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Alta nel cielo è una cicogna

Atelier di poesia coordinato da Jacqueline Spaccini

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Università Mohammed V Rabat - Marocco Dipartimento di Studi Italiani Anno accademico 2014-2015 2015©Jacqueline Spaccini

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PREFAZIONE

Il fiume della poesia

La poesia è un fiume continuo, libera l’essere umano – non solo la sua penna, dai vincoli del tempo e della storia. L’aiuta a oltrepassare i labirinti della vita verso mondi che equilibra con le nude esperienze e poi riveste con un tessuto di parole.

La poesia è l’acqua che dà vita alla lingua e ne perpetua la memoria. La creatività poetica è uno specchio: riflette la coscienza del poeta e lo avvicina alla profondità dei suoi lettori, invitandoli a condividere le sue inquietudini, la felicità e perfino le sue insubordinazioni. La lingua poetica celebra parole armoniose con nuovi significati e dimensioni infinite su un universo variabile.

Il Poeta approda in molti porti e scrive su molti temi e protegge i difensori della verità e della giustizia. Perché i poeti sentono i dolori, i desideri e le altrui sofferenze. Perché la loro parola racconta l’amore la fratellanza la tolleranza e la pace.

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La poesia dà rifugio alla libertà e alla speranza, ispira i popoli, conforta i sofferenti e i paria del mondo. La poesia è un’immagine scritta quando il tempo si ferma. Non deve forzatamente seguire le regole. È resistenza, estro, onestà e ispirazione.

La scrittura poetica esige un viaggio continuo verso l’ignoto e pure il coraggio di rivelare cosa c’è dentro di esso. La poesia esige che si bussi alla porta della fantasia in presenza della ragione. Produce significati sull’anelito alla libertà dall’autorità del luogo e del tempo. Cerca spiagge lontane da occhi censori e matite rosse.

Ho l’onore di scrivere questa modesta prefazione per presentarvi questo libro collettivo a testimonianza, a mio avviso, della facoltà degli studenti di scrivere e di innovare.

Fatima Az-Zahra Mouad Tetouan, 20 marzo 2015

(traduzione dall’arabo classico di Zakaria Yassine)

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NOTA DELLA CURATRICE

Nessuno potrà mai dire che cosa sia per davvero la poesia. Troppo complesso. Troppo soggettivo. Persino, a volte, qualcosa di estremamente collegato con epoche storiche o di subordinato alle mode.

La poesia è legatissima alla sua lingua. Sì, ma non completamente per fortuna, grazie al lavoro meritorio dei traduttori, i quali provano a «restituire» quanto più possibile del testo originale: le parole nel loro spirito autentico; non i suoni della lingua d’origine bensì un loro equivalente nella lingua d’arrivo; il senso; il ritmo.

Di che cosa parla la poesia? Di tutto. Di niente. Di un tutto immateriale e preziosissimo. Oppure di nessunissimo valore (per gli altri). Tutto può essere oggetto del suo raggio di azione, basta che esista una lingua per dirlo.

In una celebre scena de La tigre e la neve (2005), il professor Attilio De Giovanni, protagonista del film scritto diretto e impersonato da Roberto Benigni, dice al riguardo del tema dell’amore: Scrivete [le poesie] su un altro argomento… che ne so… sul mare, il vento, un termosifone, un tram in

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ritardo… ecco, ché non esiste una cosa più poetica di un’altra.

Vige la democrazia nell’universo lirico.

Chiunque può provarsi a scrivere poesia. Chiunque. Gli esiti saranno diversi, ma anche un bravo poeta compone poesie brutte o meno belle di altre. Magari solo meno accattivanti. Per il momento, perché non è detto: magari tra cent’anni saran diventate belle le brutte e brutte le belle. Tra cent’anni. Chi lo sa? Non si sa, né noi lo sapremo mai. E allora iniziamo il nostro percorso.

Un’ultima raccomandazione: abbiate fiducia negli errori. Gli errori di traduzione, i calchi dall’arabo all’italiano, le espressioni figurate tradotte nella lingua straniera, finiscono per arricchire la nostra lingua, l’italiano, che è una lingua accoglie tutti gli idiomi e li fa suoi, come fanno durante gli sbarchi gli abitanti dell’isola di Lampedusa.

