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il lavoro dei campi

o introduzione o la semina o la mietitura o il trasporto dei covoni sull'aia o la trebbiatura o la fienagione o il maggese

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Il lavoro agricolo nella comunità faetana La civiltà contadina conosceva la comunione con la natura, la drammaticità della sopravvivenza, la sacralità della vita, la sicurezza della fede, il piacere della ritualità. Imparare ad ascoltarla è l'unica via per riappropriarsi di questa identità che il tempo dei fast-food e dei talk-show può farci perdere irrimediabilmente. Paola Esposito Testimonianze dei Sigg.:

• Fuccillo Antonio di anni 78

• Pastore Francesco di anni 67

• Valentino Maria di anni 64

Gli scenari del terzo millennio devono recuperare, prima di tutto, la centralità dell'uomo con le sue radici, le sue mille espressioni di vita fatte di arte, mestieri, saperi, sapori e materiali poveri che hanno segnato, nel tempo, la storia dell'umanità. In questa, dunque, hanno avuto un ruolo incancellabile le diverse esperienze umane, oggi considerate patrimonio irrinunciabile anche per quelli che verranno. La storia dell'uomo è legata, soprattutto, all'agricoltura che, nel corso del tempo, ha subito una lenta e naturale evoluzione. I mezzi di produzione connessi con la lavorazione dei campi rappresentano, di fatto, le più grandi invenzioni dell'umanità, perché hanno garantito all'uomo la sopravvivenza. Gli oggetti materiali della ruralità, dai mezzi arcaici e primitivi ai più sofisticati di oggi, oltre ad avere un legame con il mondo dei campi, rivestono un grande significato simbolico–espressivo, potendo rappresentare essi l'ingegno e la creatività umana, nell' ambito del mondo rurale. La civiltà agro–silvo–pastorale, per la quale l'uomo ha sempre avuto e riconosciuto una sua funzione centrale, è una civiltà che ha radici lontane; solo parzialmente è stata messa da parte con l'avvento della rivoluzione industriale. Si è determinato, così, il ridimensionamento del settore agricolo, a vantaggio dei prodotti industriali, dei laboratori, delle catene di montaggio e della tecnologia; quest'ultima ha cambiato tendenze secolari perché nei processi di produzione ha sottomesso l'uomo che, spesso alienato, è stato, in questo modo, spogliato della sua stessa identità. Dalle situazioni di staticità e di lenta trasformazione del mondo agricolo, siamo passati a scenari globali dominati, soprattutto, da un sistema di comunicazione interattiva che rende sempre più deboli gli aspetti insostituibili, necessari, fondamentali e la stessa centralità della persona umana. Il terzo millennio sarà quello della grande rivoluzione planetaria. L'uomo, in questa rivoluzione caratterizzata da scenari di villaggio globale, saprà, dunque, conservare una sua centralità? Saprà rapportarsi alle sue radici e saprà mantenere viva quella parte di umanità, senza la quale verrebbero compromessi anche gli aspetti più significativi del suo patrimonio genetico? Da questi interrogativi emerge, quindi, in tutta la sua importanza, il "ruolo delle radici" che testimonia, anche nel terzo millennio, l'importanza della presenza - apparentemente anacronistica, ma attuale - dei Musei della Civiltà Contadina. Trattasi di laboratori, di centri di documentazione e di fonti ricchi di testimonianze, quali radici della civiltà umana, da conservare per la loro importanza notevole, al fine di conoscere meglio le tracce generali della complessa storia umana e, garantire così, anche in futuro, in modo più autentico e veridico, una memoria approfondita delle diverse epoche storiche. Il protagonismo e l'impegno umano hanno segnato, in modo indelebile, il susseguirsi degli eventi storici; i profondi cambiamenti sociali del momento ed i processi di globalizzazione dell'ultimo decennio non possono avere un futuro di lunga durata, se si assiste, nell' indifferenza, alla scomparsa delle diversità locali, culturali e linguistiche. Di certo, non è questa la strada della civiltà e dello sviluppo; a lungo andare non

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produce né ricchezza, né qualità della vita, trattandosi di strada in salita, senza solidarietà, senza umanità e senza i valori necessari a tenere unita una società che, per guardare al futuro, pur necessita di passato, di radicamenti e di un forte desiderio di vivere in comunità solidali. La società contadina, così come ci insegnano gli esempi della sua storia millenaria, è ricca di valori. Le sue radici forti e tenaci, da non cancellare, sono impresse nei valori, nei saperi e negli stessi sapori legati alle viscere della Terra. Servono queste radici, anche nel terzo millennio, per non smarrire le testimonianze e gli insegnamenti, costituiti da segni e simboli legati all'oggettualità materiale che esse ci hanno lasciato; gli eredi della civiltà del mondo dei campi hanno il compito di trasmettere quest'ultima anche a quelli che verranno. Non si tratta di un fatto nostalgico, ma di un dovere verso le future generazioni che hanno bisogno di conoscere gli elementi caratterizzanti delle loro radici… a cui risalire mediante una opportuna ricostruzione oggettiva. Il comune di Faeto è posto a circa 866 metri di altitudine, nella parte meridionale del Subappennino Dauno; ha una latitudine nord di 41°19'28" e una longitudine est di 2°42'34" da Monte Mario (Roma). La superficie del territorio di Faeto si estende per 2615 ettari, 26 are e 64 centiare (cioè circa 2119 versure pari a circa 8475 tomoli) ed è composta da 27 fogli di mappa catastale. E' un territorio alquanto eterogeneo, poiché è formato da estesi boschi, da pascoli e da terreno idoneo per la coltivazione cerealicola e leguminosa. Confina a nord con il territorio di Biccari e a nord-ovest con quello di Roseto Valfortore; ad ovest e a sud-ovest con quello di Castelfranco in Miscano (prov. di Benevento); a sud con quello di Greci (prov. di Avellino) e a sud-est con quello di Orsara e di Celle di San Vito; ad est e a nord-est ancora con il territorio di Celle di San Vito.

LE CONTRADE CHE COMPONGONO IL NOSTRO TERRITORIO SONO:

FOGLIO MAPPALE

ESTENSIONE IN HA

LOCALITÀ

Foglio 1 99.22.34 La Foce Foglio 2 83.31.50 Piano del Conte Foglio 3 60.30.94 Prazzeta – Lama Grande – Le Cesi – La Foce Foglio 4 86.49.94 Lama Grande – Le Cesi – La Foce - Portine Foglio 5 59.88.02 Le Cesi – Macchia Farina – La Creta – Masseria dei

Cerulli Foglio 6 74.76.65 Sciartoni – San Salvatore – Le Fosse - Giarosetta Foglio 7 124.93.14 Difesa Vadicola Foglio 8 127.46.17 Difesa Vadicola Foglio 9 15.84.45 Centro abitato Foglio 10 103.42.58 La Castagna – Le Cesi – Portine- Palmento – Grifone

– La Costa – Serar di Celli – Masseria Izzo Foglio 11 98.90.71 Ospidale – Abba Cacima – Le Vorre – Masseria Izzo

– Agraria – Giardino – Ginestra – Padula di Petto – Fontana Dura – Valle Cupa

Foglio 12 92.17.35 Costa Mancini – Campo Romano – Boschetto – Orto della Fontana – Piano dei Roveri – Camposanto – Fontana

Foglio 13 44.16.69 Difesa vadicola Foglio 14 88.70.44 Fontana Cavallo – Vadicola – Vadovico-Frassinelle

