L’arbitro improvvisato

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Fabio G. Mori

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nuovaoregina.net

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A Beatrice

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L’ARBITRO IMPROVVISATO

Un racconto e frames d’immaginazione

Situazioni e personaggi di questo racconto sono inventati, e non deve intendersi alcun riferimento a nomi, fatti e persone reali. Il racconto tuttavia è basato sui ricordi e gli avvenimenti legati alla vera squadra 1996 e chi potrà riconoscere se stesso, altre persone, fatti o luoghi relativi a quanto conosciuto, potrà considerare che quanto scritto dall’autore, è una rappresentazione romanzata della realtà. Il racconto è distribuito gratuitamente per la prima edizione, su supporto informatico quale CD ROM, per numero duecento copie numerate a mano, e pubblicato on line su www.nuovaoregina.net grazie alla società sportiva A.S.D. Nuova Oregina Genova che ne detiene tutti i diritti, fatti salvi copyright di terze fonti citate nell' indice dei frames utilizzati in apertura di capitolo, e sarà disponibile in formato PDF, per quanti avranno voglia e piacere di leggerlo, pur sapendo che non ha alcuna pretesa letteraria, ma semplicemente di diario, testimonianza e ricordo di una stagione insieme alle Squadre del 1996 e del 1997/98.

Finito di scrivere e pubblicato settembre 2006

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7 Indice

10 Introduzione 16 Presentazione di Attilio Roncallo frame da O Capitano! Mio Capitano! (Walt Whitman) 24 Psichedelia di un Amore 28 Camminando sul margine 30 Capitolo I frame da The Wall (Pink Floyd)

La pioggia 38 Capitolo II frame da The best of times (Styx)

I giorni migliori 46 Capitolo III frame da Forse non lo sai... (Roberto Vecchioni) frame da Father and Son (Cat Stevens) - originale - traduzione

Tra noi 60 Capitolo IV frame da Sand Creek ( Fabrizio De André)

I vecchi guerrieri 74 Capitolo V frame da Ala Bianca (Nomadi)

…Ed i nuovi guerrieri

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90 Capitolo VI frame da Goethe

Andiamo in campo

100 Capitolo VII frame da Heroes (David Bowie)

L’arbitro improvvisato 120 Capitolo VIII frame da Comes a time (C.S.N. &Y.)

Fischio finale

126 Capitolo IX frame da La canzone del Maggio (Fabrizio De André) frame da Blowing in the wind (Bob Dylan)

Il planetario della bambola russa

134 Capitolo X frame da Selling England by the pound (Genesis)

I denti del Lupo

142 Capitolo XI frame da un detto ebraico

I dimenticati

148 Capitolo XII frame da Il mago dei sogni (Catherine Webb)

Il Mago dei Sogni 152 Risposte

154 A luci spente

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INTRODUZIONE Siamo alla seconda puntata. L’anno scorso scrissi un breve racconto dedicato alla Squadra ’96 ed in particolare ad una bella vittoria giunta alla fine di una stagione travagliata per risultati che non avevano premiato l’impegno dei ragazzi. Questo secondo racconto ne diventa sostanzialmente il seguito obbligato, un anno di distanza dal primo racconto, con in più un’esperienza accresciuta, con protagonisti vecchi e nuovi, e da parte mia con qualche rammarico per non aver potuto seguire sempre la squadra come avrei voluto. Qualcuno potrà rimproverarmi per questo e non posso fare altro per ora che dispiacermene sinceramente e con questo impegnarmi, se la società vorrà rinnovare la fiducia nella mia mansione, a far sì che con la prossima stagione ritorni ed anzi sia accresciuto il rapporto di stima e collaborazione con le famiglie dei ragazzi, che così tanto bene hanno fatto in questi anni di intenti comuni e di passione per quanto di sano rimane nel gioco che una volta volevamo definire come il più bello del mondo. I ragazzi quest’anno mi sono mancati molto, e le poche volte che ho potuto essere al loro fianco durante le partite, sono state per me fonte di molte riflessioni, dove i problemi, con un coinvolgimento a livello personale forse non da tutti sono stati notati, ma credo giusto ritenere facciano parte della naturale evoluzione di una squadra, con

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la relativa importanza che possono rivestire per ognuno di noi qualora interessato direttamente o qualora investito da un ruolo di testimone inconsapevole. Il ruolo doppio, se non triplo che ci troviamo spesso a sostenere in alcuni momenti della vita sociale non agevola sicuramente le facili scelte e la semplice convivenza. Scrivere questo racconto mi è costato in termini di fatica e tempo più impegno del precedente. Questo nonostante il risultato siano il centinaio di pagine che potrete leggere, unitamente ad un paio d’esercizi in versi che aprono e chiudono la storia. Si tratta quindi di un racconto breve, ma ognuna di queste pagine ha comportato maggiori riflessioni, ripensamenti e tagli successivi alla prima stesura. La scrittura del racconto è iniziata intorno alla fine di novembre ed è terminata in concreto, nove mesi dopo, per quello che a volte viene fatto assomigliare ad un parto, e pur essendo questa una definizione veramente eccessiva, è quanto più vicino è immaginabile per la difficoltà a tirar fuori da dentro qualcosa che non è solo un opera di fantasia, ma racchiude anche un po’ di chi scrive e di coloro che lo circondano. Certo immagino più agevole scrivere un trattato di fisica quantistica piuttosto che raccontare la storia di sedici bambini che giocano a calcio, ognuno dei quali per me rappresenta una persona vera ed esistente e non un personaggio tracciato da una matita colorata. Tra le righe del racconto vero e proprio ci saranno frequentemente accenni e considerazioni che se prendono spunto dalla cronaca pur semi immaginaria, esulano però in parte dalla narrazione, per affrontare alcuni temi che ho sempre considerato importanti. Alcuni concetti, suggeriranno forse quanto espresso già né “La squadra del 1996”, il precedente racconto, altri sono frutto delle esperienze incontrate nel corso di questi anni, all’interno della società, del mondo del calcio giovanile, anni comunque molto belli se pure non semplici in particolare nella gestione delle risorse umane.

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Il lettore, che già ringrazio per voler sopportare questa mia piccola passione, che propongo, senza alcuna presunzione di avere la verità in tasca e tanto meno di voler essere qualcosa di più di un semplice esercizio di scrittura, vorrà pazientemente soffermarsi anche su quelle divagazioni, e potrà magari condividerle o rifiutarle, o ancora meglio e più semplicemente discuterle insieme. A novembre la squadra ’96 giocò due amichevoli in una sera contro la Polisportiva Mandraccio, amici ed avversari di sempre, e sempre superiori a noi per risultati. Quella sera per la prima volta m’improvvisai arbitro delle due partite, e mister in assenza degli allenatori titolari. Era l’inizio vero della stagione, poiché la settimana successiva sarebbe iniziato il campionato. Ai ragazzi sentii di dover dire soltanto di giocare come sapevo avrebbero saputo fare, e così, in mezzo al campo con loro, pure con un fischietto in mano, ebbi in regalo due delle più belle partite in assoluto per carattere, grinta, gioco e solidarietà tra compagni. Perdemmo uno a zero entrambe le partite, ma di nuovo, come dopo quella partita raccontata un anno fa, ebbi la certezza uscendo dal campo che questi ragazzi avrebbero saputo darci molto, se molto avessimo saputo dare loro in termini di insegnamento e fiducia. Alla fine della stagione ci troveremo tra le mani i risultati sempre e in ogni caso buoni del lavoro di tutti. Indipendentemente da quanto ottenuto la domenica sui campi di gioco, sarà importante, infatti, rendere prezioso tesoro d’esperienza positiva quanto avremo tutti saputo imparare, gli uni dagli altri: i bambini dagli allenatori e gli allenatori e la dirigenza dai bambini, così come i genitori e le famiglie dai loro figli e compagni. Anche loro comunque, con il loro impegno ed i loro sacrifici, ci insegnano giorno per giorno qualcosa di più sull’essere ragazzi, se ce lo fossimo dimenticati, e su come lavorare ancora meglio per commettere meno errori e non ripetere più quelli già commessi. Spesso la semplicità ed insieme la profondità del ragionamento di un ragazzo di appena dieci, undici anni, scontra e sconfigge

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concretamente il contorto e prolisso pensare, proprio del nostro mondo d’adulti. Questo ci fa rendere conto di quanto possiamo essere distanti dai nostri figli, pur amandoli e pur essendo disposti a nostra volta ad innumerevoli sacrifici per quello che ci ostiniamo a considerare il loro bene esclusivo, e che a volte, in particolare nella scelta e nella prosecuzione di un’attività ludico-sportiva, richiama soltanto le nostre pur legittime, ma ormai distanti aspirazioni giovanili. In ogni caso non conta molto ciò che faranno o ciò che saranno i bambini di oggi, nel mondo del calcio. Spero per loro rimanga almeno un ricordo piacevole, ed una piccola grande passione da rimettere in campo ogni tanto insieme agli amici, quelli di oggi, o quelli di un domani. Spero che a loro rimanga anche qualcosa dell’affetto che tutti noi abbiamo provato a trasmettere negli anni in cui abbiamo avuto la gioia di seguirli in quest’avventura e che non tutto vada perduto con il tempo. I nostri errori serviranno forse ad evitare i loro, pur con la consapevolezza che dovranno e vorranno sbattere il capo contro molte difficoltà, crescendo giorno dopo giorno in una società che sembra solo apparentemente fatta in funzione dei giovani, ma è regno della superficialità e della preclusione, prima di trovarsi magari, da questa parte della penna, o di un fischietto da arbitro improvvisato.

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Questo racconto è dedicato a Mario Chiaramente, Tullio Gemelli, Attilio Roncallo, Alessio Ottaviani, Leo Torrente, ed a loro, i miei cuccioli di questa stagione: le Squadra 1996 e 1997/98 Nicolò Aiello, Fabio Ambrosino, Simone Benzi, Andrea Bosco, Davide Cervini, Mattia Costa, Gloria Davico, Leonardo Farina, Andrea Guasco, Marco Impollonia, Paolo Lucisano, Simone Morello, Manuel Mori, Daniel Ochoa, Christian e Federico Parissi, Saverio Palma, Alessandro Piovesan, Matteo Pittiglio, Davide Pompa, Francesco Sanguineti, Giorgio Savalli Lopez, Andrea Scarpati, Riccardo Superbi, Luca Tarabotto, Marco Tonnicchi Bonfilio, ai Mister Fabrizio Sgro, Alessio Quadro, Jose Parissi e Guido Baldini. Un ringraziamento particolare a Edu Ambrosino, Nuccio Aiello e Jose Parissi che sono stati coinvolti da me in questa avventura, durata una sera, incredibilmente indelebile nella mia memoria ma credo anche nella loro. Spero non dispiaccia loro di essere citati nel racconto con i loro nomi reali: vorrei fosse un tributo tangibile all’amicizia che ho per loro e per quanto hanno dato pure con le loro energie, a questa squadra meravigliosa. A mia moglie, per il suo incoraggiamento: ☺ <<…ma non hai proprio niente di più utile da fare?...>> ☺

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Presentazione di Attilio Roncallo

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"O Capitano! Mio Capitano! Il nostro viaggio tremendo è terminato

la nave ha superato ogni ostacolo l'ambito premio è conquistato

vicino è il porto, odo le campane tutto il popolo esulta

occhi seguono l'invitto scafo la nave arcigna e intrepida ma o cuore! Cuore! Cuore!

O gocce rosse di sangue là sul ponte dove giace il Capitano

caduto, gelido, morto O Capitano! Mio Capitano! Risorgi

odi le campane risorgo per te è issata la bandiera per te squillano le trombe

per te fiori e ghirlande ornate di nastri per te le coste affollate

te invoca la massa ondeggiante a te volgono i volti ansiosi

ecco Capitano! O amato padre! Questo braccio sotto il tuo capo!

E' solo un sogno che sul ponte sei caduto, gelido, morto

Non risponde il mio Capitano le sue labbra sono pallide e immobili

non sente il padre il mio braccio non ha più energia né volontà

la nave è all'ancora sana e salva il suo viaggio concluso, finito

la nave vittoriosa è tornata dal viaggio tremendo la meta è raggiuta

esultate coste, suonate campane! entre io con funebre passo

percorro il ponte dove giace il mio Capitano caduto, gelido, morto.

Walt Whitman (O Capitano! Mio Capitano!)

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La squadra 1996 stagione 2005/2006:In piedi da sin. Paolo Lucisano, Leonardo Farina, Saverio Palma, Christian Parissi, Fabrizio Sgro, Federico Parissi, Andrea Bosco, Nicolò, Aiello, Simone Morello, Manuel Mori - Acc. da sin: Davide Cervini, Gloria Davico, Andrea Guasco, Luca Tarabotto, Davide Pompa

A volte la vita ci presenta delle sorprese. Che Fabio fosse persona piena di ottime qualità e di dedizione alla Nuova Oregina, già lo sapevo. Sapevo anche che è bravo a scrivere, per le innumerevoli mail che ci siamo scambiati, ma non sapevo che fosse così bravo a scrivere un racconto intero. Il lavoro di cui mi sto onorando di scrivere la presentazione, non è solo il dettagliato racconto di un'esperienza lunga due anni e di un episodio particolare, di una partita, ma è l'emozione di padre e di dirigente di una società di calcio. Ma qui Fabio riesce a raccontarlo con una comunicativa che va ben oltre quello che ci si aspetterebbe da chi non è abituato a scrivere per mestiere.

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Alcune situazioni emotive sono descritte con una tale profondità e incisività che avrei atteso soltanto da un autore di professione. Allo stesso modo mi sono sorpreso anni fa, quando avvicinatomi alla Nuova Oregina, ho trovato un ambiente davvero diverso dal mondo del calcio che potevo immaginare. Mi sono lasciato coinvolgere nella gestione di questo gruppo, proprio perché già dai primi momenti ho capito che la società poneva al primo posto il bambino: le sue esigenze, lo sviluppo sociale, le capacità aggregative e la capacità di offrire ai ragazzi una strada per crescere sfruttando l'immensa attrattiva dello sport e del calcio in particolare. Questa non è una società sportiva finalizzata unicamente a capitalizzare calciatori e risultati, bensì a lavorare come supporto ed ausilio per le famiglie allo scopo di contribuire a formare i ragazzi di domani. Ho conosciuto persone eccezionali, che hanno dedicato il loro tempo e le loro risorse a questa società. Persone meravigliose che nel corso degli anni sono arrivate ed altre persone meravigliose che se ne sono andate. Tante situazioni con un unico importantissimo punto fermo, che a mio avviso rappresenta da solo l'anima della Nuova Oregina: Tullio Gemelli. E' presente da sempre, e più lavoro al suo fianco e più apprezzo la dedizione che ha per questo gruppo. Ha la capacità di coinvolgere la gente e di far lavorare assieme persone che altrimenti avrebbero avuto poche occasioni di incontrarsi ed aggregare le rispettive capacità. Riveste ed affronta con modestia e competenza assoluta qualsiasi ruolo occorra, e riesce nel contempo a delegare la fiducia di agire e coordinare le attività agli altri, legittimandone le funzioni e rendendo ognuno attore protagonista della vita sociale e decisionale dell'associazione.

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Oltre al raggiungimento degli obiettivi principali, la Nuova Oregina riesce ad offrire ai ragazzi le stesse opportunità che avrebbero in qualsiasi altra squadra. Non ci manca nulla e spesso offriamo cose più gratificanti di quanto sanno offrire altre società sportive. Iscriviamo le squadre ai tornei più importanti, offriamo il supporto tecnico di due allenatori qualificati per ogni leva, allenamenti specifici per i portieri, campi a sette e ad undici giocatori, palestra ed attrezzature ginniche, ci presentiamo alle partite con un abbigliamento decoroso ed uniforme, abbiamo una nostra assicurazione supplementare a coprire ogni possibile rischio d’infortunio dei ragazzi, abbiamo i palloni personalizzati con lo stemma ed il nome della società, abbiamo un sito internet cha fa invidia a quello di società professionistiche, ogni atleta ha la possibilità di usufruire di una sua e-mail personalizzata. Ci preoccupiamo di portare i ragazzi ad un ritiro precampionato degno di una squadra di serie A, ed è già successo di portare ragazzini di dodici anni a fare una tournee all'altro capo del globo, in Ecuador ed alle Isole Galapagos, facendo parlare di noi giornali e televisioni non solo locali ed italiane. Per questo, è con gran rammarico che talvolta vedo genitori che lasciano la Nuova Oregina per portare i loro ragazzi a giocare in società più blasonate. Sono i genitori, quasi mai i ragazzi a prendere questa decisione, ed ho quasi l'impressione che noi, in quanto padri, non sappiamo resistere alla dolcissima tentazione di viziare i nostri ragazzi e pensiamo che portarli dove c'è la possibilità di vincere una partita in più, sia offrire loro il meglio, e per fare questo magari ci sobbarchiamo ore di trasferimento ed abbandoniamo la sicurezza di una società dove esiste un indiscusso valore morale e la tranquillità di un ambiente sano e protetto. Personalmente ho resistito alcune volte alle pressanti richieste di mio figlio, che avrebbe voluto forse talvolta sentirsi richiesto e trasferito come un calciatore professionista, o che avrebbe voluto

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vantarsi a scuola di essere nella rosa di una grande società, ma lavorando da dentro, vedendo la passione immensa di persone come quella di cui vi state accingendo a leggere il racconto, vedendo mio figlio che cresce contento, che riesce a superare qualche piccola delusione della vita con la stessa facilità con cui affronta una sconfitta e si prepara a vincere la prossima partita, credo di essere sulla strada giusta ed aver preso decisioni altrettanto giuste. State con noi e facciamo strada assieme. Diamo l'opportunità ai nostri figli di crescere insieme e di rafforzare la coesione del gruppo. Insegniamo loro un attaccamento a dei valori, l'attaccamento alla territorialità del quartiere, se è il caso. Se non molliamo, i risultati non tarderanno ad arrivare. Premiamo l'impegno, dei ragazzi e degli adulti che li seguono in modo completamente volontario. Se vedete delle cose che non vanno o che devono essere aggiustate, lavoriamo per cambiarle, ed arriveremo dove ognuno di noi, sono certo, vuole arrivare: vedere i propri figli crescere con un carattere forte, sano, altruista ed in grado di gestire le cose della vita.

Attilio Roncallo A.S.D. Nuova Oregina

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N.d.A. : Questo breve sproloquio è stato scritto la notte successiva a Genoa-Cosenza del 7 giugno 2003 quando una partita di calcio senza significato, che anzi sanciva l'ufficialità della retrocessione dei rossoblu nella serie C1, divenne per quanti la vissero sugli spalti un evento di emozione indimenticabile ed irripetibile. So bene che ora lo leggeranno anche persone che non condividono la passione sportiva per questi colori, ma, mentre agli amici genoani offro queste righe sapendo di toccare facilmente i loro sentimenti, a tutti gli altri le regalo invitandoli a leggerle con gli occhi della fantasia, dell'entusiasmo e del rispetto per lo sport, visto che nel racconto che seguirà, protagonista sarà il calcio, sport dei bambini.

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Psichedelia di un Amore Da parecchio tempo non l'ascoltavo. Così poco fa, ho pensato di mettermi su "tales from topographic oceans" degli Yes. Un doppio album che fa data 1973. La musica mi fa mettere mano alla tastiera, e mentre su un pc scorro le immagini di ieri, sull'altro butto giù queste righe, che non hanno altra pretesa che di aggiungere psichedelia a questa giornata. La prima cosa che ho scritto è stato il titolo. Insolito per me, che in genere scrivo e poi da quanto ho scritto o da quanto ho inteso, porto al mondo il nome da dare alla mia creatura. Psichedelia di un Amore, è quanto sento per questa gente, per quanti amici sconosciuti, immagini che sfocano appena finita una partita, volti che ho visto uguali e diversi, ridere, piangere, cantare od imprecare legati ad una ringhiera, avvinghiati ad una sciarpa, soffocati da una bandiera, accecati dai mille fumogeni colorati. Che gente, meglio gente che popolo. Il popolo si fa guidare. La gente è la guida, la fonte pulita d’ogni idea e d’ogni certezza. La gente che dei ricordi fa globuli rossi per il proprio sangue, non perché viva di ricordi, ma perché non sei vivo senza avere ricordi e sogni in cui credere. Che gente, che mentre cantava e urlava, negli occhi aveva tutte le lacrime del mondo perché colpita, ferita, umiliata. Asciugavamo quelle lacrime con le mani e ancora gridavamo e ancora piangevamo ridendo perché capivamo di quanta storia stavamo costruendo le pagine. Maledizione, c'ero, e quelle lacrime sorridenti, erano le mie e le tue e di quello vicino che fumava una sigaretta dietro l'altra, e di quella ragazza davanti con il grifone tatuato sulla schiena, che io guardavo e mi si confondeva negli occhi con quelli sulle bandiere. Quelle lacrime erano nelle risate di mio figlio, troppo piccolo per capire che andavamo giù, abbastanza grande per urlare quelle

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canzoni rabbiose fino a perdere la voce e poi piangere pensando che non sarebbe tornata mai più. Che gente, che sapeva sussurrare un canto immenso nella lingua dei padri, mentre il cuore di ognuno si stringeva in un rimpianto, e lo sguardo si spostava lontano, su di un campo che non aveva più erba, ma chi lo calpestava aveva la purezza dei campioni e il nome scolpito sulle colonne dell'eternità, scarpe goffe, pali di legno a cingere il cielo di un portiere che per primo pronunciò il nome glorioso del Vecchio Balordo. Che gente innamorata di un paio di colori vividi come il sangue di un cavallo imbizzarrito, mai domato dalla speculazione e dalle beffe. Si mescolano tra loro le emozioni, e mille sono che so solo d’averle vissute in tutti questi anni, portando dentro quelle di mio padre e dei padri di tutti noi, folli innamorati della luce di quei colori. Quanto ci fanno dire e pensare quei colori, perché forse troppo bambini vogliamo rimanere, perché sappiamo che crescere ci toglierà il vivido sapere di essere immortali. E allora navighiamo, gente di scorza dura, col cuore in mano e mano a mano con chi ci ha lasciato e non è vero che non c'è più, nomi di tutti e nomi sconosciuti a tutti, fratelli di quel sangue che sa rivelare l'eternità dell'amicizia. Che stadio ci vorrebbe per tenerli tutti quegli amici che ci guardano dal terzo anello, che stadio immenso, dove le luci non servono ad accendere ancora più il fulgore delle loro anime, buoni e cattivi ma grifoni nella pelle. Un capitano avanti a tutti perché quel numero lo porta negli occhi e sull'anima, un sorriso accanto, sprezzante e sincero biondo guerriero di battaglie lontane, e dietro ma accanto, nomi che inorgogliscono, vicende da libro di storia, il nostro libro. Scorre la musica nelle vene e brilla anch'essa di colori immortali, volano le parole, che strano, preferirei carta e penna. Non ditemi sciocco se stasera vi stupirà ciò che leggete, forse lo scrivo solo per me e solo per voi, datemi tempo di capire perché amo.

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Trenta anni fa forse troppo giovane per sapere, credevo nella psichedelia di ciò che ascoltavo e guardavo negli occhi di un musicista narciso, le parole di canzoni troppo intime per essere condivise con altri. Mi riempiva il giorno di suoni, sapere che dietro l'angolo c'era un amico con cui parlare di loro. Ricordo bambino al Pio, vedere giocare quegli uomini, di loro ricordo soltanto che c'era Spalazzi, e una volta giocammo con loro e corsi a casa a raccontarlo a mio padre e toccavo il cielo. Corre il fiato di questa gente, che soffia vita verso questo cielo. Che gente, questa che cerca e non troverà certezze nelle notizie di un giornale, e si domanda il perché delle cose. Che gente che sa camminare i sentieri difficili ritrovando la strada per la felicità. Finisce una partita e di loro dimentico le facce, ma poi le ritrovo qui, disegnate nel rosso e blu dei colori di questo muro, e non so non credermi amico e fratello di ognuno di loro. Silenzio. Ascoltate la maestosità di questo silenzio che vi avvolge. Abbandonate per un attimo tutte le parole e i rumori della città, e ascoltate questo silenzio. E' talmente così rumoroso che vi stordisce, questo silenzio. E' talmente così pieno di voci che penserete di trovarvi nel mezzo di uno stadio. Non c'è nulla. Non c'è calcio, non c'è polemica, non c'è partita da giocare, non ci sono punti in palio, non ci sono trofei alla birra o al sushi, non ci sono ricorsi, non ci sono tar, covisoc, cga, figc, lnp, lnd, g, v, n, p, f, s, non ci sono medie inglesi e non ci sono arbitri, segnalinee e giocatori in mezzo a quel campo verde, non ci sono gemellaggi da fare e gemellaggi da rovinare. Non c'è nemmeno un pubblico sugli spalti, non ci sono bandiere, striscioni, fumogeni, tamburi, sciarpe, voci, cori, insulti, risate e pianti.

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Non ci sono cuori che battono per un'illusione, non ci sono maglie sudate, non ci sono quei due colori uniti, a quarti su una casacca antica, non ci sono quei grifoni dorati cuciti sulla pelle viva, non ci sono palloni di cuoio pesanti da calciare, non ci sono nomi da ricordare, Spensley, Abbadie, Corso, Meroni, Beccattini, Pruzzo, Damiani, Nela, Odorizzi, Manfrin, Onofri, Aguilera, Bortolazzi, Skuravy, Branco, Ruotolo, Torrente, Gorin, Signorini, e mille e mille altri. Non ci sono lacrime da versare per fratelli morti in nome della stupidità umana. Non ci sono storie da raccontare per dire io c'ero. Non ci sono i clamori e le lacrime di una sera di giugno e non ci sono i clamori e le risate di un'altra sera di giugno. C'è solo quest’immenso magico irreale silenzio. E qui, in questa vacanza meravigliosa, nel silenzio di un raggio di sole caldissimo, siedo qui, e scrivo. Mi manca la vita. Che facce che avete stasera. Dedicato a noi.

FGM

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Camminando sul margine Stiamo camminando sul margine del mondo. Stiamo muovendoci pericolosamente ondeggiando sul bordo estremo di quanto conosciamo. Certo abbiamo conoscenza della nostra fiducia abbiamo certezza della nostre certezze Quanto sappiamo di ciò che ci controlla? il Re Cremisi ci sta sopra e nemmeno lo vediamo. Le sue lunghe dita aperte sulle nostre teste, e nemmeno lo vediamo. So d’essere vivo perché respiro ma ho bisogno del Re Cremisi per sapere cosa fare Quando mi dicono ciò che non voglio sentire alzo spesso la voce e mi infurio ma le orecchie del Re e gli occhi dei suoi consiglieri sono chiusi da lembi di carne putrescente Sanno solo ordinarmi di tacere e di eseguire i loro capricci sono le mie banalità Quanto denaro serve perchè i loro denti splendano nel sole sui loro teschi minacciosi? Quante bocche hanno pagato perché parlassero per loro? Il Re vuole costruire un ponte ed il suo palazzo davanti alla mia spiaggia preferita e un recinto intorno perché io non possa più raggiungerla per bagnarmi nel mio mare migliore Il Re manda inviti col suo sigillo a tutti i notabili perché sappiano che ciò che desidera è ciò che lui ordina Stanno sussurrandogli parole suadenti perché lui li guardi con il suo occhio più limpido Stanno sorridendogli intorno come scrofe in calore perché hanno paura di lui e dei suoi soldati crudeli Io non voglio ubbidire ai suoi comandamenti Non è il mio Signore, non è il mio cavaliere, non sono io

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Ci sono molte voci intorno a me e tutte rumoreggiano Sembra si stia preparando un'altra rivolta Ma il Re Cremisi controlla e sorveglia i suoi poderi Stiamo camminando sul margine del mondo cercando un appiglio per non cadere Stiamo muovendoci pericolosamente vacillando sul margine della realtà che ci piace Ogni cosa ha confini ed i colori mi trattengono il pianto Stiamo armando il nostro braccio è più forte ora che siamo così tanti Ho detto agli altri di non temere perché la mia spada ha poteri incredibili Perché la mia voce spezzerà le catene del Re Cremisi e della sua banda Stiamo camminando sul margine del mondo per riscriverne la storia di nostro pugno Perché la storia ci appartiene e quando abbiamo fame ci insegna ad alzare la voce Stiamo muovendoci sul margine ed il Re se ne è accorto Avanziamo sul margine del mondo verso le armate Sono in tanti stavolta e ci sorridono da lontano e portano in giro la maschera con un espressione perbene Sono in tanti a muoverci contro Ma il Re preferisce restare nell'ombra Camminiamo ai margini delle certezze per farle a pezzi Stiamo arrivando per farle a pezzi Sta arrivando il tuo turno e ora tocca a te Non sarai più il Re Cremisi Dovrai camminare sui margini.

