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L’OBBEDIENZA CANONICA RICAPITOLAZIONE DELLO STATUTO GIURIDICO DEL FEDELE

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L’OBBEDIENZA CANONICA

RICAPITOLAZIONE DELLO STATUTO GIURIDICO DEL FEDELE

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SIGLE E ABBREVIAZIONI

§ paragrafo

AAS Acta Apostolicae Sedis

AA. VV. Autori Vari

Apoll Apollinaris (Pontificia Università Lateranense, Roma, 1928-)

art./artt. articolo/articoli

can./cann. canone/canoni

c.d. cosiddetto

CCEO Codex Canonum Ecclesiarum Orientalium

Cf. confronta

CIC 1917 Codex Iuris Canonici del 1917

CIC 1983 Codex Iuris Canonici del 1983

coll. collana

Comm Communicationes (Pontificia Commissio Codici Iuris Canonicis

recognoscendo, Città del Vaticano)

cpv. capoverso

ecc. eccetera

Decr. Decreto

Enc. Enciclica

GS Gaudium et Spes, Constitutio Pastoralis de Ecclesia in mundo huius

temporis

lib. liber/libro

m. p. motu proprio

n./nn. numero/numeri

part. particolare

PATH Pontificia Academia Theologica

Periodica Periodica de re canonica (Pontificia Università Gregoriana, Roma,

1911- )

PL Patrologiae Cursus Completus, Series latina, ( I-CCXXI, ed. J. P.

Migne, Parisiis 1844-1864)

vol. volume

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PREMESSA

Questo studio nasce dall’incontro di due interessi personali; il primo proveniente dalla

Teologia: la persona umana mistero creato (ad immagine e somiglianza) e redento (ricreato dalla

grazia e dalla verità che provengono da Cristo) da Dio1; il secondo originato dal percorso di studi di

Diritto canonico: lo statuto giuridico del fedele.

«Mediante il battesimo l’uomo è incorporato alla Chiesa di Cristo e in essa è costituito persona, con i

doveri e i diritti che ai cristiani, tenuta presente la loro condizione, sono propri, in quanto sono nella

comunità ecclesiastica e purchè non si frapponga una sanzione legittimamente inflitta»2.

Lo statuto giuridico del fedele nella Chiesa interessa e coinvolge in modo speciale tutti coloro

che devono regolare, ordinare, coordinare, equilibrare l’esercizio concreto dei doveri/diritti dei

fedeli:

«questa Chiesa, costituita e ordinata nel mondo come società, sussiste nella Chiesa cattolica,

governata dal successore di Pietro e dai Vescovi in comunione con lui»3;

ancora:

«i fedeli, consapevoli della loro responsabilità, sono tenuti ad osservare con cristiana obbedienza ciò

che i sacri Pastori, in quanto rappresentano Cristo, dichiarano come maestri della fede o dispongono

come capi della Chiesa»4.

Pertanto, il titolo della tesi, in maniera certamente provocatoria – in quanto il termine è oggi

poco usato –, vuole esprimere con la formula “obbedienza canonica” la tensione che vi è tra i doveri

e i diritti di tutti i fedeli da un lato, e, tra questi e coloro che sono chiamati nella Chiesa a regolarne

il concreto esercizio dall’altro. Stando attenti a non cadere in una visione erronea del Diritto

canonico, quale sistema normativo teso alla soluzione di conflitti di interesse5.

1 Questo interesse resterà come sottofondo ma non mancherà di far sentire nel corso d’opera il suo impulso sulla

questione dei doveri/diritti dei fedeli. 2 Codex Iuris Canonici, 1983, can. 96.

3 Can. 204 §2.

4 Can. 212 §1.

5 «Evidentemente questo modo di comprendere la legge ecclesiastica non significa che si debba intendere il Diritto

canonico come un sistema normativo per la soluzione di conflitti di interesse: da una parte i diritti della Gerarchia –

rappresentante della comunità, responsabile del bene comune – e dall’altra i diritti delle persone fisiche e morali – entità

singolari – che compongono il Popolo di Dio. Sarebbe una interpretazione equivoca, perché la teologia cattolica

comprende la personalità e la relazione della persona con la comunità come una totalità in tensione, cioè come la

somma di determinazioni concordanti e non come una iuxtapositio oppositorum». J. HERRANZ, Studi sulla nuova

legislazione della Chiesa, Milano, 1990, 118-119. Cf. M. SCHMAUS, El hombre como persona y como ser colectivo,

Madrid, 1954, 24.

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«Spetta all’autorità ecclesiastica, in vista del bene comune, regolare l’esercizio dei diritti che sono

propri dei fedeli»6.

L’‘obbedienza canonica’ ‘rettamente compresa’7, non solo riguarda tutti i fedeli

8, ma

costituisce il mezzo, il presupposto mediante il quale è possibile regolare i doveri/diritti dei

Christifideles, sia chierici che laici. Con l’espressione “rettamente compresa” si vuol cercare in

primo luogo, di liberare il termine “obbedienza” dai “pregiudizi” che affiorano nell’immaginario

comune qualora lo si usi9, e inoltre, sottolineare che tale termine sarà compreso solo a partire dal

consolidato passaggio avvenuto con il Concilio Vaticano II: dalla visione di ‘sudditanza’ si è

passati alla visione di cooperazione del fedele10. Si è dell’opinione, infatti, che l’‘obbedienza’ sia un

atto di suprema libertà11

, possibile solo a chi vive di relazioni autentiche: si decide di rinunciare al

proprio pensiero, al proprio punto di vista, per accoglierne un altro solo perché lo si ritiene

superiore12. L’‘obbedienza’ è

«virtù in senso aristotelico, cioè attitudine a creare il bene attraverso la costruzione di relazioni

misurate e ben ponderate. Come ogni virtù, anche l’obbedienza è un compito, non un dato, e si

realizza unicamente nell’esercizio. Lavorando sul senso della sua etimologia, si ricava che

l’obbedienza è capacità di ascolto, attenzione uditiva e disponibilità a lasciarsi persuadere. In una

scena esistenziale nella quale la dipendenza è condizione naturale, la vera obbedienza si manifesta

come consapevolezza di tale indissolubile relazione con gli altri. Moderando la propria

6 Can. 223 §2.

7 «Le ideologie dell’obbedienza non sono infatti mai comprensibili se non si approfondiscono i percorsi di credenza e

gli orientamenti etici che conducono i singoli in carne ed ossa a sottomettersi alla Legge». M. BORSARI – D.

FRANCESCONI, Introduzione, in M. BORSARI – D. FRANCESCONI (a cura di), Obbedienza. Legge di Dio e legge

dell’uomo nelle culture religiose, (coll. Collana Quaderni della Fondazione San Carlo), Modena, 2006, 12. 8 «In comunità ci si trova normati dalla famiglia e dalla società fin dalla nascita [si pensi al battesimo]. La condizione

dell’essere obbedienti non si può quindi formulare al modo della scelta, per via della pre-esistenza delle norme. Da

questo punto di vista l’obbedienza si presenta anzi nell’ordine della costrizione dovuto all’esistenza di riti e leggi. Non

seguirli significherebbe porsi fuori della legge; quindi si è costretti all’obbedienza. Ci si trova dunque dinnanzi a una

formulazione imperativa analoga al comando del genitore che non spiega, con la differenza che in questo caso il

comando è sociale e vale tanto per i bambini quanto per gli adulti». S. NATOLI, L’obbedienza è una virtù? Autonomia e

vincoli nell’esperienza contemporanea, in M. BORSARI – D. FRANCESCONI (a cura di), Obbedienza. Legge di Dio e legge

dell’uomo nelle culture religiose, 17. Si pensi alla soggezione (obbedienza canonica) alle leggi ecclesiastiche che

incombe su ogni fedele battezzato o accolto nella Chiesa cattolica compiuto il settimo anno di età (can. 11). Si pensi ai

542 canoni del Libro II del CIC 83’ dedicato al Popolo di Dio. 9 «Fin dal titolo di quest’intervento si sente riecheggiare la voce di chi, negli anni Sessanta, sosteneva che no,

l’obbedienza non è una virtù: Don Milani, per esempio. Da parte mia vorrei riformulare la questione: quell’obbedienza

che non era virtù, era ancora obbedienza? O forse, a furia di obbediere, se ne era perso il senso, trasformando quest’atto

in una performance ripetitiva, cioè in una coazione interiorizzata?». S. NATOLI, L’obbedienza è una virtù? Autonomia e

vincoli nell’esperienza contemporanea, in M. BORSARI – D. FRANCESCONI (a cura di), Obbedienza. Legge di Dio e legge

dell’uomo nelle culture religiose, 17. 10

Qui si intende richiamare la responsabilità dell’autorità nel riconoscere il fedele non come ‘suddito’ bensì come

cooperatore, come termine di una relazione che trova nella corresponsabilità la verità della sua asimmetria. 11

«L’obbedienza è una determinazione della volontà; è qualcosa che si dà, che si rende. Non c’è obbedienza là dove vi

è imposizione: chi è costretto ad agire in un certo modo non è un obbediente, ma un costretto. Vi è dunque un legame

stretto ed originario tra obbedienza e libertà, perché senza libertà non c’è obbedienza, ma costrizione. L’obbedienza è

dunque un modo singolare di consegnarsi e di accettare, non di subire. Essa è una modalità dell’accogliere». S. NATOLI,

L’obbedienza, 17. 12

Questo atto di fiducia, di “fede” viene accordato alla persona e non alle sue parole che spesso neanche si

comprendono (cf. Gv 6, 68-69).

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autosufficienza, l’obbediente impara a governare sé stesso e al contempo può farsi legislatore con gli

altri, rifuggendo i due estremi del delirio di onnipotenza e della rinuncia autodistruttiva a ogni forma

di legame. In questo modo la forma suprema di obbedienza giunge a coincidere con la virtù,

intrinsecamente religiosa, dell’umiltà, intesa come capacità di ascoltare non solo la voce della propria

coscienza, che rischia di far precipitare nel dogmatismo della missione, ma anche quella altrui»13

.

È immediato il rimando ad una visione di fede che comunque non deve essere trascurata

quando si esaminano le relazioni canoniche all’interno della Chiesa; la fede, infatti, è essenza del

vissuto (sociale) del discepolo di Cristo14

. Tale fede, che oggi nel linguaggio teologico è indicata

come ascolto, abbandono fiduciale (a Dio, all’uomo e alla storia), è ciò che si intende richiamare col

termine obbedienza rettamente compresa.

Nel percorso argomentativo si cercherà di sottolineare come l’atteggiamento di fiducia – che

dovrebbe esserci di norma in ogni fedele nei riguardi dell’autorità – potrebbe entrare in crisi (e di

fatto avviene) qualora il discernimento15

, compiuto da colui che è preposto a farlo, venga esercitato

sulla base di un “intuito pastorale” che non abbia il sapore né di una sapienza superiore (visione di

fede) né di logicità intrinseca (di ragionevolezza) rispetto al procedimento seguito; in altre parole:

più discernimenti “falliti” potrebbero porre in seria discussione la capacità stessa di discernimento,

trasformando, di conseguenza, l’obbedienza canonica in una vera e propria richiesta di

sottomissione … schiavitù. Tale richiesta, pertanto, diverrebbe la negazione della comunione stessa

che nelle relazioni ecclesiali viene tanto auspicata sia nei documenti conciliari sia nel Codice stesso.

L’obbedienza che si intenderà richiamare quindi, – è bene precisarlo – corrisponde, in termini

teologici moderni, alla relazione di fiducia espressa in termini di “A/ascolto”. Il Nuovo Testamento,

infatti, usa spesso il termine “ascolto” per indicare la relazione di fiducia tra il Padre e il Figlio, tra

il Figlio e i suoi discepoli (Rm 10,16-17; Mt 21, 31; Mc 12,29; Gv 14,24; Lc 9,35; Gv 5,30; Lc 10,

16; Gv 5,24; Gv 10,3; Gv 12, 49; Gv 14,10; Gv 14,31; Gv 15,10; Gv 15,15). Entrambi i termini

“obbedienza” e “ascolto” sono indicatori di una relazione di fiducia, infatti, è solo di chi si fida

13

M. BORSARI, Obbedienza. Legge di Dio e legge dell’uomo nelle culture religiose, in M. BORSARI – D. FRANCESCONI

(a cura di), Obbedienza. Legge di Dio e legge dell’uomo nelle culture religiose, 13. 14

«Vi è un’esperienza religiosa dell’obbedienza come sequela, inscritta nella predicazione di Gesù e consolidatasi nella

tradizione monastica, di cui si possono rintracciare i segni di una predisposizione all’affidamento». Ivi, 12. 15

«Se il governo ecclesiale, infatti, si esplica in una sostanziale attività di discernimento nell’attribuire e conferire a

singoli Christifideles i vari munera/ministeria di cui la Comunità dei discepoli di Cristo (che ‘questa’ è la Chiesa!) ha

necessità – o da cui potrebbe ragionevolmente trarre utilità o giovamento –, il vero baricentro della c.d. potestas (o della

‘giurisdizione’ in senso ampio) non può che individuarsi proprio nella specifica responsabilità di stabilire

‘definitivamente’ ‘chi’ e ‘come’ debba impegnarsi per conseguire il risultato ministeriale/pastorale in oggetto che, per

quanto affidato specificamente a ‘singoli’, rimane comunque di ‘pertinenza/competenza’ totale ed esclusiva della

Chiesa come tale, tanto nella sua destinazione che realizzazione». P. GHERRI, L’Autotutela amministrativa come

supplemento di conoscenza: la Remonstratio canonica (Cann. 1732-1734 CIC), in P. GHERRI (a cura di), Decidere e

giudicare nella Chiesa. Atti della VI Giornata canonistica interdisciplinare, Città del Vaticano, 2012, 331.

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l’ascolto obbediente16

, e, per contro, è solo di chi cresce nell’autorevolezza la possibilità di essere

ascoltato, ubbidito. Tale relazione di fiducia, che il fedele accetta in modo irriflesso, naturale, per

riguardo a Dio, nei confronti della persona umana – invece – necessita di un percorso, che

potremmo definire testimoniale, illuminativo da un lato (quello spirituale), corretto, quanto a forma

e contenuto, dall’altro (quello giuridico)17

. In altre parole: più si cresce in virtù e grazia e più si è

potenzialmente ascoltati, obbediti, in ambito spirituale; più si cresce in correttezza e ragionevolezza

più si è in potenza ascoltati sul piano giuridico18

.

Bisogna qui però ricordare due possibili situazioni concrete:

a) qualora la relazione di fiducia, l’ascolto, l’obbedienza (canonica) si trasformi in mera

sottomissione e assoggettamento a causa di un possibile, mai giustificabile, esercizio del ‘potere’

non corretto (non buono) da parte dell’autorità – senza che questa entri in conflitto con la verità di

Dio che, nel caso, va difesa fino al martirio – il fedele (chierico o laico che sia), può – talvolta deve

– ricorrere, ma sempre al fine di aiutare l’autorità a vederci chiaro e compiere un autentico

discernimento;

b) qualora la relazione di fiducia, l’ascolto, l’obbedienza canonica si trasformi in

sottomissione questa volta però, a causa della non capacità e/o possibilità di comprensione della

decisione corretta (buona) da parte del fedele, allora l’autorità è chiamata ad “imporla”. Quest’atto

giuridicamente viene a qualificarsi come ‘tassativo’, ‘improrogabile’, ‘imposto dalla legge’ “non

derogabile” ecc.19

.

Queste acquisizioni, tipiche della odierna comprensione teologico-pastorale, apriranno la

strada ad una relazione che, all’interno della compagine visibile della Chiesa – la sua parte

istituzionale – sia più rispettosa e della ragione dell’uomo e della fede: «l’obbedienza è ascoltarsi

16

Altrimenti vi è sottomissione e non ascolto, obbedienza. 17

Potremmo usare qui la simbologia evangelica della luce e del sale intendendo per luce, la forza della testimonianza e

per sale la forza della ragione (Mt 5, 13-16). 18

Ci si esprime qui coi termini aristotelici di “potenza” ed “atto” volendo sottolineare il fatto che la storia non è un

meccanicistico mondo fatto di elementi che combinati in un modo portano ad un risultato e combinati in un altro

raggiungono un altro risultato scientificamente riproducibile come in un esperimento in laboratorio, tutt’altro. La storia

è imprevedibile ed ha sempre una componente ‘x’ misterica da dover considerare, impossibile da quantificare. 19

«Vi è dunque un modo in cui l’obbedienza si presenta come non derogabile, come imposizione […]. Non sempre si

riesce a capire il divieto, anche in presenza di una sua spiegazione. Una situazione ben nota agli educatori è quella in cui

ci si trova dinnanzi ad un bambino (immaturo) cercando di spiegargli, ma scontrandosi con un suo desiderio talmente

intenso che lui in lacrime sa solo ripetere: “voglio, voglio, voglio”. In casi come questi i genitori, dopo il primo

tentativo di spiegazione, interrompono il dialogo con un “basta, non si fa”. “Perché non si fa?”, “perché no”.

Un simile atteggiamento non è affatto negativo, perché dinnanzi a quel divieto tassativo, anche se nel merito la cosa non

viene compresa, il bambino comprende che non può tutto, vive un ridimensionamento del proprio delirio di onnipotenza

che gli consentirà in futuro di comprendere». S. NATOLI, L’obbedienza, 28-29.

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sentendosi reciprocamente impegnati e in una posizione di corrispondenza. L’obbedienza è il

comando a corrispondersi nella dinamica del persuadere e del lasciarsi persuadere»20

.

Anche se la ratio e la fides non possono contraddirsi21

, causa la non verità di una o dell’altra,

si procederà cercando di mantenere i diversi ambiti, distinti e dipendenti. Pertanto, visto che l’uso

del termine ‘obbedienza’ potrebbe richiamare e confondere più ambiti tra loro distinti, bisognerà nel

percorso ricordarsi il senso che qui si è dato al termine “obbedienza canonica”. Tale termine sarà

richiamato per riflettere sul rapporto di comunione gerarchica tra fedele/i (comunità) e autorità in

quanto lo si ritiene capace, nel suo significato pieno, di equilibrare sia l’esercizio dell’autorità che

l’esercizio dei doveri/diritti dei fedeli. Nonostante poi, il rapporto del fedele con l’autorità, da tanti,

storicamente, sia stato interpretato come rapporto di obbedienza – inteso in senso passivo –, dal

punto di vista giuridico sembra più corretto affrontare tale questione, attraverso i due “attori”

fondamentali della relazione canonica: “autorità gerarchica” da un lato e “fedele” dall’altro. Tutto

ciò permetterà, almeno in teoria, di evitare il rischio, sempre latente, di teologizzare il Diritto

canonico, infatti, si è dell’idea che il Diritto canonico abbia un proprio locus, dipendente, ma

diverso e distinto da quello teologico.

Nel rapporto giuridico (gerarchico), anche se non deve venir meno l’uguaglianza nella dignità

e nell’agire di ciascuno (cf. can. 208), si deve ricordare che ogni fedele è chiamato ad assolvere ad

un particolare compito che lo distinguerà inevitabilmente da un altro; per intenderci: il Sommo

Pontefice è solo uno. Da qui però, la necessità di far emergere quanto più possibile una delle verità

fondamentali della comunità cristiana: la distinzione dei ruoli e/o uffici se da un lato nulla aggiunge

alla comune uguaglianza nella dignità e nell’agire, dall’altro impone un’assunzione di responsabilità

(servizio) maggiore in capo a coloro che sono chiamati ad agire come maestri22

e capi23

del nuovo

Popolo dell’Alleanza (cf. can. 212 §1). In questa direzione dovrebbe essere più semplice

comprendere, poi, la possibilità, talvolta anche la necessità (qualora venga dettata dalla

consapevolezza acquisita per scienza, competenza e prestigio), che incombe sui fedeli di offrire il

proprio pensiero – salva restando l’integrità della fede e dei costumi, unito al rispetto per i pastori –,

su ciò che riguarda il bene della Chiesa-istituzione (cf. can. 212 §§2-3)24

.

20

Ivi, 32. 21

Se non apparentemente in quanto la ragione non può capire, abbracciare il tutto della fede in quanto infinitamente

limitata. 22

Nei confronti del quale, però, colui che non si adegua viene a coincidere con l’eretico. 23

Nei confronti del quale, però, colui che non sottostà al di lui governo viene a coincidere con lo scismatico. 24

In questo senso si è veramente obbedienti quando si collabora alla formazione di nuove norme, nuove leggi capaci di

ordinare la vita sociale, che per ovvie ragioni è portatrice di esigenze sempre nuove.

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«L’obbedienza comporta dunque responsabilità perché, obbedendo alle leggi, si diviene talmente

consapevoli della loro necessità che si coopera a farle. L’obbediente non è perfettamente obbediente

se non diviene legislatore, potendo così chiedere a chi ha prodotto la legge a che titolo l’ha fatto.

Riemerge qui la dimensione del persuadere. Essa non vuol dire negare la necessità delle norme, ma

implica che i loro destinatari siano persuasi che si tratti della norma giusta, posta con pieno titolo, atta

a risolvere uno specifico problema. La posizione dell’obbediente coincide con quella di chi vuole il

bene per sé e per la comunità, di chi non è illegale, ma richiede leggi legittime.

Il disobbediente non si pone quest’ordine di questioni; egli tende a distruggere la legge, ma non è

capace di farsi legislatore. A mio modo di vedere i disobbedienti sanno ben mostrare i limiti di una

legge, ma sono incapaci di diventare governanti. Rappresentano il sintomo di una patologia, ma non

possiedono la forza della sanità […]. Soltanto uno spirito obbediente è capace di dare la legge, perché

ne comprende la necessità»25

.

All’interno della ricerca attuata, si potranno percepire i ricordi delle discussioni che spesso

nascevano nelle aule dell’Università lateranense – preziosi momenti di confronto offerti dalla

competenza e dalla libertà di dialogo onesto e sincero auspicato e voluto dal corpo docenti del

Laterano – le quali diventavano particolarmente vive quando, riflettendo sul rapporto tra i

diritti/doveri dei fedeli e l’autorità, si ‘scontravano’ visioni diverse provenienti ora dall’ambito

civile – vista la numerosa presenza di avvocati provenienti da ordinamenti statali – ora dall’ambito

ecclesiale – vista la presenza di sacerdoti diocesani e religiosi. A completamento del quadro

formativo vi era e vi è l’attenzione tutta ‘lateranense’ ad allargare il più possibile l’orizzonte

conoscitivo dei futuri canonisti facendo sì che – tramite la comparazione dei diversi sistemi di

Diritto esistenti al mondo – il confronto tra più esperienze giuridiche diventi occasione di

particolare arricchimento. È bene precisare però che le questioni venivano affrontate sempre a

partire dall’Ordinamento canonico il quale, come è chiaro, ha delle caratteristiche peculiari che

traggono la loro origine da un vissuto altrettanto particolare quale quello della fede.

«Questa realtà dottrinale ha come conseguenza che il principio di corresponsabilità o partecipazione di

tutti i fedeli alla missione della Chiesa non è inteso ed applicato nel nuovo Corpo legislativo – né

potrebbe esserlo – in senso democratico, perché la Chiesa non è una società democratica. Per

mancanza forse di una adeguata formazione teologica o di mentalità giuridica è avvenuto spesso in

questi anni che, partendo da un presupposto vero – la corresponsabilità di tutti i fedeli nella missione

della Chiesa – alcuni siano giunti ad una conclusione erronea: la partecipazione democratica e

deliberativa di tutti i fedeli al governo della Chiesa, cioè, al compito proprio della Gerarchia»26

.

A chiusura di questa premessa, si vuole manifestare un pensiero di cui chi scrive è

fermamente convinto, e che ben rappresenta ciò che oggi accade: questa è l’epoca in cui mal si

sopporta la stessa legge. Si vuole vivere senza obblighi di sorta. Ognuno vuole agire come gli pare;

essere legge a sé stesso. È il vero caos umano, sociale, religioso, politico. Nessuna legge umana è

perfetta. Nessuna infatti potrà mai contenere tutte le sfumature dell’agire dell’uomo. Solo la legge

25

S. NATOLI, L’obbedienza, 41-42. 26

J. HERRANZ, Studi, 43-44.

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10

del Signore27

è giusta, santa, perfetta. Tuttavia, neanche questa è sufficiente per dare all’uomo un

cuore nuovo, saggio, giusto. Non è la legge che fa l’uomo nuovo, è invece l’uomo nuovo che fa la

legge giusta e santa. Ma l’uomo nuovo lo crea solo lo Spirito del Signore. A noi tutti oggi è chiesto

di credere che solo la legge di Dio sia perfetta. Tutte le altre lo divengono nella misura in cui sono

un riflesso della legge eterna e divina.

