L’ORÉAL-UNESCO FOR WOMEN IN SCIENCE · 2017-10-26 · Nei suoi 18 anni di attività il programma...

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L’ORÉAL-UNESCO FOR WOMEN IN SCIENCE 2016 PRESS KIT PER LE DONNE E LA SCIENZA IN COLLABORAZIONE CON

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L’ORÉAL-UNESCOFOR WOMEN

IN SCIENCE

2016

PRESS KIT

PER LE DONNE E LA SCIENZAIN COLLABORAZIONE CON

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Il programma “L’Oréal-UNESCO For Women in Science” è stato lanciato nel 1998 con un obiettivo semplice: fare in modo che le donne fossero equamente rappresentate a tutti i livelli del mondo scientifico.

Oggi il mondo si trova a fronteggiare sfide senza precedenti come, per citarne solo alcune, il cambiamento climatico, l’energia sostenibile, l’accessibilità all’assistenza sanitaria e la sicurezza. Sarà la scienza ad individuare alcune soluzioni e la scienza ha bisogno delle donne. Le scienziate che hanno ricevuto un riconoscimento da parte del programma L’Oréal-UNESCO hanno già dato prova di quanto il loro approccio scientifico possa rivoluzionare il modo di affrontare queste sfide.

La scienza, di fatto, è parte del futuro e ha bisogno di tutte le menti brillanti disponibili, indipendentemente dal genere. Il programma “L’Oréal-UNESCO For Women in Science” punta ad assicurare che la ricerca in qualsiasi campo possa beneficiare appieno dell’intelligenza, della creatività e della passione di metà della popolazione del pianeta.

Il mondo ha bisogno della scienza e la scienza ha bisogno delle donne perché le donne impegnate in campo scientifico hanno il potere di cambiare il mondo.

Isabel Marey Semper General Manager di L’Oréal Foundation

LE DONNE NELLA SCIENZApossono cambiare il mondo

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L’UNESCO considera la parità di genere una priorità globale. A livello generale, la situazione delle donne e delle ragazze in termini di accesso all’educazione, in particolare quella superiore, avanzamento di carriera e partecipazione ai processi decisionali continua a destare preoccupazione.

Secondo il rapporto “UNESCO Science Report: Towards 2030” la disparità di genere risulta accentuata soprattutto nelle scienze naturali dove il numero delle donne attive nel mondo scientifico rimane ancora inferiore in molte aree, quali le scienze fisiche e l’ingegneria.

Nell’ambito della collaborazione tra l’UNESCO e la L’Oréal Foundation, il programma “For Women in Science” si inserisce come strumento importante per dare grande visibilità al lavoro e all’eccellenza scientifica di eminenti ricercatrici. Il programma ha anche incoraggiato la carriera di numerose giovani scienziate a livello internazionale offrendo loro una rete di supporto costituita da peer e mentori.

Si può fare ancora molto per promuovere le capacità scientifiche delle donne e metterle nella condizione di poter essere presenti in tutti gli ambiti del mondo scientifico e nei processi decisionali a livelli apicali.

Flavia Schlegel Vice Direttore Generale del Settore delle Scienze Naturali dell’UNESCO

LE DONNE NELLA SCIENZApossono cambiare il mondo

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L’ORÉAL-UNESCO

FOR WOMEN IN SCIENCE

2016

L’ORÉAL-UNESCOFOR WOMEN

IN SCIENCE

un premio per donne che hanno il potere

di cambiare il mondo

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Nei suoi 18 anni di attività il programma “L’Oréal-UNESCO For Women in Science” ha premiato 92 eminenti scienziate e sostenuto 2.438 giovani ricercatrici. Ciascuna a proprio modo, queste menti brillanti hanno concretamente contribuito a rendere il mondo un posto migliore.

Le loro scoperte offrono nuove soluzioni e risposte a quesiti di vitale importanza, influendo quindi sulla vita di tutte le persone del pianeta. Le loro rivoluzionarie innovazioni stanno facendo progredire interi ambiti di ricerca e ne stanno persino aprendo di nuovi. Con il loro lavoro le vincitrici del premio contribuiscono a curare malattie, incrementare le risorse alimentari, favorire lo sviluppo sostenibile e assicurare la sopravvivenza del pianeta al fine di comprendere meglio l’universo in cui viviamo, approfondendo la conoscenza dei principi basilari della vita.

L’ORÉAL-UNESCOFOR WOMEN

IN SCIENCEun premio per donne

che hanno il potere di cambiare il mondo

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Brigitte Kieffer ha permesso di sviluppare nuovi analgesici e dimostrare la base biologica della dipendenza, rivoluzionando l’approccio a questa patologia e offrendo una speranza di recupero per tantissimi adulti e giovani impegnati a superare il dramma dell’abuso di sostanze.

La Professoressa Mildred Dresselhauss (Laureata 2007 per il Nord America) è una delle visionarie ricercatrici che hanno ricevuto il riconoscimento e sono state supportate dal programma “For Women in Science” nel corso degli ultimi 18 anni. Con un approccio pioneristico alla fisica, ha dedicato la propria carriera allo studio dei nanotubi in carbonio rendendo possibili diverse applicazioni che vanno dai materiali ultraleggeri per edifici, automobili e biciclette agli strumenti microscopici per somministrare medicinali direttamente all’interno delle cellule. Il suo operato è potenzialmente in grado di trasformare quasi ogni aspetto delle nostre vite.

