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mo tecniche Laura Tommaseo Ponzetta Quaderno n° 2 Narentani e Almissani: pirati dalmati nel “Golfo di Venezia” Fondazione Scientifico Culturale Maria e Eugenio Dario Rustia Traine Trieste, dicembre 2017 Fortilizio sul Narenta

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motecniche

Laura Tommaseo Ponzetta

Quaderno n° 2

Narentani e Almissani: pirati dalmati nel “Golfo di Venezia”

Fondazione Scientifico Culturale Maria e Eugenio Dario Rustia TraineTrieste, dicembre 2017

Fortilizio sul Narenta

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RIPARTE LA PUBBLICAZIONE DEI QUADERNI DELLA FONDAZIONE RUSTIA TRAINE: UNO SGUARDO APPROFONDITO SULLA STORIA DELLA DALMAZIA Dopo il successo del Quaderno pubblicato sulla Mostra La Dalmazia da Roma e Venezia all’Italia unita che costituisce il n. 71, dicembre 2011 de Il Dalmata, consultabile nel sito www.dalmaziaeu.it, News e Il Dalmata, avevamo programmato un’altra serie di quaderni da pubblicare come numero monotematico de Il Dalmata libero. Il precedente aveva riscosso un inatteso successo ed abbiamo dovuto stampare altre copie perché ci erano state richieste da istituzioni cul-turali, biblioteche, scuole, università italiane e straniere da usare come testi per gli studenti che frequentano i corsi sulla storia della Dalmazia tenuti in tutta Europa.La cronica mancanza di fondi che assilla tutte le organizzazioni cultu-rali, ha riguardato anche noi, ma ora speriamo, anche con l’aiuto dei lettori, di poter pubblicare a breve un altro Quaderno, sempre di argo-mento dalmatico. Riprendiamo adesso con questo Quaderno n. 2 che riguarda un tema specifico della storia della Dalmazia e cioè la pirateria dal IX al XV secolo che era stato poco esplorato, per cui era opportuna la pubbli-cazione del testo della nostra ricercatrice Laura Tommaseo Ponzetta. Abbiamo accantonato qualche centinaia di copie per l’eventualità che qualcuno ce le richieda e che la Fondazione Rustia Traine sarà pronta a spedire a titolo gratuito. Buona lettura.

Dir

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INDICE

PREFAZIONE di Renzo de’Vidovich .......................................................................4

Narentani e Almisani: pirati nel “Golfo di Venezia” ..........................9

APPENDICE: Glossario delle imbarcazioni e navi nel tempo trattato ...............26

BIBLIOGRAFIA ..................................................................................................................................27

Spalato, Salona e Clissa nel 1650

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PREFAZIONE

La storia della pirateria in Dalmazia si divide in tre periodi: quello protostori-co e antico al quale pose fine il primato romano nell’Adriatico, quello medievale che la Tommaseo analizza nel lasso di tempo tra l’VIII ed il XV secolo e quello dell’era moderna che cessò con l’accordo tra Venezia e la Casa d’Austria nel 1700.

Queste poche righe svolgono la funzione di fornire al lettore qualche notizia sui periodi di tempo che collegano i fatti che precedono lo studio che pubblichia-mo e l’epoca successiva.

La pirateria antica e quella moderna sono state esplorate da vari storici, men-tre quella medievale presenta tuttora molti lati oscuri e carenza di notizie. Di qui la necessità della presente pubblicazione per sanare carenze storiche non più tollerabili.

Va sottolineato con chiarezza un dato geografico, rappresentato dalla frastagliatis-sima costa della Dalmazia con quasi un migliaio di isole tra piccole, medie e grandi ed un numero imprecisabile di porti, mandracchi e approdi di ogni tipo che costitui-scono un habitat naturale eccezionalmente favorevole alla pratica della pirateria.

I pirati sono segnalati in tutto il Mediterraneo, non ancora Mare nostrum, fin dalla notte dei tempi e annoverano, tra le vittime di abbordaggi proditori a navi di ogni tipo e tonnellaggio, personalità di grande rilievo e di alto lignaggio. Il caso più famoso riguarda il giovane Caio Giulio Cesare che nel 74 a.C. fu catturato nel

Almissa (Omis) e il castello di Mirabella

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Dodecaneso e che promise al capo dei pira-ti (Svetonio e Plutarco li definiscono Cilici e non Illiri) che li avrebbe collocati in un posto molto alto. Furono, infatti, crocifissi sugli alberi più alto delle navi.

Tornando all’Adriatico orientale, va sot-tolineato che gli accordi stipulati tra Roma e Demetrio di Faro furono ripetutamente violati da aggressioni piratesche ai danni delle navi di Roma e dei suoi alleati e la

Città Eterna interpretò questi fatti come provocazioni del grande condottiero au-toproclamatosi Re dalmata, rifiutando le sue giustificazioni basate sul fatto che i sudditi ignoravano i suoi ordini, perché consideravano la pirateria, tramandata da secoli da padre in figlio, come un diritto acquisito che nessun capo poteva sottrar loro. Probabilmente, le giustificazioni di Demetrio non furono prive di verità, ma non fu creduto.

Le tre guerre illiriche (229-228 a.C.; 220-219 a.C; 171-169 a.C.) sono seguite da numerose guerre dalmatiche fino al 12 a.C.1, spesso provocate dal fatto che l’antica Roma non tollerava i continui atti di pirateria che rendevano insicura la navigazione non solo nell’attuale Dalmazia, ma in tutto il bacino settentrionale del Mare adriatico. La regina Teuta2, lasciò al suo “compagno” come si direbbe oggi, Demetrio di Faro, la gestione della parte marittima del suo regno, anche perché possedeva una flotta di tutto rispetto ed era considerato il primo re illirico della costa orientale dell’Adriatico, cioè la striscia di terra che parte dalle Alpi Dinariche e Bebbie e finisce nel mare, isole comprese.

Dopo la Pax romana imposta alla fine dei sanguinosi conflitti (nel 34 a.C. a Setovia - odierna Signa nell’entroterra spalatino - tra i feriti si annoverò financo il futuro Imperatore Cesare Ottaviano!), la pirateria nell’Adriatico fu stronca-ta completamente per lungo tempo. L’Imperatore Cesare Ottaviano Augusto ha consegnato al Senato nel 27 a.C. la gran parte dell’Illiria, chiamando “Dalmazia”

1 Cfr. Daria Garbin, Salona negli scavi di Francesco Carrara, Centro Ricerche culturali Dalmate – Spa-lato, Trieste, 2007, pp. 150-153.

2 Ultima grande regina degli Illiri del continente e del mare.

Sagittae di Almissa

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il territorio tra la Drina e la Sava, che comprendeva anche la costa orientale dell’I-stria, con le città illiriche di Fianona e di Albona3.

Solo dopo la fine dell’Impero romano d’Occidente che non ha luogo – contra-riamente a quanto scrivono i nostri testi scolastici – con la cacciata da Ravenna di Imperatore bambino Romolo soprannominato Augustolo da parte di Odoacre, Re degli Eruli il 4 settembre 476, perché l’Imperatore Giulio Nepote, Re di Dalmazia, continuò a regnare ancora per quasi quattro anni ed a rintuzzare le aggressioni dei barbari dal palazzo di Diocleziano, che occupa il centro dell’odierna Spalato,.

Solo il 9 maggio 480 con l’assassinio di Giulio Nepote cessò di esistere l’Im-pero romano d’Occidente, terminò l’Evo antico e iniziò il Medioevo. Ricomparirà poco dopo la pirateria in forma sporadica ed artigianale, ma già allora protetta da vari signorotti che si contendevano la parte continentale della Penisola balcanica.

