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L’universo non è soltanto più strano di quanto immaginiamo. L’universo è più strano di quanto possiamo immaginare. SIR ARTHUR EDDINGTON

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L’universo non è soltanto più strano di quanto immaginiamo.L’universo è più strano di quanto possiamo immaginare.

SIR ARTHUR EDDINGTON

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Prefazione

Tutti i fiumi vanno al mare,eppure il mare non è mai pieno:

raggiunta la loro meta,i fiumi riprendono la loro marcia.

QUOLÈT 1,7

Nella mente umana esistono due impulsi primari in conflitto traloro: da un lato cerchiamo di semplificare le cose, fino a giungere al-l’essenza, dall’altro analizziamo l’essenziale, cercando di arrivare allesue più vaste implicazioni.Tutti noi viviamo un conflitto del generee ci ritroviamo, di tanto in tanto, a valutarne le conseguenze. Adesempio, trovandosi sulla riva del mare, molti finiscono per meditaresulla maestosità del mondo, sebbene il mare sia, fondamentalmente,soltanto una cavità piena d’acqua. Esiste un’immensa letteratura sul-l’argomento, in certi casi assai antica, che spesso considera il conflit-to in questione come morale, o come tensione tra il sacro e il profa-no. Di conseguenza considerare il mare qualcosa di elementare e fi-nito, come potrebbe fare un tecnico, corrisponde a una visioneanimistica ed elementare, mentre la percezione di una risorsa dalleinfinite possibilità è avanzata e tipicamente umana.

Tuttavia tale conflitto non riguarda soltanto la percezione, è an-che fisico. Il mondo naturale è governato sia dai principi essenzialisia dagli straordinari principi organizzativi che ne scaturiscono.Taliprincipi sono trascendenti, nel senso che resterebbero validi anchese i principi essenziali dovessero subire qualche piccolo cambiamen-to. La nostra visione conflittuale della natura riflette un conflitto in-trinseco alla stessa natura, la quale consiste simultaneamente di ele-menti primari e di strutture organizzative stabili e complesse forma-te da questi elementi, come ad esempio il mare.

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Naturalmente sulla riva del mare possiamo anche divertirci, ed è unacosa da non dimenticare soprattutto quando stiamo passeggiando suun pontile, e l’acqua è la sotto, invitante. La vera essenza della vitaconsiste nell’aggirarsi troppo vicino a una giostra, così da essere col-piti dallo yo-yo di uno dei suoi passeggeri. Fortunatamente, noi fisicisiamo pienamente consapevoli della nostra tendenza a uno stile deci-samente pomposo, e facciamo ogni sforzo possibile per controllarci.Questa attitudine è stata espressa con precisione in una lettera scrittadal mio collega Dan Arovas, docente presso la University of Califor-nia di San Diego, e indirizzata al cronista e umorista Dave Barry:

Caro Dave,sono un tuo affezionato lettore, e non perdo mai un tuo articolo. Dareiqualsiasi cosa per saper scrivere altrettanto bene. Ho costruito una ca-panna in cima a un albero in tuo onore, e sono andato ad abitarci. Sin-ceramente, Dan.

Dan mi ha riferito di aver ricevuto la seguente risposta:

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L’essenza della vita.

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Caro Dan, grazie per la lettera e i per i complimenti.A proposito, ti la-sciano gironzolare vicino a qualche testata nucleare? Cari saluti, Dave.

Alcuni anni fa, mi capitò di discutere con mio suocero (un profes-sore universitario in pensione) in merito alla natura collettiva delleleggi fisiche. Era pomeriggio inoltrato, avevamo appena finito digiocare a bridge, e tanto per evitare di dover discutere con le nostremogli di qualche film terribilmente commovente, ci preparavamoun paio di gin tonic. Io cercavo di fargli notare come il rapporto dicausa effetto, così attendibile nel mondo naturale, avesse qualcosa dainsegnarci in merito a noi stessi, dal momento che tale attendibilità èdovuta più a principi di organizzazione che a regole microscopiche.Per dirla altrimenti, le leggi della natura a cui ci dedichiamo emer-gono attraverso un’auto-organizzazione collettiva e non è affatto ne-cessario conoscere ciò di cui sono fatte per comprenderle e farneuso. Dopo avermi ascoltato attentamente, mio suocero mi disse chenon capiva dove volessi arrivare.Aveva sempre pensato che fosserole leggi a determinare l’organizzazione, e non viceversa. Non riusci-va a capire nemmeno se quel ragionamento alla rovescia avesse sen-so.Allora gli chiesi se le assemblee legislative e i consigli di ammini-strazione fossero all’origine delle leggi o se piuttosto dovessero laloro esistenza alle leggi, e tutto gli fu improvvisamente chiaro. Cipensò per un po’ e poi mi confessò che non aveva più così chiaro ilperché delle cose e che avrebbe dovuto rifletterci ulteriormente.Proprio così!