Una volta un amico marocchino mi mise a parte di un errore: un improvvisato traduttore, travisando arabo e italiano, aveva tradotto * non-so-cosa * in * le tasche della notte *. Ma non esistono le tasche della notte in italiano!, esclamò l’amico mentre raccontava. Non esistono nella vita normale, ma in poesia sembrò a me che potessero esistere, e a pieno titolo.

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Me ne appropriai prontamente questo:

e scrissi

Ho rovistato nelle tasche della notte alla ricerca di stelle luminose. Ho trovato un buco in fondo a una piega e poche cose: un non so che odore di retrobottega un sorriso in apprendistato e briciole galeotte di magnificenza.

Ora iniziamo. Troverete forme poetiche cui approcciarsi e con le quali cimentarsi: haiku ed epigrammi. Poi passerete alla poesia libera e infine alla poesia mistilingue. Buon lavoro.

Jacqueline Spaccini

Rabat, 21 marzo 2015 Giornata mondiale della poesia

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1. Haiku

Cominciamo dalla forma più breve di poesia: l’haiku. Moderna e antica insieme, questa forma poetica esiste dal XVII secolo. Non tantissimo (il sonetto italiano è stato creato nel XIII secolo), ma neppure poco. Segue delle regole ferree, per noi incomprensibili, non soltanto perché non sappiano nulla della scrittura nipponica, ma anche perché – di conseguenza – non può avere le strutture delle lingue neolatine o anche anglosassoni. Loro hanno sonorità sintassi e strutture diversissime da noi; gli haiku sono forme poetiche brevissime. Credo che vengano battute solo dal celeberrimo (e profondissimo) M’illumino d’immenso del nostro Giuseppe Ungaretti.

Ci accontentiamo di dire che abbiamo così tradotto il concetto di haiku: 17 sillabe sono quelle che debbono usarsi per comporre un haiku, il tutto nel giro di 3 versi. Ma quel che più conta è che le due frasi che lo compongono, non debbono avere una continuità logica tra loro. Mentale sì, sentimentale sì, visionario- olfattiva sì; logico-consequenziale, no.

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Metto qui un esempio di haiku giapponese; è di Basho Matsuo (1644- 1694), considerato l’innalzatore di un siffatto componimento ad arte:

Mi siedo su una scala Di raggi di luna Il cielo è vicino

Oppure:

Mi volto Barcollando Solo il vento d’autunno

Questo haiku è di Koga Mariko, classe 1924.

Non vi sbagliate, né l’uno né l’altro contano 17 sillabe. Sono di più, ma questa è una traduzione in italiano di un haiku scritto in giapponese, non è l’originale. Non rispettano lo schema sillabico di ripartizione sui tre versi. Tenete conto però che è tradotto e che si perde di già tutta la potenza del contenitore, del contenente, la lingua e quel che evoca.

I primi haiku scritti nel mondo occidentale (ci riferiamo all’Europa e agli Stati Uniti) risalgono agli inizi del Novecento. In lingua inglese, giacché sono i britannici che a contatto con la

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civiltà nipponica entrano per primi a contatto con questo componimento. Trova in Jack Kerouac (1922-1969), lo scrittore della beat generation, un virtuoso dell’haiku negli Stati Uniti, poi la pratica si sviluppa rapidamente in tutta Europa. Oggidì ci sono convegni, corsi, associazioni, corsi di haiku e perfino festival (Toronto, Canada).

In Italia, lo schema classico è 5-7-5, cioè il primo e il terzo verso di cinque sillabe, il secondo verso è di sette sillabe. Ma non basta: occorre anche mettere un riferimento a una stagione, e così via.

Voi non diventerete degli specialisti dell’haiku. Vi basti tenere a mente queste poche regole:

1. I versi non possono superare le 25 sillabe (ci teniamo larghi)

2. L’haiku esprime sempre malinconia 3. No rime, no metafore, no figure di

stile. 4. Il linguaggio è sensoriale e attinge la

sua ispirazione dalla natura che è davanti ai nostri occhi.