FGM

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Capitolo I La pioggia

“Che cosa useremo per riempire i vuoti spazi dove di solito stavamo a parlare. Come riempirò gli ultimi spazi?

Come completerò il muro?”

Pink Floyd (The Wall)

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Sarà stata la serata piovosa, ma noia era la sola parola che mi veniva in mente, mentre risalivo il traffico faticosamente, tra semafori poco intelligenti e un campionario completo di stupidi seduti dietro ad un volante, evidentemente messi lì apposta dal poco stimato assessore al traffico, per dimostrare l’utilità del trasporto pubblico nei confronti di quello privato, dovendo d’altronde mandare avanti un carrozzone da quaranta milioni di euro all’anno di perdite di bilancio. Nonostante il breve tragitto da compiere, era oltre mezz’ora che mi trovavo inchiodato dietro ad un furgone che mi impediva anche di vedere i progressi della coda davanti a noi, cosa che mi rendeva ancora più nervoso del solito, mentre cercavo di spostarmi lentamente più all’esterno, per riuscire a sbirciare avanti, dopo il maledetto furgone, e vedere qualcosa di quello che stava oltre. Se quel tipo avesse guardato un attimo nello specchietto, avrebbe corso il rischio di vedersi fulminato dal mio sguardo e dalle pacate maledizioni che gli stavo indirizzando. Far ginnastica con un piede sulla frizione non era il mio sport preferito, e se non altro quello era il piede sbagliato, e potendo scegliere, avrei preferito un buon esercizio di “push and… push” sul pedale opposto, quello dell’acceleratore, ma visto che al momento non era possibile fare altrimenti, me ne stavo sconsolatamente abbandonato sullo schienale, una mano distratta sul volante, ed il resto banalmente impiegato a far procedere centimetro dopo centimetro l’auto incolonnata nel traffico di una Genova piovosamente spettrale. La radio teneva compagnia, e mi mandava gentilmente alcune vecchie, meravigliose canzoni pop degli anni settanta, e qualche cover inizio anni ottanta niente male, e questo, oltre ad evocare qualche emozione, risvegliava i ricordi di serate passate a sentire musica e chiacchierare tra una birra e l’altra, insieme alla vecchia banda di Coronata.

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Naturalmente appena entrato nella galleria di Corvetto, la maledetta baracca mi salutò allegramente iniziando a gracchiare come un vecchio corvo sbalordito e mi costrinse a zittirla bruscamente. Dolcemente, girai parte delle mie maledizioni alla radio, che sopportò con estrema signorilità, degnandomi appena di una breve pernacchietta alla quale risposi con un’occhiataccia e con una manata sul pulsante di spegnimento. Mi riservai di accenderla nuovamente tra una galleria e l’altra, e un paio di canzoni ci stavano nei cento metri tra una galleria e l’altra, e poi ero disposto a perdonare l’aggeggio infernale, se non avesse rinunciato a tenermi compagnia in mezzo a quel casino insuperabile. Un pezzo d’asfalto lungo dieci metri quella sera sembrava una distanza da balzo iper spaziale, e come al solito, quattro gocce di pioggia mettevano su più confusione che una mezza alluvione: non c’era un cane senza auto per la strada. Ero in ritardo, ma non potendo farci nulla non me ne preoccupavo più di tanto, e dopo poco avrei comunque svoltato verso le alture, lasciando quella che da sempre era una delle strade più intasate, per una molto più tranquilla, salendo da Piazza della Nunziata, verso il Carmine e l’Albergo dei Poveri, che faceva da collegamento tra il centro e la Circonvallazione a Monte. Il ritardo lo avrei recuperato rapidamente, e avrei fatto in tempo a sbrigare le ultime faccende della giornata, prima di passare alla scuola ed attendere l’uscita di mio figlio. Fermo dietro quel furgone, osservavo distrattamente il passaggio della gente sui marciapiedi ancora lucidi per la pioggia leggera durata tutto il giorno, e le luci delle prime insegne accese iniziavano a colorare della loro fosforescenza le sottili superfici increspate delle piccole pozze d’acqua sull’asfalto irregolare. Un quadro irreale e fantastico, dipinto da decine di mani e tratto dal disegno abbozzato da qualcuno che se esisteva, nessuno poteva nemmeno immaginare. Il dio degli elettrotecnici forse c’è davvero, cercare per credere.

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Nel 1982, al quinto anno di studi, e poco prima degli esami di maturità, che avrebbero battezzato l'ennesima generazione di periti elettrotecnici, assieme ad alcuni complici sghignazzanti, componemmo e trascrivemmo sulla lavagna, per la gioia dell'ing. Salvini, addirittura la "preghiera dell'elettricista" che recitava più o meno così: Ampere nostro che sei nei cavi dacci oggi il nostro Volt quotidiano e non ci indurre in Alta Tensione ma liberaci dalle Correnti Parassite. Ohm Non ho parole, e mi vergogno così tanto da farvela leggere, così potrete prendermi in giro per la giusta pena del contrappasso. Stavo pensando che anche quei colori avevano una loro strana bellezza, confusi ed effimeri, senza di loro il grigio avrebbe comunque prevalso su tutto, smorzando ancora di più i toni di un pomeriggio autunnale come tanti altri. A volte il passaggio di qualche persona rompeva il gioco delle luci nell’acqua, e le ombre lunghe ma attenuate dalle molte fonti di luce, si staccavano dal suolo per infrangersi sulle fiancate delle auto e sui cofani surriscaldati. Le luci erano blu, verdi e rosse, e tutte insieme formavano migliaia di altri colori, sfumature di scintille nell’aria un po’ grigia di rientro dal lavoro. Scenari da filmaccio di fantascienza, se non fosse che il desiderio di un elicottero qualsiasi, di una macchina volante, di un astronave che mi permettesse di levarmi sopra quella massa di ferro, vernice, plastica ed imbecilli, mi riportava facilmente al presente del mio incedere metro dopo metro con la velocità di un fante scelto dell’esercito delle lumache.

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Al puzzo dei gas di scarico nessuno faceva più caso, tanto n’eravamo impregnati dalla mattina alla sera, e ogni volta che il passaggio di un autobus pungeva le mie narici con la sua zaffata nera, mi trovavo a ricordare quando tornavamo in città al rientro dalle vacanze. Ci trovavamo di colpo nell’odore che cancellava in un attimo i profumi della campagna ed il salmastro degli spruzzi di mare che per tanti giorni ci aveva sfiorato. Amavo la mia città, anche se forse la parola amore era un po’ troppo per definire quel senso d’appartenenza e d’identificazione in quella gente, in quelle colline basse, ed in quel lanciarsi in un attimo nel mare scuro di quel golfo antico, che sembrava dover essere stato la patria d’ogni marinaio ed il punto di partenza d’ogni esplorazione e commercio. Anche il vecchio Cristoforo, benché per la traversata più famosa della storia avesse preso il largo da tutt’altro porto, ad immaginarselo, sembrava di vederlo scendere da quelle calate verso la sua caravella, e volgere un ultimo sguardo alla città ed alla Lanterna, prima di affrontare il mare aperto verso le colonne, ritto e fiero sul castello di prora del suo legno. Dubito ancora che con quei tre gusci di noce sia arrivato dove disse di essere arrivato, ma forse dire che fu questione di fortuna, può ancora dipendere dai punti di vista. Non che i risultati di quella traversata fossero infatti stati così positivi per tutti, a partire da chi abitava già dall’altra parte dell’Atlantico, e si era trovato da un giorno all’altro a dividere la propria terra con quegli strani uomini dalla zucca di ferro venuti da chissà dove, così pronti a rubare loro ogni cosa possedessero, oro, terra, perfino le donne, uccidere ed imporre con la violenza dell'arroganza prima, solo con la violenza più tardi, un nuovo credo in qualcosa di così diverso ed incomprensibile dai loro dei di sempre, mostrando delle verità che non riuscivano a comprendere,

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così lontane dai loro bisogni di sopravvivere ogni giorno ad una natura selvaggia. E poi Cristoforo stesso, non è che fosse stato il primo ad arrivare fino a là, ma forse il primo a tornare per dire di essere finito da qualche parte navigando sempre dritto davanti al naso. Bene o male anche lui fece in fondo la fine che meritava, solo, povero, dimenticato dal mondo dei potenti, e gettato in catene in una scomoda due metri per due. Questi, molti altri pensieri strampalati mi giravano per la testa in quel pomeriggio piovoso, nel chiuso dell’abitacolo della mia auto, a rilento nel traffico e diretto verso gli impegni più leggeri ma non meno importanti della serata. Una serata da trascorrere insieme a mio figlio ed insieme alla squadra di calcio, impegnati in un paio di partitelle amichevoli, una sgambata del venerdì contro gli amici-avversari di sempre, tanto per prepararsi alla seconda di campionato. Ovviamente parlo del campionato Pulcini non di serie A. Campionato che era iniziato com’era finito il precedente, una sconfitta dietro l’altra, ed un’incomprensibile poca voglia di mostrare quella grinta che in allenamento non mancava. C’era anche l’aggravante dei progressi tecnici invisibili alla luce dei due anni e mezzo passati sul campo a lavorare, e con la sola debole attenuante d’alcuni nuovi arrivi, ragazzi potenzialmente in gamba, ma ancora poco abituati ad un vero campo da gioco, e quindi poco disciplinati a mantenere le posizioni dettate dal mister, ed ancor meno pronti all’intesa con i compagni più vecchi della squadra. Vostro Onore, pesiamo bene aggravanti e soprattutto attenuanti, se vogliamo giudicare questi ragazzi, e se possibile diamo loro un’altra possibilità. Grazie Vostro Onore i miei ragazzi ed il mio editore le sono eternamente riconoscenti.

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Vecchi comunque si fa per dire, quando stiamo ragionando di ragazzini sui dieci anni di età, mese più, mese meno, ma se parlo della mia squadra, non posso fare a meno di vederli come una vera squadra di calcio, quasi che non sia importante la differenza di età dai calciatori adulti, ed il colore delle maglie, sempre troppo grandi per loro, non sia quello di una piccola società di quartiere, invece di quello delle illustri casacche sempre al centro delle cronache sportive televisive. Che importa e a chi importa, quando in quella squadra c’è tuo figlio, e quando i suoi compagni ormai fanno parte anche della tua vita, ed a loro dedichi con entusiasmo una bella fetta del poco tempo libero, ripagato sostanziosamente dai sorrisi di una ventina di bambini rigorosamente assorti nella felicità di sentirsi protagonisti di fronte alle piccole platee di genitori e nonni fuori delle recinzioni di un campetto scalcinato. Mi è capitato ultimamente di guardarmi in faccia con il mister della squadra 1997/98 durante una partita, e sconsolatamente confidarci quanto fosse impossibile capire perché stavamo appassionandoci e soffrendo più per quei bambini che davano vita a tutto fuorché ad una partita di calcio, piuttosto che alle sorti del nostro Grifone che in quello stesso momento stava giocandosi una promozione e di cui non sapevamo assolutamente nulla. Eppure mi rendo conto che ti prende, vedere sul campo quelle miniature cariche di orgoglio e di voglia di strafare, di emulare le azioni viste in tv la sera prima. I bambini c’insegnano come vivere ancora giovani dentro il cuore, e lo fanno con le loro mille sbucciature, con le lacrime per il pallone preso sul muso, con quei gol incredibili ed improbabili, ai quali esulti come un pazzo. D’accordo, comunque si era soltanto ai primi di novembre, e tempo per crescere e recuperare ce ne sarebbe stato a bizzeffe, magari non avremmo vinto il campionato, ma certo non si poteva dichiarare persa la stagione prima di iniziarla, e poi comunque andasse quella sarebbe stata un’esperienza importante per l’anno successivo.

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Forse erano gli stessi tiepidi discorsi fatti a giugno, quando chiacchierando alla fine delle ultime partite estive, fantasticavamo sulle possibilità di crescita dei ragazzi dal punto di vista tecnico, e sull’assoluta impossibilità di ripercorrere il calvario che avevamo appena finito di scalare. Magari stava nell’ordine naturale delle cose, visto che se esistevano squadre che vincevano, dovevano altrettanto esistere squadre che perdevano. Peccato trovarsi spesso dalla parte sbagliata di questo bellissimo concetto. La scorsa stagione abbiamo raccolto molto meno di quanto avremmo meritato, per aver giocato le partite migliori contro le squadre più quotate e per aver sciupato parecchio, troppo. E se questo in qualche modo ci puniva giustamente, perché una squadra vincente nel calcio, a qualunque livello non può e non deve permettersi di sciupare occasioni più del lecito, se vuole almeno trovarsi alla fine del campionato in un dignitoso centro classifica. Se quel dannato furgone si fosse deciso a fermarsi, o almeno fosse sprofondato in un crepaccio, avrei potuto vedere che cosa mi aspettava ancora sulla strada, prima di riuscire a mettere la freccia per svoltare sulla strada della salvezza. E se il pallone avesse trasformato per una volta i suoi esagoni neri in tanti numeri esatti, e sulla ruota della fortuna fossero usciti quei numeri, si poteva sperare in qualcosa che infilasse tutto dentro un bussolotto, scuotesse bene, e lasciasse cadere i dadi facendoci finire per una volta nella metà sorridente di un teorema assai poco matematico.

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Capitolo II I giorni migliori

"Noi prendiamo il meglio, dimentichiamo il resto e a volte scopriremo che questo è il meglio di sempre...

I momenti migliori sono quando io sono solo con te... pioggia e sorrisi, faremo di questo un mondo per due..."

Styx (The best of times)

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Per il terzo anno seguivo la squadra con la carica di dirigente responsabile, e anche se magari poteva sembrare un po’ suntuoso come appellativo, per uno che in fondo doveva occuparsi di compilare distinte di gara e portare sul campo borsate di maglie e cesti di borracce per l’acqua, vi assicuro che a volerlo fare per bene dovevi perderci la testa e dedicarci qualcosa di più che un po’ di tempo libero. Dovevi dedicarci passione, tanta passione, ed ancora passione, tenuta insieme da un mucchio di tempo spesso sottratto al resto della famiglia e disponibilità continua nei confronti di società, genitori e soprattutto ragazzi. Io c’ero finito tirato per i capelli da un paio d’amici, i quali, non appena il loro indicatore di livello di sopportabilità per quello stile di vita era arrivato ad inchiodarsi oltre la zona rossa, mi avevano imbesugato con moine varie ed ambigue richieste del tipo “…così ci dai una mano…”, per poi svanire senza nemmeno la nuvoletta di fumo non appena ebbi oltrepassata la soglia della sede. Una volta sbattuta la testa al buio contro quello spigolo, avevo però volentieri scelto di metterci dentro tutta la passione che avevo, e questa, con il passare del tempo non aveva faticato a diventare talmente intensa da spaventarmi anche e farmi temere che la zuccata contro lo stipite dell’ingresso di quella segreteria, l’avessi presa davvero e ne fossi ancora intontito. Mi spiegate come si fa a non innamorarsi di una squadra di ragazzini che hai visto iniziare a prendere a calci un pallone, quando avevano sei anni, e ci hai passato insieme ore di gioia e delusioni? Mi sapete dire come si fa a non mettersi al collo la sciarpa di quella squadra, quando di ognuno di quei bambini hai imparato a conoscere perfino come si fa il nodo alle scarpe? Avete mai deciso in una sera d’estate di vincere una partita e guardato negli occhi il vostro capitano alto un metro e trenta centimetri nel consegnargli la fascia?

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Non ci credete vero, che in quegli occhi ci si possono tranquillamente leggere gli occhi dell’uomo che sarà? Eppure io ve lo firmo anche e vi dico che potete provare se avete abbastanza fegato, perché poi non vi sarà per niente facile tirarvene via. Pioveva ancora: una sottilissima parete di meravigliosi diamanti di rugiada che scendevano dal cielo sul parabrezza, subito cancellati dal crudele schiaffo della spazzola. Eppure riuscivo ad intravedere dentro ad ogni goccia il volto di uno dei miei ragazzi, e mi sembrava in quel momento di vederli allineati per il saluto al pubblico, ma eravamo in un grande stadio, e i visi fuori della rete non erano quelli dei loro genitori, ma pur riconoscendone ognuno, si confondevano in migliaia e migliaia di volti e di colori, i nostri colori. Davvero era pericoloso starsene in coda nel traffico, se riuscivo a vedere nella pioggia ciò che potevo credere fosse il nostro futuro e forse invece soltanto i sogni ad occhi aperti di un pazzo alla guida di una squadra di pazzi. Futuro e presente fatti di istante dopo istante a formare uno dopo l’altro i nostri giorni migliori. I giorni migliori sono quando noi crediamo in noi, ed in quanti sono al nostro fianco, quando la nostra pelle si fa così dura da non poter essere graffiata dalla vita, quando siamo capaci di far nostro il cielo oltre l’ultima stella e senza tremare stringiamo nelle mani il nostro destino. I giorni migliori per quei ragazzi credo fossero proprio quelli che attraversavamo insieme, loro giovani entusiasti, noi meno giovani ma non certo meno entusiasti, e non contavano i risultati incerti di partite da non essere considerate nemmeno degne di un vero arbitro, con la divisa gialla e tutto il resto a posto. I giorni migliori sono quelli dell’età dei miei figli, quando puoi credere a qualunque cosa, e nessuna favola è troppo impossibile da

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credere vera, quando guardare il mondo ad occhi spalancati ti fa vedere i colori sui muri di pietra e non le mani aggrappate alle sbarre, la bellezza di un paesaggio d’Africa ed i suoi leoni fieri re della savana, e non le mosche sugli occhi di chi muore di fame lungo una strada di speranza senza fine, lo scintillio di un astronauta alla conquista dello spazio, e non il fumo tetro degli incendi di un bombardamento in una guerra ingoiata dall'indifferenza. Già, vivere l’avventura del calcio a dieci anni ti fa sentire in ogni caso un eroe, e sei pietra e sei leone, sei astronauta e sei campione, e le emozioni si amplificano enormemente dentro il tuo cuore: se un gol faceva la differenza tra la gioia ed il pianto, era però meraviglioso vedere con quale facilità quelle emozioni scorrevano in pochi minuti senza lasciare apparente traccia dietro di loro. Davanti agli occhi un sogno ricorrente, di quelli che spesso fai ad occhi aperti, ma che rimangono a martellarti la testa, pieni d’assurdità e di motivi per ripensarci su. Nel mio sogno, un giorno mi ero trovato a passare per caso davanti ad un'osteria malfamata, ed avendo sete, decisi di entrare. Fui accolto da uno straccio lanciatomi davanti a me sul bancone dall'oste, una persona davvero sgradevole, che fingendo di pulire, ma in realtà ungendo ancora più con quella pezza schifosa che aveva in mano, mi apostrofò malamente, con una voce sgraziata, chiedendomi che cosa volessi. Chiesi un latte di mandorle, perchè ne venivo dalle vacanze in Calabria ed avevo ancora in bocca il gusto stupendo di quella bevanda e lui mi mise davanti un bicchiere mezzo vuoto di pessimo vino, nero come un cuore dannato e fetido di una cantina ammuffita. Alle mie cortesi rimostranze, mi apostrofò ancora più malamente dicendomi che quello era ciò che passava la casa, e se non mi andava bene, peggio per me. Sputò per terra dietro al banco con un rumore orribile della gola, e ci strascicò sopra un piede, sulla faccia una smorfia di sfida. Dissi allora che non mi sembrava giusto.

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Dissi quasi piangendo che non mi era mai capitato di conoscere una situazione così incredibile, e come faceva a tenere aperto un locale servendo solo quello che voleva lui, per tutti, quel bicchiere mezzo vuoto di amaro cancarone color vomito di cane ubriaco. Mi rispose allora che i tempi erano duri, e che lui non aveva nessuna voglia di far nulla perchè migliorassero. D’altra parte, mi disse, quasi rabbonito dalla mia reazione, che posso aspettarmi dai miei clienti? Con quelle facce, con quella voglia di morte che hanno addosso, ci vuol tutta che mi paghino questo. E poi, mi disse, pensavo davvero che in altri locali potevano offrimi di meglio? La vita è tutta qui caro signore, mi disse, e se lei non la sa vivere come la viviamo noi, è solo perchè lei, se lo lasci dire, è un povero illuso, lei ha le fette di salame sugli occhi, lei non sa vedere la realtà, lei è un sognatore. Si trattenne a stento dallo sputare di nuovo a terra, tirò su col naso e guardandomi deglutì chissà quale bestia. Riluttante a farsi vedere dagli altri avventori, tirò fuori di sotto il banco una fotografia e me la mostrò. Lo ritraeva molto più giovane e sorridente, di fianco ad una bella ragazza, al collo entrambi avevano una catenina con la metà di un cuore d'argento. Ai polsi avevano dei bracciali di cuoio scuro, mi disse, con su impressa grande, la scritta “PACE”. Soffiandomi quelle parole vicino all'orecchio, potei sentire l'odore nauseante del suo alito mentre spiegava: una volta credevo in qualcosa, credevo nell'amore di una donna e la amavo, lei mi ha lasciato per un altro. Credevo anche nella gente, era la mia vita, e lo sarebbe ancora, ma mi ha deluso troppo, non ho più fiducia, mi ha tradito troppe volte. Uscii da quel tanfo di vecchio e di rassegnazione, e m’incamminai pensieroso. Forse quell'oste non aveva tutti i torti in fondo.

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Come facevo a vedere la bellezza delle cose, a sentire in bocca la dolcezza di quel latte di mandorle calabrese, e credere davvero che non fosse anche quello, altro che cancarone sofisticato? Quasi senza accorgermene, entrai in un altro locale, mi avvicinai al banco distrattamente e chiesi il mio latte di mandorle. Volgendo intorno lo sguardo, vidi solo visi sorridenti, espressioni oneste, e in quel bar, l'aria profumava di pulito, e i discorsi che si facevano intorno ai tavolini, erano diversi e pacati, solo a volte appena più accentuati forse dalla passionalità di chi esponeva. Parlavano di donne, di calcio e di politica, ma lo facevano in fondo serenamente. Nessuno aveva ragione, ma tutti avevano ragione, e le pacche sulle spalle si sprecavano, erano tutti grandi amici. Il mio bicchiere con il latte di mandorle era lì, di fianco a me sul bancone, dove il barista, un uomo dolce e sorridente, lo aveva posato, senza dire nulla. Forse vide la mia espressione sbalordita, mentre osservano la gente dentro il locale. Delicatamente mi posò una mano sul braccio dicendomi: <<mi scusi signore, sa, la stavo osservando. Mi sembra di capire dalla sua espressione che lei ne viene dal locale qui vicino... >> Lo guardai senza rispondere, ma gli sorrisi debolmente. <<Vada, mi disse, vada anche lei, la stanno aspettando.>> M’incamminai piano, poi più rilassato, mi sedetti al tavolino più vicino, dove un uomo dall'espressione seria ma simpatica, si era già alzato, ed aveva avvicinato una sedia per farmi posto. Posai il bicchiere sul tavolino, e poi, guardando bene in faccia uno per uno i miei compagni di viaggio, dissi: <<allora ragazzi, di che parliamo oggi?>> Vorrei che questo fosse lo stesso bar frequentato dai miei migliori amici.

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Non ho mai terminato quel sogno, non so quale bar dei due fosse reale, quale realmente mi attendesse insidioso, quale dei due uomini diversi eppure così simili tra loro, intendesse mettermi in guardia dall'illusione dell'altro. La pioggia continuava a cadere leggera, e quando svoltai verso la collina, i volti d’alcune persone alla fermata del bus s’illuminarono dei fari della mia auto, così mi ricomposi sul sedile ed azzerai i miei pensieri strani schiacciando sull’acceleratore come schiacciare un mozzicone sull’asfalto. Mentre la luce dei fari fendeva debolmente la prima oscurità, un altro me stesso voltava pagina e sorrideva. Si cominciava.

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Capitolo III Tra noi

"...ed il più grande conquistò nazione dopo nazione e quando fu di fronte al mare si sentì un coglione perchè più in là non si poteva conquistare niente

ed io ti ho sollevato figlio per guardarti meglio perchè non parli e io sto a guardarti

finché rimango sveglio..."

Roberto Vecchioni (Forse non lo sai...)

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"It's no time to make a change just relax, take it easy

You're still young, that's your fault there's so much you have to know

Find a girl, settle down, if you want you can marry

Look at me, I am old, but I'm happy I was once like you are now, and I know that it's not easy

To be calm when you've found something going on

But take your time, think a lot, Why, think of everything you've got

For you've still be here tomorrow but your dreams may not How can I try to explain,

when I do he turns away again It's always been the same,

same old story From the moment I could talk

I was ordered to listen Now there's a way and I know

that I have to go away I konw I have to go

It's not time to make a change, Just sit down, ake it slowly

You're still young, that's your fault There's so much you have to go through

Find a girl, settle down, If you want you can marry

Look at me, I am old, but I'm happy All the times that I cried

keeping all the things I knew inside It's hard, but it's harder to ignore it

If they were right, I'd agree but it's them you know not me Now there's a way and I know

that I have to go away I know I have to go

I know I have to go" - - - - -

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"Non è il momento di cambiare Rilassati, prendila con calma

sei ancora giovane questa è la tua colpa Hai ancora molte cose da conoscere

trovare una ragazza, sistemarti, se vuoi puoi sposarti

Guarda me, sono vecchio, ma sono felice Una volta ero come sei tu ora,

e so che non è facile rimanere calmi quando hai trovato

qualcosa che va ma prenditi tutto il tempo,

pensa a lungo Perché, pensa a tutto quello che hai avuto

Per te sarà ancora qui il domani, ma forse non i tuoi sogni

Come posso provare a spiegare, quando lo faccio,

si volge altrove di nuovo E' sempre la stessa vecchia storia

Dal momento in cui potevo parlare mi fu ordinato di ascoltare

Ora c'è una strada e so che devo andarmene So che devo andare

Non è il momento di cambiare Siediti, prendila con calma

sei ancora giovane, questa è la tua colpa Ci sono ancora molte cose da affrontare

trovare una ragazza, sistemarti, se vuoi puoi sposarti

Guarda me, sono vecchio, ma sono felice Tutte le volte che ho pianto,

tenendo tutto dentro di me E' dura, ma è anche dura ignorare tutto

Se avevano ragione, ero d'accordo, ma sono loro che tu conosci, non me

Ora c'è una strada e io so che devo andarmene

So che devo andare"

Cat Stevens (Father and Son)

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Penso che sia talmente egoistico il nostro mondo d’adulti da privarci della gioia di conoscere veramente i nostri figli, coinvolti dalla debole scusa dei nostri impegni e dei nostri grandi problemi. A volte diventa così difficile parlare con loro perché anche quando lo facciamo siamo in realtà assorti nei nostri pensieri, preoccupati della nostra vita quotidiana fatta di lavoro e di piccole e grandi battaglie, e sottovalutiamo i sentimenti di coloro, così importanti per noi da chiamarli figli. Sottovalutiamo molto spesso il raziocinio, i sentimenti e la capacità d’adattamento alle situazioni dei nostri giovanissimi interlocutori, liquidandoli troppe volte con la scontata e superficiale motivazione delle “cose da grandi”, mentre il loro bisogno di sapere, d’essere spugna davanti ad un mare infinito di nozioni e conoscenza da acquisire, ci spaventa a tal punto da fuggirne precipitosamente ogni qual volta dovremmo essere invece capaci di svolgere il nostro compito di genitori, educatori, insegnanti guida in quelle che invece sono “cose di vita” per ogni persona su questa terra. Vederli su un campo di calcio correre sgambettando dietro ad un pallone in fondo non è altro che rivedere noi stessi bambini e tentare di riappropriarci di quegli anni che ci sono stati rubati troppo in fretta dal tempo che passa. Spesso, fingiamo di cancellare, mentendo a noi stessi, con questo puerile comportamento le nostre delusioni, le nostre difficoltà. Scaricare su di loro piccoli calciatori le nostre passioni migliori o peggiori davvero rischia d’essere il nostro tentativo di rivalsa verso quanto non siamo stati capaci d’essere o non abbiamo avuto la possibilità di fare, alla loro età. Mi accorgo che spesso un breve viaggio in auto solo con uno dei miei figli, magari proprio mentre lo sto accompagnando a giocare una partita, diventa occasione di dialogo, opportunità per scoprirne piccole angolature del carattere, piccoli cambiamenti che anche in lui inevitabilmente il tempo produce, muovendosi verso la maturità ma anche verso la perdita di quel giocoso mondo che viene così bene rappresentato dalla favola di Peter Pan.