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Lo studio dell’Autrice di questo Quaderno prende in esame il fenomeno della pirateria nella Dalmazia centro meridionale quando, cioè, esistono fonti storiche che ne parlano in termini oggettivi e scientificamente accettabili. Il periodo tra l’VIII ed il XV secolo è poco studiato. Sono rari gli storici del tempo e quelli più recenti che hanno indagato sul fenomeno della pirateria in Dalmazia, sia intesa come un insieme di fatti sporadici e limitati, che sotto l’aspetto delle strutture organizzative e dei rapporti politici. La Tommaseo analizza anche i rapporti di collaborazione e di scontro tra i pirati e la nascente nobiltà che stava nel frattem-po consolidandosi nella Dalmazia continentale, che punta per la prima volta sulla pirateria per taglieggiare le fiorenti economie delle città della costa che avevano respinto le invasioni degli Avari, con al seguito alcune tribù slave. Queste città continuavano ad avere rapporti non solo commerciali, ma anche culturali e lin-guistici con le complesse realtà politiche dei regni e delle nascenti città-stato che, andavano a formarsi in tutta la Penisola italiana. In primis Venezia e Ancona.

Su questo periodo, il saggio che pubblichiamo, costituisce un interessante tas-sello per gettare una luce di verità su un periodo storico della Dalmazia maritti-ma, oscuro e contrastato. Numerosi e precisi sono i riferimenti storici, preziosi per gli studiosi dell’argomento ed indispensabili per i curiosi della storia, che

3 Le città illiriche nella versione in lingua latina terminano in -ona, come i tre distretti giurisdizionali di Salona, Narona e Scardona e altre città come Valona, Verona (per chi ritiene i Veneti di origine illirica), Emona, Promona, Sidrona, Aenona, Sulmona, Ortona, ecc..

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riescono così ad avere punti di riferimento di tutto rispetto per comprendere la complessa storia dell’Adriatico orientale del tempo.

Lo studio parte dall’840 e finisce con il 1444, con la fine della pirateria narentana. Poco dopo riappariranno più a settentrione altri pirati, tra i quali i più noti saranno gli uscocchi che si scontreranno con la Serenissima Repubblica di Venezia e le altre città dalmate di cultura latina. Gli Uscocchi cesseranno di esistere quando il Sacro romano Impero (detto impropriamente della Nazione germanica) firmerà il Trattato di Passarowitz nel 1718 e la Casa d’Austria deporterà gli Uscocchi in territori conti-nentali lontani dal mare. Spariranno dalla storia.

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Ma chi è l’Autrice di questo studio? Si tratta della prof.ssa Laura Tommaseo de’Ponzetta, sposata con Giovanni Paglia, fratello di Francesco Paglia, ultimo Caduto nei Moti del 5-6 novembre 1953. Giovanni e Laura hanno perpetuato il ricordo di Francesco Paglia, imponendo al figlio il nome del Martire, che guidò gli studenti universitari mentre spettò a me il gravoso compito di guidare i più numerosi ed organizzati studenti medi.

La ricercatrice è molto discreta ed attenta a non approfittare del nome del grande Niccolò Tommaseo, di cui è peraltro degna discendente, né del Sacrificio di Francesco Paglia che pur ha inciso sulla sua consapevolezza di Patriota.

A chi legge, anche con senso critico il suo lavoro, salta immediatamente agli occhi la prosa essenziale, quasi scheletrica, con cui la Tommaseo descrive con grande efficacia i fatti rigorosamente supportati da fonti ineccepibili, scelte con grande rigore ed assoluta indipendenza di giudizio, inquadrando ogni fatto nel suo contesto storico, forte della sua severa conoscenza della storia della Dalmazia e non solo.

C’è da sperare che questo sia solo il primo di tanti altri studi.

Il Presidente della Fondazione Rustia Traine

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PREMESSA

I Narentani, popolazione di origine incerta, probabilmente Slavi pressati da-gli Avari (per alcuni addirittura Vichinghi discesi dal mare del nord), giunsero nell’Adriatico centro meridionale nel VII sec; qui esercitarono la pirateria, pres-soché unica fonte dei loro profitti, avendo come basi principali il delta del Narenta (Neretva)4, e l’estuario del Cetina, dove a testimonianza del loro dominio vessato-rio rimangono tutt’oggi roccaforti a picco sul mare, come il cosiddetto “castello” di Mirabella a guardia di Almissa (Omiš), ultima a cedere alle forze veneziane nel 1444.

Dei Narentani non si trova più traccia nelle cronache dal momento in cui (fine del sec. XIII) vi subentrano le scorrerie degli “Almissani”: questi (tra i quali si annoverano anche “gli espulsi da altri paesi”5) si possono quindi considerare i loro eredi diretti, essendo riusciti a rinnovare la propria audacia una volta messisi al servizio dei potentati croati dell’entroterra.

4 Il fiume di Mostar, che sfocia a sud di Porto Tavoler-Ploče e di Neum, cittadina di Dalmazia apparte-nente alla Repubblica di Bosnia ed Erzegovina.

5 Cfr. Giovanni Lucio (1604-1679), Storia del Regno di Dalmazia e di Croazia, IV, cap. XI, p. 475.

Sagena del Narenta

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Narentani e Almissani: pirati nel “Golfo di Venezia”

I Narentani furono defi niti pagani dall’imperatore Costantino VII, detto Porfi rogenito, vissuto nella prima metà del X sec., in un tempo in cui, grazie all’e-vangelizzazione di Cirillo e Metodio nel corso del secolo precedente, gran parte dei territori abitati da Slavi era già divenuto cristiano; e poi Andrea Dandolo6 nella sua “Chronica brevis”, redatta al tempo del suo dogato, dunque tra il 1343 e il 1354, li considerava “sclaves, adhuc gentiles, quia a Gothis originem duxerant et continuo pyraticam exercebant artem” (slavi, ancora pagani, dato che erano discendenti dai Goti e praticavano da sempre la pirateria).

Pagani dunque in un’enclave prevalentemente cristiana, “Pagania” fu chiamato dapprima il territorio a loro soggetto, che nel IX sec., quando cioè raggiunsero l’apice della loro potenza, comprendeva un ampio tratto di costa, montuosa e arida, e le isole

6 Nato il 30 aprile 1306, morto il 7 settembre 1354, al culmine della guerra contro Genova; uomo dai molteplici interessi, ebbe rapporti epistolari anche con Petrarca che perorò la pace tra i due contendenti.

Pagania del IX secolo

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di Solta, Brazza (Brač), Lesina (Hvar), Meleda (Mljet), Lissa (Vis), Curzola (Korčula), Lagosta Lastovo) che, disposte frontalmente, offrivano facili e numerosi ripari.

La debolezza politica di Costantinopoli, sotto la cui giurisdizione quelle terre ricadevano, lasciò inizialmente un vuoto di potere e di controlli che permetteva ai Narentani di organizzare scorrerie in ogni dove in Adriatico ma anche di matura-re fin dai primi decenni del IX sec. una struttura politica tale da consentire loro d’inviare ambasciatori a San Marco per difendere i propri interessi. La guida di un dux poi rex, acclamato tra i rappresentanti dei gruppi famigliari più autorevoli, garantì la compattezza sociale e politica fino a tutto il XII sec., quando la politica di dominio delle famiglie croate, feudatarie della corona ungherese, intervenne a disgregare il “principato”.