È un vero peccato che la scienza si sia tanto allontanata da ognialtra forma di attività intellettuale, visto e considerato che in originele cose non stavano affatto così1.Gli scritti di Aristotele, ad esempio,nonostante le ben note imprecisioni, risultano piacevolmente chiari,significativi e accessibili2. Lo stesso può dirsi per L’Origine delle Speciedi Darwin3. Nella scienza moderna riscontriamo invece una certa

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1 Il conflitto tra discipline scientifiche e classiche è ben noto, si veda C.P. Snow, The Two Cul-tures Cambridge University Press, Cambridge 1993 [tr. it. Le due culture, Marsilio,Venezia2000]2 Aristotele, Opere, 11 vol., Laterza, Roma-Bari 1993-200ªxx3 Il trattato di Darwin è talmente chiaro e lineare che vale la pena di leggerlo. Si veda C.Dar-win, The Origin of Species, a cura di G. Suriano, Bantam, New York 1999 [tr. it. L’origine dellaspecie, Bollati Boringhieri,Torino 1985].

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opacità, sgradevole effetto collaterale della professionalità scientifica,ed è proprio per tale motivo che noi scienziati siamo spesso (e a ra-gion veduta) messi alla berlina. Ecco perché, tornando a casa dopouna giornata di lavoro, tutti provano un perverso piacere nell’incol-larsi alla radio e ascoltare la trasmissione Doctor Science, dove arrivanotelefonate con i quesiti più bizzarri, del genere «Perché le mucchestanno tutte nella stessa direzione mentre pascolano?» (risposta: «De-vono allinearsi in direzione del Wisconsin più volte al giorno!»), perpoi concludere «E ricordate, ne so più di voi! Ho una laurea in scien-ze!»4.A questo proposito, una volta mio suocero mi fece notare chel’economia era sempre stata una materia meravigliosa, fino a quandonon l’avevano trasformata in scienza. Non aveva affatto torto!

Grazie a quella conversazione sulle leggi fisiche ho cominciato apensare a quali risposte scientifiche si potessero dare a problemi ov-viamente ben poco scientifici (del tipo «Viene prima l’uovo o la gal-lina?»), come appunto la questione delle leggi, dell’organizzazioneche deriva dalle leggi e delle leggi come risultato dell’organizzazio-ne. Ho quindi cominciato a rendermi conto che molte persone ave-vano idee molto precise in materia, senza peraltro essere in grado digiustificare la loro scelta. Sono infine giunto a una decisione nel mo-mento in cui mi sono accorto che io e i miei colleghi, prendendospunto da L’Universo Elegante5, il celebre libro di Brian Green cheelabora alcune teorie della meccanica quantistica dello spazio, fini-vamo inevitabilmente per discutere sempre delle stesse cose. Unadelle domande ricorrenti era se la fisica potesse essere considerata unprodotto razionale della mente umana o fosse piuttosto una sintesibasata sull’osservazione dei fenomeni. La domanda non derivava maida un problema esistenziale, ma ovviamente da una questione eco-nomica, visto che la mancanza di fondi è uno dei comuni denomi-natori universali della scienza. Peraltro si finiva sempre per andare a

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4 Il Ducks Breath Mystery Theatre,conosciuto in certi ambienti come il Monty Python america-no, fu creato nel 1975 da un gruppo di studenti dell’Università dello Iowa. Dopo essersi tra-sferiti a San Francisco, divennero famosi per le loro messe in scena, e cominciarono a compa-rire regolarmente nel corso della trasmissione Science Friday della National Public Radio.È possibile reperirne registrazioni e quant’altro all’indirizzo http://www.drscience.com.5 B. Greene,The Elegant Universe: Superstrings, Hidden Dimensions, and the Quest for the Ultima-te Theory, Norton, New York 1999 [tr. it. L’universo elegante. Superstringhe, dimensioni nascoste ela ricerca della teoria ultima, Einaudi,Torino 2005].

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parare sull’inutilità di costruire modelli del mondo belli ma impossi-bili da verificare sperimentalmente, per poi porsi domande sulla na-tura della scienza. Quando a Seattle, a Taipei e a Helsinki si è ripetu-ta la stessa sequenza logica, ho infine intuito che la discordia prodot-tasi in seguito al libro di Greene riguardava fondamentalmente ilproblema che ci eravamo posti io e mio suocero dopo quella partitaa bridge. Inoltre, si trattava di una disputa meramente ideologica:non aveva niente a che fare con la verità, riguardava piuttosto ciòche s’intende per “verità”.

Di solito in fisica si dice che una buona formalizzazione pro-muove il progresso, mentre una cattiva notazione lo ritarda. Non c’èdubbio. Gli alfabeti fonetici richiedono un tempo d’apprendimentominore rispetto agli alfabeti ideografici, e quindi la scrittura è più fa-cilmente accessibile. I numeri decimali sono più facili da usare ri-spetto a quelli romani. Lo stesso concetto si applica alle ideologie. Seconsideriamo la nostra comprensione della natura come un’inter-pretazione matematica, le implicazioni sono profondamente diverserispetto al percepirla come una sintesi empirica. In un determinatocontesto possiamo considerarci padroni dell’universo, nell’altro è l’u-niverso a dominarci. Non c’è quindi da stupirsi che i miei colleghi,laggiù nelle trincee della scienza sperimentale, si siano tanto scaldati,visto che il nocciolo della questione non è affatto scientifico, ma ri-guarda piuttosto la concezione e la collocazione di noi umani nel-l’ambito dell’universo.