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L’eternamente bambino sopravvive soltanto in chi rimane altrettanto eternamente ingenuo, permeabile ad un mondo dove il buono prevale di solito sul cattivo e dove l’immaginifico è reale quanto le persone che si muovono al suo interno, in fondo prigionieri comunque di se stessi e di un limitato territorio, al di fuori del quale nulla ha più i colori della mente, ma soltanto il grigio uniforme della vita ordinariamente vissuta. E così, alla ricerca dell’Isola Che Non C’è ed al tentativo immensamente impossibile di rimanere all’ancora entro qualcuna delle sue baie più accoglienti, dedichiamo tutti i nostri anni più belli ed ingenui, sovente portandoci al fianco amici fidati che perderemo per strada, ed ancora più spesso aggrappandoci alle ali sottili di una fatina libellula che crediamo ci guidi proteggendoci dal nemico di turno. L'orologio del coccodrillo del tempo scandisce le sue ore anche per noi, per quanto la nostra fantasia ci prolunghi l'agonia restituendoci ogni tanto all'approdo dell'Isola. Moriremo crescendo, è vero, dimenticando tutto ciò che siamo stati per arrivare a quell’età dove delle persone che ci stanno intorno capiremo meglio il lato più cattivo, dimenticando il piacere di ridere per il solo gusto di ridere, e dimenticando la fiducia negli altri, soli, arcigni, avari custodi dei sogni che non abbiamo fatto in tempo a sognare. Vivremo pur avendo inconsapevolmente ucciso in noi le certezze della nostra esistenza infantile, certi ora, invece, di altrettante verità non certamente più piacevoli, nemmeno più spiacevoli, e tanto meno diversamente desiderabili, semplicemente consone al nostro comune ed improbabile regolamento di vita civile da prigionieri sul vascello fantasma di un Capitan Uncino eternamente in fuga dall’inevitabile rintocco della sua mezzanotte. Pensare cosa esista di più bello del sorriso di un bambino è impossibile, se pure affermarlo ricade nella retorica.

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Quante volte mi sono trovato a tirare un sermoncino ai miei figli perché fossero più seri, perché smettessero di ridere come i pazzi, per poi rendermi conto magari proprio mentre parlavo, dell’assurdità di quanto stavo dicendo: proibire ad un bambino di ridere è impossibile ed in fondo ingiusto. Per fortuna loro si dimenticano subito dei rimproveri, e tranquillamente riprendono dopo pochi secondi le loro risate. Quel giorno, superato il traffico del venerdì avevo raggiunto casa e preparata rapidamente la borsa con l’occorrente per la partita di mio figlio. Staccarlo dal televisore si rivelò un’impresa come il solito ardua, ma alla fine, aperta la porta di casa e chiamato al piano l’ascensore, lui mi raggiunse, chiudendosi la porta alle spalle non senza un lieve sospiro di sconforto. Salì in auto al mio fianco, un piccolo strappo alle regole che gli concedevo solo in quelle occasioni, quando mi piaceva saggiarne un pochino l’umore, e magari dargli gli ultimi (inascoltati) consigli per la partita. Sapevo che quel giorno, come tutti i suoi compagni, era molto caricato dalla prospettiva della doppia sfida, perché si affrontavano gli amici-rivali di sempre, contro i quali non si era mai riusciti a fare risultato positivo, e così ogni volta che ci incontravamo con loro, si trattava di una sorta di rivincita continua, sempre più spesso giocata con agonismo e grinta, poche volte con lucidità e bel gioco. Mi raccontava di una giornata di scuola mai come tutte le altre, con sempre nuove cose da scoprire ed imparare, entusiasta della storia degli Egizi e dello studio dei primi cenni sul come è fatto il nostro universo, con la Terra, il suo satellite la Luna, il Sole che sembrava impossibile che fosse così grande se sembrava così piccolo, la matematica, una sua piccola passione. Iniziò dopo poco a chiedermi se davvero avremmo giocato due partite contro di loro, e se pensassi avremmo vinto, stavolta.

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Sapeva di incontrare avversari forti e motivati a mantenere la supremazia quanto noi lo eravamo a cercare di ribaltare la tendenza storica. Parlava un po’ a testa bassa, come spesso faceva quando dentro di se pensava di voler dire qualcosa d’importante, ed era così alla ricerca delle parole giuste per propormi i suoi ragionamenti. Non era timido, affatto, ma dotato di quella sensibilità che al bambino fa rendere consueto pensare e vedere più lontano di un adulto, non possedendo del tutto i termini per spiegare. Sapevo che anche per lui era importante quel momento di confronto, noi due soli nel traffico, la radio in sottofondo, parole da scambiarci tra uomini e qualche sorriso per non pensare troppo alla gara che andavamo ad affrontare. Lui ha scelto il ruolo di portiere, ed è questo l’inizio del secondo anno che copre questo ruolo, il terzo anno da che iniziò a giocare al calcio, senza realmente essersi mai troppo interessato di pallone e calciatori, fatta salva qualche sera passata allo stadio a vedere giocare il nostro vecchio Genoa, passione-malatia-maledizione che ho trasmesso ai miei figli, e dalla quale non si può guarire. Non credo sia destinato a divenire un fuoriclasse nel calcio, non m’interessa molto, non penso di crescere in casa campioni, come qualche, troppi, genitori restano fin troppo a lungo convinti, fino alla delusione dell’arrivo dell’adolescenza, quando cambiano radicalmente gli interessi, e spesso al pallone si riserva ormai soltanto una parte marginale della propria esistenza. Quello che reputo importante è che i miei bambini possano crescere educati anche allo sport, il calcio in questo caso, ma non soltanto, perché le regole e l’educazione sportiva prendano una parte importante nel loro essere uomini di domani, orfani di Peter Pan ma probabilmente altrettanto nostalgici di me della scintillante fantasia di un mondo di immaginazione. Lui, ha spesso affermato che da grande però, non vorrà mai fare il calciatore, preferisce occuparsi d’altre cose più interessanti, non so come dargli torto, e anche se stuzzicandolo con la domanda di cosa

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avrebbe pensato se un giorno fosse potuto andare a giocare proprio nel suo Genoa, gli avevo una volta visto brillare gli occhi per un attimo, pensavo che se fosse diventato un discreto portiere, si sarebbe saputo divertire in qualche piccola squadra o con gli amici delle partitelle serali. Bene, il discorso andrebbe anche per molti altri che ho avuto occasione di vedere, non solo nelle nostre squadre, ma anche in tante altre di tante altre società. In tre anni ho visto soltanto due, forse tre bambini, che ora, e sottolineo ora, mostravano i segni di una bella predisposizione al calcio, movenze da futuri campioni, numeri da lasciare spalancati gli occhi. Due o tre bambini tra centinaia in qualche decina di squadre di ragazzini di tutta la città. Probabilmente quegli stessi bambini non avranno mai la soddisfazione, se così si può considerare, di calcare grandi campi, ma resteranno nell’oblio della periferia sportiva, o rinunceranno una volta cresciuti, tornando magari a calpestare un’area di rigore solo quando avranno dei figli da accompagnare su di un campo di calcio. Sento spesso affermare che sono i genitori la rovina del calcio giovanile. Anche se a volte questa idea l’ho condivisa per le tante scene stupide che ho visto ai margini dei campetti, credo sia in parte ingeneroso ed in parte eccessivo non considerare naturale l’entusiasmo provato da chi vede i propri bambini giocarsi una partita, un campionato, un risultato, comunque in una qualsiasi competizione. Eccessivo e folle senz’altro è non capire che di fronte ai propri figli ci sono altri bambini come loro, a volte seduti allo stesso banco della stessa scuola per molte ore al giorno, anche amici fuori da quel campo, da quel breve momento, in cui avversari e mai nemici si confrontano in un gioco.

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Ho visto un padre mortificare senza vergogna un bambino avversario fino a farlo piangere ed altri irretiti dall’agonismo, dare in escandescenze per un rigore negato a loro favore mentre vincevano dodici a zero. Ho visto insultare e minacciare con astio un giovane arbitro smarrito nel proprio ruolo d’educatore e giudice. Ho visto anche madri trasfigurare urlando al proprio bebè di falciare l’avversario e pur silenziose, pensare troppo sonoramente per non udirle, se fosse possibile spezzargli una gamba: qualche altra madre in quello stesso momento ed altrettanto rumorosamente pensava lo stesso a parti invertite. Per loro forse la punizione più giusta sarà ciò che penserà di queste esaltazioni e di loro stessi, genitori, il loro figlio, quando se non adesso, ma più cresciuto, si troverà a cercare un modello da imitare nella sua vita d’adulto. Chissà perché, ma qui mi ritorna in mente un vecchio film con un magnifico Vittorio Gasmann, il film era “I mostri” credo, e Gasmann impersonava un padre impegnato a mostrare la vita al figlio, facendo di tutto per insegnargli il peggio ai danni del prossimo, con la strafottenza e la presunzione del furbo io e scemi tutti gli altri. Il film finiva con la fotografia di quel padre, ammazzato per quattro soldi dal figlio, sulla prima pagina di un giornale. Mio figlio quella sera aveva voglia di giocare ed aveva voglia di vincere la sua partita personale. Avere in squadra ben quattro portieri voleva dire giocarsi una discreta competizione tra loro, per chi avrebbe ricoperto un ruolo di primo piano in quella stagione. D’altra parte, se pure i bambini sapevano che tutti avrebbero giocato la loro fetta di campionato, era evidente in ognuno di loro la voglia di primeggiare agli occhi dell’allenatore e dei compagni, stabilire

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silenziosamente una sorta di graduatoria tra loro dove ognuno dei quattro cercava di arrivare in cima. Così ogni volta dovevo cercare di spiegare che un gol in più o in meno preso rispetto al compagno di turno, non era così importante e determinante, e che d’altro canto, le partite si vincono e si perdono insieme a tutta la squadra. Meriti e colpe si possono sempre suddividere con i compagni, con gli allenatori e con i dirigenti, mai sono da riferire ad un solo giocatore per quanto determinante nel singolo episodio. Cercai di fargli capire ancora una volta che nel calcio gioca tutta una squadra, e che nella squadra contano addirittura anche coloro che non giocano una partita. Arrivare primi od ultimi in un campionato, coinvolge dal primo all’ultimo giocatore della rosa, per quanto bene o male quello stesso giocatore possa aver fatto durante tutto l’anno, e feci l’esempio di un giocatore in serie A, che appena arrivato in una nuova squadra si infortuna seriamente, tanto da non poter giocare per tutta la stagione. Ebbene, dissi, anche lui darà comunque il suo contributo a ciò che saprà fare la squadra, e sarà un contributo anche in incoraggiamento ed impegno nel recupero dall’infortunio. Se la squadra vincerà lo scudetto, o se sarà retrocessa, sarà anche per merito o demerito suo, nonostante il fatto di non aver giocato magari neppure un minuto in tutto l’anno. Quell’anno avevamo in rosa ben sedici bambini, alcuni dei quali appena arrivati e magari più digiuni dello stare in campo rispetto ai compagni che già giocavano da noi da almeno due anni. Iniziava ad essere un discreto numero, nonostante fossero troppo pochi perché consentano ancora di preparare una squadra per l’esordio ad undici giocatori, a cui, però mancavano ancora un paio di stagioni, e ci sarebbe stato tempo per portare la rosa ad almeno una ventina di bambini prima di allora. Ognuno di quei sedici avrebbe disputato le sue partite, magari qualcuno più bravo, n’avrebbe fatte più di altri, ma tutti avrebbero

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avuto il loro spazio e la loro soddisfazione, anche perché, se l’allenamento è importante ed è importante parteciparvi con impegno, è la partita della domenica quella che maggiormente stimola la voglia di fare dei ragazzi, e tutti vogliono esservi protagonisti. Ed è anche il bello di una realtà di quartiere come nel caso della nostra società, che consente a tutti i ragazzi, indipendentemente dalla loro forza e del loro talento nel contesto assoluto di una stagione, di esprimersi comunque, grosso modo con gli stesso tempi di impiego in campo di ogni altro compagno anche più bravo. Questo consente al giocatore meno dotato o comunque più in ritardo nell’apprendimento del suo ruolo, di guadagnare fiducia in se stesso mettendo in pratica quanto appreso negli allenamenti, ed allo stesso tempo costringe anche i migliori a non ritenersi indispensabilmente superiori agli altri, ed a moltiplicare gli sforzi di apprendimento e miglioramento per non perdere il passo rispetto ai compagni. Fiducia e stimolo mi piacciono quali criteri di educazione ad uno sport di squadra come il calcio. Occorre indubbiamente anche un grosso sforzo di comunicazione tra le varie parti della squadra, ed un’identità d’obiettivi conclamata, in particolare tra la dirigenza sportiva e gli istruttori, perché non vadano dispersi in inutili e dannosi conflitti interni i vantaggi e gli intenti positivi di questa filosofia di approccio al calcio giovanile. Mentre parlavo con mio figlio, scorrevo mentalmente nomi e ruoli dei suoi compagni, come avere davanti un album di figurine, di quelli tutti pieni di calciatori famosi, con l’immagine della perfetta rovesciata in copertina, con la grafica del pallone che vola verso la porta, con tutti i colori del mondo, i tabellini, le brevi biografie, gli scudetti, coppe, trofei e storia dei campionati. Ma dove i calciatori hanno tutti il sorriso impenitente di un bambino dagli occhi grandi e poco più di dieci anni.

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Dove le squadre in quelle immagini dalla posa studiata e consueta, dietro in piedi a braccia conserte, davanti accosciati e tutti con un sorriso sicuro e fiero, hanno invece le pose un po’ scomposte ed irridenti di una banda di scalmanati attorno a qualche adulto che s’intuisce più spaesato di loro. In ognuno di quei calciatori, con tante diverse sfumature, potevi trovare quell’aria un po’ canzonatoria di chi ti guarda lato obiettivo della macchina fotografica, e sa di avere il mondo in tasca e la vita davanti. Ecco, mi piacerebbe presentarveli tutti uno per uno perché più avanti possiate riconoscerli quando anche senza nominarli, ve li troverete tra le righe ad essere protagonisti di un azione, in quelle due partite raccontate in questa storia. Non saranno queste, fotografie fredde delle persone che incontreremo più avanti. Andando a rileggere quanto raccontato in precedenza su parecchi di loro, già protagonisti dei miei ricordi messi su carta, ne riconosco alcuni tratti, ma allo stesso tempo mi rendo conto di quanto loro siano cambiati e cresciuti, tanto da essere spesso bambini completamente diversi da quelli che descrivevo nemmeno due anni fa. Per alcuni sono cambiati i ruoli, per altri il carattere ha subito quelle lievi modifiche che nel corso degli anni li porterà ad essere uomini veri, e sin da ora riesco a vederne i tratti di adulti, ognuno con le sue qualità e di suoi difetti, ma ognuno devo dire, ragazzo e uomo leale ed aperto, così come oggi bambino leale, allegro e giocoso. Certo li ho visti crescere diventando ragazzini, mentre prima avevi davanti bambini che ti facevano quasi tenerezza a vederli correre dietro a quel pallone sempre troppo grande per loro, e sempre troppo difficile da controllare come fosse una zanzara impazzita. Inoltre, ci sono state occasioni, come al raduno dell’anno scorso, quando a rivederli dopo soli tre mesi, alla ripresa della stagione, mi sembrò di avere davanti altre persone, tanti erano cresciuti in fretta, tutti: avendoli lasciati a giugno, me li ritrovavo a settembre che

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avevano quasi la parvenza di veri piccoli calciatori, e già le loro maglie, non erano più un assurdo saio informe, ma li ricoprivano come vere divise da gioco, pur sul fisico spesso ben poco massiccio di bambini da scuola elementare. Mi piacerebbe presentarvi tutta la banda di quest’anno, protagonista di questa storia di un giorno, che potrebbe tradursi come al solito in storia di una stagione intera. Ci sono i ragazzi che formano il nucleo storico della squadra, quelli che da ormai tre anni vestono la nostra maglia e sudano sul nostro campo, e ci sono i nuovi compagni, i ragazzi arrivati alla fine della scorsa stagione, od all’inizio di questa presente. Qualcuno si riconoscerà certamente e forse penserà non appropriato ciò che legge di se stesso, ma di ognuno credo sia giusto che io dia l’immagine che porto con me, a volte certo suffragata soltanto dalle sfumature che ho vissuto in questi anni o mesi in loro compagnia, a volte talmente distante dalla realtà perché volutamente idealizzata da rendere il personaggio diverso dal vero e fine alla storia: per tutti, indistintamente, un grande affetto.

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Capitolo IV I vecchi guerrieri

“…tirai una freccia in cielo per farlo respirare Tirai una freccia al vento per farlo sanguinare

La terza freccia cercala sul fondo del Sand Creek…”

Fabrizio de Andrè (Sand Creek)

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Ettore era ancora uno dei quattro portieri della squadra, in seguito avrebbe deciso di cambiare ruolo, forse curioso di provare l’altro lato del pallone, ma sapeva sempre essere al suo posto, spirito dall’apparenza indolente, ed invece sensibile a tutto ciò che lo circondava, soffriva della sopraggiunta concorrenza, ma ne faceva un’arma a suo favore nell’impegno e nella serietà del ruolo. Da sempre era “il portiere”, e tutti ricordavamo che nel primo anno, si era in pratica imposto di non ammalarsi mai, nemmeno un raffreddore, nemmeno una leggera influenza, per essere sempre tra i pali, ed era riuscito a non saltare nemmeno una partita, consentendoci allora di giocarle tutte, ed anche di vincerne con qualcuno di quelli che i commentatori amano chiamare i ”veri interventi prodigiosi”. Da non crederci, la maglia gialla come un talismano, sempre indossata su quei lunghi pantaloncini neri, e se un tempo lui ci spariva quasi dentro, indossava almeno un paio di taglie in più, adesso era cresciuto abbastanza da riempirla veramente, con il suo stare tra i pali sempre tranquillo e sicuro pure con quell’aria ciondolona che ti faceva sempre temere di vederlo sonnecchiare appoggiato ad uno dei pali. I suoi guanti, anche quelli gialli, ed anche quelli sempre troppo grandi per lui, coprivano le mani ben sicure su tutti i palloni, e le vedevi muoversi quasi a contrappeso del corpo quando l’avversario lo puntava e lui quasi immobile, preparava il balzo, il tuffo che arrivava quando non te lo aspettavi più, convinto come ti lasciava che non si sarebbe mai mosso dalla sua linea di porta, ultima Linea Maginot. Quando a volte, specie nella stagione estiva, indossava anche una “bandana” gialla, al posto del consueto cappellino per ripararsi dal sole, sembrava voler assomigliare ad un pirata, comandante del suo vascello, della sua area di rigore. Non diceva ancora nulla, ma si capiva che pativa dell’arrivo degli altri portieri, che lo mettevano ora in una stretta competizione, dopo due anni da titolare fisso.

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In effetti, al massimo aveva condiviso il ruolo nella stagione precedente con mio figlio che, però aveva appena iniziato, e da lui poteva solo imparare. Tecnicamente Ettore era bravo nella parata sia su tiri da lontano che nelle uscite, mentre doveva migliorare l'istinto sugli interventi ravvicinati, e sui calci piazzati, sui corner in particolare. Anche sui lunghi rinvii dalla difesa avversaria, a volte sembrava poco reattivo, e specialmente nei primi minuti di gara bisognava tenerlo bene attento, in quanto mostrava una preoccupante propensione a non accorgersi della gara iniziata. Scaldato il motore, rappresentava una buona sicurezza, e sebbene sempre poco plateale, sapeva effettuare splendide parate salvando la sua rete quando ormai credevi la frittata fatta. Qualche mese dopo Ettore avrebbe cambiato ruolo per scelta, e avrebbe ricominciato a divertirsi come un tempo tra i pali. Gianni, la mia vecchia roccia della difesa, dopo un periodo un po’ complicato, aveva ripreso fiducia in se stesso, e tornava a dominare gli avversari con il suo fisico importante, e con i suoi interventi puntuali, di rado fallosi, affinando sempre più il controllo di palla, cosa che gli consentiva di recuperare, gestire ed impostare l’azione, senza buttare via palloni nella nostra metà campo. A volte ancora in difficoltà quando si trovava davanti avversari più esili di lui, certi trottolini bassi e veloci che ancora non aveva imparato a frenare proprio con il fisico superiore, ma che spesso si lasciava scappare esitando nell’intervento o lasciandogli troppo spazio di manovra, forse ancora per paura di far male all’altro. Quando però trovava avversari con cui era necessario mettere la competizione sul piano della forza, sembrava galvanizzato, e senza mai una parola di troppo gli si appiccicava addosso inesorabile e spalla contro spalla, petto contro schiena, faceva valere la sua forza scatenando spesso gli applausi del pubblico e l’ammirazione dei compagni.

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Se, come dicevo, nella stagione precedente aveva dato qualche segno di stanchezza, arrivando perfino a dirmi che avrebbe voluto cambiare sport, era comprensibile, visto che forse si accorgeva lui stesso della sua difficoltà a fronte di piccole belve scattanti, lui che della potenza era il re, avrebbe forse dovuto sacrificare tra qualche anno la gioia della forchetta, per le gioie del calcio, arrivare a quella condizione ideale dove qualche piccolo sacrificio avrebbe potuto portarlo, ma a dieci anni fa ridere pensare di dire a un bambino di mangiare con moderazione, e mi viene in mente quando da bambino io stesso venivo chiamato “forchetta”. Già invece me lo vedevo tra altri dieci anni, anche meno, in forma e possente torreggiare al centro della difesa della nostra prima squadra. Un giorno che sapevo di trovarlo particolarmente giù di morale, nel suo periodo grigio, lo presi da parte, lui mise su una faccia da scocciato come spesso in quei giorni. Parlando chiaro, gli dissi che la domenica successiva, volevo che giocasse al meglio, e la finisse di far finta di non interessarsi della cosa, sapevo che la sua era una mascherata, e che lui a dispetto di un apparenza perfino irridente nei nostri confronti, pativa molto di quella situazione. A chi la voleva raccontare, quella delle arti marziali ed altre baggianate del genere, quando tutti vedevano gli occhi tristi, quando usciva dal campo dopo una prova mal riuscita, dopo una partita giocata in affanno. Miracolosamente, mi guardò dicendomi solo che per lui andava bene, e mi avrebbe fatto vedere che ci teneva. Fece una discreta gara, penalizzata forse ancora un pochino dalla paura di sbagliare, ma senza mai tirare indietro il piede, senza farsi prendere in giro dagli avversari, giocando a testa alta, senza pensare ad altro che alla squadra. Diego sta diventando sempre di più il giocatore vero che avevo visto in un bambino di sette anni.

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Non ha paura di nulla, combatte come un leone inferocito, ha settemila polmoni e sta imparando a migliorare tutte le qualità che già possiede naturalmente. Il coraggio no, quello non ha bisogno di migliorarlo, anzi, volesse, potrebbe venderne a qualche avversario che a ben vederlo spesso se ne intimorisce. Nel colpo di testa diventa padrone assoluto della sua area di rigore e del centrocampo sui rinvii del portiere avversario, trovando sempre la posizione giusta per far ripartire la propria squadra, sfruttando il contropiede immediato, sfruttando la sua velocità e quella di qualche compagno sulle ali, o il dribbling devastante di altri. Sorridente e scherzoso, in allenamento come in partita è concentratissimo ed impegnato. Sono ormai un ricordo lontano i ripetuti richiami a mantenere il corpo ben posizionato nell’atto di calciare la palla, e spesso sfrutta la sua potenza di tiro, quando si trova sulla trequarti o al limite dell’area, dopo una delle sue discese devastanti. Nella struttura fisica è quanto di più simile ad un vero giocatore si possa vedere sui campi delle giovanili alla loro età, tralasciando certe piccole grandi incongruenze che donano un età anagrafica fittizia a giovanotti cresciutelli. A dispetto di un sorriso aperto e sincero, di una voglia incredibile di scherzare, lui sa immedesimarsi fortemente nella gara, dimenticando tutto e tutti fuori del campo, per trasformarsi nel vero condottiero della sua squadra, e dove c’è da lottare, dove c’è da soffrire, correre e vincere i duelli, state sicuri che troverete lui, pronto a battersi su ogni pallone sino a rubarlo agli avversari travolgendoli con la sua forza cinetica ed il suo coraggio. Spesso paga negli ultimi minuti delle partite, l’inevitabile stanchezza per aver dato tutto, proprio tutto, anche nei momenti in cui la gara potrebbe essere gestita tatticamente in modo più tranquillo, e questo, può ancora essere un difetto da eliminare, migliorando però non tanto il gioco individuale, quanto la capacità di squadra di organizzarsi al meglio per non buttar via energie preziose, quando

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gli altri magari ti aspettano al varco per colpirti quando proprio non ce la fai più. A quest’età diventa difficile farti capire di risparmiare le energie, di dosarle al meglio per arrivare in fondo senza essere completamente sfiatato. In effetti, spesso abbiamo pagato l’irruenza sua e di qualche altro giocatore, proprio negli ultimi minuti, buttando via occasioni d’oro e lasciandoci battere da avversari più freschi e sornioni, quasi mai troppo superiori a noi per forza tecnica. Diego diventerà probabilmente il vero leader della squadra, se saprà gestirsi al meglio, senza pensare di essere un campione, ma vivendo al meglio le capacità naturali che ha, e migliorando quelle acquisite con l’allenamento. Per ora resta incredibile vederlo volare da una parte all’altra del campo come un folletto onnipresente in ogni zona, il viso rosso della corsa e della gioia. Simone e Roberto sono i due gemelli della squadra. Non nel senso di gemelli del gol, anche se spesso ci hanno abituato a gioire delle loro prodezze e delle loro reti, ma proprio nel senso che sono fratelli e gemelli, quasi identici, al punto che mi viene in mente un buffo aneddoto da raccontarvi. Quando ad inizio della scorsa stagione andai presso l’ente di promozione del campionato che dovevamo affrontare, la UISP per il Torneo Tanganelli, per richiedere i cartellini di tesseramento per la squadra, l’impiegato un po’ smarrito si rigirava tra le mani le due coppie di fotografie dei gemelli, sapete, le tipiche foto formato tessera, chiaramente distinguibili per me che conoscevo i bambini, certo meno per lui che deve aver pensato ad uno scherzo. Dopo parecchi secondi d’indecisione, ecco che mi dice: <<vabbè, una o l’altra tanto fa lo stesso…>> no, gli dico io che non fa lo stesso, mica è un’offerta speciale prendi due paghi uno, sono persone, due, fratelli, ma mica la stessa persona, e intanto gli riordinavo le foto appaiandole, Simone da una parte e Roberto