Inevitabile fu lo scontro con le mire espansionistiche e commerciali di Venezia: assalti alle navi mercantili con i conseguenti sequestri di carichi, saccheggi e de-vastazioni ai danni delle popolazioni costiere costrinsero Venezia non solo ad impegnarsi in frequenti conflitti, seguiti da trattati di pace subito disattesi, ma addirittura a piegarsi al pagamento di tributi pur di ottenere garanzie di libera circolazione alle proprie galere.

Uno di questi tentativi di accordo costò caro al doge Giovanni Partecipazio7 il quale nell’830 circa stipulò con un delegato dei Narentani un trattato di pace che si rivelò di breve durata (licet minime perdurasset, dice Giovanni Diacono): quando, infatti, dei mercanti veneziani di ritorno da Benevento furono intercetta-ti, catturati e quasi tutti uccisi dai pirati, i nobili veneziani, insofferenti della con-dotta politica dei Partecipazi, giudicata troppo debole, tesero un agguato al doge una sera dell’836 all’uscita della cattedrale di San Pietro Olivolo, lo arrestarono e lo costrinsero a consacrarsi chierico a Grado, dove poco dopo morì.

Il successore, il doge Pietro Tradonico8, ottenuta la carica di Spatario9, or-ganizzò col favore di Bisanzio una spedizione di 60 navi contro i Saraceni di Taranto che infestavano l’Adriatico meridionale e che contribuivano non poco a compromettere i profitti mercantili veneziani rendendo aleatorie le rotte adria-tiche; l’impresa si rivelò un tragico e totale insuccesso (837) anche perché mise a nudo l’inadeguatezza militare dei Veneziani, tanto da convincere i Saraceni a spingersi fino alle porte di Venezia razziando e incendiando e da sollecitare i Narentani ad approfittare della debolezza dei loro avversari per arrivare fino ad assediare e saccheggiare Caorle nell’846. Riporta così il fatto Giovanni Diacono:

7 Doge dall’829 all’836. 8 Nato a Pola nell’836, morto nell’864.9 Alto funzionario della corte bizantina che nelle cerimonie portava la spada.

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“Sclavi venientes ad Veneticorum loca expugnanda Caprulense tantummodo ca-strum depredaverunt” (Slavi che erano arrivati per assalire i territori veneziani saccheggiarono la località fortificata di Caorle). Va osservato come i cronisti più antichi, come Giovanni Diacono appunto, usassero per lo più confondere Croati e Narentani nel termine generico di Slavi; alcuni invece definivano Slavi i Croati confinanti con lo stato veneto, e usavano il termine specifico di Narentani ad in-dicare i “Serbi” stanziatisi sul litorale.

Il proposito del doge Pietro Tradonico di “stroncare la nefanda pratica della pirateria” (Diacono) non raccolse certo gli effetti sperati; fu però merito suo il cosiddetto “pactum Lotharii” che egli stipulò direttamente con l’imperatore del Sacro Romano Impero, Lotario I, nell’840: anche se riguardava principalmente questioni territoriali e di mercatura, il patto, oltre a costituire un passo significa-tivo per l’autonomia politica del ducato lagunare rispetto a Bisanzio, stabiliva cri-teri di difesa reciproca dai pirati. Questa parte dell’accordo ci dimostra quanto il problema fosse pressante per le genti dell’Adriatico e per i commerci veneziani in continua espansione verso le città del mediterraneo orientale; la consapevolezza del pericolo costituito dalla pirateria slava e saracena impose la decisione di co-struire navi da guerra sul modello delle chelandrie10 ma di dimensioni superiori a quelle usate fino ad allora.

Finalmente anche la politica dell’imperatore d’Oriente dovette prendere atto della necessità di tutelare i propri interessi territoriali in Occidente, fortemente compromessi in Sicilia e sulle coste pugliesi dal predominio arabo e dalle scorre-rie saracene, e nei Balcani dalle spinte autonomistiche dei potentati slavi.

Fu Basilio I11 ad inviare in Adriatico nel settembre dell’869 una poderosa flotta (a cui si unirono anche i Narentani in qualità di sudditi ma anche interessati ad usufruire di basi sull’altra sponda) al comando del drungario12 Niceta Orifa: una delle operazioni più lunghe e complicate fu la conquista di Bari, da un ventennio in mano araba, alla quale partecipò anche Ludovico II (855-873), il franco proni-pote di Carlo Magno, più rivale che alleato dell’imperatore di Bisanzio. La sorte volle che la morte cogliesse Ludovico poco dopo aver fatto per primo il trionfale ingresso in città il 2 febbraio 871; così nell’873 i Bizantini vi poterono subentrare stabilendone il possesso.

Tra i benefici che la corona d’Oriente ricavò dall’impresa ci fu la possibilità di controllare in modo più pressante ed efficace le popolazioni slave, compresi

10 o zalandrie, probabile voce greca.11 Nato nell’812, morto nell’886, imperatore dall’867.12 Dall’VIII sec. Il titolo fu attribuito ai comandanti marittimi; prima “drungos” era riferito al capo di un

reparto dell’esercito.

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i pirati narentani, ai quali fu imposto come capo un protetto di Basilio, il prin-cipe croato Sedeslao; in questa rinnovata prospettiva politico- amministrativa va inteso il rango di provincia (thema) a cui fu elevata la Dalmazia, che si trovò retta da uno stratega alle dirette dipendenze dell’imperatore. Tutto questo facilitò indubbiamente Venezia nell’opera di polizia marittima lungo le rotte adriatiche, consentendole di limitarsi ad interventi più adeguati alle forze disponibili.

Dato però che le scorrerie dei pirati continuavano ad ostacolare, nonostante tutto, i commerci veneziani, il doge Pietro Candiano13 nell’887, appena eletto, tentò di debellare i Narentani, inviando contro di loro un esercito, che però tornò senza aver ottenuto alcun risultato; messosi egli stesso a capo di una flotta di 12 navi nell’agosto dello stesso anno, assediò uno dei loro centri più agguerriti, quello di Macarsca: le forze veneziane, pur avendo avuto la meglio e affondate “ con le scuri”(Diacono) le cinque navi nemiche, il 18 settembre furono sopraf-fatte in uno scontro a terra dove rimase ucciso lo stesso doge, il cui corpo fu poi recuperato e sepolto nell’atrio della basilica di Grado14. Venezia si vide dunque costretta a piegarsi al pagamento di una specie di salvacondotto per le proprie

13 Doge per soli quattro mesi dal 17 aprile al 18 settembre dell’887.14 Secondo altre fonti sarebbe stato sepolto a Cittanova d’Istria (Novigrad).

Scardona (Skradin)

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navi in Adriatico o in alcuni casi a ricorrere ad accordi stipulati di volta in volta (fino all’impresa del 1000 di Pietro Orseolo II), piuttosto che impegnarsi in spe-dizione armate.