«Pertanto l’ordinamento giuridico della Chiesa, le leggi ed i precetti, come i diritti ed i doveri che da

essi derivano, devono essere in sintonia con il fine soprannaturale. Perché nel mistero della Chiesa il

diritto ha come il carattere di sacramento o segno della vita soprannaturale dei fedeli, che ne traccia il

cammino e la promuove. Non tutte le norme giuridiche sono emanate direttamente per promuovere la

ricerca del fine soprannaturale o per agevolare la cura pastorale, è però necessario che siano sempre in

armonia con il raggiungimento del fine soprannaturale dell’uomo»28

.

27

Che, in realtà, “Legge” non è. 28

SYNODUS EPISCOPORUM, Relatio Principia quae, 7 octobris 1967, in Communicationes, I (1969), n. 3, 79.

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INTRODUZIONE

In “Prima lezione di Diritto”, Paolo Grossi sostiene che il Diritto oggi sia intessuto da

molteplici incomprensioni, tali da farlo percepire alla base come qualcosa di distante dalla realtà

concreta e soprattutto incomprensibile quanto alla sua costituzione o costruzione. Si è dell’idea che,

oggi, parlare di ʻobbedienzaʼ, in particolare di obbedienza canonica come ricapitolazione dello

statuto giuridico del fedele, significhi innanzitutto cercare di liberare tale termine dalla fitta rete di

incomprensioni che lo hanno caratterizzato, specie in alcuni momenti storici in cui sono sorti e si

sono solidificati determinati schemi, modelli di pensiero, che hanno fatto perdere al concetto di

obbedienza il suo carattere eminentemente positivo. Anche l’obbedienza canonica – così come il

Diritto per Grossi – cui ogni fedele (chierico e laico) è chiamato, ovverosia la relazione col governo

ecclesiastico (cann. 204 §2; 209; 212 §1), non può essere vista come qualcosa che «piove dall’alto e

da lontano» avendo il sapore di un potere autoritario, perché altrimenti ci si troverebbe dinnanzi ad

una distorsione di tale ʻistituto giuridicoʼ canonico. Parafrasando una domanda del prof. Patrick

Valdrini, ci si chiederà se l’obbedienza canonica sia risposta ad un «atto di volontà, la cui forza è

collegata alla sua promulgazione da parte d’un legislatore, o piuttosto un atto rationabilis, la cui

forza vincolante promana dal suo contenuto» (P. VALDRINI, La ricezione della legge nel diritto

canonico. Pertinenza e significato, in Diritto e Religioni, V (2010), 142).

L’obbedienza canonica può e forse deve essere il risultato di un processo che affonda le sue

radici fortemente nella terra dalla quale riceve nutrimento; le radici (la fede) anche se non si

vedono, sono il mezzo da cui l’albero trae il suo nutrimento. Senza radici, non c’è possibilità di

ottenere alcun frutto. A questo proposito si pensi anche a tutta la riflessione teologico-ecclesiologica

sul problema della “ricezione”, deviata, per così dire, dalla concezione prettamente, e per certi versi,

esclusivamente piramidale della Chiesa, a scapito di una teologia di comunione più

specificatamente ʻconciliareʼ (non conciliarista).

Una riflessione seria, quindi, sul tema dell’obbedienza canonica, come ricapitolazione dei

doveri/diritti dei fedeli, deve necessariamente farsi carico del problema della ricezione, in quanto,

nel corso della storia, tale problema ha assunto aspetti marginali snaturando la Chiesa del suo

aspetto comunionale. Pertanto, «uno studio sulla ricezione della legge nel Codex Iuris Canonici del

1983 deve necessariamente rifarsi, implicitamente o esplicitamente, a questi elementi» (P.

VALDRINI, La ricezione della legge, 141), elementi che guardano alla Chiesa come Popolo di Dio,

concetto tipico e fondamentale del Concilio Ecumenico Vaticano II.

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In “Lezioni di Teologia del Diritto canonico”, il prof. Paolo Gherri, sostiene – attraverso ciò

che chiama “principio guida sintetico” – che il fine della Chiesa corrisponda alla sua missione,

ovverosia, alla “natura missionaria della Chiesa di Cristo”, così come viene presentato in Lumen

Gentium al cap. II «a ogni discepolo di Cristo incombe il dovere di diffondere, per parte sua, la

fede»; concetto ripreso dalla esortazione apostolica Evangelii nuntiandi, la quale ribadisce che la

Chiesa esiste per evangelizzare. L’accoglienza della Parola fa nascere negli uomini una comunione,

che poi, viene rafforzata e vivificata attraverso i sacramenti. Lungi dal ritenere questa comunione

fine a sé stessa, e peggio ancora chiusa in sé stessa, essa è vera solo se è capace di aprirsi alla storia

e, in essa, abbracciare tutti gli uomini come ci viene trasmesso e consegnato dagli Atti degli

Apostoli. Il Diritto canonico ha il compito primario ed insostituibile di tutelare questa comunione. È

solo in questa comunione che l’evangelizzazione avviene, ed è proprio questa comunione che Cristo

richiede ai “suoi” come garanzia per gli uomini della verità stessa dell’annuncio (Gv 13, 45).

Il Diritto canonico costituisce la base strutturale di questa comunione, uno “strumento”

attraverso il quale la comunione viene salvaguardata. Bisogna però evitare di cadere in un errore,

cioè pensare che la communio sia il fine della missio, il fine è sempre la traditio (la consegna

dell’evangelo, della buona notizia) che la comunione è chiamata a servire, così da rendere, ad essa,

l’habitat necessario perché raggiunga il suo fine.

Parlare di Diritto canonico e Sacra Scrittura, non significa parlare della legge nella Scrittura.

Infatti, anche se il paradigma giuridico (uno dei linguaggi più elementari conosciuti dall’umanità) è

fatto proprio dalla Scrittura, fin dal racconto della creazione, siamo di fronte ad un linguaggio

relazionale e non giuridico nel senso proprio del termine, tanto è vero che il comando, l’obbedienza

a cui Dio chiama Adamo, di non toccare l’albero, non è un comando/obbedienza giuridica, ma un

comando/obbedienza teologica, dice all’uomo che la vita non è nella sua disponibilità. Non basta,

allora, il comando a creare il Diritto, come non basta la sanzione, il «se ne mangi, morirai»; come

non basta neanche la somma comando-sanzione. Solo con l’Alleanza, sulla base delle “dieci

parole”, ci troviamo di fronte ad una realtà eminentemente giuridica. Questo avviene quando Dio

diviene il Dio di un popolo e non di un clan. Il fondamento autentico, infatti, della giuridicità non è

qualunque tipo di relazione intersoggettiva, ma la relazione di carattere sociale, istituzionale.

Questa relazione intersoggettiva-istituzionale la si osserverà da una prospettiva particolare,

quella unitaria, che offre una panoramica completa delle funzioni, dei ruoli e dei compiti di ciascun

fedele all’interno dell’Ordinamento giuridico ecclesiale, spostando l’attenzione dall’atto particolare

alla concreta attività ecclesiale. Si vuole mettere in evidenza che l’obbedienza canonica, non è,

solo, un problema che riguarda il destinatario, ma riguarda anche colui che è chiamato, nella

Chiesa-istituzione – manifestazione dell’unico mistero, del corpo mistico – a salvaguardare la

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communio, almeno nella sua compagine visibile. L’obbedienza è espressione di una relazione di

fiducia, non di sottomissione.

Paradigmatica è la storia che ci viene presentata nel libro di Giosuè al capitolo primo, dove si

può notare da un lato, la chiamata divina: è il Signore a porre Giosuè a capo del popolo, nella linea

della successione, attraverso l’obbedienza alla Verità, a Dio. A questa obbedienza è legata in modo

inscindibile l’assistenza di Dio «come sono stato con Mosè, così sarò con te» (Gs 1, 5), potremmo

indirettamente dire “come il mio servo Mosè è stato (ascoltato) con me, tu devi essere con me”.

Dall’altro lato, si può costatare come, alla chiamata di Dio di tipo teologico-morale, corrisponde sul

piano istituzionale una seconda chiamata o, meglio, uno strutturarsi (popolo di Dio-istituzione) della

prima: «il popolo rispose a Giosuè: “faremo quanto ci ordini e andremo dovunque ci mandi. Come

abbiamo obbedito in tutto a Mosè, così obbediremo a te; purché il Signore, tuo Dio, sia con te

com’è stato con Mosè”» (Gs 1, 16-17).

Con i profeti l’accento, il richiamo alla legge è di tipo morale, successivamente evolvendosi il

rapporto Dio-Israele diviene spirituale, allontanandosi dalla portata giuridica, fino ad arrivare a

Gesù che instaura un rapporto filiale con Dio.

Oltre al già citato riferimento a Giosuè, un secondo riferimento cardine che guiderà questa

ricerca è tratto dagli Atti degli apostoli. Il riferimento è l’episodio in cui Pietro, insieme a Giovanni

– in seguito alla guarigione dello storpio alla Porta Bella del tempio, alla predicazione e al

successivo arresto – è chiamato a rispondere all’autorità religiosa costituita, che aveva ordinato loro

di non parlare e di non insegnare nel nome di Gesù. La risposta di Pietro costituirà uno dei punti di

tensione entro il quale, questo studio sulle fonti del Diritto analizzerà il tema scelto, ovverosia, la

relazione con l’autorità: «Se sia giusto dinnanzi a Dio obbedire a voi invece che a Dio, giudicatelo

voi. Noi non possiamo tacere quello che abbiamo visto e ascoltato» (At 4, 19).

Questo percorso scritturistico trova, in ultima battuta, la riflessione di Paolo su che cosa sia la

legge, così come la vive Israele al suo tempo. Paolo sostiene che la legge è uno strumento dato agli

uomini perché possano riconoscere il proprio peccato. Paolo toglie alla legge ogni tipo di funzione

salvifica, soteriologica. Si può sostenere che come il Pentateuco costituisce la narrazione

costituzionale di Israele, così il NT, è la costituzione narrativa per la Chiesa. La Canonistica,

pertanto, deve cercare nella Rivelazione i propri punti di riferimento; ma questo può farlo solo

attraverso la teologia, l’unica che può dire alla Chiesa quale sia l’imperativo teologico da seguire.

Bisogna essere quindi onesti nel ritenere che, come non è lecito ai teologi, che studiano la

Rivelazione, prendere ciò che nella Rivelazione è scritto, alla lettera; così per i canonisti, non è

sufficiente che nel testo biblico si trovi un qualcosa che ha forma giuridica per dire che quello deve

entrare nel Diritto canonico. Bisogna che la Teologia ci dica, quanto quella affermazione è

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irrinunciabile per essere cristiani. In tal caso, ci saranno delle norme della vita della Chiesa che

renderanno operante – normativa – quella indicazione.

Dopo questa introduzione si cercherà di rispondere alla domanda sul fondamento della norma

canonica, da distinguersi dal fondamento della norma Morale; ciò appare opportuno e saggio al fine

di sapere con esattezza, e fin da subito, l’ambito entro cui tale riflessione vuole svilupparsi. Il nostro

percorso, quindi, si concentrerà sulla relazione canonica, realtà appartenente all’ambito giuridico e

non all’ambito morale.

Questa distinzione non deve, però, portare a compiere un errore, tipico della modernità:

considerare l’uomo diviso in compartimenti stagni, indipendenti e chiusi, così come vorrebbe fare

una certa corrente positivista. Bisognerà invece, tener presente la loro inevitabile influenza e

reciprocità.

Altra distinzione che necessita di essere evidenziata, nell’intento di precisare il confine della

ricerca rispetto ad un’altra disciplina ʻaffineʼ al Diritto canonico, è quella con la Teologia. Si ritiene

quanto mai fondamentale questa presa di coscienza dei diversi ambiti, dai confini non sempre così

netti, perché permetterà di focalizzare il tema scelto e non cadere in inopportune teologizzazioni o

spiritualizzazioni. Inoltre tale distinzione consentirà di creare due argini, due rotaie impedendo alla

ricerca di straripare nell’abbondante riflessione che il tema ha avuto nelle discipline sopra

menzionate. Quindi si cercherà di distinguere l’ambito teologico dall’ambito del Diritto canonico,

sempre senza chiudersi, o meglio, prescindere, dalla loro ovvia e necessaria influenza e reciprocità;

questa reciprocità sarà oggetto della nostra attenzione a partire da un ambito di ricerca “nuovo”,

quello della Teologia del Diritto canonico (IV capitolo).

Lo studio proseguirà, inoltre, cercando di individuare i modi in cui è stata percepita e fissata

istituzionalmente la relazione giuridica gerarchica, seguendo due snodi fondamentali, la

codificazione del 1917, (II capitolo) e la codificazione del 1983 (III capitolo), tutto questo

attraverso l’aiuto di un necessario e imprescindibile percorso storico.

Una volta individuato l’ambito proprio, il locus, ovverosia la Chiesa nel suo aspetto

istituzionale e come la relazione gerarchica è stata intesa istituzionalmente nella storia che va dal

1917 al 1983, ci si soffermerà sull’ambito d’esercizio della potestà di governo, ambito in cui si

esprime e trova la sua ragion d’essere la relazione gerarchica stessa, attraverso l’analisi di alcuni

principi di revisione codiciali, quelli che più direttamente riguardano il tema da sottoporre ad

indagine (V capitolo).

In ultimo, attraverso i dati che la ricerca avrà fornito, si guarderà all’attuale codice, ponendosi

la questione fondamentale sulla sua interpretazione: la chiave ermeneutica codiciale è da ricercarsi

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nella esigenza di rispondere ai diritti soggettivi dei fedeli – così come hanno fatto i sistemi civili –,

oppure è risposta ad un preciso modo di concepire il governo ecclesiale?

Nelle conclusioni si tireranno le fila del percorso cercando di porre, in maniera seria e

documentata dalla ricerca sostenuta, alcune questioni: l’essenza del concetto di obbedienza

canonica, le finalità dell’obbedienza canonica (rispondere alle necessità storiche presenti o ai

possibili conflitti); la possibilità di verificabilità, di correttezza e di necessità (l’efficacia), in modo

tale che, l’obbedienza canonica, non sia il frutto di autoritarismo, ma di autorevolezza, quindi, per

quanto possibile, risulti giusta e corretta ai destinatari, ai fedeli. Questi interrogativi, domande, non

solo sembrano opportune nell’ambito della riflessione teorica, ma sembrano leciti, soprattutto, per

chi non voglia fare dello studio una semplice teoria.

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CAPITOLO I

IL DIRITTO: DISTINTO E ‘DIPENDENTE’ DALLA MORALE

La prima tappa di questo percorso, necessita di un momento preliminare necessario e delicato:

necessario, perché per introdurre lo studio del tema, bisogna comprendere alcuni concetti chiave,

indispensabili per il prosieguo dello stesso; delicato, perché per cercare di rendere tale studio

plausibile e non staccato dalla storia bisognerà, innanzitutto, vedere quali sono i presupposti

storici/filosofici che hanno spinto a porsi la domanda sul significato dell’obbedienza canonica.

Senza entrare, immediatamente, nel merito della disputa tra giusnaturalisti e giuspositivisti1, si

analizzerà la questione relativa all’individuazione del fondamento della norma canonica, da

distinguere da quella morale2, attraverso un percorso storico-sistematico.

Il percorso storico, che farà riferimento a tre grandi modelli3 che si sono alternati nel corso

della storia4, permetterà, se pur a grandi linee, di identificare alcuni passaggi decisivi – anche se mai

nettamente separabili, in quanto le varie sensibilità non scompariranno mai del tutto, ma diverranno

ora largamente condivise, ora poco condivise – del rapporto/distinzione del Diritto rispetto alla

Morale5.

1 Può dirsi «in senso molto lato, che giusnaturalismo e giuspositivismo possono essere considerati come due modi

diversi di affrontare i problemi posti dalla teoria e dalla prassi del diritto che si sono manifestati in ogni epoca e che

continuano a manifestarsi tuttora: il primo corrisponde all’atteggiamento di quei giuristi che massimamente si preoccupano di impedire che la struttura tecnica del diritto possa ostacolare l’assolvimento di quel compito

fondamentale di esso che è il trionfo della giustizia, il secondo corrisponde invece all’atteggiamento di coloro che si

preoccupano soprattutto di assicurare al diritto quella funzione di protezione dell’ordine che di esso è indiscutibilmente

propria». A. PIZZORUSSO, Sistemi giuridici comparati, 2 ed., Milano, 1998, 66-67. 2 «Etica, Morale e Diritto sono espressioni differenti della stessa normatività comportamentale; il loro rapporto tuttavia

non è parallelo (equivalenza tra le tre), né semplicemente gerarchico (piramidale): si tratta invece di specifiche proprie,

autonome ed incrementali della stessa normatività comportamentale. L’etica definisce cosa sia il comportamento

umano; la Morale definisce il comportamento umano-buono; il Diritto il comportamento umano relazionalmente

giusto». P. GHERRI, Lezioni di Teologia del Diritto canonico, Roma, 2004, 18. 3 F. D’Agostino si spinge ancora oltre, individuando un quarto modello, quello che corrisponderebbe al periodo definito

post-moderno, dove il rapporto diritto/morale assume una nuova prospettiva: «l’etica della “dignità dell’uomo”, nella

quale diritto e morale vengono a coincidere, coinvolge solo la dimensione sociale dell’esistenza, quella dimensione che,

dopo le tragiche esperienze storiche a tutti note, nessuno dovrebbe ritenere più totalizzante». F. D’AGOSTINO, Lezioni di

filosofia del diritto, Torino, 2006, 77-78. 4 Cf. F. D’AGOSTINO, Voce: Ordinamento giuridico ed Etica, in AA.VV., Nuovo dizionario di Teologia morale, Torino,

1999, 861-872. 5 É opportuno sottolineare, in modo da non confondersi, che da un punto di vista tecnico-terminologico i sostantivi

“morale” ed “etica”, pur significando entrambi dalla traduzione latina “costume”, cioè un comportamento umano in

relazione alla distinzione tra bene e male, appartengono in realtà a due facce ben distinte della stessa medaglia: l’etica

attiene alla sostanza, al contenuto oggettivo di un atto e per conseguenza al suo fine; la morale attiene ad una condizione

precedente l’atto ossia la spinta soggettiva spirituale, di coscienza dell’atto stesso. Cfr. F. VIOLA, Ragion pratica e

diritto naturale: una difesa analitica del giusnaturalismo, in Ragion Pratica, Bologna, 1993, Anno 1993/1, 66; C.

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Il percorso sistematico, poi, permetterà di scorgere, attraverso due grandi filoni di pensiero

(giuspositivista e giusnaturalista), come sia possibile (in quanto possibilità realizzata) concepire gli

ambiti del Diritto e della Morale, ora necessari e convergenti, ora nettamente separabili ed

incomunicabili tra loro. Tra Diritto e Morale si potrebbero, infatti, ipotizzare tre tipi di relazione: la

connessione, la distinzione e la separazione6.

Nel tentativo di definire quanto più possibile l’ambito del presente studio, si intende ricordare,

prima di proseguire, la distinzione che vi è tra: moralità, convinzioni morali e filosofia morale7. La

moralità è qualcosa che è intimamente connessa a qualsiasi persona, alla sua condotta, ovverosia fa

riferimento ai modi attraverso cui la persona vive e si esprime. Le convizioni morali, sono ciò che si

va consolidando nell’ambiente in cui una persona vive, ovverosia un’assunzione irriflessa di

atteggiamenti e costumi. La filosofia morale, alla quale noi faremo riferimento, è quella disciplina

che usa, per così dire, l’eccelsa capacità dell’uomo di diventare oggetto del proprio riflettere.

1.1 CONTESTO STORICO8

1.1.1 MORALITÀ DEL DIRITTO

In epoca antica e medievale, il Diritto e la Morale erano viste come discipline affini, entrambe

avevano un comune principio di intelligibilità, infatti, si riscontra tra loro una identità categoriale9

VIGNA, La verità del desiderio come fondazione della norma morale, in E. BERTI (a cura di), Problemi di etica:

fondazione, norme, orientamenti, Padova, 1990, 92. 6 «La connessione è rilevante quando è necessaria, in quanto tutti concordano che i contatti tra Diritto e Morale di fatto

non mancano. Una connessione è necessaria quando nella definizione del Diritto entrano a far parte elementi della

Morale (o viceversa), sicché sia impossibile definire l’una senza far ricorso all’altra.

La distinzione implica che il Diritto e la Morale possano ricondursi ad un genere comune, di cui sono parti (ad esempio,

l’orizzonte comune della ragion pratica). Tuttavia, all’interno di quest’ambito comune, hanno un’autonomia concettuale

relativa, sicché l’uno possa definirsi senza far ricorso direttamente all’altra, pur dovendo entrambi riferirsi allo sfondo

comune.

La separazione è significativa solo quando è totale, cioè quando Diritto e Morale sono concepiti come entità

assolutamente eterogenee. Per esprimerci rozzamente, sono entità assolutamente separate l’albero e la pietra, ma non

già l’ontano e la betulla. La separazione dovrebbe implicare l’appartenenza a piani ontici diversi o a statuti

epistemologici differenti. F. VIOLA, La teoria della separazione tra diritto e morale, in URL: ˂

http://www.unipa.it/~viola/Separazione_diritto_e_morale.pdf , (consultato, 18/4/2011), 667-669. 7 Cf. G. REALE, Il pensiero antico, Milano, 2001, 60-62.

8 Il percorso storico che qui iniziamo prenderà in esame la storia e il rapporto che vede il Diritto confrontarsi con la

Morale, questo, nella precisa zona geografica dell’Occidente europeo, all’interno della quale si è sviluppata la maggior

parte della riflessione filosofica e teologica rilevante per il Diritto, canonico in particolare. 9 «Per identità categoriale bisogna piuttosto intendere l’incapacità di pensare il diritto se non a partire dalle categorie

fondanti della morale. […]. Non si dà nel mondo antico altra possibilità di giustificare le norme giuridiche se non

riportandole ad un ordinamento meta-positivo; […] un ordinamento che può anche, in concreto coincidere con quello,

storicamente determinato, della polis, ma che comunque viene accolto non perché imposto dal “potere”, ma perché

riconosciuto dal cittadino come sostanziato di quell’ethos che è il suo». F. D’AGOSTINO, Lezioni, 66-67.

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caratterizzata fortemente da un’Etica del Diritto. Anche se con Platone e Aristotele la morale si

distinguerà

«in due momenti della vita dell’uomo come singolo e della vita dell’uomo associato, e nascerà così la

distinzione dei problemi etici veri e propri dai problemi più propriamente politici (problemi che,

peraltro, per il Greco restano assai più intimamente legati che non per noi moderni)»10

,

la riflessione post-aristotelica continuerà a considerare il Diritto e l’Etica mediante un’unica

disciplina, la Morale, disciplina che andrà ad affiancare la Fisica e la Logica11

.

«Le scuole ellenistico-romane mireranno essenzialmente a costruire l’ideale di vita del saggio, cioè

l’ideale di vita che garantisca la tranquillità dell’animo, la felicità, e risolveranno i problemi fisici e

logici solo in funzione di quelli morali»12

.

In questo lungo arco di tempo la Morale avrà la preminenza sul Diritto in quanto, per gli

antichi tutto ciò che si avvicina alla “materia” (come corporeità) è da considerasi in sé negativo ed

utilizzabile solo in funzione della nobiltà e della purezza dello spirito. L’organizzazione della polis,

infatti, era ritenuta nobile se espressione dello spirito dell’uomo, della sua trascendenza. La

differenza tra la vera e la falsa politica sarà data dal fatto che l’una, la vera, predilige l’anima,

l’altra, la falsa, predilige il corpo a scapito dell’anima. Ora, poiché anche il Diritto, doveva

rispondere alle esigenze dell’anima, del tutto, dell’universale – perché chiamato a ordinare ciò che

verte in uno stato di disordine – doveva necessariamente essere compreso all’interno della Filosofia,

in modo particolare della Filosofia morale, in quanto la Filosofia era ritenuta l’unica disciplina

capace di guardare al tutto, all’unità, all’universale (quindi al Bene) senza perdersi nelle parti, nel

particolare, nel materiale, visto come effimero e di intralcio allo spirito chiamato, quest’ultimo, a

liberarsi da tali derive.