Se tiriamo le fila di queste due visioni del mondo, possiamo an-dare molto lontano.Quand’ero ragazzo i miei genitori mi portaronoa Yosemite, dove avevamo appuntamento con gli zii, che venivano daChicago. Mio zio era un brillante e affermato legale, si occupava dibrevetti e gli piaceva fare sfoggio della sua immensa conoscenza.Adesempio, in una certa occasione, avendo saputo che avevo appena as-sistito a una lezione di Charles Townes, l’inventore del laser, volledarmi una dettagliata descrizione del funzionamento di quel conge-gno. Ovviamente, ne sapeva più lui del professor Townes! Tornandoalla gita a Yosemite, lui e la zia avevano prenotato una camera all’Ah-wahnee, il più lussuoso albergo della zona, dove avevano invitato imiei per un paio di colazioni al buffet; poi erano partiti alla volta deldeserto, attraverso il Tuolumne Pass, e quindi avevano fatto ritorno acasa. Penso che non abbiano visto neppure una sola cascata da vici-

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no. Non ce n’era motivo: visto e considerato che avevano già avutol’occasione di osservarne le altre, il concetto era ormai chiaro. Dopola loro partenza, io e i miei risalimmo le rive del fiume Merced, go-dendo della violenza e del fragore delle acque, fino alle Nevada Falls,dove facemmo un picnic su un enorme blocco di granito, nei pressidi un prato straripante di fiori selvatici. Anche noi avevamo benchiaro il concetto di “cascata”, ma eravamo abbastanza profondi danon prendere quella nostra conoscenza troppo sul serio.

La visione del mondo alla base dell’atteggiamento di mio zio neiconfronti delle bellezze di Yosemite, visione che probabilmente co-incide con quella che ha Brian Greene della fisica, viene descrittacon grande chiarezza da John Horgan nel suo libro La fine della scien-za, in cui spiega come ormai ogni questione fondamentale sia per-fettamente compresa, al punto che non possiamo far altro che occu-parci dei dettagli6. Di fronte a constatazioni del genere i colleghisperimentali finiscono inevitabilmente per perdere la pazienza, giàmessa a dura prova, visto che oltre a essere un’affermazione sbagliata,è anche ingiusta. Ecco perché la ricerca di qualcosa di nuovo sembrasempre una causa persa, almeno fino al momento in cui qualcuno fauna scoperta. D’altronde, se ciò che si voleva trovare fosse stato pie-namente manifesto, nessuno avrebbe dovuto mettersi a cercarlo!

Sfortunatamente, si tratta di una concezione ampiamente condi-visa. Una volta mi trovai a chiacchierare con lo scomparso DavidSchramm, famoso cosmologo dell’Università di Chicago, a propositodei getti galattici. Si tratta di tenui pennellate di plasma che si irra-diano da alcuni nuclei galattici, fino a raggiungere distanze incredibi-li, talora diverse volte superiori al raggio della galassia stessa. Questigetti sono alimentati in qualche modo dalla rotazione meccanica delnucleo e non è ben chiaro come possano rimanere così sottili esten-dendosi per distanze enormi: insomma una faccenda che trovo assaiinteressante. Comunque, per tornare all’incontro, David liquidò laquestione definendo la faccenda dei getti come una sorta di “feno-meno meteorologico”. Gli interessava soprattutto l’universo nellesue fasi primordiali, nonché le osservazioni astrofisiche che potesserochiarirne la storia, anche solo parzialmente. Dal momento che quei

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6 J. Horgan, The End of Science: Facing the Limits of Knowledge in the Twilight of the Scientific Age,Addison-Wesley, Reading 1997 [, tr. it. La Fine della Scienza,Adelphi, Milano 1998].

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getti non avevano niente di particolare da dirgli, almeno non in rela-zione alle questioni che lui riteneva fondamentali, li aveva catalogatialla stregua di tante altre inutili e seccanti distrazioni. Per contro, ioho sempre trovato i fenomeni meteorologici estremamente affasci-nanti, e credo che chiunque sostenga il contrario abbia torto.

Penso che i fenomeni organizzativi fondamentali, come il tempoatmosferico, possano dirci qualcosa d’importante su fenomeni piùcomplessi, come ad esempio gli esseri umani. La loro natura prima-ria ci permette di dimostrare con certezza assoluta come siano go-vernati da leggi microscopiche, ma paradossalmente mette in evi-denza che alcuni dei loro aspetti più sofisticati sono indifferenti agliestremi di quelle leggi. Per dirla altrimenti, nel contesto di questisemplici casi siamo in grado di dimostrare che l’organizzazione puòacquisire significato e vita autonoma, fino a trascendere le parti dicui si compone. La scienza fisica ci dice quindi che considerare l’in-tero essere come qualcosa di più della somma delle sue parti non èsoltanto una teoria ma un fenomeno fisico. La natura si gestisce siain base a regole microscopiche fondamentali sia attraverso principidi organizzazione, potenti e universali.Alcuni di questi principi sononoti, ma dobbiamo dire che nella stragrande maggioranza dei casinon ne sappiamo un granché. Ne vengono continuamente scopertidi nuovi. Quando si raggiungono livelli profondi di sofisticazione èmolto più difficile documentare le relazioni tra causa ed effetto, manon ci sono prove che la generazione gerarchica delle leggi che ri-troviamo nei fenomeni primari sia rimpiazzata da qualcosa di diver-so. Quindi se un semplice fenomeno fisico può realmente acquisireindipendenza rispetto alle leggi essenziali da cui deriva, la stessa cosavale anche per noi. Sono di carbonio, ma potrei anche non esseremai stato solo quello. Il senso di ciò che sono trascende gli atomi dicui sono fatto.