La Professoressa Brigitte Kieffer (Laureata 2014 per l’Europa) è stata la prima scienziata ad avere finalmente isolato il gene per il recettore degli oppioidi nel cervello. Questo gene svolge un ruolo chiave nell’alleviare il dolore e la sua scoperta apre una strada nuova per la ricerca relativa alla gestione del dolore, ai processi di ricompensa e alle dipendenze comportamentali. Grazie a questa scoperta gli scienziati hanno infatti iniziato a comprendere il meccanismo per cui le droghe oppiacee possono fungere da antidolorifico e generare dipendenza. Il lavoro di

L’ORÉAL-UNESCOFOR WOMEN

IN SCIENCEun premio per donne

che hanno il potere di cambiare il mondo

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250Borse di studio assegnate quest’anno in tutto il mondo;

oltre 6.531 domande presentate

43Istituti scientifici di alto livello

coinvolti in tutto il mondo

353Scienziate coinvolte nel processo di selezione nell’ambito di programmi nazionali

e regionali, incluse 31 Laureate del programma

L’Oréal-UNESCO “For Women in Science”.

L’ORÉAL-UNESCOFOR WOMEN

IN SCIENCEprogramma

Dati principali 2016

Negli ultimi 18 anni

2,530scienziate premiate

in 112 paesi

92Laureate premiate per la loro

eccellenza in campo scientifico, due delle quali hanno successivamente vinto il Premio Nobel

2,438Giovani donne di talento hanno ottenuto

una borsa di studio per realizzare

progetti di ricerca

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Il programma L’Oréal-UNESCO “For Women in Science” ha fatto molto per le donne impegnate in campo scientifico nei due decenni dalla sua creazione. Ma la Fondazione L’Oréal e l’UNESCO ritengono che si debba ancora fare molto per accelerare il cambiamento. Il programma sta quindi portando il suo impegno ad un livello superiore per raggiungere la visibilità e il sostegno pubblici necessari a raggiungere i propri obiettivi con la necessaria rapidità e urgenza.

Il 24 marzo, la Fondazione L’Oréal e l’UNESCO hanno lanciato una campagna digitale per coinvolgere la comunità scientifica, le istituzioni e il grande pubblico nella sottoscrizione del Manifesto di “For Women in Science”.

I risultati della campagna saranno condivisi in occasione della “9th European Conference on Gender Equality in High Education and Research” che si terrà a Parigi dal 12 al 14 settembre.

L’ORÉAL-UNESCOFOR WOMEN

IN SCIENCEun’ambizione espressa

in un manifesto

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INCORAGGIARE LE GIOVANI DONNE AD INTRAPRENDERE UNA CARRIERA NEL MONDO SCIENTIFICO

IL MANIFESTO

FOR WOMEN IN SCIENCE

ABBATTERE GLI OSTACOLI CHE NON PERMETTONO ALLE SCIENZIATE DI ASPIRARE A CARRIERE A LUNGO TERMINE NELL’AMBITO DELLA RICERCA

CONSIDERARE PRIORITARIO L’ACCESSO DELLE DONNE A POSIZIONI APICALI E DIRIGENZIALI NEL MONDO SCIENTIFICO

METTERE IN RISALTO AGLI OCCHI DELL’OPINIONE PUBBLICA IL CONTRIBUTO DELLE SCIENZIATE AL PROGRESSO SCIENTIFICO E ALLA SOCIETÀ NEL SUO INSIEME

FAVORIRE LA PARITÀ DI GENERE ATTRAVERSO LA PARTECIPAZIONE DELLE DONNE, ANCHE CON RUOLI DI SPICCO, IN SIMPOSI E COMMISSIONI SCIENTIFICHE COME CONFERENZE, COMITATI E RIUNIONI CONSILIARI

PROMUOVERE ATTIVITÀ DI MENTORING E NETWORKING PER PERMETTERE ALLE GIOVANI SCIENZIATE DI PIANIFICARE E SVILUPPARE CARRIERE IN LINEA CON LE PROPRIE ASPETTATIVE

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L’ORÉAL-UNESCO

FOR WOMEN IN SCIENCE

2016

L’ IMPEGNO

italiano

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La Giuria è composta da Enrico Alleva (Etologo, Dirigente di Ricerca e Direttore del Reparto di Neuroscienze Comportamentali, Dipartimento di Biologia Cellulare e Neuroscienze, Istituto Superiore di Sanità di Roma), Mauro Anselmino (Professore di Fisica Teorica, Università degli Studi di Torino), Maria Benedetta Donati (Capo del Laboratorio di Medicina Traslazionale, Dipartimento di Epidemiologia e Prevenzione, IRCCS NEUROMED di Pozzilli (IS), Cristina Emanuel (Direttore Scientifico e regolamentare L’Oréal Italia), Federica Migliardo (Professore Associato, Dipartimento di Scienze Chimiche, Biologiche, Farmaceutiche e Ambientali, Università di Messina) Marcella Motta (Già Professore di Fisiologia, Università degli Studi di Milano. Membro effettivo dell’Istituto Lombardo Accademia di Scienze e Lettere) e Mauro Ceruti (Professore di Filosofia della Scienza presso l’Università IULM (Libera Università di Lingue e Comunicazione) di Milano.

Il bando per l’edizione 2016/2017, il regolamento completo e la domanda di ammissione, saranno disponibili a partire dal 15 Ottobre 2016 sul sito www.loreal.it.

In Italia, il programma “L’Oréal Italia Per le Donne e la Scienza” è giunto alla sua quattordicesima edizione. Ogni anno assegna 5 borse di studio del valore di 15.000 euro. Questa edizione ha visto aumentare tale valore per un totale di 20.000 euro ciascuna.

Fino ad ora sono state assegnate 65 borse ad altrettante scienziate.

L’Oréal Italia, con la collaborazione della Commissione Nazionale Italiana per l’UNESCO, ha istituito nell’ottobre 2002 le Borse di Studio “L’Oréal Italia Per le Donne e la Scienza” per favorire il perfezionamento della formazione di giovani ricercatrici nel nostro Paese.

Il premio “L’Oréal Italia Per le Donne e la Scienza” prevede il conferimento di cinque borse di studio del valore di 20.000 euro ciascuna a ricercatrici d’età inferiore ai 35 anni, residenti in Italia e laureate in discipline nell’area delle Scienze della Vita e della Materia, ivi incluse Ingegneria, Matematica e Informatica.