Un esempio di haiku apparente – ma solo come essenza – che sia totalmente

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italiano potrebbe essere quello che ci regala Salvatore Quasimodo nel 1930:

Ognuno sta solo sul cuor della terra Trafitto da un raggio di sole: ed è subito sera.

Ma non lo è. Numero di sillabe a parte, il breve testo di Quasimodo è uno sfavillio di metafore.

Se volete essere ancora più vicini al componimento giapponese, ricordate che gli haiku danno l’idea di un’immagine con pochi suoni.

Sono spesso ispirati da elementi naturali, dalla bellezza spirituale, o da un’esperienza emozionante. E poi gli accostamenti audaci.

Leggiamo insieme un haiku di Kerouac:

Neve nelle mie scarpe Abbandonate Nido dello sparviero.

È molto importante ricordare che i

primi due versi hanno lo stesso pensiero logico («vedo che le scarpe che ho lasciato fuori di casa si sono riempite di neve), ma che il terzo se ne estranea completamente. Le due parti sono grammaticalmente indipendenti, e sono solitamente anche immagini separate.

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In apparenza, aggiungo io, giacché quel nido dello sparviero che Kerouac menziona, potrebbe essere per davvero il nido di un uccello rapace, come è anche vero che potrebbe essere l’immagine che gli suggerisce la neve nelle scarpe. Ma abbiamo detto che la metafora è fuorilegge, nel mondo degli haiku.

Poiché gli haiku giapponesi prevedono una pausa, introdotta da una parolina impossibile per noi [ka], allora l’ultima parte può essere preceduta da un trattino tipografico. Per es.: Che freschezza la sensazione dei piedi Contro la parete – siesta.

Torniamo al componimento: due idee

affiancate con una prospettiva diversa. Vi è liricamente espresso quanto osservato dai nostri cinque sensi.

Bene. Ora tocca a voi. A parte gli haiku liberi, ne avrete uno con un medesimo soggetto: l’albero tra quelli qui fuori nel cortile dell’università che «vi parla» – per usare un francesismo. Non stressatevi a voler seguire a tutti i costi lo schema 5-7-5.

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Disegno di 1. Zakaria Yassine

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cade una nespola

sull’erba bagnata

– nostalgia.

Omar Jaaidi

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dentro il mio cuore

se quell’olivo dorme

non mi lasci mai

Zakaria Yassine

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palline d'oro

luccicanti d'abete

- si fa notte

Sara El Jabrani

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dolori di cuore

sono foglie cadute

albero e corpo

Zakaria Yassine

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passando per il

tuo melo colorato

- mi perderei

Sara El Jabrani

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Lunghi quei piedi

pieni di foglie stecche.

Correva il vento

Sara El Jabrani

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2. Epigramma, anzi no, ekphrasis

Proseguiamo con l’epigramma. La parola, antichissima, serviva a designare il carattere o il ricordo di una persona venuta a mancare sulle lapidi dell’antica Grecia. Nulla di divertente, né di poetico.

Però poi abbandona i luoghi mortuari per diventare un esercizio di bello stile, di prodezza artistica, per i poeti. Diventa una poesia politica, una satira. I latini eccelsero in questo componimento. E tra i moderni ne farà uso persino il grande Alessandro Manzoni contro il malcapitato Vincenzo Monti.

La caratteristica dell’epigramma è la sua concisione puntuale, la sua efficacia sia pur nella brevità; in una parola: la sua icasticità. Si legga quest’epigramma che nel 1799 il Manzoni scrive – per dileggiarlo – all’intenzione del Monti:

Un vate di gran lode Sul principio d’un’ode Piange il suo fior gentile E il suo vigor virile, E quando alcun s’aspetta Ch’egli invochi il Paletta

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Od altro di tal arte, Invoca Bonaparte.

Ma a noi non interessa questa funzione. A noi interessa una variante dell’epigramma: l’ekphrasis. Parola che è rimasta tale e quale, senza traduzione, e che significa letteralmente descrivere con eleganza. Sì, ma che cosa? Non più persone, bensì luoghi e opere d’arte. tanto più bella sarà l’ekphrasis, tanto più saprà esprimere con le parole quel che evoca nella descrizione, come se l’avessimo sotto gli occhi. E allora il compito che avete da fare è il seguente: create un’ekphrasis a partire da un’opera d’arte tra quelle che vi ho proposte1. Le rime debbono essere in distici, la lunghezza dei versi è a vostra scelta, ma i versi non debbono essere inferiori a quattro. Ora tocca a voi: non ditemi quale quadro evocherete. Spero di riuscire a capirlo dalla vostra ekphrasis.