«D’altra parte, non erano solo i presupposti del sistema platonico che portavano a queste conclusioni:

il greco fu sempre convinto (almeno fino all’età di Platone ed Aristotele) che lo Stato e la legge dello

Stato costituissero il paradigma di ogni forma di vita, come già ben sappiamo; l’individuo era

sostanzialmente il cittadino, e il valore e le virtù dell’uomo erano il valore e le virtù del cittadino: la

polis era non l’orizzonte relativo ma assoluto della vita dell’uomo»13

.

La Filosofia cristiana, anche se con presupposti diversissimi dalla Filosofia greca14

, continuò

a tenere unite la Morale e il Diritto in quanto, entrambe le discipline – ancora non distinte –

avevano in comune lo stesso oggetto: l’uomo, la persona umana. La fusione tra Diritto e Morale si

10

G. REALE, Il pensiero antico, 9. 11

Cf. ivi, 9-10. 12

Ivi, 9. 13

Ivi, 159. 14

Si pensi soltanto alla rivoluzione che in ambito cristiano si ebbe nei riguardi del corpo, creato da Dio, quindi in sé

realtà positiva. Senza dimenticare, che solo in un secondo momento, a causa del peccato, il corpo assumerà, anche in

ambito cristiano, con accenti diversi nella storia, una connotazione “negativa”.

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consolidò in epoca tardo antica quando, il cristianesimo fu assorbito dal mondo romano. Si pensi

all’opera dell’imperatore Giustiniano, legislatore cristiano, il quale nel Corpus iuris difese e

propagò i dogmi della fede cattolica15

.

La concezione del Diritto – tipica della concezione antropologica della civiltà classica –

subirà un notevole cambiamento, quando, all’uomo, centro della riflessione, verrà sostituita la

ʻcosaʼ, il cosmo16

. Questo riferimento nuovo, al cosmo, alla natura, vedrà il Diritto occupare un

posto umile, attraverso «un dimesso ruolo ordinativo»17

. Tra le diverse fonti del diritto, quella che

occuperà un posto predominante sarà la fonte consuetudinaria e non poteva essere diversamente in

una società caratterizzata da «Due direttrici di fondo: reicentrismo e comunitarismo»18

. Proprio in

virtù di questa forte prevalenza del Diritto consuetudinario si può costatare l’intima connessione

con la Morale:

«Ogni terra ha la sua consuetudine, ogni terra attrae a sé le regole consuetudinarie e se ne intride. Ma

poiché la consuetudine non consolida artificii e arbitrii bensì valori e convinzioni, essa è

l’affioramento alla superficie delle radici più profonde di quella terra, e l’ordine che essa instaura è lo

specchio di un ordine profondo, quell’ordine che è il vero salvataggio della società da una vita socio-

politica quotidiana spesso confusa e convulsa. […]. È lì la costituzione del primo Medioevo […] quale

tessuto di regole non scritte ma vincolatissime perché attingono immediatamente ai valori riposti di

una società»19

.

Ciò che caratterizza l’inizio del Medioevo giuridico è l’assenza di un potere forte,

caratterizzante il periodo romano; questo elemento non va sottovalutato se si vuole definire il

rapporto storico, creatosi nel Medioevo, tra Diritto e Morale20. L’assenza di un potere politico forte,

non vuol dire, però, che ci fu completa assenza di esercizio di potere, ma quest’ultimo venne a

concentrarsi o ad esprimersi in territori determinati, gestito da persone determinate.

«É ovvio che il potere politico – come potere supremo – fu variamente esercitato e ben spesso con

piena effettività in una determinata area territoriale, aggiungendo che non è raro constatare poteri

illimitati nelle mani di questo o quel principe che li usa tirannicamente, ma sempre mancherà durante

tutta la vicenda medievale quella psicologia totalizzante e omnicomprensiva che sarà invece – come

vedremo – il tratto distintivo e la vocazione dei principi della modernità matura»21

.

15

Cf. P. GROSSI, L’Europa del Diritto, Bari-Roma, 2007, 50. 16

Cf. ivi, 13. 17

Ivi, 20. 18

Ivi, 23. 19

Ivi, 25. 20

Cf. ivi, 11-64. 21

Ivi, 12.

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20

Si può e si deve aggiungere che, in tale contesto storico, un principe è tale se è virtuoso; la

virtù qui è identificata, però, dalla capacità di far sue le consuetudini che provengono dal basso,

dalla natura delle cose, tanto che il suo potere può essere identificato come un dovere stringente22

.

Il potere civile così concepito, come qualcosa di non assoluto, fu congeniale alla Chiesa e alla

sua struttura fortemente radicata sul territorio23

. La Chiesa, infatti, mal gradiva o poteva gradire un

potere umano che, in un certo qual modo, si identificasse con la divinità e che quindi pretendesse di

essere ascoltato, obbedito per tale motivo. Un potere concentrato solo in determinate zone permise

lo sviluppo, in linea generale, di un Diritto – «non scritto più nel comando di un principe, in un

testo autoritario, nella pagina di un sapiente»24

– scritto nell’ordine stesso delle cose, della natura.

«Comincia a serpeggiare l’idea, inespressa ma puntualmente avvertita, la percezione fondamentale che

il Diritto – quello autentico, non l’artificio che serve al potente per conservare la sua superiorità, bensì

quello che serve alla difficile sopravvivenza della comunità – è un insieme di valori soggiacente ai

superficiali rapporti sociali ed economici, un ordine riposto che funge da salvataggio della comunità; e

la comunità, consapevole, corrisponde a quei valori osservando le regole da essi promananti»25

.

Si comprende in questo determinato clima, come si consolidi il rapporto tra il Diritto (volto ad

ordinare il vivere comune) e la Morale (volta a comprendere i valori che il Diritto deve poter

veicolare), a tal proposito, chiare e paradigmatiche, risultano essere le espressioni di S. Agostino

(non est lex quae justa non fuerit)26

e di S. Tommaso (jus est objectum justitiae)27

dove è evidente il

22

Cf. ivi, 25-29. «Il principe si esalta, invece, all’interno di quella coscienza come giudice, come il gran giustiziere del

suo popolo, con una latitudine potestativa che arriva fino all’effusione del sangue, alla dominanza sulla vita e sulla

morte dei sudditi. E le fonti religiose, politologiche, filosofiche non mancano di sottolineare la virtù massima che si

chiede a un principe, virtù che è in connessione diretta con la sua attribuzione tipica: l’essere aequus, ossia essere

realizzatore di equità, dove equità ha il contenuto specifico di una giustizia modellata sulla natura delle cose». Ivi, 28. 23

«La Chiesa Romana è protagonista nella civiltà medievale; ad ogni livello, religioso, culturale, economico-sociale,

politico, giuridico. Si può ben dire che quella civiltà è, per buona parte, creatura sua. […]. Questo Diritto canonico,

lungi dall’essere una disciplina di un’appartata collettività sacerdotale, in un mondo storico come quello medievale

dove cielo e terra si toccano, sacro e profano si fondono, il cittadino e il fedele si congiungono in una unità perfetta, è

dimensione dell’intero ordinamento giuridico dando un grosso contributo al suo complessivo vólto tipico». Ivi, 33. 24

Ivi, 14. 25

Ibidem. 26

Agostino illustrò e difese la dottrina dell’incondizionata supremazia della Chiesa sullo Stato. La Chiesa, come lo

Stato, costituisce una civitas, ma solo la civitas Dei è destinata a trionfare. Lo Stato si giustifica come mezzo necessario

a garantire la pace esterna, terrena, che è la condizione per la quale la Chiesa attua i suoi fini. Nella dottrina della pace

si riassume l’aspetto più originale della filosofia del diritto di Agostino. Pace è per lui sinonimo di ordine, di armonia, di

coordinazione delle parti con il tutto. […] Questa dottrina agostiniana della pace, che rivela l’influenza platonica,

doveva costituire elemento essenziale della concezione politica e sociale medievale. Particolare significato ha la dottrina

della pace per l’etica, dove si rivela come principio di ordine interiore, cioè di freno e di misura delle tendenze sensibili

e fa dell’individuo un membro armonico nella vita del tutto. La perfezione morale è sinonimo di pace con noi stessi, con

i nostri simili, con Dio; per la pace l’uomo si garantisce contro i mali della vita terrena, conquista la salute dell’anima.

Cf. R. SPIAZZI, Enciclopedia del pensiero sociale cristiano, Bologna, 1992, 109; F. D’AGOSTINO, Lezioni, 141-158. 27

La speculazione giuridica medievale culmina nella dottrina della legge di Tommaso. Dio guida l’intelletto dell’uomo

con la legge, ne rafforza la volontà con la grazia. La determinazione della legge costituisce per Tommaso il problema

fondamentale. Esiste una lex aeterna che è la ragione divina che ordina e governa il mondo. Poiché Dio opera fuori del

tempo, questa legge viene chiamata eterna. Da essa deriva la lex naturalis, che è la partecipazione imperfetta, limitata,

della ragione umana alla legge eterna. In forza della partecipazione alla legge eterna la creatura, malgrado la corruzione

originaria, riesce a distinguere, anche in mancanza di legge scritta e rivelata, il bene e il male, perché porta nella sua

natura l’impressione della legge eterna. Esiste poi una legge positiva umana secundum quam disponuntur quae in lege

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primato etico sul Diritto. Potremmo dire che in questo vasto periodo storico non esiste Diritto senza

Morale, o meglio, che il Diritto risulterà essere vero nella misura in cui risponderà ai criteri di

giustizia eticamente condivisi, al di là del fatto che possa essere posto da qualsivoglia volontà

sovrana28

.

L’osservanza del Diritto, l’obbedienza alle leggi, trova il suo riferimento non nella volontà di

un legislatore, ma nella loro capacità di imporsi alla coscienza dell’uomo, cioè nella loro

ragionevolezza29

. Lo stesso Aristotele, già nel IV sec. a.C., concepiva la giustizia a partire dalla

natura: giuste sono le leggi ritenute tali da tutti gli uomini e da tutti i popoli.

Una differenza di clima sociale, culturale, politico ed economico – nel periodo che gli storici

indicano con il termine Medioevo – si va consumando a partire dal XI sec. in poi30

. Questa

evoluzione non deve trarre in inganno, nel senso di poter pensare che ci sia una spaccatura nella

riflessione giuridica rispetto al precedente, tutt’altro: in quanto

«unitarie restano le sue fondazioni, unitario il modo di vivere e concepire il Diritto. A ciò si deve unire

una semplice avvertenza: questa esperienza – che la Modernità ha voluto minimizzare chiamandola

maliziosamente ʻmedioevoʼ, età di mezzo, età di transizione – ha la durata di un millennio (o giù di lì),

e il tempo (che non passa mai invano) non può che apportare, nella lunghissima durata, delle

variazioni su quel volto; le quali, tuttavia, non debbono ingannarci e farci dimenticare la costanza nelle

scelte fondamentali»31

,

infatti, questa evoluzione, specie per ciò che concerne la dimensione culturale, si compenetrerà

perfettamente con la concezione fattuale del Diritto, tipica di tutto il medioevo. Al contempo ciò

che caratterizzerà il suddetto periodo è la totale assenza di un potere politico onnicomprensivo32

.

«La coscienza collettiva continua a non identificare il principe in un ʻlegislatoreʼ, cioè in un facitore

del Diritto; in lui il dovere di leggere la natura non è per ricavarne norme generali autoritarie ma

naturae continentur. Il diritto positivo umano ha forza di legge in quanto deriva dalla legge di natura a cui non può

derogare, pur piegandosi alla diversità dei luoghi, dei tempi, delle persone, pur ispirandosi all’utilità individuale e

collettiva. D’altra parte per l’imperfezione dei più la legge umana ha una sfera d’azione più ristretta di quella dell’etica.

Cf. R. M. PIZZORNI, Il diritto naturale dalle origini a S. Tommaso d’Aquino, 3 ed., Bologna, 1999, 247-278. O. DE

BERTOLIS, Una metafisica nel diritto: San Tommaso d’Aquino, in Iustitia, 51 (1998/2), 129-148; F. DI BLASI – P.

HERITIER, La vitalità del diritto naturale, Palermo, 2008; A. CAMPODONICO – M. S. VACCAREZZA, La pretesa del bene.

Teoria dell’azione ed etica in Tommaso d’Aquino, Palermo, 2012, in particolare 150 ss. 28

Emblematica è la vicenda di Antigone, una delle tragedie di Sofocle, la quale pur di seppellire la salma del fratello

Polinice è disposta ad infrangere una legge e mettersi contro il potere costituito, tutto questo per adempiere una giustizia

superiore. Cf. L. CANFORA, Storia della letteratura greca, Roma-Bari, 1986, 151-152. 29

«Questo diritto ha un carattere assai più ordinativo che potestativo. La contrapposizione tra i due aggettivi non è

nominale: il primo segnala una genesi dal basso e si connota per una rispettosa considerazione della realtà oggettiva,

senza la quale non sarebbe effettivo ordinamento ma violenza e artificio; il secondo sottolinea l’espressione di una

volontà superiore, che piove dall’alto e può anche essere violenza sulla realtà oggettiva, arbitrio e artificio. In una

visione ordinamentale, il diritto è il costume stesso che, avvertito come valore della vita associata, viene osservato e

diventa vincolante; non è la voce del potere, ma piuttosto l’espressione della pluralità di forze presenti in un certo

assetto sociale». P. GROSSI, L’Europa del Diritto, 15. 30

Cf. ivi, 37-64. 31

Ivi, 40. 32

Cf. ivi, 40-41.

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unicamente la misura della vera giustizia […]. Un quadro che non muta nell’Italia centro-

settentrionale, dove comincia una esuberanza cittadina che si concretizza nei liberi Comuni»33

.

Non è difficile a questo punto constatare la perdurante connessione tra il Diritto e la Morale,

in tutta l’epoca Medievale; il Diritto, infatti, deve essere sempre connesso all’idea, o meglio al

valore morale della giustizia. Il Diritto come misura della vera giustizia.

Bisogna – per avere una visione complessiva, se pur per grandi linee – riconoscere che, in

questo periodo di forte cambiamento la fonte consuetudinaria rivelerà, da sola, tutta la sua

incapacità ordinatrice; infatti, essa risulterà insufficiente per la regolazione di fatti ed usi che

assumeranno via via, una rilevanza molto ampia, specie, in seguito all’espansione mercantile. È in

questo contesto che si affacceranno, senza soffocare la fonte consuetudinaria, le due fonti giuridiche

capaci di regolare o ordinare le società dai caratteri complessi: la legge e la scienza34

. In questa

fusione tra le diverse fonti su citate, andrà configurandosi e consolidandosi la particolarità del

maturo Medioevo. In questo particolare periodo la scienza del Diritto costituirà il collante tra la

fonte consuetudinaria e la fonte della legge positiva, per sua natura generalissima ed astratta. La

scienza, infatti,

«è la sola fonte che, in assenza di un potere politico compiuto, può raccogliere, organizzare, unificare

un enorme materiale fattuale sparso, ossia può conferirgli quel carattere ordinativo che è la cifra intima

del Diritto, di ogni dimensione giuridica. Con questo non piccolo vantaggio: che, mentre la norma

autorevole del principe non può che tradursi in comandi generali necessariamente rigidi (tipici della

legge positiva), le categorie teoriche e i principii, di cui è portatrice una riflessione scientifica, hanno

una loro elasticità che li rende particolarmente congeniali a un’esperienza giuridica in perenne

cammino. […] la scienza armonizza non sopprimendo le diversità (tipiche della consuetudine) ma

riconducendole nell’alveo delle grandi linee direttrici quali elementi di arricchimento»35

.

1.1.2 LA SEPARAZIONE DEL DIRITTO DALLA MORALE

L’età moderna36

viene preparata da un forte processo di liberazione prodottosi nel Trecento,

secolo di guerre, carestie ed epidemie, specie la peste. Questa situazione storica produce una

migrazione di intere masse di uomini, fino ad allora residenti nelle campagne, verso le città, ancora

povere quanto ad organizzazione urbanistica. Questo «tempo di transizione, dove vecchio e nuovo

si mescolano, e dove si cominciano a disegnare le linee di un edificio futuro»37

sarà caratterizzato

da una rinnovata comprensione antropologica dipendente dal clima di liberazione nutrito nei

confronti della natura bruta e del sistema sociale che non riusciva a gestire e a tutelare il singolo

33

Ivi, 41-42. 34

Cf. ivi, 44-64. 35

Ivi, 45-46 (corsivo nostro). 36

Cf. ivi, 67-216. 37

Ivi, 68.

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soggetto38

, in quanto costruito su un modello comunitario tipicamente agrario. È in questo clima che

mette radici la svolta moderna. Infatti, la volontà dell’uomo, come «carattere essenziale del soggetto

e garanzia della sua libertà»39

, costituirà il seme dal quale sboccerà – la dimensione individualistica

– tutta la riflessione filosofica, teologica, sociale e giuridica dell’età Moderna.

«La crisi strutturale trecentesca è stata l’occasione storicamente provvida, che ha permesso l’avvio di

un rinnovamento a livello di coscienza collettiva, di una nuova visione del ruolo dell’uomo nel mondo

cosmico e nella società. Il rinnovamento non può che essere innanzitutto antropologico:

all’antropologia reicentrica medievale si deve sostituirne una antropocentrica, ed è proprio il

movimento che filosofie e teologie volontaristiche cominciano a propugnare dal secolo XIV. Il Diritto,

in perfetta coerenza, verrà dopo, ma si nutrirà e si impregnerà di quella nuova visione»40

.

In questo clima di riscoperta di sé stessi come singoli individui liberi, e, la presa di distanza

da una visione tipicamente comunitaria della società, dove il singolo era visto solo come parte di

essa, si va affermando l’idea secondo cui il Diritto possa godere di una Morale indipendente rispetto

alla Religione41

e all’Etica42

. Altra caratteristica che affiora ed emerge con sempre più forza dal

Trecento in poi è l’affermarsi di un potere politico indipendente e sempre più consapevole del

proprio ruolo43

.

Sarà, quindi, la ragione umana condivisa a fondare l’esistenza stessa del Diritto, questa

ragione però deve essere distinta da ogni rimando sia al T/trascendente (qui, non ci si riferisce al

trascendentale, ma a qualsiasi cosa che affermi o richiami in modo diretto o indiretto l’esistenza di

Dio) dell’uomo, sia rispetto agli assunti principi di una filosofia morale44

. Questa distinzione non

38

A questa concezione dell’uomo – tipicamente medievale – si era giunti anche grazie alla riflessione – costituente

quasi un sunto di essa –, in ambito cattolico, del filosofo-teologo Tommaso d’Aquino che definiva l’uomo come essere

razionale, intelligente, con una capacità gnoseologica – capace quindi non solo di conoscere ma di riflettere sulla sua

conoscenza – che lo invita ad uscire da sé stesso attraverso la capacità più personale dell’uomo: quella volitiva. Cf. ivi,

69-70. 39

Ivi, 70. 40

Ivi, 71-72. 41

«Constateremo lucidamente il transito fra Medioevo e modernità quando a una visione rigidamente comunitaria

(extra Ecclesiam nulla salus) si sostituirà la provvidenzialità di un colloquio diretto del singolo con la divinità». Ivi, 18. 42

In riferimento a tale periodo si cf. P. GROSSI, L’Europa del Diritto, 67-216. È qui che si introduce la frattura tra il

Diritto e la giustizia, frattura necessaria e indispensabile per autori come H. Kelsen, in quanto la giustizia essendo un

concetto assoluto resta di per sé inaccessibile alle possibilità della mente umana. 43

«É con Filippo il Bello (1285-1314), a cavaliere tra i due secoli, che il re sembra sbarazzarsi di ogni disagio e

titubanza, avviando una politica coraggiosa ai limiti della temerarietà. Né è una riprova evidente il conflitto che lo

contrappone a Bonifacio VIII, un pontefice che, ancora ai primi del secolo nuovo, senza volersi rendere conto del senso

della storia, persiste a conclamare il primato del potere papale sia in campo spirituale che in quello temporale […].

L’essenziale per noi è constatare l’emergere e il consolidarsi di un potere autenticamente sovrano, primizia delle

individualizzazioni statuali dell’Europa moderna. Allo storico del diritto preme rilevare, però, in primo luogo, un potere

che si fa sempre più compiuto, che ha cioè una tendenza espansiva nell’occuparsi di zone del sociale sempre vaste […].

Siamo all’inizio di quel cammino plurisecolare che avrà al suo esito finale Napoleone I, il tipico sovrano legislatore, il

codificatore che vuole ridurre (e ci riesce) tutto il Diritto – anche il diritto privato – negli articoli di un Codice». Ivi, 75-

76. 44

La distinzione per tanti è stata netta separazione; per altri, invece, le due distinte discipline rispondono a due domande

diverse, ma relazionate: «Orbene, razionalità e relazionalità, conformano etica e diritto con modalità diverse. All’etica

appartengono i giudizi di valore condivisi e riconosciuti universalmente dai destinatari; la legge positiva, pur

rispecchiando tali valori, proviene dall’autorità legislativa predisposta nella collettività, alla quale appartiene l’attività

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risulta difficile da capire per noi occidentali che, oggi, ci poniamo la domanda sulla essenza del

Diritto:

«In realtà, il Diritto trova una prima giustificazione nella natura razionale dell’uomo che, a differenza

di altri esseri viventi, non è supportato nel suo agire da una struttura biologica totalmente

predeterminata né preparata a rispondere istintivamente agli stimoli esterni […]. Oltre che razionale,

l’uomo si scopre quale essere in relazione, bisognoso cioè del contributo degli altri, per raggiungere la

propria realizzazione come essere libero. Contributo che si esplica nella doppia esigenza di rispetto

delle reciproche libertà e di collaborazione solidaria nel raggiungimento degli interessi comuni»45

.

Nell’arco di tempo che va dal XV al XVIII sec. a cui si è soliti dare il nome di Modernità, la

moralità del Diritto prende a poco a poco le distanze dall’Etica tradizionale, identificandosi con la

“ragion di Stato”46

. Questo processo di indipendenza, che coinvolge molteplici discipline, nei

confronti degli ormai antichi e inadeguati sistemi di comprensione dell’età Medievale, si ripercuote

anche in ambito giuridico. Infatti, le scienze giuridiche saranno influenzate dai nuovi criteri di

scientificità, introdotti da personaggi del calibro di Galileo, Descartes, Pascal, Cartesio e da tutta la

rivoluzione culturale operata dalla Rivoluzione scientifica. Il metodo, il rigore scientifico, la

dimostrabilità, il rigore razionale ecc. diventeranno le caratteristiche di qualsiasi disciplina che

voglia meritare il grado di scientificità (metro e misura del sapere); le caratteristiche principali di

una scienza saranno la razionalità e la storicità. Anche la disciplina giuridica dovrà adeguarsi alla

nuova concezione, infatti, in questo tempo si consumarono le critiche più forti alla metodologia

usata dai glossatori e commentatori – semplicistica e disinvolta – del diritto romano47

.