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Foglio 15 61.85.91 Frassinelle – Serra dei Monti Foglio 16 56.82.90 Frassinelle – Serra dei Monti Foglio 17 81.49.00 Vadovico – Frassinelle – Serra dei Monti Foglio 18 68.81.40 Campo Romano – Boschetto – Lo Scavo Foglio 19 93.56.15 Piscero – Montagna o Monte dei Tauri Foglio 20 81.46.60 Valle Cupa- la Giardina- Montagna – Fontana Dura –

Fontanone- Pagliarone Foglio 21 105.94.06 Pescara- San Vito- Fontanone- Chiesa San Vito

(0.06.50) Foglio 22 124.20.20 Piano della Maggese – Niola Foglio 23 49.37.98 Niola – Monte Celza Foglio 24 92.64.32 Tre Sportelli Foglio 25 99.74.41 Startullo – Rovitella – Tre Sportelli – Lucifero Foglio 26 93.98.48 Rovitella Foglio 27 445.74.57 San vito – Monte Rifo o Montegrifo- Cerase – Piano

San Vito – Castel – Rovitelli – Mercante – Iazzo della Serra – Fontana Noce – Saldi – Lago di Sangue – Santa Lucietta

E' da precisare che quasi tutte le contrade erano provviste di fontane da cui sgorgava una limpida e fresca acqua. Sino agli anni '60, gli uomini lavoravano la terra con attrezzature e metodi ancora arcaici. Tutti i lavori, dall'aratura alla semina, dalla mietitura alla trebbiatura, erano manuali. I contadini si lamentavano sempre per il duro lavoro e per lo scarso raccolto. Questi ascoltavano con invidia i racconti degli emigranti che parlavano di paga settimanale o mensile, di cottimo e di lavoro prestato stando seduti (che sembrava voler dire "non lavoro"); e in molti di essi nasceva la voglia di abbandonare tutto e di andare via in cerca di miglior fortuna. Intanto il paese si svuotava, famiglie intere emigravano, molti giovani andavano via e nel centro abitato rimanevano gli anziani e alcune famiglie che per un motivo o per l'altro, avevano deciso di continuare a vivere con il solo lavoro agricolo… avendo, poi, la possibilità di ingrandire la loro proprietà, acquistando terre a prezzi vantaggiosi. Per descrivere con linearità e sequenzialità il lavoro dei campi, ritengo sia opportuno iniziare a percorrere le varie tappe, nei suoi molteplici aspetti, dall'aratura dei campi alla loro semina e così via. Non tutti i nostri contadini erano proprietari della terra che lavoravano; nella maggior parte dei casi, essi erano degli affittuari che dovevano, quindi, pagare l'estaglio al proprietario. L'unità di misura di superficie a Faeto era, ed è ancora, il tomolo; esso equivale a circa 4000 metri quadrati ed è anche unità di volume. Il tomolo è il doppio del mezzetto ed è pari a chilogrammi 44/46 di grano. Dipende, naturalmente, dalla qualità del grano. Riassumo nella tabella sottostante le varie grandezze di misura in volume:

Unità faetana Multipli delle "mesirre" Unità MKG Mesirre 1 da Kg. 1,5 a 1,9 Stuppiélle 1,5 da Kg. 2.4 a 2.8 Dìje mesirre 2 da Kg. 3 a 3.8 Miéceccàre 3 da Kg. 4.8 a 5.7

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Cartìcce 6 da Kg. 9 a 11.4 Mezzètte 12 da Kg. 19.2 a 28.8 Tùmmele 24 da Kg. 38.4 a 45.6 Sacche 72 (3 tomoli) da Kg.115.2 a 136.8 Unità di superficie

Tùmmele 24 3000 mq circa Partìte 24 3000 mq circa Sacche 72 (3 tommoli) 9000 mq circa Èttere 10000 mq Versìrre 96 (4 tommoli) 12345 mq Vi sono, quindi, anche delle misure intermedie come la partìte e il sacche. Quattro tomoli di terra o quattro partìte equivalgono all'incirca ad una versura. Per l'aratura del terreno i nostri antenati usavano l'aratro, dapprima in legno e, poi, in ferro. Si tratta di uno strumento antichissimo: le prime testimonianze del suo impiego risalgono al IV millennio a.C. (Sumeri ed Egizi). Nella sua forma più primitiva era costituito da un bastone, con la punta diretta in avanti, legato o incastrato, ad angolo, all'estremità di un palo (timone), che serviva alla trazione eseguita dall'uomo (aratro a chiodo). Dal primitivo aratro a chiodo – tuttora usato da molte popolazioni dell'Africa – si passò così ad attrezzi più razionali trainati da animali (bue, mulo, cavallo, ecc.), provvisti di organi dinamici, a struttura più complessa, e di organi di guida. I Romani conoscevano aratri semplici e, secondo Plinio, già provvisti di ruote. L'aratro semplice a trazione animale, usato fin dall'antichità per rompere il terreno e ricoprire le sementi, ancora molto diffuso, compie un lavoro superficiale, nel senso che rovescia, ai due lati del solco, la terra smossa e sminuzzata dal vomere. Come era composto un aratro:

� Bilancino – timone: serviva per attaccarvi la forza trainante animale; se le bestie erano accoppiate, si applicava all'attacco dell'aratro un capo–bilancino composto da un gancio arpionato, per fissarlo all'attacco, e di due anelli, in cui fissare il gancio arpionato delle due forze trainanti.

� Bure – Pertica – Stanga: timone fissato al ceppo. Leggermente ricurvo, alla base, nell'aratro di legno. Se l'aratro veniva tirato da buoi, la bure doveva essere più lunga, per permettere l'attacco direttamente al giogo tramite un attrezzo di cuoio, e fissata con dei pioli per evitarne il distacco. Se invece l'aratro veniva trainato da muli, la bure era più corta e doveva essere munita di attacco e tiro all'estremità anteriore, per l'aggancio del bilancino.

� Profime: serviva per fissare la bure al ceppo e per regolare la profondità dell'aratura.

� Ceppo – Dentale: era la base dell'aratro. Era di legno duro e massiccio e serviva per reggere il vomere. La parte posteriore, terminante a forma di "L", per facilitare l'inserimento della stegola – stiva, era più larga per favorire la rottura delle zolle.

� Vomere: aveva la forma di un cono e serviva per penetrare nel terreno. Era costituito da una robusta piastra di ferro a forma di trapezio irregolare, con una superficie leggermente ricurva munita di lembo tagliente, orizzontale, che, penetrando nel terreno, distaccava orizzontalmente la fetta di terra da rovesciare. Lo spigolo che tagliava, inoltre, era sempre disposto con una certa obliquità rispetto alla posizione dell'avanzamento. Il vomere si collegava alla bure, con dei bulloni a testa annegata; questi, penetrando nei fori posti sul vomere, si

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collegavano alla bure e venivano, poi, stretti con l'apposita chiave. Il tagliente poteva essere rettilineo oppure concavo o convesso; per i terreni argillosi era più adatto quello convesso. Quando la punta ed il tagliente del vomere erano alquanto consumati era necessario ripristinare la forma iniziale delle due strutture, mediante la fucinatura e la battitura.

� Stegola – Stiva: serviva all'operatore a regolare e a dirigere la marcia dell'aratro e per eseguire le manovre di interramento e di serramento, all'inizio e alla fine del solco. Era formata da uno o da due assi terminanti con manopole applicate alla parte posteriore della bure per agevolarne la presa.

� Impugnatura � Versoio – Ala: era l'organo operatore destinato a produrre il parziale

capovolgimento della striscia di terra già distaccata, lateralmente ed inferiormente, mediante i tagli del coltro e del vomere.

� Piolo: serviva per bloccare la stegola al ceppo. � Tiro: asta di ferro alla quale veniva agganciato il bilancino. � Attacco: serviva per bloccare l'asta. Gli aratri in ferro tecnicamente, non

differivano di molto rispetto a quelli in legno; la differenza principale, dal punto di vista tecnico, era la presenza di una ruota che serviva a regolare la profondità dell'aratura.