1 Le opere da me proposte erano 33, tra i più famosi quadri dell’arte occidentale. Visionabili qui: https://www.youtube.com/watch?v=PIe- 5G41uuY

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Disegno di 2 Zakaria Yassine

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Mi dipingerò disciplinato

come un uomo scontato è

il rimedio venturo

al mio dolore oscuro

In questa stanza semplice e ordinata

vedo un letto, delle sedie e una luce

dorata.

In questa stanza piccola e accogliente

vedo uno specchio, una brocca e un pittore

paziente.

Soukaina Jdia

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Una gran finestra c’è nel centro

Sul tavol bottiglia di vetro

Al muro uno specchio rettangolar

E bel letto dal freddo ballar

Abdelfattah Lamrabti

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La risposta per tutte e due le prove poetiche è:

La camera da letto (ad Arles), opera di Vincent Van Gogh (1888, Parigi, Musée d’Orsay)

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Il tempo è l’esistenza

passa come sopravvivenza

si ferma l’età

in attimi di pietà

Meryem Boukhalfa

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Questa è più difficile, ma poiché una sola opera tra quelle proposte “parla” di tempo, la risposta è:

La persistenza della memoria opera di Salvador Dalí (1931, New York, MOM)

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Oh! M’incanta se la guardo

è stata fatta da Leonardo

mette un velo trasparente

con un sorriso accogliente.

Sara El Jabrani

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La risposta è evidente. Si tratta di:

Monna Lisa (la Gioconda), opera di Leonardo

da Vinci (1503-1506, Parigi, Louvre)

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3. Poesia libera

Direte voi: la poesia finalmente libera, che pacchia, che libertà. Mica tanto, vi rispondo io.

Può sembrare paradossale, ma è difficile muoversi nella libertà. Anche se non c’è un numero obbligato di strofe (come è per il sonetto o per il madrigale), anche se non c’è un numero obbligato di sillabe (settenario, novenario o endecasillabo), anche se non ci sono più le rime.

Sì, ma... finché una poesia diciamo «tradizionale» osserva le regole classiche può essere una brutta poesia ma è di sicuro una poesia. Quando le regole non vengono più osservate, la poesia scivola verso la prosa – inevitabilmente o inesorabilmente – (scongiurata solo dall’a capo).

E allora, giunti a questo punto, chi stabilisce qual è il confine tra prosa e poesia? Quale sarà il metro di paragone per dire questa è una bella poesia, quest’altra è una brutta poesia; questa è una poesia quest’altra non è una poesia. Intanto stabiliamo che nel caso della poesia libera, non esiste l’espressione brutta poesia.

Una poesia piace o non piace. E basta. È banale o ricercata. E basta. Vi

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parla o è muta. E basta. Una poesia che voi potete giudicare bella e profonda, potrà sembrare vuota e senza interesse a un’altra persona.

Pensiamo alla poesia italiana (famosissima) più breve che esista: sto parlando di Mattinata. Si tratta di un componimento che Giuseppe Ungaretti scrisse nel 1917:

M’illumino d’immenso

È più breve di un haiku giapponese (che

oltretutto ha le sue regole) e qualcuno potrebbe chiedersi: ma è una poesia? Oggi, nel 2014. Provate a immaginare quel che debbono aver pensato nel 1917, quando un esempio tipico di poesia pubblicata e ammirata era così (do tre estratti poetici di Sergio Corazzini):

il mio cuore è una rossa macchia di sangue dove io bagno senza possa la penna, a dolci prove

eternamente mossa e la penna si muove e la carta s’arrossa sempre a passioni nove

oppure:

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la rondine di mare che ieri, mia dolente, volava sopra il lago, con l’alucce sgomente…

Ma anche:

O piccoli giardini addormentati In un sonno di pace e di dolcezze....

Ungaretti fa l’effetto di un Picasso.