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dall’altra, ma non è che lo vidi troppo convinto ed ha continuato a guardare le fotografie un bel po’ prima di passare alla prossima, sempre continuando a brontolare da solo e senza guardarmi ridacchiare della sua perplessità, del resto abbastanza legittima e giustificata. Giocano in ruoli molte volte diversi, perché comunque diverse sono le loro attitudini, anche se entrambi corrono da matti, sulle loro leve all’apparenza esili, ma tutte nervi e velocità, potenza ed agilità. Tagliano il campo forsennati ma pronti al numero incredibile, al passaggio smarcante, o al tiro improvviso che sorprenda il portiere avversario. Se non eccedessero a volte in qualche colpo di tacco da infarto magari al limite della nostra area, sarebbero perfetti, tutto cuore anche loro, e questa devo dire che è senz’altro una delle caratteristiche di tutta la squadra. Lo scorso anno i ragazzi spesso si facevano prendere dallo sconforto appena sotto di un gol, con il risultato di perdere partite che potevano anche essere ribaltate, e tornare in campo la volta successiva con la certezza di buscarle, prendendo di solito reti nei primissimi minuti di gara. I gemelli si cercano in campo, si trovano spesso, realizzando anche azioni bellissime, e proprio gli scambi tra loro rappresentano spesso il fulcro della nostra manovra, chiudendo il triangolo con un altro protagonista che vedremo più avanti. Crescendo, anche loro hanno, entrambi, la buona probabilità di diventare davvero bravi, e spero che la loro abilità rimanga a lungo al servizio di questa squadra, dei colori che hanno dimostrato sempre d’amare, portandoli addosso non solo in occasione delle partite o degli allenamenti ma stretti al cuore come cosa propria. Mattia come vi dicevo, è mio figlio, anche lui portiere, dopo un primo anno d’esperienza a ricoprire diversi ruoli, dall’attaccante al difensore, tutto sommato senza grandi risultati, mentre in testa aveva soltanto di potersi finalmente infilare i guanti da estremo difensore,

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e riuscì a farlo dal secondo anno, quando il preparatore dei nostri portieri, accettò di metterlo alla prova una sera, con esiti abbastanza soddisfacenti da fargli dire che pure con molto impegno necessario, con l’assiduità agli allenamenti e la passione, il bambino poteva provare a diventare ciò che più gli piaceva. Il giorno dopo ebbe la sua prima maglia da portiere: scelse un magnifico arancio e nero, il numero uno sulla schiena. Lo penalizzava forse un pochino la statura non ancora altissima, confrontandola con quella d’altri piccoli portieri della sua stessa età, e una certa propensione alla svagatezza, alla gioiosa giocosità, che, in particolare durante gli allenamenti, lo portava a distrarsi facilmente, impegnato magari di più a sostenere uno scherzo con qualche compagno pure giocherellone, che a guardar palla. Per contro, era tutto preso dal ruolo non appena dall’allenamento si passava alla competizione, e così, in partita, sfoggiava spesso una concentrazione da fare invidia, ed assumeva un’aria tutta seria persino buffa a vedersi. Corrucciato anche, quando per lui il sorriso era il primo gesto di mattino al risveglio, e l’ultimo la sera prima di addormentarsi. Simpaticamente, il suo preparatore, lo sfida prima della partita con una scommessa, sempre uguale, ma che ha sortito buoni effetti, dicendogli che non riuscirà a rinviare il pallone oltre la metà campo, e lui gli sorride ma ha imparato così a sferrare certi calcioni alla palla da vincere sempre questa sfida, e nello stesso tempo migliorando le sue capacità in un ruolo che decisamente è complicato e ricco di responsabilità. Il ruolo del portiere richiede, infatti, una maturazione più lunga rispetto ad altri ruoli, oltre che una struttura fisica appropriata e un lavoro in allenamento molto differenziato. Sebbene mi sia difficile ora qui descriverne gli intendimenti e la gran voglia di diventare davvero bravo, che lui provava, non posso fare altro che ricordare la gran prova di ponderatezza che mi diede durante un partita della scorsa stagione, quando, mentre eravamo sotto di un gol e dopo l’intervallo sarebbe toccato a lui entrare al

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posto di Ettore, per l’ultima e decisiva frazione di gioco, riflettendo sulla sua poca esperienza, andò diritto dal Mister per dirgli che forse sarebbe stato meglio non far uscire Ettore e tentare di pareggiare la partita, e che a lui non sarebbe importato di non giocare, se per la squadra fosse stato importante. Il mister lo guardò come ad un marziano e dicendogli che non se ne parlava proprio lo spedì subito in campo, dove lui sfoggiò imbattuto una prestazione memorabile per poi correre a farsi intervistare dal giornalista presente per il giornalino sportivo del calcio giovanile, tutto orgoglioso nonostante la sconfitta di misura, per essere riuscito a non prendere altri goal in quella che era una delle sue primissime uscite come portiere. Conoscendo la sua determinazione nel sostenere il ruolo che ha scelto, spero che crescendo un pochino capisca inevitabilmente che il miglioramento tecnico è frutto non soltanto dell’impegno in partita. Il miglioramento personale in uno sport, qualsiasi esso sia, è dovuto soprattutto all’apprendimento continuo ed alla serietà sul campo di allenamento. C’è un patto silenzioso tra noi due, e devo assicurare che negli ultimi mesi lo sta mantenendo davvero, togliendosi qualche bella soddisfazione anche a fronte di quanti hanno avuto dubbi sul suo attaccamento al ruolo. Paola è la nostra piccola principessa, ma guai a pensare che sia una mascotte per la squadra. Lei della squadra fa parte ormai da tre anni, e nulla al mondo potrebbe distoglierla dai suoi compagni, dai suoi amici. L’impegno nel migliorare e nell’apprendere che lei ha dimostrato in questi anni, è semplicemente incredibile, ed, infatti, i progressi che ha fatto nel gioco sono il risultato della sua grandissima serietà e forza di volontà. Se qualche volta ancora, pur molto meno che in passato, risulta frenata da una predisposizione atletica non eccellente, che sta affinando crescendo, nello sviluppo muscolare che la penalizza nella

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corsa, ha pur fatto passi giganteschi nel migliorare la tecnica di gioco e l’intelligenza tattica. L’allenamento continuo e la maturazione fisica più precoce rispetto ai compagni maschi l’aiutano nel progresso atletico, mentre una spiccata intelligenza le facilita l’apprendimento. Parecchi suoi compagni faticano a comprendere meccanismi tattici, sia pure semplici quanto lo possono essere quelli insegnati ai bambini, mentre per lei sembra naturale imporre il gioco con un tocco delicato e preciso. E’ stupefacente vederla spalle alla porta distribuire ai compagni palloni su palloni, con un tempismo ed una precisione incredibili, oppure andare in pressing su avversari anche a volte ben più grandi e grossi di lei, ma ostinatamente rincorrerli ed ostacolarli sino a prendere palla e favorire un nostro contropiede spesso messo a realizzazione da un suo lancio preciso. Più di una volta inoltre, si è fatta trovare pronta in azioni d’attacco sottoporta, e puntuale, con un colpo di testa o un calcio di giro ben fatto, ha risolto in gol meravigliosamente. Ricordo un episodio della fine della scorsa stagione, quando arrivammo alla fine di una delle partite del Trofeo Aldo Gastaldi, sul nostro campo, ed erano previsti i calci di rigore per assegnare un ulteriore punto in classifica. Quando il portiere avversario, che già aveva beccato durante la partita, si trovò davanti lei, pronta sul dischetto, si voltò verso i suoi compagni di squadra in maglia rossa, e abbastanza intempestivamente sghignazzando se ne uscì con un commento a voce alta del tipo: <<adesso figuriamoci se mi faccio fare gol da una femmina…>> Certo mancava solo la promessa di appendere gli scarpini ed i guanti al chiodo prematuramente nell’evenienza avversa. Senza dire una sola parola, ma con un malizioso sorrisetto sulle labbra, Paola prese una brevissima rincorsa, e, lasciando il poverino piantato per terra, piazzò il pallone esattamente all’incrocio dei pali,

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per poi voltarsi ed andarsene sommersa dall’abbraccio e dalle urla di tutti i compagni. Una bella lezione che credo quel ragazzo avrà imparato. Davide era il mio capitano di due stagioni fa e di quella dopo, probabilmente di sempre. Davide rappresentava ciò che ci si aspettava da lui, e lo sapeva. Se penso ad un capitano per la mia squadra, vedo Davide con la fascia al braccio, e quella fascia con la “C” scritta sopra, l’avevo acquistata io gialla e fiammante il giorno prima di una famosa partita di due stagioni fa, proprio per darla a lui, come feci poi, soli nello spogliatoio, chiedendogli solo se sapeva perché quella fascia volevo la portasse lui in quell’ultima partita. Mi ricompensò, come sapete, con una superba e coraggiosa vittoria, insieme a tutta la squadra. Migliorata la tecnica e la fantasia, più deciso nei confronti a centrocampo, dove spesso aspettava l’avversario per ingaggiare duelli fatti di finte ed eleganza nei movimenti, mai troppo frenetici ma precisi e fluidi, con i quali lo lasciava sul posto o lo costringeva al fallo inevitabile per non lasciarlo andare in porta, pronto a scoccare con il suo sinistro il tiro vincente. Doveva costruire ancora un carattere più sicuro dei propri mezzi, infatti, a volte lo frenava una certa disistima delle possibilità sue e della squadra. A volte si diceva preoccupato, prima di qualche partita importante che temeva di perdere, di non fare bella figura, e non era facile cercare di caricarlo a dovere. Lui, era pronto ad abbassare gli occhi davanti ad un incoraggiamento, come a pensare di non meritarselo, mentre sono sicuro vorrebbe credere di più e questo gli farebbe fare un altro enorme salto di qualità, anche così giovane. Sta cercando di migliorare il controllo ed il tiro anche con il piede destro, e l’impegno che ci mette darà sicuramente buoni frutti, anche se è con il sinistro che si esprime al meglio, tanto che qualche volta

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mi capita di dirgli che potrebbe andare in campo con una gamba sola, la sinistra appunto, e lui sorride, fa una piccola smorfia, poi però riprova all’azione successiva. Magari prova ad accentrarsi un po’, per tentare con il destro di sganciare una di quelle “bombe” che non lasciano scampo al portiere. Assieme ai gemelli, ed ecco che ritroviamo il terzo del trio che annunciavo un po’ di righe indietro, dava vita sempre a scambi eccezionali e molto tecnici, e se loro erano le gambe e la grinta, lui era il cervello ed il piede per ogni azione a centrocampo che dovesse diventare pericolosa per gli avversari, e spesso lo era davvero, così come sul calcio da fermo sarebbe bastato un po’ più di esercizio, e difficilmente portieri anche molto bravi avrebbero potuto opporsi. A volte rimpiango davvero che gli allenamenti di questi ragazzini non danno il tempo ancora di far provare individualmente le soluzioni migliori, e di insistere sulle tecniche specifiche per i diversi ruoli e nelle diverse situazioni che potranno trovare in campo. Probabilmente questo avverrà con il passare degli anni, credo di voler immaginare troppo per loro, e certo non hanno ne il tempo ne la possibilità di allenamenti più lunghi e più numerosi, ma lasciatemi pensare che se volessimo, con l’impegno di tutti, qualcosa in più sarebbe possibile. Demian è il nostro fuoriclasse straniero, nato in Ecuador, era comunque a Genova sin da piccolissimo, ed anzi, soltanto l’anno passato era tornato a visitare il suo paese d’origine che non ricordava sicuramente. Difensore bravissimo nell’anticipo e dotato di un fisico superbo per la sua età, aveva superato le timidezze iniziali della scorsa stagione, ed ormai poteva essere un punto di riferimento preciso per la nostra difesa.

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Tendeva però ad essere poco presente agli allenamenti e così ovviamente perdeva anche diverse convocazioni, rallentando purtroppo il suo accrescimento tecnico. Quando riusciva ad essere in campo, bisogna riconoscerlo, era bello vederlo giocare, e per me, difensore dei tempi di Franceschiello, era una gioia trovarlo a marcare puntuale sull’avversario ai limiti dell’area, e vederlo partire nel giusto attimo per portare via il pallone e scambiare con il centrocampo dando vita ad una azione d’attacco, da un possibile pericolo. Sicuramente aveva bisogno, proprio come un difensore vecchia maniera, dei punti di riferimento in campo. Se gli avversari tendevano a scambiarsi spesso la posizione, o se facevano molto movimento senza palla, rischiava a volte di trovarsi preso in mezzo. Ricadeva allora nell’indecisione che alle sue prime partite lo vedeva addirittura saltellare intorno al pallone senza sapere che farne e regolarmente dribblato dall’attaccante. Ora certo non saltellava più, ma lo vedevi smarrito ed incerto su quale avversario raggiungere, e cosa farne. Con il tempo, e specialmente con il passaggio tra un paio di stagioni al campo ad undici, dove i moduli difensivi saranno ben tracciati, e l’esperienza sarebbe stata ben maggiore, sono sicuro troverà definitivamente la stabilità del ruolo, che lo vedrà marcatore abile, ma anche capace, visto le sue capacità di corsa e di controllo palla, di frequenti incursioni sulle ali avversarie in cerca del passaggio importante, dell’assist, preludio al gol di qualche compagno. Ci sono voluti diversi mesi perché prendesse qualche confidenza con tutti i compagni, ma con il tempo anche questo lato di lui si era lievemente modificato, anche se difficilmente penso di poterlo mai vedere eccedere in frizzi e lazzi o essere meno che perfettamente bene educato nel suo rapporto con gli altri.

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Capitolo V …Ed i nuovi guerrieri

Sui tuoi capelli biondi giocava il vento e poi un volto sconosciuto ha giocato i giorni miei

Un accordo di chitarra non mi basta più, io spingo gli occhi al cielo, un'ala bianca c'è

il giro del tuo sguardo più non vede me quanto buio in un pensiero

dopo il sole insieme a te Un accordo di chitarra non mi basta più

io spingo gli occhi al cielo un' ala bianca c'è Dei fantasmi senza casa, son questi sogni miei

io canto, ma per chi, se tu sei sorda ormai ma una goccia di speranza lenta scende giù

nel giro del mio sguardo un'ala bianca c'è.... Ma di colpo torna il sole se ritorni tu

non ho il tempo di fermarti, ala bianca vai....

Nomadi (Ala bianca)

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Angelo è arrivato quest’anno, ed ha iniziato come difensore, giocando così bene le prime amichevoli da lasciarci stupiti. Se aveva un difetto, era la limitata padronanza tecnica del pallone, e di questo non si poteva farne una colpa, visto che prima di allora non aveva mai giocato in una squadra di calcio, ma anzi, era uno dei pochi che amava la piazzetta dei giardini dove trovava qualche amico per due calci alla palla. Forte fisicamente e già molto alto, ben presto aveva chiesto ed ottenuto di provare anche lui il ruolo di portiere, dimostrando subito che i suoi numeri li giocava sicuramente tra i pali, tra i quattro estremi difensori che a quel punto contavamo nella rosa, quello probabilmente destinato a diventare il migliore se visto da ora in prospettiva. Vedete, ognuno dei quattro aveva una passione quasi scaramantica per il colore della maglia che utilizzava preferibilmente, e se per Ettore il giallo era il colore dominante, e per Mattia la prima maglia e la preferita restava quella grigia e nera, per Angelo una splendida maglia rosa era la compagna ideale per ogni partita che contava. Se spesso si dice che a fare il portiere sono i più matti, i nostri non facevano eccezioni, e Angelo così amava esibirsi in tuffi spettacolari e interventi al limite del plateale, rialzandosi poi svelto con un bel sorriso dipinto sul viso e guardandosi intorno sembrava chiedere conferma se il numero era piaciuto, pronto ad offrire volentieri una replica, non appena l’occasione si presentava. Negli allenamenti non era forse il più disciplinato, ma gli si poteva perdonare qualche disattenzione perché poi la domenica sapeva mettere tutta la concentrazione al servizio della squadra, e difficilmente sbagliava, e quando sbagliava se n’accorgeva benissimo da solo, arrivando anche in qualche occasione a chieder scusa per i gol presi, quasi che in qualsiasi modo fosse sua e solo sua responsabilità far sì che nessun pallone varcasse mai la fatidica riga di porta. Dal momento che Angelo smise la maglia da difensore, la squadra acquistò indubbiamente quello che si poteva definire un titolare

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valido per il ruolo di portiere, forse un tantino a scapito di Ettore, che da lì in avanti si chiuse un pochino su se stesso, arrivando a rinunciare in primavera al ruolo, di Mattia, che comunque riconobbe subito le qualità di Angelo, volendone prendere anche esempio di apprendimento, e di Filippo che anche lui dopo un anno di gavetta, era stato intenzionato a disputarsi qualche titolo di miglior portiere con i colleghi di squadra. Angelo un po’ di giusta megalomania se la fece venire o almeno se la atteggiò, vendendo a tutti volentieri le sue parate come quelle del più bravo del mondo. Guardandolo in qualcuno dei suoi voli tra i pali e la traversa, non mi riesce difficile immaginarlo un giorno, con la sua maglia rosa a difendere la porta di una prima squadra veramente importante, parare l’improbabile e poi voltarsi verso il pubblico come a dire: <<tranquilli, qui ci sono io>>. Filippo, arrivò per una strada simile, iniziando anche lui come difensore per diventare portiere nel giro di qualche mese, e dando vita anche lui al magico quartetto che si sarebbe disputata una maglia, al massimo due per partita, nell’arco di tutta la stagione, almeno fino alla rinuncia di Ettore, ma questo non lo sapevamo ancora. E’ davvero strano come si legga spesso sulle riviste specializzate che il ruolo del portiere è talmente raro nella scelta dei giovani, da rischiare una vera carenza di elementi nei prossimi anni, quando poi, solo in una piccola squadra, ben quattro ragazzi scelgano questa posizione, senz’altro difficile e piena di responsabilità, ma credo anche di soddisfazioni ampie e indimenticabili. La competizione che si andava a creare tra i quattro ragazzi, poteva essere tranquilla o problematica, e sicuramente qualche grattacapo dal punto di vista della gestione della squadra l’avrebbe creato, ma, visto il giusto indirizzo della società, espresso molto semplicemente in un “la squadra è fatta di tutti gli elementi e tutti devono giocare”, sarebbe stato alla fine semplice far capire loro che era richiesto

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qualche sacrificio in più, e che si sarebbero regolarmente alternati, magari a coppie, per permettere ad ognuno di disputare alla fine, un buon quarto di campionato, su di un livello paritario che li avrebbe incoraggiati ad imparare ed accrescere la loro esperienza sul campo. L’impegno negli allenamenti diventava fondamentale per non creare eccessive differenze di capacità nel ruolo, oltre a quelle già dovute alla differente predisposizione, ma questo è inevitabile e si può solo lavorare per migliorare le carenze tecniche, non le doti naturali. Lo stesso discorso valeva evidentemente anche per gli altri ruoli, ed era opportuno secondo me che nessuno potesse pensarsi intoccabile ed indispensabile, sebbene ovviamente su alcuni elementi la squadra dovesse far conto, i ragazzi erano ancora talmente giovani che lo stimolo maggiore della concorrenza, si sarebbe potuto rivelare importante per il loro accrescimento tecnico, e perché no, per la coesione del gruppo. Se ognuno avesse avuto la possibilità di sentirsi parte integrante della squadra, alla quale dare il proprio vivo apporto, la gestione delle convocazioni non avrebbe mai influito sul rendimento della formazione scelta, perché tutti avrebbero cercato sempre di dare il massimo, tutti insieme, evitando che chi gioca meno si senta in qualche modo escluso dallo sviluppo delle azioni, perché i compagni non conoscono il suo modo di giocare, o perché rifiutato alla fine come estraneo al corpo della squadra. Non dimentichiamo che tali situazioni esistono anche a livello di calcio che conta, e qui stiamo parlando sempre di ragazzini di dieci anni. Questa affermazione la troverete spesso, a costo di ripetermi, ma è da tener sempre ben presente, e quando si tratta di calcio giovanile non tutti rammentano questa condizione, rischiando di trattare dei bambini, con le loro attitudini, i loro problemi, le loro svagatezze e le loro capacità, alla stregua di super pagati professionisti. Filippo in ordine di tempo era quindi il terzo a scegliere il ruolo del numero uno e negli ultimi sei mesi, prima del termine della passata stagione, aveva fatto indubbiamente grandi progressi dal punto di

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vista tecnico, lavorando con serietà agli ordini del preparatore Jose, per superare un pochino il freno dovuto ad una struttura ossea importante, che, destinata a supportare un ottima, potente ed allenata muscolatura, in attesa del pieno sviluppo dell’uomo, rallentava un pochino il ragazzo. Ostinato e molto tecnico nel gesto della parata, confidava a volte di voler vincere il trofeo per il miglior portiere nel prossimo torneo che avremmo organizzato sul nostro campo. L’assegnazione era decisa in base alla votazione data dagli allenatori delle squadre avversarie, e per questo ambita ed importante come la conquista del primo posto. Il suo sorriso sempre molto bello ed aperto, si spegneva per brevi momenti solo in occasione delle partite, quando anche lui sapeva trovare un’ottima concentrazione, “sentendo” molto la gara, e dimostrando così tutto il cuore del bambino, che ci teneva, eccome ad essere davvero bravo. Filippo correva subito alla fine dell’allenamento a leggere le convocazioni appese all’ingresso degli spogliatoi, e mentre quando non trovava il proprio nome, con un’alzata di spalle si preparava per la prossima volta, quando lo leggeva, felice rideva e si teneva addosso i guanti, quasi che la partita dovesse aver inizio di lì a qualche minuto. Giuliano era anche lui uno dei nuovi arrivi di questa stagione, un biondino solare e simpatico con tanto da imparare del calcio ma tanta voglia di farlo in fretta e bene. Come sempre con i bambini che iniziavano a giocare, il mister lo proponeva in diversi ruoli per trovarne la migliore predisposizione, e lui si adattava volentieri in qualunque zona del campo, contento com’era di poter giocare. Certo bisognava ancora aver pazienza se da punta qualche gol se lo mangiava, da difensore ogni tanto l’avversario scappava e se il centrocampista dimenticava di lanciare i compagni.

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Ma se senza sbagliare non s’impara, Giuliano ce la metteva tutta per imparare e smettere di sbagliare, ed il suo buon carattere, unito ad una certa dose di cocciutaggine, lo incoraggiavano ad ottenere risultati sempre più lusinghieri. Visto che la mancanza d’esperienza non si può e non si deve chiamare difetto, e qualche difetto bisogna pur trovarlo a tutti, Giuliano aveva la tendenza di ascoltare troppo chi non doveva ascoltare, e lo faceva nel momento sbagliato. Spesso in campo si distraeva per rivolgersi a chi, fuori della recinzione, gli lanciava suggerimenti e consigli, come spesso accade, e, come è naturale, ascoltava più il papà aggrappato alla rete, che il mister in panchina che si sgolava con poco risultato per richiamare la sua attenzione. Così in una partita, Giuliano fece in tempo ad entrare al posto di un compagno, ed uscire nel giro di due minuti, ricostituito dall’allenatore esasperato, che lo aveva visto addirittura fermo a bordo campo a discutere della sua posizione. Sdrammatizzando, ci facemmo tutti una bella risata per quella scena tutto sommato innocente e comica, e poi la colpa, come al solito è più dei grandi che dei bambini, che volete che faccia un ragazzino se sente la mamma o il papà che da fuori gli urlano consigli? Per tutta la vita gli hanno detto di ascoltare solo i genitori, e improvvisamente qualcuno gli dice di ascoltare solo l’allenatore, un tizio che conosce anche poco e che si sbraccia e urla rosso in viso e con la gola gonfia dallo sforzo di farsi sentire, in piedi davanti alla panchina. A parte ogni scherzo, il discorso non riguarda ovviamente soltanto Giuliano che oltretutto era proprio ai suoi primi giorni di calcio, ma è un impegno enorme che ci vuole a far capire e memorizzare ai ragazzi di ascoltare soltanto la panchina, e possibilmente ascoltare con un orecchio e gli occhi rivolti al campo, senza voltarsi verso di noi imbambolati e pronti a prendere una giostra dall’avversario che approfitta subito della situazione. Devo assicurare che però la lezione è servita, è siccome ai mugugni inevitabili per la sostituzione accelerata, è seguita la spiegazione del

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perché, Giuliano da allora dimentica volentieri di avere i genitori che lo guardano giocare a calcio, ed ascolta un po’ di più le sfuriate del mister. Stefano era anche lui biondo ed anche lui arrivato fresco a settembre, e se condivideva con Giuliano la poca esperienza, ne condivideva anche la solarità, forse con una lieve dose in più di timidezza, ma accennata appena dietro il bel sorriso e gli occhi spiritosamente sempre puntati su tutti e su tutto. Con lui il mister non aveva dovuto faticare poi troppo a trovare una posizione in campo che gli fosse congeniale, e Stefano così, si attrezzava ad imparare a far la punta, l’attaccante, abbastanza veloce nei movimenti, ma portato a giocare spalle alla porta, ancora impreciso e precipitoso nelle conclusioni, ma dotato comunque in prospettiva di un buon piede, imparava bene durante la settimana e si allenava a calciare sempre meglio il pallone, colpendo bene con il collo del piede quando di collo doveva colpire, e provando l’effetto d’esterno in particolare, quando gli era consentito. Giocava ancora pochino, ed era bene per lui come per gli altri che con il calcio avevano iniziato da poco tempo, prender prima confidenza con il campo, per non essere buttati dentro vagando da una posizione all’altra disperatamente. In effetti, le istruzioni della nostra società in merito, erano importanti linee guida per allenatori e dirigenti, e mai basate su approssimazione o sufficienza, ma dettate dall’esperienza di chi da diversi anni ne era alla guida tecnica, con il successo importante di aver dato una ragione di socialità a centinaia di bambini e di giovani del quartiere. Ora, qualcuno che dico io mi rimprovererà come sviolinata queste parole, ed, in effetti, si, quel qualcuno avrà perfettamente ragione: l’elogio alla passione ed alla buona volontà non è che il più scarno omaggio che si possa offrire. Quando qualcuno si mette in gioco senza profitto per la gioia di uno sport e per essere amico ed

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educatore di tanti bambini, merita anche qualche parola che suoni più che entusiasta. Stefano allora era sicuro di avere la sua opportunità al momento in cui sarebbe stato presentato in campo, senza dover dimostrare null’altro che quanto aveva appreso nel frattempo, e come lui ci metteva la voglia di imparare, altri ci mettevano la voglia di insegnare. Le due cose insieme davano sempre buoni frutti, non sempre coincidenti purtroppo anche con il punteggio sportivo, ma poco importa, se invece di grandi calciatori, costruisci bravi ragazzi e amicizie che spesso durano nel tempo. Sfogliando in questi giorni alcune riviste specializzate in calcio giovanile, non posso fare a meno di notare come sul campo i risultati spesso arridano a società grosse e strutturate, possibilmente appoggiate già nella prima squadra da forti sponsor, forti di una pubblicità indiretta importante. Il riflesso delle possibilità economiche purtroppo si avverte anche in tutto il loro settore giovanile, ma questo è inevitabile, com’è inevitabile che i più bravi cerchino soddisfazioni maggiori dal punto di vista puramente sportivo, proprio in quelle società. Le nostre piccole realtà, torno a ripetermi, difficilmente, e soltanto in occasione di leve particolarmente dotate, riescono a dominare campionati interi, ma, se in fondo ci basta toglierci ogni tanto la soddisfazione di “bastonare” qualche blasonata, credo in ogni caso non c’interessi troppo diventare importanti come altri se poi questo comporta fare della selezione un principio basilare. I principi che regolano la nostra attività, nostra come di tante altre piccole scuole calcio, sono diversi ed improntati più sui valori di vita che sui valori sportivi. Non è retorica ora, dire che di questo siamo anche un tantino orgogliosi, ma non è l’orgoglio ottuso di chi non si rende conto delle differenze e non vorrebbe a sua volta la possibilità di lottare anche per risultati concreti.