Nei secoli XVII e XVIII, in Europa, si fa strada una corrente di pensiero non certamente

originale – in quanto presente sia nella civiltà greco-romana che in quella medievale – ma che avrà

non poche ripercussioni e conseguenze, il giusnaturalismo48

, che assumerà, in questo frangente

storico, tratti particolari ed originali49

.

normativa tesa ad organizzare il corretto svolgimento dei rapporti concreti tra le persone determinando, in modo

incontrovertibile, i contenuti e le modalità dei medesimi». M. J. ARROBA CONDE, Diritto processuale canonico, 5 ed.,

Roma, 2006, 11. 45

Ivi, 10-11. 46

Cf. P. GROSSI, Assolutismo giuridico e Diritto privato, Milano, 1998. In ambito internazionale si è giunti ad affermare

la stessa tendenza: «Nel XIX secolo, con il rafforzarsi delle varie compagini statali e con la costituzione di nuovi Stati,

con la spinta all’espansione coloniale che ha contrassegnato la politica estera di quasi tutti gli Stati, il vero protagonista

della vita internazionale è diventato lo Stato medesimo, quale ente sovrano volto a realizzare con tutte le sue forze

politiche (e militari) il raggiungimento dei suoi fini. Il dogma della sovranità dello Stato […] ha proiettato una sua

particolare luce anche sulle costrizioni giuridiche». R. MONACO – C. CURTI GIALDINO, Manuale di Diritto

Internazionale Pubblico, 3 ed., Torino, 2009, 44. 47

Cf. P. GROSSI, L’Europa del Diritto, 90-96. 48

«In un’accezione assolutamente elementare, giusnaturalismo significa una civiltà giuridica che si impernia sulla

nozione di “diritto naturale” quale suo fondamento e sua idea matrice e che serba al proprio interno, quale tratto tipico,

la dialettica tra i vari diritti storici positivi prodotti dalle varie entità politiche e un diritto superiore – appunto il diritto

naturale – che non è prodotto da quelle entità ma fa capo al di là di esse, in una realtà superiore, universale, che per ora

possiamo contentarci di chiamare sommariamente ʻnaturaʼ». Ivi, 96. 49

Cf. N. ABBAGNANO, Voce: Giusnaturalismo, in N. ABBAGNANO – G. FORNERO, Dizionario di Filosofia, Torino,

1964, 426.

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«Tra la fine del Duecento – che è il tempo di Tommaso – e i primi del Seicento – che è il tempo di

avvio del giusnaturalismo – sta quel secolo XVI in cui si sviluppano diversi processi liberatori, che

abbiamo […]. Umanesimo, pre-capitalismo, rivoluzione scientifica sono gli eventi rivoluzionari tutti

tesi a capovolgere la vecchia e opprimente visione del mondo naturale e sociale, e sono proprio gli

eventi che debbono presupporsi al giusnaturalismo seicentesco e gli danno un conio di tipicità e di

novità intensissime; le sue radici sono nel fervido crogiuolo storico germinato nel Trecento e

maturatosi compiutamente nel Cinquecento, ed è da lì che esso afferra la nuova antropologia

appropiandosi della sua carica rivoluzionaria […]. L’antropocentrismo di marca umanistica qui

diventa il più rigido individualismo […]. Comincia l’assillante ritornello dell’evidenza, che continuerà

per tutto il Settecento e che è illuminante per farci capire che siamo in un emisfero culturale addirittura

capovolto rispetto a quello medievale: ciò che era pensato come dono d’Iddio, qui è autonomizzato

all’interno della natura cosmica e sociale, e il puntello dell’evidenza è la cerniera che permette di

chiudere verso l’alto. Ciò che è evidente non abbisogna di interventi celesti, ma trova in sé la propria

giustificazione. Il nuovo giusnaturalismo è rigorosamente laico»50

.

Espressione di tutto questo cambiamento epocale in ambito giuridico è l’opera del noto

giurista olandese Huig van Groot, conosciuto come Hugo Grotius (1583-1645), il “De iure belli ac

pacis” (1625). In quest’opera due sono le categorie che ci permettono di affermare la rivoluzione

avvenuta nella scienza del Diritto: la concezione della ʻevidenzaʼ, su richiamata, e la messa in

secondo piano della ʻfattualità del Dirittoʼ, chiave ermeneutica tipica del periodo medievale51

.

Volgendo lo sguardo alle presunte perfezioni matematiche e geometriche, anche gli ormai

scienziati del Diritto tenteranno l’elaborazione astratta di un modello giuridico che con la realtà non

avrà, ormai, nessun contatto. L’uomo, oggetto di riflessione, non sarà più quello concreto, bensì un

uomo che, per la vaneggiante ricerca di uno stadio primitivo, ha perso ogni riferimento alle

coordinate spazio temporali: «lo stato di natura è soltanto un laboratorio, dove, più che la

sperimentazione, si esercita la fantasia del giurista»52

.

In questa fase delicata, in cui il Diritto è prodotto in laboratorio, non bisogna dimenticare

l’evolversi della questione economica, chiave di volta per comprendere come il Diritto inizierà a

tutelare la proprietà privata, favorendo, anche se con l’immunità dell’astrattezza, il potere

individualistico, preparando la strada all’innesto, non sempre positivo, tra la politica e il Diritto53

.

«Il giusnaturalismo si distingue dalle posizioni tradizionali del diritto naturale perché non considera più tale diritto

come la partecipazione umana ad un ordine perfetto, coincidente con Dio o da Dio promanante, bensì come

regolamentazione necessaria nei rapporti umani che l’uomo scopre affidandosi ai dettami della retta ragione che sono in

accordo con la natura delle cose». G. INCITTI, Il Popolo di Dio. La struttura giuridica fondamentale tra uguaglianza e

diversità, Città del Vaticano, 2007, 12. 50

P. GROSSI, L’Europa del Diritto, 97-99. 51

Cf. ivi, 100. 52

Ibidem. 53

«Nella visione giusnaturalistica il potere compare in un secondo momento, un momento che non è più solo ʻnaturaʼ

ma è anche ʻstoriaʼ; tenendo dietro a motivazioni di opportunità, per comune consenso si sceglie di dare vita a una

società politica. E qual è l’atteggiamento verso il potere? La risposta è ferma: il proprium, la property, deve trovare una

adeguata tutela, e questa tutela può essere pienamente rinvenuta in una situazione di ordine pubblico, di sicurezza

generalmente mantenuta da una efficiente opera di polizia. Gli individui proprietari generano il potere, e il potere è

chiamato a proteggerli». P. GROSSI, L’Europa del Diritto, 104.

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Questa fusione tra politica e Diritto avverrà in modo pieno nel periodo illuminista.

L’illuminismo giuridico, infatti, sarà una vera e propria politica del Diritto: «le visioni politologiche

precedenti divengono proposta di riforma e poi riforma. Protagonisti non saranno più soltanto

filosofi e politologi ma giuristi ed economisti»54

.

I giuristi, in questa epoca, costituiranno l’organo, lo strumento attraverso cui il potere

sovrano, cercherà di esprimersi e di imporsi55

.

«La credenza nella virtù della legge si è trascinata quasi intatta fino ad oggi, sostenuta, da un lato,

dalla strategia occhiuta del potere politico che non poteva non ravvisarvi un mezzo efficace di governo

della società, dall’altro, dalla pigrizia intellettuale degli stessi giuristi, paghi del ruolo formale di

sacerdoti del culto legislativo (anche se si trattava unicamente di una modesta minestra di

lenticchie)»56

.

La Morale naturale, sarà relegata nella sfera del privato, del personale e non avrà alcun

contatto con il Diritto, che, a sua volta, si identificherà, a poco a poco, con la volontà del sovrano57

.

L’epoca moderna distinse nuovamente e nettamente il pubblico dal privato58

, distinzione quasi del

tutto cancellata nel precedente periodo storico: «il ʻpubblicoʼ era totalmente rimesso nelle mani

dello Stato e il ʻprivatoʼ si restringeva ai rapporti fra individui»59

.

L’ultimo stadio dell’epoca moderna consisterà nel processo di codificazione del Diritto

privato e nella proclamazione positiva dei diritti dell’uomo60

.

«Il processo di involuzione del Diritto moderno è stato inarrestabile: la legge è un comando, un

comando autorevole e autoritario, un comando generale, un comando indiscutibile, con una sua

vocazione essenziale ad essere silenziosamente ubbidito; da qui, la sua propensione a consolidarsi in

un testo, a rinserrarsi in un testo cartaceo dove chiunque possa leggerlo per poi ubbidirgli, in un testo

che per sua natura chiuso ed immobile, che diverrà presto polveroso e, rispetto alla vita che continua a

scorrere rapidamente all’intorno, anche invecchiato. Ma il potere persisterà a farsi forte di quel testo

con l’ausilio di giuristi servili che persisteranno nelle loro liturgie sul testo»61

.

La legge costituirà lo strumento e la fonte preferita, quasi esclusivamente, dall’operatore del

Diritto62

; non più la legge così come veniva concepita da S. Tommaso, espressione dell’epoca

54

Ivi, 106. 55

Cf. P. GROSSI, Prima lezione di diritto, Bari, 2 ed., 2008, 8. 56

Ibidem. 57

Cf. P. GROSSI, Mitologie giuridiche della modernità, Milano, 2 ed., 2005, 26-39. 58

Distinzione tipica del mondo romano. 59

P. GROSSI, L’Europa del Diritto, 221. 60

Cf. ivi, 115-216. 61

P. GROSSI, Prima lezione di Diritto, 9. 62

«Il diritto si è ormai contratto nella legge: un sistema di regole autoritarie, di comandi pesanti e voluti astratti e

inelastici, insindacabili nel loro contenuto giacché non dalla qualità di esso ma dalla qualità del soggetto legislatore

traggono la propria autorità. Tra poco, nel clima pre-rivoluzionario, la legge avrebbe ricevuto un ulteriore

rafforzamento, quello democratico, grazie alla affermata (anche se non dimostrata) coincidenza fra volontà legislativa e

volontà generale». P. GROSSI, Mitologie, 34.

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medievale, bensì la legge intesa, nel senso moderno come «volizione autoritaria del detentore della

nuova sovranità e caratterizzata dagli attributi della generalità e della rigidità»63

.

«Ora le leggi hanno credito non per il fatto che sono giuste, ma per il fatto che sono leggi. Questo è il

fondamento mistico della loro autorità; non ne hanno davvero altro. […]. Chiunque obbedisce loro

perché sono giuste, non obbedisce precisamente per la ragione che deve»64

.

È visibile l’intenzione di svincolare l’obbedienza alle leggi da qualsiasi contenuto morale. La

sola provenienza dovrà bastare al cittadino perché obbedisca alla norma prodotta.

Si è ritenuto opportuno richiamare più volte il noto giurista contemporaneo, Paolo Grossi,

perché, attraverso le sue pubblicazioni, si ha la possibilità di rileggere la storia con occhi limpidi e

soprattutto liberi, permettendo di tenere unite la riflessione teorica e la realtà pratica. Tutto questo

ha permesso di tenere acceso l’interesse sul tema della obbedienza, in quanto la storia non solo

mostra l’evoluzione del Diritto e della legge, ma soprattutto permette di osservare come ci si è

rapportati, nel corso del tempo, al Diritto e alla legge: ora come razionalità capace di imporsi, ora

come imposizione che mortifica la razionalità65

.

Il passaggio, quindi, alla codificazione del Diritto e la proclamazione positiva dei diritti

dell’uomo, costituirà la piena indipendenza dalla Morale, in quanto il Diritto dimostrerà di poter

produrre un sistema positivo, coerente e soprattutto fondato su propri principi, senza l’ausilio di

presupposti esterni ad esso66

.

Con l’avvento dell’illuminismo, il respiro universalistico, tipico della corrente giusnaturalista,

venne ad estinguersi, in altri termini, gli esiti dell’illuminismo costituirono un tradimento del

pensiero giusnaturalista67

.

In questa fase storica, la fonte del Diritto più utilizzata specie per ordinare la situazione di

frammentazione venutasi a creare coll’affermarsi delle monarchie, sarà costituita dalla legge.

Quest’ultima non fu intesa come espressione dell’ordine naturale dipendente dalla virtù ma divenne

espressione del potere del principe, potere che assunse sempre più un carattere autoritario68

. La

63

Ivi, 31. 64

M. E. DE MONTAIGNE, Saggi, (coll. I classici del pensiero, VIII), V. ERRICO (a cura di), Milano, 2008, 1141. 65

A tal proposito si rimanda ad uno studio compiuto nel 1576, da J. Bodin, il quale da giurista, sottolinea un passaggio

decisivo e per noi interessantissimo; nei suoi Sei Libri sullo Stato, divide e distingue la legge – identificandola come la

volontà potestativa del monarca la quale trova la sua applicazione concreta nel comando autoritario – e il Diritto – che è

espressione delle regole che nascono in seno alle consuetudini, dove tipico è l’uso dell’equità. Cf. J. BODIN, Les six

livres de la République, lib. I, Paris, 1583, cap. VIII (rist. Aalen 1977), [trad. it., M. ISNARDI PARENTE – D. QUAGLIONI,

I sei libri dello Stato, Torino, 1988]. 66

L’esito delle codificazioni fu quello di dare vita a sistemi giuridici tendenti alla centralizzazione del potere che in non

pochi casi, si trasformarono in veri e propri sistemi totalizzanti. 67

Cf. P. GROSSI, L’Europa del Diritto, 104-113. 68

«La legge diventa una pura forma, cioè un atto senza contenuto, cioè – per spiegarci meglio – un atto cui non sarà mai

un determinato contenuto a conferire il crisma della legalità, ma sempre e soltanto la provenienza dall’unico soggetto

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legge diviene semplicemente espressione della ragione umana – di chiara matrice montesquieuana –

o dell’astratta volontà generale – così come intesa dal Rousseau –; e l’obbedienza che le è dovuta

diviene l’espressione massima della libertà dell’uomo, perché, secondo le chiavi di comprensione

tipiche del 1700, non si obbedisce più ad un singolo uomo ma alla volontà pubblica condivisa

razionalmente.

Queste convinzioni, che spinsero sempre più verso l’autoritarismo, furono emblematicamente

sostenute dal filosofo Immanuel Kant (1724-1804), il quale si fece portatore e propagatore

dell’aspetto coercitivo della legge, il che, garantiva alla stessa l’assoluta obbedienza, in quanto, è

inammissibile qualsiasi opposizione al legislatore garante della ragione naturale e della volontà

generale69

.

«Dietro la foglia di fico della ʻragione naturaleʼ e della ʻvolontà generaleʼ sta la consegna nelle mani

del potere politico della intera produzione del Diritto. Al vecchio caotico pluralismo giuridico si va

sostituendo un rigidissimo monismo giuridico: la dimensione giuridica è ormai vincolata all’apparato

di potere dello Stato e tende ad immedesimarsi in una dimensione legislativa. E comincia un lungo

periodo non solo di legalismo ma di autentica legolatria: la legge come tale, come emanazione di una

volontà sovrana, diviene oggetto di culto prescindendo dai suoi contenuti. Atteggiamento greve di

rischi, che un’onda lunghissima porterà fino alle nostre spalle e di cui ci stiamo faticosamente

liberando proprio in questi ultimi decenni»70

.

Un primo freno all’innesto politica-Diritto, per certi aspetti molto pericoloso, fu costituito dal

costituzionalismo71

che si propose di difendere l’individuo attraverso la difesa dei suoi diritti

soggettivi72

; non a caso il costituzionalismo ebbe alla sua base le c.d. “carte dei diritti”. Queste

“carte dei diritti”, prodottesi in vari paesi europei, se pur con le dovute differenze, sono frutto di un

medesimo substrato storico: esse vogliono, sulla scia della corrente giusnaturalista, leggere nella

natura delle cose quei principi e quelle leggi in essa iscritte e, per tanto, da dover sottrarre

all’arbitrio dispotico del potere che seppur si può vantare del consenso, non per questo può disporre

a piacimento di alcuni diritti inalienabili riconosciuti tali in quanto appartenenti alla natura delle

cose73

. Non deve sfuggire però, pur riconoscendo la validità e il progresso che attraverso questi

diritti si è prodotto nell’umanità, che tali dichiarazioni si rivelarono insufficienti in quanto vittime

sovrano. Il quale si identifica sempre più in un legislatore ingombrante, congiungendo strettissimamente la propria

persona e la sua supremazia alla qualità della sua creatura normativa. E nasce quell’ipoteca pesante della civiltà

giuridica moderna che è la mistica della legge, la mistica della legge in quanto legge, una eredità dell’assolutismo regio

che la Rivoluzione di fine Settecento accoglierà senza batter ciglio, intensificandola e irrigidendola rispetto alle

sussistenti aperture dell’antico regime sotto l’ammantamento di simulacri democratici». P. GROSSI, Mitologie, 32-33. 69

Cf. I. KANT, Beantwortung der Frage: was ist Aufklärung?, Risposta alla domanda: che cosa è l’Illuminismo, in

Antologia degli scritti politici, [trad. it., G. SASSO], Bologna, 1977, 53. 70

P. GROSSI, L’Europa del Diritto, 112-113. 71

Cf. ivi, 115-120. 72

È in questo periodo che iniziarono a formularsi, per poi costituirsi, quei diritti di cui, anche noi che viviamo nell’oggi

della storia, vantiamo di aver raggiunto e difeso; si pensi ai diritti fondamentali quali la libertà religiosa, la libertà di

pensiero, il diritto alla libera circolazione, alle libere riunioni ecc.. 73

Sul tema cf.: A. SCOLA, L’alba della dignità umana. La fondazione dei diritti umani nella dottrina di Jacques

Maritain, Milano, 1982.

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della impostazione astratta e irreale prodotta nei laboratori giuridici sopra menzionati. Laboratori, di

stampo giusnaturalista, che avevano come presupposto fondamentale la ricerca di uno stadio

metastorico, lo «stato di natura dove non circolano uomini in carne ed ossa ma modelli di uomo

uguali e perfetti come le statue uscite da un medesimo stampo»74

. Le su citate carte, perfette nella

loro formulazione, ibernano l’uomo, nel senso che fermano la storia, fermando con essa la vita

stessa, di per sé, fatta di contrasti che non possono mai essere appiattiti o peggio eliminati. Qui

sembra opportuno far notare come, in questo momento storico che vede la nascita delle carte dei

diritti, non siano sorte al contempo carte riguardanti i doveri, le quali, sarebbero servite a tenere il

necessario legame con la storia e quindi con la società75

.

Un colpo di acceleratore, invece, nella connessione tra la politica (espressione del potere) e il

Diritto (inteso come strumento del potere), lo si ottenne con l’avvento delle grandi codificazioni76

;

attraverso le quali, infatti, il potere venne a concentrarsi in un’unica autorità legislativa, ed anche i

“parlamenti” – che avevano in origine solo competenze giudiziali ma che, con gli anni, si erano

affermati come «rappresentanti delle nazioni ed interpreti delle ʻleggi fondamentaliʼ del regno»77

furono ridimensionati, sottolineando la assoluta supremazia della legge alla quale tutti, giudici

compresi, dovevano sottostare.

Nel secolo XIX si produssero innumerevoli codici in tutta Europa; questo perché si pensò che

il Codice fosse l’unico strumento adeguato ad eliminare le derive che in passato avevano riguardato

l’ambito del Diritto. Ad aumentare tale diffusione fu l’idea, più morale che giuridica, che tramite i

Codici si potevano veicolare valori di per sé durevoli e condivisi. Tutta questa idealizzazione dello

strumento ʻcodiceʼ fece, per così dire, dimenticare la dimensione propriamente storica, dinamica del

Diritto, il quale, con l’esclusività della positività, tipica della visione codicistica, si sarebbe

inevitabilmente fossilizzato e ingabbiato78

.

«E il Codice, come breviario di quei valori, ben poteva essere redatto nella fissità di norme generali

vocate all’eternità; invece che sulle pagine di un libro, avrebbe potuto essere scolpito su tavole di

pietra. Ottimismo ingenuo, che non faceva i conti con due fattori erodenti: lo sviluppo economico e

tecnico e il mutamento sociale […]. Già negli anni Trenta un intellettuale italiano versatissimo nella

scienza giuridica così come in quella economica, Pellegrino Rossi, contemplatore lucido degli

74

P. GROSSI, L’Europa del Diritto, 117. 75

«L’armonia fra ordine e libertà, fra bene comune e bene privato, deve esistere in qualunque società, anche in quelle

secolari. In questa maniera si può recuperare il vero retroterra di una solida dottrina dei diritti umani, legato alla dignità

trascendente della persona umana. Indipendentemente dalla sua filosofia politica, va ricordata l’indagine di J. Maritain

diretta a fondare metafisicamente i diritti umani sulla legge naturale e sul concetto di persona, di indubbie radici

cristiane. Al tempo stesso, la libertà umana trova il suo senso nell’ordinarsi al bene dell’uomo, il che, a sua volta, data la

sua natura sociale, richiede essenzialmente una realizzazione solidale nella comunità degli uomini». J. I. ARRIETA,

Voce: Diritto soggettivo. II) Diritto canonico, in Enciclopedia Giuridica Treccani, vol. XI, Roma, 1989, par. 2.1, 3. 76

Frutto di due rivoluzioni «quella culturale del giusnaturalismo/illuminismo e quella fattuale del sessennio 1789-

1795». P. GROSSI, L’Europa del Diritto, 136. 77

Ivi, 123. 78

Cf. ivi, 151; cf. P. GROSSI, Mitologie, 43-82.

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spostamenti in atto, ne trasse delle desolanti conclusioni in un suo clamoroso discorso all’Accademia

di Scienze morali di Parigi, rimarcando l’arretratezza della coscienza economica dei codificatori

napoleonici e l’inadeguatezza del Codice a corrispondere alle nuove e novissime esigenze. Il libro

scritto sulla pietra era superato da un divenire rapidissimo»79

.

Il primo a muovere una forte critica all’impianto codicistico fu, in area tedesca, un giurista

tanto singolare da imprimere allo sviluppo del Diritto europeo una direzione particolare. Ci si

riferisce al giurista, filosofo e politico tedesco Friedrich Carl von Savigny (1779-1861)80

, il quale

sostenne che l’origine del Diritto è da riscontrarsi nella comune convinzione del popolo in quanto il

Diritto vive nella coscienza del popolo81

. Il Diritto, così come sopra si annotava, vive nella storia e

non può, pena la sua morte, essere immobilizzato in un codice scritto generale e uniforme. Lo stesso

Savigny, il primo anticodicista, finì poi, per occuparsi della formulazione di un codice che per la

sua portata è considerato un’opera della letteratura giuridica tra le più conosciute e tradotte al

mondo, il System des heutigen römischen Rechts82

. Tale opera potrà vantare di essere il principio

ispiratore della Pandettistica tedesca della seconda metà del secolo XIX, espressione di un sistema

logico-deduttivo per sua natura astratto, dove l’aspetto prevalente, appunto, non sarà più la storia,

cara al primo Savigny, ma il sistema. Questo sistema, produsse la corrente, ferocemente nemica del

giusnaturalismo, il giuspositivismo, il quale però fece sue le stesse “armi” del filone nemico

rinchiudendosi in una metodica fatta di modelli meta-storici. La Pandettistica, infatti, sarà

l’espressione somma di un diritto puramente formalizzato83

, si pensi alla sua massima espressione,

avutasi nel Bürgerliches Gesetzbuch84

. È chiaro che un siffatto sistema, il Codice, chiuso ed

astratto, faceva aumentare a dismisura la forbice tra il legislatore, la sua produzione positiva, e la

storia, la vita sociale, umile, ma unico terreno dal quale il Diritto può trarre nutrimento per vivere. Il

movimento che per prima reagì a tale sistema di Diritto fu il movimento giusliberale in cui si faceva

strada una nuova funzione della legge, della relazione tra questa e il Diritto, dell’importanza

dell’interpretazione, dell’applicazione specie attraverso il ruolo del giudice.

«Il succo del ripensamento giusliberistico nasceva infatti dalla sopravvalutazione fatta sino ad allora

della legge come fonte esclusiva del Diritto, dal culto indiscriminato della legge, dalla credenza che la

legge potesse esprimere tutta la ricchezza e la complessità del Diritto.

Era questa legolatria che suscitava le ire dei giusliberalisti, convinti che, in tal modo, si era contratto il

Diritto entro un soffocante apparecchio ortopedico, si era innaturalmente immobilizzata una realtà per

79

P. GROSSI, L’Europa del Diritto, 151. 80

Cf. M. FIORAVANTI, Savigny e la scienza di diritto pubblico del diciannovesimo secolo, in URL: ˂

http://www.centropgm.unifi.it/quaderni/09/0319.pdf , (consultato, 28/03/12), 319-338. 81

Cf. A. F. J. THIBAUT – F. C. SAVIGNY, La polemica sulla codificazione, G. MARINI (a cura di), Napoli, 1982, 97. 82

F. C. SAVIGNY, System des heutigen römischen Rechts, Berlin, 1840. 83

Cf. P. GROSSI, L’Europa del Diritto, 160-178. 84

«È sicuramente un Codice nel rigoroso significato storico-giuridico che abbiamo assegnato a questo termine: pretende

alla esclusività, riafferma l’impero della legalità positiva e impone al giudice l’osservanza della legge. Suo destinatario

resta il giudice, il suo stile rimane altamente teorico, concetti e tecniche si ispirano al purismo rigoroso della più

raffinata pandettistica». Ivi, 177.