Spacca tutto, divelle tutto, cancella le regole e le riscrive.

Che cos’è che rende la sua poesia così dissimile da tutte le altre? C’entra la sua sensibilità, certo, la sua capacità innovativa, anche, ma c’entrano anche altre due cose che sono solo sue. Mi riferisco alla guerra al fronte e al suo essere un italiano straniero2. Il suo essere è non essere inquadrato o meglio inquadrabile in un sistema prestabilito.

E poi siamo davvero sicuri che non vi siano elementi poetici tradizionali in Mattinata di Ungaretti?

Cominciamo dall’espressione che il poeta crea (non esiste “in natura”) m’illumino d’immenso, questo settenario spezzato in due versi irregolari. Intanto è una figura di stile, un’iperbole: chi può illuminarsi di immenso, se l’immenso è ciò che va oltre l’umanità, se è come l’infinito? E poi è quasi una sinestesia metafisica: essere illuminato corrisponde

2 Era nato ad Alessandria d’Egitto.

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a una sensazione visiva (la luminosità, la luce), mentre l’immenso è qualcosa che è un’intensità esterna, il cosmo, il creato con tutti i pianeti e tutte le stelle, fors’anche Dio, ma è un’immensità che esplode interiormente dentro di noi, come qualcosa che attenga al tatto.

Torniamo a noi, alla poesia libera.

Diciamo che grosso modo nella poesia libera tutto si gioca sul lessico (figure di stile comprese) e sul ritmo. Il ritmo sostituisce la sillabazione e la rima. Il lessico non dev’essere né prezioso, sfarzoso, baroccheggiante né frustro, trito, banale. Insomma: l’alma celeste del cor tuo soave NON VA BENE così come NON VA BENE casa mia casa mia per piccina che tu sia, tu mi sembri una badia. Niente fronzoli né banalità. E soprattutto niente automatismi linguistici!

Orbene, che cos’è un automatismo linguistico? È in genere un sintagma, una frase, un sostantivo con un aggettivo, un verbo e un sostantivo che vengono subito – automaticamente – alla mente.

Bene. Non soffermiamoci più sulla forma, prendiamo ora in considerazione la sostanza. Cioè, il contenuto.

Che cosa esprimere in una poesia

libera? L’ho scritto nella nota iniziale: in

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poesia tutti i soggetti sono trattabili, ogni argomento ha pari dignità.

Diciamo però che in genere l’argomento-principe è l’amore. Anzi, è l’amore infelice, l’amore unilaterale, non corrisposto, disperato, un amore finito anzitempo o che si macera nel dubbio (questo è un automatismo linguistico), un amoro róso dalla gelosia (altro automatismo linguistico).

L’amore. Può essere un argomento banale. Trito e ritrito. Difficile dire qualcosa di nuovo, eppure è l’argomento- motore del 95% delle poesie belle e brutte, famose oppure no, che vengono scritte. Come diceva Benigni ne La Tigre e la neve? Scrivete una poesia sul termosifone!

Scherzi a parte, intanto sceglite il soggetto del verbo della vostra poesia libera: è un IO? Un TU? Un LUI/LEI, magari sottointeso?

Diamo qualche esempio.

Quando il soggetto è Io

Oggi non si lavora, lo sai e io scrivo, per tramandarti un paese e dal suo grido umido lasciar scorrere […]

È un ponte franato questo paese, è un ponte franato

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questo paese, ma io ti vedo. (Francisca Paz Rojas)

Quando il soggetto io non parla di amore:

Sono stufa di vedere Eva che morde la mela sotto lo sguardo del serpente […]. (Barbara Pumhösel)

Quando il soggetto è lui/lei:

da vent’anni si preparava per la partenza le cose a posto voleva lasciare giacché tornare non era ammesso e poi sapeva solo di uno che era ritornato per cosa? Cristo a Lazzaro non aveva regalato la vita eterna aveva solo posticipato il dolore di dover rifare le valigie. (Vera Lúcia de Oliveira)

Lei è tutta sul letto, decomposta. Lui la aspetta nella vasca da bagno. Al piano terra è cominciato da giorni. Lei ora è in cucina. Ha già pianto e si affretta. Lui l’ha seguita con le sue lenti tabacco. […] (Mia Lecomte)