Si usavano i seguenti due tipi di aratro in ferro:

• La "PERTICARA" o "FILATERRA": aveva il vomere fisso e, quindi, si poteva arare solo in un verso. Esso veniva usato nei campi pianeggianti in cui era possibile arare, anche girando perimetralmente.

• Il "VOLTAORECCHIO": aveva, invece, il vomere girevole.

Nel lavoro ordinario di aratura con trazione animale, si impiegavano gli aratri semplici. Gli aratri semplici, "perticara", muniti di un corpo lavorante che rovesciava la terra sempre nella medesima direzione di marcia dello strumento, trovavano soprattutto impiego per la comune aratura dei terreni pianeggianti. I tipi di aratro voltaorecchio e doppi, invece, il cui corpo era collegato agli organi di trazione e di stabilità, in modo da poter rivoltare la terra a destra o a sinistra, erano adatti, in particolare, per l'aratura dei terreni in pendio. Sulla quantità di lavoro che potevano svolgere gli animali da tiro avevano influenza diversi fattori, quali la razza, l'età, nonché il sistema di attacco della macchina operatrice, la natura del lavoro, la durata giornaliera e la ripartizione dei periodi di riposo. La forza motrice per l'aratura era costituita o dai muli o dai buoi, quasi sempre apparigliati. I paramenti di un mulo predisposto per l'aratura consistevano in: pettorale costituito da una sagoma triangolare nel quale c'era della paglia, esternamente, invece, era guarnito con cuoio; la parte aderente al derma della bestia era costituita da una tela. Al collare si applicavano dei pezzi di legno di forma allungata con dei fori in cui si facevano passare delle lunghe corde. (Descrizione fornita dal Sig. Antonio Fuccillo). Quando la forza motrice era rappresentata da buoi le cose erano diverse.I buoi erano provvisti di giogo che consisteva in un blocco di legno con due anse semicircolari; esso poggiava sul collo dell'animale ed era legato sotto il bavero per mezzo di aste di legno semicircolari, che finivano in due fori praticati sulla parte alta del giogo; il tutto era fermato con dei pioli di legno. L'aratro, di contro, era provvisto di una lunga asta da tiro che veniva inserita in un cappio di cuoio fissato con un piolo anch'esso di legno. I buoi erano guidati con delle lunghe corde legate alle corna per mezzo di pezzi di ferro montati pure sulle corna. I buoi non erano molto usati a Faeto per l'aratura della terra.

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Il sig. Fuccillo Antonio ricorda che intorno agli anni cinquanta, un tale Maste Stèfene, figlio di Angelo Cocco, possedeva una masseria in contrada Rovitella; qui allevava una coppia di buoi famosi per la loro forza. Era tempo di trebbiatura ed era una delle prime volte che veniva utilizzata a Faeto la trebbia a motore. Il mezzo doveva recarsi sull'aia di Angelo Cocco, in Rovitella; durante il viaggio, il trattore, provvisto non di cingoli ma di ruote dentate, percorrendo dei tratturi, iniziò a slittare, perché mancava la presa sufficiente sul terreno. Il proprietario del trattore era di Troia; questi iniziò a imprecare non sapendo come risolvere il problema. Angelo Cocco vedendo la situazione incaricò il figlio Stefano di andare alla masseria a prendere i buoi che, prontamente legati alla trebbia, iniziarono a tirare. Per avviarsi, però, ci volle tanta forza da parte dei buoi; questi dovettero addirittura inginocchiarsi in modo da avere più presa sul terreno e così pian piano mossero il loro carico e lo trascinarono sull'aia sotto lo sguardo ammirato e sbalordito dei presenti. L'aratura dei terreni su cui seminare il grano iniziava verso la metà del mese di agosto. La semina del grano avveniva verso la metà di ottobre o i primi giorni di novembre. Non tutti i contadini possedevano una coppia di muli o cavalli o buoi per arare. La maggior parte di essi possedeva solo un animale; per questo motivo doveva trovare un'altra persona nelle stesse condizioni con cui formare una coppia; tale usanza si chiamava "apparigliatura". La coppia formata da tale abbinamento era composta in questo modo: ognuno portava la bestia e l'aratro personale (a seconda del fondo in cui si andava ad arare); ognuno doveva guarnire il proprio animale di tutto il necessario per arare. I lavori si svolgevano a giorni alterni nelle rispettive proprietà o, se c'era accordo fra i due compagni, si finiva prima di lavorare in un fondo e poi ci si recava nel fondo dell'altro. Mentre uno conduceva la coppia, l'altro era addetto alla frantumazione delle zolle. Tale lavoro era detto strumpeneìje. Dopo un paio d'ore, si scambiavano i ruoli. Guarda le foto

L'aratro

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SEMINA Dopo l'aratura dei terreni si procedeva alla semina. Si iniziava verso la fine di settembre, con la semina dell'avena. L'appezzamento di terreno veniva diviso in piccole parti dette pòreche; si faceva tale suddivisione per spandere il seme in modo uniforme. Le pòreche erano diverse per grandezza, a seconda della tipologia dei semi. Se ad esempio si seminava l'avena, le pòreche erano di tre passi e mezzo (7 scàcchje) corrispondenti all'incirca a 3,5 metri; se si seminava il grano, le pòreche erano di quattro passi (8 scàcchje) corrispondenti a quattro metri circa. Per delimitare tale suddivisione si tirava un solco da una parte all'altra del fondo, oppure si piantavano dei ramoscelli di albero; qualcuno, come per gioco, utilizzava "i bambini in piedi"; così impegnati essi si sentivano importanti. Il seme dell'avena veniva sparso sia all'andata sia al ritorno: si diceva semina a due archi; il grano, invece, solo in un verso: si diceva semina a un arco. L'avena veniva sparsa in siffatto modo sia perché è più leggera del grano sia perché è meno scivolosa, per cui alcuni chicchi erano trattenuti nel palmo della mano. Dalla testimonianza del Fuccillo "Io che tenevo le braccia lunghe o che avevo preso l'abitudine di seminare ad un arco sia il grano che l'avena, il seme riuscivo a spanderlo da un solco all'altro del terreno delimitato". "Per controllare se il seme sparso fosse in quantità sufficiente, si stendeva il palmo della mano allargato per terra e si contavano i chicchi presenti nell'area; se vi erano circa 10 chicchi, il quantitativo era buono e lo spargimento era uniforme" (mi riferisce il signor Francesco Pastore). Il quantitativo di semente era di tre mezzette per ogni tomolo di terra. Per ogni versura, quindi, occorrevano all'incirca sei tomoli di grano. Il seme, specie quello del grano, veniva setacciato con i crivelli, per eliminare ogni impurità e selezionare solo i chicchi migliori; poi veniva lavato in grossi tini e asciugato al sole e, infine, qualche giorno prima della semina, veniva trattato con la piéra turchìne che rendeva il seme immangiabile da parte degli uccelli. La signora Maria Valentino mi riferisce che: "la quantità di pietra turchina era di un cucchiaio da cucina per ogni mezzetto di grano. Inizialmente questa sostanza era in blocchi per cui la si doveva frantumare e poi diluirla in acqua e versata sul cumulo di grano". Il giorno della semina, il contadino si alzava di buon mattino, verso le quattro, e dopo aver pulito la stalla, caricato il seme e tutti gli attrezzi sul basto, si recava nel fondo. Dopo aver suddiviso il fondo procedeva alla semina. La moglie, intanto, rassettava la casa; preparava, poi, la "spesa" e arrivava nel fondo, all'incirca per l'ora di colazione. La donna nel lavoro di semina era adibita per lo più alla frantumazione delle zolle. Il sig. Fuccillo ricorda che negli anni della II Guerra Mondiale, alcune donne di Faeto, in assenza dei loro mariti impegnati al fronte, svolgevano lavori di aratura e semina. In particolare riferisce: "Mi ricordo che la moglie di Remigio Benedetto, Giuseppina Guarnieri, e le signore Carolina Buccassi e Vittorina Buccassi, i cui mariti erano al fronte, aravano e seminavano proprio come gli uomini. Erano tempi tristi!" Il pranzo era per lo più frugale: si mangiava pane e formaggio oppure frittata, olive, ecc.; di rado, c'era un po' di vino. Anche alle bestie che tiravano l'aratro, a mezzogiorno, veniva dato un sacco contenente avena e granturco. Tale sacco veniva legato al collo dell'animale in modo da racchiudere il muso per non far versare i chicchi per terra; poi gli animali venivano condotti a una fontana o ad un abbeveratoio per farli dissetare; infine venivano legati nel campo per farli pascolare. Dopo una breve pausa si riprendeva il lavoro. Alla fine della semina, i lati del fondo risultavano calpestati dai giri compiuti dalla coppia di animali; per questa ragione si arava per circa un paio di metri, in senso perpendicolare al fondo. Tale aratura era detta reccàpete. Se il campo seminato era soggetto ad accumulo di acqua piovana, si tiravano dei solchi in modo da incanalare l'acqua. Tali solchi erano detti sciacquattàue. Erano frequenti i litigi fra confinanti proprio a causa di tali solchi. Per la semina, si usavano le bisacce in cui veniva messa una certa quantità di seme. Per meglio afferrare il seme, il contadino sollevava leggermente, con la mano sinistra, il lato interno sinistro della bisaccia, in modo da spalancarne l'apertura;