Le linee guida di tale concezione sono formulate chiaramentenell’estesa collezione di scritti di Ilya Prigogine7 nonché, in modoperfino più originale, nel famoso saggio di P.W.Anderson intitolatoMore is Different8, pubblicato oltre trent’anni fa. Il saggio appare at-

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7 I. Prigogine, The End of Certainty: Time, Chaos, and the New Laws of Nature, Simon andSchuster, New York 1997 [tr. it. La fine delle certezze: il tempo, il caos e le leggi della natura, Bolla-ti Boringhieri,Torino 1997.8 P.W.Anderson, More is Different, in “Science”, 177, 393, 1972.

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tuale oggi come allora, ed è una fonte d’ispirazione tale che conti-nuo a farlo leggere agli studenti che intendono lavorare con me.

Tuttavia la mia è una visione assai più radicale di quella dei mieidue predecessori, è ciò soprattutto alla luce dei più recenti eventi.Sono sempre più convinto che tutte le leggi della fisica che conoscia-mo, e non solo una parte di esse, abbiano origini collettive. In altritermini, la distinzione tra leggi fondamentali e leggi derivate dalleleggi fondamentali sarebbe un semplice mito, più o meno equivalen-te all’idea di poter padroneggiare l’universo grazie alla sola matemati-ca. Le leggi fisiche non possono essere predeterminate mediante l’a-nalisi del puro pensiero, ma devono essere scoperte sperimentalmen-te, perché si ottiene il controllo della natura solo quando la naturastessa lo permette attraverso il principio di organizzazione.Tale teoriapotrebbe portare il sottotitolo “Fine del riduzionismo” (teoria secon-do la quale i fenomeni divengono immancabilmente via via più niti-di quando vengono frazionati in parti e componenti sempre più pic-cole) ma non sarebbe una definizione appropriata. Ogni fisico è incuor suo fondamentalmente riduzionista, nessuno escluso. Lo sonoanch’io, e non m’interessa tanto contestare il riduzionismo quantotrovare la sua giusta collocazione nel grande mosaico della natura.

Per dimostrare questo mio punto di vista dovrò discutere aperta-mente alcune teorie sconvolgenti: l’idea che il vuoto dello spazio-tempo sia materia, la possibilità che la relatività non sia un elementofondamentale, la natura collettiva della computabilità, le barriereepistemologiche alla conoscenza teorica, gli ostacoli analoghi che sifrappongono alla falsificazione sperimentale, e infine la natura mito-logica di alcune importanti componenti della moderna fisica teori-ca. Questo radicalismo è, ovviamente, in parte funzionale a questovolume, dal momento che la scienza, in quanto attività sperimentale,non può essere definita radicale o conservatrice, ma solo fedele aifatti.Tuttavia questi grandi quesiti, che non sono affatto scientificima piuttosto filosofici, risultano essere estremamente interessanti,perché si tratta di ciò di cui ci serviamo per soppesare le qualità,comporre le leggi e compiere le scelte della nostra vita.

L’obiettivo che mi propongo non è quindi quello di sollevare ungran polverone fine a se stesso, ma di provare a vedere con maggiorchiarezza che cosa sia diventata la scienza. Per riuscirci è necessariodistinguere decisamente la scienza quale agente del progresso tecno-

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logico dalla scienza come mezzo per capire i fenomeni, esseri umaniinclusi. Il mondo in cui viviamo oggi, al contrario di quanto pro-spetta una facile idealizzazione della moderna mitologia scientifica, ècolmo di fenomeni meravigliosi e fondamentali che non abbiamoancora saputo cogliere perché non li abbiamo osservati, o che nonabbiamo saputo osservare perché non ne abbiamo la capacità tecni-ca. La scienza ha un potere enorme: attraverso la sua rigida obiettivi-tà può rivelarci verità che non avevamo neppure immaginato. In talsenso continua a essere un patrimonio inestimabile, nonché una del-le più grandi creazioni dell’umanità.

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Ringraziamenti

Questo libro non sarebbe mai stato realizzato senza l’inestimabile ap-porto dell’infaticabile Steve Lew, a cui si devono l’idea iniziale e tut-to il lavoro necessario a incoraggiarmi nella stesura e promuovere l’o-pera presso gli editori. Steve è stato fondamentale soprattutto perchémi ha stimolato ad andare avanti con il progetto, perché gli scienziatihanno responsabilità e obblighi contrattuali che devono necessaria-mente essere messi da parte se ci si vuole dedicare alla stesura di unvolume. L’interazione con Steve rappresenta indubbiamente uno deimomenti più memorabili della mia lunga carriera accademica, e sonoben felice di poterlo ringraziare lo straordinario contributo che haagevolato l’organizzazione del lavoro, e per l’immenso aiuto nell’ana-lizzare le problematiche dei progressi della fisica da un punto di vistaumanistico.Voglio ringraziarlo anche per le sue idee. Il tono, la formae la portata del progetto sono in parte suoi, visto e considerato chetutto questo si è fatto largo nel corso di una serie di chiacchierate, av-venute nel mio ufficio per diversi mesi.E quindi grazie di cuore, Ste-ve, per tutto questo e per l’aiuto nella revisione delle bozze.

