficacia conoscitivaall’interno dell’intreccio rivoluzionepassiva-guerra di posizione e dell’im-piego che Gramsci effettuava di taleintreccio per riattrezzare una strategiateorico-politica della rivoluzione inOccidente, nella complessità inauditadei tempi moderni. Molecolari erano inuovi processi egemonici del capitali-smo e molecolari, cioè radicali piutto-sto che gradualistici, dovevano esserele forme della lotta anticapitalistica e iconnessi processi di soggettivazionepolitica.

Rivoluzione passiva-guerra di posi-zione: l’una, nata per designare le«forme» e i «limiti» del Risorgimentoitaliano, viene poi dilatata teoricamen-te e politicamente per definire la mor-fologia nuova dei processi reali del pre-sente dopo il 1917-21, dopo quella chesi può considerare l’ultima guerra dimovimento, vale a dire la rivoluzioned’Ottobre; in altre parole, per definire i

“EGEMONIA” E “BLOCCO STORICO”in Gramsci

È interessante rilevare come la prima definizione densa e significativa che Gramscidiede del concetto di «rivoluzione» (ancor più di quella ricavabile dal celebre articolodel dicembre 1917, “La rivoluzione contro il «Capitale»”) è la definizione contenutanello scritto, apparso nel settembre del 1919 sulle colonne dell’“Ordine Nuovo”, e inti-tolato “Lo sviluppo della rivoluzione”, nel quale si affermava che «la rivoluzione non èun atto taumaturgico, è un processo dialettico di sviluppo storico».

di PASQUALE VOZA

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«Stato allargato», connessa con i pro-cessi inauditi di diffusione dell’egemo-nia, faceva riferimento ad una interve-nuta complessificazione del rapportotra politica ed economia, ad una inten-sificazione molecolare di una nuova,peculiare funzione della politica, intesacome capacità, come potere di produ-zione e di governo di processi di passi-vizzazione, standardizzazione e frantu-mazione.

Critica del capo carismatico e delburocratismo

La stessa attenzione di Gramsci aifenomeni del cesarismo moderno, delcapo carismatico, del ruolo della buro-crazia in connessione con le funzionidello «Stato-governo» (attenzionenutrita, com’è noto, di riferimenti aMichels e a Max Weber) chiamava incausa, al fondo, il profilarsi proprio diquesta nuova complessità post-liberaledei rapporti masse-Stato, egemonia-produzione.

Ora, per il pensatore sardo il con-cetto di rivoluzione passiva potevaacquistare la valenza di un principiogenerale di «scienza e arte politica»nella misura in cui lo si considerasseinsieme causa ed effetto dell’assenza, odella scarsa visibilità, di una «antitesivigorosa», all’interno dei processi di«continua crisi» del capitalismo moder-no. Gramsci segnalava l’«utilità» e i«pericoli» di tale concetto. I pericolierano quelli del disfattismo storico,dell’indifferentismo (dal momento che«l’impostazione generale del proble-ma» potrebbe indurre ad una sorta difatalismo e di rassegnazione).

In connessione dialettica con ciò,l’utilità, invece, consisteva proprio nelfatto che tale concetto poteva e dove-va servire a indagare come e perché inuna certa epoca storica l’antitesi dive-nisse assente o scarsamente visibile, ecome e su quale terreno si potesse pormano ad un processo di costruzione diuna nuova, possibile antitesi: «la conce-zione rimane dialettica, cioè presuppo-ne, anzi postula come necessaria,un’antitesi vigorosa e che metta incampo tutte le sue possibilità di espli-cazione intransigentemente».

Qui c’era tutta la drammaticità del«che fare?» gramsciano, legata appuntoalla pensabilità teorico-pratica diun’«anti-rivoluzione passiva» (come si

quella che viene chiamata la crisi finan-ziaria: ebbene esse non solo (come èstato osservato) non hanno messo indiscussione o quanto meno intaccato imeccanismi che assicurano un’enormequantità di denaro e di potere all’attivi-tà di speculatori e di banchieri, mahanno accresciuto rendita finanziaria,profitti e insieme devastanti divari ediseguaglianze sociali, alimentando eacuendo disgregazione e guerra trapoveri, e confermando l’intreccioinscindibile tra economia cosiddettareale ed economia finanziaria.

Sicché, solo se si parte da un siffat-to intreccio tra produzione e finanza, sipuò cogliere fino in fondo il caratteresistemico dell’attuale crisi-ristruttura-zione capitalistica: laddove invece latendenza, variamente declinata (dadestra fino a certa sinistra), è a separa-re e a ‘salvare’ le qualità sane della eco-nomia reale-capitalistica di contro alcarattere parassitario della finanza. Sitratta di una tendenza che genera unapervasiva retorica o ideologia dellacrisi: capace di indebolire e di inficiarele possibilità di crescita di un realeantagonismo sociale e politico, proprioperché impedisce di vedere come, oggipiù che mai, la finanza non è solo unaspetto del capitalismo, ma è un vero eproprio strumento di governo, totalita-rio e pervasivo, delle società contem-poranee. Basti pensare ai fenomeniinediti e formidabili che ne discendo-no: una tendenziale sussunzione dellavita intera al capitale, una sempre piùmicidiale sussunzione del lavoro allafinanza e al debito.

espresse Buci-Glucksmann) e alla cru-cialità dell’interrogativo che l’autoredei “Quaderni” si poneva su «comenasce il movimento storico sulla basedella struttura». Anti-rivoluzione passi-va e contro-egemonia erano perGramsci due facce dello stesso proces-so di costruzione di una radicale eorganica lotta anti-capitalistica. Il pro-cesso di costruzione di una egemoniaalternativa, in altre parole, era intesosempre come costitutivamente criticoe mai riconducibile alla dimensione,per così dire, positiva di un modelloculturale, sociale, ideologico da con-trapporre-sostituire all’egemonia esi-stente. In una nota del Quaderno 9Gramsci delineava e sottolineava lapensabilità di un attacco critico ai pro-cessi di sussunzione della scienza alcapitale e al nesso egemonia-produzio-ne: per il lavoratore singolo «oggetti-vo» è l’incontrarsi delle esigenze dellosviluppo tecnico con gli interessi dellaclasse dominante. Ma questo incontro,questa unità fra sviluppo tecnico e gliinteressi della classe dominante è solouna fase storica dello sviluppo indu-striale, deve essere concepito cometransitorio. Il nesso può sciogliersi;l’esigenza tecnica può essere pensataconcretamente separata dagli interessidella classe dominante, non solo maunita con gli interessi della classe anco-ra subalterna. Che una tale «scissione»e nuova sintesi sia storicamente matu-ra è dimostrato perentoriamente dalfatto stesso che un tale processo ècompreso dalla classe subalterna, cheappunto per ciò non è più subalterna,ossia mostra di tendere a uscire dallasua condizione subordinata.

Si trattava di un messaggio forte,concretamente “utopico” (che puòparlarci ancora oggi): si trattava cioèdella necessità per l’intellettuale collet-tivo di una critica pratica di ciò che è«oggettivo», vale a dire di quello cheMarx aveva individuato come il poteredi astrazione reale del capitale.

A tale riguardo, Gramsci oggipotrebbe aiutarci in qualche misura aleggere la natura complessa dell’attualecrisi economica e sociale, a non inten-derla in senso statico e ‘oggettivo’, maa vederla come un processo continuoche chiama in causa le scelte e i sogget-ti che la producono e la affrontano. Sipensi, ad esempio, alle politiche daqualche tempo messe in atto dai varigoverni, europei e non, per affrontare

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La raccolta non contiene inediti enon riserva quindi sorprese o rivelazio-ni; ci si potrebbe quindi limitare a rac-comandarne la lettura, per seguire infiligrana, nel linguaggio e nel merito,l’evoluzione profonda e faticosa di unaposizione politica e intellettuale in annigrandiosi quanto difficili.

La nuova edizione però stimola, eaiuta, qualcosa di più importante. Unlavoro cioè di ricostruzione e di rifles-sione sulla fortuna di Gramsci che èancora lontano dall’essere concluso.Per “fortuna di Gramsci” non intendoin questo caso il lavoro e i progetti diedizione critica dei suoi scritti, né ildibattito sulla interpretazione che, nelcaso dei “Quaderni”, era reso necessa-rio e difficile dal loro carattere nonsistematico, dalla forma spesso allusivaimposta dalle servitù carcerarie e spes-so lacunosa per la povertà dei materia-li di documentazione disponibili perchi li stendeva. Come si sa, questolavoro è andato avanti per molti anni –va ricordato in particolare il merito diValentino Gerratana, recentementescomparso – e ancora sorprendente-mente dura e si estende in ogni partedel mondo, ma sempre più coinvolgeGramsci anzitutto come uomo di cul-tura, inesauribile risorsa di spunti intanti campi del sapere.

Intendo invece, specificamente, lafortuna di Gramsci come comunista,teorico della rivoluzione comunista,ispiratore di una strategia nuova per larivoluzione in Occidente. Il come e ilquanto il suo pensiero sia stato teorica-mente riconosciuto, politicamenteusato o corretto, sia penetrato in interegenerazioni di militanti, abbia potente-mente inciso nella cultura e nella prati-ca di un grande movimento politico.

Salerno. A differenza di tutti gli altripartiti comunisti dell’Occidente (anchegrandi come il Pcf) tale tensione nonera, per lui, provvisoria né strumentale.L’unità democratica non era solo la tat-tica di una fase dettata dai rapporti diforza del momento dalla definizionenetta delle zone di influenza sancita aYalta, e legittimata da una certa fasedella politica staliniana; né doveva solopermettere un’accumulazione di forzee di alleanze fino al momento in cui sipotesse, anche in Occidente, passarealla fase rivoluzionaria secondo i cano-ni del modello sovietico. Era inveceuna scelta strategica destinata a speri-mentare una nuova via di conquista delpotere e a ridefinire fini e approdi delsuo esercizio. Reciprocamente, però, ilcollegamento con il movimento comu-nista internazionale non era un vinco-lo dal quale non ci si poteva in quelmomento affrancare; ma l’espressionedell’appartenenza ad un processomondiale di trasformazione di cuil’Unione Sovietica restava il centromotore, che nel ’45 era ancora in pienosviluppo, e che garantiva il retroterrapratico e l’autonomia ideale necessariall’inedita ricerca di nuove vie al socia-lismo.

L’esperienza, esaltante e terribile,degli anni trenta l’avevano convintoche il consolidamento, lo sviluppo, epiù tardi la graduale autoriforma del“campo socialista”, costituivano labase di forza e l’esempio storico neces-sari per portare avanti una trasforma-zione democratica senza essere travol-ti dalla violenza reazionaria e parimen-ti senza perdere di vista il traguardofinale ed essere riassorbiti nella gestio-ne del potere borghese. Il riferimentogli appariva necessario anche, forse,per elevare ovunque, prima ancora

Come e quanto insomma abbia pesatonella storia «grande e terribile».

Questo lavoro è tuttora largamenteda fare e sarebbe di straordinaria utili-tà proprio oggi. Anzitutto per definirel’identità non superficiale del comuni-smo italiano di cui il “gramscismo” èelemento costitutivo e indispensabilechiave di lettura. In secondo luogo pervedere se nel pensiero anticipatore diGramsci qualcosa di essenziale, cheandava oltre i confini della sua epoca, ea volte travalicava o contraddiceva ciòche il Pci allora voleva o poteva com-prendere e utilizzare – come lo stessoTogliatti riconobbe poco prima dimorire – sia rimasto in ombra epotrebbe invece offrire un preziosocontributo ai nuovi sviluppi della storiache oggi viviamo. È un quesito schiet-tamente ’gramsciano’ che tende a veri-ficare quanto delle idee di questo ’filo-sofo della prassi’ abbia camminato inun movimento reale e a metterle a con-fronto con la sconfitta di fine secolo(più pesante e più difficile da recupera-re di quella degli anni venti)…

Il problema e l’intenzione diTogliatti

Il problema prioritario che Togliattisi trovava ad affrontare dopo la vittoriasul fascismo era infatti quello di tenereinsieme due elementi apparentementecontradditori che egli riteneva peròentrambi essenziali al suo progettopolitico e al partito comunista che ten-tava di rimodellare: il collegamentocon l’Unione Sovietica e il ’camposocialista’ in quanto centro motore diun processo mondiale, e la linea del-l’unità antifascista, della democraziaprogressiva, della legalità repubblicanaelaborata in Italia dopo la svolta di

IL GRAMSCI DI TOGLIATTISono stati pubblicati in un solo volume, in ordine cronologico e con una cura partico-lare dei testi, tutti gli scritti di Palmiro Togliatti su Antonio Gramsci. Un saggio introdut-tivo di Guido Liguori serve, in stile misurato ma con argomenti stringenti, a sgombra-re il campo dai molti equivoci e dalle non innocenti invenzioni che di recente hannocostruito il “romanzo” sul conflitto irriducibile e sordo tra i due capi storici del comuni-smo italiano, pur senza affatto tacere i momenti tormentati, psicologici e politici, nelrapporto tra Gramsci e il suo partito: dalla lettera del '26 alle polemiche in carcere deiprimi anni trenta e fino alla morte.

di LUCIO MAGRI

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della diretta conquista del potere, lalotta di classe a una coscienza propria-mente politica e statuale in quanto par-tecipe di un movimento mondiale chegià era in larga parte del mondo diven-tato Stato, dirigeva la società e a taleproblema doveva complessivamentefar fronte. Ma quella esperienza l’avevaaltrettanto reso consapevole, per diret-ta conoscenza, dei prezzi tragici delmodello staliniano e dell’impossibilitàdi una sua trasposizione nella societàoccidentale. Unità e autonomia eranodunque per lui elementi costitutivi apari titolo di una ’via italiana al sociali-smo’, l’una condizione dell’altra.

La difficoltà del PCI a partire dal1947

Intorno al 1947, però, quel binomioincontrò difficoltà crescenti, anzirischiò di andare a pezzi. Crisi dell’uni-tà antifascista in Italia e a livello mon-diale, inizio della guerra fredda, irrigi-dimento dogmatico e riaffermazionedell’Unione Sovietica come centroesclusivo di direzione politica (ilCominform, la condanna di Tito e lafine di ogni autonomia delle `democra-zie popolari’) toglievano, per una fase,quasi ogni spazio politico e ogni legit-timità culturale alla ricerca di nuove`vie al socialismo’ e alla costruzionedel ’partito nuovo’.

In questo contesto va collocata evalutata la pubblicazione, la diffusione,lo studio dei “Quaderni” di Gramsciche Togliatti promosse e sostanzial-mente diresse: essa doveva servire, eservì, a fornire un fondamento teorico,una lezione di metodo, un ’sensocomune’, e anche la necessaria autore-volezza (sostenuta da un mito) all’iden-tità duratura del comunismo italiano.Con questo obiettivo Gramsci vennevalorizzato seriamente e fino in fondoma fu anche ridotto e piegato nelleforme a cui l’epoca e l’intenzione spin-gevano. Da un lato lo sforzo di nonrendere troppo esplicito tutto ciò chein Gramsci innovava profondamentela tradizione leninista e confliggevacon la sua versione staliniana, dall’altrolato lo sforzo di sottolineare inGramsci tutto ciò che serviva alla valo-rizzazione della continuità della `rivo-luzione democratica e antifascista’.Così, per scelta, ma ancora più per’selezione naturale’ operata dalla forteorganicità di quella scelta, alcuni temi ealcune parti dei “Quaderni” emerseroin primo piano, divennero costitutivi

un decennio più tardi – alla fine deglianni ’50 – per la forza delle cose, tramolte resistenze e per iniziativa di unaminoranza di sindacalisti e di intellet-tuali, ai margini del Pci o fuori da esso.