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in questo modo egli si ritrovava agevolato il suo lavoro. Talvolta capitava che il contadino non avesse neppure il grano sufficiente per la semina, per cui era costretto a chiederlo in prestito; a tal proposito si conosce un aneddoto i cui protagonisti sono un certo Zizì e un proprietario di nome G. B. che rispecchia proprio questa triste situazione. Ecco il fatto. Ve lo racconto:

Il grano preso in prestito C'era a Faeto un proprietario che si chiamava G. B., ma aveva il soprannome di Cuccióne. Allora c'era la miseria e costui dava in prestito il grano; per ogni tomolo di grano dato in prestito, le persone dovevano riportarne due. Andò un tale a chiedere un po' di grano; si chiamava Pietro, ma tutti lo conoscevano come Zizì. – Gaetà – disse Zizì – mi devi fare un piacere, mi devi dare un po' di grano. – Pietro , il grano te lo do, a condizione che tu mi porti una lepre viva. – Gaetà , dove devo andare a prendere questa lepre? – Allora, niente da fare, non ti posso accontentare. Zizì se ne andò tutto adirato, ma poiché c'era la miseria, dovette subire tale angheria. Andò girando per le campagne e fortuna volle che prese una lepre. Zizì, tutto felice, si recò da Gaetano. – Gaetà, ti ho portato la lepre, ora puoi darmi il grano. Cuccióne mantenne la parola. Zizì dopo il raccolto, non riportò a Gaetano quanto dovuto. Cuccióne fece passare un po' di tempo e poi richiamò Zizì ai patti: – Ebbene, Pietro, il grano quando me lo restituisci? – Gaetà – quando mi hai dato il grano io ti ho dovuto portare una lepre viva; ora io sono pronto a restituirtelo, a condizione che mi porti un orsacchiotto vivo! – fu la risposta di Zizì. – E mi hai gabbato – rispose Cuccióne. Guarda le foto

La semina

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MIETITURA La raccolta del grano avveniva manualmente e ogni membro della famiglia svolgeva un ruolo ben preciso. Se la forza-lavoro era insufficiente si era costretti ad "assumere" lavoranti occasionali. Spesso si ricorreva a mietitori non indigeni; infatti, giungevano a Faeto lavoratori da Castelluccio Valmaggiore, Biccari, Troia, Orsara, ma anche da paesi della marina come Zapponeta, Margherita di Savoia, Barletta, Trani, Molfetta, Bisceglie ecc. Sovente questi mietitori prendevano in moglie delle faetane e si stabilivano definitivamente nel nostro paese; fra essi ricordiamo: Vito Di Molfetta, lu bucegliàje; Donato Buonsanto, padre di Liberato Buonsanto; Michele Cusano che sposò in prime nozze una certa Carosielli e in seconde nozze Rosa Pastore, figlia di Francesco Pastore. Quest'ultima, negli anni sessanta, emigrò in America dove è morta nel 2003 alla veneranda età di 94 anni. Durante il periodo della raccolta del grano questi mietitori camminavano scalzi e al posto delle scarpe calzavano pezzi di copertone presi chissà dove; quelli che avevano le scarpe, per non farle consumare le portavano appese in spalla. Portavano addosso anche i ferri del mestiere, ovvero un paio di falci e tutto l'occorrente per la mietitura. A tracolla portavano una bisaccia in cui riponevano gli indumenti di ricambio e un pezzo di sapone. In testa solitamente indossavano un grosso cappello a falde larghe per ripararsi dal sole cocente; sulla nuca mettevano un fazzoletto inumidito per rinfrescarsi il collo. I mietitori sopraggiunti a Faeto si fermavano ai Quattro Cantoni, sul Ponte e alla Piazzetta, che diventavano luoghi per la contrattazione e l'ingaggio dei lavoratori. Di solito, i mietitori formavano un gruppo detto "parànze". Ogni gruppo era formato da quattro mietitori e un legatore che era adibito alla legatura dei covoni. Trascorrevano la notte o in qualche stalla o all'addiaccio. I luoghi preferiti per passarvi la notte erano o la masseria dei Paoletta, in contrada Piano dei Rovi, o presso la fontana oppure dietro i mucchi di covoni. Anche i mietitori faetani si recavano in Puglia per prestare la loro manodopera nella mietitura, essendo diversi i tempi di maturazione del grano. Gli anziani ricordano ancora che trascorrevano fuori casa anche più di un mese, spingendosi a mietere fino alle porte di Foggia. Vi si recavano a piedi e trascorrevano le notti in ripari di fortuna o all'addiaccio oppure presso le masserie dove prestavano la loro opera. Ha svolto il lavoro di mietitore anche un certo Colamacchia, uomo dalla forza leonina e che non si faceva passare una mosca sotto il naso. Domenico Jannelli, alias Cannone, ci ha tramandato questo racconto.

Colamacchia mietitore C'era un uomo che chiamavano Colamacchia. Costui aveva una forza leonina. Una volta venne ingaggiato come mietitore da un proprietario terriero di Castelluccio Valmaggiore. Al mattino, si avviarono lui e il padrone nel campo da mietere; la moglie del padrone, invece, li raggiunse un po' più tardi e portò loro la spesa. Non appena arrivò, la donna disse loro di smettere di lavorare per fare colazione; la medesima, mentre mangiavano raccontò che di notte aveva sognato San Giovanni, patrono di Castelluccio Valmaggiore, che aveva picchiato Sant'Antonio, che si venera a Faeto. Colamacchia, adirato, si alzò da terra e cominciò a suonar bastonate a marito e moglie: – Non è possibile che lo "spogliato" di San Giovanni di Castelluccio sia stato in grado di picchiare il "guappo" di Sant'Antonio di Faeto! Così dicendo, giù a menar botte. Infine prese le sue masserizie ed aggiunse: – Stasera vi raccomando di farmi trovare la paga della giornata, altrimenti avrete il resto. Infuriato, lasciò il lavoro.