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Non è tanto meno l’orgoglio ottuso dell’eterno secondo, sempre partecipante, mai vincente. E’ fuori moda la massima di De Coubertin, ideatore dell’Olimpiade moderna, per cui l’importante è partecipare? Si, se pensiamo che soltanto chi vince ha la possibilità, anche economica di sostenere le proprie azioni e la propria attività in ambito sociale e sportivo. Chi, come noi si sostiene sulle quote d’iscrizione versate dagli atleti, fa corrispondere ad ogni iniziativa intrapresa uno sforzo enorme umano ed economico, mai riconosciuto dalle istituzioni, perché le stesse hanno maggior interesse a patrocinare e portare avanti nomi ed iniziative che favoriscano e garantiscano un ottimo ritorno in fattore voto ed in ragione di popolarità. Politica greve ma reale quanto lo può essere l’incognita d’ogni anno sul riuscire a restare aperti e vivi, combattendo su un campo di patate dimenticato da chi amministra, regalando anche con l’aiuto delle famiglie, la merenda a chi s’invita per un piccolo torneo, mentre i Golem del calcio locale organizzano oceanici raduni di calcio giovanile. Poi però scroccano sottobanco tre euro per farti veder giocare tuo figlio sul loro campo, fanno man bassa dei trofei da loro stessi messi in palio, complici arbitraggi ruffiani e imbarazzanti, e ti ritirano perfino la bottiglietta d’acqua dallo spogliatoio prima che tu te la porti via, parsimonia innanzi tutto è chiaro, ma io piuttosto la bevo a strozzo, non la lascio. Risultato calcolato di queste operazioni sono somme di danaro esentasse che per dieci giorni di una simile manifestazione, rasentano l’intero bilancio attivo e passivo delle nostre scuole calcio per una stagione particolarmente fortunata, e quello che è peggio è vedere i nostri bambini a volte derisi sul campo da avversari che a parità di possibilità non meriterebbero di fare nemmeno da raccattapalle. Mi chiedo se qualcuno dei genitori di quei ragazzi, che pure non credo tutti in malafede, noti questi fatti.

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Mi chiedo anche se lo stesso genitore non abbia a volte a sentire un senso di vergogna profondo trovandosi seppure marginalmente coinvolto in queste profonde ingiustizie. Quanto accaduto durante una partita a Pietro, è l’esempio del becero umano al di fuori d’ogni comprensione, e di quanto gente abituata alla vittoria facile, (non a caso si sceglie di portare una maglia e si rinuncia al proprio nome ed alla propria storia, ma per calcolo e opportunità), soffra nel vedere i propri figli faticare più del solito ad ottenere ciò che per loro risulta dovuto da parte di chiunque. Un genitore, padre o madre che sia, in quel caso un padre, non può pensare di arrivare all’offesa volgare e maligna verso un bambino di dieci anni, per quanto avversario sul campo. Questo accadde durante una partita, e la cosa nella confusione passò un po’ nascosta: le ragioni della rabbia di Pietro sembrarono diverse e più consuete, tanto da non permettere all’arbitro di focalizzare quanto udito provenire da fuori, ed intervenire presso i dirigenti di quella società. Rimane il fatto ed il fatto rimane talmente grave da rappresentare tuttora uno dei ricordi più brutti uniti ad una partita di calcio di questi ragazzi. Pietro è un gran difensore, alla sua seconda stagione con noi, iniziò un po’ penalizzato dall’essere arrivato a stagione praticamente quasi conclusa, e giocando soltanto un paio di partite, nelle quali mise però in luce un ottimo tempismo negli interventi, ed una forza non indifferente. Mancava come spesso accade, di proprietà tecniche e di precisione, ma quelle col tempo e con gli allenamenti se le sarebbe certamente guadagnate. Infatti, alla ripresa dell’attività, ecco Pietro che si ritaglia facilmente un posto tra i più convocati, grazie ad una applicazione al gioco che sembrava perfino eccessiva a volte, serio o serioso, pochi sorrisi sul campo ma presenza forte e una parola per il compagno in difficoltà, interventi quasi mai fallosi ma puliti e decisi, spesso decisivi.

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Magari non dovrà mai avere la responsabilità di impostare l’azione, ma non gli deve essere richiesto quando con la sua sola presenza regge la difesa e tiene a bada un paio di avversari. Un difetto anche per Pietro? Beh, lui fa il tifo per una squadra che a me va un po’ di traverso, ma che ci volete fare, è pur sempre un bambino… Marco con i suoi occhialetti di plastica fatti apposta per giocare al calcio era semplicemente straordinario. Pochi bambini pure nella loro naturalezza riescono ad essere così spontanei, dolci, educati ma composti e decisi come lui. In campo era una furia dalle movenze di giaguaro, e quando il mister si accorse di lui il ruolo di prima punta fu suo e altri iniziarono a dover imparare da lui per poterlo imitare. Si divorava una media di quattro o cinque gol a partita, in allenamento buttava alle stelle un rigore su due, si incartava fino a crollare sul pallone nel tentativo di dribblare anche se stesso, ma tenace e cocciuto state sicuri che in partita risultava essere spesso decisivo, direttamente marcando un punto o indirettamente portandosi via qualche difensore e aprendo spazi chilometri per i compagni che sopraggiungevano. Non sopportava alcun ingiustizia e spesso abbiamo dovuto frenarlo nei suoi rapporti verbali con l’arbitro, al quale riconosceva certo la massima autorità sul campo da gioco, ma imputava pertanto anche un estremo dovere alla correttezza ed alla precisione, e non sempre questo era un onere applicato, più spesso si trattava di un opzione disattesa. Mai sopra le righe il tono della sua voce, spesso eroicamente inutili le sue rimostranze, anche nel chiuso dello spogliatoio. Ci guardava sconsolatamente triste, quando comunque dovevamo dirgli che decideva l’arbitro e non si contestava nulla, la regola era e restava quella.

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Che altro dovevi dirgli, se non insegnargli la correttezza ad ogni costo, sudario di ogni onesto, costume carnevalesco del falso ed ipocrita mondo degli adulti. Marco in ogni caso ricordava tutto, e anche se alla successiva partita era pronto a prendere calci e lottare, state sicuri che nella rabbia che avrebbe messo in quel tiro vincente, ci sarebbe stata la vendetta per quanto subito la volta prima. Intendiamoci, Marco mette la sua rabbia agonistica esclusivamente nel gioco, nel tentativo di segnare e vincere, e in questi tentativi, spesso le ha anche buscate sul serio: calci e spintoni non gli sono ami mancati, perché quando uno ti scappa via due volte di fila, alla terza anche un ragazzino di dieci anni ti fa la riga per terra e ti dice di qui non passi più. Lui però non ha mai restituito quanto ricevuto, e devo dire che nonostante spesso sia uscito dal campo malconcio, per un ginocchio colpito, per il fianco dolorante per una gomitata, per una zuccata rimediata in mezzo all’area, per gli avversari non ha mai avuto parole dure, in fondo sostiene anche loro lottano per vincere e questo ci sta tutto. Altra cosa è contestare l’ingiustizia subita da un adulto. Enrico, anche lui parte della pattuglia dei nuovi, nel corso dell’anno sarebbe diventato un ottimo difensore centrale. L’allenatore valutandone il fisico, decise di provarlo prima sulla fascia come centrocampista, ma ben presto si accorse che la vera qualità di Enrico era dimostrata quando stava dietro la difesa, come un vecchio libero, ed intercettava ogni pallone ed ogni avversario che superassero la prima barriera, formata di volta in volta da Gianni e Diego, oppure da Demian e Pietro, per quanto già fosse difficile superarli. I palloni recuperati da Enrico raramente finivano buttati via, ma lui approfittava del suo ottimo controllo di palla per venire avanti, mentre qualche compagno scalava in copertura contemporaneamente, ed impostare per il centrocampo, se non

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addirittura arrivare superando un paio d’avversari al limite dell’area per provare il tiro, spesso preciso. Enrico correva molto, a volte commetteva qualche fallo ingenuo o spediva qualche pallone di troppo in fallo laterale, però sbrigava una situazione difficile nell’immediato, dando almeno ai compagni la possibilità di recuperare spazio e rientrare a difendere su azioni che altrimenti si sarebbero potute trasformare in veri pericoli. Non gradiva molto il ruolo di difensore, e forse avrebbe preferito continuare le sue incursioni sulla fascia destra, ma si assoggettava di buon grado e mettendocela tutta, peraltro ricevendo spesso grandi applausi per i suoi interventi risolutori e per l’abnegazione che lo portava a macinare chilometri tra la propria area di rigore e quella avversaria. Con il passare del tempo, il suo tempismo nell’anticipo era migliorato molto, così come aveva migliorato il colpo di testa, senz’altro fondamentale nel ruolo d’ultimo uomo di difesa, per respingere i lunghi rilanci dei portieri o i tentativi di cross delle ali avversarie. Gli applausi lo consolavano del sacrificio, e sentirsi dire d’essere fondamentale se non indispensabile in quella zona del campo, lo inorgogliva e qui tirava forse fuori una piccola dose di timidezza, poco consueta per lui visto che amava essere al centro di burle e scherzetti ai danni dei compagni. Allora, appena rosso in faccia, chinava la testa e scappava via veloce dietro al pallone o fingeva che qualcuno l’avesse chiamato per eclissarsi in un baleno. Qualche novità era quindi arrivata con la nuova stagione, i nuovi guerrieri erano pronti alla battaglia, e ricordo il primo giorno di allenamento al campo, quando non credendo ai miei occhi, vidi girare per il campo una moltitudine di ragazzi e ragazzini, qualcuno era destinato alla squadra di leva inferiore, e ci misi una mezzora buona a fare sommariamente un appello per raccogliere i nomi di tutti, e la restante ora e mezza a raccogliere le schede di ognuno

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insieme ai genitori, e far firmare loro i documenti per l’assicurazione sportiva. Di tutti quelli presenti quel giorno qualcuno non si vide più già la volta successiva, ma rimasero tutti i ragazzi che avete trovato raccontati qui sopra. Non tutti i vecchi protagonisti della stagione precedente erano ancora al loro posto, qualcuno era andato via, ognuno con diverse storie, ed ognuno con diverse conseguenze. Devo dire che ognuno dei ragazzi che non giocava più con noi, in un modo o nell’altro ci mancava, forse solo perché bene o male dopo un po’ ti affezioni a quei piccoli furfanti, o forse perché di ognuno avevo imparato a capire qualcosa del carattere, e di ognuno mi rimaneva impressa una bella ”fotografia” degli stati d’animo, dei sorrisi, o dei pianti di gioia e di tristezza e di tante ore insieme. Alessandro era passato definitivamente con la sua leva d’appartenenza, anche se ogni tanto era convocato dalla squadra ’96, così come Stefano, assieme al quale formava una solida base per la nuova squadra dei più piccoli che quest’anno avrei seguito anche io, e così restavano a far parte della famiglia biancoblu. Juan e Giorgio si erano trasferiti in un’altra zona della città, e così purtroppo li avevamo persi per strada. Marco invece, che aveva sempre abitato distante, ma con tanti sacrifici aveva per due anni partecipato con entusiasmo, aveva dovuto rinunciare alla sua squadra, per trasferirsi ad un’altra, dove poteva svolgere gli allenamenti più vicino a casa, e magari avere qualche prospettiva migliore per il futuro da calciatore in erba. Con lui ci saremmo rivisti in qualche occasione, e non avrebbe mai dimenticato i suoi primi compagni di squadra, tanto che sarebbe tornato in prestito per qualche torneo estivo, pur di riabbracciarli e condividere ancora con loro qualche bell’emozione. Se ci pensate un momento, gli amici più cari che ricordate saranno quelli conosciuti forse alla scuola materna e mai più rivisti, i compagni più fedeli dei nostri primi anni.

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Di loro forse non conservate più l’immagine del viso, ormai sarebbe forse irriconoscibile per il tempo trascorso, ma ricordate qualche parola, qualche modo di fare e di rapportarsi a voi, sicuramente qualche episodio rimasto indelebilmente impresso nel libro della vostra memoria, che quando seppure raramente sfogliate, non può fare a meno di farvi ritornare bambini per un attimo. D’altra parte penso che per ognuno di questi ragazzi sia molto difficile dimenticare uno dei periodi più belli della propria vita, e gli amici che ne hanno condiviso molti momenti, gioie, dolori e fatica, così per noi è difficile dimenticare ognuno di questi nostri piccoli amici, mentre con il tempo ed allontanandosi per altre strade qualcuno di loro, ne cristallizziamo l’immagine, ferma in almeno uno dei sorrisi più belli.

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Capitolo VI Andiamo in campo

“…ci sono poi uomini che lottano per tutta la loro vita, e questi sono gli imprescindibili…”

Goethe

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Arrivammo al campo, a cui si saliva da una stretta scaletta, nascosta in mezzo ad alcuni palazzi. Il campo era proprio nel centro di Genova, e credo sia incredibile come nella nostra città si riesca in ogni modo a trovare ed utilizzare ogni più piccolo spazio per realizzare una struttura sportiva, visto che non siamo certo per nulla avvantaggiati dalla conformazione del territorio. In altre regioni, girando per le strade, provo una certa invidia a vedere quasi ovunque campi da calcio magari in erba vera, altro che sintetico di prima o d’ultima generazione. Accontentandoci di quello che passa il rituale convento, ci preparavamo in ogni caso a vivere una bella serata di gioco. Alcuni dei ragazzi erano già arrivati, e gli altri, uno dopo l’altro fecero capolino nel piccolo spogliatoio, che per l’occasione condividevamo con gli avversari, ma è bello anche questo: in fondo dà un certo fastidio parlare di avversari per questi bambini, quando una delle prime, se non la prima cosa da insegnare loro, dovrebbe essere il rispetto e l’amicizia verso chi anche veste una maglia di colore diverso. Metafora di tanti altri argomenti, che in genere impegnano noi grandi in infinite discussioni poco costruttive, ma che non inquinerebbero il cuore dei bambini, se non fossero proprio i nostri, i cattivi, pessimi esempi, sul come comportarsi con chi può essere differente da noi, per etnia, per religione, per carattere, aspetto, o semplicemente e stupidamente per passione sportiva. A conti fatti, avevamo a disposizione il campo per due partite di fila, una dopo l’altra, ognuna due tempi da venti minuti con un breve intervallo e quindi potevamo mettere in campo due squadre, da contrapporre agli altri, che forse contavano qualche cambio disponibile, mentre i nostri erano giusto otto per formazione, considerando che i quattro portieri c’erano tutti ed avrebbero fatto un tempo ciascuno. Gli altri si sarebbero dovuti sacrificare un pochino e correre per quaranta minuti, ma non credo spiacesse loro poi molto.

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Aperta la borsa delle maglie e terminato di distribuirle a tutti, in mezzo al solito frastuono incredibile, mi resi conto che qualcuno effettivamente mancava all’appello, ed erano i due nostri allenatori, che come seppi più tardi, erano stati trattenuti da impegni di lavoro e non sarebbero arrivati. Mi trovai per qualche istante sperduto in mezzo a tutta quella gente, ed i ragazzi intorno che mi guardavano vociando e ridendo, tutti presi da quanto stavano per iniziare, e senza tuttavia capire il piccolo grande disagio che stavo vivendo. Per la prima volta, in più di due anni, mi trovavo solo sulla panchina, anzi, nemmeno quella mi restava, perché in realtà sapevo di essere chiamato ad arbitrare le due partite, come io stesso avevo chiesto, per far pratica in vista del campionato, ed era ormai troppo tardi per tirarmi indietro. Guardai fissamente in quei lunghi istanti, il foglio che stringevo in mano, leggendo ancora e poi di nuovo tutti i loro nomi, uno dopo l’altro, ma erano i loro occhi che vedevo dietro a quelle righe, ed erano le loro voci allegre che mi riempivano la testa, per fortuna impedendomi di soffermarmi troppo in quell’impiccio. In testa, avevo le mie idee, dopotutto, li avevo visti giocare tante volte, certo, i nuovi qualcosa di meno, e potevo poi sbagliare la loro posizione, e se avessi fatto un casino non me lo sarei perdonato, e chissà se mi avrebbero perdonato i ragazzi, ed i genitori poi cosa mi avrebbero detto. Non ho mai fatto l’allenatore, sicuramente non ne ho le conoscenze e le capacità tecniche, la mia pratica del gioco del calcio sta tutta nell’esperienza di bambino come loro, pur con un allenatore allora ritenuto forse il migliore di Genova, in qualche torneo a sette disputato con la squadra degli amici (la prima volta che ci lanciammo nell’impresa, dovettero inventare un premio simpatia tutto per noi, perché nonostante le avessimo perse tutte meno una vinta con la prima in classifica, non ci ritirammo, per la sola gioia di giocare).

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Ultimamente qualche sgambata in quegli incontri del lunedì sera in qualche altra squadretta, non molto di più. In compenso gli anni passati a guardare altri insegnare sul campo, non sentivo di averli dimenticati, ma da qui a mettere una squadra in campo, direi che è tutta un’altra cosa, seppure tutti a volte ci sentiamo di saper fare la formazione meglio del mister della squadra del cuore. Dovevo, e volevo, però rischiare, così, richiamandone l’attenzione ed indietreggiando di qualche passo, li radunai in un angolo del piazzale più tranquillo, distante qualche metro dalla folla di genitori e parenti, e dove magicamente, forse compreso che nell’aria c’era qualcosa di diverso davvero, smisero tutti insieme di parlare. Ripensandoci più tardi, con il loro tacere improvviso si era creato quasi un muro di silenzio attorno a noi, e le voci dei genitori poco distanti erano scomparse, inghiottite da quel muro invisibile, non arrivavano più a noi, isolati e soli in mezzo a decine di persone. Credo che anche per loro, per i ragazzi, la sensazione fosse quella stessa mia, perché diversi si voltarono a guardare intorno, quasi che il silenzio improvviso li avesse stupiti ed intimoriti. L’affiatamento in un gruppo non è dato solo dalla buona capacità di ritrovarsi nel gioco in campo, ma dalla complicità, dall’amicizia, dalla condivisione degli umori e del sentire, anche al di fuori d’ogni situazione sportiva. Nei due anni precedenti, avevo già spesso avuto modo di dire che il nostro era davvero un gran bel gruppo, sia per quanto riguardava i ragazzi, molto legati spesso anche nell’amicizia d’ottimi compagni di scuola e di giochi, sia per le famiglie, pure ognuna con il suo modo d’essere e di vivere la propria giornata, ma sempre entusiaste di ritrovarsi per una qualsiasi occasione, scambiare quattro chiacchiere ed un sorriso, fosse anche soltanto con la scusa di una pizza in compagnia. Si rifletteva allora questa sintonia tra noi, in particolare nei momenti importanti, e pure se quando qualche decisione era in ballo, ognuno

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sapeva e voleva ragionare e scegliere con le proprie idee, sapeva di non trovarsi di fronte ostilità o preconcetto da parte degli altri, pur sempre disponibili ad ascoltare e valutare le proposte di ognuno e le ragioni di tutti. Credo che la squadra fosse bene influenzata da questo modo di circondarla dell’affetto di tutti, di una pressione ridotta al minimo plausibile, e dell’appoggio di genitori e società. Era naturale, per quei ragazzini riconoscere i momenti importanti ed adeguare il proprio comportamento. Vedete, la mia squadra, diversamente da tante altre squadre che ho visto in questi anni, chiusa dentro uno spogliatoio, è capace di sviluppare un casino indescrivibile ed ingovernabile, una di quelle caciare che spesso fanno arrivare un custode sbigottito ed inferocito ad urlare dalla soglia, minacciando tutti di cacciarci fuori. E la risposta al poverino di solito è una gigantesca risata, unica e breve parentesi tra il prima schiamazzo e dopo anche. Il mister di solito fa una fatica incredibile a farsi ascoltare, e a forza di minacce e di urli belluini, riesce soltanto ad ottenere un’attenuazione del livello in decibel del rumore, quanto gli basta per impartire le brevi istruzioni pre partita. Il risultato forse più bello ottenuto con questi ragazzi, è secondo me proprio questo: ancora per loro è tutto un gioco, valevole di una risata, di uno schiamazzo. Non sottovalutano l’importanza dell’imparare, e provano un profondo rispetto e secondo me anche un intensa amicizia verso i loro compagni di squadra adulti, verso i loro educatori, ma danno il giusto peso a ciò che a dieci anni deve essere lo sport: gioco, divertimento, passione ed anche sacrificio, ma mai al costo di rinunciare alla propria età. Quante volte dagli altri spogliatoi non si sente provenire nemmeno il battere d’ali di una farfalla, con l’impressione che i nostri avversari di turno siano assenti, mentre da dentro le nostre quattro lamiere si sente provenire un ululato sghignazzante accompagnato dagli urlacci

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dell’allenatore, con l’impressione di trovarsi di fronte ad una terrificante formazione di poltergeist. Bene, chi ha il coraggio di togliere loro quel sorriso? Sono disposto a lasciarli stare ancora per qualche anno, poi per fortuna o purtroppo, cresceranno quel tanto che basta da portar via loro la spontanea gioia di divertirsi e basta, ed a quel punto saranno abbastanza maturi da diventare giovani apprendisti calciatori. Chiesi un momento soltanto e mi allontanai per chiamare al mio fianco un caro amico, Edu. Lui è un papà così sempre disponibile da avermi senza esitazioni aiutato più volte nelle mie piccole incombenze da dirigente della squadra. Accettò, infatti, immediatamente di seguire i ragazzi dalla panchina, dando loro almeno qualche indicazione e provvedendo ad incitarli ed assisterli negli intervalli. Certo, mi disse, guarda che io non ne so niente e cosa posso fare allora? Già, perché io invece ne sapevo tanto da sbattere la testa contro lo spigolo più tagliente, tanto per essere sicuro di farne uscire tutta la preoccupazione che avevo in quel momento. Sorrisi, e prendendolo sotto braccio, lo portai vicino al nostro gruppo, dove i giovani puledri scalpitando, ci guardavano con un’aria piuttosto interrogativa, aspettando istruzioni. Per quel giorno quello sarebbe stato il loro allenatore, dissi loro, e soltanto a lui avrebbero dovuto obbedire, ascoltando i suoi consigli, gli occhi sulla palla e sugli avversari, un orecchio alla panchina e la testa ben concentrata sulla partita. Ancora un’occhiata all’elenco dei presenti, e misi ordine alle idee dividendo tutti i ragazzi nelle due squadre. Da una parte Ettore e Filippo portieri, insieme a Diego, Paola, Simone, Marco, poi Enrico e Davide.

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L’altro manipolo vede schierati Angelo e Mattia tra i pali, e davanti a loro Gianni insieme a Demian e Pietro, a centrocampo Roberto e Giuliano, punta centrale Stefano. La prima formazione la vedo un tantino più offensiva, e forse ha anche qualche numero tecnico in più, ma può rischiare qualcosa in difesa, sbilanciarsi e subire qualche attacco, se Diego ed Enrico non si copriranno a vicenda. La squadra che disputerà la seconda partita è molto solida, ma difetta d’esperienza, ed il peso dell’attacco sarà minore, però è veloce da centrocampo in su, qualcosa di buono lo farà vedere sicuramente, in difesa forse lenta ma tosta e difficilmente superabile. Difficile fare le due squadre perfettamente equilibrate, e poi scommetterei che gli altri cercheranno di farci lo scherzetto, buttando in campo subito i migliori. Sono più tanti, quindi qualche confusione in più mi sembra inevitabile, per far giocare tutti, approfitteremo degli eventuali sbandamenti dovuti ai cambi, e ce la giocheremo. Vorrei anche cercare di non mischiare le due squadre, vale a dire di non far giocare nessuno parte di tutte e due le partite, sia per non stancarli eccessivamente, sia anche perché so che così tra loro ci sarà una certa competizione, vorranno vedere quale delle due squadre giocherà meglio, quali di loro saranno i più bravi, e nonostante il gruppo sia uno solo, lo stimolo del gioco meglio io non fa mai male quando devi solo imparare per crescere, e conoscendo l’impegno che mettevano nelle partitelle di allenamento al campetto, avrei giurato che avrebbero fatto faville pur di prevalere rispetto ognuno alla squadra dei compagni. Suddivise le due squadre, raccolsi dalla borsa un paio di palloni e feci segno a tutti di entrare in campo per un breve riscaldamento prima di iniziare la gara, e mi avviai a passo di corsa dietro ai ragazzi che sciamavano sul sintetico verde, liscio e appena consunto da qualche anno di calpestio.

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Nonostante fosse ancora un vecchio tipo di sintetico, il campo non era poi male, appena un po’ stretto, le porte piccole, senza le panchine, ma con uno spazio abbastanza ampio sul lato lungo verso monte, dove si potevano sistemare gli allenatori e le riserve, mentre il pubblico si era appostato nell’unica zona possibile, il lato corto vicino agli spogliatoi, dietro alla porta e dietro la recinzione di rete sottile. Chiamai tutti i ragazzi intorno a me, e si strinsero vicini, attenti e curiosi, qualcuno mi chiamava mister, ma io volevo sempre specificare loro che non ero un allenatore, e tale non sarei stato in grado di essere, così trovai solo poche parole per istruirli, e guardandoli negli occhi ancora una volta, dissi che volevo qualcosa da loro. Volevo giocassero com’era stato insegnato, volevo ricordassero ora le parole del loro allenatore durante tutti i pomeriggi passati sul campo, perché tra poco non avrebbero più dovuto pensare, ma giocare, giocare come sapevo avrebbero saputo dimostrare. Ricordai che volevamo fare bella figura, tutti insieme, e che io volevo essere orgoglioso di loro e non mi interessava il risultato, ma che giocassero tutti per tutti, aiutando i compagni quando in difficoltà, passando il pallone e costruendo il gioco in possesso di palla, ma anche attaccando l’avversario quando questi intendeva attaccarci, per impedire loro di fare la partita. Dovevano ascoltare solo le indicazioni d’aiuto che sarebbero arrivate dalla panchina e dimenticarsi di chi li guardava, perché quelle due partite che non contavano nulla, contavano però tanto per dimostrare il loro carattere e la loro fiducia in se stessi, nella squadra, nel futuro della stagione. Ora non c’era davvero più niente da dire, se non sussurrare un in bocca al lupo, e così rimasi ad osservarli per qualche minuto, mentre, molto più seri di poco prima, iniziavano a provare qualche tiro in porta, qualche passaggio, e mentre nell’altra metà campo gli avversari erano impegnati nella stessa attività.

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Scambiai una rapida occhiata con il tecnico della squadra in maglia rossa e bianca, e portai il fischietto alle labbra, avvicinandomi al cancello. Con un lungo fischio chiamai le squadre per l’ingresso in campo ed il saluto al pubblico. Era la prima partita che avrei arbitrato dopo molto tempo, e non nascondo che anche per me era una prova difficile, che mi ero imposto di superare bene e con tranquillità, ma anche con determinazione, visto che nel corso della stagione avrei arbitrato diverse volte, e non sarebbero state partite amichevoli come quella sera, ma avrei trovato spesso avversari pronti anche a rilevare e far pesare eventuali errori. Inoltre, arbitrare bambini, non significa soltanto fischiare dei falli, ma imparare a valutare movimenti non sempre composti, valutare volontarietà ed approssimazione tecnica. Questo, oltre ad avere la consapevolezza di non essere mai considerato imparziale, per ragione proprio di quel ruolo strano imposto dalla Federazione. Nella mia testa, il pensiero più ricorrente era di dimenticare che in campo c’era la mia squadra, i miei ragazzi, mio figlio tra di loro, e non cadere nel contempo nell’errore di pesare troppo involontariamente a loro sfavore, nel tentativo di essere imparziale davvero, a fronte di certi altri arbitri improvvisati come me, che avevo visto persino voltarsi alla “loro” panchina prima di assegnare all’uno o all’altro anche una semplice rimessa laterale.