Devo molto anche al professor David Pines, che mi ha aiutatocon pazienza a far decollare il progetto, e si è dedicato alla revisionecritica delle bozze. Durante la visita di David a Stanford, nell’estatedel 1999, ci siamo resi conto di condividere la stessa visione della fi-sica dell’organizzazione collettiva, e analoghe aspirazioni a tradurrequanto ci sembrava così ovvio in un linguaggio comune e accessibi-le; viste e considerate le differenze nel nostro background, si è tratta-to di una scoperta sorprendente! Tutto ciò è culminato nel saggioThe Theory of Everything, scritto insieme, che affronta per la primavolta i temi fondamentali poi sviluppati in questo volume1. La gran-

1 R.B.Laughlin e D.Pines, in “Proceedings of the National Academy of Science”, 97, 28, 2000.

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de popolarità di quel saggio, che ci ha colti entrambi di sorpresa, ciha costretti a considerare la necessità di un’analisi più approfondita.In seguito alla visita di David ho anche cominciato a occuparmi at-tivamente dell’Institute for Complex Adaptive Matter, forum inter-disciplinare nell’ambito del quale si analizza come la matematica sisviluppi a partire dall’osservazione sperimentale, e non viceversa. Inquesto istituto ci proponiamo anche di incoraggiare (forse sarebbemeglio dire costringere) gli scienziati a spiegarsi reciprocamente lericerche in cui sono impegnati in termini il più possibile accessibili.Impossibile sopravvalutare i vantaggi di una pratica del genere! Lamia conoscenza della scienza deve più ai seminari sponsorizzati daquesto istituto e ai contatti personali che ne sono derivati che a tut-te le mie altre attività professionali messe assieme.

Vorrei esprimere un particolare ringraziamento alle due istitu-zioni che mi hanno esentato dai doveri accademici durante la stesu-ra del libro. Uno è l’Institute for Materials Research di Sendai, inGiappone, dove, nel novembre del 2002 ho trascorso parte del miocongedo sabbatico. Devo ricordare in particolare la calda ospitalitàdel professor Sadamichi Maekawa, con cui ho condiviso molte gra-devoli serate accompagnate da splendido sushi e anguille, gustatipresso i locali sulle rive del fiume Hirose. L’altro è il Korea Institutefor Advanced Study di Seoul, dove sono attualmente professore ag-giunto. La mia visita in Corea, nel settembre del 2003, è stata parti-colarmente fruttuosa, e per tale motivo sono profondamente gratoal mio anfitrione, il professor C.W. Kim (come dimenticare la sensa-zionale varietà di ristoranti che abbiamo sperimentato insieme!).

Infine non posso ovviamente esimermi dal ringraziare mia mo-glie Anita, per la sua pazienza davvero infinita, ripagandola con lapromessa di prendermi finalmente una vacanza, in modo da fare in-sieme quel viaggio nel Maine che abbiamo già progettato diversevolte: potremo così visitare i luoghi dell’infanzia e magari scovarequalche buona aragosta!

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Un universo diverso

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Capitolo 1

Legge di frontiera

La natura è un concetto collettivo, e sebbene la sua essenza sia presente inqualsiasi individuo di ogni specie, la sua perfezione non può mai essere rac-chiusa in un singolo oggetto. HENRI FUSELI

Molti anni fa, quando vivevo nei pressi di New York, mi recai alMuseum of Modern Art per vedere una retrospettiva di AnselAdams, il grande fotografo della natura. Come molti altri americaninati nel West, avevo sempre amato le sue opere ed ero convinto disaperle apprezzare molto di più di quanto potessero fare i newyor-chesi, così mi ero precipitato là per potermele finalmente goderedal vivo. Ne valeva davvero la pena! Chiunque abbia l’occasione dicontemplare da vicino quelle immagini si rende subito conto chenon si tratta semplicemente di asettiche vedute di alberi e di piante,ma di attente meditazioni sul significato delle cose, sulle infinite eredella Terra, nonché sulla precarietà delle umane preoccupazioni. Lamostra mi impressionò profondamente e mi colpì molto più diquanto mi sarei aspettato.Ancora oggi, quando mi trovo ad affron-tare qualche problema complesso, o a dover distinguere tra ciò cheha importanza e ciò che non ne ha, mi ritornano in mente proprioquelle immagini.

Grazie all’eccellente documentario American Experience, di RicBurns, il pubblico televisivo ha potuto recentemente rammentarecome l’opera di Ansel Adams, così come qualsiasi altra arte, sia il pro-dotto di un luogo e di un tempo specifico, oltre che dell’artista stes-so1. Nella prima parte del XX secolo, quando Adams era un ragazzoera appena stata dichiarata l’abolizione della frontiera, gli americani

1 Ansel Adams: American Experience, regia di Ric Burns. Per ulteriori informazioni si vedahttp://www.pbs.org/wgbh/amex/ansel.

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avevano dibattuto animatamente su ciò che la scomparsa della fron-tiera potesse significare per il loro futuro2.

Alla fine, si era deciso che non fosse il caso d’imitare l’Europa, eche parte dell’identità americana dovesse inevitabilmente mantener-si legata a una condizione selvaggia; senza questo concetto la vita

Un universo diverso4

2 J. M. Faragher, Rereading Frederick James Turner,Yale University Press, New Haven 1999.

In Europa il mito della frontiera viene spesso liquidato come provincialismo d’altri tempi.