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Il padrone, oltre alle botte, fu costretto a versare a Colamacchia anche la paga giornaliera senza averne avuto il corrispettivo lavoro. La mietitura era un lavoro prettamente maschile, ma in caso di necessità, come nel periodo della guerra, anche le donne furono costrette a mietere; anzi, alcune andarono persino a lavorare a giornata. A Faeto ci fu un gruppo di donne che formò addirittura una "paranze". Ne facevano parte: Capozzielli Carmina e Tangi Giuseppina, madre e figlia di Vito Iannelli; Vincenza moglie di Prospero Petitti; Maria Guarnieri, che svolgeva anche il compito di mediatrice. Vi sono state, poi, donne che hanno avuto la nomea di valenti mietitrici. Tra queste: Concetta Campanelli, tutt'ora vivente, moglie di Vincenzo Girardi, che ricorda di aver tolto di mano la falce ad un mietitore avventizio per mostrargli come bisognava mietere; e Gina Spinelli, moglie di Alberto Figliola. Negli anni trenta la paga di un mietitore si aggirava intorno alle 8-9 lire giornaliere; poi, con il passare degli anni, si è avuto un aumento fino ad arrivare, intorno agli anni settanta, prima dell'avvento delle mietitrici e delle mietitrebbia, alle 25.000-30.000 lire. Spesso il lavoro veniva fatto a cottimo, specialmente quando la paranza era ben affiatata e formata da valenti mietitori. A carico del proprietario del fondo era anche il mangiare, compresi 2-3 litri di vino pro-capite, per giornata lavorativa. Prima dello spuntare del sole, ci si trovava già sul posto per iniziare a mietere. Ci si fermava solo per mangiare. La colazione era a base di insalata di pomodori, cipolla, cetrioli e formaggio di capra. A mezzogiorno si pranzava con salsiccia o pezzi di filetto di maiale conservati sotto sugna. Verso le 5 del pomeriggio, a merenda, si consumavano gli avanzi del pranzo e pezzi di formaggio; il tutto era completato da buon vino. A fine giornata ci si recava in casa del proprietario per cenare con maccheroni fatti in casa, fagioli o ceci e cotenna di maiale. In occasione del termine della mietitura si cenava con maccheroni al sugo. Durante tutta la giornata lavorativa non mancava mai il vino, che si beveva direttamente dal barilotto che poteva contenere da 1 a 6 litri, a seconda della sua grandezza. Tale barilotto, ricavato da un tronchetto d'albero di ciliegio, aveva un foro in cui veniva infilata una cannuccia lunga 7-8 centimetri; di lato, inoltre, veniva messo anche uno stelo di grano per facilitare il deflusso del vino. Talvolta il proprietario manometteva lo stelo, in modo che il vino defluisse con difficoltà, cercando così di risparmiarlo. Questo fatto era spesso motivo di dissapori con i mietitori avventizi i quali, non di rado, minacciavano il proprietario di piantarlo in asso e di non mietere più. L'attrezzo del mestiere era la falce. Tutti i mietitori usavano falci dentate a lama stretta. Vi erano diversi tipi di falci che differivano per piccoli particolari. I faetani prediligevano la falce di Pietrelcina che era più grande, con punta lunga e dritta piegata in alto. Il manico era di forma cilindrica e fatto di legno con, alla base, una sporgenza a guisa di dente che serviva per non far scivolare la mano. Per proteggere le dita della mano sinistra da eventuali tagli, tutti i mietitori usavano delle protezioni dette cannìlle é cappùlle. Lò cannìlle erano costituiti da tre pezzi di canna di varia misura e venivano infilati rispettivamente al dito mignolo, anulare e medio; il dito indice veniva protetto da un cappuccio di cuoio cappùlle. Sull'avambraccio destro i mietitori mettevano un manicotto di cuoio morbido detto "bracciulare ó brazzulàre ó gemellàre" la cui funzione era quella di proteggere l'avambraccio dalle spighe che, tagliate, vi sbattevano sopra. Al polso sinistro veniva legato un pezzo di cuoio, al fine di evitare che il polso subisse traumi nell'atto di stringere le spighe. Davanti portavano un grembiule, di cuoio o tela, per proteggere il torace da eventuali

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abrasioni causate dalle spighe. La paranza si disponeva a vun landunne - vun and vunne lungo le strisce del fondo, obliquamente o a scaletta, in modo da evitare che durante la mietitura le falci potessero ferire il mietitore che era accanto. Il primo mietitore, chiamato "andenìje", stava davanti a tutti e iniziava la mietitura dando, nel contempo, il ritmo stesso del lavoro. L'ultimo della paranza era chiamato staccattàue e divideva le strisce da mietere. La striscia che mieteva la paranza era chiamata ande. Normalmente, in una giornata di lavoro, una parànze riusciva a mietere poco più di mezza versura. Il Sig. Antonio Fuccillo mi dice: "Solo in una occasione ricordo che con mio cognato Ninotto, Francesco Melfi e Nicola Ricchetti riuscimmo a mietere una versura di grano sulla Difesa". Generalmente, lu germettattàue ó liànte era una donna, il cui compito era quello di raccogliere i gèrmete e legarli insieme, in modo da formare un covone. Ogni gèrmete era formato da 4-5 mannelli che, a loro volta, erano formate da una trentina di culmi grano; il tutto dipendeva, insomma, dalla grandezza della mano del mietitore. Il legatore raccoglieva 4-5 gèrmete; poi li legava insieme formando così il covone. Il covone veniva messo dritto in modo da esporlo meglio al sole. Da ogni covone il legatore sceglieva i culmi più lunghi per fare lu bàuze; questi metteva le spighe testa a testa, le intrecciava a catenelle in modo da ottenere un legaccio abbastanza lungo e legava a "ginocchio di pecora" il covone successivo. Generalmente, a metà e a fine giornata lavorativa, mietitori e legatori radunavano i covoni in piccoli mucchi, pegnariélle, che venivano lasciati nel terreno in attesa di essere trasportati sull'aia per la trebbiatura. I covoni venivano messi con le spighe all'interno se queste erano mature, in modo da proteggerle da eventuali piogge; se le spighe, invece, erano bagnate o poco mature si rivolgevano all'esterno affinché il sole potesse asciugarle. Lò pegnariélle erano costituiti da 15 - 18 - 20 - 30 covoni. Quello da 15 aveva la disposizione seguente: un covone in senso longitudinale, su questo quattro in senso trasversale con la spiga all'interno, altri quattro in senso longitudinale, poi tre, poi due e infine uno a chiudere i due spioventi. 1. 4. 4. 3. 2. 1 = 15 In quello da 18 la disposizione era: 4.4 3.3 2.2 = 18 In quello da 20 la disposizione era: 4.4 3.3 2.2 1.1 = 20 In quello da 30 la disposizione era: 5.5 4.4 3.3 2.2 1.1 = 30 Lu pegnariélle costituito da 30 covoni era detto pugliese. Mediamente, una versura di terra fruttava dai 30 ai 40 pegnariélle da 30 covoni. Ciascun mietitore riusciva a tagliare giornalmente dai 150-180 covoni corrispondenti a 5-6 pegnariélle da 30 covoni. Fatti lo pegnariélle, essi rimanevano nel terreno parecchi giorni, anche venti, prima che venissero trasportati sull'aia, perché bisognava andare a mietere negli altri fondi; difatti, si iniziava a mietere prima l'avena, poi l'orzo, poi il grano e infine il marzuolo. Guarda le foto