Dal 910 al 930 il principe croato Tomislav riuscì ad assicurare lo svolgimento regolare dei rapporti commerciali con le città dalmate e con Venezia, mantenendo i pirati sotto il proprio fermo controllo: si meritò per questo l’appellativo di “dilec-tus filius” attribuitogli da papa Giovanni X. Le lotte per il potere che seguirono alla morte del principe Tomislav indebolirono lo stato croato e una delle conse-guenze fu che i Narentani ripresero le loro attività corsare, riuscendo a costituire una seria minaccia. Il rinnovato pericolo fu dimostrato in modo drammatico e inequivocabile per Venezia dal fatto increscioso che avvenne il 2 febbraio del 94315 al Lido durante la festa della Purificazione: i Narentani, favoriti da una densa nebbia, colsero di sorpresa i partecipanti alla cerimonia riuscendo a rapire le dodici vergini che, come ogni anno, procedevano verso la chiesa di S. Pietro in Olivolo per far benedire prima del matrimonio la loro ricca dote; nel giro di due giorni, però, i malfattori furono a loro volta sorpresi a S. Margherita di Caorle mentre gozzovigliavano sulla spiaggia soddisfatti del loro bottino; il doge, Pietro III Candiano16, che si era messo a capo della spedizione punitiva, non ebbe pietà: i pirati furono trucidati e gettati in mare, le loro navi date alle fiamme. La vittoria fu ricordata ogni anno con grandi feste fino al 1379 quando fu abolita per lo svol-gersi drammatico della guerra contro i Genovesi; a Caorle viene commemorata tutt’oggi come “il ratto delle donzelle”.

15 Oppure, secondo altra fonte, il 31 gennaio 935: in questo caso il doge in carica era Pietro II Candiano.16 Doge dal 942 al 959.

Nona (Nin)

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Se dunque in un primo tempo il pagamento dei tributi poteva essere apparso ai Veneziani come la soluzione meno gravosa, da allora Venezia s’impegnò in una strategia militare più lungimirante e determinata, mai sottovalutando il pericolo costituito dai Narentani. Del resto le rappresaglie e le incursioni dei pirati erano diventate insopportabili anche per le città dalmate e per i loro traffici marittimi.

Che non costituisse un’impresa facilmente risolvibile né in tempi brevi né con investimenti di poco conto lo dimostrarono subito le spedizioni allestite contro di loro dal doge Pietro Candiano III, nel “sesto anno del suo ducato” (Diacono), quindi nel 947: dapprima 33 navi gumbarie, impiegate per la prima volta in quest’occasione, condotte da Orso Badoer e da Pietro Rosolo17, tornarono senza aver ottenuto nessun risultato; poi una seconda spedizione altrettanto consistente riuscì soltanto a pattuire un accordo, che certo non soddisfece i Veneziani, tesi ormai ad affermare la propria egemonia in quell’area della costa dalmata.

Non che gli abitanti della costa occidentale dell’Adriatico se la passassero me-glio: incursione di Saraceni, rivalità tra imperatore d’Oriente e quello d’Occiden-te tormentarono quelle terre a lungo prima della conquista normanna e poi sveva. Anche i pirati narentani vi erano interessati: per questo nel 970 si unirono alla flotta di Ottone I, imperatore del Sacro Romano Impero, per cacciare dall’Adria-tico i Saraceni, loro rivali; come premio ricevettero terreni costieri sul Gargano, dove alcuni di loro si insediarono integrandosi pacificamente con gli autoctoni e fondando i centri di Peschici e di Vico.18

Sulla costa orientale, l’ennesima devastazione della Dalmazia centrale, che ebbe Zara come obiettivo principale e che fu attuata congiuntamente ai Croati dell’entroterra19 e le richieste pressanti d’aiuto da parte di tante città costie-re convinsero Pietro Orseolo II20, (col benestare di Costantinopoli, di cui era Protospatario ossia alto dignitario ma pur sempre dipendente) ad armare una flot-ta di 35 navi, riuscendo finalmente a sconfiggerli in due spedizioni: la prima nel 997 e la seconda il 9 maggio del 1000, giorno dell’Ascensione, ricordato ancor oggi come “festa della Sensa” dai Veneziani e celebrato con la cerimonia dello “Sposalizio del mare”. Il successo dell’impresa sancì il predominio veneziano in Adriatico, anche se ancora non definito giuridicamente; i Narentani ne uscirono vinti e umiliati: una delle loro basi strategiche, l’isola di Lagosta (Lastovo), fu rasa al suolo dopo una lunga resistenza; altre isole e il territorio originario del

17 Così il Diacono; in realtà è probabile che si tratti del futuro doge Pietro Orseolo.18 Ne riferisce Carlo Sigonio, erudito modenese del ’500 nel suo De regno Italiae.19 Dell’episodio ci informa tra gli altri anche lo storico umanista veneto Sabellico, ossia Marcantonio

Coccio, le cui cronache giungono fino al 1486.20 Doge dal 991 al 959.

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Narenta furono loro sottratti; ostaggi furono catturati e poi riscattati a prezzo di garanzie di sicurezza per le rotte adriatiche; tra questi Stefano, figlio del re croato Cresimiro III Surigna, al quale il doge diede in sposa una delle proprie figlie, Hicela o Icella, allo scopo di assicurarsi un’alleanza duratura. A tutto questo si aggiunse ovviamente la cessazione di ogni pretesa di tributi.

Questa impresa, oltre a rispondere ad un’esigenza di difesa dei commer-ci sotto la continua minaccia dei pirati, si inseriva nella politica adriatica di espansione del doge, che si meritò il titolo di “Dux Venetiae et Dalmaticorum” conferitogli da Basilio II21 : da questo momento il dogato si impegnò nel co-stituire quello che, con denominazione quattrocentesca, fu definito “Stato da mar”, la tipologia statuale più caratterizzante e più importante nella storia della Serenissima. Infatti il doge Ottone Orseolo22, figlio di Pietro II Orseolo, volle intraprendere la stessa politica paterna, tesa a liberare l’Adriatico dai pirati e stabilire l’autorità veneziana in Dalmazia. Insignito nel 1017 del titolo di “dux veneticorum ac dalmaticorum”, allestì l’anno seguente una spedizione, solle-citato anche da diverse città della Dalmazia. Se è vero che l’impresa non ebbe tutto il successo sperato, certamente non paragonabile a quello ottenuto dal pa-dre, risultò comunque positiva, riuscendo a rinvigorire l’influenza veneziana su basi importanti della costa e delle isole dell’Adriatico orientale. (Arbe, Veglia, Ossero s’impegnarono a pagare tributi; Zara, Spalato, Traù e Ragusa rinnova-rono il loro giuramento di fedeltà).

Del resto la Serenissima aveva assunto un ruolo importante anche nella poli-tica europea, tanto da essere ormai riconosciuta internazionalmente come stato libero e sovrano. Indicativo in questo senso e motivo di prestigio fu il risultato positivo a cui pervenne il 24 luglio 1177 il doge Sebastiano Ziani 23 riuscendo nel ruolo di mediatore di pace tra il Barbarossa e il Papa Alessandro III e facendo di Venezia il sontuoso teatro di tale incontro.

Verso la metà del XII sec. Venezia, dunque, continuò nella politica di raf-forzamento delle proprie basi commerciali, in particolare, ma non solo, lungo le rotte dalmate; tanto che fu un cronista e geografo arabo di quel tempo ad attribuire per primo all’Adriatico l’appellativo di “Golfo di Venezia” (defini-zione che perdurò fino alla caduta della Serenissima nel 1789): è evidente che la pirateria, in una strategia politico-economica di questo tipo, non poteva che costituire uno dei primi bersagli da colpire, per proteggere la fortuna delle

21 Imperatore dal 976 al 1025.22 Doge dal 1009 al 1032.23 Doge dal 1172 al 1178.

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proprie imprese commerciali e per poter trovare nei porti lungo le rotte rifugio sicuro e assistenza.

Di contro la consistenza e l’autonomia politica dei Narentani erano in questo tempo fortemente compromesse dalle mire espansionistiche di cui furono og-getto da parte dei feudatari croati; così i loro spazi d’azione si erano ridimensio-nati notevolmente interessando quasi esclusivamente l’Adriatico centrale, dove comunque non si era certo attenuata la paura delle popolazioni costiere nei loro confronti.