La Giuria, presieduta anche in questa edizione dal Professor Umberto Veronesi, Direttore Scientifico dell’Istituto Europeo di Oncologia, ha selezionato le cinque vincitrici tra oltre trecentoventi candidature pervenute.

L’ORÉAL-UNESCOFOR WOMEN

IN SCIENCEl’impegno italiano

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L’ORÉAL-UNESCO

FOR WOMEN IN SCIENCE

2016

L’ORÉAL-UNESCOFOR WOMEN

IN SCIENCE

le borsiste italiane 2016

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realizzare un approccio multi-messaggero nello studio dell’astrofisica e della cosmologia. È proprio in questo ambito si inserisce il progetto di ricerca “I suoni nascosti dell’Universo: ricerca di segnali gravitazionali periodici da stelle di neutroni

in un contesto multi-messaggero”, proposto da Irene Di Palma e da svolgersi presso il Dipartimento di Fisica della Sapienza Università di Roma. Il progetto ha lo scopo di sviluppare un’analisi dati per segnali transienti e periodici di onde gravitazionali emesse da sistemi binari di stelle di neutroni.

In particolare, si ritiene che la nascita delle cosiddette magnetar, stelle di neutroni altamente magnetizzate prodotte durante il collasso di supernovae, sia uno dei maggiori meccanismi di produzione di onde gravitazionali. Rispetto alle “normali” stelle di neutroni, infatti, il campo magnetico delle magnetar distorcerebbe la stella, disallineandosi rispetto all’asse di rotazione e producendo il cosiddetto effetto spin-down con conseguente emissione di onde gravitazionali. Secondo le stime, i segnali di queste onde sarebbero visibili per ore o giorni dagli interferometri terrestri, il che aumenta significativamente le possibilità di rivelazione.

Captare onde gravitazionali di questo tipo sarebbe estremamente importante, perché l’analisi dei segnali

potrebbe fornire informazioni preziosissime sulla struttura interna e sulla configurazione del campo magnetico delle stelle magnetar. Il progetto di Irene Di Palma è focalizzato sullo sviluppo di un solido sistema di analisi dati per tali segnali, volto a ridurre il più possibile il rumore di fondo – che in taluni casi può mimare la presenza di un segnale che in realtà non è di origine astrofisica – e a ridurre parimenti il numero dei parametri del segnale da esplorare, mettendo allo stesso tempo a punto una procedura di analisi non troppo onerosa dal punto di vista computazionale.

Per raggiungere tali obiettivi, Irene Di Palma farà affidamento sull’esperienza acquisita nello sviluppo e nell’applicazione di procedure per l’analisi di onde gravitazionali e di neutrini e di approcci multi-messaggero. Tali approcci sono in grado di fornire risultati estremamente ragguardevoli perché i messaggeri, essendo complementari, portano con sé informazioni diverse ma integrabili tra loro per capire i meccanismi interni che regolano il funzionamento delle sorgenti astrofisiche.

31 anni. Dopo gli studi classici, si è laureata a pieni voti a 23 anni in astronomia e astrofisica alla Sapienza Università di Roma. Successivamente ha avviato un progetto di ricerca sullo studio di onde gravitazionali e neutrini presso la Columbia University di New York. Ha conseguito il dottorato di ricerca in Fisica presso il Max Planck per la Fisica Gravitazionale di Hannover lavorando sulla prima analisi dati multi-messaggero congiunta che ha coinvolto tre diverse collaborazioni: LIGO, Virgo e ANTARES. Il suo interesse primario è l’analisi dei dati in ambito multi-messaggero, un’opportunità unica per comprendere la dinamica e la conformazione di diverse sorgenti astrofisiche.

Progetto:I suoni nascosti dell’Universo: ricerca di segnali gravitazionali periodici da stelle di neutroni in un contesto multi-messaggero.

La ricerca e i suoi obiettiviLe onde gravitazionali sono increspature dello spazio-tempo generate da grandi masse in movimento, predette teoricamente per la prima volta da Albert Einstein nel 1916 e sfuggite per lungo tempo all’osservazione sperimentale perché estremamente deboli e dunque difficili da rilevare. Nel settembre 2015, quasi un secolo dopo la formulazione della relatività generale einsteiniana, l’interferometro AdLIGO (Advanced Laser Interferometer Gravitational-wave Observatory) ha finalmente osservato un segnale di onde gravitazionali emesse in seguito alla coalescenza di un sistema binario di buchi neri, aprendo di fatto una nuova era nell’astrofisica. Il progetto “I suoni nascosti dell’Universo: ricerca di segnali gravitazionali periodici da stelle di neutroni

in un contesto multi-messaggero”, condotto al Dipartimento di Fisica dell’Università di Roma, La Sapienza, da Irene Di Palma, si propone di sviluppare un sistema di analisi dati per segnali transienti e periodici di onde gravitazionali emesse da sistemi binari di stelle di neutroni. La rivelazione di segnali di questo

tipo consentirebbe di ampliare la nostra conoscenza della struttura interna e della configurazione di stelle di neutroni altamente magnetizzate, le cosiddette magnetar.

BackgroundIl 14 settembre 2015 è una data storica nell’era dell’astrofisica. Gli scienziati dell’Advanced Laser Interferometer Gravitational-vawe Observatory (AdLIGO), due enormi interferometri siti a Hanford e Livingston, negli Stati Uniti, con la collaborazione degli esperti italiani dell’esperimento Virgo, a Cascina, hanno osservato per la prima volta al mondo il segnale di un’onda gravitazionale emessa in seguito alla fusione di due buchi neri. La scoperta ha confermato le previsioni teoriche contenute nelle equazioni della teoria della relatività generale di Albert Einstein, formulata nel 1916.