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stessa avrebbe perso di significato. Nacque così la metafora dellafrontiera, che ha definito fino a oggi la cultura americana, e checomprende tanto il mito del cowboy e l’ideale dell’uomo austero eduro, così come l’infinita gamma di possibilità offerta dai panoramidel West. L’opera di Adams raggiunse la piena maturità all’ombra ditale metafora, e trasse la sua forza soprattutto suscitando nostalgia perquella natura selvaggia e incontaminata.

L’ideale della frontiera non è provincialismo d’altri tempi.Anchese viene spesso definito così, soprattutto in Europa, dove la naturamitologica del West è sempre stata identificata facilmente, ma spessotrattata con sospetto. Quand’ero militare di stanza in Germania, all’i-nizio degli anni ’70, mi capitò di leggere un lungo articolo sull’A-merica, apparso sulla rivista “Stern”: era la prima volta che m’imbat-tevo in quella percezione tutta europea del concetto di frontiera. LaGuerra fa ormai parte della storia, ma articoli del genere continuanoad apparire con sempre maggiore frequenza. Non si tratta però diuna percezione corretta. Sebbene la confluenza delle forze che han-no prodotto le fotografie di Adams sia tipicamente americana, le im-magini di per sé non lo sono. Il desiderio di una frontiera da varcareè profondamente radicato nell’animo umano, e individui di diverseparti del mondo, con un diverso retroterra culturale, non hanno al-cuna difficoltà a comprenderlo immediatamente e intuitivamente.Non c’è cultura al mondo nella quale si debba scavare troppo pertrovare una forma di riconoscimento, e di identificazione, con l’i-deale della natura selvaggia. Ecco perché l’opera di Adams è cono-sciuta e apprezzata ovunque.

Il concetto di scienza quale grande frontiera umana è analoga-mente eterno3.Ovviamente la scienza non è l’unico campo nel qua-le possiamo ancora immergerci nell’avventura, ma è pur sempre l’u-nico contesto in cui possiamo ritrovare la genuina impetuosità dellanatura. Non si tratta però dello spettrale opportunismo tecnologicodel quale le società moderne sembrano non riuscire a fare a meno,ma di quel pristino mondo naturale che esisteva prima ancora della

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3 L’associazione della scienza con lo spirito della frontiera rappresenta l’idea cardinale di unfamoso rapporto, Scienza, la frontiera infinita, consegnato nel 1945 da Vannevar Bush al presi-dente Roosevelt, in seguito al quale venne infine creata la National Science Foundation. Siveda G.P. Zachary, Endless Frontier:Vannevar Bush, Engineer of the American Century, MIT Press,Cambridge 1999; nonché V. Bush, Endless Horizons, Ayes Co. Pub., Manchester 1975.

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comparsa dell’uomo: il grande spazio abbracciato dal cavaliere soli-tario che attraversa il fiume con tre bestie da soma sotto lo sguardofisso di picchi immensi. È la coreografia dei sistemi ecologici, lagrandiosa evoluzione dei minerali della Terra, il moto dei cieli, la na-scita e la morte delle galassie. Per parafrasare Mark Twain, quelli chehanno vociferato a proposito della morte di tale ideale hanno dav-vero esagerato!

Mi occupo di fisica teorica, una branca della scienza che si dedicaalla causa ultima dei fenomeni. Ovviamente i fisici non possonovantare alcun monopolio sulle cause ultime, visto che tutti quantiamano metterci mano, entro certi limiti. Penso proprio che sia untratto atavico dello spirito umano, acquisito molto tempo fa in Afri-ca, quando si doveva sopravvivere in un ambiente fisico nel quale lecorrelazioni tra le cause e gli effetti erano più che concrete, comenel caso della vicinanza dei leoni e delle possibilità di finire divorati.Siamo programmati per trovare le relazioni causali tra i fenomeni, equando scopriamo una regola con tutta una sequela di implicazionisiamo profondamente soddisfatti4. E siamo allo stesso modo pro-grammati anche per non sopportare di trovarci nella situazione op-posta, quando siamo davanti a una gran mole di fatti da cui non ri-usciamo a dedurre alcun significato. Chi di noi non vorrebbe scova-re una teoria definitiva, un insieme di regole generali dalle qualipoter ricavare verità qualsiasi, senza più subire il frustrante confrontocon le prove sperimentali? È proprio l’interesse a trovare una teoriadefinitiva che rende la fisica così interessante anche per i non addet-ti ai lavori, sebbene si tratti per molti versi di una faccenda pura-mente tecnica e astrusa.

Nella fisica teorica si mescolano le notizie buone e quelle cattive.Dopo un primo contatto con la materia, potremmo credere di aversoddisfatto l’aspirazione a una teoria assoluta, almeno per ciò checoncerne i fenomeni su scala umana. Ci ritroviamo orgogliosamen-te capaci di padroneggiare una serie di relazioni matematiche che,per quel che ne sappiamo, abbracciano l’intero mondo naturale, dalnucleo dell’atomo in su. Sono semplici e belle, e possono essere de-scritte in due o tre righe. Ma ecco che la semplicità si rivela assai de-

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4 S. J. Gould, The Lying Stones of Marrakech,Three Rivers Press, New York, 200, pp. 147 e se-guenti.