Ridotti di numero e di potenza erano identificati ormai come “gli Almissani”, essendo rimasta Almissa la loro base principale insieme a Macarsca a pochi chi-lometri di distanza. Così Lucio descrive quel luogo: “Giace Almissa all’imbocca-tura del fiume Tiluro, ora Cetina, che si scarica nel mare, fra due altissimi monti aspri e senza porto, che ad oriente si allungano fino al fiume Narenta, all’occiden-te fino a Spalato. Questo fiume abbenchè scorra ristretto fra ampi e scoscesi di-rupi, è navigabile per lo spazio di tre miglia. Prima che si versi nel mare, dilatasi in forma di lago e allargandosi quinci e quindi il tratto tra le montagne, forma un’isola, le cui rive piane s’adattano bene alla costruzione di barche. Poi nuova-mente restringendosi tra due alti e inaccessibili dirupi, che si uniscono ai monti, sbocca sopra un lido guadoso, che offre comodo rifugio ai naviganti. Il mare stesso all’imboccatura è seminato di sirti, le quali variano secondo il flusso e riflusso del mare, sì che vi possono entrare sicuramente i soli abitanti conoscitori

Castello di Bribir

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del luogo. Alla sponda orientale sul territorio di Culmia, sopra una rupe minore unita ad altra maggiore siede Almissa, che può facilmente impedire l’ingresso nel fiume soggiacente a qualunque naviglio.”

Per gli Almissani fu una scelta obbligata da reciproca convenienza mettere la propria esperienza piratesca al servizio delle famiglie comitali croate dei con-ti Kačić di Poglizza24 in un primo periodo e successivamente dei conti Subic di Bribir25; così sostenuti, e spalleggiati più o meno apertamente anche da città della costa rivali tra loro, arrivarono ad assalire nel 1220 navi crociate dirette in Terrasanta e a provocare nel 1221 l’invio da parte del Papa Onorio II di un suo legato, il suddiacono Acconcio, con il compito di raccogliere una flotta contro di loro e “impugnarli dovunque”: del resto già nel IV Concilio lateranense del 1215 papa Innocenzo III aveva lanciato una scomunica contro i pirati che impedivano il viaggio dei pellegrini; l’Arcidiacono riferisce che il legato pontificio riuscì alla fine a ridurre all’obbedienza i pirati e a “dar fuoco a tutte le barche corsaresche dopo aver avuto da quelli solenne giuramento che smetterebbero ogni pirate-ria”; ciò nonostante le attività corsare ripresero ben presto con rinnovato vigore, tanto da costringere la flotta di Federico II ad intervenire (1225-26) a difesa dei

24 Un piccolo territorio montuoso alle spalle di Almissa, insieme alla quale nel 1445 fu incorporato nel dominio veneziano.

25 Borgo e regione sull’altopiano all’altezza di Crkvenica.

Porta marina di Curzola (Korčula)

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commerci pugliesi, peraltro senza apprezzabili risultati; a riportare l’ordine, co-munque di breve durata, fu ancora una volta una spedizione veneziana nel 122726: un’armata di molto consistente scese lungo la costa orientale fino a Ragusa, ri-ducendo nell’ambito veneziano quelle città come Pola e Spalato, che avevano in-trapreso in quegli anni una politica di supporto o comunque non ostile alle forze anti-veneziane.

Le discordie civili all’interno e tra le città della costa centrale (proprio come succedeva negli stessi tempi in Toscana) favorivano ovviamente il perpetrarsi del-le azioni piratesche, sfruttate ora dagli uni ora dagli altri. Finalmente gli Spalatini si accordarono nel 1239 per eleggere il primo podestà della città (1239-1242): un anconitano, Gargano degli Arscindi, uomo di specchiate virtù a detta dei cronisti dell’epoca; questi riuscì a riportare la pace tra le fazioni e a reprimere la pirateria in quella zona, avendo fatto prigioniero Osor, figlio di Manduco, uno dei Conti di Almissa, comandante dell’isola di Brazza, come riporta l’Arcidiacono. Pesanti furono le condizioni imposte agli Almissani per liberare i prigionieri: dovettero portare “a Spalato sei delle loro più grosse barche ed altre minori che avevano predate. Si obbligarono del pari con giuramento di non uscir più a rubare, e se mai il facessero sarebbero pronti a pagare 2000 iperperi27 agli Spalatini; né ciò solo, ma pur giurarono di non offendere in nessun modo né Spalatini, né Veneti, né Anconitani. Poiché dati avevano ostaggi all’Imperatore, promettendo non re-cherebbero più qualsiasi molestia in tutto il regno di Puglia.”

Non fu difficile per loro comunque riprendersi e riprendere la loro lucrosa at-tività sia autonomamente, ma soprattutto al servizio dei conti Subich, trovandosi ad agire in un contesto politico in questa sponda dell’Adriatico che si era fatto ancora più confuso e instabile in quei decenni del ’200: innanzi tutto la corona ungherese si trovava costretta a piegarsi alla limitazione costituzionale rappre-sentata dalla Bolla d’oro28 concessa da Andrea II nel 1222, non riuscendo di con-seguenza a contrastare lo strapotere dei propri feudatari; era per di più impegnata in un importante investimento economico teso a ricostruire quanto la devasta-zione mongola del 1241 aveva provocato; contemporaneamente i comuni costieri, come Spalato e Traù, già in antagonismo tra loro e sempre tesi a difendere la propria autonomia, si trovavano a barcamenarsi tra le diverse e forti pressioni

26 Era doge Pietro Ziani, dal 1205 al 1229.27 Dal XII sec si usò questa denominazione per il bisante d’oro dell’impero d’oriente; fu coniato fino al

1353.28 Da “bulla aurea”: voce latina che indicava il sigillo d’oro apposto a documenti emanati dalle massime

autorità laiche o religiose. “Bolla d’oro” per antonomasia è quella di Carlo IV (1356) imperatore del sacro Romano Impero.

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esercitate su di loro da una parte da Venezia, che considerava la Dalmazia un suo protettorato e che perseguiva una politica di dominium, e dall’altra parte anche dai Frangipane di Veglia, longa manus dei sovrani di Buda, che vantavano diritti sulle isole della Dalmazia centrale dove però la rivalità con i conti Subic non con-sentì mai loro di prevalere.

Questi ultimi, sudditi della corona ungherese che aveva conferito loro il ti-tolo, ambivano a crearsi uno stato forte e con sbocchi sul mare e, come altri feudatari della corona magiara, videro soddisfatte le proprie aspirazioni au-tonomistiche dalla Bolla d’oro: così il conte Paolo, già bano della Croazia dal 1273 al 1312, potè includere nel suo feudo anche la Bosnia; poi Giorgio II, figlio di Paolo, ottenuto dal Papa Bonifacio VIII il titolo di “conte della Dalmazia”, si diede ad esercitare il proprio potere in modo dispotico e oppressivo dal castello di Clissa (Klis) dove aveva principale dimora e a coltivare mire espansionisti-che verso la Dalmazia centrale, potendo contare su alcuni centri della costa, basi di pirati, come Scardona (Skradin)29, Nona (Nin)30, Almissa e, alle spalle di Spalato, Clissa.