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Capitolo VII L’arbitro improvvisato

“Io ... io desidero che tu possa nuotare come un delfino, nel modo in cui nuotano i delfini

benché nulla, nulla ci terrà insieme possiamo sconfiggerli, per sempre

possiamo essere eroi, solo per un giorno”

David Bowie (Heroes)

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Guardai le due squadre schierate in campo, tutti i giocatori si disponevano nelle rispettive metà campo, diligentemente, e con un cenno ai due portieri, in attesa tra i loro pali, chiesi l’ok all’avvio della gara. Da dietro il suo sorriso Ettore, e da dietro la visiera del suo cappellino l'altro, mi fecero segno che tutto andava bene ed erano piazzati regolarmente in porta. Il sorteggio fatto poco prima, con una vecchia moneta da cinquecento lire, era un momento simpatico ed insieme intenso, perché i due capitani, ed intorno tutti i loro compagni, lo vivevano con più attenzione dei colleghi grandi, quasi che vincere la possibilità di scegliere palla o campo fosse preludio al risultato della partita. Quella moneta, che poi usai per tutta la stagione, mi era rimasta in tasca chissà come, ed era sopravvissuta miracolosamente all'avvento dell'euro ed alla moltiplicazione dei prezzi, tanto che ora, aveva un valore proprio decisamente basso, se non infinitesimale, ma un valore intrinseco da portafortuna, proprio per me che normalmente mi guardo bene dall'utilizzare amuleti e ammennicoli vari, non disdegnando comunque di fingere con me stesso una qualche velata scaramanzia per ciò che riguardava il calcio nei suoi vari aspetti. Sapete quelle cose che a dirle sembrano sciocche, e poi tutti ne avrebbero da raccontare, tipo non farsi la barba prima della partita, andare sempre allo stadio seguendo il medesimo tragitto, vestirsi sempre con la stessa maglia, mangiare sempre quel panino e bere quella birra davanti a quel furgone fuori dello stadio, compiere alcuni semplici riti sempre uguali seppure insignificanti, ripetendosi che tanto non ci crediamo, ma caspita, se non lo faccio e poi va storta, e come me lo racconto... I nostri ragazzi chiamarono palla, e avrebbero dato il calcio d’avvio, schierati e rivolti verso la porta dietro la quale si trovava il pubblico. Come amava raccontare un vecchio radiocronista: spalti gremiti, temperatura ideale e terreno in perfette condizioni, e la partita può avere inizio.

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Sono partiti subito bene, battuta la palla, in affondo sulla destra, rapido, due passaggi centrali in profondità, e l’appoggio di Paola all’indietro per Diego che fionda il destro improvviso, palla alta di poco, il portiere leggermente fuori posizione non l’avrebbe presa. Segnalo la rimessa dal fondo al portiere, che corre a recuperare il pallone e con calma arriva al limite dell'area per il rinvio di piede, consentito nel calcio a sette. Il rinvio è appena sufficiente, un sei meno e arriva sulla linea del cerchio di centrocampo, rotolando malinconico, ed è subito preda ancora di Diego, che evidentemente ha deciso di far impazzire subito gli avversari. Diego ora è egoista quanto basta, fa tutto da solo, si lancia in avanti e lascia sul posto un centrocampista, poi manda al cielo un pallone d'oro, spedendo i saluti al portiere, ma dimenticandosi il corpo a centrocampo mentre va a calciare nuovamente dal limite: assioma, corpo all'indietro, palla alle stelle, arrabbiatura d’ogni allenatore di questo pianeta. L’azione appena conclusa, fa capire subito che aria tira, e forse ci hanno un po’ sottovalutato, così ripartono dal fondo, una rete di passaggi, stiamo a guardare, fino al centrocampo, poi aggrediamo, si porta via palla, di nuovo giù, questa volta a sinistra con Simone, un difensore chiude, palla sul fondo, ma è calcio d’angolo, e mi sposto sul lato opposto, spero di fare bene, di solito c’è mischia in area, palloni che rimbalzano tra ginocchia e braccia, teste e chissà cos'altro, e sembra una gara a palla avvelenata ma vince chi non tocca niente, e il lancio è lungo, si riparte in rimessa laterale, per i rossi. Se non fossero avversari, sarebbe bella questa tenuta da gioco che hanno, tutta rossa con la righina bianca dalle parti, ma sono le nostre maglie che mi piacciono davvero, con le fasce blu e azzurro sul petto e lo scudetto di Oregina e il logo dello sponsor sopra e sul braccio: mi sembra che sia il modello Madrid e sono la nostra muta principale, insieme a quella tutta azzurra, ed a quelle estive bianche con la riga grigia e azzurra e bianca: per ognuna di queste mute da

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gioco, una cabala diversa, e sempre un emozione a vederle indosso ai ragazzi. Questa volta sono loro ad affacciarsi nella nostra area, con un bel lancio verso la punta che ferma il pallone di petto, controlla la palla bassa, e poi si gira veloce per cercare il tiro: fuori di poco, ma Ettore segue la traiettoria e fa segno a tutti di stare calmi. Mi accorgo che anche a me serve più calma: nella foga della gara sto correndo anche troppo, mi sembra di partecipare all'azione, mi aspetto quasi il cross e affondo come se volessi colpire io di testa, come quando guardi in tv quegli incontri di pugilato dove se le danno di santa ragione, e ti trovi a mimare coi pugni anche tu come se ti trovassi sul ring, e ti parte il jeb istintivo, che se ci fosse la moglie vicino, poveretta, finirebbe al tappeto sicuramente. Mi costringo allora a respirare profondamente, riprendo il controllo delle pulsazioni, e la vista ritorna limpida, si fa per dire, in pratica mi sento come la controfigura cieca di uno stuntman orbo. Ripeto i gesti che ho visto fare per anni agli arbitri veri, il fischietto è legato alla mano con uno di quei nastri portachiavi da appendere al collo inventati qualche anno fa, sempre ricoperti della pubblicità di qualche cosa e diventati oggetto da collezionare. Fischietti ne ho due, non so che potrebbe accadere, ma uno di riserva ci vuole, poi, li ho scelti, preparati e provati con cura, ci ho soffiato dentro diverse volte, in casa, e i vicini cristianamente mi maledivano, entrambi gli attrezzi sono rossi, uno è vecchio, ma è il migliore, mi piace il suono che produce, ed in tasca, ma inutili, quasi dei portafortuna, cartoncino, matita e i due cartellini, rosso e giallo, non li mostrerò mai in tutta la stagione, ma li ho con me, presenze inquietanti, e i bambini ogni tanto mi chiederanno se li userò con loro, sorriderò, e li spaventerò dicendo che sta a loro non meritarseli. M’immagino le facce dalle panchine e dal pubblico, fermarmi dritto in mezzo al campo con quel petto in fuori e la gamba da Nurejev come un arbitro importante, e solennemente impassibile estrarre il cartellino rosso dal taschino, (ma quale taschino), e schiaffarlo sotto

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il naso (ma come faccio, mi dovrei inginocchiare) di uno dei bambini, indicandogli perentorio la via per gli spogliatoi (vale a dire in pratica lì appena fuori del cancelletto sbrindellato), lui a capo chino, io tronfio del mio potere. Ma che cavolo hanno in testa quegli arbitri, con quegli atteggiamenti, ma li avete mai veramente sentiti parlare, per forza ogni tanto gli mettono le mani in faccia, non per dargli uno schiaffo, ma per chiudergli la bocca ed impedirgli di castroneggiare. Lascio giocare, mi sono imposto alcune regole da seguire, oltre a quelle ufficiali, molto ammorbidite dall’età dei protagonisti. Mi è sempre piaciuto il gioco anche ruvido ma corretto, all’inglese si diceva una volta, e non ho mai sopportato le furbate, loro ogni tanto ci provano, ma la malizia è poca, più che altro cercano di imitare ciò che vedono fare ai loro idoli della pedata al pallone. Il fallo di mano è la normalità, più che calcio andiamo avanti a pallamano, ogni tanto è involontario, ma se interrompe l’azione lo fischio, se serve ad aggiustarsi la palla anche, e faccio capire che non lo accetto, che è gravemente scorretto. Gli sguardi sconsolati dei bambini mi fanno capire che spesso non se se n’accorgono neppure, è istintivo per loro allungare il braccio, ma proprio per attenuare e far scomparire piano piano questo vizio, bisogna castigarli, a maggior ragione se invece diventa non più peccato di ingenuità, ma teoria del comportamento, e qualche allenatore ha la coscienza sporca. La regola principale è di non favorire nessuno, ma penso che non troppi siano d’accordo, stante quello che trovi sui campi. Giocatori, genitori, tecnici e tifosi, vorrebbero un arbitro imparziale quanto basta perchè favorisca solo loro, e a spesso vengono accontentati. Nel dubbio mi affido all’istinto, di solito giusto, a volte mi accorgo di sbagliare, non si torna indietro per un fallo laterale, per una punizione, ma lo farei per un rigore o per un gol, senza cercare di equilibrare un errore con un altro errore.

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Non mi piace nell’incertezza di una valutazione chiedere ai bambini, anche se so che questo li dovrebbe responsabilizzare, so che qualche amico la pensa così, e ne abbiamo anche parlato, ma credo che debbano imparare che l'arbitro può sbagliare, che posso sbagliare, che anzi sbaglio sicuramente, nel corso di una partita di quarantacinque minuti più recupero sbaglierò almeno dieci volte, ma per l’una e per l’altra squadra, fischio ciò che vedo o che ritengo di vedere, non è per nulla facile seguirli nel gioco non troppo ordinato: quando ripartono per un contropiede mi lasciano per un istante sul posto, poi scatto, voglio essere vicino all’azione, ho disprezzato chi arbitra facendo tre passi di qua e tre passi al di là della linea di centrocampo, una canottiera da lavoro addosso e una mano in tasca, superficiali, maleducati e svogliati: i ragazzi si giocano l’anima, io mi devo fare in quattro perché escano tutti dal campo sicuri che non gli ho tolto nulla di quanto hanno meritato. Se i ragazzi corrono per quarantacinque minuti, io corro per quarantacinque minuti, possibilmente sempre in linea con la palla. Da qualche minuto le azioni sono più lente, da una parte e dall'altra, evidente che l'avvio scoppiettante ha intimorito i nostri avversari, e la loro immediata reazione ha fatto altrettanto con i nostri: una fase di studio tra due squadre che non vogliono rischiare troppo. Manovrano loro a centrocampo e cercano di aggirarci giocando molto la palla, ma per fortuna non ci facciamo mettere in mezzo ed Enrico insieme a Marco coprono molto bene, scambiandosi velocemente di posto per mantenere sempre una linea di copertura davanti a Diego e Davide. E' proprio Davide che conquista l'iniziativa e controlla girando su se stesso molto bene, palla fermata con la suola, e poi a girare verso destra, lascia il suo avversario sul posto disorientato. Il passaggio verso Marco è veramente buono, lui si lancia in profondità per riceverlo, sol un attimo di ritardo e ci mette il piede un difensore, la scivolata è quasi nei tempi, ma insieme al pallone ci trova anche il piede di Marco che stramazza e rotola come colpito dalla sindrome della trottola.

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Il fallo c'è ma non esageriamo che si fa i ridicoli così. Fischio la punizione a favore, questo si, ma un occhiataccia a Marco, che mi risponde con un sorriso colpevole, non gliela leva nessuno. Ad ogni azione ripasso le regole, mi sembra già più facile ad ogni minuto che passa, ma non è così davvero, loro mi guardano, devo essere tranquillo e sicuro, così segnalo ogni decisione con la voce e con il gesto, mi sposto con loro, tengo a mente sui rinvii di non guardare la palla in volo, ma la zona in cui andrà a cadere, i movimenti a centrocampo dove ci sono la maggior parte dei falli di gioco, interventi a volte duri ma senza cattiveria, solo scomposti ma non per questo meno dolorosi su qualche caviglia e qualche muscolo. I bambini di solito si danno la mano, si chiedono scusa, a volte qualcuno impreca sottovoce, qualcuno più furbetto canzona l’avversario, lo distrae, poche volte gli insulti, se me n’accorgo devo far finta di nulla, al massimo chiedo calma, ci sarebbe una guerra sul campo e fuori se prendessi altri provvedimenti. Allora basta far capire che vedi e sai quello che stanno facendo, un’occhiata e di solito il “colpevole” cambia zona, si dà una regolata, e allora sorrido pensando che non sarà per sempre così, impareranno a fare i furbi cercando di fregare l'arbitro e l'avversario, simulando, nascondendo, provocando: peccato, ma è inutile negarlo, fa parte del gioco anche questo. Scendiamo spesso, contrastiamo molto e rubiamo palla molte volte a centrocampo o in difesa nostra. Poche conclusioni verso la porta però, anche loro sono bravi, anzi, si vede una maggiore padronanza della tecnica individuale, qualcuno dimostra anni in più di gioco, ed, in effetti, so che parecchi hanno iniziato molto prima dei nostri, perfino a quattro anni d’età. Mi piacciono molto quei due riccioluti a centrocampo, hanno una faccia da schiaffi che è una meraviglia, di quelle che ti viene voglia di farti prendere in giro dalla mattina alla sera, ma loro nonostante quel sorrisetto perenne sul viso, hanno i lineamenti tirati dalla

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concentrazione e dalla fatica, mi piace vederli dare il fiato ed il sudore per rincorrere questa palla d'aria che è il sogno di tutti questi bambini. Tremano le parole dentro la gola a spiegare l'emozione, sono gocce di lacrima che scivolano lungo le guance e non c'è vergogna e non c'è premeditazione. Questo sentire che è così mio, che è così simile al sogno fantastico del bambino lo nascondo dietro alle fessure degli occhi ma non riesco a nasconderlo a me stesso, riconosco la rabbia negli occhi, riconosco l'odore dell'adrenalina nel loro sudore e le scosse di vigore e di paura nelle loro mani. Questi ragazzi sono quanto di più simile ad uomini di un tempo lontano, selvaggi d'armi di selce, fieri cimieri medievali, corsari d'arrembaggi disperati. Edu zittisce Marco che chiama il fallo e protesta, ma lui ha trattenuto per la maglia l’avversario, e quello gli è andato addosso, braccia allargate, è il suo doppio, non c’è fallo, ripartono e scendono sulla fascia, una bella azione, sul fondo ci va uno dei due riccioluti, baricentro basso e gambe veloci, mette in mezzo, Enrico prima di ginocchio, poi ferma la palla a terra e calmo rilancia lungo, sulla palla si avventa Davide, si ferma e ne scarta uno, il secondo lo mette a sedere, aggiusta la palla col destro e riparte, ma si allarga troppo come al solito a sinistra, carica e libera la gamba, il tiro è debole, ma va vicino al palo. Il portiere ha la maglia ufficiale del Genoa addosso, ed il cappellino deve essere un suo portafortuna, perché ci sono le luci artificiali, ma lui recupera la palla, la fa rimbalzare due volte, poi si aggiusta la visiera e rinvia dal limite. Male però, perché la palla arriva bassa a centrocampo e Diego la cattura, vede Marco che parte affondando nella difesa sbilanciata e mette dritto verso il dischetto del rigore, Marco controlla d’esterno, si allarga appena e scarica ancora: questa volta il portiere è bravo davvero, si lascia cadere sulla sua sinistra e blocca in due tempi, poi

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sospira e si rialza, aggiustandosi ancora una volta il berretto, e rinvia, adesso aggiusta bene la mira. Mi diverto, ma sto sudando con la tuta addosso, levo la giacca che lancio a Edu, restando in maniche corte, non è che faccia freddo, neppure caldo, ma non è stagione, la sera è umida ancora della pioggia di qualche ora prima. I rossi sono più ordinati ora e ci provano più spesso, ma là dietro è davvero diga dei nostri, la difesa non sbaglia niente e non butta via palloni. Ora qui lo so che c’è il fallo, Davide se n’è andato già troppe volte al biondino col due e quello non se lo fa scappare ancora: sulla tre quarti lo tocca alla caviglia, fischio e allontano quello che si mette davanti alla palla, poi Diego mi chiede la distanza e conto i passi, quelli si avvicinano ancora ma resto fermo ai cinque metri e loro si adeguano malvolentieri. Mettono una barriera da due, e il portiere urla e fa segno con la mano, l'altra appoggiata al palo al palo per tenere la distanza, diligenti i suoi compagni si spostano a coprire per quanto vuole lui, poi il portiere si porta al centro porta e si piega sulle ginocchia per prepararsi al tiro. Il tocco di Paola per Diego è un po’ troppo in avanti, ma lui ci arriva, è coordinato bene, la barriera si sposta e la palla centra la base del primo palo. Il portiere col cappellino cade sul primo palo solo una frazione di secondo dopo che il pallone lo impatta, ma si salva anche dal pericoloso rimpallo che rischia di fargli fare un incredibile autogol. I ragazzi si disperano, ma si danno il cinque con le mani lo stesso, ci stanno mettendo grinta e ci credono. Qualche rimessa laterale non va bene, questa la faccio ripetere, dovrei darla agli altri ma va bene così, devono imparare. La solita stringa slegata la stringo io, credo che per i bambini, l’arbitro lo possa fare, tra l’altro fa capire che anche se la scarpa è di un giocatore dell’altra squadra, l’arbitro non è da temere ma da accettare come partecipe del gioco più bello.

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Un’occhiata al cronometro, allacciato più alto sul polso sinistro per non premere inavvertitamente lo stop, e siamo alla fine del primo tempo, ci sta un minuto di recupero, anche se al corso hanno chiesto di evitarlo, lo scopo è giocare, e allora ancora qualche secondo e fermo una nostra azione fischiando il termine della frazione. Facciamo due tempi da venti minuti, ma in campionato saranno tre tempi da quindici, non li capisco, sarebbe meglio allungarli già, almeno a due da venticinque, ma chi studia i tempi di recupero dei bambini deve pensarla diversamente e quindi detta legge. Quando iniziano a scaldarsi ed a prender gusto all'incontro, ecco che bisogna fermarsi, ma ora va bene, questa sgambata non deve diventare troppo pesante, tra due giorni giocheranno di nuovo, e sarà campionato, mi chiedo se qualcuno uscirà acciaccato da queste amichevoli, ma comunque i tempi di recupero dei bambini sono incredibili, e della sola fatica muscolare non credo risentiranno davvero. Primo tempo allora niente male davvero, più noi di loro, e se Ettore non è dovuto mai intervenire, ordinaria amministrazione, come si dice, il loro portierino in maglia azzurra, ha fatto qualche bella parata, oltre a salvarsi con il palo sulla punizione di Diego. Mi fermo a centrocampo, mentre i ragazzi si dissetano e scherzano con Edu e Nuccio, che nel frattempo lo ha raggiunto alla panchina virtuale a bordo campo. Anche lui è un entusiasta, anche lui ama dare la carica ai ragazzi, e non ne poteva più di stare fuori, così, vista l’assenza dei mister ufficiali, si è lanciato in campo dopo cinque minuti di griglia. La griglia va bene per il branzino mi dice sorridendo, e non so come dargli torto, non sono più capace di stare a vedere da fuori le partite dei miei giocatori, e sarei capace di trasformarmi in una bomboletta di ghiaccio spray pur di andare in panchina o comunque sul campo. Mi avvicino un attimo, prima dai rossi e va tutto bene, chiedo conforto al loro Mister su come sto andando, e mi sorride, mi sembra che anche i loro ragazzi si stiano divertendo nonostante i rischi e nonostante i nostri li abbiano fermati molto bene.

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Non mi fanno evidenti rimproveri, segno che il mio modo di arbitrare li soddisfa, oppure che hanno pietà di me, oppure ancora che sono troppo educati per insultarmi come meriterei, ma queste sono solo congetture che rimangono tali sino a definizione diversa, e così mi accontento di un sufficiente silenzio per chiamarlo consenso. Mi fermo anche accanto alle nostre maglie bianco blu, e qualche bambino mi viene intorno, mi chiedono come stanno giocando, ma non voglio dire nulla, solo bravi, ma provateci ancora, la partita non è finita, avanti su tutti i palloni. Cinque minuti, basta così, l'orologio corre fin troppo in fretta, e c’è qualche cambio: per noi il portiere, entra Filippo, per loro tre sostituzioni e poi tutti in campo nelle loro posizioni per ricominciare. Vedo qualcuno dei nostri tirare il fiato per recuperare, hanno dato molte energie, ma siamo soltanto a metà strada, sicuramente non sono avvantaggiati dal sintetico, abituati come sono alla pietraia. Ho un amico che non perde occasione, ogni volta che parliamo di calcio giovanile, e succede spesso, di ricordarmi che probabilmente siamo rimasti gli ultimi scalcinati senza un campo di casa almeno decente: io so che non è affatto vero, c'è almeno un'altra società che sta peggio, e a loro daranno presto tre campi in gestione, nuovi di zecca, completi di tutto, mai usati da nessuno, costruiti da almeno cinque anni, prima che vadano allo sfascio li devono affibbiare a qualcuno. Noi siamo più fortunati: abbiamo un bellissimo progetto, ogni due o tre mesi qualche cravatta si riunisce, lo guarda, storce la bocca e decide di mettere a verbale che quell'oleandro lì, starebbe meglio là, e rimanda il tutto a quando proprio non ha nulla di meglio da mettere in un ordine del giorno per giustificare un'altra riunione di cravatte ed un altro gettone di presenza. Quando avremo dato alla luce il gioiello, verrà sicuramente una di quelle cravatte a tenerci un bel discorso con cui non troppo velatamente si assumerà meriti ed onori della realizzazione,

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concedendoci magnanimamente di far buon uso e tutela del patrimonio appena affidatoci; sudore e rabbia non valgono l'attenzione delle istituzioni cittadine. Pronti, via, ed è come nel primo tempo, con il primo pallone rubato sulla battuta, ma al limite dell’area ci perdiamo giocando troppo centrali, e loro sono tutti là, pronti a chiudere bene, poi continuano l’azione sulla destra, e c’è la prima punizione pericolosa contro. Il fallo dal limite lo commette Simone, che trattiene l’avversario. La barriera però è ben piazzata e respinge con Marco che scatta avanti appena la palla si muove e rimpalla in angolo la conclusione del numero otto. Corner dalla nostra destra e c’è qualche trattenuta in area, con le nuove disposizioni sarebbero da sanzionare, richiamo alla prima, ammonizione anche su giocatore diverso alla seconda, calcio di punizione diretto in area, e quindi calcio di rigore alla terza trattenuta. Tengo d’occhio tutto, ma c’è Gianni che dimentica un avversario andando all’ultimo momento sul difensore che arriva da dietro. La battuta è in mezzo, si ostacolano tutti, la palla tocca Enrico e arriva proprio a quello da solo al limite. Non si fa pregare e piomba sul pallone col piattone sinistro. E’ gol, anche se Filippo quasi ci arriva, ma può solo raccogliere il pallone dalla rete e i ragazzi sono smarriti, hanno fatto tanto finora e sono puniti dalla prima distrazione, una marcatura mancata in una situazione provata e riprovata più volte proprio perché per noi problematica. Il gol più stupido che potevamo l'abbiamo preso, ma d'altronde non sono tutti stupidi e semplici nella loro dinamica i gol visti dalla parte di chi li ha subiti? Va bene, ripartiamo dal centro, e vedo che non stiamo mollando, le azioni scorrono una dopo l’altra e ci crediamo più che mai, ma anche i rossi non scherzano, e ci restituiscono colpo su colpo ogni affondo.

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Un palo anche per loro, anche se esterno, su una seconda distrazione, una rimessa laterale regalata da Davide, ma siamo più pericolosi e vogliamo il pareggio. Devo fischiare più spesso ora, ci sono più falli perché la stanchezza arriva, e i tentativi in avanti si fanno frenetici. Questo intervento su Paola è veramente duro e inoltre il pallone le rimbalza sul viso e la lascia un attimo con le lacrime che scorrono, ma basta uno spruzzo d’acqua per far passare tutto e riprende a giocare battendo bene la punizione, di sorpresa, quelli protestano perché non ha aspettato il fischio per battere, ma non ha chiesto la distanza, è tutto regolare e si prosegue. Palla sul fondo in ogni caso, col portiere a controllare tranquillo. I minuti passano veloci, non facciamo timeout, un'altra abitudine che non capisco troppo. Penso serva soltanto a far casino in campo, con le squadre che si devono fermare per un minuto senza particolari ragioni, poiché le indicazioni del tecnico arrivano lo stesso ai giocatori, e anche in campionato, con i cambi stile basket non serve il timeout per rivedere gli schemi. Negli ultimi cinque minuti non li abbiamo lasciati giocare, schiacciati nella metà campo, abbiamo giocato molto, ma si sono difesi anche molto bene. Per noi ci provano Davide, Marco ed Enrico, con quest’ultimo che si fa mezzo campo e tira dal limite, il portiere si allunga sulla sua sinistra e tocca la palla in angolo. La linea della nostra difesa in pratica non esiste più, siamo tutti dalla tre quarti in avanti, ultimo uomo rimane Gianni, che su un rimpallo prova anche da lontano, corpo troppo indietro, emulo di Diego, è una fucilata, ma troppo alto, almeno un metro sulla traversa. Si fa male Marco, una botta al polpaccio, involontaria, ma zoppica per un po’, poi se ne dimentica e corre come un matto: i bambini devono essere costruiti veramente con una buona percentuale di gomma.

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Dalle facce tutte arrossate dalla fatica, capisco che non ne hanno quasi più, ma ci proviamo fino all’ultimo, anzi, tentano di ripartire piano ragionando, intessendo bene i passaggi senza forzare, ma siamo al secondo di recupero, e stavolta, su un tentativo dei rossi che si spegne in mezzo, con tre fischi dico che è finita la prima partita. Peccato la prima, potevamo meritare qualcosa di più, ma non è un disonore perdere così, e i ragazzi, anche se incavolatissimi, sembrano rendersene conto: prima qualche timido sorriso, che poi si allarga in una bella risata, poi si stringono tutti insieme in un abbraccio, mi piace questo, mi piace veramente tanto, Edu e Nuccio li spingono verso il pubblico, applaudono tutti, anche loro si applaudono. Non c’è tempo per tenere troppi discorsi, cambiano le squadre in campo, abbiamo un’ora e mezza in tutto, e siamo già in ritardo. Un sorso d’acqua dalla borraccia gialla con la scritta a pennarello “96”, chissà quante generazioni di giovani in maglia bianco blu hanno bevuto dal suo tappo blu tutto consumato, ma è proprio uguale a quelle che sui grandi campi da calcio stanno lì a terra vicino alle panchine per dissetare i calciatori, e fischio per radunare tutti all’ingresso del campo. I due portieri dietro di me, gli altri seguono, e si ripete il rito magico della moneta. Stavolta va a loro, ma scelgono il campo, così battiamo di nuovo, e all’avvio, giochiamo più prudenti, manovriamo un po’ troppo, e perdiamo palla un paio di volte, ma senza esiti negativi. Gioco pericoloso, e fischio un fallo per loro, Angelo mette la barriera e grida ai suoi di stare attenti. Tutto bene, tocco a sinistra e quello che ci prova non deve avere un gran bel piede, palla altissima e a lato. Il rinvio di Angelo è lungo, lo giochiamo al limite dell’area rossa, uno scambio in corsa e sulla destra Roberto prova d’esterno sul secondo palo, incrocia bene, fuori di non molto.

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Edu e Nuccio si sbracciano, dietro siamo un po’ scoperti, ma l’azione successiva si spegne in fallo laterale, per noi. Palla lungo linea e il controllo non è dei migliori, rimessa che va alla squadra in maglia rossa. Capisco che non sarà facile nemmeno questa partita, ma mi sembra che la squadra avversaria messa in campo sia quella più forte, speriamo bene, ho valutato, sbagliando che avrebbero fatto giocare prima quelli migliori, e le nostre due formazioni le ho fatte leggermente squilibrate a favore della prima, qui ci sono diversi che giocano solo da due mesi e scendono in campo per la seconda volta. Si difendono bene però, e, anche se non riescono a costruire molto, non subiscono più di tanto. Ci scappa anche qualche fallo in più, ma finora quello che n’è uscito non è mai stato molto pericoloso. Davanti ci sono Stefano e Giuliano, e se a loro manca l’esperienza, non manca il coraggio. Giuliano si mangia un occasione facile facile, forse si è emozionato, era un po’ troppo decentrato, la palla gli si incolla ai piedi, poi la sgancia e riesce a tirare, una palla strana, supera il portiere che stava uscendo, ma sulla traiettoria trova un difensore che salva spazzando lontano in fallo laterale. Sudo freddo stavolta, poteva essere un'ottima occasione per portarsi in vantaggio, ma comunque, il fatto che proprio a lui sia capitata una palla così buona, può significare soltanto che la squadra c'è, e non ha timore degli avversari, anche nei suoi elementi più giovani. Il mister avversario fa segno di avvicinarmi e mi dice di accorciare i tempi perché dopo di noi devono giocare altri, io dico di sì, ma cercherò di tirarla avanti regolare. Dietro di loro ci sono bambini che si rincorrono e ridono, qualcuno dei nostri che ha già giocato prima, un paio dei loro. Quasi si scontrano con Stefano che scende sulla destra, e gli ridono dietro, sembra uno scherzo innocente, ma può essere pericoloso, sia per chi sta in campo che per loro fuori.