Un così lungo ritardo tra teoria e osservazione è dovuto principalmente al fatto che le onde gravitazionali, increspature infinitesimali dello spazio-tempo, hanno un effetto molto debole e dunque sono estremamente difficili da osservare. Per rivelare tali debolissime variazioni dello spazio-tempo, gli interferometri LIGO (e la sua versione avanzata AdLIGO) e Virgo usano fasci laser che percorrono avanti e indietro coppie di bracci disposti ad angolo retto parallelamente alla superficie terrestre e lunghi tre chilometri ciascuno (nel caso dell’osservatorio di Cascina) e quattro chilometri ciascuno (per i due osservatori di Livingston e Hanford).

I segnali di onde gravitazionali sono di estremo interesse per gli astrofisici, perché costituiscono, assieme a fotoni, neutrini e antimateria, dei veri e propri “messaggeri celesti” che portano con sé informazioni utilissime su struttura, conformazione e dinamiche di stelle e buchi neri. La rilevazione delle onde gravitazionali ha, di fatto, aperto l’era dell’“astronomia gravitazionale”, contribuendo a

Irene Di Palma

Dipartimento di Fisica, Università di Roma La Sapienza

Alla ricerca dei suoni nascosti dell’universo

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BackgroundLe malattie mitocondriali possono presentarsi a qualsiasi età e identificarle è tutt’altro che facile, per diversi fattori. L’attività dei mitocondri – gli organelli colpiti dalla malattia – è regolata sia dal dna mitocondriale che dal dna nucleare, e l’interazione tra questi due diversi genomi è ancora in buona parte sconosciuta. Inoltre, pur interessando a volte alcuni tessuti in particolare, come il cervello, i muscoli cardiaci e scheletrici (quelli con il più alto metabolismo ossidativo, di competenza mitocondriale) spesso le malattie mitocondriali sono sistemiche, con sintomi e basi patologiche diverse. La diagnosi richiede pertanto la presenza di un team multidisciplinare specializzato, composto da neurologo, pediatra, radiologo, biochimico e genetista.

Il gold standard nella diagnosi delle malattie mitocondriali è la biopsia muscolare su cui vengono fatti diversi esami di laboratorio, volti per esempio a identificare difetti mitocondriali come deficienze enzimatiche (per esempio della citocromo C ossidasi), alterazioni morfologiche (come le cosiddette ragged-red fibers, fibre rosse stracciate) o per misurare i livelli di coenzima Q10 (CoQ10). Alla diagnosi si arriva combinando insieme i diversi dati biochimici e genetici ottenuti, indicativi di un particolare disordine mitocondriale. Pur rimanendo l’esame principale ad oggi, la biopsia muscolare è una tecnica costosa e invasiva.

Il progetto di Valentina Emmanuele si propone di mettere a punto nuovi test di screening e di diagnosi meno invasivi, puntando anche a identificare nuovi marcatori biochimici che possano accelerare la diagnosi delle malattie mitocondriali e con essa la definizione della terapia più appropriata. Perché per curare le malattie mitocondriali, molte delle quali ad oggi affidate solo a terapie di supporto e sintomatici, è necessario prima di tutto capire la loro patogenesi e arrivare nel tempo più breve possibile alla diagnosi.

Per farlo il progetto di Valentina Emmanuele, che si svolgerà presso il Dipartimento di Medicina Clinica e Sperimentale dell’Università di Messina e presso il Centro Regionale di Riferimento per le Malattie Rare Neuromuscolari, procederà in diverse direzioni. Da una parte i ricercatori cercheranno di potenziare la diagnostica delle MD, in modo particolare validando efficacia, accuratezza e l’applicabilità di biomarcatori minimamente invasivi, quali i livelli nel siero di FGF-21, le funzioni mitocondriali nei leucociti e la respirometria ad alta risoluzione. L’idea è quella di poter utilizzare questi potenziali marcatori anche per valutare la risposta dei pazienti a nuovi possibili trattamenti. Uno degli altri obiettivi del progetto è quello di ampliare la conoscenza delle basi genetiche delle malattie mitocondriali, per esempio applicando tecniche di sequenziamento standard e di nuova generazione nello studio dei pazienti e delle loro famiglie, per identificare difetti genetici noti o non ancora descritti. Molti pazienti infatti ancora oggi non giungono a una diagnosi definitiva, a causa della complessità genetica delle MD, al crescente numero di geni associati a queste patologie e alla mancanza di una stretta correlazione tra genotipo-fenotipo.

Infine il progetto di Valentina Emmanuele si occuperà anche di valutare l’efficacia e gli effetti in vitro di alcuni composti farmaceutici che agiscono sulla funzione mitocondriale, anche grazie alla costruzione di una bio-banca mitocondriale: una collezione di fibroblasti, mioblasti e leucociti su cui validare e testare nuovi potenziali terapie. Senza contare che la comprensione dell’eziologia e della patofisiologia delle malattie mitocondriali, nonché la loro caratterizzazione biochimica e genetica, permetterà ai ricercatori di accumulare un bagaglio di conoscenza cui attingere nella progettazione di futuri trial clinici.

Valentina Emmanuele

U.O.C. di Neurologia e Malattie Neuromuscolari, Dipartimento di Medicina Clinica e Sperimentale,

Università degli Studi di Messina

Lotta alle malattie mitocondriali, a partire dalla diagnosi

35 anni. Laureata nel 2005 in Medicina e Chirurgia presso l’Università Campus Bio-Medico di Roma, nel 2010 ha conseguito il diploma di specializzazione in Pediatria presso l’Università degli Studi di Genova e nel 2014 il dottorato di ricerca in Genetica presso il medesimo Ateneo. Sin dai primi anni di specialità si è interessata alla ricerca nell’ambito delle malattie neuromuscolari, in particolare quelle mitocondriali, presso la U.O.C. di Neurologia Pediatrica e Malattie Muscolari dell’Istituto G. Gaslini. Per approfondire gli aspetti traslazionali di tale ricerca, nel 2009 si è recata presso la Columbia University di New York dedicandosi prima allo studio anatomo-patologico di muscolo e cervello e poi allo studio di pazienti con malattia mitocondriale e di modelli animali e cellulari delle patologie. Ha collaborato con la New York Stem Cell Foundation (NYSCF) in uno studio che ha dimostrato la possibilità teorica di prevenzione della trasmissione da madre a figlio di mutazioni del DNA mitocondriale tramite “mitochondrial replacement”. Attualmente svolge la sua attività di ricerca presso il Dipartimento di Medicina Clinica e Sperimentale dell’Università di Messina.