Fra i temi gramsciani uno venneinfine seccamente, intenzionalmente ea lungo occultato ben oltre ogni ragio-nevolezza: la consapevolezza, che con-tinuamente affiora in Gramsci, delcarattere della Rivoluzione d’ottobre edel suo consolidamento come tappanecessaria ma non autosufficiente delprocesso rivoluzionario mondiale, e,soprattutto, il timore – da lui espressonella famosa lettera a Togliatti del ’26 –che la logica del potere personale e lalotta violenta nel gruppo dirigentesovietico producessero involuzione edissoluzione del nuovo potere e dellanuova società. Togliatti non solo nonpubblicò quella lettera né durante glianni venti e trenta, quando potevanoderivarne conseguenze terribili, né nel-l’immediato dopoguerra, ma neppuredopo il trauma del ’56; anzi non neaffrontò l’inquietante problematica senon forse, poco prima di morire, con ilmemoriale di Yalta, che peraltro eradestinato a restare ’riservato’.

Questa lettura riduttiva di Gramsciebbe conseguenze notevoli non soltan-to sul piano culturale, ma anche suquello immediatamente politico: anzi-tutto il grande ritardo, anzi l’ostinataresistenza a vedere, e ad analizzare, perlo meno fino ai tardi anni cinquanta, iprocessi di impetuosa modernizzazio-ne dell’economia italiana e le nuovefigure sociali che vi emergevano.

Rimase così dominante nel Pci laconvinzione che il capitalismo italianoera inguaribilmente arretrato; e da quiderivò una tendenza a sottovalutare lapossibilità di strappare riforme signifi-cative, o a considerare come successitutte quelle modificazioni che si opera-vano in qualsiasi forma, e a sovrasti-mare invece il pericolo del rapido ritor-no delle classi dirigenti a posizioniclassicamente reazionarie, proiettandoanche per il futuro lo schema e i limitidell’esperienza antifascista.

“Partito di tipo nuovo”, “via italia-na al socialismo”, politica dellealleanze: spunto gramsciano, suelimitazioni

In secondo luogo la concezione e lapratica del partito nuovo: partito di

del gramscismo, oscurandone altreincomprese o rimosse. Su due granditemi si concentrarono allora, non acaso in modo quasi esclusivo, l’atten-zione e la riflessione dei comunisti:quello del Risorgimento italiano comerivoluzione incompiuta, e quello del-l’autonomia relativa, e del valore, dellasovrastruttura in polemica con il mec-canicismo e l’economicismo del marxi-smo volgare. Anch’essi, però, in unaparticolare curvatura interpretativa:dell’analisi del Risorgimento edell’Italia postrisorgimentale infattiviene enfatizzata la riflessione criticasull’emarginazione della questioneagraria e sulla rivoluzione dall’alto aegemonia piemontese che accomunavaGramsci alla denuncia, già presente inDorso e Gobetti, dell’arretratezza per-durante nel capitalismo italiano e nellacultura delle sue classi dirigenti.Rimasero invece in secondo piano leragioni profonde dell’egemonia cavou-riana, l’ambiguità del trasformismo,dunque i processi parziali e distorti di’modernizzazione’ che Gramsci coglienon solo nel Risorgimento ma persinonel fascismo.

L’autonomia della sovrastruttura –d’altra parte – tendeva a produrre unaseparazione della dinamica politico-istituzionale dalla sua base di classe, lostoricismo marxista tendeva a diventa-re storicismo tout-court.

Tra i temi che restarono, se nonignorati, marginali nella riflessione teo-rica e inerti in quella politica, duesoprattutto, e di grande rilievo: da unlato lo scritto su “americanismo e for-dismo”, proprio nel momento in cuiinvece si profilavano anche in Italia(con la ricostruzione industriale soste-nuta e orientata dal Piano Marshall edalla importazione di tecnologia eorganizzazione produttiva americane)la produzione standardizzata di beni diconsumo di massa e l’organizzazionetayloristica del lavoro; dall’altro lariflessione giovanile intorno ai consiglidi fabbrica, proprio in una fase in cui lastraordinaria vitalità politica e socialedel moto resistenziale sollecitava eforse permetteva l’invenzione di nuoveistituzioni che integrassero la democra-zia parlamentare e dessero della demo-crazia progressiva una proiezione nella’costituzione materiale’ e non solo inquella formale. È curioso constatarecome questa tematica, ormai storica-mente matura, si sia imposta all’atten-zione dei comunisti e della sinistra solo

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massa certo, non settario e non troppointollerante della discussione, masostanzialmente distinto tra un partitodei quadri retto da un gruppo dirigen-te monolitico e cooptato, e un partitodi popolo organizzato intorno a riven-dicazioni immediate e fatto oggetto diuna pedagogia spesso generica. Il par-tito come intellettuale collettivo, inter-locutore di movimenti e di istituzioniautonome di classe, che lavora al supe-ramento della distinzione tra gover-nanti e governati rimase nella penna enelle aspirazioni di Gramsci; la politicadelle alleanze rimase al di qua dellasoglia del gramsciano nuovo bloccostorico. Solo più tardi tutto ciò sarebbepienamente emerso e se ne sarebberopotute valutare le conseguenze rispettoa situazioni più complesse e a occasio-ni più mature. Vi tornerò dunque piùavanti, nel corso di questa riflessione.

Mi preme invece subito insistere sulfatto che – almeno a mio avviso –quella operazione togliattiana nell’in-terpretazione di Gramsci, pur ridutti-va, non era né abusiva né immotivata:poggiava infatti su elementi forti deltesto e su esperienze storiche successi-ve alla sua stesura, che ne autorizzava-no gli elementi essenziali e ne rendeva-no fecondi i risultati.

Perché dico non abusiva? Perché ineffetti il motore che muove e coordinala molteplice e apparentemente fram-mentaria ricerca dei “Quaderni”, e lariflessione sulla sconfitta della rivolu-zione in Europa negli anni venti e sullesue conseguenze, non contesta solo ildogmatismo teorico e la pratica politi-ca dello stalinismo (di cui anzi riuscì avedere criticamente le ragioni) marimette anche in discussione il modello(non il valore storico) dellaRivoluzione di ottobre, cioè la centrali-tà esclusiva della presa del potere stata-le, l’idea dell’incompatibilità tra rifor-me e rivoluzione. In ciò Gramsci nonsolo anticipa la strategia del VIICongresso e della democrazia progres-siva, ma la spinge molto più avanti e leconferisce un valore universale. Quellasconfitta degli anni ’20, non dimenti-chiamolo, non frustrava solo una dif-fusa speranza che aveva animato lemasse e dalla quale erano nati i partiticomunisti, non allungava solo i tempi,ma sovvertiva tutta l’analisi e tutto ilprogetto su cui l’Internazionale comu-nista si era mossa, e di cui Lenin erapienamente convinto: l’analisi in basealla quale la rivoluzione russa era una

esclusivo del potere da parte di unaavanguardia organizzata che approfittadi una crisi acuta e orienta in essa laimprovvisa insorgenza di massa, mapresuppone un lungo lavoro molecola-re, la conquista progressiva di “case-matte”, alleanze sia sociali che politi-che con forze storicamente radicate.Guerra di posizione oltre che di movi-mento: qui emerge l’accento nettamen-te diverso rispetto a Lenin.

Ma, nel contempo, questo lungolavoro, questo processo sociale attra-verso il quale maturano le ’condizioni’oggettive e soggettive di una alternati-va di sistema non è solo il compimen-to graduale di una tendenza già iscrittanello sviluppo capitalistico e nellademocrazia di cui la classe operaia èl’agente, ma anche il prodotto di unavolontà consapevole e antagonista, diuna egemonia politica e culturale, diuna rottura e ricostruzione delle istitu-zioni statali. Il comunismo è il rove-sciamento, non la prosecuzione dellastoria che gli sta alle spalle e che l’hareso possibile: e la differenza di Lenindalla socialdemocrazia non solo è, perquesto aspetto, conservata, ma ulte-riormente approfondita.

Non era dunque abusivo il tentativodi Togliatti di utilizzare – sia pure entroconfini tracciati dal tempo – il Gramscidei “Quaderni” come anticipatorepolitico e come fondamento teoricodel ’partito nuovo’ e della ’via demo-cratica al socialismo’, in entrambi i suoiaspetti (il gradualismo riformista inItalia e in Occidente, sorretto però egarantito e qualificato nell’autonomiadelle sue finalità da un processo stori-co mondiale per tappe avviato dallaRivoluzione di ottobre).

L’interpretazione togliattiana nonera neppure, ho aggiunto, immotivata.Perché anche nelle sue forzature, reti-cenze, riduzioni, il ’gramscismo’ diTogliatti non nasceva tanto e soprat-tutto da una intenzione strumentale emanipolatoria – come spesso avvenivaal marxismo-leninismo dell’epoca –ma dai grandi fatti e dalle esperienzeintervenute nella storia del movimentooperaio in Italia e nel mondo durante edopo la stesura dei “Quaderni” e cheimponevano aggiornamenti di analisi edi strategia (altro discorso è se Togliattistesso sia stato pienamente capace diinterpretarli e di dar loro una rispostaadeguata).

prima rottura che presto avrebbe coin-volto i paesi più avanzati, dove esiste-vano condizioni già mature, e lì avreb-be trovato le condizioni materiali e leforze soggettive indispensabili allacostruzione di una società socialista.

Gramsci, a differenza di Trockij e inpolemica con lui, accetta quel fattoinatteso che fu la necessità della terri-bile avventura del ’socialismo in unsolo paese’ e arretrato, del cui limite edel cui rischio era pur consapevole.Ma, a differenza di tutti i comunistidella sua epoca, non si limita a spiega-re la sconfitta con il tradimento deipartiti socialdemocratici, con gli errorio la debolezza organizzativa dei nuovipartiti comunisti, e a differenza di tuttii socialdemocratici, di destra e anche diestrema sinistra, non ne trae affatto laconvinzione che l’Ottobre rosso fosse“immaturo”. Cerca invece da subito diindividuare cause più profonde e noncontingenti della sconfitta, di definire itratti nuovi di una rivoluzione inOccidente, necessariamente diversacome percorso e come approdo, di cuila rivoluzione russa e il suo consolida-mento erano la condizione pratica e lapremessa teorica, ma non il modello daimitare.

Egli parte – come tutti ricordano –da una constatazione storica: la diffe-renza strutturale, qualitativa, tra’Oriente’ e ’Occidente’: «In Oriente loStato era tutto, la società civile primor-diale e gelatinosa; nell’Occidente, traStato e società civile c’era un giustorapporto e nel tremolio dello Stato siscorgeva subito una robusta strutturadella società civile. Lo Stato era solouna trincea avanzata dietro cui stavauna robusta catena di fortezze e case-matte».

E parte altrettanto da un’afferma-zione teorica che continuamenteriprende dalla “Prefazione” a “Per lacritica dell’economia politica” di Marx:«Una formazione sociale non perisceprima che si siano sviluppate tutte leforze produttive per le quali essa èancora sufficiente e nuovi più alti rap-porti di produzione non ne abbianopreso il posto, prima che le condizionimateriali di esistenza di questi ultimisiano state covate nel seno stesso dellasocietà».

In Occidente dunque la rottura rivo-luzionaria non poteva materialmenteridursi alla conquista e all’esercizio

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Dal “socialfascismo” ai “frontipopolari”. I terribili anni 30

Dopo che Gramsci, dal carcere,aveva avviato la propria nuova rifles-sione, e ancor più negli anni immedia-tamente successivi alla sua morte, ilmondo era infatti cambiato con unavelocità e una profondità mai cono-sciuta. Una nuova grande crisi econo-mica, sociale, culturale, aveva scossoogni nazione, coinvolto ogni classe, erapidamente sarebbe approdata a unanuova e più devastante guerra mondia-le. Il suo esito immediato fu l’emerge-re del fascismo, questa volta come ten-denza internazionale.

Tali avvenimenti furono dapprimainterpretati dai partiti comunisti comela conferma dell’impossibilità assolutadi una politica riformista, dell’esauri-mento del “capitalismo putrescente”, edunque come la riproposizione del-l’occasione rivoluzionaria fallita neglianni venti. La linea cosiddetta del“socialfascismo” non era, in questosenso, solo il frutto di un impoveri-mento estremista e settario, né dettatadalla logica della lotta interna al grup-po dirigente sovietico nel momentodella collettivizzazione forzata e del-l’industrializzazione accelerata: nasce-va piuttosto da una lettura classica esemplificata di fatti reali e sconvolgen-ti. Ma condusse a una sconfitta percerti versi più drammatica di quelladegli anni venti. All’inizio degli annitrenta Hitler andò al potere con ilsostegno di una forte spinta di massa(non come risposta alla ’minacciacomunista’ – peraltro in quegli anni giàlargamente contenuta –, ma come unadelle risposte possibili alla crisi delcapitalismo liberale, uno dei ’fordismi’possibili). I partiti comunisti inOccidente erano, oltre che perseguita-ti, assottigliati, divisi ed eterodiretti;l’Unione Sovietica isolata, minacciatadall’aggressione esterna, lacerata da unconflitto sociale e politico drammatico.La svolta del VII Congressodell’Internazionale non fu semplice-mente un adeguamento tattico, ma unaspecie di rifondazione, sia pure nonpienamente consapevole, nella culturae nel radicamento sociale del movi-mento comunista. E l’esperienza deiFronti popolari e dell’unità antifascista,che esso produsse, non fu solo – comeoggi si tende con qualche disprezzo adefinirla – una convergenza difensivacontro un comune nemico. Né rimasecircoscritta là dove il pericolo fascista

pubblico nell’economia, tutele sociali,diritti contrattuali sui luoghi di lavoro,partecipazione organizzata di partitioperai e sindacati alla direzione politi-ca).

E tuttavia la differenza rispetto alleipotesi rivoluzionarie degli anni venti,agli anni della ’scalata al cielo’ non solopermaneva ma, in un certo senso,diventava ancora più netta e irreversi-bile. Fronti popolari e unità antifascistanon avevano impedito la guerra, anzinell’immediato erano stati sconfittinelle loro esperienze più avanzate(Francia, Spagna); la guerra era statavinta da un’alleanza in cui era già deter-minante il ruolo della maggiore e piùdinamica potenza capitalistica, gli StatiUniti; dalla guerra gli Stati Uniti eranousciti con una forza militare, un pesoeconomico, un’egemonia culturalemoltiplicate che consentivano loro dioffrire una nuova prospettiva di svilup-po in Occidente e anche di governarein modo flessibile l’emancipazione dalvecchio colonialismo in molti paesidella periferia. Nello stesso tempo, ladinamica politica e ideologica avviatain Urss dalle repressioni degli annitrenta, accentuatasi proprio nel corsodella guerra con la mobilitazionepatriottica e dopo la guerra, per il pre-valere della logica della politica dipotenza e per effetto della nuova pres-sione americana, rendevano menoaccettabile ai popoli dell’Occidente ilmodello sovietico e nello stesso tempopiù stretti i margini per l’autonomaricerca di `vie democratiche’ al sociali-smo. Non ci fu quindi una ’spinta rivo-luzionaria’ in Occidente minimamenteparagonabile a quella, pur battuta, delprimo dopoguerra: anzi, vi fu un recu-pero di potere e di consenso delleforze politiche moderate e delle capa-cità espansive del sistema economicocapitalistico (i ’trenta gloriosi’) sia purein un quadro di compromesso sociale edi equilibrio bipolare.

L’uno e l’altro aspetto di questostraordinario mutamento non poteva-no essere preveduti dai comunisti e daimarxisti degli anni trenta, Gramscicompreso. Anche chi era andato piùavanti nella elaborazione della strategiadell’unità democratica, della ’democra-zia progressiva’, chi era persuaso cioèche la rivoluzione in Occidente avreb-be potuto e dovuto assumere modalitànuove, più processuali, e approdare aforme nuove del potere, non dubitavacomunque che una nuova guerra mon-

incalzava. Certo, la difesa della libertàminacciata, e per i comunisti la difesadel ’paese dei soviet’ ne costituivano lamotivazione più evidente. Ma a darleun’anima, e una prospettiva, concorre-va la scoperta, o la riscoperta, delnesso forte tra democrazia politica equestione sociale, tra libere istituzioni,eguaglianza economica, diritto al lavo-ro.