Quando il soggetto siete voi lettori:

Scegliete le mani pulitele bene ponetele su una carta assorbente che perdano i giorni acidi le rughe della noia

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il sudore dell’abitudine […]. (Eva Taylor)

Dopo queste poche osservazioni (stavolta ho scelto solo donne poetesse), stabilito un punto, vale a dire chi è il soggetto, cioè chi parla, passiamo al tempo verbale. Useremo il passato remoto, il presente, il futuro, l’imperativo o altro ancora? Direte voi: dipende. Dipende se racconto/esprimo nella mia poesia qualcosa che appartiene al passato, al presente o del futuro.

Ma no, la poesia non è legata a norme che appartengono alla realtà pratica di tutti i giorni… Vi do un esempio classico: La pioggia nel pineto (1902) di Gabriele D’Annunzio: Taci. Odi. Ascolta. Imperativi che assomigliano a indicativi presenti. Eppure quel che il poeta descrive non avviene in quel momento. È un presente storico in cui il poeta usa un virile (ma sommesso) imperativo rivolto alla donna che lo accompagna, chiamata Ermione.

E veniamo a una questione formale: la posizione degli aggettivi e dei sostantivi. Da questo punto di vista, l’italiano è più libero del francese. Consente per esempio di mettere il soggetto tranquillamente dopo il verbo, consente anche di poter mettere due

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aggettivi non di seguito all’altro, bensì: aggettivo+sostantivo+aggettivo.

Senza voler essere eccentrici, fate in modo di non proporre figure di stile (perlomeno le più note: metafore, ossimori, similitudini) masticate e rimasticate. Sorprendete.

Anzi, sorprendetevi. Leggete questa poesia (1964), quasi una prosa, di Piero Jahier:

Vogliono sempre impedirmi di essere triste; ma se è la mia sola gioia essere triste: cresce piangendo questa gemma d’albero che volete asciugare.

E Montale, che sa scrivere in mille modi diversi… Eccone uno:

Avevamo studiato per l'aldilà un fischio, un segno di riconoscimento. […] Non ho mai capito se io fossi il tuo cane fedele e incimurrito o tu lo fossi per me. Per gli altri no, eri un insetto miope smarrito nel blabla dell'alta società […].

Nella poesia cosiddetta libera, ci sono anche gli eccessi. Belli. Uno di questi è la poesia visiva (Apollinaire).

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E ora tocca a voi scrivere. Siete liberi, ma accogliete nella vostra libertà queste tre parole: albero, minareto e nasconde.

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Finestra

La finestra di vetro chiusa apre il mio cuore. E quel caro albero nasconde tutto il dolore. Esclusa, questa lacrima astrusa. Sento quel bel canto di minareto ma non riesco ad andare... Lui continua a sorridermi. E io provo solo a salvare quest’intimo e nuovo sentimento che adesso ricordo ancora. Fradicio di miele.

Zakaria Yassine

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Notte

La notte mi nasconde la vista del fiume brillante nel giorno, facendomi vedere soltanto l’albero vicino a casa mia; c’è così tanto buio; vedo il minareto offuscato.

Sara El Jabrani

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Senza titolo

Oh luna, illumina l'anima malata che nasconde l'albero passato che solo io lo veda e con l'arrivo del giorno inizi un’altra riga alzando lo sguardo al minareto.

Meryem Boukhalfa

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E finalmente vi lascio liberi: scrivete quel che sentite sgorgare da voi, come volete voi. Raccontate, descrivete, raccontatevi. Sia dato spazio alla poesia liberissima. Contaminàtela con la vostra lingua, se potete. Se volete.

Vi do un esempio, un frammento di Adriana Langtry, poetessa argentina da tempo stabilitasi in Italia:

Estoy un poco aquí un poco allá, come sciami d’api intorno a fiori di carta me alimento de aquello que no está

Riprendo la parte finale della scena in cui Roberto Benigni, alias Attilio De Giovanni, introduce i suoi studenti nel mondo della poesia. E concludo anch’io. Buon lavoro.