Progetto:Caratterizzazione di una coorte di pazienti mitocondriali: nuovi biomarcatori, diagnosi molecolare ed approcci terapeutici”

La ricerca e i suoi obiettiviLe malattie mitocondriali (Mitochondrial Diseases,

MD) sono un gruppo di disordini genetici che colpiscono i mitocondri, le centrali energetiche delle cellule. A causarle possono essere sia mutazioni a carico del dna nucleare che mutazioni contenute nel dna dei mitocondri. Le malattie mitocondriali sono tra le più comuni malattie genetiche rare: colpiscono 1 su 5000 individui. Queste malattie coinvolgono spesso diversi organi, e soprattutto quelli che utilizzano più energia, come muscolo e cervello. Nella maggior parte dei casi presentano una grande variabilità, sia nell’età di esordio, che può essere pediatrica o adulta, sia nel quadro clinico, che sotto il profilo biochimico e genetico, tanto che ancora oggi, a oltre cinquant’anni dalla scoperta della prima malattia mitocondriale, la diagnosi è complicata. Al momento la maggior parte dei pazienti con malattia mitocondriale viene curata solo con terapie di supporto e sintomatici. Il progetto “Caratterizzazione di una coorte di pazienti mitocondriali: nuovi biomarcatori, diagnosi molecolare ed approcci terapeutici” di Valentina Emmanuele, cercherà di colmare in parte queste lacune mettendo a punto nuovi standard per la diagnosi clinica e biochimica dei pazienti con malattia mitocondriale, caratterizzando il profilo genetico dei malati, e aprendo le porte potenzialmente allo sviluppo di nuove terapie.

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“Nuovo approccio farmacologico per il trattamento dell’obesità e dei disturbi alimentari correlati con gli episodi di binge eating”, che verrà coordinato da Maria Vittoria Micioni Di Bonaventura presso la Scuola di Scienze del Farmaco e dei Prodotti della Salute, Unità di Farmacologia, Università degli Studi di Camerino, grazie al finanziamento di L’Oréal.

Gli obbiettivi della ricerca sono due. Per prima cosa, verificare il ruolo svolto dal sistema adenosinico nello sviluppo del binge eating. Verranno infatti testati un agonista selettivo del recettore A2A, il VT 7, e un antagonista 8-etossi-9-ethyladenine selettivo del recettore A2A (ANR 94) su un modello animale di binge eating ben convalidato. Verranno inoltre valutati gli effetti delle due molecole da un punto di vista genetico ed epigenetico: verificando i cambiamenti di espressione genica dei recettori A2A nel modello animale sia prima che dopo il trattamento con composti dell’adenosina, e studiando quindi la regolazione epigenetica delle regioni promotrici dei recettori A2A. L’area cerebrale che verrà analizzata per prima sarà l’amigdala, per il suo ruolo chiave nella reattività emozionale, nel comportamento legato all’alimentazione e anche all’assunzione eccessiva del cibo palatabile.

Un aspetto importante da considerare è che questo progetto si basa su studi precedenti del laboratorio

della dottoressa Micioni, che mostrano chiaramente la validità del modello animale di binge eating che verrà utilizzato, e che i risultati preliminari suggeriscono che i composti che hanno come target il recettore adenosinico A2A potrebbero rappresentare effettivamente bersagli interessanti per il trattamento dei disturbi alimentari correlati con gli episodi di binge eating e obesità.

Il secondo obiettivo sarà quello di verificare se la somministrazione cronica dell’agonista VT 7 del recettore A2A sia efficace nel ridurre l’assunzione di cibo e il peso corporeo, in un modello animale di obesità, dopo uno studio di farmacocinetica per scegliere le dosi di VT 7 necessarie.

33 anni. Laureata con 110 e lode nel 2008 in Farmacia presso l’Università degli Studi di Camerino. Nel 2012 ha conseguito il dottorato in Scienze Farmaceutiche presso il medesimo Ateneo e la sua attività di ricerca si è focalizzata sui disordini alimentari e obesità. Per approfondire gli studi sulla neurobiologia dei disordini alimentari ha trascorso l’ultimo anno del dottorato presso l’Università di Zurigo, dove nel 2015 è tornata, supportata dal premio IBRO (International Brain Research Organization), per studiare l’influenza degli ormoni ovarici durante gli episodi di binge eating, ovvero le abbuffate compulsive di cibo appetibile.

Progetto:Nuovo approccio farmacologico per il trattamento dell’obesità e dei disturbi alimentari correlati con gli episodi di binge eating.

La ricerca e i suoi obiettiviMolti disturbi alimentari, come la bulimia, sono caratterizzati da fenomeni di binge eating: grandi abbuffate in cui si consumano compulsivamente enormi quantità di cibo. Solitamente si tratta di alimenti altamente calorici, che contribuiscono all’aumento di peso, al rischio di sovrappeso e obesità, e quindi all’insorgenza di patologie associate, come diabete, ipertensione e malattie cardiovascolari. Le cause dei disturbi alimentari e di fenomeni come il binge eating non sono ancora chiare, e per questo le strategie terapeutiche oggi sono ancora estremamente limitate. Di recente si è dimostrato che i recettori di un neurotramettitore, l’adenosina, potrebbero rappresentare un potenziale target per farmaci in grado di controllare l’assunzione smodata di cibo. Per questo, la ricerca di Maria Vittoria Micioni Di Bonaventura punta a verificare il ruolo svolto dal sistema cerebrale dell’adenosina nello sviluppo dei comportamenti alimentari compulsivi. Gli obiettivi dello studio, dal titolo “Nuovo approccio farmacologico per il trattamento dell’obesità e dei disturbi alimentari correlati con gli episodi di binge eating”, sono due: da un lato, testare l’effetto di un agonista del recettore

dell’adenosina, cioè un composto che interferisce con l’azione dell’adenosina, e verificare se è in grado di diminuire l’assunzione di cibo in animali con comportamenti paragonabili al binge eating umano; dall’altro, verificare se il composto si rivelerà efficace anche nel ridurre l’assunzione di cibo e il peso corporeo in un modello animale di obesità.