La grande crisi economica delmondo capitalistico avanzato e i suoieffetti non meno aspri nella periferiacoloniale, i primi indiscussi successi deipiani quinquennali in Urss, laRepubblica spagnola e le conquistesociali in Francia e il New Deal roose-veltiano, animarono quegli anni di stra-ordinaria tensione politica e ideale nonmeno della minaccia hitleriana. Questisconvolgimenti risvegliarono le capaci-tà innovative del movimento operaiodi varie tradizioni, conquistarononuove generazioni e produssero unapartecipazione che coinvolse settoriimportanti dell’intellettualità progressi-va: ne risultò trasformato oltre che lospirito dell’epoca, il pensiero politico,economico, scientifico.

I fondamenti e le premesse di quel-lo che più tardi divenne il “compro-messo keynesiano”, lo Stato sociale,furono gettati in quegli anni tragici.

Dopo la guerra, in un mondo nuovoe imprevisto

Lo sciocchezzaio pamphlettisticooggi imperante, che ripensa la storiadel ’comunismo reale’ come una puraillusione, un gigantesco delirio ideolo-gico, censura proprio questo dato cen-trale della storia del secolo: i comunistisarebbero ridiventati una setta, il lororuolo, nel bene e nel male, sarebbestato marginale, se non fossero stati dinuovo, dopo l’Ottobre e in pienaepoca staliniana, non il solo ma certoun protagonista decisivo di quellosnodo dal quale venne letteralmentecambiata la faccia al mondo. E infattialla fine della guerra vittoriosa si trova-rono presto a governare quasi duemiliardi di uomini, a essere l’interlocu-tore e alleato naturale del movimentodi liberazione nazionale del Terzomondo, mentre si avviavano inOccidente – e sarebbero continuateanche nella stretta della guerra fredda,anche quando erano al governo forzeconservatrici – riforme che portavanoil segno del socialismo (intervento

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diale, e la caduta dei fascismi, avrebbe-ro prodotto, anche nei paesi avanzati,un movimento di massa a egemoniaproletaria, aperto una vera fase di tran-sizione.

Quando Gramsci, in dissenso con ilpartito e con l’Internazionale, all’iniziodegli anni trenta, avanzò la parola d’or-dine dell’Assemblea costituente, essaaveva questo significato e contenevaquesta speranza, era cioè pensata nellalinea di quello sviluppo che Lenin nonaveva avuto il tempo di compiere,come tappa ravvicinata e strumento diuna nuova e diversa rottura rivoluzio-naria. Lo stesso Trockij, che pure man-teneva una fedeltà ostinata al modellodell’Ottobre in polemica con la dege-nerazione burocratica e l’opportuni-smo politico dell’Internazionale stali-niana (ma era ben più geniale e pene-trante dei suoi epigoni) riconobbesenza reticenze poco prima dellamorte che «Se a una nuova guerramondiale non seguirà una rivoluzionevittoriosa in Occidente e una profondariforma della società sovietica,dovremmo ripensare tutto».

Togliatti si venne a trovare dunquein una situazione del tutto diversa einattesa, nel bene e nel male: un’espan-sione del potere dei comunisti, unadislocazione in avanti della lotta diclasse nel mondo, ma a fronte diun’egemonia non intaccata del capitali-smo in Occidente e anzi, qui, di unanuova fase di “rivoluzione passiva”.Questo lo spinse, quasi lo costrinse, acontare sul primo elemento per affron-tare in piena autonomia una nuova elunga fase di ’guerra di posizione’, atentare ciò che Gramsci rimproveravaai mazziniani di non aver saputo farenel Risorgimento: capire cioè le ragio-ni dei moderati, usare le trasformazio-ni che essi erano costretti a operare,ma mettere in campo tutte le proprieforze per trasformare strada facendo la’rivoluzione passiva’ in un vero proces-so di trasformazione, nell’affermazio-ne di una nuova egemonia.Anche per questo la “forzatura”togliattiana di Gramsci, con grandirisultati iniziali

Non c’è dubbio allora che nell’inter-pretazione del pensiero di Gramscisuggerita da Togliatti e assimilata dalPci vi fosse, oltreché un uso finalizza-to, una vera “forzatura”: nel senso diun gradualismo molto più accentuato,di un’attenuazione dello ’spirito di scis-

rispetto al ’paese guida’, senza separar-lo da un movimento mondiale ancoraespansivo e anzi permettendogli diassumervi una funzione di stimolo peresperienze critiche e innovative anchein molti altri paesi. Permise infine, manon per ultimo, di sperimentare unaforma organizzativa, ancora retta daiprincìpi del centralismo democraticoma abbastanza tollerante della ricerca,della discussione, capace di selezionarei quadri migliori e non solo i più fede-li, di riconoscere gradualmente l’auto-nomia delle organizzazioni di massa.

Non appena il momento più asprodella guerra fredda e dell’ultimo stalini-smo fu superato, tutto ciò raggiunse lasua forma più matura: il comunismoitaliano raccoglieva quasi naturalmentele forze più avanzate della società ita-liana, e appariva aperto a ulteriori svi-luppi.

Non sarebbe stato così senzaGramsci e anche senza quella media-zione togliattiana che ho chiamato’gramscismo’. Qui metteva radici per-manenti e di massa una forza, un’iden-tità, che non era – come molti oggidicono e pensano – una ’socialdemo-crazia di fatto’, senza quasi saperlo, odirlo, ma neppure una semplice artico-lazione del campo sovietico, costrettadalle cose a svolgere una supplenzademocratica in contraddizione con lesue convinzioni profonde e solo finquando non si potesse ’fare come inRussia’. Parlo degli anni ’60, quando,ormai oltre e senza Togliatti, non soloil dibattito sul pensiero di Gramsci siapprofondì e si differenziò, ma soprat-tutto il “gramscismo” fece la sua provanella politica concreta, e manifestò piùchiaramente sia le sue potenzialità chei suoi limiti di fronte alla sfida di unasocietà che si modificava, in una nuova`guerra di movimento’ che pareva ria-prire degli spazi. Non appena ilmomento più aspro della guerra freddae dell’ultimo stalinismo fu superato,tutto ciò raggiunse la sua forma piùmatura: il comunismo italiano racco-glieva quasi naturalmente le forze piùavanzate della società italiana, e appari-va aperto a ulteriori sviluppi. Nonsarebbe stato così senza Gramsci eanche senza quella mediazione togliat-tiana che ho chiamato “gramsci-smo”…

(tratto da la “rivista del manifesto”, n. 20, settembre 2001)

sione’ e della radicalità anticapitalistica,di uno spostamento di attenzione alterreno politico-parlamentare rispettoa quello politico-sociale. Ce ne forni-scono la misura, proprio in quel perio-do, la esibita propensione di Togliatti,ben lontana dall’insofferenza gram-sciana, per la tradizione culturale e lefigure politiche moderate e riformistedella storia italiana (Croce, Giolitti), einsieme le sue forti riserve verso le vec-chie e nuove correnti del radicalismosia democratico-borghese sia cattolico,che dal piano politico (il Partitod’Azione, il dossettismo) e culturale (leavanguardie artistiche e filosofiche, ilmarxismo occidentale di sinistra) sispingeva fino al terreno del gusto e delcostume. Così come, nell’azione e nellapratica del ’partito nuovo’ colpisce ilcarattere prudente e disperso dei pro-grammi di riforma economica e istitu-zionale (a parte i fondamenti dellaCostituzione).

Ma non c’è dubbio, altrettanto, chetale ’forzatura’ era il portato e il rifles-so dei vincoli opposti da una situazio-ne storica determinata, di una novitàintervenuta nelle cose e per una certafase apparsa non modificabile.

Non a caso dunque essa produsse inquella fase risultati fecondi. Diede radi-ci profonde e popolari alla democraziain un paese nel quale la classe domi-nante non aveva saputo né volutocostruirla e le classi proletarie, che neerano rimaste sempre escluse, vi reagi-vano con l’apatia o con il sovversivi-smo. Fece, per tutta un’epoca,dell’Italia il paese della partecipazionepolitica più ampia e organizzata, delmovimento operaio italiano una forzanon solo combattiva ma culturalmentematura, in certi momenti egemone, edi tanta intellettualità, fino ad alloratrasformista e codina, una forza di tra-sformazione democratica e civile.Quella ispirazione ebbe gran parte nelcontribuire alla costruzione di un par-tito di massa capace di partecipare inogni momento e spesso di dirigere par-ziali riforme della società e dello Stato– il potere sindacale, i prodromi delloStato sociale, le istituzioni dell’econo-mia mista, il processo di emancipazio-ne femminile, il meridionalismo –senza smarrire un’autonomia ideale eun connotato di classe, unendo dentrodi sé, e trasformando, una pluralità diceti, di tradizioni, di generazioni.Garantì a questo partito un certogrado di autonomia, via via crescente,

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Sotto il vestito niente. La sinistra italiana, oggi

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Intendiamoci: dietro questi interro-gativi non c'è una “ideologia crollista”,per cui la crisi del capitalismo dovreb-be portare al suo crollo e alla vittoriadella rivoluzione. Neanche la crisi del1929 portò a questo. Anzi, portòanche a risposte aberranti del movi-mento operaio, come la linea del“social-fascismo” adottata per alcunianni dal Komintern. E portò all’avven-to di una dittatura di destra come quel-la nazista. Ma determinò anche (siapure, spesso, “a scoppio ritardato” –l’espressione è adatta, visto che c’è dimezzo la seconda guerra mondiale) aconseguenze importanti e “progressi-ve” per il movimento operaio: il NewDeal negli USA, le politiche di fullemployment e del welfare state in GranBretagna, e più in generale contribuìall’avvio di quel trentennio “socialde-mocratico fordista” che segnò unindubbio avanzamento per la classeoperaia nell’Occidente capitalistico.

Insomma, allora la “risposta delcapitalismo alla sua crisi” dovetteintroiettare alcuni “fattori esterni”,legati all’azione del movimento opera-io. Come mai non c’è oggi alcun segna-le in un’analoga direzione, e anzi lasinistra e il movimento operaio sem-brano toccare il loro massimo punto didebolezza nell’Occidente capitalistico?Come mai le alternative di rispostasono tutte interne al capitalismo – erischiano di ridursi alle due opzioni(“hegeliana” e “schmittiana”) prospet-tate da Ulrich Beck? (Le troviamo inun’interessante intervista, comparsa su“Repubblica”, che si riferisce in parti-colare all’Unione Europea. Come sivedrà, anche queste note sono “euro-centriche”, quando non addirittura“italocentriche”).

“rievocazione” (spesso apologetica)funziona solo per i “reduci”, cioè“quelli che c’erano”, mentre un bilan-cio critico può essere più interessanteanche per “quelli che non c’erano”.

Ciò che ritengo valido di un’espe-rienza “vecchia”

Quali sono gli elementi da cui nonposso prescindere, perché li ritengotuttora validi? Schematicamente:

- l’analisi (marxiana) delle contraddi-zioni del capitalismo

- l’analisi di classe in rapporto a que-ste contraddizioni, cioè non solo l’ana-lisi delle loro conseguenze oggettivesul proletariato (con “proletariato” siintendono qui tutti quelli che, in formediverse, vendono la loro forza-lavoroal capitale), ma delle reazioni “sogget-tive” che il proletariato ha di fronte adesse

- quindi, il metodo dell’inchiesta –per cogliere anche quest’ultimo aspetto– e della costruzione di una linea dimassa che “raccolga dialetticamente”gli elementi scaturiti dall’analisi ogget-tiva e dall’inchiesta (ci riferiamo quisinteticamente all’impostazione di MaoZedong, che ha formulato in modo piùesplicito e compiuto questo “metodopolitico” – di cui però si trovano giàesempi parziali od “allusivi” in Lenin ein Marx).

Ma chi può fare l'inchiesta e racco-glierne dialetticamente gli elementi percostruire una linea politica di massa?Questo porta al punto cruciale (e“dolente”) dell'organizzazione politica(e quindi, come vedremo, il secondo eterzo di questi “punti validi” vengonooggettivamente posti in forse).

Perché “senili” queste riflessioni

Perchè “riflessioni senili a ruotalibera”? per una duplice ragione: (i)vengono da un militante “vecchio”,che cioè si è formato nella fase di lottadi classe che va dalla fine degli anni ‘50al 1980, cioè una fase profondamentediversa dall’attuale (sia dal lato capitali-stico che da quello dei movimenti dilotta) – e non è detto che gli strumen-ti teorici adatti a interpretare quellafase e ad intervenire su di essa funzio-nino oggi; (ii) perché questo vecchiomilitante è oggi fuori da un impegnopolitico organizzato, e quindi da quellaconoscenza diretta, quotidiana dellasituazione di classe che tale impegnocomportava (quando era vero, cioèpratico, e non era lo pseudo-impegnodi tanti intellettuali di sinistra).

Quindi, una riflessione “datata” cheforse non riesce a cogliere adeguata-mente i problemi reali di oggi, nellaloro dimensione “pratica”. Ma secon-do me sarebbe sbagliato rinunciarvi innome di un generico “criterio cronolo-gico”. E’ opportuno disaggregare variaspetti di questo “essere datato”.Infatti, nelle riflessioni che propongo,ci sono:

- aspetti su cui ritengo siano ripro-ponibili strumenti e criteri che giudicotuttora validi

- aspetti su cui criteri e strumentivecchi vengono proposti faute de mieux

- aspetti su cui il carattere “datato”delle mie riflessioni porta a una dichia-rata incapacità di risposta.

Mi sembra, tra l’altro, che questo siaun modo più efficace rispetto al pro-blema, che ritengo importante, di “tra-smettere la memoria di classe”: la pura

RIFLESSIONI SENILI A RUOTA LIBERAsu crisi del capitalismo e crisi della sinistra

Il problema da cui partirò per queste “riflessioni senili” è il seguente: ci troviamo difronte a una crisi del capitalismo altrettanto e più profonda di quella del 1929. Comemai il movimento operaio, la sinistra in generale, non ne “approfittano” per rafforzarsi,ed avanzare o realizzare (almeno parzialmente) una proposta alternativa? E anzisembrano toccare il loro punto massimo di debolezza?

di VITTORIO RIESER

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Si è rotta la continuità politica orga-nizzata del movimento operaio

E’ proprio sul terreno dell’organiz-zazione politica del movimento opera-io che si è realizzata la più profondarottura di continuità. Le contraddizio-ni del capitalismo han continuato a svi-lupparsi e ad acutizzarsi, sia pure cam-biando, a partire dalla crisi del fordi-smo, le lotte di classe pure – in formespontanee od organizzate, vecchie onuove – ma le forme e le linee di orga-nizzazione politica che tentavano dirispondervi o di organizzarle sonoprogressivamente scomparse dallascena.

Due fattori hanno agito in questosenso:

- la crisi/scomparsa del socialismoreale ha privato del riferimento a unapossibile società alternativa al capitali-smo: riferimento sempre più blando econ “prese di distanza” nei partiticomunisti dell’Occidente, ma checomunque incideva sul “senso comu-ne” delle masse e – soprattutto – sullapolitica degli stati capitalisti

- anche prima di questa fine, si èavviata una conversione neo-liberistadi gran parte dei partiti socialdemocra-tici e comunisti, che – tra l’altro - li hapoi lasciati disarmati di fronte a unacrisi prodotta proprio dal ritorno di uncapitalismo più liberista (e più globaliz-zato) di prima.