Nel 1271, quando la nave che conduceva in Ungheria l’arcivescovo di Trani fu attaccata dai pirati, Carlo I d’Angiò, re di Sicilia31, dovette intervenire stipu-lando un accordo con le città di Spalato e Sebenico (“ anzi tutto si dovrà fare una guerra dallo stesso re e dalle predette città al paese di Dalmasio e a tutti i fautori …e coadiutori dello stesso”)32; l’impresa però venne presto sospesa an-che perché Venezia, che non mostrò certo di gradire un tale ingerimento, aveva concluso nel frattempo un trattato di pace a Zara con gli Almissani attraverso Alberto Morosini, membro del Maggior Consiglio e nominato all’uopo conte di Zara (1274).

Le incursioni e i saccheggi non diminuirono comunque e non bastò certo a rassicurare le popolazioni l’invio di una squadra di tre unità navali, detta “del Golfo”, allestita da Venezia col compito di sorvegliare l’Adriatico : esemplare l’at-tacco perpetrato nel 1277 contro Neresi (Neresisce), allora capoluogo dell’isola della Brazza, cittadina situata su di un altopiano ben lontano dalla costa; danno

29 Situata in un’ansa del fiume Cherca (Krka) a breve distanza dalla foce.30 A pochi chilometri da Zara, si tratta dell’antica Aenona.31 (1226-1285): si dimostrò il vero erede della politica egemonica di Federico II: eliminati infatti Man-

fredi e Corradino, mirò e in buona parte riuscì ad ampliare il suo dominio nel mediterraneo centro-orientale, proclamandosi tra l’altro re di Albania e dando in isposa la propria figlia Isabella a Ladislao d’Ungheria.

32 Dalmasio=Almissa. Citazione da Lucio in Storia del Regno di Dalmazia e di Croazia, libro IV, cap.IX, p.451. Gli abitanti di Almissa erano anche definiti appunto dalmatini: ciò creò non pochi equivoci nei documenti del tempo.

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irreparabile tra gli altri fu l’incendio del Palazzo della Comunità in cui andò per-duto il prezioso patrimonio di volumi delle leggi antiche.

Esattamente il 3 aprile 1278, le popolazioni più direttamente sottoposte ai so-prusi almissani, come quelle appunto di Brazza e Lesina, si rivolsero a Venezia che appariva loro la potenza più sicura da cui ricevere protezione. “ Gli infelici Brazzani e i Lesinani per liberarsi una volta delle infestazioni di costoro furono costretti a sottrarsi dal dominio Unghero mancante allora di flotta marittima, e col mezzo del loro Vescovo, credesi Dobronia, a dedicarsi nel giorno primo di Aprile 1278, alla potente in mare Veneta Repubblica, che finalmente s’impadro-nì della città di Almissa”. Così scrive nel 1802 il sacerdote Andrea Ceccarelli, parroco di Pucischie (Pucisce), un paese della Brazza.

In realtà Almissa, tolta ai Veneziani poco dopo dal conte Giorgio Subich, passò di mano ancora più volte nel corso del decennio successivo, tornando a costituire infine il principale covo dei pirati: gli spazi di mare tra le isole furono ancora frequente teatro di guerre di corsa con vendette di vario tipo ai danni degli isolani, quasi merce di scambio tra Venezia e i conti Subich, i quali si servivano apertamente delle operazioni piratesche per rafforzare la propria presenza sulla costa.

Gola del fiume Cetina (Cetina)

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Ma le vicende adriatiche della fine secolo e quelle del secolo successivo si complicarono ulteriormente per l’ingresso per così dire “a piè pari” di un nuovo protagonista, Genova, che, tesa a contendere a Venezia posizioni chiave nel Mediterraneo orientale, arrivò ad impegnare la Serenissima in conflitti decisivi per la sua stessa sopravvivenza: il “golfo di Venezia” fu violato nel settembre del 1298 dalla flotta di Lamba Doria33 che con 85 (o forse meno: alcune fonti parlano di 66) galere riuscì nel canale di Curzola a rompere il blocco veneziano costituito da ben 95 navi; quella pesante disfatta è ricordata anche perché tra i tanti prigionieri condotti in catene nelle carceri genovesi c’era Marco Polo; an-che i genovesi subirono notevoli perdite tanto che preferirono ritirarsi anziché proseguire con l’attacco diretto a Venezia. Fu lo stesso Doria a trattare la pace con gli auspici di Matteo Visconti, signore di Milano, pace firmata il 25 mag-gio 1299. Questa cessione di ostilità ebbe però vita breve anche perché Genova volle approfittare della particolare debolezza della rivale in quel periodo, bersa-gliata com’era su più fronti. Un nuovo colpo, infatti, all’attività mercantile della repubblica lagunare fu la scomunica che il Papa Clemente V, il dantesco “pastor senza legge”34, comminò il 27 marzo 1309 da Avignone all’intera cittadinanza per punirne l’ingerenza armata nelle lotte di successione a Ferrara dopo la mor-

33 1250 c.-1323.34 Inf. XIX, v. 83: ottavo cerchio, i simoniaci.

Foce del Narenta (Neretva)

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te di Azzo VIII : ciò comportò una vulnerabilità dell’attività mercantile in tutti i territori cristiani, dove infatti esplosero reazioni violente contro le proprietà di San Marco, nonché una crisi politica interna che accese rivalità tra le famiglie patrizie e i nuovi ricchi, fino a concretizzarsi nell’organizzazione della (poi fal-lita) congiura dei Tiepolo e dei Querini il 14 giugno 1310. Baiamonte Tiepolo, la cui madre era figlia di Stefano Subich, bano di Croazia, fu costretto all’esilio e pare sia morto in terra croata nel 1328 continuando a tramare contro Venezia.

È evidente che in tali drammatici frangenti il pragmatismo politico venezia-no non poteva permettersi di lasciare aperti contenziosi come quelli con i conti Subic, ai quali venne addirittura offerta la cittadinanza il 28 marzo 1314. Ma le pretese dei conti croati cresceva con l’ampliarsi e il rafforzarsi del loro dominio, che alla fine del secolo XIII comprendeva, oltre alla Croazia e alla Dalmazia con-tinentale, anche parte della Bosnia; un potere il loro esercitato attraverso soprusi e violenze di cui le prime vittime furono i liberi comuni della costa, che cercaro-no di reagire come era nelle loro possibilità.

Ad esempio, Spalato nel 1312, essendo podestà Percevalle di Fermo, emise la seguente delibera codificata in latino (l’edizione in volgare qui di seguito riporta-ta è anteriore al 1395):

“- item statuito et ordinato è che nullo cittadino o forestiere osi o pre-suma in la città de Spalato o in suo districto comparare da alguna perso-na algune cose le quali siano state robate o tolte per Almissani o cursali i quali facessero curso, ne quelle portare ad la città de Spalato. – et chi contra farà pagi al comune per bando cinquanta libre, et le cose compa-rate perda et veniano in comune. – et se alguno cittadin o etiandio ha-bitator della città di Spalato andasse in curso sia in perpetuo exbandito dela città predicta et tutti sui beni deveniano in comune, et se in la fortia del comune pervenirà la mano destra a esso debia esser taiata.”

Una tale delibera è perfettamente comprensibile se si pensa che, a pochi chi-lometri di distanza, Almissa costituiva la base principale dei pirati del conte Giorgio Subic, e gli spazi di mare tra le isole erano i percorsi privilegiati per vendette di vario tipo contro gli isolani.