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La mietitura

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TRASPORTO DEI COVONI SULL'AIA Ultimata la mietitura si procedeva al trasporto dei covoni sull'aia prescelta per essere trebbiata. Per il trasporto dei covoni sull'aia venivano utilizzati il mulo, il cavallo, l'asino e spesso anche i buoi. Se i covoni si trovavano nei pressi dell'aia il trasporto avveniva a mano. Per trasportarli si usavano le travàglje, che erano composte da un telaio in legno in cui erano alloggiati, alla distanza di 20-30 centimetri, 5-6 archi di legno, in modo tale da formare un incavo. Esse venivano agganciate ai lati del basto e all'interno di queste venivano messi i covoni. All'interno e sull'arcata del basto venivano sistemati all'incirca 30 covoni, cercando di suddividere il peso da una parte all'altra, per evitare che il basto pendesse; in tal caso bisognava aggiungere dall'altra parte un contrappeso per equilibrare il peso. Per evitare che gli animali potessero mangiare dai covoni, si applicava sul loro muso una specie di museruola fatta di filo di ferro o con corda intrecciata. Il numero di viaggi che si potevano effettuare in una giornata dipendeva dalla distanza del fondo dall'aia e dalla strada da percorrere. Se l'aia non era molto distante e il tragitto era pianeggiante, si usavano le tregge, o slitte, su cui si caricavano i covoni. Tali tregge, trainate soprattutto da buoi, erano costituite da due assi di legno, nelle quali venivano infisse verticalmente delle pertiche, in modo da reggere il carico. Se queste tregge erano munite di due ruote ricavate da tronchi d'albero venivano chiamate ciarréje. Terminato il trasporto dei covoni sull'aia, bisognava ammucchiarli con la spiga all'interno, in modo da proteggerli dalla pioggia, dal sole e dagli uccelli. Per tale sistemazione, si faceva la bica, che poteva avere la forma circolare, quadrata o rettangolare con due spioventi. A volte, il contadino non riusciva a chiudere la bica per insufficienza di covoni, in quanto aveva iniziato su una superficie troppo ampia; perciò, si faceva prestare i covoni sufficienti per la chiusura. Se la bica non veniva chiusa e se pioveva, l'acqua filtrava all'interno, bagnando i covoni. Guarda le foto

Il trasporto dei covoni

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TREBBIATURA

Ultimato il trasporto dei covoni e fatta la bica, il contadino preparava lo spiazzo per la trebbiatura. Esso era scelto sempre nelle vicinanze del fabbricato di campagna; chi non lo possedeva, preparava l'aia in aperta campagna, scegliendo un posto ben ventilato; poi preparava un pagliaio con lo scopo di ripararsi dalle intemperie e trascorrervi la notte, in modo da sorvegliare il grano. Le aie più usate erano quelle di Padula Antonucci, nel latifondo degli Antinozzi e quella a ridosso di Faeto in località Riàle. Poteva capitare che più contadini usassero la stessa aia; in questo caso, la precedenza a trebbiare era di colui che aveva trasportato per primo i covoni. Di solito l'aia veniva impegnata mettendo al centro della stessa un covone sul quale era poggiato un sasso. L'aia aveva forma circolare per consentire agli animali impiegati per la trebbiatura, di potervi girare intorno, calpestando con gli zoccoli i covoni o trainando una pietra o un aggeggio rettangolare. Quest'ultimo strumento, formato da 4 pezzi di legno, chiuso all'estremità inferiore da una lamiera bucherellata per facilitare la fuoriuscita del chicco di grano dalla spiga e tranciare lo stelo, era chiamato trebbio. Le aie avevano un diametro variabile dai 6 ai 12 metri. Esse venivano preparate adeguatamente; infatti, si spianava il terreno, si tagliava l'erba con la falce e talvolta si passava il trebbio per sminuzzare l'erba. Tolta l'erba, bisognava rassodare il terreno: una persona versava dell'acqua, un'altra spargeva la pula per riempire eventuali buchi e una terza batteva con un maglio di legno il terreno nel punto in cui era soffice o sollevato dalle talpe. L'intera superficie dell'aia, asciutta, veniva pulita con una scopa fatta con rami di ginestra. Durante il periodo della trebbiatura l'aia era tenuta sotto costante controllo per non far aprire il terreno; in questo caso bisognava intervenire subito, versando acqua nelle zone in cui i raggi solari avevano formato spaccature. La quantità di covoni da sistemare sull'aia per la trebbiatura teneva presente i seguenti parametri:

� ampiezza dell'aia � numero di animali utilizzati per la trebbiatura � validità degli stessi

Una trebbiatura normale era composta da 10 pegnarielle da 30 covoni. Una persona saliva sulla bica e lanciava con un forcone i covoni nell'aia dove venivano sfilati e disposti in centri concentrici. La prima fila di covoni aveva la spiga rivolta verso l'interno, gli altri erano messi in maniera opposta, cioè con le spighe verso l'esterno. La disposizione della prima fila serviva per non far schizzare fuori dalla superficie dell'aia i chicchi di grano. I covoni venivano sistemati in cerchi concentrici sempre di diametro inferiore fino a chiudere la trebbiatura arrivando al centro dell'aia. Fatto ciò, si iniziava a far girare intorno all'aia gli animali, in genere a coppia, legati l'uno accanto all'altro, per far slegare le legature dei covoni. Il contadino dirigeva questo girotondo restando al centro dell'aia, tenendo in una mano le redini degli animali e nell'altra una frusta di cuoio che, sovente, faceva schioccare per incitare gli animali a girare. Dopo circa mezz'ora di girotondo, una volta abbassato il livello delle glume, bisognava rivoltare la pesatura; subito dopo ricominciava il girotondo degli animali, che trainavano una pietra scolpita per frantumare le spighe. In seguito, la pietra fu sostituita dal trebbio in lamiera, una specie di treggia con pattini a forma trapezoidale, sulla cui base era sistemata una lastra di lamina forata. Per aumentarne l'attrito, veniva appesantito con pietre oppure vi si facevano sedere sopra i bambini.