BackgroundCosa provochi lo sviluppo dei disturbi alimentari non è ancora chiaro. La comunità scientifica ritiene che il nostro patrimonio genetico potrebbe svolgere un ruolo fondamentale, predisponendo a una vulnerabilità innata verso l’insorgenza di questi disturbi. D’altro canto però è stato dimostrato che anche l’ambiente e l’esperienza possono spingere allo sviluppo di queste malattie, attraverso meccanismi epigenetici, cioè modifiche chimiche non ereditabili dell’espressione genetica. Per questo, oggi si punta a comprendere la natura delle interazioni tra geni e modifiche epigenetiche e in che modo queste influenzino il rischio individuale di sviluppare un disturbo alimentare, come il binge eating. Identificare i meccanismi causali, genetici, fisiologici, neurologici e ambientali, che determinano l’insorgenza di queste patologie aiuterebbe infatti gli esperti a sviluppare nuovi trattamenti terapeutici, oggi estremamente limitati.

Studiare i disturbi alimentari negli esseri umani però è estremamente difficile. Ma grazie a un modello animale, sviluppato dal team di ricerca del Professor Carlo Cifani dell’Università di Camerino, è stato recentemente possibile dimostrare l’efficacia degli agonisti del recettore adenosinico A2A nel bloccare gli episodi di binge eating. Il sistema di neurotrasmissione centrale dell’adenosina potrebbe quindi rappresentare un potenziale target per sviluppare farmaci in grado di controllare o ridurre l’assunzione di cibo. È per valutare meglio il ruolo dell’adenosina nello sviluppo dei disturbi alimentari che nasce il progetto

Maria Vittoria Micioni Di Bonaventura

Scuola di Scienze del Farmaco e dei Prodotti della Salute, Unità di Farmacologia, Università degli Studi di Camerino

Un farmaco contro le abbuffate di cibo appetibile

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arrivando rispettivamente all’84% e all’89%, dati Airtum). A contribuire sensibilmente a questa crescita sono stati due approcci terapeutici: i farmaci a bersaglio molecolare, che bloccano direttamente la crescita delle cellule tumorali e l’immunoterapia, che potenzia la risposta del sistema immunitario del paziente, rendendolo più aggressivo contro le cellule neoplastiche. Tra i farmaci a bersaglio molecolare più diffusi nel trattamento del melanoma metastatico ci sono gli inibitori di BRAF e MEK, molecole che inibiscono vie molecolari che, quando mutate, favoriscono la crescita incontrollata nei tumori. L’immunoterapia al contrario non ha lo scopo di agire direttamente sulle cellule tumorali, quanto di potenziare il sistema immunitario per renderlo più aggressivo nei confronti del cancro. Per farlo, una delle strategie è quella di somministrare anticorpi anti-PD1. PD1 è un recettore espresso sui linfociti T, e può legare PDL1-2, molecole espresse sulla superficie dei tumori. Quanto PD1 interagisce con PDL1-2 i linfociti T vengono inattivati e con essi anche la risposta del sistema immunitario contro il tumore, che può così continuare a cresce indisturbato con l’ “aiuto” di un sistema immunitario messo fuori uso. Gli anticorpi anti-PD1 impediscono questa interazione, aiutando i linfociti T, e quindi il sistema immunitario, a rimanere attivi contro il tumore. Entrambi gli approcci terapeutici, per quanto efficaci, non lo sono completamente, tanto che il melanoma metastatico resta a oggi una patologia ancora fatale. Una possibile strategia per aumentare l’efficacia dei protocolli terapeutici potrebbe essere quella di combinare le terapie a bersaglio molecolare (come sono appunto gli inibitori di BRAF e MEK) con l’immunoterapia con anticorpi anti-PD1, sperando in un effetto sinergico. Ma quando si combinano insieme due trattamenti è necessario innanzi tutto capire come ogni composto abbia effetto sia sul tumore che sul sistema immunitario, che interagiscono costantemente tra di loro. Il progetto di Martina Sanlorenzo si propone esattamente di capire in che modo avvengono queste

influenze, allo scopo di immaginare una terapia combinata che massimizzi l’efficacia e diminuisca gli effetti collaterali. Per farlo la ricercatrice utilizzerà una serie di esperimenti su colture cellulari prelevate dai campioni tumorali e dal sangue periferico di pazienti sani e affetti da tumore metastatico, sia su singoli tipi cellulari che in co-incubazione, vale a dire con diversi tipi cellulari. Questo per mimare l’interazione tra i diversi tipi cellulari, quali appunto cellule tumorali e sistema immunitario, che avviene nel microambiente tumorale. In una prima fase del progetto Martina cercherà di misurare il livello di espressione di PD1 e PDL1-2 sulle colture di melanoma in seguito al trattamento (in vitro) con inibitori di BRAF e MEK. Come mostrato da un lavoro precedente infatti, PD1 non viene espresso solo dai linfociti ma può essere espresso anche dal melanoma, ma non è chiaro come vari la sua espressione in seguito alla terapia con i farmaci a bersaglio molecolare. Successivamente il gruppo della ricercatrice ripeterà gli stessi esperimenti sui linfociti T, testando l’eventuale presenza anche delle molecole PDL1-2, sia su cellule prelevate da pazienti in trattamento con inibitori di BRAF e MEK che su donatori sani. Infine, l’ultima fase dello studio, cercherà di combinare insieme tutto, ovvero cercherà di capire in che modo cambi l’espressione di queste molecole (PD1, PDL1-2) su cellule neoplastiche e sui linfociti T fatte crescere insieme (in co-incubazione), e di capire che effetto abbia l’introduzione di una nuova variabile nel sistema, l’uso di anticorpi anti-PD1. In questo modo sarà possibile ricreare in vitro il micro-ambiente tumorale e capire se l’integrazione della terapia con i farmaci a bersaglio molecolare e l’immunoterapia possa essere una soluzione terapeutica migliore per il melanoma metastatico.