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ludente, un po’ come gli orologini digitali da quattro soldi che han-no solo uno o due pulsanti. Le equazioni sono diabolicamente diffi-cili da gestire, e possono essere risolte solo in un numero assai limi-tato di casi. Dimostrarne la correttezza richiede analisi lunghe, com-plesse e quantitative. E bisogna anche avere dimestichezza con unagrande mole di conoscenza, sviluppatasi dalla Seconda guerra mon-diale in poi. Sebbene i concetti fondamentali fossero stati affrontatida Schrödinger, Bohr e Heisenberg negli anni ’20, tali principi pote-rono essere messi alla prova quantitativamente, con esperimenticompiuti in un’ampia gamma di condizioni, solo con lo sviluppodei più potenti computer e grazie allo spiegamento di eserciti di tec-nici competenti, foraggiati dai governi. Per non dimenticare, poi, al-cuni progressi tecnologici fondamentali, come la depurazione del si-licio e il perfezionamento dei macchinari capaci di produrre fasciatomici. In realtà, noi fisici abbiamo potuto appurare l’esattezza del-la nostra concezione del mondo solo grazie alla Guerra fredda e al-l’importanza economica di congegni elettronici, radar e misurazioniaccurate del tempo (in virtù dei quali l’attività finanziaria è statasemplificata in contesti molto diversi).

E così, ottant’anni dopo la scoperta della teoria definitiva, ci ri-troviamo nei pasticci. La ripetuta conferma sperimentale di tali rela-zioni ha ormai ufficialmente chiuso la frontiera del riduzionismo, al-meno a livello della realtà quotidiana. Come nel caso della chiusuradella frontiera americana, si è trattato di un evento culturale signifi-cativo, e anche in questo caso ci si è chiesto un po’ dappertutto checosa potesse significare per il futuro della conoscenza. C’è persinoun noto bestseller che sostiene la fine della scienza e l’impossibilitàdi giungere a nuove scoperte veramente significative. Nel contem-po, la lista di comuni e semplicissimi fenomeni che si rivelano “trop-po complessi” per poter essere descritti con le equazioni di cui sopracontinua ad allungarsi in modo allarmante.

Quelli che, come noi, si trovano davvero sulla frontiera, e passanola notte ad ascoltare l’ululare dei coyote, non possono che riderne disoppiatto.Ci sono davvero poche cose che un vero pioniere trova piùdivertenti delle riflessioni sulla natura selvaggia compiute da questipersonaggi, che nella loro condizione di uomini civilizzati riescono amalapena a orientarsi in direzione del più vicino supermercato.Credoche questo momento della storia sia incantevolmente simile all’inver-

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no passato da Lewis e Clark sull’estuario del fiume Columbia. Grazieal coraggio e alla determinazione dei due, la spedizione aveva apertoun varco attraverso l’intero continente, e aveva portato poi a scoprireche il valore dell’impresa non consisteva tanto nell’aver raggiunto ilmare, ma nell’aver compiuto il viaggio.All’epoca la frontiera ufficialeera un’invenzione legale, che riguardava più i diritti di proprietà e lapolitica di assegnazione delle terre ai coloni che non un autenticoconfronto con la natura.Oggi vale la stessa considerazione.L’autenticafrontiera, ovvero la frontiera intrinsecamente selvaggia, potrebbe esse-re proprio oltre l’uscio, basta aver voglia di dare un’occhiata.

Sebbene sia un luogo selvaggio, anche la frontiera è regolata dal-le sue leggi. Nel mitico vecchio West per legge s’intendeva la forzadella civiltà in una terra che ne era assolutamente priva, e spesso talelegge era fatta rispettare da personaggi eroici, che trattenevano i piùbarbari istinti umani con la forza della volontà.Chiunque poteva de-cidere se obbedire o meno a quel genere di leggi, con la consapevo-lezza che se decidevi di non adeguarti c’erano buone possibilità diessere fatto fuori a colpi di pistola.Ci sono peraltro leggi naturali, re-lazioni tra i diversi fenomeni, che restano valide indipendentementedal fatto che qualcuno le rispetti. Il Sole sorge ogni mattina. Il calo-re fluisce dai corpi caldi a quelli freddi. Se un branco di cervidi sirende conto della presenza di un puma, se la dà immancabilmente agambe. Si tratta dell’esatto opposto delle leggi di quel periodo miti-co, dal momento che queste leggi scaturiscono dalla natura selvag-gia e ne costituiscono l’essenza, invece di rappresentare un modo pertenerla a freno. In effetti, descrivere tali stati con il termine “legge”può risultare in qualche misura fuorviante, poiché implica l’idea diuna sorta di regola alla quale fenomeni naturali altrimenti disobbe-dienti scelgono di ottemperare. Non è corretto. Si tratta soltantodella codificazione del modo d’essere dei fenomeni della natura.

Le leggi fondamentali che conosciamo sono, senza eccezioni,frutto di fortunate scoperte, piuttosto che di deduzioni. Ciò è pie-namente compatibile con la nostra comune esperienza quotidiana.Il mondo è colmo di regolarità sofisticate e di relazioni causali chepossono essere quantificate, ed è proprio questo il modo in cui ri-usciamo a capirci qualcosa e a piegare la natura ai nostri fini.Tutta-via, la scoperta di tali relazioni è fastidiosamente imprevedibile e dicerto non può essere preventivata neppure dai più grandi esperti

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scientifici. Questa visione pratica e realistica continua a essere validaanche nel momento in cui esaminiamo la materia con maggior at-tenzione, quantitativamente.Viene fuori che il dominio dell’uomosull’universo è soprattutto un bluff, molto fumo e niente arrosto. L’i-dea che tutte le leggi fondamentali della natura siano ormai cono-sciute è soltanto una componente dell’inganno. La frontiera è anco-ra là, e si mantiene splendidamente selvaggia.