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Il pranzo tipico della trebbiatura era la "ciampòtte": peperoni, cipolla, patate e salsiccia. Dopo si riprendeva il girotondo; infine, quando la pesatura era fatta, si preparava "lu puórte", posto dell'aia in cui ammucchiare la paglia, e quindi si iniziava a ventilare affidandosi alla bontà di Eolo. Per la ventilazione, 4-5 persone si disponevano l'una accanto all'altra e con le forche lanciavano in aria la paglia, che veniva separata dal grano dalla forza del vento. Un'altra persona era adibita al rastrellamento della paglia sull'aia e all'accantonamento della stessa nel luogo prescelto. Eliminata la paglia grossa, rimanevano i residui della spiga. Si ammucchiava il grano al centro dell'aia con dei rastrelli di legno e con le scope di ginestra. A questo punto, con delle forche di legno a 4-5 rebbi, si ventilava il grano. Esso veniva lanciato in alto, in modo da separarlo dalle impurità. Dopo questa operazione, il grano veniva ancora ventilato più volte con la pala di legno, ricavata da un unico pezzo. La parte anteriore della pala aveva una forma concava per contenere più grano possibile; questo veniva lanciato in aria a forma di semicerchio, in modo da separare i chicchi buoni da quelli più scarti e dai semi delle erbe; con tale azione si formava un vortice che portava via la pula residua. Per effettuare questa operazione, i contadini venivano avvolti in una nuvola di polvere; per questo erano soliti coprirsi il capo con dei grossi fazzoletti. Poi si procedeva a crivellare il grano con un grosso crivello: consisteva in un telaio circolare di legno avente un diametro variabile dai 50 ai 150 centimetri e uno spessore di 10 -15 centimetri. Il fondo era costituito da una lamiera bucherellata. Il crivello era molto grande e poteva contenere diversi chilogrammi di grano, ma non era molto maneggevole; veniva quindi appeso a delle aste disposte a guisa di triangolo, oppure sostenuto da un rebbio della forca piantata nel terreno o infilata in uno scarpone per non rovinare la compattezza dell'aia. Dopo tale operazione il grano veniva riposto nei sacchi ed era così pronto per il trasporto. Ogni trebbiatura fruttava dai 4-6 sacchi di grano, il cui peso variava dai 120 -140 chilogrammi, a seconda della qualità del grano stesso. A quei tempi i terreni non erano trattati né con concimi tantomeno con anticrittogamici, per cui da una versura di terra si riusciva a fare 30-35 tomoli di grano; ogni tomolo pesava, a seconda della qualità del grano, dai 40-50 chilogrammi; quindi, per ogni versura si ricavavano dai 12 ai 15 quintali di grano. I contadini, per la maggior parte non proprietari dei fondi che conducevano, dovevano corrispondere al proprietario l'estaglio che variava da 8 a 15 tomoli a versura; l'estaglio dipendeva dalla qualità e dall'ubicazione del terreno. I più grandi proprietari terrieri di Faeto, a quell'epoca, erano il marchese Maresca a San Vito, i Freda e gli Andinozzi a Vetruscelli. Molti anziani ricordano ancora l'andirivieni dei faetani che portavano l'estaglio; sembrava una processione. Sempre il sig. Fuccillo ricorda: "Alla masseria degli Andinozzi venne un fattore che si chiamava Michele di Lascia. Era di Castelfranco. Costui era una persona malvagia, aveva fatto una tramoggia alta tra un metro e un metro e mezzo e la posizionò in un luogo ben ventilato; quando i contadini portavano l'estaglio, per misurare la quantità lo faceva passare in questo aggeggio e il grano veniva ventilato e di tanto in tanto batteva la mezzetta con i piedi per far comprimere meglio il grano all'interno; in questo modo riusciva ad estorcere da ogni persona una due misure di grano in più. Poi se lo portava a casa sua, servendosi anche di alcuni faetani proprietari di bestie. Era proprio una persona molto malvagia. Lavora e lavora, alla fine rincasavi con la forca sulle spalle". Il grano raccolto veniva trasportato in casa e conservato in cassoni o in grossi sacchi detti balle del diametro di circa 120-150 centimetri.

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I cassonetti, specie quelli di grosse dimensioni, in più scomparti avevano delle finestrelle che si aprivano all'interno, in modo da evitare il pericolo che, inavvertitamente, si potessero aprire facendo fuoriuscire il grano. Nella parte inferiore, erano provvisti di piccole aperture "a saliscendi"; esse servivano per prendere, al bisogno, il quantitativo di grano necessario. Questo accadeva fino agli inizi degli anni settanta, quando arrivò la "tecnologia". Ma questa è un'altra storia.

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FIENAGIONE

I contadini, oltre a provvedere al fabbisogno umano, dovevano provvedere anche alla raccolta e deposito di fieno per gli animali, sia per quelli da soma che da stalla. Anche nei tempi passati si faceva la rotazione delle colture: dopo una coltura cerealicola, si avvicendava una coltura leguminosa o si lasciava incolto il terreno, adibendolo alla raccolta del fieno per l'alimentazione animale. Gli antichi contadini dicevano che, così facendo, il terreno riposava e faceva sfogare tutte le erbe. Il fieno veniva anche seminato, l'erba che andava per la maggiore era la lupinella e la veccia. Il taglio del fieno avveniva nel mese di maggio-giugno, quando l'erba era diventata dura, ma non aveva ancora contaminato il terreno con i suoi semi. L'attrezzo usato era la falce fienaia, formata da una grossa lama arcuata di ferro, fissata ad un manico di legno avente una impugnatura. La lama, larga alla base 10-15 centimetri, terminava a punta, aveva una lunghezza variabile da 60-90 centimetri; il bordo chiamato cutètte era alto alcuni centimetri. All'estremità della parte larga della lama aveva uno spessore di 6-7 centimetri che per mezzo di una ghiera di ferro e di un cuneo di legno si fissava al manico. Per adoperare tale attrezzo servivano abilità e forti braccia. Quando si falciava, il contadino seguiva sempre l'andamento dell'erba in modo da fare il minor sforzo possibile. La striscia di terra che riusciva a portare avanti era all'incirca di un metro. Se a falciare erano più persone si procedeva a scaletta in modo da evitare il pericolo di ferirsi con la falce. La falce fienaia doveva essere sempre affilata, dice il sig. Fuccillo "doveva essere come un rasoio", per cui ogni qualvolta lo richiedeva, bisognava affilarla. Il falciatore portava nella tasca posteriore dei pantaloni la cóte piéra muliére che adoperava all'occorrenza. Spesso capitava che, mentre si falciava, la lama batteva su qualche pietra, per cui si formavano dei denti o delle ammaccature sulla lama; bisognava, quindi, ripristinare il filo con un martello e una piccola incudine che veniva fissata o per terra o su un tronco d'albero e si procedeva a rifare il filo alla lama. Ricorda il sig. Fuccillo "c'erano dei falciatori che portavano la piéra muliére dentro un corno di bue o dentro una zucca essiccata che legavano ai pantaloni. All'interno di questi aggeggi mettevano un poco d'acqua per diminuire l'attrito all'atto della molatura della falce fienaia". Quando il fieno era seccato nella parte superiore, si provvedeva al ribaltamento dei filari per agevolare l'essiccamento anche alla parte sottostante. Dopo l'essiccamento, si procedeva al trasporto del fieno nei pressi della masseria dove veniva accatastato in cumuli a forma di cono chiamati fienili. Per il trasporto con gli animali lo si legava in fasci; se il tragitto non era troppo lungo si adoperava una slitta trainata da muli o buoi. Il fieno veniva disteso e disposto intorno ad un lungo palo conficcato nel terreno; tutt'intorno, il fieno veniva intrecciato. Si costruiva, così, un mucchio a forma di cono, rendendolo impermeabile all'acqua. Per prendere, all'occorrenza, la quantità che serviva per il governo degli animali il contadino usava la sega tagliafieno; questa era formata da una vecchia falce fienaia o da una rudimentale lama dentata e fornita di un manico di legno. Guarda le foto