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sua natura mobilissima e la si era incredibilmente sacrificata in una operazione drasticamente

riduttiva»85

.

Da questo momento in poi si andrà prendendo consapevolezza, anche grazie ai primi tentativi

comparatistici86

e all’espansione economica, di non poter restare chiusi, non solo all’interno della

gabbia di un codice ma soprattutto dietro ciò che esso nasconde: lo Stato e il suo volere controllare

l’intera società. Certo, bisogna pur dire che non frettolosamente si giungerà alla visione

contemporanea, in cui la comparazione, su scala mondiale, costituisce la vita delle relazioni

giuridiche. Questo perché ci vorrà non poco tempo per far cadere le squame della illusione

codicistica dagli occhi dei giuristi che si sono succeduti dall’era dei codici87

.

1.1.3 IL PRIMATO DEL DIRITTO SULLA MORALE

Una chiara diagnosi della crisi dell’istituzione ʻStatoʼ è ben formulata già agli inizi del ʼ900

dal noto giurista italiano Santi Romano, che nel celebre suo discorso inaugurale dell’anno

accademico 1909-1910 intitolato “Lo Stato moderno e la sua crisi”88

esplicitamente sostiene

l’eclissi di questa istituzione, sostenendo la sua incapacità di rispondere alle nuove esigenze

sociopolitiche e giuridiche caratterizzate da una sempre maggiore complessità89

.

«La crisi consisteva nella perdita della compattezza, nella emersione di un io collettivo del cittadino

che il potere borghese aveva da sempre ignorato riconoscendo in esso la minaccia più pericolosa,

quell’io collettivo che frastagliava la compattezza e che dava al cittadino nulla-tenente una

cittadinanza più sostanziale, ottenuta però con il gruppo di appartenenza ed entro il gruppo.

Si incrinavano, con questo processo incalzante, anche le due colonne portanti dell’edificio: la

separazione nettissima fra la sfera del diritto pubblico e quella del diritto privato; la separazione

nettissima fra il mondo del diritto e quello dei fatti»90

.

Questa crisi si era prodotta specie attraverso movimenti91

e raggruppamenti di liberi cittadini

che, stufi di vedersi negati alcuni diritti, come il lavoro, iniziarono una vera e propria lotta contro la

classe borghese dominante, incurante della situazione di precarietà che si andava consumando nei

ceti sociali più bassi. Questa presa di coscienza, che non mancò di trasformarsi in vera e propria

guerriglia92

, portò alla riscoperta o ritrovata coscienza della complessità della società che doveva

85

Ivi, 188. 86

Si pensi al primo Congresso internazionale di diritto comparato tenutosi, nel 1900, a Parigi. Cf. S. SOLIMANO, Un

secolo giuridico (1814-1916). Legislazione, cultura e scienza del diritto in Italia e in Europa, in AA. VV., Tempi del

diritto. Età medievale, moderna, contemporanea, Torino, 2016, 329-387, qui 375. 87

Cf. P. GROSSI, Mitologie, 64-82. 88

S. ROMANO, Lo Stato moderno e la sua crisi. Saggi di diritto costituzionale, Milano, 1969. 89

Cf. ivi, 9-13. 90

P. GROSSI, L’Europa del Diritto, 220-221. 91

Per il fenomeno del corporativismo europeo prodotto in questi anni, si cf. P. GROSSI, L’Europa del Diritto, 223-229. 92

Si pensi ai movimenti operai che diedero vita, in Europa, ai Sindacati: organizzazioni aventi come fine la tutela dei

diritti dei lavoratori.

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tradursi nella complessità del Diritto che è il riflesso della società. Il giurista Santi Romano, nel

1918, anno memorabile, portò a compimento la sua analisi sulla crisi dello Stato moderno attraverso

il saggio “L’ordinamento giuridico”93

. In tale saggio, il Romano delineava la nuova figura del

giurista il quale doveva tener presente che è sempre la società il terreno dal quale il Diritto deve

germogliare; quella società, espressione di un pluralismo giuridico, a cui bisogna guardare per

evitare di cadere in un monismo, come quello sorto dalla ristretta visione assolutistica prodotta

nell’età dei codici94

.

Un delicato passaggio che interesserà direttamente l’evoluzione del Diritto sarà costituito dai

conflitti mondiali, i quali proprio perché mondiali, sposteranno l’attenzione dei giuristi dal piano

ʻmicroʼ dello Stato al ʻmacroʼ piano dell’intero sistema. Diverse sono le caratteristiche del diritto di

guerra: 1) si pensi alla produzione legislativa, che sarà affidata all’organo esecutivo, anche se

formalmente dipendente (in quanto delegato) dall’organo parlamentare; 2) si pensi ancora, alla

soluzione delle controversie, che viene affidata ad istituti particolari, quali gli arbitrati, costituiti per

la loro capacità di risoluzione rapida ed efficace; di notevole interesse saranno i principi equitativi

che guideranno i giudici-arbitri nelle varie soluzioni95

; 3) e ancora, all’intromissione dello Stato

nell’ambito del diritto civile, specie in relazione al diritto di proprietà. Inoltre, si pensi al concetto di

risarcimento in capo allo stesso Stato per i danni provocati nell’esercizio della propria potestà96

.

Altra tappa dell’era contemporanea che, in questo breve riassunto della storia del Diritto –

veicolo sempre di determinati valori – merita di essere citata è l’introduzione di una nuova idea di

costituzione97

. Si fa riferimento esplicitamente a ciò che provocò, la costituzione weimariana del

1919 che

«inaugura una fase nuova nella storia del costituzionalismo, proponendosi non più come ʻcarta dei

dirittiʼ, catalogo di indole filosofico-politica recante l’elenco di situazioni del generico cittadino che lo

Stato era tenuto a rispettare, bensì come autentica Costituzione, norma giuridica rispecchiante e

disciplinante la complessità di una società nazionale, specchio fedele di essa, interpretazione dei suoi

valori storici e traduzione di questi in principi e regole di vita»98

.

93

S. ROMANO, L’ordinamento giuridico, Firenze, 1946. 94

Cf. M. FIORAVANTI, Costituzione, amministrazione e trasformazione dello Stato, in AA. VV., Stato e cultura giuridica

in Italia dall’unità alla Repubblica, A. SCHIAVONE (a cura di), Roma-Bari, 1990, 9; cf. P. GROSSI, L’Europa del Diritto,

223. 95

L’equità e la prudenza tipiche dell’arbitrato contribuiranno non poco a sfaldare la concezione assolutistica dei codici. 96

Cf. P. GROSSI, L’Europa del Diritto, 229-232. 97

«[…] si afferma un concetto di Costituzione come tavola di principi e valori non più disponibili per il legislatore

ordinario […] la legge occupa sempre un ruolo centrale nella disciplina dei diritti di libertà, ma non è più concepita

come “giusta” a priori ed incontra un limite invalicabile nella Costituzione, il cui rispetto è affidato ad una forma di

eterocontrollo […] da parte del giudice costituzionale». P. CARETTI, I diritti fondamentali. Libertà e Diritti sociali, II

ed., Torino, 2005, 16.

98

P. GROSSI, L’Europa del Diritto, 237.

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È a partire da questa nuova idea di costituzione che sorgeranno in Europa occidentale varie

costituzioni, quella francese nel 1946, che affidò al Parlamento un ruolo di primissimo ordine;

quella italiana nel 1948; in Germania occidentale, si optò per una legge fondamentale (Grundgesetz)

entrata in vigore il 194999

.

Ultima tappa di questo excursus storico sarà dedicata a quel processo, per certi versi faticoso,

che ha condotto all’unità dell’Europa sotto il profilo politico-giuridico.

«Il processo può essere – molto sommariamente – condensato in queste tappe: il Trattato di Parigi del

1951 istitutivo di un primo embrione unitario, la Comunità europea del carbone e dell’acciaio

(CECA); il trattato di Roma del 1957 istitutivo della Comunità economica europea (CEE) e della

Comunità europea per l’energia atomica (CEEA); il trattato di Maastricht del 1992, che dà vita

all’Unione Europea come realtà complessa concernente non soltanto carbone e acciaio, economia,

energia atomica, ma altresì politica estera e sicurezza comune, giustizia e affari interni. Recentemente

si è arrivati a coniare una Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, comunemente chiamata

Carta di Nizza perché, approvata nel 2000 dal Parlamento europeo e dalla Commissione, venne

proclamata e sottoscritta dai rispettivi presidenti nella seduta di Nizza del 7 dicembre 2000.

Recentissimamente, nel 2004, essa è divenuta parte integrante del trattato che adotta un progetto di

Costituzione per l’Unione, progetto che è restato tale fino ad oggi a causa della mancata ratifica della

Francia e dei Paesi Bassi»100

.

Se con l’età moderna, quindi, si era giunti alla distinzione netta tra Morale e Diritto, l’età

contemporanea segnerà un passaggio successivo verso il primato del Diritto sulla Morale.

«È appagante, da un punto di vista sostanzialmente giustiziale, la garanzia offerta da legalità, certezza

del diritto, divisione dei poteri? Ci si può contentare della legge come giustizia quando la legge è

ridotta a comando autorevole ma passibile di ogni contenuto, e pertanto vuoto? Perché la infallibilità e,

conseguentemente, la irresponsabilità giuridica per i detentori del potere politico, a fronte di pesanti

responsabilità per i detentori del potere amministrativo e, oggi, anche del potere giudiziario?

Non è forse giunto il momento di rivedere funditus il problema e l’assetto di quelle che i giuristi

chiamano le “fonti del diritto”, oggi che il divario sempre più accentuato fra pratica degli affari e

norme imperative ufficiali fa emergere un inarrestabile processo di privatizzazione della produzione

del diritto?»101

.

Questo primato si è potuto realizzare anche grazie allo scudo – rivelatosi un vero e proprio

scudo di Medusa102

– che le società dell’Europa continentale hanno potuto alzare contro coloro che

manifestamente denunciano questo capovolgimento dello strumento del Diritto, non più finalizzato

ad ordinare la realtà sociale, bensì ad assecondare colui o coloro che detengono il potere103

. La

99

Cf. ivi, 249-254. 100

Ivi, 253-254. 101

P. GROSSI, Mitologie, 7-8. 102

Con questa immagine vogliamo qui richiamare il paesaggio giuridico presentatosi alla fine della modernità, un

paesaggio immobilizzato dal mito della legge positiva: «l’età moderna, età di mitologie giuridiche, si è rattrappita in un

costringente orizzonte di modelli, e la complessità dell’esperienza giuridica è stata notevolmente sacrificata. Visione

potestativa del diritto, sua statualità, sua legalità hanno costituito un osservatorio deformante, giacché puntando

unicamente sul momento e sull’atto della produzione, la regola giuridica si presenta come norma, cioè come comando

autoritario dell’investito del potere». Ivi, 64. 103

«Su un punto soltanto civiltà medievale e civiltà moderna appaiono collimare agli occhi dell’osservatore giurista:

sono ambedue civiltà giuridiche, nel significato elementare che ambedue fanno gran conto del Diritto come struttura

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Morale, dal canto suo ridotta a principi non negoziabili, in cui è possibile far entrare tutto e il

contrario di tutto, diventa anch’essa strumento per controllare le menti distraendole da problemi

gravi e seri che minano la dignità della persona umana, quali ad esempio l’aborto, l’eutanasia

ecc.104

. I principi non negoziabili sono il frutto di quel vasto movimento giuridico transnazionale,

affermatosi nel corso della storia, attraverso patti, dichiarazioni, carte. È qui che si introduce quella

“novità” tipica dell’età contemporanea, ovverosia, la presenza di una terza dimensione giuridica105

,

diversa dallo Stato e dal singolo cittadino. Questa terza dimensione giuridica106

corrisponde a quel

movimento transnazionale a cui si faceva cenno poc’anzi, il quale troverà il suo terreno di azione

non più nei confini dei singoli Stati, ma tenderà a coinvolgere uomini appartenenti a diversi paesi: si

pensi all’Unione Europea che è in cammino verso una fusione di due mondi, il civil law e il

common law107

. Questi principi, (più o meno) universalmente accettati, sono il nuovo substrato

dell’Etica, la quale, parrà ormai vivere solo come espressione di questi.

«da un punto di vista giuridico i valori e i significati che si sono affermati storicamente in Occidente, a

partire dalle Rivoluzioni americana e francese, e che possono svolgere la funzione di quelli che

Aristotele chiamava éndoxa, sono i diritti umani […]. In tal senso essi possono essere oggetto più di

un’argomentazione sia morale che giuridica, se non vengono recepiti in qualche modo

nell’ordinamento giuridico, come accade per l’art. 2 della Costituzione italiana»108

.

L’Etica, quindi, risulta oggi solo quella riconosciuta all’interno di quel complesso e articolato

ambito giuridico chiamato Diritto internazionale. Questo spostamento dal Diritto dello Stato al

Diritto internazionale si produsse soprattutto quando, in seguito alla codificazione – tendente alla

staticità – il divenire sociale – tendente per sua natura alla dinamicità – si vide costretto a procedere

per altre vie distinte e non intersecanti il Diritto statuale. Questa possibilità verificata, del

cementante al loro seno. Ma di collimazione formale e apparente è questione: a spingere più a fondo lo sguardo, anche

sotto questo profilo le scelte si fanno diverse se non opposte. È vero: intense sono le presenze nell’una e nell’altra, ma si

tratta di presenze – per così dire – capovolte: al totale e innegabile rispetto, che per la dimensione giuridica circola

costantemente nelle vene dell’organismo medievale, fa riscontro l’atteggiamento di completa strumentalizzazione che

domina quello moderno; quanto si poneva – per il primo – tra i fini supremi della società civile, diventa – per il secondo

– uno strumento, sia pure rilevante, nelle mani del potere politico contingente». Ivi, 18-19. 104

Qui faccio un riferimento indiretto a tutto quel movimento che cerca oggi, strumentalizzando alcuni principi non

negoziabili o diritti fondamentali – passando quasi sempre dal piano del puro “fatto” al piano dell’“essere” –, di far

riconoscere negli ordinamenti civili comportamenti per natura immorali o di rilevanza secondaria: si pensi al diritto di

famiglia per coppie omosessuali e il diritto per questi, all’adozione; si pensi oggi alle norme nazionali e internazionali

che proliferano per la salvaguardia e il riconoscimento dei diritti degli animali ecc.. 105

Vari fattori contribuiranno alla formazione di questa terza dimensione: la distinzione pubblico-privato, i nuovi fattori

economici-sociali di scala internazionale, la perdita di autorevolezza dello Stato. Cf. P. GROSSI, L’Europa del Diritto,

219-255. 106

«Ma la presenza di una terza dimensione, quella di un ʻcollettivoʼ diverso dallo Stato, scompigliava una dicotomia

preziosa all’ordine borghese, il quale – non dimentichiamolo mai – si risolve in un acceso individualismo ma anche in

un altrettanto acceso statalismo giacché l’individuo proprietario non può fare a meno di una protezione possente». P.

GROSSI, L’Europa del Diritto, 221. 107

Cf. ivi, 254-255. 108

G. GIORGIO, Argomentazione e processo giuridico, appunti pro manuscripto ad uso degli studenti, Roma, A.A. 2011-

2012, 128.

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ricongiungimento dell’Etica (intesa come Etica umanamente condivisa, diversa dall’Etica antica e

medievale) con il Diritto è stata possibile quando la politica è divenuta il collante dei due ambiti. La

politica a cui si fa riferimento non è più quella intenta a sviluppare il miglior governo possibile,

bensì quella che assume come criterio base la prassi collettiva109

.

«Accanto ai diritti ufficiali concorrono diritti promananti da altre e molteplici fonti, ed è spesso la

prassi il laboratorio virulento dove il nuovo diritto prende forma. Se fino a ieri il criterio determinante

era quello della validità, ossia della corrispondenza a un modello generale autorevole

(prevalentemente offerto dallo Stato), oggi sembra vincente quello della effettività, cioè della capacità

che ha una regola o un istituto di essere concretamente osservato, applicato. E i confini tra fatto e

Diritto, così nitidamente segnati in un passato prossimo, si fanno labili, e l’approdo è una decisa

fattualità del Diritto»110

.

L’Etica di cui si parla è per così dire, ridotta ad un’unica dimensione, quella della realtà.

Questa realtà, però, non è da identificarsi con il substrato sociale, terreno nel quale il Diritto può

svilupparsi nella sua naturale portata ordinativa, bensì corrisponde, ancora oggi, alla visione

esclusiva del legislatore per il quale è sufficiente, come presupposto dell’ordinamento, la semplice

«accettazione di un “etica della legalità”, per cui il rispetto delle leggi è espressione del più generale

principio di civiltà dello “stare pactis” e quindi riconoscimento della appartenenza di tutti i cittadini

alla stessa organizzazione sociale […]; la fedeltà alla legge va intesa non come obbedienza ad un

comando, ma come leale esecuzione di un patto […], il principio di lealtà impone l’accettazione

dell’idea del primato del potere legislativo e quindi il dovere di “prendere sul serio” le scelte politiche

del legislatore»111

.

É chiaro, qui, il ritorno al mito del potere legislativo, capace di effettuare l’unica ermeneutica

possibile sulla realtà e curare, di conseguenza, in modo esclusivo il bene comune112

.

Si ritiene in ultimo sottolineare che il tentativo più riuscito, a nostro avviso, per superare

l’ormai consolidato normativismo, è oggi rappresentato dalla disciplina, che possiamo definire

come la verifica, la prova di ogni riflessione che abbia nella storicità una sua coordinata

imprescindibile: l’Ermeneutica113

.

«Certamente per arrivare a questo, occorrono altri occhiali sul naso dei giuristi […]: occhiali che siano

disposti ad accogliere entro il paesaggio giuridico anche la comunità degli utenti in funzione non

meramente passiva, che siano disposti ad ammettere non un solo protagonista monocratico (il

detentore del potere) ma una pluralità folta di soggetti. Forse, è proprio giunto il tempo di cominciare a

109

Cf. F. D’AGOSTINO, Lezioni, 63-96. 110

P. GROSSI, L’Europa del Diritto, 255. 111

M. LIBERTINI, Il vincolo del diritto positivo per il giurista, in G. ZACCARIA (a cura di), Diritto positivo e positività

del diritto, Bologna, 1991, 74-76. 112

Cf. P. GROSSI, Mitologie, 64-74. 113

«L’unico strumento per togliere al diritto il tradizionale ripugnante smalto potestativo e autoritario era ed è di

concepire la formazione come un procedimento che non si compie con la produzione ma che ha un momento

susseguente, il momento interpretativo, come interno alla formazione della realtà complessa della norma; insomma,

l’interpretazione quale momento essenziale della positività della norma stessa, condizione ineliminabile per il

concentrarsi della sua positività». Ivi, 73.

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costruire il diritto anche dalla parte di quelli che la tradizione ha chiamato, con implicito dispregio, i

destinatari del comando»114

.

Si è convinti che l’applicazione, piuttosto che la norma astratta, costituisce l’anima del

Diritto115

; altrimenti si corre il rischio di far diventare la norma una pietra, magari stilisticamente

lavorata, perfetta, ma che resta pur sempre pietra destinata, nel migliore dei casi, ad essere osservata

in un museo, il solo luogo in cui si può idealisticamente pensare di fermare la storia116

. Il problema

del diritto contemporaneo è proprio questo, quello di cercare una soluzione all’immobilismo

giuridico creato dal binomio Stato-Legge e la conseguente riduzione della complessità del

sociale117

. Attraverso questo principio ermeneutico, costituito dal tener presente la complessità del

sociale, si tenta di mettere in luce alcuni tratti storici della odierna, contemporanea visione del

Diritto, in relazione soprattutto ai coincidenti valori di cui è portatore.

La Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, approvata e sottoscritta nel 2000 è

divenuta nel 2004 parte di un progetto che si prefigge come fine la nascita di una Costituzione

Europea118. Tale Costituzione, se pur mossa dal vissuto sociale dell’Unione, sarà poi capace di tener

a freno il rischio di creare in laboratorio un soggetto europeo irreale, così come è avvenuto per le

codificazioni statali? «In altre parole, il rischio è un divario pesante tra una catalogazione

teoricamente pregevole (e, per giunta, immobile) e il contesto storico»119

. Ciò che aiutò ad evitare il

rischio su menzionato, e che conferma la posizione che vede nell’“applicazione” l’anima del

Diritto, fu l’opera svolta dalla Corte di Giustizia dell’Unione, la quale, confrontandosi con casi

concreti e senza dimenticare le tradizioni costituzionali comuni, poté raggiungere, attraverso la

storia viva, l’identificazione giudiziaria dei diritti120. Resta il fatto che l’idea di una Carta, quindi

scritta e fissata in norme, rievochi l’idea negativa della riduzione del Diritto alla legge. Questo

risulta vero soprattutto quando ci si imbatte nel testo della Carta di Nizza, dove il riferimento, più

volte sottolineato è all’individuo, astratto, isolato dal contesto storico: «un uomo astratto, che non

esisteva in nessun luogo»121

.

114

Ivi, 73-74. 115

Con questo non si vuole dire che la norma non serva: con un’immagine potremmo dire che la norma costituisce il

corpo di cui è fatto il Diritto, ma dello stesso l’anima è costituita dall’applicazione. 116

«Il diritto è più applicazione che norma. Guai se lo si immobilizza in un comando, tanto più se il comando trova la

propria immobilizzazione in un testo; guai se la regola giuridica diventa e rimane testo cartaceo. Il rischio probabile è la

separazione dalla vita». P. GROSSI, Mitologie, 74. 117

«Al nodo di queste credenze giuridiche sta il vincolo stretto ed esclusivo fra Stato e volontà generale, fra volontà

normativa dello Stato, la legge, e la volontà generale: soltanto al primo è dato di esprimerla, soltanto alla seconda è dato

manifestarla […]: lo Stato quale unico produttore di diritto; la legge quale unica sua fonte. E prende corpo definito

quell’assioma che immobilizza le fonti del diritto in una scala gerarchica (assioma dipoi ricevutissimo) e che, in

sostanza, le devitalizza tutte ad eccezione di quella collocata al primo e supremo gradino». Ivi, 135-136. 118

Cf. G. STROZZI – R. MASTROIANNI, Diritto dell’Unione Europea. Parte Istituzionale, VII ed., Torino, 2016, 26-32. 119

P. GROSSI, Mitologie, 142. 120

Cf. ivi, 127-163. 121

H. ARENDT, Le origini del totalitarismo, Milano, 1997, 404.

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«Un individuo che non è persona, giacché non si ha persona se non calata in un intreccio di rapporti,

non si ha persona se non in un soggetto in relazione con gli altri, soggetto comunitario perché vocato

alla famiglia, alla chiesa locale e universale, alla corporazione e anche al sindacato, al partito, alla

comunità politica locale nazionale e internazionale»122

.

È interessante notare che in questa fase il valore che viene veicolato è l’avere. L’avere

diviene il criterio distintivo della contemporanea concezione della società, segno della

imperversante cultura capitalista: io sono quanto posseggo.

«La proprietà non è soltanto fonte di ricchezza, di benessere e anche di potere; subisce una elevazione

mai conosciuta prima d’allora, entra di prepotenza nel terreno geloso della Morale, diventa addirittura

strumento di edificazione sacralizzandosi»123

.

Si immaginino le conseguenze morali e sociali degli individui identificati come homines

economici124: il profitto, ritenuto il valore da perseguire, farà considerare l’altro, distinto da me, un

concorrente, possibilmente da eliminare. Di riflesso la visione della libertà viene a coincidere con

l’assenza di legami125

.

«E si capisce perché lo Stato non tolleri la società intermedia: perché rende accidentato il terreno

sociale. E si capisce perché lo Stato si armonizzi bene con l’individuo e assai meno con la persona;

perché l’individuo – creatura eticamente e socialmente anonima – ha una sua proiezione economica e,

ove sia protetto in questa sua proiezione, non ha invadenze e non mette a rischio la compattezza del

potere. Rischiosa è, invece, la persona precisamente per la sua natura relazionale e per le sue

complesse proiezioni etico-sociali che ne fanno creatura non anonimata e possibile – se non probabile

– breccia nella compatta muraglia del potere»126

.