Il risultato è che le lotte di classedagli anni ‘80 in poi si sono progressi-vamente trovate prive di un riferimen-to politico organizzato, che le unificas-se in funzione di una prospettiva dialternativa (anche parziale e “interna”)alla società capitalistica; anche parziale,com’erano le varie forme di “diversomodello di sviluppo” proposte dallesinistre in anni precedenti.

Come ha potuto prodursi tutto que-sto? La categoria del “tradimento deigruppi dirigenti” della sinistra è certa-mente una semplificazione insufficien-te, ma forse è più reale di quella della“integrazione/subordinazione delleclassi lavoratrici”: le lotte, sia pure“sparse”, contro una situazione di pro-gressivo peggioramento lo dimostrano.Tale categoria va però “maneggiatacon cautela”, anche se non scartata.Per fare l’esempio italiano: non v'èdubbio che i gruppi dirigenti dell’ex-PCI, che ne hanno promosso il pro-

gressivo dissolvimento, avessero inmente il progressivo abbandono di unaprospettiva di classe e la relativa con-versione al neo-liberismo, comeespressione delle “inevitabili leggi delcapitale”, giudicato come “stato natu-rale ed eterno” (quasi che l’analisi criti-ca del capitalismo fosse un “ciarpamestalinista” da buttare). Ma questi grup-pi erano cresciuti e si erano affermatinel vecchio PCI – tant’è vero che l’ul-timo Berlinguer vi si trovava minorita-rio – e ci sarà pure una “ragione ogget-tiva” da indagare... Non a caso, ele-menti di una impostazione neo-liberi-sta (o, nel migliore dei casi, “neo-cor-porativa ritardata”: si veda la strategiadella concertazione) hanno contagiatoanche organizzazioni come la CGIL,relativamente autonome dal processoinnescato nel PCI dalla crisi/crollo delsocialismo reale e dall’interpretazioneche ne hanno tratto i suoi gruppi diri-genti (NB: come si può vedere, il capi-talismo non crolla, ma il socialismosì...).

La categoria del tradimento dunquenon va scartata ma in ogni caso nonspiega tutto: quindi, tra l'altro, nonbasta una “organizzazione non tradi-trice” per ricostruire...

Il fatto è, comunque, che oggi ilproletariato – in Italia come in Europa– manca di un’organizzazione politicache sia in grado di dare una “prospet-tiva unificante” alle sue lotte – neanchenella forma indiretta di sostegno a queisindacati che, talvolta, le organizzanodirettamente.

Il problema della costituzione dellacoscienza di classe

La coscienza del proletariato non siforma solo attraverso l’esperienza dellapropria condizione, ma anche attraver-so le esperienze di lotta – e, su ambe-due questi livelli, interviene l’interazio-ne con le organizzazioni del proletaria-to stesso. In assenza o debolezza diquesta interazione, l’elaborazione apartire dall’esperienza di condizione edi lotta rimane al livello di “sensocomune”, cioè di elaborazione sponta-nea ed approssimativa, e non dicoscienza di classe, cioè di elaborazio-ne più sistematica e “politica”.

Quindi, la prolungata assenza di una“prospettiva alternativa” da parte delleorganizzazioni del movimento operaio

PER APPROFONDIREAA.VV.

SEMINARIO SU GRAMSCI

Il libro contiene gli atti del semi-nario di studio organizzato dalla

Associazione Culturale PuntoRosso e dalla rivista Essere

Comunisti, tenutosi a Roma il 6-7febbraio 2010, con relazioni di

Giuseppe Prestipino, MimmoPorcaro, Raul Mordenti, LuigiVinci, Pasquale Voza, Alberto

Burgio. In aggiunta vi è una intro-duzione al pensiero di Gramsci di

Raul Mordenti e un saggio sulmarxismo di Gramsci di

Giuseppe Prestipino.

L’ipotesi di base è che in Gramsci(fondamentalmente in quello dei

Quaderni del carcere) vi siamolto materiale teorico utile alla

ricostruzione di una posizioneteorica e strategica della sinistraanticapitalistica contemporanea.Ciò ovviamente non toglie che ci

siano elementi, connessi allecondizioni politiche, sociali e cul-

turali del suo tempo, obsoleti ocaratterizzati da limiti specifici onon verificati dagli sviluppi suc-

cessivi. L’intendimento è perciò difornire una strumentazione su

base gramsciana che si ritienevalida e che guarda ad alcunequestioni di fondo della nostra

contemporaneità, inoltre di farequesto non solo guardando la

riflessione gramsciana, ma anchemettendola a confronto con alcu-ne posizioni coeve o successive,nel quadro del marxismo e non.

Collana Il presente come storia

pp. 186, 13 euro.

EDIZIONI PUNTO ROSSOVia G. Pepe 14, 20159 Milano

Tel. e Fax 02/[email protected]

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anche e-book

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ha fatto sì che nel “senso comune dimassa” si siano radicate idee delle clas-si dominanti, che “davano conto” del-l’esperienza di classe in modi non con-testati da qualche altra interpretazione:il “capitalismo liberista-globalizzato”non è – certo – un miglioramento perla condizione dei lavoratori (anzi è ilcontrario – e i lavoratori lo sannobenissimo), ma è un processo inevita-bile, di fronte a cui nel migliore dei casibisogna “arrangiarsi”, difendendosicome e dove si può. Al tempo stesso(per certi versi paradossalmente) la“caduta” di un orientamento di classepolitico ed organizzato ha offuscato lacoscienza di cosa è possibile in questasocietà capitalistica e cosa no.

Di qui – schematicamente – due tipidi lotte (perché le contraddizioni dellasocietà capitalistica comunque produ-cono lotte!):

- lotte che assumono come inevita-bile l’orizzonte capitalistico attuale, ecercano di scavarsi “nicchie difensive”al suo interno (molte lotte operaie,anche durissime, sono di questo tipo)

- lotte che assumono obiettivi radi-cali (ad es. ecologisti) senza porsi ilproblema se questi sono compatibilicon l’attuale società capitalistica, equindi senza porsi il problema di qualimodifiche complessive di questa socie-tà siano necessarie per realizzarli.

Tuttavia non sono mancati in que-sti decenni movimenti e lotte

Negli ultimi decenni, non son man-cati nell’Occidente capitalistico (che,come ho detto, è l’orizzonte, certolimitativo, di queste note) grandi movi-menti di lotta contro l’assetto socialeesistente, che hanno coinvolto milionidi persone. E’ persino banale ricordar-li sommariamente:

- i movimenti “no-global” (o, perusare un linguaggio politically correct,“altermondialisti”)

- i recenti movimenti degli indigna-dos;

- movimenti ecologisti, anti-nuclea-risti, e - con elementi per certi versiaffini - movimenti come quello no-Tav.

Questi movimenti hanno avuto edhanno caratteri di netta opposizioneall’assetto sociale e politico esistente,anche quando non assumono esplicita-mente una ideologia anti-capitalista. Laloro composizione sociale è varia, e

La mia impressione è che in generequesti tentativi operino una sorta di“corto-circuito”, che cioè colganoalcuni elementi importanti di realtà mapoi cerchino una scorciatoia per “farquadrare il tutto”. Per chiarire, faròalcuni esempi – premettendo che laversione semplificata che ne do (talvol-ta ai limiti del caricaturale) serve perchiarire il ragionamento, e non per unacritica articolata e puntuale di tali posi-zioni.

Un duplice esempio tipico è legato aquella che potremmo chiamare la“ricerca delle nuove centralità”: delnuovo strato sociale “centrale” o dellanuova “rivendicazione centrale”.Ambedue in qualche modo provengo-no dal filone politico-culturale che haorigine in “Classe operaia” e in “PotereOperaio” e nella loro ideologizzazionedell’“operaio-massa”. La ricerca delnuovo “strato sociale centrale” ha por-tato, di volta in volta, a identificarlocon i “lavoratori autonomi di secondagenerazione”, con i “lavoratori cogniti-vi”, con i precari… Come in passato,queste ideologie dimenticano che i“punti alti” (e più politici) della lotta diclasse nascono dall’incontro-alleanzatra settori diversi delle classi oppresse:la rivoluzione russa vince grazie all’al-leanza tra operai e contadini (e soldati,in gran parte contadini), ma anche ilgrande ciclo di lotte operaie italianedegli anni ‘60-70 non è opera esclusivadell’“operaio-massa”, ma dell’incontrounitario tra questo e gli operai dimestiere e (almeno in parte) settori diimpiegati e tecnici.

vede una forte componente giovanile,ma non è assente in essa la classe ope-raia. Tuttavia, in genere, la loro durataè limitata o “intermittente”, ed essiottengono risultati solo quando il loroorizzonte è più limitato e “locale”.

Ma anche le lotte operaie nel sensopiù specifico e “tradizionale” non sonomancate, e il loro carattere di contrap-posizione di classe non è venuto meno.Tuttavia, la crisi economica fa sì cheesse siano prevalentemente difensive espesso si chiudano in un ambito circo-scritto di difesa immediata (con possi-bili rischi, in vari casi anche se non intutti, di “chiusura corporativa”).

Come ho detto, si sente la mancan-za di forme di organizzazione politicache colleghino questi movimenti a unorizzonte complessivo e gli diano con-tinuità.

Risposte teorico-politiche per oradeboli alla questione

Ci sono stati, e ci sono, tentativi diricomprendere questi nuovi movimen-ti e i nuovi aspetti di realtà sociale cheesprimono, in una prospettiva strategi-ca globale ed anti-capitalistica: il piùdelle volte su un piano di elaborazioneteorica, qualche volta anche su unpiano organizzativo-politico. Talvoltaqueste elaborazioni vengono da espo-nenti della “vecchia generazione” cheripropongono in chiave nuova vecchischemi, ma altre volte anche da espo-nenti più giovani e più direttamentelegati ai nuovi movimenti.

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Analogo discorso può essere fattoper l’ideologizzazione di rivendicazionidi per sé giuste come quella del “sala-rio di cittadinanza”, che spesso vieneipostatizzata sulla base di ideologie chevedono in ognuno di noi, anche quan-do guarda la televisione, un “produtto-re di plusvalore”: un obiettivo concre-to di lotta, suscettibile di realizzazionianche parziali, viene così ideologizzatoin obiettivo-chiave e risolutivo.

Altre, e più recenti, elaborazionidanno giustamente rilievo alle straordi-narie possibilità nuove aperte dalla“rete”, da Internet: aspetto indubbia-mente vero, non solo “tecnico”, che èdestinato a produrre cambiamenti pro-fondi nelle forme di organizzazione, dilotta o politiche che siano: ma che noncostituisce di per sé una “risposta” alproblema dell’organizzazione politica,anche se ne modifica profondamente itermini.

Più “tradizionale” è la tendenza, cheperiodicamente riaffiora, a “scaricaresul sindacato” i compiti che l’assenzadi organizzazioni politiche di classe“lascia scoperti”: una tendenza (lascia-telo dire a chi a suo tempo l’ha soste-nuta) irrealistica in termini strategici,perché comporterebbe uno snatura-mento (e una correlata sconfitta!) delsindacato – il che non vuol dire chequesto, in periodi circoscritti, non svol-ga un ruolo politico più avanzato edincisivo di quello dei partiti di sinistra(l’abbiamo visto negli anni 60-70 inItalia!): ma, ancora una volta, non è

un rimasuglio della Rifondazione ini-ziale, ma un rimasuglio di DP; tantomeno dall’altro “rimasuglio” dellaRifondazione originaria. Né, inSpagna, Izquierda Unida e affini o, inFrancia, le varie organizzazioni trocki-ste sembrano elevarsi sopra lo status dirimasugli. Un po’ diverso, forse, è ilcaso della Linke in Germania, per leradici che ha anche nel mondo sinda-cale. Ma non è solo questione di quan-tità, è che la nascita di un’organizzazio-ne politica anticapitalistica richiede unarottura di continuità. Ciò non significache – anche in questa situazione didomande senza risposta – non vi sipossa contribuire in modo indiretto eparziale: la costruzione di nuclei dilavoratori con un orientamento politi-co di classe può fornire alcune tessere(scusate l’involontario gioco di parole)di un futuro mosaico.

Per ora, l’unica prospettiva che sipuò approssimativamente ipotizzare èquella di un processo in cui, a partiredalle esperienze dei movimenti di lotta,venga costruita una forza politica orga-nizzata, che provi a tradurre questimovimenti e le loro esperienze di lottain un progetto complessivo di trasfor-mazione della società. In più, tutto ciòpuò aver senso solo se avviene a unlivello internazionale di ampiezza erilevanza sufficienti perché un tale pro-getto possa avere una concreta pro-spettiva di realizzazione (ad es. a livelloeuropeo).

Buona fortuna, compagni!

questa la “risposta duratura” al proble-ma dell’organizzazione politica.

Ci sono infine i tentativi di organiz-zazioni politiche “storiche” di inne-starsi sui nuovi movimenti.Tralasciando le “autoproclamazioni”ricorrenti di vari gruppetti della sinistrarivoluzionaria, un tentativo interessan-te era stato compiuto da Rifondazionenel rapporto col movimento no-globalin occasione della conferenza diGenova – con qualche effetto di credi-bilità, subito dissipato dall’andamentoondivago del suo leader carismatico eda una vischiosità burocratica dell’or-ganizzazione (questione troppo mate-riale perché il leader carismatico se neoccupasse).

In ogni caso, “senza partito nienterivoluzione”

Beh, e allora? Mi sembra sia ormaifin troppo chiaro che – tra le ipotesiche non considero “superate” – c'è lavecchia, cara idea “senza partito, nien-te rivoluzione”. Ma chi farà il partito,come lo farà, che tipo di organizzazio-ne sarà – questi sono interrogativi a cuiil nostro “vecchio bagaglio” (e l’attualelivello di analisi della situazione di clas-se) non sono in grado di rispondere, senon con alcune “avvertenze negative”.

Di certo, l’organizzazione politicaanti-capitalistica non nascerà dai rima-sugli di organizzazioni passate che oggisi aggirano per la sinistra: non daRifondazione, che non è più neanche

PER APPROFONDIRE

DIZIONARIO GRAMSCIANO 1926-1937a cura di Guido Liguori e Pasquale Voza

Roma, Carocci, 2009, pp. 918

Si tratta di un’opera che rappresenta il frutto di un lavoro collettivo durato oltre tre anni e che havisto la partecipazione di studiose e studiosi, sia giovani che affermati, di nazionalità, culture ecompetenze diverse. Il Dizionario è nato nell’ambito della ricerca del Lessico gramsciano, lo storico seminario della IGSItalia, di cui rappresenta una espansione e un approfondimento. Il suo scopo, infatti, è quello diricostruire il significato delle parole e dei concetti presenti negli scritti carcerari gramsciani, perfavorire una lettura delle “Lettere” e dei “Quaderni del carcere” quanto più possibile basata sullarealtà dei testi di Gramsci, piuttosto che mediata dalle troppe e a volte forzate interpretazioni chesi sono succedute negli oltre settant’anni dalla morte dell’autore.

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Poiché il “pensiero unico” domi-nante, liberista, non ha un’interpreta-zione endogena delle crisi, essenzial-mente le spiega come shock o disfun-zioni estranee al normale funziona-mento dell’economia, che vengono adisturbarne l’equilibrio e l’andamentodel mercato. Erano state così avanzatecome motivazioni la “bolla” speculati-va subprime, la crescente diseguaglian-za nella distribuzione del reddito, laricerca da parte speculazione finanzia-ria di guadagni giganteschi a breve ter-mine, la complessità dei suoi “prodottifinanziari”, la loro creazione fuoribilancio tramite “banche ombra”, lacarente gestione del rischio, la derego-lazione degli ultimi decenni, la politicamonetaria permissiva della Fed, l’inde-bitamento statunitense, ecc.: tutte coseverissime, ma scambiando cause edeffetto, fattori scatenanti e cause difondo, con la conseguenza di decisioniche hanno aggravato la crisi invece disuperarla. Il motto historia magistra vitaesembra proprio non funzionare incampo economico.