La fienagione

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MAGGESE

Il maggese era il terreno lasciato incolto, così esso poteva riacquistare tutte quelle sostanze utili per la crescita delle piante. Il termine maggese deriva dalla dea Maja, madre di Mercurio, a cui si sacrificava il maiale nel mese di Maggio. Nella cultura contadina faetana, però, il maggese era la terra non coltivata a cereali; vi si seminavano, invece, legumi come fagioli, ceci, fave, cicerchie, lupini, tutte piante che hanno la capacità di fissare l'azoto per mezzo delle foglie; erano, quindi, colture da rinnovo. Il maggese era considerato nella tradizione faetana come l'orticello di casa, in cui si seminava tutta una serie di piante, i cui frutti servivano da sostentamento alla famiglia. FAVE Prediligono terra calcarea, argillosa, fresca. Si hanno due qualità : una per alimentazione umana e in questo caso le fave vengono piantate in solco; l'altra, utilizzata per l'alimentazione animale, viene seminata. Quelle piantate per l'uomo, quando raggiungono l'altezza di 10 centimetri, si rincalzano con la zappa, in modo da apportare loro terra fresca e quindi sostanze nutritive . Giunte a maturazione, vengono tagliate e lasciate essiccare nel campo; poi, si battono con un bastone. Spesso le fave sono attaccate dai pidocchi quando sono ancora verdi; quelle secche, se lasciate molto tempo, in luogo umido, favoriscono la nascita di vermiglioni. Durante l'inverno, era facile vedere nelle cantine giocatori che tra un bicchiere di vino e l'altro rosicchiavano fave abbrustolite. CECE E' una pianta resistente e, di solito, si pianta nell'orto. La raccolta avviene in Luglio. Le piantine vengono sradicate e raccolte in piccoli mazzi. Una volta essiccati sulla pianta, i baccelli possono essere battuti con un bastone insieme ai rametti oppure estirpati dalle piantine e poi battuti. FAGIOLO Solitamente venivano piantati accanto al granturco. Si raccoglievano al mattino presto quando c'era la rugiada, al fine di evitare lo scoppio del baccello. Erano considerati la carne dei poveri. I terreni migliori per la coltivazione dei fagioli era la contrada di Vetruscelli. CICERCHIA Richiedevano i terreni peggiori, la loro coltivazione era limitatissima. La semina avveniva a spaglio, non richiedevano cura particolare. Si falciavano con la falce fienaia e la loro raccolta era molto difficoltosa in quanto si avviluppavano tra di loro. Erano utilizzate per ricavarne "farina da biada" per gli animali. PATATA Ha rivestito una notevole importanza nell'economia contadina faetana. Sono piante da rinnovo e hanno la peculiarità di lasciare il terreno nelle migliori condizioni per la coltivazione dei cereali. Sulla "Difesa" si faceva coltura su vasta scala di patate, tanto che sul finire degli anni sessanta fu costituita una cooperativa di agricoltori per la loro coltivazione e commercializzazione, ma non ebbe grande fortuna. A gennaio già si preparava il terreno con aratura profonda, si concimava spargendo del letame e a fine febbraio, inizio marzo, si procedeva alla messa a dimora. Si piantavano patate di tutte le grandezze, quelle troppo grandi si tagliavano in più pezzi per risparmiare.

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Venivano rincalzate con la zappa quando la quantità di terra era in misura sufficiente, altrimenti per il rincalzo si usava l'aratro di legno a doppia aletta. Si arava in mezzo a due solchi in modo che veniva rincalzato sia il solco di destra sia quello di sinistra. Prima della fioritura, che avveniva a maggio, si trattavano con solfato di rame per combattere la peronospera. La raccolta avveniva in settembre, quando il contadino aveva finito tutti gli altri lavori. Per il dissotterramento si usava la zappa, ma spesso i tuberi venivano intaccati, in quanto non si sapeva dove fossero esattamente nella terra, perciò si passò ad usare l'aratro di legno ad una aletta; si usava anche un aratro con le alette bucate, in modo tale che la terra passasse tra i fori dell'aratro e le patate venissero scaraventate a lato; ma c'era un inconveniente costituito dal fatto che le patate più piccole venivano perse; ciò fece abbandonare l'uso di tale strumento. GRANTURCO Il granturco era il re del maggese. La sua coltivazione era intensiva. Mio padre ricorda che un anno coltivò a granturco più di 12 tomoli di terra (cioè 3 versure) in contrada Campe li Fave, nella tenuta degli Andinozzi. Quando era il momento di piantare il granturco, si aprivano i solchi, con l'accorgimento di iniziare dalla parte superiore del campo così che il solco già tracciato non veniva coperto dall'apertura del successivo. La messa a dimora avveniva utilizzando il cavicchio che simboleggiava il fallo, nell'atto della fecondazione. Era un oggetto che, nei tempi passati, il fidanzato realizzava con le proprie mani per regalarlo, poi, alla fidanzata, dimostrandole così tutta la sua abilità. Chi solcava la terra era di solito l'uomo; chi invece provvedeva a conficcare nel solco il seme era generalmente la donna. I semi di granturco erano piantati a una distanza di 15-20 centimetri e venivano alternati ai fagioli. Nel museo etnografico sono conservati dei cavicchi che sono vere e proprie opere d'arte, intrise di poesia e di romanticismo. Vi è un cavicchio su cui l'artefice ha ritenuto opportuno sistemare su un lato uno specchio e sull'altro una cornice intarsiata, in cui applicare una fotografia. Quando il granturco aveva 3-4 foglioline, i contadini procedevano ad un primo rincalzo, effettuato sia con la zappa sia con l'aratro di legno. Un secondo rincalzo avveniva quando il granturco era un poco più grande. La raccolta avveniva nel mese di settembre; le pannocchie si tagliavano con la falce e si raggruppavano in piccoli mucchi, che poi venivano raccolti formandone altri più grandi. La scartocciatura della pannocchia poteva avvenire direttamente nel campo, altrimenti si tagliavano le pannocchie dallo stelo e si trasportavano sull'aia. Per la scartocciatura si usava un particolare attrezzo, lu pezzùche, che generalmente veniva ricavato dalle corna del capro; si usavano anche rametti di legno di corniolo o di rovo appuntiti o, addirittura, un grosso chiodo. Per un periodo di circa quattordici giorni, nelle umide serate di ottobre e dopo cena, le famiglie al completo si davano appuntamento sull'aia ove si sedevano attorno ai mucchi di granturco per la sfogliatura a mano. Questo lavoro non retribuito era un diversivo dopo le fatiche del giorno: si parlava di tutto, si rideva, si scherzava. Per i bambini era un modo per giocare a nascondino e a rincorrersi; i più piccoli dormivano avvolti in una coperta vicino ai genitori che avevano sempre lo sguardo vigile e che ogni tanto scandivano il nome dei più grandicelli, per non farli allontanare troppo. A tarda sera si salutavano tutti e si ritiravano per il meritato riposo. Il mattino seguente le pannocchie venivano sparse sull'aia ed essiccate al sole. Durante la scartocciatura, al fine di distinguere le pannocchie con i semi più grandi vi si lasciavano delle foglie; queste pannocchie sarebbero servite come seme per l'anno successivo.

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Quando le pannocchie erano mature al punto giusto si procedeva alla loro battitura che avveniva con un attrezzo molto particolare, il correggiato. Era formato da due mazze di legno di lunghezza, spessore e qualità di legno diversi (in alcune zone sono chiamati il corto e il lungo) legate insieme da una striscia di cuoio. La mazza più lunga e sottile, detta manfano o manfanile era di legno leggero quale il faggio o il frassino, quella più corta e spessa, detta vetta, doveva essere di legno duro quale il cerro e la quercia. Occorreva procedere con una certa dimestichezza nel maneggiare questo attrezzo per non rimanere colpiti o colpire gli altri con la vetta che faceva un giro circolare nell'aria. Colui che usava il manfanile doveva essere molto abile perché doveva mantenere un ritmo costante, evitare di far incrociare le vette, dato che si lavorava a coppia uno di fronte all'altro, e imprimere la giusta spinta per far cadere la vetta orizzontalmente, in modo da colpire il maggior numero di pannocchie. Molti giovani, per farsi notare dalle ragazze, prestavano la loro opera gratuitamente e ingaggiavano delle vere e proprie sfide. Con il passare degli anni, il correggiato fu sostituito da un mezzo meccanico che sgranava il mais. Le pannocchie erano messe in una tramoggia; per mezzo di una manovella, azionata a mano, si facevano girare gli ingranaggi interni che sgranavano le pannocchie; i semi fuoriuscivano dalla parte anteriore del mezzo, mentre, dalla parte posteriore, venivano scartati i tutoli, che servivano ad accendere il fuoco o erano utilizzati come turaccioli di bottiglie. Anche le foglie non venivano buttate; al contrario, erano usate per formare una specie di materasso saccùnne da mettere sotto quello di lana al fine di rendere il letto più soffice e attenuare l'umidità che risaliva dal pavimento. Spesso capitava che molte persone offrivano la loro manodopera per la scartocciatura delle pannocchie, in cambio delle foglie. Guarda le foto

Il maggese

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