Arrembaggi e saccheggi furono perpetrati anche ai danni di navi mercantili pro-venienti da città della costa marchigiana e pugliese, tanto che lo stesso re di Napoli, Roberto d’Angiò35, si trovò costretto ad intervenire presso il bano Paolo Subich con

35 1309-43: splendido e dottissimo mecenate, ospitò ed esaminò nel 1341 Petrarca prima della sua inco-ronazione a poeta e accolse alla sua corte il giovane Boccaccio che vi trascorse anni, dal 1327 al 1340,

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pressioni e forti rimostranze, del tutto infruttuose per la verità. Va notato che gli Angioini nel corso di questo secolo XIV si inseriscono con forza nella storia dell’A-driatico subentrando sul trono d’Ungheria e realizzando almeno in parte quanto a suo tempo Carlo I aveva progettato. Infatti dopo l’estinzione della dinastia degli Arpad e alle lotte per la successione, Carlo Martello36, in quanto erede per parte di madre, diventò re di Buda anche se solo di nome: morto a soli 24 anni, lascia il titolo al figlio Carlo Roberto (anche noto come Caroberto)37. Questi e, dopo di lui, Ludovico (o Luigi)38 attuarono una politica di rafforzamento del potere sovrano e di espansione territoriale, che prevedeva di riunire nelle loro mani le corone di Napoli e di Polonia. In questa prospettiva uno dei passi fondamentali era il dominio della costa dalmata, intesa come naturale collegamento con le terre angioine della peni-sola italica. Visto poi che Venezia si trovava in quel periodo impedita non poco dal perdurare della scomunica pontificia, le mire ungheresi trovarono facile attuazione come anche le rivendicazioni da parte dei potentati croati.

Nel 1315 il conte Giorgio II Subic, in risposta provocatoria alle proposte di tre-gua da parte dei Veneziani, codificò per iscritto il “diritto” di pirateria, specificando i privilegi da concedere agli Almissani considerati in qualità di sudditi e pirati di professione e determinando la quota di profitti dovuti alla contea. “Non permettere-mo mai che Almissa sia gravata di qualche colletta e solo del solito tributo godremo una metà noi, e l’altra il comune di Almissa. Quando andranno a corseggiare con barca a 40 remi o più, la barca avrà a sostenere la sesta parte delle spese, e godrà d’una quinta parte del lucro; se il legno avrà da 24 a 40 remi una sesta parte del lucro e una sesta delle spese; […]”: un’arroganza che approfittava del momento par-ticolarmente delicato per la Serenissima, ancora sotto scomunica.

Se la reazione di Venezia si limitò al sequestro delle imbarcazioni corsare di Almissa e Scardona e all’invio di due navi nel 1317 al podestà di Lesina e di Brazza per aiutarli a difendersi dagli assalti e dai saccheggi dei pirati, nel 1320 il re Carlo Roberto, perseguendo una politica di restaurazione del potere regio, attaccò frontalmente i Subic e umiliò le loro pretese di costituire uno stato croato autonomo riportando tutto il territorio sotto la diretta sovranità della corona ungherese: Il conte Mladino fu portato prigioniero in Ungheria; sopravvisse il conte Giorgio, ma ancora per poco, come conte di Spalato, Almissa, Clissa e Nona.

tanto per lui formativi da essere sempre rimpianti.36 1271-1295. È protagonista del canto VIII del Paradiso dantesco.37 1308-42.38 1342-82.

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Sebenico e Traù il 24 gennaio 1322, tiranneggiate in vario modo e a più riprese dai pirati di Giorgio Subic, chiesero e ottennero la protezione di Venezia e con il suo aiuto riuscirono ad espugnare Almissa e Scardona sequestrando tutte le navi; in questa acquisizione subentrò l’anno dopo anche Spalato. Fu questa l’occasione che vide strette in un patto di alleanza queste città, solitamente rivali tra loro, e assieme nel 1327 passarono sotto il vessillo di S. Marco, compresa Nona fino ad allora dominio incontrastato dei Subich.

Risulta dalle cronache riportate da Lucio che Almissa e Scardona siano state cedute due anni dopo alla moglie del conte Giorgio, prigioniero a Tenin (Knin), in base ad un accordo che prevedeva anche la restituzione di prigionieri spalatini.

Gli Almissani, privati del fondamentale sostegno dei conti di Bribir, limitati alle sole basi di Almissa, Macarsca e Scardona, persa una quantità ingente di imbarcazio-ni, non furono più in grado di nuocere come prima, pur riuscendo ancora per qualche tempo a creare azioni di disturbo alle rotte commerciali dell’Adriatico centrale.

La loro stessa sopravvivenza fu messa a serio rischio dal programma politico del nuovo sovrano ungherese, Ludovico. Suo padre, infatti, Carlo Roberto, era riuscito a placare le ribellioni dei baroni e aveva preparato il terreno per attuare il suo progetto più ambizioso quale membro della casata angioina, riunire cioè il regno di Ungheria a quello di Napoli: questo comportava la necessità anche di

Capocesto (Primošten)

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avere libertà di movimento in Adriatico e quindi di costituire una flotta capace di competere con quella veneziana.

Ludovico39, succeduto dunque al padre nel 1342, intenzionato fermamente ad espandersi in Dalmazia, riconosceva in Venezia il primo rivale da battere per conquistare l’egemonia sul mare: trovò a questo scopo facilmente alleati nel duca d’Austria, nell’imperatore di Germania, nei conti di Gorizia e nel patriarca di Aquileia. Venezia, vistasi assalita anche alle spalle, fu costretta il 18 febbraio del 1358 a chiedere la pace: dovette cedere tutta la Dalmazia, cancellarne addirittura il nome dal titolo dogale acquisito duecento anni prima; le restavano però i suoi porti in Istria, l’accesso alle vie fluviali del Po e del Brenta (il che significava, cosa non da poco per quei tempi, poter bloccare il trasporto del sale verso le città del settentrione d’Italia).

Più tardi nel 1378 Lodovico, non soddisfatto e non fidandosi degli accordi sotto-scritti, cercò e trovò un importante supporto navale e una condivisione di interessi nella flotta genovese dei Doria. Per la prima volta Venezia, già fortemente indeboli-ta, si trovò assediata nel cuore stesso del suo stato, la laguna: fu la cruciale “guerra di Chioggia” che portò Venezia sull’orlo della sconfitta totale, senza ritorno.

D’altra parte proprio quando Pietro Doria era ormai certo di avere la me-glio sulla rivale anche grazie all’alleanza con Francesco da Carrara, signore di Padova, determinato ad “imbrenare i cavagli ch’è sopra la regia di San Marco”40 e grazie ad una carestia che sembrava far volgere al peggio la resistenza della città lagunare, l’ammiraglio veneziano Vettor Pisani riuscì con uno stratagemma a ri-baltare le sorti del conflitto: i genovesi da assedianti divennero assediati trovando bloccati i canali d’uscita da grossi scafi fatti affondare caricandoli41 di massi; l’an-ziano doge Contarini e il suo ammiraglio tornarono a Venezia il 24 giugno 1380 rimorchiando le superstiti galee genovesi, trainate, in segno di spregio, rovesciate e con gli stendardi in acqua.

A questo punto, stremate ambedue le forze in campo dall’estenuante conflitto e dalle gravi perdite di uomini e di navi, nel 1381 si dichiararono disposte alla cessazione delle ostilità, concludendo la pace di Torino sotto gli auspici del conte Verde42, Amedeo VI di Savoia (1334-1383), il quale per la sua mediazione ottenne l’isola di Tenedo. Non fu una pace senza sacrifici per Venezia, che fu costretta, tra l’altro, a consegnare la Dalmazia al dominio magiaro.

39 Detto anche Luigi il Grande.40 Così riporta la Cronaca delle vicende padovane avvenute sotto la Signoria dei da Carrara, scritta da

Andrea e Bartolomeo Gatari contemporanei ai fatti.41 42 Così detto dal colore dell’abbigliamento usato in un torneo del 1353.