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Fermo il gioco, così non va bene, e richiamo Edu perché li faccia mettere dove non danno fastidio. Tempo un minuto e sono di nuovo a rincorrersi, stavolta esagerano perché chiamano il portiere e lo infastidiscono. Al primo fermo del gioco ci penso io e fischio per un fallo a centrocampo, poi blocco Demian che sta per battere e ritorno a bordo campo, li richiamo e li allontano dal campo, ora li faccio uscire a farsi la doccia prima degli altri che non gli farà male, poi domani in allenamento ne parleremo e mi farò sentire, siamo qui ospiti in casa di altri, devono imparare comportarsi bene sempre. Siamo alla fine del primo tempo, quando i rossi, dalla difesa impostano bene e tagliano sulla sinistra, la palla passa veloce in mezzo a tante gambe, il più lesto di tutti è Angelo che si butta e blocca sicuro, rimediando anche un calcio al polso, ma non ci fa caso. Sul rinvio però, la prendono di nuovo loro e siamo tutti troppo avanti, Damien rientra e cerca di chiudere il passo alla punta, che si gira bene e si libera di lui, appoggia indietro ad un centrocampista che raccoglie e spara di prima una bordata che tocca sotto la traversa e s’insacca. Siamo di nuovo sotto di un gol e andiamo al riposo così, c’è tempo solo per un tentativo che si spegne sul fondo. Stavolta non rimango al centro, ma vado dai ragazzi, qualcuno beve, qualcuno si siede per terra, non è il caso di dire nulla, volevo solo vedere se reagiranno. Un paio di quelli che hanno fatto la prima partita mi chiedono se possono rientrare, vorrebbero aiutare, sicuramente si rendono conto di essere più preparati di alcuni compagni, ma non sono d’accordo, ora giocano questi. Cinque minuti sono svelti a passare, siamo di nuovo in campo, per noi il cambio del solo portiere, ed ora c’è Mattia, mio figlio, non posso fare a meno di guardarlo, gli faccio un gesto che vuol dire attento, impegnati, concentrati.

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Mi guarda ma non mi sorride nemmeno, fa solo segno di sì con la testa e poi si gira a guardare la porta, calcola mentalmente il centro e si dispone sulla linea, solo un passo più avanti. L’avvio è buono stavolta, attacchiamo bene, sulle fasce e al centro si libera qualche spazio. Sulla prima palla messa in area Stefano è contrastato un po’ rudemente, ma si riprende e prosegue, poi inciampa sul pallone che se ne va sul fondo e cade. Qualcuno chiede il rigore ma rigore non c’era, non lo darei se non fossi certo del fallo, ma i miei mi guardano male, a volte vorrei essere più cattivo e meno corretto. A volte penso di comportarmi come un cretino e che tutto questo buonismo sia da pazzi e che nessuno capirà veramente. Certo quando parlo con gli altri genitori degli arbitraggi, tutti mi fanno cenno di sì con la testa quando dico di non essere capace ad essere disonesto, ma probabilmente mentre muovono la testa, dietro agli occhi sorridenti pensano a chi mi ci ha fatto capitare proprio lì. Non è che loro siano diversi, forse più pragmaticamente guardano a come girano le cose e volentieri si adeguerebbero. Magari però, se si trovassero con il fischietto in mano, si comporterebbero come cerco di comportarmi io, non so se riuscendoci bene, ma ce la metto davvero tutta. Anche Nuccio mi guarda dalla panchina e mi fa segno con la mano che va tutto bene, ha visto anche lui e mi sorride. E' una bella cosa che fa sorridere anche me: a volte non servono parole o sguardi intensi, basta un sorriso per capire un amico, basta un sorriso perchè mi arrivi una bella scossa piacevole. Indico a terra vicino al portiere, e fischio correndo verso il centrocampo, voglio che si riprenda senza perdere tempo, stiamo perdendo, e vorrei, pur senza dir nulla e senza influenzare i ragazzi, che capissero dal mio atteggiamento che voglio che insistano a giocare come stanno facendo, che cerchino il pareggio.

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Meno si parla e più li mettiamo sotto, io ci credo e seguo il pallone che arriva al limite della nostra area. Lo fermiamo e cerchiamo di manovrare in attacco, ma ci pressano alti e recuperano ancora mettendoci in difficoltà per qualche momento. Guardo il mio cronometro e sono già passati quasi altri cinque minuti: in questo momento stiamo provando a scendere sulla destra dopo un rinvio di mano che Mattia ha lasciato a Giuliano, e lui scambia centrale per poi ricevere di nuovo più avanti. Un difensore dei rossi arriva in scivolata già sulla tre quarti, ma il pallone ha un rimpallo maligno sulle gambe di Giuliano ed il fallo laterale è per i padroni di casa. Le azioni si susseguono a ritmo abbastanza veloce, e quando teniamo la palla riusciamo a renderci insidiosi, arrivando parecchie volte al tiro, seppure imprecisi e sciuponi. Davanti manca un poco d’esperienza come detto, ma l'impegno è talmente elevato che quasi non ce n’accorgiamo, e gli altri non riescono comunque a prevalere seppure qualitativamente sembrino migliori di noi. Passaggi molto precisi e rapidi in avanti, piccoli trucchi del mestiere e maggiore proprietà di controllo del pallone, ma probabilmente motivazioni che vanno diminuendo man mano che i minuti passano. Accorgendosi di non riuscire a perforare nuovamente la nostra difesa, che si sta dimostrando solidissima, stanno più che altro cercando di contenerci, convinti di portare a casa il risultato. Per questo i ragazzi moltiplicano gli sforzi, mentre l'orologio segna tredici minuti e dalla zona tecnica dei nostri amici iniziano a farmi segni strani che vogliono ricordarmi di terminare quanto prima. Mi accorgo ora che a bordo campo non siamo più soli: ci sono parecchi ragazzini insieme con un paio d’adulti, allenatori immagino, che sono silenziosamente entrati e posizionati dietro e a fianco delle nostre panchine invisibili. Evidentemente abbiamo già abbondantemente superato l'orario a disposizione, ma non me ne potrebbe fregare di meno, faccio finta di

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nulla e tanto meno considero il mister baffuto dei rossi che sgrana gli occhi imploranti, proprio mentre Stefano aggira il suo marcatore e si presenta davanti al portiere. Stefano incredibilmente tocca sotto il pallone, ma è troppo lento, ed il portiere, che gli frana quasi addosso, alza d'istinto la mano destra e risponde con un colpo di reni da spettacolo: palla che si alza e poi ricade e trattengo il respiro, ma sfiora la traversa dalla parte sopra, e si appoggia sulla rete, restandovi come un pesce impigliato, beffarda e maligna. Mi muore in gola il fiato che stavo preparando per fischiare il pareggio, e per poco non travolgo un paio di bambini che, pietrificati seguivano quella strana traiettoria, uno con la speranza negli occhi, l'altro con un’espressione d’incredulità. Siamo già in un recupero che non dovrei nemmeno consentire, e me lo spiegano indignate le voci dei ragazzi che vogliono entrare in campo al posto nostro. Guardo ancora l'orologio, ventuno minuti e venticinque secondi, c'è un contropiede che ci trova impreparati, e forse non ne abbiamo più davvero. Quando la palla sta per essere crossata verso il centro della nostra area, dove ci sono due maglie rosse e in mezzo a loro soltanto Damien che si sbilancia appoggiando su quello più interno, che incrocia verso la palla per portarselo via, vedo con la coda dell'occhio Mattia che ha già intuito l'azione ed accenna l'uscita disperata. La palla è in aria all'altezza del primo palo quando la congelo dov'è con il primo dei tre fischi che dicono basta così.

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Capitolo VIII Fischio finale

“Viene un tempo in

cui diventa più facile aprire al sorriso la tua mente perchè sono bastate poche dolci parole

per renderti uguale a tutti gli altri uomini Viene un tempo in cui anche il tuo cuore

è impegnato a battere più forte Tra un bum e l'altro bum, stringi le dita

e ti trovi in mano briciole di buona sorte”

C.S.N.&Y (Comes a time)

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Il film che più commuove gli uomini, secondo un sondaggio di qualche tempo fa, è Fuga per la Vittoria, dove si condensano tutti i più grandi valori che spesso vivono sepolti nel nostro intimo. L'amicizia, la lealtà, il coraggio, la forza, la determinazione, la competizione, la libertà, l'amore, la fratellanza, la giustizia, l'onore, la sofferenza. La Tribù. La tribù perchè la forza del gruppo, nel bene e nel male, è la forza più spaventosamente efficiente che esista. La tribù che unisce i propri sforzi per raggiungere la meta. Quale metafora più perfetta e più indovinata, può essere trasferita dal film, su di un vero campo di calcio e sui nostri piccoli protagonisti? La nostra fuga per la vittoria è cominciata in una sera di novembre, quando non contava il risultato del campo, dove il rigore decisivo era già stato tirato e parato, dove la rovesciata di Pelè aveva già superato il portiere avversario, e dove la squadra di ragazzi in campo, proteggeva e portava fuori dei cancelli, ben nascosti sotto le giacche e le coperte, ognuno degli eroi che stavano intorno a guardare, ognuno di noi, spettatori ed interpreti. Non potremo mai dimenticare quella sera, e l'emozione e la commozione che venivano da dentro erano enormi e lo sono tuttora, se riescono a smuovermi lacrime e gonfiarmi gli occhi a distanza di mesi, ma con le orecchie ancora piene di quel gioco incessantemente ipnotico che ci ha sorretto il cuore ed il respiro per più di ottanta minuti. La fuga per la vittoria dei nostri ragazzi, è avvenuta quella sera ed è passata per alcune altre tappe che avevano il sapore della rimembranza e dell'orgoglio ferito, ed ora si è ribaltata la scena, e torniamo ad essere noi a riversarci sul campo trascinando via verso la libertà e verso quanto giusto c'è da conquistare, i nostri ragazzi, che stanno giocando contro un avversario estremamente ostico, e contro un futuro così avaro che gli ultimi anni ci hanno tramandato.

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E' un atto eroico essere vivi a volte, ed è un atto d'amore esserlo fino in fondo, di fronte ad ogni e qualsiasi difficoltà, sorridendo quando altri spaccherebbero il mondo, ed essendo capaci di dire in faccia al solito ironico nemico che noi siamo i più grandi, ed anzi, noi soli esistiamo, noi siamo. Cosa cerchiamo allora in questo film meraviglioso che viviamo, per poterci commuovere ancora? Nulla, abbiamo già tutto pronto, nel solo essere partecipi di questa fiaba che per noi è stata, è, e rimarrà magia allo stato puro, emozione e nervi della nostra carne, sangue nelle nostre arterie, ossigeno, per il nostro respiro. Credo di aver condiviso le stesse sensazioni con tutte le altre persone presenti, e con la squadra stessa, che, infatti, da quel momento forse, ha trovato motivo di dimenticare quanto successo fino ad allora. Fuga per la vittoria. Ora dopo queste due partite, mi piacerebbe che fosse iniziata la nostra imprendibile fuga. Chissà. Perché allora un uomo si lascia commuovere dalle scene di un film come fuga per la vittoria? Perché provate voi, se siete uomini, a non commuovervi. Provate voi ad essere vivi senza provare le stesse splendide sensazioni di questa tribù. Nonostante la doppia sconfitta di misura, tutte e due le partite finirono per uno a zero a favore degli altri, la mia squadra, i miei bambini, avevano risposto alla grande, e da grandi. Molti uscirono dal campo con le lacrime agli occhi per la rabbia di non aver fatto l’impresa, ma anche i miei occhi erano lucidi d’emozione per ciò che avevo vissuto su quel campo. Non so davvero se quella prestazione dei ragazzi fu un premio alle mie parole, agli incitamenti a far bene che avevo loro rivolto prima dell’inizio, ma mi piace crederlo, lasciatemelo credere e vi prego, credetelo anche voi, e forse proprio il fatto che io la vissi in un certo

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senso dall’esterno, l’uomo del fischietto, mi emozionò perché sentivo di guardare la partita da una tribuna lontana, ma nello stesso tempo immersa, galleggiante nel gioco, nel furore agonistico, nella grinta e nel cuore buttato sempre avanti ad ogni passo. Non so se quell’abbraccio finale che riunì tutte e due le squadre che avevano giocato, di corsa verso di me fermo al centro del campo, tanti visi da guerrieri, tutti visi da bambini, sia stato un gesto di affetto, di comunità di persone che distavano da me più di trent’anni, ma che forse nel mio porgere loro il “cinque” all’ingresso in campo, nel mio infuriato incitamento ad essere piccoli e grandi uomini, avevano visto il gesto ed il sentire di uno di loro, non di un adulto lontano dai sogni di un bambino. Sembrava irreale, in quei brevi momenti, prima che i bambini fuggissero via, risucchiati verso la rete, oltre la quale tutti applaudivano, pensare di essere in mezzo a loro, bambino avrei voluto esserlo ancora, per scendere in campo con la stessa spensieratezza, un numero sulla maglia, quei colori addosso, ginocchia sbucciate da curare con uno spruzzo d’acqua da un papà che aveva il mio stesso viso, un sorriso stampato e sempre qualche parola di incoraggiamento. Avrei dato in quel momento qualsiasi cosa per vivere quella stessa corsa verso la folla dei genitori, correre mani nelle mani dei compagni e scivolare su quel tappeto in una "hola" di gioia comunque, di orgoglio dell'esserci stati. Sapete, mi sono trovato in partite sotto di diversi gol e poco tempo dalla fine, a dir loro di non mollare, che si poteva fare, che si doveva provarci. In quelle due partite i bambini imposero ai loro avversari almeno il rispetto, se non il risultato. Qualche tempo dopo arrivò contro di loro anche la prima, sonante vittoria, ma anche quella sera, non mancarono i complimenti veri, non le solite frasi che chi vince rivolge a chi piange la sconfitta, e i bambini non piangevano per aver perso, ma per la tensione grande

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che si era venuta a creare in una, due gare particolarmente intense quanto leali e giocate a viso aperto. Se, ragionandone tecnicamente, i ragazzi avevano buttato via le solite facili occasioni, e se come al solito ci piace dar la colpa alla sfortuna, per qualche episodio che avrebbe potuto premiarci maggiormente, o maggiormente risparmiarci, le due partite sono sembrate senza soluzione di continuità un'unica partita, con protagonisti dai volti diversi, quattro tempi giocati da sedici bambini come un'unica squadra. Mi rendo conto che chi legge considererà queste parole forse un po’ troppo enfatiche, ed il loro tono epico, pesante ed inutile, ma questo racconto non vuole essere cronaca di una partita, tanto meno ha bisogno di esaltare o encomiare le gesta di quella che è, e per fortuna rimane, una piccola squadra del settore giovanile di una piccola società di quartiere. Le parole nascono tra le mie dita e davanti a me hanno preso questa forma, che è anche quella dei miei pensieri, del mio sentimento verso questi miei piccoli compagni di viaggio. Vorrei ricondurre questa storia nella ragione e portarvi a comprendere quanto probabilmente sapete già dentro di voi, se, come me d’altra parte, vivete e avete vissuto queste esperienze, di padre, di madre, di amico di ragazzi che sono veri campioni, perché dentro di loro non c’è ancora nulla di quello che inquinerà l’adulto inevitabilmente. A scuola, su banchi ancora troppo piccoli per possa sedere io al posto di mio figlio, molti degli avversari della partita della domenica scorsa o di quella prossima, siedono e scherzano insieme ai nostri piccoli eroi, come molti dei compagni veri della squadra di quartiere, condividono anche le ore e le maestre, e le ricreazioni fatte di calci ad una palla di gommapiuma in un cortile accanto alla strada asfaltata. Nulla sembra oggi dividere i sogni e le attese di uno o dell’altro, nemmeno la passione per una squadra “vera”.

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La rivalità nei giochi o nel colore di una maglia sempre troppo somigliante nella misura così piccola, per essere diversa dalle altre, si annulla di fronte all’esser bambini. Non vorrei far pensare che da noi e solo da noi ci sia un certo modo di concepire il calcio giovanile, e che altrove tutto sia marcio e falsato da comportamenti poco regolari, ma purtroppo devo dire che troppo spesso,senza voler recitare la parte di vittima sacrificale consueta, abbiamo dovuto lamentare situazioni che a dir poco lasciavano l’amaro in bocca, in particolare da parte di società che vantano storia e blasone affermato, famose non solo in ambito cittadino, per trofei e vittorie a ripetizione, e questo per me rappresenta un pessimo modo di insegnar sport ai ragazzi, che capiscono perfettamente quanto accade in campo, e se pure ben contenti approfittano ed accettano la loro posizione di superiorità in malafede acquisita, applicheranno domani questo concetto ai livelli superiori, e se si ritroveranno, buon per loro, a calcare campi importanti, non troveranno strano il ricorso a sotterfugi, inganni, addirittura doping, che potranno garantire loro risultati altrimenti immeritati.

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Capitolo IX Il planetario della bambola russa

"...anche se il nostro maggio ha fatto a meno del vostro coraggio se la paura di guardare vi ha fatto chinare il mento

se il fuoco ha risparmiato le vostre millecento anche se voi vi credete assolti siete lo stesso coinvolti

e se vi siete detti non sta succedendo niente... convinti che fosse un gioco a cui avremmo giocato poco

provate pure a credervi assolti, siete lo stesso coinvolti..."

Fabrizio De André (La canzone del Maggio)

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“Quante strade deve percorrere un uomo prima che tu possa chiamarlo uomo?

E quanti mari deve navigare Una bianca colomba

Prima di dormire sulla sabbia? E quante volte devono volare

Le palle di cannone Prima di essere proibite per sempre?

La risposta, amico mio Soffia nel vento

La risposta soffia nel vento E quanti anni può esistere una montagna

Prima di essere erosa dal mare? E quanti anni gli uomini

possono esistere Prima di essere lasciati liberi?

E quante volte può un uomo volgere lo sguardo

E fingere di non vedere? La risposta, amico mio,

soffia nel vento La risposta soffia nel vento

E quante volte deve un uomo guardare in alto

Prima di poter vedere il cielo? E quanti orecchi deve avere

un uomo prima di poter sentire

gli altri che piangono? E quante morti ci vorranno

Prima che lui sappia Che troppi sono morti? La risposta amico mio,

soffia nel vento La risposta soffia nel vento.”

Bob Dylan (Blowing in the wind)

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Se il ricorso frequente a giocatori di leva superiore, mascherati facilmente grazie alle procedure di tesseramento lacunose, è di per sé antipatico, antisportivo e grave, lo è ancora più sfruttare la posizione di arbitro da parte di un dirigente della società, per agevolare spudoratamente la propria squadra, adottando decisioni mai imparziali, e subordinate a favorire un risultato positivo ad ogni costo. La notevole faccia tosta di questi arbitri improvvisati, arriva persino a mascherare il proprio comportamento indifferente con un atteggiamento da caduto dalle nuvole, o peggio di superiore prepotenza, rifugiandosi addirittura, come capitato in una occasione nel dire di far lo stesso la prossima volta e di non lamentarsi, così saremo alla pari. Resto così purtroppo molto contrario alla decisione di non assegnare un arbitro anche ai campionati dei più giovani, e con dispiacere lo dico, perché da arbitro improvvisato ho scoperto che è ancora più bello osservare queste partite da un punto di vista veramente privilegiato. Certo, solo apparentemente non coinvolto, ma credo questo sia del tutto impossibile, ma vivendo gli incontri da dentro il campo, imparando a seguire i movimenti dei ragazzi che cercano di mettere in pratica le istruzioni dei loro allenatori, anche questi comunemente, semplici appassionati che donano il loro tempo per i bambini, ed in cambio ricevono soltanto i loro sorrisi e la soddisfazione di qualche bella vittoria, o di un apprezzamento per il loro lavoro che non sarà mai abbastanza grande. L’arbitro improvvisato, deve secondo me comprendere in tutta modestia, il proprio ruolo di ripiego in un sistema che riserva solo al grande calcio, gloria e risorse ingenti, sottovalutando enormemente le possibilità educative dei settori giovanili non già delle grandi società, che per arrivare a risultati stabilmente eclatanti fanno largo uso dello strumento della selezione, che permette di far giocare con continuità dieci bambini su quaranta per ogni leva, mentre i rimanenti servono esclusivamente per riempire le casse sociali con il

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versamento delle quote di iscrizione adeguate al blasone, ma delle piccole realtà di quartiere, che raccolgono comunque numeri consistenti e di tutto rispetto, togliendo spesso dalla strada bambini in situazioni di disagio, o realizzando con un ampia comunità di intenti tra gli associati, gruppi di grandissimo valore per quanto riguarda lo sviluppo in amicizia e solidarietà umana tra i bambini e gli adolescenti. L'universo sportivo, conta numerosi tipi di corpi celesti o d'altri migliori colori, e quelli, tra tutti i corpi viaggianti o rimanenti, che possiamo maggiormente considerare, sono i pianeti ed i satelliti di questi. Pianeti, presenti anch'essi in forme e dimensioni differenti, si possono considerare quei clubs, quelle società che godono di autonomia gestionale pressoché totale, vuoi perchè forti di sostanziose finanze, vuoi perchè forti di notevoli appoggi politico-economici, vuoi perchè alcuni di essi fanno parte a loro volta di un sistema planetario più elevato, cosiddetto guida, a cui fanno riferimento per interessi più o meno occulti gli altri pianeti principali. Chiaramente tra i pianeti guida, esistono notevoli differenze e distanti sono tra loro, ma distribuiti nel firmamento sportivo abbastanza equamente, in modo tale da spartire la maggior quantità di torta possibile, senza doversi pestare troppo i piedi. I pianeti guida spesso si aggregano in sottosistemi che sconosciuti ai più, tendono a far variare a loro piacimento gli equilibri più o meno stabili dell'universo sportivo calcistico, esercitando notevoli influenze gravitazionali sugli organismi stellari preposti al controllo universale, vedi federazioni, istituzioni, organizzazioni, solo come alcuni esempi di tali corpi celesti. Nell'orbita dei pianeti guida ed eventualmente di quelle aggregazioni, chiamate in gergo astrocalciofisico, buchi neri senza fondo, viaggiano poi gli altri pianeti minori, ma non molto meno importanti, che riescono però a gestire le loro orbite con una discreta autonomia, fatto salvo l'intervento dei pianeti guida, qualora tali

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orbite minori, possano intersecare le loro e provocare quindi scompensi fastidiosi nella gestione di potere. Questi pianeti minori, questi clubs, vivacchiano alla bell'e meglio, con alterne fortune, senza poter mai sperare di raggiungere mete a loro vietate, senza peraltro nemmeno ambirle, ma posti dalla loro subalternità in una situazione di relativa tranquilla inerzia. I pianeti minori a loro volta possono suddividersi in categorie secondo la loro grandezza fisica, ed importanza economica territoriale, in quanto normalmente è più apprezzato un pianeta con nulle od addirittura pessime condizioni finanziarie, ma ben collocato geograficamente, possibilmente in aree vicine e facilmente controllabili, che altri pianeti forse più equilibrati gravitazionalmente, ma di posizione fisico-politica ininfluente. Accade spesso che i reggenti dei pianeti guida, riuniti in conclave, decidano variazioni di orbita a carico di singoli o gruppi di pianeti minori, salvo imprevisti legati a fattori non preventivabili quali corsi e ricorsi storici, virus epidemici ed altri di rara e non endemica localizzazione. In alcuni casi tali manovre riescono facilmente grazie anche al tacito consenso di tutti i pianeti minori spesso assoggettati alla confederazione stellare, mentre raramente si verifica l'imprevedibile caos stellare, chiamato dagli addetti ai lavori "bordello di Carraro" dal nome dello scopritore e primo scienziato ad impiegarlo diffusamente. In questi casi, si assiste ad una lenta ma inesorabile implosione dei sistemi interessati, che può durare alcuni mesi, e porta normalmente ad una riforma dei sistemi stessi. Il sistema del calcio giovanile è in una profonda crisi, dettata dagli spaventosi interessi in campo. Tanti si adeguano e galleggiano. Alcuni s’inseriscono nel sistema stesso allo scopo di sopravvivere. Solo alcuni pianeti, ad onore nostro, escono dal coro e rischiano, ma promettono la volontà di un futuro limpido.

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Una concezione del genere, non è pura utopia, poiché gli esempi reali di queste attività non mancano, e così dobbiamo rimproverare la poca attenzione dedicata dalle istituzioni a chi compare magari più raramente ai primi posti nei tabellini sulle riviste specializzate, ma al di fuori del calcio, mira a realizzare un lavoro di socializzazione rivolto anche al territorio su cui opera, in cui è integrata la società, e non solo per i propri ragazzi, ma per le famiglie, per gli anziani, per tutti coloro che vivono nella comunità della zona. Rimprovero però anche ai genitori dei ragazzi, una certa indolenza, un certo accontentarsi del “posteggio” del proprio figlio presso il campo da calcio, riservandosi però i mugugni d’insoddisfazione per i risultati mancati o per le mancate convocazioni, mentre si fatica enormemente a coinvolgerli nelle iniziative che mirano a “fare gruppo”. Oppure, anche soltanto a stare insieme, quali possono essere una festa annuale, messa su anche con scopi benefici, un raduno, un ritiro precampionato, una semplice spaghettata. Troppo spesso, forse convinti che il mondo deve venire a trovarti a casa, o che ogni occasione è buona per qualcuno per spillare denaro, si assiste ad una valanga d’indifferenza a fronte delle buone, comunque oneste intenzioni di pochi, pochissimi assidui. Che dire, so bene che sarà sempre difficile coinvolgere molte persone in un progetto che non porta gloria e non porta denaro, ma cedere il passo in questa piccola battaglia vorrebbe dire rinunciare al patrimonio di tutti i giovani che credono in noi e nelle proprie possibilità. L'arbitro improvvisato ha la possibilità d’essere testimone e giudice insieme nel momento in cui questi sogni sono in gioco. Senza caricarlo di troppe responsabilità, quando d'altronde molti manifestano una ridotta preparazione a svolgere questi compiti, deve sentire il dovere di agire con sportività e correttezza, gli errori in buona fede non contano: sempre ci sono stati, sempre ci saranno, si può solo cercare di limitarli con l'impegno e magari con maggiore

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aiuto da parte della Federazione, organizzando incontri più frequenti con chi ai dirigenti arbitro può insegnare e consigliare. Questo, onestà personale a parte. Manifesto così l'importanza di conoscerci e parlarci, di scoprire quanto ognuno di noi ha da mettere in gioco nelle motivazioni comuni. La fucina d’idee, si è rimessa in moto per osservare se stessa, il proprio interno, partendo dalle radici e dal letame, per arrivare sino ai più teneri ramoscelli. L'amore smisurato di questa gente che riesce a parlarsi addosso nel modo migliore, è qui evidente e lampante. Ognuno di noi, dà e riceve. Spesso è più ciò che riceviamo, in termini di conoscenza, d’allargamento delle nostre idee, d’emozione, di fratellanza, e perchè no, anche di polemica, critica e contrarietà. Il nostro contributo, per quanto grande ed immenso possa sembrarci al momento in cui lo proponiamo agli altri, di per sé è minimo e paritario, piccola goccia in un mare di idee, ugualmente meritevoli ed ugualmente soggette alle regole scritte e a quelle non scritte, che sono l'orologio di questa missione. Non ditemi di no, credo sia uguale per tutti. Se non avessi piacere nell'essere ascoltato, così come nell'ascoltare il pensiero altrui, eviterei accuratamente di ronzare da queste parti. L'egoismo narciso è inevitabile, come inevitabile è pensare di essere al centro del sistema solare con le proprie meravigliose opinioni. Per tutti è così, con le varie sfumature impresse dal carattere e dalla voglia di far emergere sulle altre le proprie tesi e le proprie idee. Anche nei confronti dell'esterno, a volte, e qui unitamente, ci comportiamo con egocentrismo, avendone buona giustificazione dall'importanza che crediamo di avere per ciò che facciamo, che ci eleva rispetto alla media dell'analogo prodotto-scuola di sport. Pensare, riflettere e voler agire dà fastidio. Per ciò che rappresentiamo, e per tutto quanto detto, siamo anche scomodi, perchè non rappresentiamo nessuno.