Si intende concludere questo percorso storico ricordando l’avvertimento, ancor vivo, di Santi

Romano, a proposito delle prime carte costituzionali, a guardarsi bene dall’assumere un

«atteggiamento acritico, bassamente apologetico, della assoluta maggioranza dei costituzionalisti

saldamente ancorata all’ossequio di luoghi comuni»127

il quale distoglie l’attenzione dalla

complessità e conflittualità tipica del sociale. Di questa complessità si è fatta sempre garante la

Chiesa Cattolica affermando con chiara franchezza che:

«oltre alla famiglia svolgono funzioni primarie ed attivano specifiche reti di solidarietà anche altre

società intermedie. Queste, infatti, maturano come reali comunità di persone e innervano il tessuto

sociale, impedendo che scada nell’anonimato, e in un’impersonale massificazione»128

.

122

P. GROSSI, Mitologie, 149. 123

Ivi, 150. 124

«Il divorzio tra etica ed economia, tra giusto ed utile, tra homo moralis ed homo oeconomicus segna la fine della

parabola dell’antica unità tra sapere filosofico e scienza economica (scisse definitivamente dopo Smith) dando vita

all’economia come scienza autonoma». L. CIMMINO, La vocazione dell’homo oeconomicus, in AA. VV., In ricordo di

Capograssi. Studi napoletani, G. MARINO (a cura di), Napoli, 2008, 62. 125

Cf. L. GIUSSANI – S. ALBERTO – J. PADRES, Generare tracce nella storia del mondo, Milano, 1998, 164. 126

P. GROSSI, Mitologie, 158. 127

Ivi, 147. 128

IOANNES PAULUS PP. II, Litteræ encyclicæ: Centesimus annus, 1 maii 1991, in AAS, LXXXIII (1991), 793-867.

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1.2 GIUSPOSITIVISMO E GIUSNATURALISMO: DUE CORRENTI A CONFRONTO

1.2.1 FONDAMENTO E VALORE DELLE NORME NEL POSITIVISMO GIURIDICO

Se oggi si vuole riflettere sul fondamento della norma giuridica, non si può fare a meno di

guardare, senza la pretesa di esaurirne il contenuto, al pensiero giuridico c.d. positivista129

.

Innanzitutto bisogna comprendere che la norma giuridica, secondo la visione positivista, è

quella norma a cui un’autorità a ciò competente, conferisce esattamente la qualità di Diritto130

.

Qualunque sia la fonte da cui promana il Diritto, per esempio lo Stato sovrano, il suo contenuto è

puramente fattuale e contingente. Per tale ragione, le leggi non attestano l’esistenza di alcuna

giustizia, morale o etica né alcuna altra verità assoluta, bensì esse sono solo l’esito di un nesso

causale, logicamente accertato, tra gli accadimenti storici e le loro conseguenze131

. È sufficiente

come requisito di efficacia dell’intero ordinamento giuridico, che l’applicazione delle norme

giuridiche sia effettiva. La rigida convinzione che il principio di effettività del Diritto sia verità

razionale ed incontestabile impone al mondo degli uomini che la forza del Diritto coincida con la

forza e la volontà di chi detiene il potere, nella misura in cui l’ordinamento giuridico da esso

realizzato riesce a creare consensi attorno a sé.

L’infallibilità della ragione, quale principio cui commisurare l’intera realtà, conduce

direttamente all’“irragionevole” risultato di considerare l’uomo solo una «forza vuota o

disponibile»132, un puro fatto che l’autorità dominante conformerà e plasmerà a proprio piacimento

come puro strumento di dominio133

.

Il positivismo concepisce il Diritto solo all’interno del fenomeno sociale, ben distinto dalla

Natura134

. Una volta distinto l’ambito della Natura dall’ambito del Diritto – che appartiene,

129

«Per positivismo giuridico intendiamo un orientamento di pensiero che identifica e riduce il Diritto a norme poste da

un’autorità “sovrana”, cioè legittimata a porle». C. SARTEA, Positivismo giuridico, in AA.VV., Cento e una voce di

teoria del Diritto, Torino, 2010, 183. 130

Significative sono le parole di Bergbhom: «È diritto positivo quel diritto cui un potere competente a formare il diritto

conferisce qualità di diritto […] mediante un procedimento idoneo estremamente apprezzabile […]. Una legge che

effettivamente esiste è legge, per quanto desti la nostra disapprovazione». K. BERGBOHM, Jurisprudenz und

Bechtsphilosophie, Leipzig, 1892, 43 ss., 139 ss.. 131

In merito al ragionamento giuridico formalista si veda G. GIORGIO, La via del comprendere. Epistemologia del

processo di diritto, Torino, 2015, 22-29. 132

G. CAPOGRASSI, Il diritto dopo la catastrofe, 1950, in G. CAPOGRASSI, Opere, V, Milano, 1959, 157. 133

Cf. T. W. ADORNO ‒ M. HORKHEIMER, Dialettica dell’illuminismo, Torino, 1966, 94-95. 134

«In una sala si riuniscono degli uomini, tengono dei discorsi, gli uni si alzano dai loro posti, gli altri rimangono

seduti: questo è accadimento esteriore. Il suo senso è che una legge è stata votata». H. KELSEN, Lineamenti di dottrina

pura del Diritto, Torino, 2000, 48.

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appunto, all’ambito dello Spirito135

e non della Natura – si passa a distinguere, all’interno del vasto

e variegato campo delle scienze dello spirito, il Diritto dalla Morale136

.

Secondo questo pensiero, la norma costituirebbe l’unico schema qualificativo del Diritto;

infatti, si sosterrà che è la norma a dare ad un fatto, ad un atto, un valore giuridico, ovverosia, sarà il

confronto con l’apparato normativo a qualificare giuridicamente un atto.

«Per una visione squisitamente normativa ciò che conta è il ʻcomandanteʼ e la sua volontà imperativa

(o, se vogliamo, i ʻcomandantiʼ e la loro volontà imperativa), mentre contano assai poco gli utenti

della norma e la vita della norma nella utilizzazione che ne fa la comunità dei consociati»137

.

Questa qualificazione varierà col variare dei sistemi normativi di riferimento, inevitabilmente,

legati ad uno spazio e ad un tempo138

.

Il legame tra Morale e Diritto, di per sé sarà solo nominalistico. Entrambe le discipline

useranno gli stessi termini, attribuendo ad essi, però, significati completamente diversi139

. Il fatto

che nel Diritto si usi il termine giustizia140

, per esempio, non implicherà che si parli di giustizia

morale141

.

La giustizia, nell’ambito Morale, ha un valore assoluto, e proprio perché assoluto, essa è fuori

dalla portata conoscitiva dell’uomo, in quanto, egli non può conoscere l’assoluto.

La norma morale, con il suo carattere di assolutezza è qualcosa che sta al di là di ogni

possibile esperire umano. Ogni ricorso alla sfera Morale, all’imperativo categorico è completamente

privo di significato. Se nel Diritto si dà spazio ad un’idea di giustizia assoluta, è all’opera

un’ideologia che vuole servirsi, o meglio, asservirsi il Diritto.

135

«Ma non si potrà negare che il diritto come norma sia una realtà spirituale, non naturale». H. KELSEN, Lineamenti,

56. 136

La distinzione, precisa Kelsen, non vuole mettere in dubbio che il Diritto debba essere morale, buono. 137

P. GROSSI, Mitologie, 55. 138

Una prima e fondamentale distinzione, per i positivisti, tra le norme morali e le norme giuridiche è costituita dal fatto

che le norme morali (idealmente) non conoscono limiti di spazio e di tempo essendo universalmente condivise; mentre

le norme giuridiche sono appunto caratterizzate da spazi e tempi ben precisi. 139

«Dove “Giusto”, per esempio, è solo una parola per dire “legale”». H. KELSEN, Lineamenti, 56. La giustizia,

nell’ambito morale, ha un valore assoluto, e proprio perché assoluto, Kelsen ritiene che sia fuori dalla portata

conoscitiva dell’uomo, in quanto l’uomo non può conoscere l’assoluto. La norma morale, con il suo carattere di

assolutezza è per Kelsen, qualcosa che sta al di là di ogni possibile esperire umano. 140

Per i caratteri essenziali del termine “giustizia”, cf. F. VIOLA – G. ZACCARIA, Le ragioni del Diritto, Bologna, 2003,

66-68. 141

«Il Diritto è volto a coordinare le azioni sociali non in qualsiasi modo, ma nel modo della giustizia. In questo un

ordine giuridico differisce da un mero ordinamento dei rapporti sociali. Ciò di per sé non significa che il Diritto sia

necessariamente connesso alla Morale, ma soltanto che sono morali le ragioni per cui il Diritto esiste in tutte le società

umane». F. VIOLA – G. ZACCARIA, Le ragioni del diritto, 65.

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L’ambito del Diritto, invece, è costituito dalla sfera degli interessi e i loro possibili conflitti.

Conseguentemente, si comprende che il compito del Diritto, risulterà quello, appunto, di ordinare

gli interessi e i conflitti, che questi potrebbero provocare142

.

L’intenzione della gran parte dei giuristi di quest’epoca sarà quella di separare il Diritto dalla

Morale, in nome di «una prassi operativa professionale di carattere strettamente tecnico e

fondamentalmente formalistico»143

.

«Questo avviene facendo in modo che la norma giuridica, contrariamente alla dottrina tradizionale,

venga intesa, non come imperativo al pari della norma morale, ma bensì come giudizio ipotetico che

esprime il rapporto specifico di un fatto condizionante con una conseguenza condizionata»144

.

L’ambito del Diritto viene concepito a partire da un modello di natura deterministica, in cui,

però, il rapporto tra la pena e il delitto ha un significato normativo e non causale145

. La norma, per

essere giuridica, dovrà prevedere la necessità condizionata della sanzione.

«Se il diritto, considerato del tutto positivisticamente, non è altro che un ordinamento coattivo esterno,

esso sarà allora concepito soltanto come una specifica tecnica sociale: si raggiungerà o si cercherà così

di raggiungere lo stato sociale desiderato collegando al comportamento umano, che rappresenta

l’opposto contraddittorio di questo stato sociale, un atto coattivo come conseguenza, cioè la privazione

coattiva di un bene: vita, libertà, beni economici. […] l’ordinamento giuridico ha pertanto il fine di

indurre gli uomini a seguire un comportamento contrario (a quello sanzionato)»146

.

L’obbedienza all’ordinamento – secondo questa corrente di pensiero – potremmo dire, più che

alla norma in sé, alla sua ragionevolezza intrinseca, sarà obbedienza al timore di incorrere nell’atto

coattivo (sanzionatorio) legato alla norma147

.

Conseguentemente, la fonte primaria del Diritto sarà da individuarsi in una norma

fondamentale, intesa diversamente dalla norma fondamentale della Morale148

, che costituisce il

punto di partenza di un procedimento, di carattere dinamico formale.

Le singole norme del sistema giuridico «debbono essere prodotte da un particolare atto che le

pone, atto non di pensiero, ma di volontà»149

. Ciò che conta è che la norma sia posta – e non solo,

142

«Dal punto di vista di una conoscenza razionale, ci sono soltanto degli interessi e quindi dei conflitti di interessi la

cui soluzione è data da un ordinamento degli interessi che, o soddisfa un interesse contro l’altro e a spese dell’altro,

oppure stabilisce un accordo, un compromesso fra gli interessi contrastanti. Per la via della conoscenza razionale non si

può certo stabilire se l’uno o l’altro ordinamento abbia un valore assoluto e sia cioè “giusto”». H. KELSEN, Lineamenti,

58. 143

F. D’AGOSTINO, Lezioni, 69. 144

H. KELSEN, Lineamenti, 63. 145

Qualcuno sarà punito “a causa” di un delitto, dove, la punizione, non è causata dal delitto, ma da una esplicita

previsione normativa. 146

H. KELSEN, Lineamenti, 68-69. 147

«Il Diritto è un meccanismo coattivo a cui in sé e per sé non corrisponde nessun valore politico o etico, un

meccanismo coattivo il cui valore dipende piuttosto dallo scopo che lo trascende in quanto mezzo». Ivi, 71. 148

Per esempio, le norme: tu non devi mentire, tu non devi ingannare ecc. provengono dalla norma fondamentale della

veridicità. Queste norme particolari possono essere riassunte nella norma universale. 149

H. KELSEN, Lineamenti, 97.

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ma che sia posta accanto ad una norma che ne sanzioni la inviolabilità – non che sia

ragionevolmente giusta.

Il Diritto – in questa prospettiva – come fatto sociale, appare infine essenzialmente artificiale:

esso viene visto non come un prodotto della storia, ma come il frutto della volontà del legislatore.

La teoria positivista del Diritto è compatibile con la teoria dell’ordinamento giuridico, inteso

come il complesso delle norme giuridiche vigenti; come interpretazione riconosce solo quella

testuale.

Il punto cruciale, però, di ogni sistema normativo è quello della giustificazione delle norme.

Normalmente, il positivismo risolve il problema facendo coincidere la giustificazione con la loro

validità150

: esiste unicamente il Diritto positivo, se non c’è positività non c’è Diritto. Il Diritto è la

volontà del sovrano che comanda. Ben si può immaginare la risoluzione di un altro dei problemi

fondamentali del Diritto e, specie, di un Diritto normativisticamente concepito, ovverosia il

problema dell’interpretazione delle norme:

«Il problema interpretativo della norma, in quest’ottica ristretta, non può non ridursi a un

procedimento di ricostruzione – procedimento previsto con aritmetica precisione – della volontà

imperativa nel momento in cui essa si separò dal ʻcomandanteʼ (sempre antropomorficamente pensato)

e si coagulò in un testo immobilizzandosi in esso fino all’erompere di una nuova, contraria o diversa,

manifestazione di volontà.

Insomma, far capo alla norma, lo si voglia o non lo si voglia, significa sempre e in ogni modo

concepire il Diritto in modo potestativo, legarlo strettamente al potere, anche se si tratta di potere di

cui si percepisce la riottosità, e che è pertanto una realtà pericolosa da controllare orientare

arginare»151

.

Il Diritto al di fuori della legge sarebbe inimmaginabile perché lo stesso al di fuori della legge

non sarebbe sostenuto dal potere. La garanzia della legge, quindi, è il potere del sovrano; la legge

diventa obbligatoria perché il potere del legislatore vincola i destinatari della legge. Di

conseguenza, la legge è sempre qualificata dalla coercibilità, il potere obbliga all’obbedienza con la

coercizione, con l’uso della forza.

Si comprende in tutto questo che, per il Diritto così concepito, non è importante che il

soggetto del potere sia personale o collettivo; a questa logica serve solo sapere che c’è un potere che

legifera, e lo fa perché detiene il potere152

. Infatti, cambia solo la veste esteriore di un governo, ma

non le finalità sostanziali di concentrare il potere in un solo punto, fosse anche una repubblica

democratica. Si trasmette così il concetto del potere assoluto in tutti i settori vitali dell’uomo, con la

convinzione che il potere vuole ciò che vuole.

150

Per una più ampia discussione, cf. S. CASTIGNONE, Introduzione alla filosofia del Diritto, Roma-Bari, 1998, cap. V. 151

P. GROSSI, Mitologie, 55-56. 152

Il Diritto come strumento nelle mani del potere costituito (vuoi che sia il sovrano, vuoi che sia il popolo). Cf. P.

GROSSI, Assolutismo giuridico, 1-31.

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Sembra doveroso in questa parte sistematica rilevare lo scollamento, prodotto da un siffatto

modo di concepire il Diritto, «tra produzione e applicazione del Diritto, fra comando e vita, fra un

comando che si conchiude e si esaurisce in un testo e ben spesso oltre e contro il testo: è la strada

che conduce ad un formalismo talora esasperato nella sua astrattezza»153

. Tutto questo costituisce

l’esito, per certi versi inevitabile, della incomunicabilità tra Diritto e Morale154

, che ha prodotto

nella storia la nascita di leggi ingiuste in sé, in quanto non razionali, contro l’uomo, ma, allo stesso

tempo, valide ed efficaci in quanto poste dal legislatore.

Il richiamo alla visione kelseniana, di un Diritto che si traduce in un universo di norme e

sanzioni è utile per la ricerca che si sta svolgendo in quanto consente di stare attenti a non cadere in

riduzionismi facili e deresponsabilizzanti ed avere sempre una propulsione verso un Diritto inteso

come ordinamento.

«Ordinamento significa l’atto di ordinare, del mettere ordine; e ordine è nozione preziosa almeno in un

suo aspetto: fa i conti con la realtà sottostante, la presuppone nella sua onticità se vuol raggiungere il

fine di ordinarla e non di coartarla; di conseguenza, ne registra e ne rispetta tutta la complessità.

Assumere il Diritto come ordinamento ha, dunque, il significato di iniziare il tentativo di recupero

della complessità, della complessa ricchezza dell’universo giuridico […].

Ripetiamolo: ordinamento è nozione che ha al suo cuore quella di ordine; e ordine, proprio perché non

può prescindere dalla realtà da ordinare, proprio perché è necessariamente ascolto e accoglimento di

istanze provenienti dal reale, si pone quale preziosa mediazione fra autorità e società e non assume

l’aspetto sgradevole della coercizione […].

L’ordine è – questo sì – nozione rigorizzante perché compone e sistema la rissa inevitabile dei fatti

storici di per sé riottosi e slegati; ordine implica rigore, così come rigore implica la trasformazione in

diritto di ogni incomposta e magmatica realtà sociale […].

Una cosa è però certa: l’ordine, se è rigore, se rigorizza il mondo indocile dei fatti, significa però

rispetto della complessità e della pluralità del reale; è cioè l’opposto di massificazione e di

semplificazione forzosa»155

.

1.2.2 FONDAMENTO E VALORE DELLE NORME NEL GIUSNATURALISMO

Pur consapevoli che il pensiero giuridico che gli storici indicano con la parola

giusnaturalismo156

faccia capo a molteplici teorie distanti e a volte irriducibili tra loro, si intende qui

riferirsi, con la parola giusnaturalismo, a quello specifico

153

P. GROSSI, Mitologie, 56. 154

Discipline che a nostro avviso devono restare distinte, perché distinti sono i rispettivi statuti epistemologici, ma

necessariamente devono comunicare causa altrimenti di immani catastrofi delle quali la storia purtroppo è testimone. 155

P. GROSSI, Mitologie, 59, 65-66; per un approfondimento sul tema cf. F. VIOLA, Autorità e ordine del diritto, Torino,

1987. 156

Possiamo distinguere nell’ambito dell’impostazione giusnaturalistica, una fase antica, una medievale e una moderna.

Nella fase antica, scrive Paola Giordano:«[…] il diritto coincide con la giustizia e la giustizia è naturale come le leggi

che reggono il cosmo, la creazione e la costituzione dell’universo. […] ogni azione assume un significato morale ed

etico che non si disgiunge da quello giuridico […]. Ancor più complessa si rivela la distinzione del diritto e della morale

nel periodo medievale e – soprattutto dopo la rivoluzione culturale indotta dal Cristianesimo – in relazione alla

questione dell’esercizio della volontà, della libera azione individuale e delle relative conseguenze etiche e giuridiche.

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«movimento culturale, di carattere giusrazionalistico, definito Scuola del Diritto naturale:

caratteristica di questo movimento fu la pretesa di elaborare con il mero uso della ragione, e

rinunciando a qualsiasi apriori teologico, un sistema di concetti giuridici fondamentali, da considerare

intrinsecamente e perennemente validi, indipendentemente dalla loro corrispondenza con il sistema del

Diritto positivo»157

.

La teoria giusnaturalista non è opposta a quella positivista (anche se per certi versi è molto

distante), ma si potrebbe sostenere che il giusnaturalismo ingloba il positivismo, purificandolo. Lo

purifica innanzitutto ridando al Diritto il suo unico fondamento: la giustizia, e non il potere.

Il modello giusnaturalista va alla ricerca della giustizia, sia nelle situazioni generali ed

universali, sia nei casi particolari. Esso non esclude alcune istanze del positivismo giuridico, non

nega un legislatore che emana leggi a cui obbedire, ritenendo che il legislatore pone sì le leggi, ma

nell’interesse del sistema stesso che è chiamato a governare, operando, cioè, per assicurare la

giustizia e tutelare il bene comune158

.

Il modello giusnaturalista da una parte pone il primato della giustizia, ma dall’altra, in forza

della complessità sociale, ritiene valida l’applicazione delle leggi (positive).

La logica della giustizia, però, è diametralmente opposta alla logica del potere: “posso tutto in

quanto sono io che detengo il potere, e quindi, sono io a decidere ciò che è giusto”; il potere in sé,

invece, non contiene nessuna giustizia159

.

Il Diritto, per i giusnaturalisti, è il mezzo attraverso cui la giustizia può e deve essere

materialmente vissuta. Il compito del Diritto, quindi, sarà quello di interpretare e potenziare le leggi,

accrescendone la portata di giustizia160

.

Qui non si nega l’esistenza del potere, che c’è ed è giusto che ci sia, in quanto necessario alla

realtà umana. Il potere, infatti, va rispettato, ma non usato in modo autoreferenziale; esso, va usato

[…] la difficoltà di stabilire i confini del giusto e del bene, è uno degli elementi che porta all’affermazione della nuova

forma del diritto naturale, che, a sua volta conduce al giusnaturalismo moderno. Dalla prima metà del XVII secolo le

leggi generali che reggono il cosmo sembrano trovare il loro fondamento nella ragione universale, comune a tutti gli

esseri umani […]. In questo modo gli uomini passano volontariamente da una condizione di stato naturale ad una di

stato civile, in cui il diritto è posto e riconosciuto nella sua artificialità e non più semplicemente identificato come

naturale e universale». P. GIORDANO, Note per un lessico giuridico, Napoli, 2008, 10-22. 157

Ibidem. 158

«I giusnaturalismi concordano nel ritenere che il Diritto positivo non possa che scaturire dalla sovrana volontà

politica del legislatore (sia nella sua dimensione formale che nella sua dimensione contenutistica): essi però negano che

tale volontà possa giustificarlo e renderlo, oltre che coercitivo, obbligatorio: in altre parole, il portato di giustizia del

diritto non è identificabile con la sua positività». L. PALAZZANI, Giusnaturalismo, 117. 159

È opportuno tener presente che quando qui ci si riferisce alla giustizia, non si intende una giustizia sovrannaturale o

divina, il piano del giusnaturalismo è sempre un piano ontologico e non teologico. L’ontologia infatti riguarda sempre

qualcosa di insito nella persona umana; la giustizia è un valore assoluto, necessario e irreformabile, ma questo, trova la

sua spiegazione in quanto questa convinzione appartiene alla natura umana. 160

«É almeno sotto questo profilo che il vincolo tra Etica e Diritto appare indissolubile: chi non è mosso da una

autentica “passione” per la giustizia potrà anche riuscire a manipolare il Diritto in modo per lui fruttuoso e rovinoso per

altri, ma non potrà mai aspirare alla qualificazione di giurista». L. PALAZZANI, Giusnaturalismo, 117.

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per il bene di coloro su cui viene esercitato. Posizione, questa, che salva la distinzione essenziale tra

Diritto e legge, distinzione abrogata dai positivisti161

.

Il non positivista non nega né la legge e né il potere, ma pretende che sia l’una che l’altro

vengano sempre giustificati.

Tutte le leggi, le norme si giustificano mediante il principio di giustizia, il principio della

ragionevolezza:

«perciò non permettiamo che comandi un uomo, bensì la ragione: un uomo lo farebbe a proprio

vantaggio e diventerebbe un tiranno. Chi comanda invece è il solo guardiano del giusto … »162

.

Il Diritto positivo in questo senso è ampiamente (non assolutamente) discrezionale (a

discrezione del legislatore) poiché dovrà confrontarsi sempre con i principi163

di giustizia, che sono

quelli che si richiamano al Diritto naturale o ai diritti umani fondamentali. Questi principi saranno il

criterio di verificabilità delle leggi. Il principio di uguaglianza, per esempio, è uno dei principi che

sostiene tutte le leggi.

Nel giusnaturalismo i principi sono naturali, perché li si intuisce come tali, e quindi sono

rispettati e rispettabili da parte di tutti. Tutti si ribellano, ad esempio, alle truffe, perché

obiettivamente si intuisce che c’è un’ingiustizia.

Il giusnaturalismo è un modello complesso e complicato. In tal senso si è elaborata la teoria

dualistica del Diritto, perché esiste il Diritto naturale e quello positivo, come esiste il Diritto

positivo perché esiste il Diritto naturale164

. In ciò si verifica la duplicazione della realtà del Diritto

giusnaturalista, complicando il Diritto.