Questo fallimento evidente delladogmatica liberista non ha tuttaviascalfito a oggi granitiche certezze, néin gran parte degli economisti né nellaquasi totalità dei decisori economici:essi appaiono tuttora tenacementeancorati alla mitologia del mercatoautoregolato, di conseguenza ci stannoportando, con politiche procicliche,verso il baratro. Mentre si stava esten-dendo il contagio la BCE di Trichetalzava i tassi di interesse, nella straordi-naria illusione che occorresse frenareun’imminente ripresa impetuosa einflattiva: lo stesso errore di Rooseveltnel ’36, che prolungò la “GrandeDepressione”, conclusasi solo con ilkeynesismo militare (warfare) in vista

fisiologico proprio del modo di produ-zione capitalistico: la cui origine essen-do nelle contraddizioni operanti nellasfera della produzione e la cui esplici-tazione avvenendo in quelle della cir-colazione e della realizzazione del valo-re. Questo modo di produzione èinfatti portatore di una contraddizionetra crescita produttiva e appropriazio-ne privata borghese della ricchezza,dunque tra crescita produttiva e limitiposti alla domanda solvibile dellasocietà, ciò che porta alla sovrappro-duzione di merci e di capitali, quindi aoperazioni speculative sempre piùazzardate; parimenti è portatore di unatendenziale caduta del saggio generaledi profitto. La conseguenza sonoperiodiche chiusure industriali, caduteoccupazionali, ecc. Infine, come scriveMarx, “le crisi sono soluzioni violentesolo temporanee delle contraddizioniesistenti”, in quanto servono anche “aristabilire l’equilibrio turbato”, soprat-tutto attraverso processi di concentra-zione proprietaria e finanziaria, inquanto servono a rialzare il saggio delprofitto.

Su questa materia ci fu un vivacedibattito a cavallo del 1900, a seguitodella prima grande depressione mon-diale (1873-95); dibattito che tentò,con molti risultati utili, di svilupparel’analisi di Marx. La disputa riguardò lacapacità di sopravvivenza del modo diproduzione capitalistico: precisamentese e in quale misura essa esigesse unasua penetrazione in una periferia cheera largamente precapitalistica. In que-st’ipotesi il proletariato dei paesi svi-luppati sarebbe stato partecipe, secon-do alcuni, di una rendita “imperialista”,dunque coinvolgibile nel mantenimen-to a casa propria dell’ordine capitalisti-co esistente. Rosa Luxemburg invece

della seconda guerra mondiale. Comeaveva rilevato Hyman Minsky, “appenasi giunge alla piena occupazione, unanuova generazione di economisti indo-vini proclamerà la scomparsa definitivadel ciclo e l’avvento di una nuova era diprosperità permanente”.

E’ un fenomeno osservato già daMarx, che aveva notato come nel 1857i capitalisti “si congratulassero recipro-camente per l’andamento fiorentedegli affari, un mese prima dello scop-pio della crisi”, e replicato da HenryFord e Irving Fisher alla vigilia dellacrisi del ’29 e da Francis Fukuyama, lostrampalato inventore della (capitalisti-ca) “fine della storia”, poco prima dellacrisi attuale.

Ciò ha una duplice spiegazione, la“entelechia generazionale” (KarlMannheim), per cui la formazione nelperiodo giovanile per via dogmaticadell’orientamento tende a fissarsi perl’intera esistenza, determinando unasfasatura per cui i dogmi vengonoapplicati anche contro le richieste dellarealtà, e il “massimo di coscienza pos-sibile” (Lucien Goldman), per cui gliinteressi costituiti di classe dominantelimitano la percezione della realtà. Laposizione razionale diviene quindimonopolio dei portatori di visioni uni-versalistiche rinnovate.

Tuttavia una parte minoritaria deglieconomisti, a partire da NourielRoubini, era giunta a prevedere, anchecon molto anticipo, lo scoppio dellacrisi, e aveva convinto di questa previ-sione persino analisti finanziari e alcu-ni grandi giornali economici, come ilFinancial Times, che avevano argo-mentato, anche con richiami a Marx,come le crisi fossero un fenomeno

IL CONTRIBUTO DEL MARXISMOall’analisi delle grandi crisi epocali

Già verso la fine del 2008 la maggior parte degli economisti aveva parlato di un avviodi ripresa: ciò che ne testimonia solo il disorientamento e l’incomprensione totali delleorigini e della natura della crisi in corso. C’era chi aveva parlato del “cigno nero”, inten-dendo un evento del tutto inaspettato e imprevedibile, mentre altri si erano cimentatinelle interpretazioni più disparate.

di GIANCARLO SACCOMAN

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sostenne una conclusione differente.Vero era, a suo avviso, che, non riu-scendo l’andamento dei salari a tenereil passo con la crescita della produttivi-tà, il modo di produzione capitalisticonon fosse in grado di proseguire nelsuo sviluppo operando solo nei paesiin cui si era affermato, dunque che glinecessitasse di esportare se stesso neipaesi sottosviluppati (inoltre didistruggere i residui precapitalistici neipaesi sviluppati e di dilatare la produ-zione di armamenti). La guerra tra igrandi paesi capitalistici era diventataquindi una necessità capitalistica fisio-logica. Parimenti, però, quando ilmodo di produzione capitalistico sifosse esteso all’intero pianeta, essosarebbe necessariamente incorso nelproprio “crollo”, e a ciò avrebbe corri-sposto una generalizzata insorgenzaproletaria. Secondo Tugan-Baranovskij, al contrario, essendo lecrisi causate da “sproporzioni” in sededi investimenti fra il settore dei benicapitali e quello dei beni di consumo,sarebbe stato possibile, con opportunaprogrammazione, una crescita produt-tiva anche senza l’estensione del mododi produzione capitalistico a nuovi ter-ritori. Kondrat’ev, suo allievo, formule-rà una teoria ciclica del modo di pro-duzione capitalistico, fondata su “ondelunghe” determinate dalle variazioni insede di saggio generale del profitto,che non implicava essa pure nessun“crollo”. Questo modo di produzioneera in grado di superare le fasi recessi-ve o le successive fasi depressive attra-verso la ripresa del saggio del profittoconsentita da investimenti innovativi.Lenin, infine, aveva a sua volta assuntouna posizione intermedia, sostenendola possibilità di un equilibrio interno aipaesi sviluppati, però ritenendoneimprobabile la realizzazione nel cicloeconomico effettivo.

L’“onda lunga” Kondrat’ev (il“ciclo Kondrat’ev”, il “superciclo”) èun fenomeno ricorsivo di lungo perio-do (anche secolare), legato agli anda-menti relativi della tendenza alla cadu-ta del saggio generale del profitto edelle sue controtendenze, che influen-za tutte le variabili del processo econo-mico (investimenti, saggio di interesse,innovazione tecnologica, occupazione,indebitamento, ecc.); ed è il contenutodegli investimenti produttivi a definirela “fase” del “superciclo”, ben più chei prezzi o le variabili finanziarie. Lafase conclusiva del “superciclo” è quel-

si”, pur avendo origine nell’economia,porta a una complessiva trasformazio-ne qualitativa dell’intero assetto dellasocietà, politica, istituzionale, ideologi-ca, culturale, delle composizioni diclasse, dei modelli di stato. In altreparole, “separa” storicamente tra“stadi” del capitalismo, porta a “unatrasformazione fondamentale nellastruttura socioeconomica della socie-tà” (Schumpeter).

Ciò nel primo Novecento addirittu-ra significò guerre devastanti, parimen-ti rivoluzioni socialiste e controrivolu-zioni fasciste. I mutamenti sono stativia via definiti come “rivoluzioni indu-striali”, “paradigmi tecnologici”, “tec-nosfere”, “complessi biosocioecono-mici”, ma l’analisi delle grandi crisi edei momenti loro preparatori è stataobbligata a estendersi a oscillazionidemografiche, stili di vita, musica, rap-porti intergenerazionali e tra “generi”,religioni, etnie. Le grandi crisi compor-tano anche la dissoluzione delle formeprecedenti delle coscienze (l’“apocalis-se culturale” di Ernesto De Martino,l’“eclissi delle coscienze” di RichardSennet), la scomposizione dei soggetticollettivi in “moltitudini” di individuianarchizzati, generazioni e “generi” inconflitto fra loro, incapaci di ricono-scersi in un progetto comune e inun’azione collettiva, anche disposti adaffidarsi a capi carismatici. Ma c’è unaprovvisorietà sempre di questa scom-posizione, quanto meno in sede diclasse: la contraddizione fra capitale elavoro essendo ineliminabile portaprima o poi a una nuova condensazio-ne di soggettività, in forme più o menonuove.

la di un passaggio qualitativo nellacomposizione tecnica dell’economia enell’organizzazione del lavoro, inoltredi un mutamento nelle gerarchie ege-moniche mondiali. Al termine dellaLunga Depressione 1873-95 Stati Unitie Germania affermarono la propriaegemonia a danno di quella preceden-te dell’Inghilterra, nella crisi in corso èevidente l’emergenza egemonica dellaCina a danno di quelle degli Stati Unitie soprattutto dell’Europa occidentale.

L’innovazione tecnologica investe lefiliere produttive dominanti, i sistemidi comunicazione, quelli energetici, e sipresenta come “grappoli” di innova-zioni di prodotto che pervadono l’inte-ra economia, determinandone appun-to un “salto” globale. Al contrario,quando subentra la “fase” di maturitàdel “superciclo” prevalgono (come ieriin Inghilterra, oggi in tuttol’Occidente) le innovazioni di proces-so: quelle che con la sostituzione diforza lavoro e con l’aumento della con-correnza creano uno scarto crescentefra capacità produttiva e capacità diconsumo, quindi sollecitano la finan-ziarizzazione dell’economia e la specu-lazione.

Il “superciclo” comporta ancheun’alternanza fra centralità nello svi-luppo da parte dell’operato dello statoe centralità invece da parte di quellodel mercato. Le grandi crisi, comequelle del 1873 e del ‘29 e quella attua-le, sono la conseguenza della “maturi-tà” di un modello produttivo e il luogodi incubazione di un modello nuovo.Esse sono il passaggio da lunghi perio-di di tendenziale stabilità strutturale,con un funzionamento ordinato e coo-perativo dei vari apparati del sistemagenerale, a periodi di instabilità struttu-rale, il cosiddetto “caos sistemico”, incui i vari apparati entrano in conflittofra loro, configurando quella cheGramsci definì una “crisi sistemica” diegemonia. Questa quindi si risolveanche in uno scontro di classe cheporta o alla restaurazione di un ordinecapitalistico trasformato, tramite una“rivoluzione dell’alto”, o all’irruzionedi un “ordine nuovo” delle classioppresse. E’ bene dunque sapere chedalla crisi in corso uscirà un mondonuovo.

Dato che il capitalismo non è soloun fenomeno economico ma un com-plessivo rapporto sociale, la “supercri-

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Gramsci in America latina

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L’ambiente politico e culturaledivenne più favorevole dopo il XXCongresso del Pcus, con accenti teori-ci più differenziati e analisi concretedelle situazioni storiche e sociali. Laricca elaborazione teorica del Pci diPalmiro Togliatti, sempre nel 1956,con la sua tesi su “La via italiana alsocialismo” contribuì anch’essa a chel’opera di Gramsci potesse proiettarsioltre le frontiere italiane e oltre il movi-mento comunista che gravitava intor-no all’Urss. Lo stesso Hector Agosti eil gruppo Pasado y Presente pubblica-rono l’edizione tematica dei “Quadernidel carcere” a partire dal 1958, essendopoi esclusi dal Partito Comunista nel1963.

In Brasile Gramsci era conosciutoda alcuni intellettuali socialisti “antista-linisti”, come Antônio Cândido, OttoMaria Carpeaux e il giovane MichelLöwy. Dall’altro lato, sotto la direzionedi Astrojildo Pereira, come conseguen-za dell’apertura del dibattito all’internodel Partito Comunista Brasiliano, nac-que la rivista Estudos Sociais.Astrojildo Pereira, il principale fonda-tore del Pcb, era in contatto conHector Agosti e certamente anch’egliconosceva Gramsci. Sempre nel Pcbsoprattutto i giovani intellettualiLeandro Konder e Carlos NelsonCoutinho volgevano il loro interesseverso Gramsci, ma anche versoLukács. A partire dal 1966 l’editoreÊnio Silveira, della CivilizaçãoBrasileira, legato al Pcb, iniziò a divul-gare gli scritti di Gramsci, comincian-do con le “Lettere dal carcere”.

La pubblicazione dell’edizionetematica dei “Quaderni”, che avanzavarapidamente, fu bloccata dall’inaspri-mento della dittatura militare alla fine

mobilitazione degli intellettuali controla dittatura. Espressioni mal digeritedell’universo categoriale di Gramscientrarono nel senso comune, comesocietà civile e egemonia, per esempio.

In Argentina, a partire dal 1975, allavigilia dell’insediamento della brutaledittatura militare, la situazione politicanon permetteva più di trattare di nes-sun tipo di marxismo. Tuttavia, JoséAricó e Juan Carlos Portantiero, dueintelletuali già legati a Hector Agosti,conservarono l’eredità gramsciana inquelle terre e aiutarono a diffonderlaaltrove nel continente, soprattutto inMessico, dove le condizioni erano piùfavorevoli. Sempre in Messico,Gramsci inizialmente fu conosciutoattraverso Althusser e Poulantzas, chefurono anche un’altra porta d’ingressodel pensiero del rivoluzionario sardo inBrasile.

In Italia, come si sa, NorbertoBobbio vinse il dibattito che intrapresecon una parte d’intellettuali comunistifra 1984 e 1985. Bobbio mise alla lucedel sole tutta l’ambiguità della formula-zione politica del Pci di Berlinguer, lacui strategia si orientava all’allargamen-to della democrazia borghese comepossibile via al socialismo. Con questastrategia venne anche alla luce unadeterminata lettura di Gramsci e dellostesso Marx. I comunisti italiani nonriuscirono ad affermare una cosa tantosemplice come l’esistenza di una teoriacritica dello Stato e della politica inMarx e nel marxismo (inclusoGramsci), mentre Bobbio (da buonneokantiano) diceva che non vi eraalcuna teoria politica nel marxismo.Questa sconfitta ideologica coincisecon la crisi organica del Pci che culmi-nò nella sua estinzione nel 1991. Così

del 1968, quando erano già stati editicinque libri.

Il Gramsci che giunge lentamente inArgentina e Brasile alimenta il dibatti-to attorno alla costruzione del popo-lo/nazione, alla questione del nazio-nalpopolare. Negli anni ’70, in partico-lare in Brasile, si ha una vera esplosio-ne di interesse per l’opera di Gramsci.Questo si spiega con la diffusione del-l’edizione critica organizzata daValentino Gerratana, con la forte cre-scita del Pci, con l’esperienza euroco-munista, ma anche con la crescita dellaresistenza democratica in Brasile. Itemi della democrazia, della guerra diposizione, dell’egemonia e degli intel-lettuali prevalgono in questo nuovomovimento. I libri di Gramsci, pubbli-cati negli anni ’60, vengono ristampatie molti testi di dirigenti e intellettualivicini al Pci escono in Brasile.