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APPENDICE: Glossario delle imbarcazioni e navi nel tempo trattato

Lembo il termine risale ai Greci, menzionato già da Omero col significato di piccola imbarcazione, peschereccio. Legno leggero e veloce, impiegato sia per la guerra sia per la pesca, fu adoperato dai Narentani fin dall’800 (v. Praga).

Galea (o galia o galera) ereda della classica liburna; veloce e leggera, molto fa-cilmente manovrabile; per lo più d’uso militare, anche se usata per trasporto merci era sempre armata. Dotata di 26 remi per fiancata, poteva arrivare a imbarcare 500 uomini, tra marinai, bombardieri, soldati e rema-tori. Fu usata fino al XVII sec.

Dromone legno da corsa o da guerra, a vela, con due ordini di 25 remi per parte.

Chelandia (chelandria o zelandria): probabile voce greca; nave da guerra, simile al dromone, dotata di vela latina e di un solo ordine di remi; fu usata spe-cialmente per dare la caccia ai pirati e in genere per la difesa della costa.

Gumbaria bastimento da guerra, anche mercantile, simile alla galea.

Galeotta tipo di galea, più snella e veloce, di minor pescaggio rispetto alla galea. Dotata di un albero a vela latina e di 14-20 rematori per parte.

Sciabecco più corto ma più capiente della galea, era dotato di ben tre alberi con vele latine e fiocco; i remi, da 8 a 12, consentivano di affrontare anche un vento contrario.

Cocca nave mercantile, di grosse dimensioni, panciuta; dota-ta di due o tre alberi, di fianchi alti e di un castello a prua e di un cassero a poppa per difesa.

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La città di Zara fu a lungo taglieggiata dai pirati e si difese chiamando in aiuto Venezia, con la quale aveva rapporti culturali e unità linguistica

La Repubblica di Ragusa, che unita al suo porto Gravosa è chiamata oggi Dubrovnik, aveva una flotta così ingente da sconsigliare i pirati dall’attaccare le sue navi

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Clissa nel 1571

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Morto nel 1382 Ludovico, il potente rivale di Venezia, il regno d’Ungheria en-trò in una crisi profonda: il tentativo di arginare l’avanzata ottomana mettendosi a capo della crociata in difesa di ciò che restava dell’impero bizantino costò caro al successore Sigismondo43 per i contraccolpi seguiti alla disfatta di Nicopoli (1396), uno dei quali fu la perdita definitiva della Dalmazia nel 1402. Venezia, invece, nel giro di un ventennio riuscì a risollevarsi, grazie soprattutto alla solidità dimo-strata dalle sue istituzioni politiche e alla coesione di tutta la cittadinanza in un tempo di grave emergenza.

Pietro Loredan44, nominato “Capitano generale del Golfo” l’8 febbraio 1420, entro l’ottobre di quell’anno acquisì la resa di Traù e di Spalato con le isole di Curzola, Brazza e Lesina: gli Spalatini, indifesi nei confronti soprattutto delle incursioni degli Almissani e abbandonati a se stessi dalla crisi degli Angioini di Napoli, sotto il cui dominio la città in quel tempo rientrava, accolsero i Veneziani senza contestazioni di sorta; col pagamento di 100.000 ducati d’oro Venezia otte-neva così la città, porto fondamentale della Dalmazia centrale.

Non tutte le dedizioni a Venezia avvennero, però, senza contrasti, come ci riferisce Lucio nella sua “Historia di Dalmatia”: i cittadini di Traù “non potendo più sofrir le fadige e le stormene45 dele bombarde46, veretoni47, e altre necessità che loro avevano patito” inviarono ambasciatori all’Ammira-glio dell’armata veneziana per chiedere misericordia: il 22 giugno 1420 le insegne di San Marco furono issate in piazza e sulle torri e il governatore di Sigismondo se ne fuggì in Ungheria; precedentemente a Sebenico, mentre “molti nobili” cacciati dalla città avevano chiesto aiuto a Venezia che aveva inviato “in loro soccorso 40 barche e 4 galeotte il 23 febbraio 1410”, il popolo si era rivolto alla protezione del conte Giovanni di Cetina, uno dei più potenti baroni croati e a Sigismondo d’Ungheria che ordinò di abbattere le mura di Scardona “per evitare che cadesse in mano ai veneziani”, dato che i nobili fuorusciti già occupavano le torrette all’imbocco del fiume Krka: la città di Sebenico il 12 luglio 1412 si arrese per fame dopo due anni di assedio; le mi-nacce turche costrinsero Sigismondo ad una tregua con i Veneziani nel 1413, i quali con il versamento di 5000 ducati d’oro avevano acquisito il 13 feb-braio del 1411 Ostrovica e Scardona che, con i castelli di Aurana48 (Vrana) e

43 1368-1437.44 1372-1438.45 Stormeno, mischia tra gruppi armati.46 Macchine da guerra per il lancio di proiettili.47 Grosse verrette, dardi lanciati con balestre o a mano.48 Sorge presso il lago omonimo; fu sede dal sec. XI di un monastero benedettino, poi trasformato in

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Cittanova (Novigrad) completavano il possesso dell’antica Liburnia, essendo Zara e Nona già in mano veneziana.

Alla metà del ’400 tutta la Dalmazia fino a Budua, escluso solo il territorio del-la Repubblica di Ragusa, diventava un’unica compatta regione, parte integrante del “Serenissimum Ducale Dominium”; anche Almissa, snidata nel 1444 l’ultima resisten-za, cedeva a Venezia, che nel 1452 ordinò la ricostruzione del castello di Macarsca.

Così si chiude la vicenda dei pirati narentani e almissani, ma altri pirati (gli Uscocchi per esempio) vedrà l’Adriatico dopo la caduta dell’impero bizantino avvenuta il 20 maggio 1453 e nuovi ingressi come quello degli Ottomani che tor-menteranno le città dalmate e non solo quelle.

fortezza dai Templari che nel 1312 la dovettero cedere al Priorato dei Cavalieri di San Giovanni. Ricor-diamo che diede i natali allo scultore Francesco Laurana (1430-1502).

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N° 86

IL DALMATA LIBERO

DIRETTORE RENZO de’ VIDOVICHDALMAZIA CATTARO RAGUSA SPALATO SEBENICO ZARA

N° 13 Anno IV - Novembre - Dicembre 2017N. 95 Anno XXI delle pubblicazioni

dei Dalmati di Trieste

Docente e ricercatrice della sezione studi tommaseiani della Fondazione Rustia TraineNasce a Ferrara nel ramo de’Ponzetta della famiglia di Niccolò Tommaseo. Cura maggiormente e tramanda le tradizioni fami-liari del grande scrittore dalmata. Laureata a Bologna in Lettere classiche con una tesi sulla ritrattistica romana a Salona, ha in-segnato a Trieste e collabora come ricercatrice della Sezione di studi tommaseiani della Fondazione Rustia Traine. Ha sposato Giovanni, fratello di Francesco Paglia, ultimo Caduto nei Moti del 5 e 6 novembre 1953, contro gli anglo-americani per il ri-torno di Trieste alla Madrepatria. Vive a Trieste.

da Dalmazia nazione, Dizionario Degli Uomini illUstri Della componente cUltUrale illirico-romana, latina veneta e italiana di Daria Garbin e Renzo de’Vidovich, edito dalla Fondazione Rustia Traine, a Trieste nel 2012

Laura Tommaseo de’Ponzetta Paglia

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