Il Diritto positivo non esaurisce le realtà del Diritto, quindi viene “integrato” dal Diritto

naturale, ma a sua volta un Diritto naturale non può esistere senza il Diritto positivo.

Il giusnaturalismo parte dal principio che l’uomo è un ʻanimale giuridicoʼ. Il Diritto non è una

invenzione elaborata da un certo popolo nella propria storia, ma tutte le culture hanno un Diritto

iniziale consuetudinario. Tutti i popoli hanno un linguaggio, una storia, una cultura, allo stesso

161

Il positivismo, ritenendo che le norme producano Diritto, anziché esprimerne contenuti ed esigenze, sottrae di fatto

ai giuristi la critica delle norme e trasforma paradossalmente il concetto di giustizia, da concetto giuridico a concetto

politico. Cf. F. D’AGOSTINO, Diritto, in AA. VV., Cento, 57. 162

ARISTOTELE, Etica Nicomachea, libro V, 1134A. 163

«La soluzione di un caso e la selezione di una norma avviene sempre (e solo) attraverso i principi e i valori che

l’interprete ritiene di dover esprimere e realizzare. Essi sono dunque lo strumento, espresso o inespresso, con cui il

diritto include le scelte morali, entra nel vivo della società, appaga le attese di giustizia. Lo aveva già intuito Gaio:

“cuiusque rei potissima pars principium est”». S. AMATO, Principi del diritto, in AA.VV., Cento, 192. 164

Da un punto di vista specifico può dirsi che per «diritto naturale si intende l’insieme di norme che si assume possano

essere individuate mediante operazioni puramente razionali, partendo dall’esame della natura umana e della realtà,

come suscettibili di contribuire ad un migliore funzionamento possibile dei rapporti fra gli uomini e che per diritto

positivo si intende invece l’insieme delle norme che sono state concretamente fissate da un’autorità politica la quale

eserciti un potere effettivo nell’ambito di una determinata società». N. BOBBIO, Giusnaturalismo e positivismo

giuridico, 3 ed., Milano, 1977, 127.

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modo, la realtà del Diritto non è artificiale, ma è costitutiva dell’uomo, della nostra identità di esseri

umani165

.

Principio fondamentale del Diritto è quello del riconoscimento: “tu sei come me”. Nella

logica del Diritto c’è una dialettica del riconoscimento che si basa sul principio della parità

ontologica166, dell’uguaglianza. La parità non dice che siamo identici, in quanto diversi in età,

cultura, sesso, ecc.. La diversità si fonda su una costitutiva parità, che non toglie la personalità, ma

anzi la arricchisce. La parità è dare a ciascuno il suo, ognuno deve avere ciò che gli appartiene e gli

spetta, diverso dagli altri.

Il principio di eguaglianza, fondamentale per il Diritto, è che a tutti gli esseri umani deve

essere assicurato ciò che spetta loro. Il principio del Diritto è che siamo tutti uguali, e in questo si ha

il rispetto delle volontà di ciascuno. È illecito tutto ciò che viola la parità tra gli esseri umani. La

giustizia è tutto ciò che persegue e garantisce la parità tra gli uomini.

Il giusnaturalista tende a tenere unito il Diritto naturale e quello positivo che, è la

concretizzazione dell’esperienza comune, è esso ad assicurare la qualità del Diritto naturale.

Quindi, il compito del legislatore sarà quello di individuare ciò che spetta a ciascuno,

cercando di tradurre – per quel tempo e per quell’uomo storico che ha di fronte – in norme, il Diritto

naturale.

Esiste, però, una difficoltà relativa alle modalità di questa traduzione: il Diritto naturale infatti

fornisce i principi ma non le modalità operative. Ecco perché ci vorrà, per i giusnaturalisti, sempre

un giudice che stabilisca ciò che è giusto come risarcimento per un danno ingiusto.

Tuttavia, il Diritto positivo si radica nel Diritto naturale. I principi naturali orientano alla

giustizia, ma non sono norme operative. Per questo il Diritto positivo cambia nella storia,

cambiamento che non può esserci nel Diritto naturale.

Non sempre è facile mediare tra Diritto naturale e positivo. Occorrono gli specialisti. Il Diritto

positivo è indispensabile perché dà concretezza al Diritto naturale. Il giurista applicherà, poi, la

giustizia nei riguardi di tutti.

Il buon giurista risolve le controversie rispettando sempre la giustizia, quindi, non facendo

prevalere arbitrariamente la propria volontà. In questo caso, la forza dell’uomo impiegata per tale

impresa, sarà l’intelligenza.

165

Bisogna però stare attenti a non compiere l’errore fatto al Concilio di Nicea, in cui non si distinsero i termini

“consuetudo” e “antiqua traditio”. «Quia consuetudo praevaluit et antiqua traditio ut Heliae episcopus honoretur,

habeat honoris consequentiam, salva metropolitani propria dignitate». Cf. PÉRICLÈS-PIERRE JOANNOU, Discipline

générale antique, 2e-9e s., vol. 1, Les canons des conciles oecuméniques (2e-9

e s.), Grottaferrata, 1962, 29.

166 Cf. F. D’AGOSTINO, Giustizia. Elementi per una teoria, Milano, 2006, 32-33.

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1.2.3 IN SINTESI

Dopo il percorso storico-sistematico, risulta chiaro come sia importante e necessario

comprendere e dichiarare il fondamento da cui dipende la riflessione iniziata. Si è passati, infatti, ad

analizzare diverse (e contrastanti) possibilità di concepire il Diritto: potremmo, ancora, riassumere i

due sistemi su descritti sostenendo che il fondamento del giusnaturalismo è la giustizia, e quello del

giuspositivismo giuridico è la validità.

Bisogna, però, essere onesti nel comprendere che il tentativo di sintetizzare alcune teorie di

pensiero non deve far pensare all’esistenza di schemi così nettamente divisi e identificabili; la

realtà, infatti, è tutt’altro che definibile e inquadrabile; vi sono notevoli sfumature che, però, non

interessano direttamente il presente studio.

Il problema nostro risiedeva nella necessità di separare la validità o l’esistenza del Diritto

dalla sua giustizia o della valutazione della sua bontà.

Stando così le cose si intuisce che, quando è in gioco la relazione tra gli uomini – anche

quando si tratta di organizzare un possibile percorso di studio – non si può pensare di poter restare

neutrali. Infatti, inevitabilmente, per il semplice fatto di collocarsi all’interno di un certo filone di

pensiero, o semplicemente definendo il proprio ambito di ricerca nel quale condurre un certo studio,

si finisce per prendere posizione. Ciò è ancor più vero quando la riflessione/studio è fatta all’interno

e a partire da un ordinamento particolare, quale quello della Chiesa cattolica, dove i fondamenti (già

dati, in quanto, rivelati) di per sé non possono essere indistintamente compresi attraverso qualsiasi

struttura di pensiero esistente, ma inevitabilmente si dovrà tener presente che la struttura (che fa

riferimento ad una particolare visione dell’uomo, della storia, del creato) dovrà essere conforme

(non entrando in conflitto) al magistero della Chiesa167

.

Definire il fondamento della norma sarà utile, infine, per poter mettere ben a fuoco l’ambito

nel quale questo percorso di ricerca intende muoversi per i prossimi capitoli, ovverosia, l’ambito,

che nella realtà complessa168

chiamata Chiesa cattolica corrisponde alla parte istituzionale: quella

parte sociale che non ha potuto fare a meno di svilupparsi e organizzarsi, attraverso lo strumento

giuridico, vólto nella sua essenza fisiologica a ordinare le relazione sociali169

– io/terzo sconosciuto

– tra più soggetti170

.

167

Si pensi a ciò che nell’ordinamento canonico è previsto dal CIC dell’83, cann. 747-755. 168

Cf. CONCILIUM ŒCUMENICUM VATICANUM II, Constitutio dogmatica de Ecclesia: Lumen Gentium, 21 novembris

1964, in AAS, LVII (1965), 11-12. 169

«Che l’essenza del diritto non sia in un comando ma nell’atto di ordinare opera un benefico spostamento dal soggetto

produttore (o preteso tale) all’oggetto bisognoso di organizzazione. È, sotto parecchi aspetti, la dimensione oggettiva

che emerge e addirittura domina». P. GROSSI, Prima lezione di diritto, 16. 170

Il c.d. processo di istituzionalizzazione «deve intendersi la creazione di ruoli e funzioni stabili all’interno della

società ed il superamento dell’identificazione “personale” tra ruolo/funzione e soggetto che li ricopre, superando i

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Da come si è potuto capire, pur mantenendo la distinzione dei diversi ambiti, si cercherà di

continuare la riflessione inserendosi nella linea di coloro che non possono vedere l’uomo diviso o

appiattito su una sola dimensione; infatti, si assume come presupposto evidente la visione storica-

filosofica-antropologica che vede l’uomo, la persona, capace di relazionarsi con i suoi simili,

attraverso ciò che chiameremo rapporto di giustizia171

, ovverosia quella relazione tra più soggetti

che si riconoscono pari: sarà giusto il rapporto che rispetterà la verità e la dignità della persona

umana.

L’apporto del rapporto di giustizia in una società istituzionalizzata è tutt’altro che minimale:

esso, infatti, immette nel sistema alcuni connotati – l’oggettività esteriore, la separabilità, la

coercibilità – che costituiranno la base di una riflessione sul Diritto, distinta dalla riflessione

Morale, ma non per questo incomunicabile con essa.

«L’oggettività esteriore evidenzia la portata della relazione sociale: non importano le disposizioni

interiori dei singoli quanto piuttosto ciò che si può vedere e sperimentare concretamente nel rapporto

sociale; anche nei confronti di un soggetto “sconosciuto” (è questa la radice del cd foro esterno);

la separabilità enfatizza il valore sociale della relazione, al punto che, pur avendo le intenzioni, i

sentimenti, e gli stessi “doveri” di natura morale come riferimento ultimo la Giustizia, in ambito

sociale ciò non ricade sotto l’operatività concreta della legalità; questa infatti guarda all’oggettività

della relazione sociale separandola dalla disposizione soggettiva del suo autore;

dalle precedenti caratteristiche consegue la nota della coercibilità: il soggetto che rifiuta di porre od

omettere un’azione sociale necessaria può essere forzato dalla società affinché si ottenga tale azione

di rilevanza sociale»172

.

Il Diritto sarà distinto dalla Morale quando la giustizia, da virtù personale173

, passerà ad essere

realtà richiesta, e quindi effettiva, nella società. Questa effettività, lungi dall’essere originata da un

rapporti amicali o comunque “affettivi”. Istituzionalizzandosi la società comincia a caratterizzarsi chiaramente per una

propria effettività quasi impersonale». P. GHERRI, Lezioni di Teologia, 17, nota 12. 171

«Il rapporto di giustizia aggiunge alla semplice “relazione sociale” (garantita dalla coscienza sociale del gruppo: la

Morale) alcune caratteristiche necessarie quando si giunga a livelli più complessi di societarietà quali

l’istituzionalizzazione». Ibidem. 172

P. GHERRI, Lezioni di Teologia, 18. 173

E non valore a cui tendere: “Iustitia est constans et perpetua voluntas ius suum cuique tribuendi” [ULPIANO, C. 10,

De just. 1,1].

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comando, da una imposizione174

, deve essere essenzialmente capacità di imporsi come dimensione

ordinativa della realtà sociale175

. In questo senso, infatti, il Diritto

«non piove dall’alto, non si impone con forze coattive; è invece quasi una pretesa che viene dal basso,

è il salvataggio di una comunità che solo con il Diritto e nel Diritto, solo diventando un ordinamento

giuridico, sa di poter vincere la sua partita nella storia»176

.

174

Alcuni vorrebbero, a torto secondo noi, far credere che questa effettività possa esserci solo attraverso l’uso della

coazione: saremo di fronte al diritto quando l’ambito del dover essere potrà essere richiesto, con la forza, da una

determinata (con il termine determinata ci si riferisce all’esistenza di soggetti precisi e collocati in spazi determinati)

società (istituzione). «Ciò che lo Stato moderno assicura ai cittadini è soltanto un complesso di garanzie formali: è legge

unicamente l’atto che proviene da determinati organi (normalmente il Parlamento) e in base a un procedimento

puntigliosamente precisato. Il problema dei suoi contenuti, cioè il problema della giustizia della legge, della

rispondenza a quanto la comune coscienza reputa giusto, è sostanzialmente estraneo a questa visione. La giustizia resta

ovviamente il fine dell’ordine giuridico, ma è un fine esterno; i cittadini possono soltanto sperare che i produttori di

leggi vi si adeguino, ma devono in ogni modo prestare obbedienza anche alla legge ingiusta […]. L’uomo della strada

ha, dunque, ragione di diffidare: se il diritto è legge, e se la legge è soltanto un comando astratto dai contenuti

indiscutibili, pensato e voluto nel lontano olimpo dei palazzi romani del potere, la sua identificazione con un fulmine

che piove sulla testa di malcapitati non è poi tanto peregrina». P. GROSSI, Mitologie, 16-17. 175

«Perdita della dimensione sapienziale non vuol dire soltanto la sottrazione del diritto a un ceto di competenti, i

giuristi, siano essi maestri teorici o giudici applicatori, ma la perdita del suo carattere ontico, del diritto come fisiologia

della società, da scoprire e leggere nella realtà cosmica e sociale e tradurre in regole. Un costo che la visione

ordinamentale attenuerebbe di parecchio, se non fosse ostacolata nella comune coscienza da un vittorioso permanere di

convinzioni imperativistiche». Ivi, 6. 176

P. GROSSI, Prima lezione di diritto, 17.

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CAPITOLO II

LO STATUTO GIURIDICO DEL FEDELE

NELLA CODIFICAZIONE DEL 1917

Prima di concentrare lo sguardo sul Codice del 1917, sulla sua struttura interna, e soprattutto

sullo statuto canonico del fedele, così come da esso viene concepito, è opportuno richiamare il

contesto storico che portò la Chiesa ad unificare, sotto una sola ‘legge’ scritta (il Codice), un’intera

prassi – che comprendeva atti di romani Pontefici, decreti, responsi e decisioni provenienti da

congregazioni, tribunali e da vari uffici della curia romana – attraverso la quale si era riusciti a

rispondere alle necessità giuridiche susseguitesi fino ad allora1.

Il contesto che interessa in modo particolare è il contesto ecclesiale che portò la Chiesa a

optare per un sistema di leggi facilmente accessibili e consultabili, in quanto facenti parte di un

unico codice, organicamente composto, piuttosto che una serie innumerevole di fonti, difficilmente

comprensibili e accessibili se non agli “addetti ai lavori”.

2.1 CONTESTO STORICO

Senza andare molto indietro nella storia, sembra almeno sufficiente richiamare alla memoria

alcuni passaggi che caratterizzano l’età c.d. moderna.

Bisogna innanzitutto tener presente che l’impostazione, il rinnovamento, l’assetto che la

Chiesa produsse al suo interno – quasi come una ritrovata consapevolezza di sé nel proporsi al

mondo2 – con il Concilio di Trento (1545-1563)

3 sono durati fino al Concilio Vaticano II (1962-

1965)4.

1 «Si ricorda, in ordine alla forte rilevanza dello Ius non scriptum all’epoca della genesi del Diritto canonico, che i primi

tre secoli di storia giuridica della Chiesa vedono il Diritto scritto (Ius scriptum) relegato ad un ruolo modesto, mentre

svolgono un ruolo essenziale e di primaria importanza il Diritto consuetudinario (Ius consuetudinarium), assai utilizzato

nella Giurisprudenza canonica, come, ad esempio, nell’episcopalis audientia. […]. Tali Tribunali videro il loro

massimo utilizzo nel Medioevo quando i cittadini, confidando nell’æquitas e nella benevolentia della Chiesa,

preferivano dirimere le proprie controversie in queste sedi piuttosto che rivolgersi alla giustizia regia». M. NACCI, Le

Consuetudini religiose: un contributo della storia del Diritto in un contesto di libertà religiosa e pluralismo culturale,

in Apollinaris, LXXXIII (2010), 554, nota 7. 2 Cf. M. NACCI, Le relazioni Chiesa-Mondo dal Concilio di Trento al Concilio Vaticano II, in Vergentis, I (2015), 271-

287.

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«Possiamo raccogliere in tre motivi essenziali il significato storico del Tridentino: esso mette in

evidenza la forte capacità di ripresa della Chiesa, vittoriosa di una gravissima crisi; rafforza quell’unità

dogmatica e disciplinare che, seppur minacciata più volte in seguito dalle forze centrifughe del

gallicanesimo e dei fenomeni affini, spicca soprattutto se paragonata all’opposta e pur contemporanea

evoluzione delle correnti protestanti; infine, esso apre una nuova epoca della storia della Chiesa, ed in

certo modo ne determina i tratti essenziali dal Cinquecento ai giorni nostri»5.

Per esempio, si pensi al consolidamento di una struttura di governo tale da concepire il

Pontefice come un monarca di livello universale e i vescovi quali monarchi sul piano particolare; si

pensi alla curia romana, alle curie episcopali, alle parrocchie, che iniziarono a relazionarsi

attraverso rapporti di tipo burocratico che costituiranno di lì in poi il loro modo di dialogare6; si

pensi alla subordinazione dei laici e delle congregazioni religiose femminili, al clero (secolare e

regolare) il quale, esercitava su di essi un potere di direzione7; si pensi, ancora, alla formazione

sacerdotale che sarà, da quel momento, definita attraverso l’istituzione di appositi seminari (separati

dal mondo); si pensi a tutto il sistema beneficiale inteso come compenso per il ministero esercitato8;

ancora, si pensi al modo di vivere la fede attraverso la frequenza alla Messa festiva, la frequenza o

pratica dei sette sacramenti, gli esercizi di pietà personale e collettiva (ancora oggi esistenti), specie

nella venerazione di reliquie e immagini9.

Negli ultimi due secoli, però, pur verificandosi questo forte legame con l’istituzione, pensata e

realizzata dal Concilio di Trento10

, si sono prodotte alcune novità che è giusto richiamare alla

memoria, proprio per comprendere ciò che portò la Chiesa a pensare e realizzare un codice che

3 Cf. G. ALBERIGO, Conciliorum Œcumenicorum Decreta, Bologna, 1973, 657-799; J. GAUDEMET, Eglise et cité.

Histoire du canonique, Paris, 1994, [trad. ita., Storia del Diritto canonico. Ecclesia et civitas, Cinisello Balsamo, 1998,

711-716], 711-716; C. FANTAPPIÈ, Introduzione storica al Diritto canonico, Bologna, 1999, 146-162. 4 Cf. L. MUSSELLI, Storia del Diritto canonico. Introduzione alla storia del diritto e delle istituzioni ecclesiali, 2 ed.,

Torino, 2007. 5 G. MARTINA, La Chiesa nell’età dell’assolutismo, del liberalismo, del totalitarismo. Da Lutero ai nostri giorni,

Brescia, 1974, 186. 6 Cf. ivi, 138-141, 175-193.

7 «Con il Concilio di Trento e, in generale, nel periodo storico della Riforma Cattolica, la Chiesa – sentendosi attaccata

sia sul piano teologico che giuridico dalle teorie dei doctores protestantium – rafforzò la sua struttura gerarchica,

risentendone il ruolo della communitas. Questa ebbe, da allora, seppure da un punto di vista strettamente formale, un

minore spazio di produzione giuridica attraverso la Consuetudine; la ragione di ciò va riposta nella preoccupazione

principale del momento, cioè arginare qualsiasi fenomeno con potenzialità disgregante, rafforzandone l’obbiettivo di

conservare l’unità della Chiesa attraverso il ministero, quasi esclusivo, della gerarchia». M. NACCI, Le Consuetudini,

555-556; «Ben a ragione così essa veniva qualificata come una tipica societas inaequalis, in cui restava consacrata una

disuguaglianza sostanziale dei battezzati ratione status, secondo una prestabilita divisione bipartita (chierici e laici), o

addirittura tripartita (chierici, religiosi e laici)». P. A. D’AVACK, Il «populus Dei» nella struttura e nelle funzioni

odierne della Chiesa, in Studi di Diritto canonico in onore di Marcello Magliocchetti, I, Roma, 1974, 386. 8 Cf. E. COLAGIOVANNI, Dal beneficio feudale all’officio ecclesiastico ed ecclesiale. L’aspetto storico-sociologico, in

Monitor Ecclesiasticus, LXXXXVI (1971). 9 Cf. G. FILORAMO – D. MENOZZI (a cura di), Storia del cristianesimo. L’età contemporanea, IV vol., 3 ed., Bari, 2009.

10 «Risuona energicamente la condanna all’ecclesiasticismo postridentino, che aveva accentuato il carattere giuridico ed

autoritativo della Chiesa, aveva finito per separare il clero dal laicato, escludendolo da ogni partecipazione attiva alla

liturgia, ed aspettando da esso prevalentemente un’ubbidienza passiva». G. MARTINA, La Chiesa, 537.

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riassumesse e riorganizzasse l’intera legislazione canonica (almeno come aspirazione, non compiuta

totalmente11

).

«Si può in particolare dire che negli ultimi due secoli essa (la Chiesa) appare condizionata in tutti i

suoi aspetti da un complessivo scontro con il mondo circostante. […]. Il fenomeno della

secolarizzazione costituisce effettivamente un dato saliente di tutto il periodo; ma i suoi promotori

mirano a colpire le posizioni di privilegio e di potere della Chiesa: si vuole liberare le diverse

articolazioni del consorzio civile dalla tutela ecclesiastica, vista come antitetica al dispiegamento di

una piena autonomia decisionale dell’uomo nell’organizzare la vita collettiva»12

.

Il problema fu, da parte della Chiesa, quello di vedere questo processo di secolarizzazione

come un disegno volto a distruggere la cristianità, producendo un singolare atteggiamento di difesa.

Si pensi a ciò che la Rivoluzione francese provocò alla mentalità cattolica13

.

«La Rivoluzione Francese condusse, per la prima volta nella storia, dall’Europa cristiana alla

laicizzazione completa della vita pubblica […]. Dalla Rivoluzione in poi l’umanità si è abituata a

vivere la sua vita sociale e politica senza farci intervenire la Chiesa, senza far ricorso ai suoi poteri

trascendenti, ed ai suoi ministri ritenuti forniti di questi poteri. La Rivoluzione realizzò, per la prima

volta dal tempo di Costantino, la separazione completa, integrale, della Chiesa e dello Stato»14

.

Veniva, infatti, sostituito il cristiano (plurimillenario) modo di concepire la società, con un

nuovo modo, attraverso l’apparente difesa dei principi – che oggi si identificherebbero come

principi inderogabili – della libertà e dell’uguaglianza volti direttamente a minare i privilegi

ecclesiastici, in realtà – attraverso un processo di scristianizzazione – a distruggere la fede

cristiana15. Tutto ciò lo si può comprendere proprio guardando all’obbiettivo di questo nuovo modo

di concepire la società: attaccare la parte visibile della Chiesa, cioè quella parte che viene a

coincidere con la parte istituzionale, quindi i suoi simboli e gli stessi ministri.

«In realtà il processo storico rivoluzionario fu assai meno semplice e rettilineo. La scristianizzazione

violenta ne fu certamente un momento, che tuttavia rimase ben circoscritto sia dal punto di vista

geografico che cronologico»16

.

Alla luce di una visione, si spera più equilibrata, si può sostenere che l’orientamento generale

era quello di distinguere e separare la Chiesa dallo Stato, con la conseguente laicizzazione delle

istituzioni pubbliche17

.