Militanti esiliati e altri che eranorimasti in Brasile si sforzavano di rin-novare il Pcb attorno alle idee diGramsci, così come venivano lette nel-l’ambito del Pci. Fra il 1981 e il 1983un’aspra lotta interna provocò ladispersione di questo indirizzo politi-co. Nel frattempo la direzione del Pcbrimasta a poco a poco incorporò il lin-guaggio gramsciano, ma in modo chia-ramente strumentale. L’apice del movi-mento delle Teologia della Liberazioneservì anch’esso come porta d’ingressodel nome di Gramsci in Brasile (e inAmerica Latina); analogamente cor-renti marxiste preferivano valorizzareil Gramsci degli anni de “L’OrdineNuovo” , creando tuttavia una falsacontrapposizione fra il Gramsci “gio-vane” e quello “maturo”. Altro fuocodi diffusione del pensiero di Gramscifu l’università, in un momento di vasta

IL PENSIERO DI GRAMSCI IN AMERICA LATINA

Fatta eccezione per alcuni luoghi ben definiti, il nome di Gramsci in America Latinafino a qualche decennio fa era quasi sconosciuto e i pochi riferimenti ad esso lo ricor-davano come vittima del fascismo. La lenta penetrazione di Gramsci in AmericaLatina iniziò dall’Argentina, quando già nel 1950 Hector Agosti fece pubblicare le“Lettere dal carcere”.

di MARCOS DEL ROIO*

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l’interesse e l’influenza di Gramscicominciò a declinare nella stessa Italia.

Come in Italia, anche in Brasile iliberali passarono all’offensiva. La crisiorganica del Pcb, la sua perdita diorientamento e l’ansia di seguire ilperegrinare del Pci portarono alladispersione politica finale di quantiavevano in Gramsci una riferimentoessenziale. Gramsci continuò a vivereancora per un certo tempo nel Partitodei Lavoratori, ma presto i suoi difen-sori di spostarono verso Bobbio eHabermas. Nell’università Gramscinon era più di moda e permane in alcu-ne nicchie, mentre trionfalmente entra-vano in scena Bobbio e Habermas, chetrascinavano con sé un numero nondisprezzabile di antichi seguaci diGramsci e del marxismo. Nel movi-mento politico Gramsci è stato volga-rizzato come non mai, nell’accademia èstato prosciugato da intellettuali libera-li. Lo scenario ideologico del radica-mento della controriforma liberale cheha spazzato il Brasile e l’AmericaLatina era posto.

Gli anni ’90 sono stati come la partepeggiore della traversata del deserto.Con la disgregazione dell’esperienzadel socialismo di Stato in Urss e inEuropa Orientale si è avuto uno spo-stamento culturale e politico notevoledella maggior parte delle organizzazio-ni di sinistra in America Latina. Il mar-xismo sembrava un cadavere prontoper la sepoltura e Gramsci sopravvive-va pallido, ma al patto di farne una let-tura riformista o anche liberale.

Alla fine degli anni ‘90 il sindacali-smo e i partiti politici di sinistra eranoomologati al nuovo ordine dettato dalglobalismo neoliberista/neoliberale.Mancava un orientamento teorico estrategico che concepisse l’uscita dalcapitalismo. La resistenza verso gliStati neoliberali, segnati dall’arroganzadelle classi dirigenti, venne dai movi-menti sociali che si formavano e si raf-forzavano in tutto il continente.

Ma Gramsci, nonostante tutto, con-tinuò ad essere pubblicato e studiatoquasi nella penombra. Il momento dirottura ancora una volta è dovutoall’edizione brasiliana dei “Quadernidel carcere”, organizzata da CarlosNelson Coutinho e pubblicata fra 1999e 2004, la quale, sebbene incompleta,offriva un materiale di lettura e ricerca

dell’America Latina ha un intensopotere esplicativo e stimola la riflessio-ne sulle realtà sociali complesse e dina-miche, contribuendo alla stessa azionepolitica rivoluzionaria. Si può dire chel’America Latina è una realtà che hauna complessità regionale, etnica, cul-turale e politico-economica dalla qualesi può estrarre qualche analogia con lapenisola italiana. Questa analogia sitrova nella dinamica fra centri e perife-rie che si ridefiniscono in continuazio-ne, nei vincoli di dipendenza conl’estero, nei poteri che si riproduconoindefinitamente e con irruzioni dimodernità.

Se negli anni ’70 predominò l’assi-milazione di un Gramsci eurocomuni-sta occupato essenzialmente nella que-stione democratica, oggi è il Gramsciattento all’autorganizzazione dellemasse popolari che guadagna terreno.Il suo universo categoriale continua adessere di estrema utilità nell’interpreta-zione e nell’elaborazione programma-tica, ma acquista significati differenti.Ma certamente blocco storico e rivolu-zione passiva, egemonia e riformamorale e intellettuale sono temi percomprendere il processo storico e perproiettare la rivoluzione socialista nelcontinente.

*Universidade Estadual Paulista,Faculdade de Filosofia e Ciência,

Departamento de Ciências Políticas e Econômicas.

molto più affidabile e attraente. Anchein altri paesi si passò a leggereGramsci, visto con interesse comefonte di pensiero rivoluzionario utileper la lotta sociale e politica che rico-minciava ad essere praticata dalle classisubalterne. A Cuba ha cominciato adessere visto con simpatia soprattuttodopo la grave crisi successiva all’implo-sione dell’Urss, data la necessità di ela-borare teoricamente gli indispensabilicambiamenti. In paesi che vivonoimportanti processi di trasformazionesociale e politica, come Venezuela,Ecuador e Bolivia, Gramsci diventafonte di studio e di riflessione, cosìcome si ricomincia a fare con una mag-gior presenza in Brasile, Argentina eMessico, anche in ambienti in prece-denza non prevedibili.

Oggi il vincolo di Gramsci conl’America Latina è più ampio e diffusoe non è il patrimonio esclusivo di alcu-ni indirizzi o organizzazioni politiche;ma il fatto più significativo è che essoentra a far parte del patrimonio deimovimenti sociali. In questo caso s’in-tendono per movimenti sociali i sog-getti che attivano il processo di costru-zione dei lavoratori come classe.Quindi Gramsci è di nuovo utile perl’azione politica trasformatrice.

I riferimenti di Gramsci all’AmericaLatina sono pochi, ma pertinenti. Ma èindiscutibile che l’opera di Gramscitradotta per la realtà plurale

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Questa influenza è presente anche,tra l’altro, nella diffusione della rivolu-zione in America centrale (Nicaragua,El Salvador) e nel movimento zapatistain Chiapas. Se è vero tuttavia che ilmarxismo aveva lasciato il suo imprin-ting sulle proposte dei movimenti lega-ti alla Teologia della Liberazione e sulleformulazioni di alcuni dei suoi teorici,come Gustavo Gutiérrez, è altrettantovero che questo imprinting si verificaoggi soltanto all’interno di certi movi-menti sociali.

A partire dall’esperienza del PT sipuò osservare qualcosa che, in uncerto senso, si trovava già negli scrittidi alcuni dei più importanti teologi,come Leonardo Boff, e cioè che la pre-senza dei teorici della democrazia edell’azione comunicativa (anzituttoJürgen Habermas) è stata, tra i membridi questi movimenti politici e anche incerti ambienti accademici, assai piùimportante negli ultimi anni di qualsi-voglia lontana influenza del marxismo.Questa breve introduzione ha soltantolo scopo d’indicare che le «trasfigura-zioni» subite dal marxismo in AmericaLatina a partire da letture cristianesono ormai datate e, anche in seno aimovimenti politici, si tratta di letturegià superate.

Cercheremo di dare qui a grandilinee un quadro d’insieme delle princi-pali tendenze attualmente presenti incampo marxista in America del Sud,concentrandoci particolarmente sullarealtà brasiliana e facendo qualche rife-rimento all’Argentina. Il marxismosudamericano si divide tra correntigramsciane, lukacsiane e la corrente

nuovo sindacalismo operaio sortonell’ABC paulista, la regione di SanPaolo a grande concentrazione di fab-briche metallurgiche). Anzi, la dittaturaavrebbe rafforzato il capitalismo, e conesso la società civile. Per queste ragio-ni, le nozioni politiche elaborate daGramsci permetterebbero una letturaparticolarmente appropriata della stes-sa situazione politica brasiliana.

Attualmente, esistono letture del-l’autore dei “Quarderni del carcere” unpo’ dappertutto in Brasile, particolar-mente nell’ambito delle scienze politi-che e delle scienze pedagogiche, maanche, sebbene in misura minore, nellafilosofia. Sono da ricordare anche glistudi su Gramsci all’interno di movi-menti quali il Movimento dei Sem-Terra brasiliano.

In Argentina, l’asse più visibile delmarxismo militante è di fondamentotrotskista. C’è una forte influenza delpensiero di Trotskij, nelle sue piùdiverse correnti, frutto delle divisionidel movimento comunista internazio-nale, specialmente della IVªInternazionale. Questo orientamentomarxista ha sviluppato analisi legatealla pratica politica militante, concen-trandosi principalmente intorno alleproblematiche del dibattito suscitatodallo stesso Trotskij, ossia, tra l’altro, ilruolo del partito, la crisi di direzionedel movimento operaio, il bonaparti-smo,il burocratismo. In queste analisisi cerca talvolta un’approssimazioneall’opera di Lenin e di Gramsci.L’importanza della divulgazione del-l’opera di Gramsci in Argentina èmessa in gran risalto da Antonino

degli althusseriani coi suoi derivati.Diversamente dall’Europa, gli studi suGramsci in Brasile fioriscono soltantoa partire dall’apertura del processo diridemocratizzazione avviatosi neglianni Ottanta con la fine della dittaturamilitare. E fioriscono anzitutto in senoa quei gruppi di intellettuali la cui mili-tanza politica era stata conculcatadurante la dittatura. In questo conte-sto, i testi di Gramsci hanno contribui-to in modo decisivo all’analisi del qua-dro politico che si veniva delineando.Autore di riferimento a tale propositoè stato, a partire dagli anni Sessanta,Carlos Nelson Coutinho, che, conMarcos Aurelio Nogueira e LuizSérgio Henriques, ha tradotto le operedi Gramsci e ne ha commentato il pen-siero. Tra l’altro, Coutinho sottolineal’autonomia materiale della societàcivile in quanto tratto specifico dellasua manifestazione nelle società capita-listiche più complesse, e rileva un’am-biguità nei “Quaderni del carcere” trala posizione che vede la società civilepresente anche nelle società pre-capita-listiche (posizione che tende a sparirenel corso della stesura dei“Quaderni”), e la posizione, fonda-mentale, secondo cui la società civile èuna caratteristica distintiva della socie-tà in cui esiste un alto grado di socializ-zazione della politica.

Per quanto riguarda la sua analisidella società brasiliana, Coutinho rilevacome il Brasile, nonostante la dittaturae la sua repressione della società civile,si sia «occidentalizzato», abbia cioè for-mato tutta una serie di nuovi movi-menti sociali tipici di una societàmoderna (esempio importante il

MARX, GRAMSCI, LUKÁCS, “TEOLOGIA DELLA LIBERAZIONE”

in America latinaIl movimento dei teologi della chiesa cattolica ha avuto, com’è noto, un grande pesonel suscitare e formare i movimenti sociali e politici dell’America Latina a partire daiprimi anni Settanta. In Brasile sia la formazione del Partido dos Trabalhadores (PT) edel movimento sindacale di sinistra (CUT), a cavallo tra gli anni Settanta e Ottanta,sia la nascita del Movimento dos Sem-Terra, nel 1984, sono stati in gran misurainfluenzati dall’azione sociale della Teologia della Liberazione.

di ZAIRA RODRIGUES VIEIRA

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Infranca, secondo cui «una ricostruzio-ne della fortuna di Gramsci in AmericaLatina deve partire necessariamentedall’Argentina; specialmente, da Agostie Aricó [...]. Questi due intellettuali,per intensificare un dibattito di idee dialto livello, hanno anche fondato unarivista dal titolo tipicamente gramscia-no, “Pasado y Presente”, che è divenu-ta il mezzo più efficace di diffusionedel pensiero di Gramsci in AmericaLatina».

L’introduzione dell’opera diAlthusser in America Latina, nel corsodegli anni Settanta, la si deve, secondoMichael Löwy, non soltanto alle diver-se traduzioni dei suoi scritti, ma ancheal libro di Martha Harnecker – all’epo-ca professoressa all’università diSantiago – pubblicato nel 1969: “Losconceptos elementales del materiali-smo histórico”. Harnecker aveva stu-diato a Parigi con lo stesso Althusser, eil suo libro «ha avuto un enorme suc-cesso ed è stato ripubblicato almenouna ventina di volte. Quest’opera è unamescolanza notevolmente riuscita di‘marxismo-leninismo’ di carattere stali-niano […] e di strutturalismo althusse-riano». Secondo Löwy, «la principaleeccezione a questa infatuazione latino-americana per l’althusserismo e in par-ticolare per la sua vulgata cilena “ele-mentare” è stata il Brasile. Si trovanocerto dei critici marxisti di Althusser inArgentina – Alfredo Llanos, CarlosAstrada, Leon Rozitchner –, inMessico (Adolfo Sanchez Vazquez) edaltrove, ma il caso brasiliano è partico-lare. L’impatto del marxismo struttura-lista è stato assai minore qui che nellamaggior parte degli altri paesi del con-tinente […]. Ciò è certo dovuto allapresenza di correnti antipositiviste chesi sono costituite […] nel corso deglianni Sessanta in seno alla sinistra mar-xista, a Rio de Janeiro e a San Paolo[…], ispirate dal Sartre della “Criticadella ragion dialettica”, da Gramsci esoprattutto da “Storia e coscienza diclasse” di Lukács, che era appena statotradotto in francese». Nel corso deglianni Sessanta e Settanta, saranno cosìpubblicati in Brasile una serie di artico-li di critica ad Althusser: a San Paolo,da parte di alcuni professoridell’Università da San Paolo, reduci daun seminario sul “Capitale” (a cuihanno partecipato, tra gli altri, nomiillustri di questa università quali JoséArthur Giannotti, Ruy Fausto,Roberto Schwarz e Bento Prado Jr., e

questioni di tipo psicoanalitico. Si trat-ta, tra gli altri, di studiosi come Emiliode Ípola, Ernesto Laclau (professoreall’Università di Essex, in GranBretagna), Bruno Fornillo, AlejandroLezama. È un gruppo che, in buonaparte, ha come interlocutore SlavojÎiÏek.

A proposito della produzione mar-xista in America meridionale, occorresottolineare anche il peso di quellaerede della riflessione lukacsiana. Inciò il Brasile occupa una posizione dirilievo e non soltanto in ambito sud-americano. Già alla fine degli anniCinquanta, sono state prodotte, ispira-te al pensiero di Lukács, opere signifi-cative nel dominio della critica lettera-ria e della storia della letteratura. A par-tire dagli anni Sessanta, l’interesse perl’opera lukacsiana si estende ad alcunifilosofi e sociologi che sul filosofoungherese incentrano la loro produzio-ne saggistica. Leandro Konder eCarlos Nelson Coutinho manterrannoun contatto epistolare con lo stessoLukács. Secondo questi due autori,«Gramsci è l’ispiratore delle idee politi-che di cui abbiamo bisogno; maLukács, sul piano filosofico, è il nostromaestro». Da quel momento la biblio-grafia ispirata o fondata direttamentesull’opera lukacsiana sarà notevole,così come l’interesse delle nuove gene-razioni per quest’opera. Per dareun’idea di tale interesse, si può ricorda-

anche Fernando Henrique Cardoso); ea Rio de Janeiro, da parte di intellettua-li marxisti che in seguito si farannoconoscere per la loro iniziativa d’intro-durre – con altri, come José Chasin – ilpensiero di Lukács in Brasile: LeandroKonder, Carlos Nelson Coutinho eJosé Paulo Netto.