Martina Sanlorenzo

Divisione Universitaria di Oncologia Medica, Laboratorio di Experimental Cell Therapy,

Università degli Studi di Torino c/o Istituto di Candiolo IRCCS

Melanoma metastatico, verso una terapia integrata

30 anni. Laureata nel 2010 in Medicina e Chirurgia presso l’Università degli Studi di Torino, è attualmente specializzanda in Dermatologia e Venereologia e dottoranda in Medicina Molecolare presso il medesimo Ateneo. Sin dall’inizio si è occupata di melanoma, prima in clinica, e successivamente in laboratorio grazie ai 18 mesi di lavoro svolto presso il Melanoma Center (Ortiz Lab) dell’Univeristy of California di San Francisco (Ucsf). Negli Stati Uniti ha studiato i meccanismi di risposta molecolare alla target therapy. Al rientro in Italia ha integrato queste conoscenze con i modelli preclinici di immunoterapia, collaborando con la Divisione Universitaria di Oncologia Medica, Laboratorio di Experimental Cell Therapy, presso l’istituto di Candiolo IRCCS.

Progetto:Interazione tra farmaci a bersaglio molecolare e immunoterapia nel trattamento del melanoma metastatico: modello preclinico per la valutazione del potenziale sinergismo.

La ricerca e i suoi obiettiviIl melanoma è uno dei tumori più aggressivi della pelle. Ha origine dalla trasformazione dei melanociti, le cellule della pelle deputate alla produzione della melanina, il pigmento che ci protegge dagli effetti dannosi del sole. Secondo i dati raccolti dal rapporto Airtum, nel 2015 i nuovi casi di melanoma sono stati oltre 11 mila, con un aumento di circa il

3% nell’incidenza del melanoma negli ultimi cinque anni. Il melanoma è un tumore che può diffondersi rapidamente in altri distretti, peggiorando la prognosi della malattia. Nonostante le novità introdotte a livello terapeutico negli ultimi anni abbiano migliorato sensibilmente la sopravvivenza dei pazienti affetti da melanoma metastatico – la forma più aggressiva – il tumore resta una patologia fatale. Gli ultimi dati disponibili (Istat 2012) parlano di 1881 decessi per melanoma maligno. Il progetto “Interazione tra farmaci a bersaglio molecolare e immunoterapia nel trattamento del melanoma metastatico: modello preclinico per la valutazione del potenziale sinergismo” di Martina Sanlorenzo si propone di valutare il potenziale di efficacia di una terapia integrata per il melanoma, combinando due approcci terapeutici oggi usati nella pratica clinica: da un parte le terapie che colpiscono le cellule del melanoma, dall’altro quelle che mirano a potenziare la risposta del sistema immunitario contro il tumore. L’idea è quella di capire se è possibile combinare i trattamenti attuali in una nuova terapia integrata, che abbia un’efficacia terapeutica maggiore.

BackgroundNel corso degli ultimi anni la sopravvivenza a cinque anni dalla diagnosi di melanoma maligno è aumentata (14 punti percentuali nei maschi e 6 punti percentuali nelle femmine, dagli anni 1990-92 al 2005-2007,

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Negli animali non umani, così come nell’uomo, il contesto sociale può influenzare numerosi aspetti del comportamento, ma finora non è stato ancora esplorato il fenomeno della modulazione sociale della propensione al rischio (dove per “rischio” si intende la frustrazione derivata dal mancato verificarsi di un’attesa, come per esempio l’omissione di una ricompensa). È per valutare meglio il ruolo delle influenze di tipo sociale che nasce il progetto di ricerca “Modulazione sociale della propensione al rischio nei primati non umani e nei roditori: un approccio comparativo per comprendere le basi psicobiologiche del gioco d’azzardo patologico nell’uomo”, che verrà condotto da Francesca Zoratto presso l’Unità di Primatologia Cognitiva dell’Istituto di Scienze e Tecnologie della Cognizione (ISTC) del CNR di Roma. L’obiettivo della ricerca è indagare, nei primati non umani e nei roditori, se la vicinanza di un individuo della stessa specie (conspecifico) possa influenzare le decisioni prese in condizioni di rischio.

Parteciperanno allo studio 12 ratti (Rattus norvegicus) e 12 cebi dai cornetti (Sapajus spp.), scimmie sudamericane ospitate presso il Centro Primati dell’ISTC. Ciascun individuo affronterà un compito di “scelta rischiosa” sia da solo sia in coppia con un conspecifico: in particolare, gli sarà presentata una serie di scelte tra un’opzione sicura (che offre una quantità di cibo piccola e costante, corrispondente a 2 unità) e un’opzione rischiosa (che in un terzo dei casi fornisce una quantità di cibo più grande,

corrispondente a 6 unità, e nei restanti due terzi non fornisce cibo). Quando il soggetto sperimentale “scommette” sull’opzione rischiosa e “perde”, la ricompensa grande verrà interamente corrisposta al conspecifico: in questo modo, sarà possibile comprendere se osservare un compagno che consuma la mancata ricompensa influenzi nelle prove successive, la propensione al rischio del soggetto sperimentale.