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Fatevi obbedire dalle parole… Se la parola ‘muro’, muro, non vi dà retta, non usatela più per otto anni, così impara! Che è questo? Boh, non lo so! Questa è la bellezza, come quei versi là che voglio che rimangano scritti lì per sempre… Forza, cancellate tutto e dobbiamo cominciare! La lezione è finita. Ciao ragazzi ci vediamo mercoledì o giovedì. Ciao arrivederci.

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Disegno di 3 Zakaria Yassine

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Senza titolo

Ciao, spiaggia mia! Ti sogno prima di vederti, vedo il volto di mia madre nel tuo cielo. Mi chiama, mi fa raccomandazioni, è angelicato dal sole. Vedendoti!

Sara El Jabrani

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Senza titolo

Notte gelida e oscura mi ghiacci l’anima, non sento i miei piedi, non sento le mie mani. Cuore ghiacciato e mente bloccata, non riesco a pensare! لاح ك شي ف ي ظ الم أع Vivo nel buio TOTALE ين ال نوم ال ي م ك ن Non posso dormire فن مضغ ل ي ج ال ي Non riesco a chiudere gli occhi Forse sto morendo... Aspetterò l’indomani, chi sa cosa porterà .هع م

Con sé. Sara El Jabrani

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Clandestinità I

Fra notte e giorno arrivo a Lampedusa dove si agita il Mediterraneo, cui non resiste nessuno. Quaranta giorni di acqua, ceci e un pezzo di pane duro, oddio! dov'è il mio diploma, la mia famiglia e qual è il futuro? Ciao! come ti chiami, di dove sei? io mi chiamo Nicolino, Piacere signore, mi chiamo Omar e sono marocchino vabbò! tieni la zappa, taglia quest'erba e poi pittura pure quel muro sono le nove quando finisco tutto in questo buio grazie alla chiesa e alla croce rossa per il latte, formaggio e tonno, Basta! vorrei tornare, mi manca la mia mamma e la mia terra come ad ognuno.

Omar Draoui

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E questa è la versione finale «modificata»:

Clandestinità II

Fra notte e giorno in Lampedusa sono, dove s’agita quel mare cui nessuno resiste

quaranta giorni d’acqua ceci pezzi di pane duro o Dio! Dov'è il mio diploma la mia famiglia,

dove il mio futuro?

*

Come ti chiami, di dove sei? Io sono Nicolino. Signore, mi chiamo Omar e sono marocchino. Vabbô! tieni la zappa, taglia quest’erba e poi

pittura pure quel muro. Sono le nove quando finisco in tutto questo buio.

*

Sia ringraziata la chiesa e la croce rossa per il latte

il formaggio e il tonno.

Ma tornare ora io voglio

Basta la mia terra

come a ognuno manca

mi manca.

Omar Draoui

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Albero

il cuore è un albero di castagno e le sue foglie tremano al tramonto

il buio flirta con gli alberi vieni a dormire tu e io

siamo strani

Zakaria Yassine

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Movimentata gioventù Passami davanti Brezza di primavera Fammi sognare Dolce melodia incoraggiante Dolce illusione passante

Oumaima Lalhou

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Ricordami

Ricordami Se mi trovi un giorno Dietro le porte dell'inferno Versando lacrime. Ricordami Se tento di venire da te Alle porte del paradiso Salvami.

Zakaria Yassine

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Ringraziamenti

Desidero ringraziare il Dipartimento di Studi italiani dell’università Mohammed V di Rabat in Marocco per avermi dato l’opportunità di dirigere e coordinare questo atelier di poesia con i miei studenti di italianistica.

Ringrazio altresì gli studenti, la loro curiosità e passione.

Un ringraziamento a parte merita l’amico Marcello Caratozzolo per aver trasformato questo testo in un ebook.

Ringrazio la poetessa Fatima Az-Zahra Mouad per la sua toccante prefazione. Ringrazio la poesia e con essa i poeti. Quelli che ho citato e quelli che non ho citato, tutti i poeti di sempre.

Ringrazio le cicogne che solcano quotidianamente i cieli del Marocco scrivendo indisturbate con il loro volo una riga di poesia terrestre.

Jacqueline Spaccini Lettrice di italiano

Università Mohammed V Rabat - Marocco

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©Jacqueline Spaccini

21 marzo 2015