Questo contesto dell’eredità althus-seriana è tuttavia assai cambiato negliultimi anni. Ed è proprio nello Stato diSan Paolo che si svolge l’attività delgruppo legato al Cemarx (Centro deEstudos Marxistas), all’università diCampinas. Questo gruppo, di cui lamaggior parte dei membri sono lettoried autori di scritti ispirati ad Althusser(João Quartim de Moraes, Décio Saes,Armando Boito, Márcio Naves, tra glialtri), realizza un ottimo lavoro – insie-me a molti altri intellettuali marxistibrasiliani non althusseriani – dal 1994all’interno della rivista “CríticaMarxista”. Si tratta di una delle piùimportanti riviste marxiste attualmenteesistenti in America del Sud. Il Cemarxorganizza anche, ogni tre anni, quelloche può forse essere considerato il piùimportante convegno internazionalemarxista dell’America meridionale.

In Argentina, un altro gruppo distudiosi marxisti ha cercato di ridiscu-tere l’opera di Louis Althusser. Questogruppo ha dato vita ad alcuni seminaricercando anche una prossimità con

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re il convegno su Lukács realizzatonello Stato di San Paolo nel mese diagosto del 2009, che ha visto una gran-de partecipazione di studenti venuti damolte altre regioni, anche assai lonta-ne, del paese. È bene ricordare che èstato soprattutto grazie al lavoro diJosé Chasin – intellettuale marxistascomparso nel 1998 – che oggi Lukácsè studiato in parecchie università, enon soltanto per i suoi scritti di esteti-ca, ma sopratutto per “L’Ontologiadell’essere sociale”. Gli studi lukacsianisono attivi non soltanto a San Paolo,ma in varie altre regioni del paese, inparticolare nello Stato di Minas Gerais,ove si trova il principale gruppo distudi marxisti d’influenza lukacsiana,quello fondato da José Chasin ed EsterVaisman nel 1986. Lettore instancabiledi Lukács e Marx, Chasin ha lasciatosoprattutto studi intorno a problemibrasiliani e testi d’analisi della politicabrasiliana dal colpo di Stato del 1964fino all’elezione di Fernando HenriqueCardoso. Il suo scritto più importante,in cui espone la sua lettura dell’operamarxiana attraverso il confronto fon-damentale con l’interpretazione lukac-siana – “Marx. Estatuto ontológico eresolução metodológica” –, è statorecentemente ripubblicato in Brasile ela sua traduzione italiana è uscita nel2010 presso l’editore Mimesis diMilano. In questo libro l’accento èmesso sul carattere ontologico del-l’opera marxiana e sulla necessità direspingere, da un lato, le letture centra-te invece sull’aspetto epistemologico,e, dall’altro, l’attenzione prioritaria dataalla sfera statale-politica. Attraverso lecase editrici da lui dirette tra gli anniSessanta e Novanta, Chasin ha pubbli-cato, tra gli altri, gli scritti lukacsiani“Esistenzialismo o marxismo?”,“Pensiero vissuto”, e anche una parteconsiderevole dell’opera del suo disce-polo della scuola di Budapest IstvánMészáros.

In Argentina, la ripercussione del-l’opera di Lukács è stata un po’ mino-re che in Brasile (vedi M. Vedda, Sullacircolazione di Lukács in Brasile e inArgentina, «Marxismo Oggi» 3, 2008).Secondo Miguel Vedda, la produzionelukacsiana è stata ampia, ma è rimastaconfinata soprattutto all’ambito dellacritica letteraria. Traduzioni dei saggipolitici di Lukács sono state pubblicateda José Aricó sulla rivista “Pasado yPresente”, la quale, insieme con“Contorno” – «una delle riviste lettera-rie più importanti della storia culturaleargentina» (– è stata una delle maggio-ri artefici della diffusione del pensierodi Lukács in questo paese. «Buonaparte dell’‘intelligentsia’ argentina diquelli anni, leggerà Lukács attraverso lelenti di Lucien Goldman», oltre cheattraverso quelle di Jean Paul Sartre edi Maurice Merleau-Ponty. Ma questoquadro argentino sta cambiando: «Sel’auge del post-modernismo durantegli anni Novanta implicò una transito-ria perdita di interesse per il marxismo,l’anno 2001 segnò, per le attività cen-trate su Lukács – come in generale perl’Argentina –, un punto di svolta signi-ficativo: è da quell’anno che, grazie allavoro del filosofo italiano AntoninoInfranca (residente allora inArgentina), e al mio modesto apporto,fu possibile dare maggior sviluppo allaricezione argentina del filosofo unghe-rese».

Una serie di convegni internazionalisi sono svolti all’università di BuenosAires e varie opere di Lukács sonostate pubblicate recentemente inArgentina.

Anche la creazione dell’homepage“György Lukács Pensamiento vivido”(nel sito www.herramienta.com.ar)sembra attestare la realtà di questimutamenti e il rinnovamento dell’inte-resse nei confronti del filosofo unghe-rese.

PER APPROFONDIREGiuseppe Prestipino

DIARIO DI VIAGGIO NELLE CITTÀ GRAMSCIANE

Questo libro è frammentario e metteinsieme notazioni eterogenee.

«Lasciatemi dunque mettere insiemeogni cosa come viene. L’ordine si farà

dopo», scriveva Goethe, nel Viaggio inItalia, soggiungendo:

«la mèsse deve per lo meno esser fal-ciata; per raccoglierla in covoni, non

mancheranno di venire i giorni adatti».A me

mancheranno. In una delle ultime, tri-stissime pagine del romanzo Nido di

nobili, di Ivan Turgenev, il protagonistadice: «noi di una certa età abbiamo unsolo divertimento insostituibile: pensa-

re ai ricordi». E’ possibile “ricordare”,come tento in questo libro, anche quelche oggi accade sotto i miei occhi? Ed

è possibile mettere insieme due cosein apparenza incompatibili: una teoria

trascendentale meta-storica”, o una“sovra-storia” del passato umano, e lacontingenza di una “sotto-cronaca” del

nostro presente culturale- politico eeconomico-sociale?

Collana Il presente come storia pagg. 550, 30 euro

... e dello stesso autore...

GRAMSCI VIVO E IL NOSTRO TEMPO

Il filo conduttore è l’interpretazione diGramsci, in specie per quanto riguardala dialettica, concepita in una comples-

sità di relazioni ignota alla tradizioneidealista e anche a quella marxista, la

nozione ampliata di subalternità, larivoluzione passiva e il suo antidoto, la“guerra di posizione” e l’esercizio del-

l’egemonia, il nesso tra Stato e societàcivile, il rapporto non più unilateral-mente deterministico tra struttura e

superstrutture, il significato preminentedella libertà in quanto animatrice dellastoria umana e, soprattutto, la ri-formaintellettuale e morale vista come tras-

formazione non sanguinosa, ma piùprofonda, duratura e integrale, se con-

frontata con il significato consuetodella parola rivoluzione.

L’autore di questo libro, in parallelo,tende a un giudizio complessivo sul

nostro presente avvalendosi dellecategorie gramsciane

Collana Il presente come storia pp. 240, 12 Euro

EDIZIONI PUNTO ROSSOVia G. Pepe 14, 20159 Milano

Tel. e Fax 02/[email protected]

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RECENSIONIe segnalazioni

LILIANA CORI

SE FOSSI UNA PECORAVERREI ABBATTUTA?

Scienza Express edizioniMilano 2012

Nei prossimi giorni (fine gennaio 2012)in varie città pugliesi, fra cui Manduria eTaranto, sarà presentato il libro di LilianaCori intitolato: “Se fossi una pecora verreiabbattuta ?” (Scienza Express edizioni,Milano), che non esiterei a consideraresullo stesso livello di “Primavera silenzio-sa”, il libro di Rachel Carson apparsonegli Stati Uniti e in tutto il mondo esatta-mente cinquant'anni fa. Anche questolibro è scritto da una donna, una biologache lavora presso il Consiglio Nazionaledelle Ricerche nello speciale Istituto chestudia gli effetti dei veleni ambientali sulcorpo umano. Con l'analisi delle sostanzetossiche nel sangue di numerose perso-ne, specialmente donne, scelte fra quelleche vivono accanto a fabbriche inquinan-ti o a discariche di rifiuti tossici, è possibi-le capire come le sostanze tossiche arri-vano, attraverso gli alimenti, fino al corpoumano.

Come quello del libro della Carson,anche lo stile del libro della Cori è grade-vole e apparentemente leggero purdicendo cose terribili. Vi sono somiglian-ze anche nel titolo accattivante. LaCarson già nel titolo avvertiva che ungiorno, se si fosse continuato nell'usoindiscriminato dei pesticidi clorurati persi-stenti, sarebbero morti anche gli uccellidel cielo e "la primavera sarebbe diventa-ta silenziosa". Il titolo del libro della Corifa riferimento al fatto che in varie partid'Italia e anche intorno a Taranto, è statonecessario dei greggi di pecore ricono-sciute contaminate da diossina. Una dellepersone studiate nella ricerca descrittadalla Cori le ha chiesto un giorno: “Se nelmio sangue fossero trovate concentrazio-ni elevate di diossina sarei condannata amorte anch'io come le pecore?”.

L'elenco continua con metalli tossicicome arsenico, cadmio, addirittura uranionei fanghi delle fabbriche di concimifosfatici e poi policlorobifenili (PCB), etanti altri. Il libro della professoressa Corinon ha il fine di terrorizzare le persone,ma di diffondere una cultura "popolare"della necessità di prevedere e preveniregli effetti dannosi delle attività che ci cir-condano. Solo con la pressione dell'opi-nione pubblica è possibile chiedere eottenere leggi più rigorose per vietare eeliminare attività e sostanze dannose perla salute e per la vita, per condurre effica-ci "bonifiche" dalle zone contaminate dascorie di fabbriche abbandonate o dadiscariche di rifiuti.

Un esempio è offerto proprio in Pugliadalla mobilitazione che ha ottenuto dallaRegione delle norme per la diminuzionedelle emissioni di diossine dai fumi deiprocessi dello stabilimento siderurgico diTaranto. Il libro della Cori ha un messag-gio finale che in pieno condivido: la dife-sa della salute e della vita dipende dauna maggiore conoscenza degli aspettitecnico-scientifici dei processi produttivi,dei prodotti e dei rifiuti; solo così è possi-bile “sia usare migliori tecnologie, rinno-vare il tipo di materiali prodotti e usati, siarisparmiare energia e ridurre le fonti diemissioni inquinanti in aria, acqua esuolo”. Tutte cose che, oltre a renderemigliore la vita, assicurano occupazionee genuino sviluppo umano.

Giorgio Nebbia [email protected]

MATTEO GADDI

LOTTE OPERAIE NELLA CRISIMateriali di analisi e diinchiesta sociale

Punto Rosso, Milano, 2010, pp. 296

Nella storia del pensiero radicale italia-no, il tema dell’inchiesta ha acquistato,nel corso dell’ultimo mezzo secolo,un’aura per molti versi ‘mitica’. Dalmomento in cui il gruppo dei «Quadernirossi» lanciò la proposta di un’analisi con-dotta sui lavoratori delle grandi fabbriche,l’idea dell’inchiesta è diventata infatti unmotivo costantemente presente nellevarie stagioni dell’operaismo e del post-operaismo, anche, nelle diverse stagioni,l’idea originaria è stata declinata in dire-zioni molto diverse. Non soltanto perché,di volta in volta, l’obiettivo della ricerca

Il libro della Cori comincia a descriverecome circolano le sostanze tossiche nellabiosfera, attraverso le catene alimentari;dalle fabbriche, dalle discariche, dagliinceneritori, tali sostanze vengonoimmesse nelle acque e nell'aria e da quisono assorbite dalla vegetazione e poidagli animali che si nutrono dell'erba edei mangimi contaminati e da qui entranonegli alimenti che mangiamo e infine arri-vano nel nostro corpo e nei neonati. LaCori mette bene in evidenza che gli effet-ti di intossicazione del corpo umano sifanno sentire, proprio attraverso le cate-ne alimentari, anche a distanza di tempoe a distanza dal luogo di emissione.Alcune sostanze tossiche possono arri-vare in Europa negli alimenti prodotti inpaesi sottosviluppati in cui sono ancorausati pesticidi o pratiche vietati da noi. Cisono stati anni in cui la concentrazionedei pesticidi o degli elementi radioattivinel latte materno è risultata più elevata diquella massima ammessa negli alimenticommerciali.

Le persone sottoposte ad analisi sonostate scelte fra gli abitanti delle località incui ci sono o ci sono state attività partico-larmente inquinanti, da Brescia, alPiemonte, alla valle del Sacco nel Lazio,alla Campania, a Crotone, a Taranto, aGela. La Cori elenca le principali sostan-ze pericolose che "sono finite" nel corpodi molte persone. L'amianto, usato permolti decenni, risultato cancerogeno giàmezzo secolo fa e finalmente vietato tren-t'anni fa, è ancora presente nell'aria chesi respira durante lo smaltimento deimanufatti di cemento-amianto. Il mercurioè stato usato "con successo" nell'indu-stria chimica fino a quando si è visto chei suoi vapori tossici finivano nel corpo siadegli operai, sia delle popolazioni vicine,e poi nei pesci quando i sali di mercurioerano scaricati nel mare.

Il piombo, usato per molti decennisotto forma di piombo tetraetile comeantidetonante delle benzine, finiva nel-l'aria e permane nel sottosuolo dei terrenisu cui erano insediate le fabbriche.

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militante si spostava su soggetti differentie su nuovi spezzoni della forza lavoro,ma anche perché l’ottica, il metodo e leipotesi al fondo dell’indagine risentiva diorientamenti sempre più distanti.D’altronde, anche nella stessa esperien-za dei «Qr», l’imperativo dell’«inchiesta»- pur esplicitato chiaramente comenecessità politica – trovò solo una parzia-le realizzazione, non tanto per le difficoltàorganizzative di un lavoro del genere,quanto per le divergenze politiche, teori-che e metodologiche che travolsero ilgruppo dopo il ’62. Al di là delle fratture edelle opposte opzioni d’indagine, la paro-la d’ordine dell’inchiesta introdusse però,nella tradizione della sinistra italiana, unasostanziale rottura metodologica, desti-nata a rimanere nel tempo: una rotturache implicava che ogni progetto organiz-zativo dovesse principalmente confron-tarsi con i mutamenti intervenuti nella‘composizione della classe’ – sia sotto ilprofilo tecnico, sia sotto il profilo politico –adeguandosi a queste trasformazioni(con maggiore o minore autonomia, aseconda dei casi). È proprio a questacospicua tradizione che si richiama oggiMatteo Gaddi, nel suo volume “Lotte ope-raie nella crisi”, che in effetti riecheggiascopertamente il titolo del primo fascicolodei «Quaderni rossi».

Se il primo numero dei «Qr» si con-frontava con la dinamica dello «sviluppo»e con la novità del «neo-capitalismo»,oggi Gaddi non può invece che riferirsi alruolo cruciale – economico, politico esimbolico – della «crisi». I materiali pro-posti da Gaddi costituiscono infatti il reso-conto di un intervento svolto dall’autore(con il supporto di militanti diRifondazione comunista) in una serie direaltà di fabbrica segnate dalle tensionidella crisi, spesso, dalla tangibile minac-cia di forti riduzioni del personale o addi-rittura di smantellamento degli impianti.Ben consapevole della difficoltà di un’in-chiesta adeguata alle necessità dei muta-menti in atto, Gaddi presenta i materialiche sono raccolti nel volume solo come ilprimo tassello di un lavoro ancora da svi-luppare, oltre che prima approssimazioneal problema. Nell’ultimo decennio alme-no, infatti, a dispetto della proclamataurgenza di un ritorno all’inchiesta, questoterreno di indagine è rimasto sostanzial-mente (se non completamente) inesplo-rato. Al di là di ogni lettura politicista (cheil volume evita saggiamente, nella consa-pevolezza della fase cruciale che stiamovivendo), offrono una testimonianza

Rieser, «vede la crisi aziendale comepura ‘manovra del padrone’ e neanchecome puro frutto di non ben precisati‘errori del padrone’» (p. 8), perché ildiscorso dei lavoratori intervistati indivi-dua con precisione i limiti delle strategieaziendali. Due punti sono soprattutto i piùimportanti che scaturiscono dalle traccedi inchiesta proposte da Gaddi. Il primoriguarda gli obiettivi rivendicati dai lavora-tori, il secondo il rapporto con la ‘politica’,o, meglio, con il livello istituzionale, costi-tuito non tanto dalle istituzioni pubbliche,quanto dalle organizzazioni sindacali eda ciò che rimane delle strutture partiti-che di riferimento. Sotto il primo profilo,sintetizza Rieser: «gli obiettivi e le propo-ste non si limitano a una generica ‘difesadel posto di lavoro a tutti i costi’. Questadifesa si collega a ipotesi di correzionistrategiche aziendali o di scelte politicheindustriali. [...] Tutto ciò si collega, spes-so, alla difesa del ‘patrimonio professio-nale accumulato’, non solo individualema collettivo – che viene considerato, tral’altro, un fattore importante di competiti-vità» (p. 8). In un simile quadro, diventaun obiettivo consapevolmente perseguitodai lavoratori quello di stabilire uno stabi-le coordinamento fra stabilimenti di unamedesima azienda (un coordinamentonon sempre facile da realizzare, soprat-tutto quando sono coinvolte realtà dipaesi stranieri).