Studiando il comportamento dei primati non umani, le specie filogeneticamente più vicine a noi, sarà possibile stabilire se le anomalie dei processi decisionali in condizioni di rischio che possono manifestarsi negli esseri umani (causando gioco d’azzardo patologico) siano emerse prima della separazione della linea evolutiva umana da quella degli altri primati o se siano un’acquisizione più recente, forse dovuta ai condizionamenti socio-culturali propri della nostra specie. Infine, studiare i fattori che modulano la propensione al rischio negli animali potrà fornire importanti informazioni su quali sono i fattori che influiscono maggiormente sulla propensione all’azzardo nella specie umana. In conclusione, i risultati di questo studio contribuiranno alla comprensione delle origini evolutive e delle basi cognitive della propensione all’azzardo, normale e patologica, negli esseri umani.

34 anni. Laureata a pieni voti nel 2008 in ecologia con indirizzo comportamento animale presso l’Università degli Studi di Parma, con una tesi sulle risposte collettive antipredatorie nello storno. Per approfondire alcuni aspetti di tale studio, si è recata presso l’Università di Groningen (Paesi Bassi) nel dipartimento di biologia del comportamento. Nel 2013 ha conseguito il dottorato di ricerca in etologia presso l’Università degli Studi di Firenze, con un progetto riguardante lo studio preclinico dell’impulsività e della propensione al rischio. Sin dagli esordi si è dedicata alla ricerca in ambito etologico, occupandosi di temi di ricerca interdisciplinari, studiando specie differenti e integrando dati provenienti da diversi ambiti. Il suo interesse primario è lo studio del comportamento degli animali in una prospettiva funzionale ed evolutiva. Durante il post doc, si è dedicata principalmente allo sviluppo e alla validazione di modelli animali di disturbi neurocomportamentali umani, tra cui il gioco d’azzardo patologico.

Progetto:Modulazione sociale della propensione al rischio nei primati non umani e nei roditori: un approccio comparativo per comprendere le basi psicobiologiche del gioco d’azzardo patologico nell’uomo.

La ricerca e i suoi obiettiviIl gioco d’azzardo patologico è un disturbo del comportamento umano la cui diffusione nel mondo è cresciuta molto rapidamente negli ultimi anni. Chi ne è colpito sviluppa una vera e propria dipendenza dal gioco d’azzardo, che lo spinge a non controllare adeguatamente il proprio comportamento ludico e questa malattia ha spesso conseguenze pesantissime sull’equilibrio psichico, economico e sociale di chi ne soffre e di chi gli sta vicino. Il progetto “Modulazione sociale della propensione al rischio nei primati non umani e nei roditori: un approccio comparativo per comprendere le basi psicobiologiche del gioco d’azzardo patologico nell’uomo” di Francesca Zoratto, si propone di indagare, nei primati non umani e nei roditori, se e in che modo la presenza di un conspecifico influenzi le decisioni prese in condizioni di rischio, partendo dall’osservazione che, nella specie umana, la vicinanza di altre persone può condizionare i processi decisionali, modificando la scelta tra un’opzione sicura e un’opzione dall’esito rischioso. Lo studio del comportamento in animali non umani può aiutare a comprendere le basi psicobiologiche

del gioco d’azzardo patologico negli esseri umani, aiutando la comunità medica e i legislatori a individuare le contromisure e gli approcci terapeutici più opportuni per trattare efficacemente la malattia.

BackgroundLe cause del gioco d’azzardo patologico nell’essere umano sono eterogenee e complesse, e sono generalmente ascrivibili a una pletora di fattori di ordine biologico, psicologico, sociale, culturale ed economico. Il fenomeno, purtroppo, è in netta ascesa: in Italia, per esempio, secondo una ricerca condotta dall’Ispad, la percentuale di persone tra 15 e 64 anni che ha puntato soldi almeno una volta su giochi come Lotto, Superenalotto, Gratta e vinci, scommesse sportive o poker online è passata dal 42 al 47% tra il 2008 e il 2011, per un totale di circa 19 milioni di scommettitori. 3 milioni di loro, secondo gli esperti, sono a rischio di sviluppare dipendenza patologica dal gioco d’azzardo. Una malattia che, a causa delle sue pesantissime conseguenze sociali e per la salute pubblica, rappresenta una preoccupazione crescente per la nostra società.

Per arginare il fenomeno e scegliere le strade più appropriate per la prevenzione e per il trattamento è indispensabile conoscerne le basi psicobiologiche. Stando a quanto riporta il Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders (nella sua quinta edizione), il gioco d’azzardo patologico (o, più precisamente, disturbo da gioco d’azzardo) è una vera e propria dipendenza - alla stregua, per esempio, della tossicodipendenza - e in quanto tale va trattata con gli strumenti terapeutici propri dei programmi per le dipendenze. Uno degli aspetti emersi dalle ricerche condotte in merito è che spesso la presenza di altre persone e il loro status sociale possono influenzare la scelta tra un’opzione sicura e un’opzione dall’esito rischioso, la caratteristica peculiare dei giochi d’azzardo. Non solo la specie umana ma anche gli animali affrontano rischi quotidianamente e in diversi contesti, come per esempio durante la ricerca di risorse alimentari. Pertanto, studiare il comportamento degli animali non umani in condizioni di rischio potrebbe aiutare a comprendere meglio anche i meccanismi psicobiologici alla base del gioco d’azzardo patologico negli esseri umani.

Francesca Zoratto

Unità di Primatologia Cognitiva dell’Istituto di Scienze e Tecnologie

della Cognizione (ISTC) del Consiglio Nazionale delle Ricerche (CNR)

Dagli animali nuove strategie per combattere il gioco d’azzardo patologico

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Tutti i materiali relativi al programma 2016 L’Oréal-UNESCO for Women in Science su:

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Per seguire il programma L’Oréal-UNESCO For Women in Science:

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