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La nostra non è la voce di una tifoseria organizzata e non è la voce di un importante club. La nostra voce c'è, ma si fa finta che non esista. La nostra voce è espressione di centinaia di teste, di cittadini e sportivi pensanti, ma di quanto scaturisce dal suo interno, se ne fa una palla di carta da cestino, perchè quelle voci, riunite sotto il simbolo di giuste richieste, non sono allineate e coperte, e tanto meno risulta esserlo la dirigenza di questa società. Non ci viene detto che non esistiamo e che non contiamo, semplicemente perchè ci ignorano, con il tacito consenso e ludibrio anche di quante altre società che spesso dalla nostra fragilità attingono e qui intingono il loro pane quotidiano. Oregina è una fucina d’idee? Bene, quelle idee non esistono. Oregina ha un'iniziativa? Bene, tale iniziativa non è degna d’interesse, ed è destinata a viversi allo specchio. Ignoro i reali motivi che portano enti ed istituzioni a cercare la disgregazione di ciò che per noi è un'importante realtà, però tali motivi, per curiosità e per delusione nel sapere che lo stesso esistono, mi piacerebbe conoscerli. Mi piacerebbe che un bel giorno ci fosse qualcuno, che rompendo la barriera che ci divide da "gli altri", da quelli che invece contano, venisse qua a raccontarci, seduti intorno al fuoco delle sere dei fantasmi, il perchè di un ostracismo non detto ma applicato. Ritengo che tale atteggiamento, sia dannoso e pericoloso alla lunga, per la sopravvivenza stessa dello sport giovanile, ma già, se non esistiamo, come vuoi che risultiamo utili o dannosi? E poi, se non esistiamo, come vuoi che qualcuno dall'altra parte, (che poi dovrebbe essere la stessa), si prenda la briga di tenerci a lezione sui perchè e sui come ci si deve comportare per essere accolti nella grande casa delle società che contano.

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Capitolo X I denti del Lupo

"Nessuno che sia rimasto vivo, deve essere un pareggio". Così i padrini vestiti di nero tirano la moneta per decidere il

punteggio.

Genesis (Selling England by the pound)

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Scrivo queste ultime pagine sette mesi dopo la sera in cui la squadra si strinse intorno a me, arbitro improvvisato e loro compagno di un’emozione intensa e così difficile da descrivere da non essere certo di averne saputo trasmettere, in queste pagine, i sapori ed il sentire. Mi è sembrato inevitabile arrivare sino a qui per terminare questo racconto, che non vuole davvero essere la cronaca di una partita, ma un modo per conoscere un po’ di più i nostri veri protagonisti, i ragazzi della squadra, e per me occasione per riflettere su alcuni aspetti dello sport giovanile e del calcio dei bambini in particolare. Le somme si tirano alla fine di un ciclo, ed oggi mi sembra il momento più adatto per farlo. Oggi si è chiusa la stagione con un’ultima partita, in un breve torneo intitolato ad un personaggio grande e vero, apprezzato indipendentemente della passione calcistica, il “Professore”, Franco Scoglio, che a Genova ha saputo dare molto pur nel suo carattere difficile e oltre le regole vincolanti di un calcio dove per tutti, è più facile parlare per luoghi comuni, che con intelligenza e sinceri sentimenti. Il Professore se n’è andato, in una sera d’autunno, ed ha voluto farlo a modo suo, clamoroso ed eccessivo come sempre, ma vero, anche di fronte alle telecamere che coglievano i suoi ultimi respiri, le ultime parole dette con il cuore e dal cuore che si spegneva. Ci lascia, mi lascia, un eredità fatta di ricordi e di considerazioni, non necessariamente sempre positive, ma importanti e rispettose di un uomo che a volte ha forse sbagliato ma con il coraggio di osare qualcosa, e senza timore o vergogna nel riconoscere i propri errori. Sono felice che qualcuno abbia reputato giusto intitolare a lui un torneo dedicato ai bambini, perché non se ne debba perdere memoria e perché chi del calcio seppe fare una vera filosofia di vita, spesso controcorrente, non cessi d’essere esempio ed istruzione per chi al calcio si avvicina. Oggi tutta la squadra ha giocato questa partita, e così, con tutti i miei bambini riuniti in quella che poteva solo essere una festa non di

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addio, ma di arrivederci tra pochi mesi, mi è sembrato di rivivere quella partita, quelle due partite in una, che ha lasciato un altro ricordo indelebile in me. Non importa come sia finita, non importa perché i risultati non contano mai, conta solo esserci, e mi sento di dover chieder scusa a tanti, ed in special modo ai miei ragazzi, perchè nel corso della stagione spesso non mi hanno potuto trovare al loro fianco, per gioire di una vittoria o piangere di una sconfitta. Sono incidenti di percorso, e mi dispiace chiamarli così, ma la sofferenza dentro che ho provato tante volte a saperli in campo a lottare, senza essere lì ad incitarli, la ricorderò per molto tempo e per molto tempo dovrò meditare su quanto di giusto e quanto sbagliato c'è stato nelle scelte, nelle decisioni prese durante questi mesi piuttosto complicati. I ruoli diversi che anche chi ha passione e la propria passione mette in gioco, si trova ad affrontare, a volte confliggono con le idee ed il cuore, e non sempre è facile restare del tutto indifferente agli accadimenti, e questi fanno parte del gioco e della vita, ne costruiscono il cammino, ne determinano il destino. A volte, anche, forse, sicuramente sbagliando, diventa più facile farsi un pochino da parte, pur col magone addosso, per non rischiare di rovinare tutto ciò per cui si è lavorato, coinvolti a costruire una bellissima scultura, le cui imperfezioni bisogna limare tutti insieme per arrotondare. Stando attenti a non lasciar correre troppo l’attrezzo, per non scavare un solco più profondo ed irrimediabile. Le tre partite del torneo Scoglio, hanno chiuso la stagione, addirittura con qualche giorno d’anticipo rispetto al solito, ma questo, immagino con gran soddisfazione da parte delle famiglie, che potranno volentieri approfittare di quest’imprevista libertà per qualche giorno in più di mare. Finita la stagione, il bilancio da trarre è non del tutto negativo, e se è vero che il riscontro del campo come spesso accade, c’è stato spesso avverso, non si può ritenere sciupata, o peggio sprecata, un’intera

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stagione passata insieme, nell’imparare qualcosa che non è solo il gioco del calcio, ma il gioco del divenire un anno più adulti, tutti. Il bilancio di una storia comune si fa tutti insieme, e se avremo modo di ritrovarci, magari tra qualche mese, non sarà una pessima idea sederci a parlare di quello che è stato, di quello che poteva essere e di quello che sarà. A fronte di qualche espressione corrucciata, notata spesso tra i genitori verso la fine di questa stagione, penso che sia positivo avere un gruppo solido ed unito pure nelle inevitabili maggiori difficoltà dovute a parecchi inserimenti, che ci sono stati ed hanno portato enormi benefici, qualche inevitabile magagna, ma tanta amicizia e simpatia tra i bambini. Vogliamo pesare cosa conta maggiormente, cosa veramente c’interessi di più, qual è il meglio per i nostri figli? L’esserci ritrovati tutti insieme a stringere idealmente in un abbraccio unico i nostri ragazzi è importante e vero, al di fuori del carattere e della personalità di ognuno di noi, ognuno con il suo proprio diritto ad essere ciò che è, e ciò che è capace di essere, nei momenti di vita sociale, pregi e difetti, tutto a buon peso e buon prezzo. Chiudere l’avventura di quest’anno per me ha rappresentato anche chiudere un momento non del tutto facile dal punto di vista personale, sportivo e di coinvolgimento con i bambini, con la squadra, di cui però sono certo di saper conservare soltanto i ricordi migliori, perché conscio di condividerne le ragioni con altri e di aver “metabolizzato” quanto di più doloroso potevo trovarvi. Chiudere stasera e ritrovarci alla ripresa con il nostro raduno, significa aggiungere un tassello importante alla crescita umana di ognuno di noi, nessuno escluso, e di questo devo riconoscenza a tutti i bambini, uno per uno, a tutti i loro genitori, ed al gruppo degli allenatori, che ha lavorato con entusiasmo, passione e competenza. Insieme con loro sono orgoglioso di aver potuto lavorare anche io, tutti insieme facendo bene e facendo male, soffrendo ed esultando,

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litigando e dialogando, sempre e soltanto nel buon intendimento del tentativo di dare il meglio. Sbagliando molto ma correggendo sempre con l’umiltà della passione e la comprensione del reciproco impegno, tutte o quasi tutte quelle piccole imperfezioni, quelle sbavature, che altri avrebbero finito per far divenire, come detto, irrimediabili sfregi alla nostra opera. Ripassando velocemente nella memoria tutti gli avvenimenti che hanno preceduto e seguito quella sera, che forse non ha dentro di se nulla di speciale, se non per me le motivazioni che mi hanno indotto a sporcar d’inchiostro questi fogli bianchi, mi rimane il cruccio di non esser capace di ripercorrerli qui tutti, memoria e diario di un’intera stagione, quindi da questo potrete esser salvi. Quanto possano dire poche righe uscite dal cuore, solamente i veri poeti lo sanno, e pensare che a volte loro stessi restano a pensare su un solo verso giorni e giorni limandone le sonorità e le affinità semantiche perchè migliore ne risulti il canto. Pochi uomini che poeti non sono, sanno prendere in mano una penna e lasciare sul foglio qualcosa destinato a rimanere. Pochi uomini sanno fare della loro vita qualcosa di buono, dove buono non è mai sinonimo di successo e quattrini, ma è solo buono per buono, certezza di positivo, in qualunque modo ed a qualunque costo. Pochi uomini sanno che dare un senso compiuto a ciò che fanno equivale a morire senza aver creato null'altro che indifferenza. Spesso ciò che si discosta dalla normalità è quanto di più buono esista, perchè un rigo sopra alla piattezza della gente che si accontenta e non osa. Ancora meno uomini sanno dare un valore all'amicizia, quella che non si chiede e non si vende, ma è lì per sempre e da sempre, stretta unione tra persone magari così diverse da non confonderle mai tra loro, persone che a volte nemmeno si conoscono, ma sono unite da un’idea, un ideale, una stretta di mano, un sogno.

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Quando tutto ti crolla intorno e le certezze sembrano abbandonarti sogni una mano che ti sorregga e ti porti dall'altra parte del guado, ma spesso questo rimane solo un sogno, e le mille difficoltà di essere, le devi affrontare da solo, da solo devi sbattere la testa sui muri, finché non trovi soluzione. Il lupo è più grande, immensamente più grande di noi, che scriviamo su un muro pensierini attaccati con lo scotch, e presto strappati dal vento. Anche qualcuno in mezzo a noi ci guarda male perchè sappiamo dire quanto altri non sanno nemmeno pensare pur chiamandosi a grandi elettori, e così in silenzio finge facilmente che non esistiamo: troppo superbo ed austero per lasciarsi sommergere dall'oceano di idee e di verità che gli proponiamo. Il lupo affila i suoi denti da millenni e noi al confronto ancora aspettiamo di vederci spuntare i denti da latte. Il lupo ha tante facce ed ognuna è diversa ed uguale all'altra per falsità e cupidigia, ingordigia ed ipocrisia. Il suo sorriso ti stordisce e ti raggira per qualche istante, ed ha gli occhi dolci di chi ti porta il regalo di Natale il giorno dopo l'epifania, e poi pretende insolentemente che glielo paghi. Il lupo noi dobbiamo imparare a cacciarlo, coraggio in spalla, con cannocchiale 60x, per scovarlo da lontano. Il lupo non si addomestica perchè lui vuole addomesticare noi da quando è nato il mondo. Il lupo però ha molti punti deboli e soffre sempre la fame perchè ne ha troppa, e noi possiamo e dobbiamo sfruttare queste sue deboli debolezze, per spezzargli le zampe e poi finirlo quando è già a terra. I denti del lupo ci fanno paura, ma questa lotta, dovrà sudarsela anche lui. Non chi scrive e nessun altro, da solo potrà mai pensare di cambiare lo stato delle cose, e restituire dignità di gioco allo sport, seppure allo sport dei bambini, perché troppi e troppo grandi sono gli interessi altrove per consentire a chi ha potere di decidere e di fare,

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di vedere nella palla del futuro la realtà di disgregazione delle potenzialità che ogni piccola attività di educazione porta con sé. Se l’esempio devono darlo coloro che costruiscono lo sport degli adulti, allora, bene, dovremmo prepararci tutti a cambiar mestiere ed a rinunciare ad ogni legittima aspirazione a veder riconosciute le nostre fatiche, il frutto della nostra passione. Se il mondo di sport al quale devono guardare questi bambini come destinato a loro, è quello rappresentato da corruzione, scandali, intrighi e ipocrisie, faremo meglio a insegnar loro a giocare una briscola bugiarda. Non possiamo dimenticare le radici di ciò in cui crediamo. E questa è storia.

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Capitolo XI I dimenticati

“il mondo si fonda sulle parole dei bambini” Detto ebraico

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Nella storia dell'archeologia dello scorso secolo, riveste un significato particolare ricordare quello che è sempre stato definito il Faraone Dimenticato, o più semplicemente ed emblematicamente: Il Dimenticato. Regnò nell'Egitto dal 1347 a.c. e dall'età di 11 anni, sino al 1338 a.c. quando d’anni n’aveva 20. Quei nove anni di regno, rimasero per così dire non "assegnati" dagli studiosi, per molto tempo. Esisteva, infatti, un buco temporale tra i regni di Smenkhkara e di Eye, ed addirittura il primo di questi veniva a sovrapporsi per un breve periodo a quello di Akhenaton. Poi il buio per anni. Sono trascorsi anni di buio anche per noi, caduti nell'oscuro limbo della dimenticanza, sedotti ed abbandonati, sedotti e dilaniati, sedotti e violentati da sovrani despoti senza amore, senza cuore e senza altra fede che nel dio denaro. Noi, archeologi di una fede che è passione e volontario impegno, abbiamo sudato scavando tra le sabbie infuocate della deserta politica cittadina, lottando con la burocrazia stolta ed inefficace come pietre messe a puntello di fragili pareti di fango. Noi miseri e giovani disegnatori di un passato e di un futuro che c’è appartenuto, ci appartiene e ci apparterrà, abbiamo alla luce di fioche speranze ritratto ogni minuscolo reperto ritrovato che ci rendesse luce in quei ricordi labili di fasti e glorie spente dal tempo. Noi, immaturi scienziati della storia recente, abbiamo analizzato i colori del nostro cuore e del nostro sangue per ritrovarvi quelli amati e mai abbandonati. Il mondo però aveva dimenticato il Dimenticato. Il mondo aveva cercato di cancellare dalla memoria gli occhi della verità, e noi, uomini dello stesso mondo e d’ogni tempo, nella memoria e nelle macerie di ciò che restava abbiamo immerso le mani sollevando amorevolmente ogni frammento, numerandolo, catalogandolo, fotografandolo, ripulendolo del fango delle voci e

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delle ingiustizie, delle parole dei parolai e dello scempio perpetrato da cupi foresti e subdoli spogliatori indigeni. Il Dimenticato morì giovanissimo, vent'anni, morì e mentre il suo regno passava ad altre mani e le sue figlie infanti venivano a riposare accanto al suo sarcofago splendidamente dorato, portava nel buio di una tomba così diversa da altri enormi simulacri di potere a tutti conosciute, il mistero del perchè di una morte e la tragedia dell'essere dimenticato da ogni popolo. Furono ricchissimi i tesori sepolti con lui, e meravigliosi agli occhi di Howard Carter che tremiladuecentosessanta anni dopo la sua morte, per primo trovò la sepoltura e poté fissare gli occhi negli occhi vuoti del re dimenticato. Hanno tanti e troppi nomi tutti gli Howard Carter di questa flebile associazione di quartiere, che con il loro Amore hanno risollevato il sudario che già ricopriva il loro re Dimenticato. Hanno tutti i nomi di tutti i bambini, e sono nomi che suonano bizzarri, che suonano d’avventure e di fumetti, di guerra e d’ironia. Stanno tutti scritti qui sul campo di terra e sassi d’Oregina, muro di pietra incrollabile a difesa e guardia eterna di un Re che solo l'anima dei suoi guerrieri ha tenuto in vita. Geroglifici della memoria che basterebbero a riempire il cielo se coi sogni si potesse scrivere, stanno su di un muro invisibile e storico. Noi poeti e archeologi traduciamo i sogni in numeri e parole e respiriamo con il nostro respiro che è il respiro dei nostri colori. Retorica e sogno, ma l'archeologia non è forse il sogno di sapere e vedere nelle tenebre del passato e nella luce del futuro? Il Re, Faraone Dimenticato, tornò alla luce e risorse la sua leggenda. Giovane mai invecchiato. Noi, mai del tutto morti e per sempre vivi nei nostri sogni e nelle paure di chi ci odia. Il buon Re, figlio di Amon, l'eroe, il quale non ha eguali, signore della forza che a centinaia di migliaia schiaccia i nemici e ne ammucchia i cadaveri.

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Il Re, ha forse ritrovato il suo sacerdote sciamano, ed i guerrieri archeologi affilano le armi in cerca dei nemici. Saranno molte le teste che orneranno le pagine dei nuovi libri della storia di questa gente. Oregina non ne ha bisogno, ha questi pazienti muratori che pietra su pietra edificano la fortezza che la protegge. Allora siamo anche noi davvero quegli archeologi che con il rispetto della conoscenza cercarono tra la sabbia quel Dimenticato che doveva esistere. Il Dimenticato nacque e si chiamò Tut-ankh-Aton, perfetta la vita di Aton, nome che poi, fu cambiato in Tut-ankh-Amon, salì al trono e si chiamò Neb-kheperu-Ra, signore della metamorfosi è Ra, il Sole. La metamorfosi è iniziata ed oggi è il primo giorno di scuola. Oggi ci svegliamo molto presto per aprire subito le finestre di casa, ed uscire sul balcone ancora assonnati, stropicciandoci gli occhi e con una strana sensazione dentro. E' quella sensazione che ti rimane nei giorni di festa non programmati, quando sai che dovresti uscire per andare a lavorare, eppure c'è qualcosa che è diverso dal solito, e tu non credi di saperlo. Hai messo la sveglia alla solita ora, eppure ti sei svegliato ancora prima, agitato, fremente come quando parti per le vacanze. C'è qualcosa da fare eppure non sai cosa. Poi di colpo ti rendi conto che oggi è festa, anche se le vacanze dovranno aspettare ancora un poco. Di colpo oggi ci siamo svegliati in un giorno nuovo, il primo giorno di un primo anno di una primaria era geologica, l'epocale cambiamento delle nostre comuni esistenze. Comuni vite che anche il prossimo lunedì si alzeranno per andare a lavorare, per andare a scuola, come se non fosse il mondo appena iniziato, alba fiammeggiante di un sistema planetario in formazione, di un pianeta dove la prima scintilla di vita ha dato il primo sussulto nelle profondità di un mare immenso e nero.

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Comuni vite perchè in comune si ritroveranno senza sapere di altri vicini a gomito, con un cuore appena nato e già forte di nuova vita. Comuni vite che in comune avranno colori strabilianti e gli stessi occhi profondi di chi la vita l'ha vissuta tutta ed è appena nato. Abbiamo aperto le nostre finestre, e abbiamo trovato che dai mille e mille vulcani in formazione si alzavano pennacchi immensi di nubi e fuoco. Ora realizziamo nel nostro cervello ciò che il nostro cuore ha saputo durante tutta questa lunga notte dove un istante è passato in un giorno.

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Capitolo XII Il Mago dei Sogni

"...Quando andrete a dormire questa sera, sognatemi. Io sognerò voi."

Catherine Webb ( Il mago dei sogni)

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Realizziamo che oggi è il primo giorno della nostra vita e che qualcosa, qualcuno, è arrivato per aggiungere, con un magico tocco di una strana bacchetta magica, quel soffio che ci ha riportato alla coscienza totale. Non è mai stata sopita del tutto quella coscienza, anche se malefici e inganni del tempo e degli uomini ci hanno fatto credere che era tutta una burla, che la nostra esistenza era finita, forse mai iniziata se non debole fiammella agli albori di quell'era precedente che ha visto il pianeta iniziare a raffreddarsi. Non è mai stata sopita del tutto e forti colpi d'ala li ha dati stasera, quando tanti cuori all'unisono battendo e tante voci all'unisono cantando un inno di una città di mare e nata dal mare, hanno riempito il cielo sopra un campetto da calcio a cinque sovraffollato da bambini, e gli occhi di quel magico mago seduto in disparte. Il soffio di quelle coscienze ha animato i polmoni di pochi ragazzi cresciuti uomini in una notte vestiti da quei colori addosso da tre anni. E il mago si è alzato ed è corso verso quei cuori in lacrime e felici. Felici di morire per una notte per risorgere fenice al mattino di un giorno di novembre. Il mago ha abbracciato l'abbraccio di quei bambini estranei ed immensi. Il mago ha alzato quella strana bacchetta magica da cui stelline dorate sprizzavano copiose e poi pensieroso l'ha riposta nella tasca destra della giacca a vento. Emetteva ancora una nota sola e fantastica e finimmo per confonderne l'immagine intravista con uno strano, vecchio fischietto rosso. Non aveva bisogno della bacchetta quel giorno, quella notte. La magia più grande si era già compiuta e l'avevano fatta quei bambini sognatori e marinai. La magia l'aveva stregato e pensò di ricambiare con un dono, il più bello che si potesse pensare.

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Ci vollero ancora lunghi mesi perchè nel suo laboratorio segreto il mago mettesse a punto la sua formula magica, perchè la fornace scaldasse al punto giusto e il materiale fosse pronto e uscisse a prender forma. Ma quei bambini aspettarono, sapendo che il dono sarebbe arrivato presto. Nemmeno i sussurri e i bisbigli di chi e cose informi che ancora nell'ombra di scagni puzzolenti d’oblio tramavano vendette ai danni del mago conquistatore di cuori e dei suoi cuori, riuscirono a ledere l'attesa febbrile che ad ogni ora dava nuovo fiato ai polmoni di quei ragazzi così soli, così unici, così orgogliosi di essere. Nemmeno la coltellata di una caduta li ferì a morte, e mille e mille vessilli comparvero nei loro sogni, ed ogni lenzuolo era speranza ed attesa. Il dono del mago è giunto oggi, ed aprendo la carta colorata, tolto il nastro che l'avvolgeva, un fulgido baleno comparve e schiarì il cielo sopra la città di mare. Nessuno capì subito bene, nulla sembrava cambiato. Solo i più accorti guardando un piccolo calendario, videro che ogni foglietto si era staccato e caduto a terra volava via trascinato da un vento caldo. Solo un foglietto rimaneva attaccato al cartoncino, e portava scritto il numero zero, anno zero. Ed ecco, siamo tornati a domani mattina, prima mattina di una nuova era appena iniziata. Il mago dorme nella sua casa, e molti dei suoi ragazzi che non moriranno mai, sono ancora addormentati. Chi è sveglio, assapora felice l'aria tiepida, ancora appena colorata di bianco e di blu di questa prima giornata dell'anno zero. Grazie Magico Mago dei nostri sogni. Basta un sorriso di uno qualsiasi di coloro che ieri aspettavano trepidanti il tuo dono, per riempire il cielo. Ora che sei con noi potrai perdere o vincere.

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Potrai sbagliare od aver ragione, e forse un giorno lontano la tua strada e quella di questi ragazzi si allontaneranno. Questi giovani amici non ti dimenticheranno mai, per quanto hai voluto dare, prima ancora di avere, e la carta colorata che avvolgeva il tuo dono, per sempre resterà racchiusa in una bacheca dorata a fianco di un muro solidissimo dove tanti innamorati ogni giorno versano parole e lacrime, gioie e delusioni, per raccogliervi soltanto l'amicizia che lega il fratello al fratello. Grazie Magico Mago, tu sei soltanto uno dei tanti sogni dei nostri sogni, tu non esisterai mai, ma questi bambini ti hanno vissuto dentro di loro, hai dato fiato ai loro polmoni e sangue al loro cuore pulsante. Adesso basta, cambia scena, ma cala anche il sipario. Finisce la stagione e finisce qui questo secondo racconto, del quale spero perdonerete errori, omissioni e divagazioni, e nel quale non sarà difficile per ognuno dei protagonisti, riconoscere qualcosa di se stesso, forse non tutto, perché di loro ho tracciato solo le poche linee essenziali che nel mio sentire ne formano il disegno del profilo, trascurandone volutamente od involontariamente le mille e mille sfaccettature, la puntinatura, le pennellate che formano la realtà di questi bambini, che ormai da tre anni seguo da bordo campo o da un angolo dello spogliatoio, pensando e sperando di non essere per loro soltanto chi prepara le distinte e porta una borsa piena di maglie e palloni. Un abbraccio ed un sorriso.

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Risposte Guardami quando senti l’amarezza Che sale dentro di te E le lacrime che vorrebbero uscire dai tuoi occhi Rabbioso fremito nel tuo cuore Non sarà mai facile ma saprai farcela Proprio quando ti sembrerà di essere Perduto Lontano Inevitabilmente sconfitto Non sono capace di darti Quel consiglio che vorresti ora da me E’ difficile anche il mio mestiere Il mestiere di padre Di uomo stato bambino Non sono capace di distogliere Il mio sguardo dal tuo E con gli occhi mi interroghi E sono domande profonde per te Vive nel senso della vita Le risposte dovrai averle da te stesso Le costruirai tu con il tuo sorriso E la tua voglia di crescere in fretta Ma saranno risposte senza senso Ora sfiora con il tuo pugno chiuso la mia mano E vai avanti così testardo e ribelle Vai avanti a muso duro Mentre ad ogni istante mi regalerai L’emozione di vederti ancora bambino

FGM

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corre la tua vita corrono mille e mille

i tuoi sogni e cercano la soluzione

e saprai sempre che una carezza o un bacio

ti sfiorerà dolcemente inaspettata

e saprai sempre che non sarai dimenticato

e saprai sempre che non dimenticherai

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Queste ultime righe sono state scritte il 24 luglio 2006. Tre giorni fa, nella notte di venerdì 21 luglio ha perduto la sua lotta contro una malattia crudele, una bimba di dieci anni, Beatrice, compagna di scuola di alcuni dei ragazzi della squadra 96 e di alcune ragazze del settore volley. Ho davanti a me in questo momento alcune fotografie scattate da mio figlio durante una gita scolastica di due mesi fa a Collodi, il Paese di Pinocchio, uno degli ultimi momenti di grande felicità insieme ai suoi amici, per lei, ed il suo sorriso è difficile da dimenticare. Offrire a lei una dedica di questo racconto è talmente riduttivo dell'emozione che provo in questo momento da non sapere nemmeno se l'aver scritto il suo nome in apertura sia un bene, un male, oppure nulla. Vorrei solo poter dare un insignificante contributo affinché ognuno almeno per un attimo provi a riflettere, dedicandole invece un pensiero, una preghiera, un sorriso od una lacrima, ciò che ognuno crede, sente e vuole, purché non dimentichi questa bambina, così come tutti gli altri bambini strappati al nostro amore prematuramente, dolorosamente e, a mio vedere, senza che nessuna fede possa giustificarne il destino.

Fine

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