Il conflitto logico tra l’idea di una frontiera aperta da un lato e lapresenza di un sistema di regole fondamentali dall’altro viene risoltodal fenomeno dell’emergenza. Sfortunatamente con questo terminesi indicano ormai troppe cose, diverse tra loro, inclusi fenomeni so-vrannaturali non regolati da leggi fisiche. Non faccio riferimento aquesto: intendo il principio fisico di organizzazione. Possiamo facil-mente constatare come la società umana nelle sue diverse forme dis-ponga di regole organizzative che trascendono l’individuo.Ad esem-pio, un’azienda automobilistica non cessa di esistere se uno dei suoiingegneri finisce sotto un camion. Finite le elezioni, il governo diuno Stato come il Giappone non subisce mutamenti troppo signifi-cativi. Dobbiamo però considerare che anche il mondo inanimatoha le sue regole organizzative, e che anch’esse prendono in conside-razione molti fenomeni che sono altrettanto importanti per noiumani, come ad esempio le leggi fisiche superiori di cui ci serviamonella vita quotidiana. Fenomeni comuni come la coesione dell’ac-qua o la rigidità dell’acciaio sono solo alcuni degli infiniti esempiche potremmo citare. In natura troviamo moltissime cose che po-tremmo definire versioni rudimentali di un dipinto impressionista.Un campo di fiori, così come ce lo propongono Renoir o Monet, ciaffascina perché costituisce un perfetto insieme unitario, mentre leporzioni di pittura che lo compongono sono forme irregolari e im-perfette. L’imperfezione delle singole pennellate ci racconta comel’essenza del dipinto sia la sua organizzazione.Analogamente, trovia-mo estremamente interessante il fatto che certi metalli siano capacidi emettere campi magnetici nel momento in cui vengono portati atemperature estremamente basse, e l’interesse è dovuto al fatto chegli atomi di cui sono composti tali metalli non potrebbero mai com-piere singolarmente un’impresa del genere.

Dal momento che i principi di organizzazione, o più precisa-mente le loro conseguenze, possono essere leggi, queste ultime pos-

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sono organizzarsi a loro volta in nuove leggi, da cui ne possono de-rivare altre ancora, all’infinito. Dalle leggi del moto elettronico siproducono le leggi della termodinamica e della chimica, che gene-rano le leggi della cristallizzazione, che a loro volta producono leleggi della rigidità e della plasticità, da cui giungiamo alle leggi del-l’ingegneria e della tecnica. Il mondo naturale è caratterizzato quin-di da una struttura gerarchica a generazione interdipendente, del tut-to simile alla società delle pulci, così descritta da Jonathan Swift:

Quindi, come i naturalisti potranno osservare, nelle pulciTroviamo pulci più piccole, che vivono alle spalle delle prime,E quest’ultime ne hanno di più piccole ancora, che ne suggono il sangueE così via, ad infinitum.

La tendenza all’organizzazione è talmente forte che distinguere unalegge fondamentale da uno dei suoi sottoprodotti può diventare dif-ficile.Ad esempio, l’unica prova che il comportamento dei gatti nonsia fondamentale è che i gatti non reagiscono più correttamentequando, per così dire, vengono spinti oltre i loro limiti operativi.Analogamente, l’unico motivo per cui siamo certi che gli atomi nonsono oggetti fondamentali è dato dal fatto che si frantumano quan-do sono fatti scontrare a velocità elevata. Questo principio può esse-re trasposto su scala sempre minore: anche i nuclei di cui sono fattigli atomi si disintegrano nel momento in cui subiscono collisioni avelocità ancor più elevata, e le parti che si liberano dal nucleo mani-festano un comportamento analogo in collisioni a velocità ancor su-periore, e via discorrendo. Possiamo quindi affermare che la tenden-za del mondo naturale a formare una struttura gerarchica di leggifisiche non è soltanto il semplice soggetto di speculazioni accademi-che. È proprio grazie a tale caratteristica che possiamo conoscere ilmondo. Inoltre, ciò riduce le leggi fondamentali, quali che siano, aqualcosa di irrilevante, incapace di tiranneggiarci. E soprattutto, èquesta la ragione per cui possiamo continuare a esistere pur senzacomprendere i segreti fondamentali dell’universo.

Quindi la presunta fine della conoscenza, e la chiusura della fron-tiera che ciò simboleggia, non rappresenta affatto una crisi incom-bente,ma è soltanto uno dei tanti imbarazzanti e boriosi attacchi pa-rossistici che caratterizzano la lunga storia della civilizzazione. Allafine anche questa mania passerà e sarà dimenticata. La nostra non è

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certo la prima generazione che si sforza di capire le leggi di organiz-zazione della frontiera, che si illude d’esserci riuscita e che si portaun fallimento nella tomba. Sarebbe meglio mantenere una certaumiltà, un po’ come quel pescatore irlandese che commenta serena-mente che il mare è così grande, e la sua barca così piccola. Lo spazioselvaggio di cui abbiamo bisogno per vivere, crescere e definire ciòche siamo, è vivo e vegeto, e le sue gloriose leggi si dispiegano tut-t’intorno a noi.

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