Sotto il secondo profilo, i rapporti conla ‘politica’ appaiono piuttosto chiari,anche se articolati: «anche nel caso diqueste ‘avanguardie’ si conferma, da unlato, il riferimento al sindacato come fon-damentale strumento di difesa dei lavora-tori, dall’altro una diffidenza verso ‘la poli-tica’ – che erano emerse anche da altreinchieste. Il sindacato può venire criticato(più spesso le critiche sono rivolte a Cisle Uil, ma non poche anche alla Cgil), macontinua ad essere visto come uno stru-mento dei lavoratori. Verso ‘la politica’,invece, non si nutre alcuna fiducia; anchese, nel caso di questi lavoratori particolar-mente ‘impegnati’, ciò non si traduce inuna generica chiusura ‘qualunquista’:quando si parla di proposte politiche con-crete (ad es. leggi regionali contro ledelocalizzazioni) l’interesse e la disponi-bilità si ridestano» (p. 9). Come si è detto,l’inchiesta svolta da Gaddi si presentaconsapevolmente come il primo fram-mento di un lavoro ancora da compiere,come la prima traccia su cui iniziare aelaborare una ipotesi strategica di rico-struzione. Per questo, l’intento dichiarato

estremamente importante sotto almenotre profili: in primo luogo, per l’estremaeterogeneità dei casi considerati, da cuinon emergono strategie comuni da partedelle controparti coinvolte, ma piuttostouna pluralità di schemi operativi; insecondo luogo, per la diversa disponibili-tà – qualche volta sorprendente – aimboccare e sostenere la strada del con-flitto mostrata dei lavoratori, una disponi-bilità (o indisponibilità) peraltro non sem-pre spiegabile con il semplice riferimentoalle precedenti tradizioni di lotta; infine, lestrategie che si sono rivelate più utili, senon decisive, per affrontare le vertenze(con le ovvie implicazioni in termini dicomunicazione e circolazione dei conflit-ti). Cercando di ricostruire il ‘punto di vistaoperaio’ (ma senza concedere nullaall’oleografia della vecchia e nuova «clas-se operaia»), i materiali analizzano lasituazione di aziende del Centro Nord,operative in diversi settori, che vanno, peresempio, dalla Montefibre e dalla ex-Ineos di Marghera, alla Tenaris diDalmine, alla Frattini di Seriate, all’IdealStandard di Brescia, all’Igc di Cuneo ealla Azimut Benetti della provincia diTorino, passando (con una più rapidaricognizione) per i distretti del tessile-abbigliamento-calzaturiero e per il distret-to della ceramica. La scelta è stata com-piuta sulla base di due considerazioniprincipali: in primo luogo, per il forteimpatto che la crisi aziendale producesulla realtà locale; in secondo luogo, perl’esperienza di conflitto attivata dai lavo-ratori. Come sintetizza inoltre VittorioRieser nella Prefazione al volume, leaziende considerate si differenziano sottoil profilo del tipo di proprietà (sono infatticontrollate da multinazionali, industriali ofinanziarie, estere o italiane, oppureimprese familiari molto cresciute). E que-ste differenze, insieme a quelle del setto-re in cui operano le singole aziende, siriflettono anche sulle scelte adottate.

Ricostruendo la genesi della ‘crisi’, lestrategie aziendali e la risposta da partedei lavoratori, l’inchiesta – medianteun’analisi di tipo ‘qualitativo’ – cerca diadottare la prospettiva dei lavoratori, lacui voce viene assunta come punto dipartenza (anche se non come unico dato)da Gaddi: questi lavoratori sono, è beneprecisarlo, delle ‘avanguardie’, ossialavoratori iscritti al sindacato, con uncerto livello di politicizzazione, spessocomponenti delle Rsu. Ciò nondimeno, glielementi che emergono forniscono unquadro importante. «Nessuno», scrive

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non è ‘accademico’, non perché i mate-riali non forniscano degli elementi utili diconoscenza, ma perché tali elementisono finalizzati a una visione ‘politica’,all’elaborazione di un progetto che pongala ricostruzione delle figure tecniche esoggettive della ‘composizione di classe’.In questa prospettiva, è ovvio che le pistedi un possibile approfondimento del lavo-ro sono molteplici, sia perché risulterebbemolto utile oltrepassare lo spazio dell’in-chiesta-lampo (per di più condizionata dauna dura vertenza), sia perché alcunerealtà molto importanti, lasciate in ombrain questa fase (i distretti, le filiere produt-tive), presentano dinamiche complesse,che richiedono un’analisi articolata.

Ma proprio in questa direzione posso-no essere lette alcune considerazioni diGaddi, sintetizzabili in alcuni punti cui laricerca successiva dovrebbe volgersi inmodo privilegiato: a) il ruolo effettivo epotenziale di organismi di coordinamentospontaneo e autonomo dei lavoratori, siaa livello di fabbrica, sia a livello di territo-rio: questo motivo, infatti, risulta tanto piùsignificativo, quanto più la richiesta didemocrazia sindacale torna frequente-mente nelle inchieste; b) il rapporto fralavoratori direttamente occupati nelleaziende e quelli precari o di ditte che ope-rano in appalto; c) la diversa logica delledelocalizzazioni (verso paesi poveri overso la Germania e i paesi del NordEuropa); d) il ruolo dei manager, spessosenza autonomia decisionale, estraneiall’azienda e con funzioni prevalenti dimediazione nelle vertenze; e) l’uso degliammortizzatori, con cui non solo si scari-cano a livello sociali i costi della crisiaziendale, ma con cui, soprattutto, si rie-scono a imputare a fattori esterni e incon-trollabili le difficoltà aziendali; f) le possi-bilità di reimpiego della forza lavoroespulsa (possibilità di fatto assente inmolte realtà, sa per il tipo specifico dilavoratore, sia per il quadro economico);g) infine, la valutazione dei contratti chechiudono le vertenze, non tanto per ilrisultato che raggiungono nell’immediato,quanto per le capacità di mobilitazione econtrattazione che possono innescarenel futuro.

Naturalmente, ognuno di questi puntioffre margini per un potenziale ancorag-gio organizzativo, e proprio in questosenso Gaddi sembra riprendere – masenza inutili estremismi e superflue vena-ture romantiche – il motivo dell’inchiestacome metodo di riarticolazione politico-

ERNST BLOCH

LA FILOSOFIA DI KANT Dalle Leipziger Vorlesungen A cura di Patrizia Cipolletta

Mimesis Edizioni, 2010 pp. 150, 16 Euro

Ernst Bloch tenne corsi di Storia dellafilosofia all’Università di Lipsia negli annitra il 1951 e il 1956. Qui sono pubblicatele lezioni sulla filosofia di Kant, un autoreche è sempre stato presente nell’orizzon-te filosofico blochiano fin dagli esordicome è documentato nella sua opera gio-vanile del 1918, “Spirito dell’utopia”. Nellesue opere successive il suo interlocutorepreferito è stato sicuramente Hegel.Queste lezioni portano invece in primopiano un rapporto con Kant rimasto nelleopere fondamentali sempre quasi sullosfondo, rimettendo in discussione unapretesa fase hegeliana dell’ultimo Bloch.Kant viene collocato all’interno della filo-sofia tedesca seguendo il filo rosso deimovimenti di liberazione dell’uomo dal-l’asservimento, e gli viene assegnato unposto rilevante nella chiarificazione deiproblemi inerenti alla dignità umana.Proprio perché sono materiali elaboratiper studenti, queste lezioni hanno il pre-gio di una chiara esposizione, dove peròtrapela la sottile interpretazione blochia-na che fa emergere il nucleo utopico nellaconcezione kantiana della politica e dellasperanza.

ANTONINO INFRANCA

INDIVIDUO, LAVORO, STORIAIl concetto di lavoro in Lukacs

Mimesis Edizioni, 2011pp. 346, 24 Euro

Un libro molto utile per conoscereappieno il pensioro del grande filosofo emarxista ungherese. A partire da un suoconcetto chiave, appunto il lavoro, comeforma originaria e modello della prassitrasformativa, presente in tutta l’oera diLukacs (e non solo nelle opere della vec-chiaia), si affronta la complessità dellaconcezione lucacciana del genere umanoe del suo incessante movimento storicoverso la liberazione e democratizzazionedella vita quotidiana. Una lettura impor-tante anche per comprendere le possibili-tà odierne di una rinnovata prospettivasocialista.

organizzativa. Al di là di un simile obietti-vo, c’è però anche un interesse conosci-tivo forte che affiora – forse anche comeinterrogativo – da questi materiali. Ed èsoprattutto la domanda intorno alla strut-tura materiale e soggettiva della forzalavoro del Nord: la domanda intorno allapercezione del lavoro e dell’identità pro-fessionale, tecnica, politica, da parte diquesti lavoratori; la domanda sul rappor-to con le varie articolazioni della ‘politica’,comprese le relazioni con le organizza-zioni esistenti, la fiducia (o la sfiducia) neiconfronti delle istituzioni, la capacità e lavolontà di utilizzare (magari strumental-mente) il sindacato, l’interesse a trovarecanali di mediazione e mobilitazione nellasocietà e, persino, fuori dal territorio diriferimento.

Non si tratta – e questo emerge piutto-sto chiaramente dal discorso di Gaddi –di evocare o suggerire quelle scorciatoieorganizzative che in questi ultimi annihanno sovente tentato di occultare l’as-senza di progettualità politica. E non sitratta neppure di ridurre l’inevitabile ‘auto-nomia’ del terreno politico (o, meglio, deivari livelli politici), affidando compiti di sin-tesi a una ‘spontaneità’ mitizzata, cherischia solo di rappresentare l’ennesimavariante della retorica antipolitica.Piuttosto, si tratta di ripensare – ancorauna volta – il rapporto fra ‘economia’ e‘politica’, o, meglio fra la struttura mate-riale della forza lavoro contemporanea ele sue reali e potenziali modalità diespressione politica. È probabilmenteall’interno di questa problematica che gliappunti raccolti da Gaddi, presentandosiquasi nella forma di una stenografia mili-tante, contribuiscono a ricostruire effica-cemente i chiaroscuri e le ambivalenzedella situazione odierna. E, soprattutto, èper questo che risultano per molti versipiù utili di tante inchieste giornalistiche, ditante paludate ricerche scientifiche e,soprattutto, delle tante semplificazioni‘politologiche’ cresciute in questi anniintorno alla realtà (e ai miti) di una classeoperaia forse non più politicamente cen-trale, ma, di sicuro, economicamente benlontana dal tramonto.

Damiano Palano

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convegno internazionale

PROGRAMMA

venerdì 9 marzo 2012 – ore 15-20Introduzione al convegno (Ass. Cult. Punto Rosso)Intervento di Onorio Rosati (segretario Camera del Lavoro di Milano)

Prima sessioneIntroduzione di Walter Baier (dir. Transform! Europe)

1. Il quadro teorico di riferimento: la crisi del capita-lismo e le culture e le subculture che la esprimono

relazioniErnesto Laclau (Università di Essex)Il populismo come concetto teoricoRené Monzat (giornalista e saggista, movimento Rasl'Front)I nuovi populismi: il caso del Front National in FranciaAndrea Fumagalli (Università di Pavia)Il lavoro e il populismo. La scissione tra lavoro garantitoe precariato e le basi di massa del populismo e del-l'estrema destra

2. I casi nazionali

Roberto Biorcio (Università di Milano Bicocca)L'Italia: Lega Nord e il populismo di BerlusconiDimostenis Papadatos-Anagnostopoulos, La Grecia Ali Esbathi, La SveziaSiglinde Rosenberger, L'Austria

sabato 10 marzo ore 9.30-18I casi nazionali (continuazione)Judit Morva, L'Ungheria

3. Le destre europee contemporanee e il nuovo contesto

Saverio Ferrari (Osservatorio Democratico)Il panorama dell'estrema destra europea. Populismi edestre estreme a Est e a OvestThilo JanssenL'estrema destra populista al Parlamento europeo. Lealternative di destra all'Unione Europea

seconda sessione – prima parte

4. Le sinistre europee: la crisi dell'approccio tradi-zionale e il nuovo contesto

contributi diElisabeth Gauthier (Espace Marx, Francia)Haris Golemis (Fondazione Poulantzas, Grecia)Mimmo Porcaro (Ass. Cult.Punto Rosso, Italia)

seconda sessione:

Tavola rotonda finaleLe sfide per le sinistre europee: nuove prospettive e nuovi compiti

IntroduceWalter Baier

intervengonoLuciana Castellina (ex parlamentare europea),Michael Brie (Fondazione Rosa Luxemburg), Hans vanHeijningen, Nicola Nicolosi (segretaria nazionale Cgil),un esponente del Partito della Sinistra Europea

I NUOVI POPULISMI E LE DESTRE ESTREME IN EUROPA

LE SFIDE E LE PROSPETTIVE PER LA SINISTRAIl fine del convegno è quello di analizzare i nuovi fenomeni che caratterizzano le destre sociali e politiche in Europa.Sotto la categoria di “nuovi populismi” si vogliono includere le forme, simili ai vecchi populismi, ma inedite, con caratte-ri da analizzare caso per caso nei vari paesi europei, da Nord a Sud, da Est a Ovest. Le destre europee, e quelle estre-me in particolare, rimodellano le tradizionali discriminazioni e ineguaglianze (economico-sociali, culturali e politiche) conle nuove discriminazioni e ineguaglianze (razziali, culturali, identitarie ecc.). Anche a misura delle trasformazioni delmondo contemporaneo. Il contesto della crisi strutturale del capitalismo e della crisi climatica e ambientale globale inne-sca le dinamiche della gestione della “paura” e della “emergenza”. Le classi popolari e gli strati inferiori delle classimedie, quelli più minacciati da queste trasformazioni, costituiscono la base di massa di questi populismi e di questedestre. La “costruzione del nemico” è il fondamento culturale della legittimazione dei dominanti.Inoltre, un fine del convegno è, a partire da questa analisi e da questo retroterra, di discutere i comportamenti, lo statoattuale, le sfide e i compiti delle sinistre europee alle prese con il nuovo contesto.

MILANO – VENERDI 9 E SABATO 10 MARZO 2012CASA DELLA CULTURA – VIA BORGOGNA 3

organizzanoFondazione Rosa Luxemburg Berlino, Transform!Europe, Associazione Culturale Punto Rosso

in collaborazione con Camera del Lavoro Cgil di Milano e la rivista "Progetto Lavoro-Per la sinistra del XXI secolo".info: 02/874324 - [email protected] - www.puntorosso.it

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