11

Si pensi al fatto che il Codice vincolerà solo i battezzati della Chiesa latina, per esempio. 12

G. FILORAMO – D. MENOZZI (a cura di), Storia, 132. 13

Cf. ivi, 434-452. 14

L. SALVATORELLI, Chiesa e Stato dalla Rivoluzione Francese ad oggi, Firenze, 1955, 4. 15

«La rivoluzione francese ha distrutto in gran parte le strutture politiche – sociali economiche dell’ancien régime, ed

ha gettato le basi di una nuova società, che ha cercato di attuare concretamente i princìpi e gli ideali che si erano andati

lentamente elaborando nel Settecento. Al privilegio succede l’uguaglianza, all’arbitrio o all’autorità assoluta del

sovrano si sostituisce la sovranità popolare e la libertà». G. MARTINA, La Chiesa, 440-441. 16

G. FILORAMO – D. MENOZZI, Storia, 132. 17

Si fa riferimento qui, in particolare, al contesto venutosi a creare «in tutte le nazioni latine, Francia, Spagna,

Portogallo, Italia, e nei vari Stati dell’America latina, per naturale reazione all’unione troppo stretta fra Chiesa e Stato

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Questa riorganizzazione della vita sociale ed economica, che vide implicati anche vescovi e

presbiteri, inizialmente non provocò una particolare opposizione, ma con l’introduzione, in Francia,

della Costituzione civile del clero, si produsse una vera e propria ingerenza nel governo della

gerarchia ecclesiastica. La Costituzione del clero18

prevedeva: un nuovo riassetto delle

circoscrizioni diocesane e parrocchiali sulla falsariga dell’assetto nuovo costituito dai dipartimenti;

l’elezione, da parte del popolo, dei vescovi e parroci; che la remunerazione dei prelati in cura

d’anime fosse decisa dallo Stato sulla base del numero dei fedeli affidati alle loro cure. Questo stato

di cose provocò una tale agitazione all’interno del clero francese che la maggioranza

dell’Assemblea, pretese, nel 1791, un giuramento di fedeltà alla legge. Questa pretesa spaccò in due

il clero francese19

.

Dopo alcuni mesi Roma, vedendosi togliere non solo ogni forma di giurisdizione sul clero ma

anche ogni forma di controllo, in quanto la possibilità di trasferimento dei vescovi fu affidata ai

metropoliti della chiesa francese, decise di reagire appoggiando la fazione del clero che si oppose al

giuramento imposto.

Con il breve “Quod aliquantum”20

la Chiesa, nella persona del Pontefice, condannò

apertamente non solo la Costituzione civile del clero, ma dichiarò che i moti rivoluzionari che

portarono alla nascita dell’Assemblea costituente erano contrari alla visione biblica e non

contemplati da una visione naturale della società21

.

«In tale contesto le condanne del breve Quod aliquantum uscivano dai sottili giochi diplomatici, per

diventare inappellabili giudizi: la contrapposizione a quell’autodeterminazione delle forme della vita

collettiva, che scaturiva dai principi di libertà, uguaglianza e sovranità popolare, appariva ormai

l’ufficiale ideologia politica cattolica. Si apriva così quello scontro tra la Chiesa e l’organizzazione

dello Stato imperniata sulla proclamazione dei diritti dell’uomo che avrebbe percorso tutta l’età

contemporanea»22

.

La fine della Chiesa costituzionale in Francia, – attraverso un salto, necessario, ma che non

rende onore alla complessità della storia – avvenne nel 1801 con la stipula di un concordato tra il

primo console Napoleone Bonaparte e Papa Pio VII23

. Questo concordato sarebbe dovuto diventare

il modello delle relazioni Stato-Chiesa. Il concordato però, fu solo un pretesto per allargare la sete

propria dell’ancien régime». G. MARTINA, La Chiesa, 575-476. «La Dichiarazione (dei diritti) pone fine al regime di

privilegio di cui godeva la Chiesa e la mette nella necessità di difendere la propria libertà sul terreno del diritto

comune». Ivi, 442, nota 10. 18

Cf. ASSEMBLEA NAZIONALE DI FRANCIA, Costituzione Civile del Clero, Torino, 1870. 19

Cf. G. MARTINA, La Chiesa, 362-363; A. M. RAO, La Rivoluzione francese, in Storia Moderna, Roma, 1998, 352-

365. 20

PIUS PP. VI, Litteræ Apostolicæ: Quod aliquantum, 10 martii 1791, in Acta Pii VI Pont. Max., 1792/I, 427-432. 21

G. FILORAMO – D. MENOZZI, Storia, 134. 22

Ivi, 135. 23

«La ferita più grave al gallicanesimo fu inflitta, inaspettatamente e paradossalmente, proprio dall’autorità statale

francese, e precisamente da Napoleone I con il concordato stipulato con Pio VII nel 1801». G. MARTINA, La Chiesa,

363.

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di potere di Bonaparte, facendosi, di lì a poco, proclamare imperatore, attraverso una formale

consacrazione religiosa volta a legittimare il suo potere anche sul piano religioso.

Un nuovo conflitto col papato avvenne quando lo stesso Pio VII si rifiutò, sul piano politico,

di partecipare al blocco continentale a danno dell’Inghilterra; questo rifiuto fece sì che lo Stato

pontificio venisse di nuovo soppresso. Con la caduta di Napoleone, cadde anche l’illusione della

restaurazione di una Chiesa imperiale; nel 1814, Pio VII poté rientrare a Roma24

.

La situazione venutasi a creare nel periodo della Restaurazione fu tutt’altro che semplice

anche se comunque, si può riscontrare una certa opposizione ad ogni forma di totale laicizzazione

dello Stato e secolarizzazione della vita sociale in quanto si riteneva che il fondamento cristiano

fosse il solo a garantire un’autentica socialità e vera civiltà.

In questa delicata situazione è interessante porre attenzione al modo di operare della Santa

Sede, animata allora dal segretario di stato il cardinal Consalvi e la sua politica, caratterizzata da un

innegabile ritorno al passato25: si pensi alla cancellazione delle caratteristiche dell’ordinamento

napoleonico, all’adeguamento della legislazione civile a quella canonica, alla clericalizzazione

dell’amministrazione pubblica; ancora, si pensi alla politica estera attuata dal Consalvi con l’aiuto

delle autorità politiche: il ristabilimento della disciplina del matrimonio canonico26

.

Con la salita al soglio pontificio di Leone XII (1823-1829) e la rimozione di Consalvi, la

politica sostenuta dalla Chiesa, in un primo momento sembrò favorevole alla linea intransigente, ma

poi il breve pontificato si volse verso una ripresa dell’antico regime27

.

Al breve pontificato di Leone XII, ne successe uno ancora più breve, quello di Pio VIII (1829-

1830) che, inizialmente, diede buone speranze ai cattolici liberali; speranze durate poco tempo, in

quanto, Gregorio XVI (1831-1846) assunse una posizione diversa rispetto al suo predecessore28

. Il

Pontefice, infatti, contrastò l’idea dei liberali29

, secondo la quale la difesa dei diritti civili e politici

dei popoli poteva essere l’unica possibilità di riconquistare la società.

Alla morte di Gregorio XVI, al momento della convocazione del conclave – che si concluse

con l’elezione di Pio IX – si sentì, in seno alla gerarchia della Chiesa, l’esigenza di una riforma

24

Cf. ivi, 556. 25

Cf. E. CONSALVI, Memorie, Roma, 1950; R. REGOLI, Ercole Consalvi. Le scelte per la Chiesa, (coll. Miscellanea

Historiae Pontificiae, 67), Roma, 2006. 26

Cf. G. MARTINA, La Chiesa, 363-364, 556-557. 27

Cf. ivi, 513, 557. 28

«Gregorio XVI non volle introdurre nei suoi stati non solo le ferrovie, anche per timore che esse, rendendo più

agevoli le comunicazioni, facilitassero l’infiltrazione di idee liberali, ma nemmeno l’illuminazione a gas (forse per

timore che facilitasse convegni notturni)». Ivi, 507. 29

Cf. Y. CONGAR, Vraie et fausse réforme dans l’Église, Paris, 1950, 540-541, 562 ss.. Cf. GREGORIUS PP. XVI, Litteræ

encyclicæ: Mirari vos, 15 augusti 1832, in Acta Gregorii XVI E.M., I, Romae, 1901.

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della legislazione canonica30

. Sotto il pontificato di Pio IX si ebbe la vera e propria condanna al

mondo moderno, anche se, in un primo momento, lo stesso Pontefice si mostrò aperto ai movimenti

liberali31

: si ricordino l’amnistia per i reati politici, la concessione di una moderata libertà di

stampa, l’immissione di laici nel governo, la pubblicazione di una carta costituzionale. Con

l’avvento del movimento comunista di stampo marxista, il Pontefice, sentendosi attaccato, reagì

assumendo una posizione di chiusura e di difesa32. Con l’enciclica “Nostis et nobiscum” (1849)

33

Pio IX ritenne che a fondamento di questi movimenti volti a sovvertire gli schemi sociali classici, vi

fosse tutto un complotto che trovava la sua matrice nella riforma protestante. Questo lo si evinceva

– secondo tale visione – proprio dalla lotta comune che il protestantesimo e questi movimenti

portavano avanti nei confronti della gerarchia (in specie, la curia romana) e in particolare del

romano Pontefice.

La reazione del pontefice divenne acutissima con l’emanazione dell’enciclica “Quanta cura”

(1864)34

a cui seguì il “Sillabo”(1864)35

.

«Appariva evidente che, al di là di specifiche rivendicazioni sul piano giurisdizionale e del rifiuto delle

fondamentali libertà scaturite dalla Rivoluzione francese, l’intervento pontificio, ispirandosi ad una

visione tendenzialmente teocratica dell’organizzazione sociale, poneva complessivamente la Chiesa in

netta contrapposizione a quell’autonomia della vita collettiva dell’autorità ecclesiastica su cui si era

costituito il mondo moderno»36

.

Tra i numerosi atti di Papa Pio IX, volti a contrastare il propagarsi delle idee moderniste,

bisogna ricordare la convocazione di un Concilio ecumenico (1869), indetto, quest’ultimo, anche

con lo scopo di opporsi alla modernità in modo solenne e compatto. La prima nota peculiare37

del

Concilio Vaticano I fu l’assenza delle autorità civili, non invitate all’assise conciliare.

30

La questione si impose durante l’Assise conciliare, il Vaticano I, dove i vescovi fecero presente la loro impossibilità

di consultare il Corpus iuris canonici, a causa della sua ampiezza, dell’insicuro valore giuridico da attribuire alle varie

parti, dell’insufficienza sistematica ecc.. «I motivi della generale crisi del Diritto canonico dell’Ottocento sono

complessi. Vi concorrono la nascita ed il rafforzamento dello Stato liberale, che disconosce il valore giuridico delle

norme della Chiesa, abolendo il privilegio di foro e ponendo fine alla giurisdizione ecclesiastica in materia

matrimoniale, il trionfo del radicalismo anticlericale della seconda metà dell’Ottocento diffusosi in Europa nella forma

del Kulturkampf in Germania e nel combismo in Francia, nonché, da ultimo, lo stesso fenomeno delle codificazioni che

rendeva anacronistico e desueto un diritto, come quello canonico, ancora basato su fonti in gran parte risalenti al

Medioevo. È a questo punto che, a partire dal Vaticano I, si comincia a richiedere da parte di vescovi e canonisti una

nuova codificazione che dia novella dignità e attualità al Diritto canonico, togliendo da esso le parti superate e desuete».

L. MUSSELLI, Storia del Diritto canonico, 80-81. 31

Cf. G. MARTINA, La Chiesa, 467-469. 32

Cf. R. AUBERT, Il pontificato di Pio IX, 2 ed., in G. MARTINA (a cura di), Storia della Chiesa, dalle origini ai nostri

giorni, Torino, 1970, 351-408. 33

PIUS PP. IX, Litteræ encyclicæ: Nostis et nobiscum, 8 decembris 1849, in Pii IX P.M. Acta, pars I, I, Romae, 1854,

198-223. 34

PIUS PP. IX, Litteræ encyclicæ: Quanta cura, 8 decembris 1864, in Pii IX P.M. Acta, I/3, 687-700. 35

PIUS PP. IX, Syllabus, 8 decembris 1864, in Pii IX P.M. Acta, I/3, 9-24. 36

G. FILORAMO – D. MENOZZI, Storia, 135. 37

Peculiare perché «si discusse se era opportuno invitare al concilio anche i capi di Stato, secondo la consuetudine

rispettata in tutte le precedenti assemblee conciliari. Ma ormai i tempi erano cambiati, Stato e Chiesa in molti paesi

erano separati, in varie nazioni i governi seguivano una politica anticlericale: per volere del papa, nella bolla di

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Il Concilio fu programmato dai membri della curia romana e sostenuto e diretto, sin dalla sua

programmazione da Pio IX; poco spazio fu lasciato alle commissioni preparatorie, diversamente da

quanto accadde con il Concilio di Trento. L’esigenza del riordino del materiale legislativo, si

scontrò fin dall’inizio con le commissioni preparatorie del Vaticano I (composte da ufficiali della

Curia romana) che assunsero, una posizione dilatoria e negativa verso tale progetto38

.

Alla curia romana e in particolare al Pontefice premeva che gli schemi fossero subito

approvati e portati avanti. Tuttavia, il regolamento nel corso dell’opera subì delle variazioni, che

permisero una maggiore libertà di discussione.

Senza addentrarsi nella storia particolare e faticosa che visse l’intera assise, ciò che interessa a

questo studio è la visione di Chiesa e di mondo, e la relativa concezione dell’uomo, che venne a

delinearsi alla fine del concilio.

Attraverso la costituzione “Dei Filius”39

, la Chiesa condannò diversi errori prodotti dalla

corrente modernista – razionalismo, panteismo, ateismo, tradizionalismo, fideismo – sostenendo

una possibile e necessaria relazione tra la ragione e la fede. Sempre in questa costituzione si ribadì

l’errore prodotto in ambito protestante consistente nel libero esame del testo sacro: questo principio

infatti minava lo stesso principio di autorità, ormai messo in discussione sia in ambito protestante

che in ambito civile.

Con la Costituzione “Pastor aeternus”40

, si proclamò l’infallibilità del Papa qualora si fosse

espresso in modo solenne (ex cathedra) mettendo in atto, consapevolmente, la sua autorità di

pastore universale della Chiesa in questioni che avessero riguardato la fede e i costumi. La

dichiarazione del dogma dell’infallibilità, così come espresso dalla costituzione, fu un colpo forte a

tutti coloro (specie nell’ambito del clero gallicano) che pretendevano, o più esattamente,

sostenevano l’idea che il Pontefice doveva sottomettersi al concilio, quale ultima e suprema

autorità41

.

Il primato monarchico del Pontefice, tale da non dipendere dal consenso della Chiesa, come

affermò il concilio, costituì l’impostazione non solo del concilio, ma anche dell’intero assetto

convocazione non si espresse alcun invito alle autorità civili, anche se all’ultimo momento furono inserite alcune parole,

che rendevano possibile una cooperazione dei governi ai lavori del concilio». G. MARTINA, La Chiesa, 599. 38

Cf. G. FELICIANI, Il Concilio Vaticano I e la codificazione del Diritto canonico, in Studi in onore di U. Gualazzini, II,

Milano, 1982, 35-80. 39

CONCILIUM ŒCUMENICUM VATICANUM I, Constitutio dogmatica: Dei Filius de fide catholica, 24 aprilis 1870, in DH,

n. 3000-3045. 40

CONCILIUM ŒCUMENICUM VATICANUM I, Constitutio dogmatica de Ecclesia Christi: Pastor Æternus, 18 iulii 1870,

in DH, n. 3050-3075. 41

Sul punto: K. SCHSTZ, Der päpstliche Primat. Seine Geschichte von den Ursprüngen bis zum Gegenwart, Würzburg,

1990; J. ORLANDIS, El Pontificado Romano en la historia, Madrid, 1996. Per quanto concerne le origini: P. BATIFOL,

Cathedra Petri, Paris, 1938; R. PESCH, Die biblischen Grundlagen des Primats, Freiburg, 2001. Sul conciliarismo: A.

LANDI, Le radici del conciliarismo: una storia della canonistica medievale alla luce dello sviluppo del primato del

papa, 2 ed., Torino, 2001.

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ecclesiologico. Questo primato, se pure non costituiva una solenne affermazione della teocrazia

papale, fu per molti intransigenti una conferma della possibilità, anzi, necessità di intervento del

Pontefice nei riguardi dell’organizzazione della vita sociale (sul modello della società medievale) 42

.

Tale situazione provocò notevoli scontri con alcuni stati liberali, specie in Germania dove il

conflitto fu assai forte. Solo con la fine del pontificato di Pio IX e l’ascesa al soglio pontificio di

Leone XIII si giunse ad accordi con i poteri civili anche per il fatto di vedere nel socialismo, ormai

in ascesa, un nemico comune43

.

Con Papa Leone XIII (1878-1903) il conflitto, pur esistente, andò assumendo una lieve

attenuazione:

«era lecito ai cattolici inserirsi nell’ordinamento costituzionale dello stato moderno, accettando le sue

libertà; ma dovevano avere pur sempre presente che si trattava con ciò di compiere dei passi in avanti

verso la restituzione alla chiesa di quel supremo potere della società che restava comunque l’obbiettivo

finale da conseguire»44

.

Il pontificato di Leone XIII si mantenne fedele alla linea iniziata dal suo predecessore,

ovverosia la linea che vedeva la Chiesa contrapporsi agli ordinamenti liberali45

: si pensi alle

encicliche “Diuturnum” (1881)46, “Immortale Dei” (1885)

47, “Libertas” (1888)

48.

Neanche Leone XIII, come il suo predecessore Pio IX, si preoccupa più del progetto, avvertito

come bisogno dai vescovi dell’assise conciliare, relativo al riordino del materiale legislativo.

É di notevole interesse, in linea con la ricerca intrapresa, notare come in questo periodo la

cristianità farà ascoltare la propria voce, manifestando la propria forza, a partire dagli atti di culto: si

pensi al moltiplicarsi di pellegrinaggi, al nascere dei congressi eucaristici, alla devozione che inizia

a crescere nei confronti del Pontefice, testimoniata da preghiere, canti, immagini a lui rivolte, alle

celebrazioni pubbliche, ai giubilei, attraverso i quali veniva data ai fedeli la grazia del perdono

mediante le indulgenze. Tutto questo movimento serviva anche per far riconoscere alle società

politiche e sociali, l’importanza e l’assoluta sovranità di Cristo49

.

42

Sul punto: P. GROSSI, L’Europa del Diritto, 33; P. GROSSI, Mitologie, 18-19, 24; P. ERDÖ, La storiografia del Diritto

canonico medievale all’alba del terzo millennio. Aspetti di un messaggio attuale, in Ius Ecclesiae, 13 (2001), 3-21. 43

E. VERCESI, Le origini del movimento cattolico in Italia (1870-1922), Firenze, 1923, 81-104. 44

G. FILORAMO – D. MENOZZI, Storia, 153. 45

«Non c’è opposizione tra i due pontificati, tra i due documenti (il Sillabo e la Rerum Novarum) come affermano non

pochi che restano alla superficie delle cose; no, Pio IX ha soltanto preparato il terreno, sul quale Leone XIII ha potuto

fare attecchire le sue feconde direzioni». E. VERCESI, Le origini del movimento cattolico, 9. 46

LEO PP. XIII, Litteræ encyclicæ: Diuturnum illud, 29 iunii 1881, in Acta Leonis XIII Pont. Max., II (1882), 269-287. 47

LEO PP. XIII, Litteræ encyclicæ: Immortale Dei, 1 novembris 1885, in Acta Leonis XIII Pont. Max., V (1886), 118-

150. 48

LEO PP. XIII, Litteræ encyclicæ: Libertas praestantissimum, 20 iunii 1888, in Acta Leonis XIII Pont. Max., VIII

(1889), 212-246. 49

Sulla pietà popolare: E. DELARUELLE, La piete populaire au Moyen Age, Turin, 1975; F. GARELLI, Religione e chiesa

in Italia, Bologna, 1991; G. PANTEGHINI, La religiosità popolare. Provocazioni culturali ed ecclesiali, Padova, 1996.

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Sempre in questa doppia ottica, di fede e di testimonianza nei confronti dell’ordine sociale e

politico, deve essere compresa la proclamazione del dogma dell’Immacolata concezione di Maria (8

dicembre 1854), procedimento questo, iniziato dalla curia romana fin dal 184850

. Le ragioni che

portarono alla proclamazione del dogma, oltre a quelle di fede, devono intendersi come:

a) conferma alla dichiarata potestà del Papa in materia di fede e di morale;

b) preciso intento politico.

La proclamazione del dogma dell’Immacolata concezione colpiva infatti, da un lato coloro

che nonostante il Vaticano I e la dichiarazione dell’infallibilità del Pontefice ancora sostenevano

l’idea del conciliarismo (ancora oggi per certi versi presente); dall’altro il dogma serviva a

sottolineare che tutti gli uomini, esclusa la vergine Maria, nascevano con il peccato. La

conseguenza del peccato inficiava le facoltà naturali di tutti gli uomini e di conseguenza tutti

avrebbero avuto bisogno della grazia redentrice, di cui la Chiesa era l’unica mediatrice.

Da qui risultava facile comprendere l’esito delle premesse: sul piano politico sociale non si

poteva prescindere, nella costruzione dell’umana società da ciò che liberava la ragione da un suo

deficit ormai divenuto naturale, ovverosia dalla fede/grazia51

. Sotto questa duplice motivazione

furono compiuti altri simili atti: si pensi alla venerazione della vergine Maria con il titolo di

Auxilium christianorum, al rilancio della recita del santo rosario, e ancora al diffondersi del culto al

Sacro Cuore52

.

Nei primi anni del XX secolo si assistette ad una accesa discussione, in merito al riordino del

materiale legislativo attraverso un’opera di codificazione53

. Queste dispute trovarono soluzione

sotto il pontificato di Pio X (1903-1914), il quale si fece promotore e sostenitore di un’opera di

riordino della ormai multiforme materia giuridica, rispondendo a quel desiderio, condiviso da molti

vescovi, di raccogliere le leggi della Chiesa in unità. Il progetto di riordino, iniziato con Pio X54

, fu

portato a compimento sotto il pontificato di Benedetto XV (1914-1922)55

.

50

«Il romanticismo, la necessità di un saldo appoggio che non si trovava più nello Stato laico e liberale, l’azione

costante e cosciente di Pio IX per raccogliere direttamente attorno a sé la Chiesa universale (interventi sempre più

numerosi delle congregazioni romane nelle questioni diocesane, creazioni di grandi seminari nazionali a Roma,

assemblee di vescovi a Roma, proclamazione del dogma dell’Immacolata Concezione in cui l’episcopato aveva svolto

un ruolo secondario rispetto all’autorità del pontefice) fecero il resto». G. MARTINA, La Chiesa, 364. 51

«Il concilio Vaticano I con le due definizioni del 18 luglio 1870 […], proclamando dogma di fede non solo

l’infallibilità personale del papa (ex sese, non ex consensu Ecclesiae), ma anche il suo primato di giurisdizione su tutta

la Chiesa, dette al gallicanesimo il colpo definitivo». Ivi, 364. 52

Ivi, 497; cf. R. AUBERT, Il pontificato di Pio IX, 704- 717. 53

Cf. M. FALCO, Introduzione allo studio del «Codex iuris canonici», Torino, 1925, 10 ss.. 54

PIUS PP. X, Motu proprio: Arduum sane munus, 19 martii 1904, in ASS, XXXLI (1904), 549-551. 55

BENEDICTUS PP. XV, Constitutio Apostolica: Providentissima Mater Ecclesia, 27 maii 1917, in AAS, IX/II (1917), 5-

8.

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58

Anche Benedetto XV si inserì, sulla scia dei suoi predecessori, in quella linea volta a

veicolare la supremazia e la necessità della fede sul piano sociale. Infatti, attraverso la devozione al

Sacro Cuore, egli si fece propagatore di una visione della società tale da poter vivere ed

organizzarsi solo in subordinazione al regno del Sacro Cuore, ovverosia una subordinazione di tutti

gli Stati alle indicazioni del papato, garante assoluto di una pace giusta e duratura.

Con il pontificato di Pio XI (1922-1939) tale visione della società, portata avanti dal suo

predecessore, si accentuò ancor di più. Non è un caso che la liturgia tenga a sottolineare la

dimensione della regalità sociale di Cristo; il tema della regalità era un tema ormai divenuto

classico nel tentativo di stabilire una ierocrazia. Invece, del tutto nuovo risultava l’accostamento del

termine sociale a quello di regalità, proprio per dichiarare apertamente l’idea di una società che

dipendesse da colui che in terra rappresenta la regalità di Cristo: si pensi all’istituzione della festa di

Cristo Re dell’universo attraverso l’enciclica “Quas Primas” (1925)56

.

È chiara la finalità teocratica dei pontefici di introdurre attraverso la c.d. lex orandi una

mentalità diffusa che di ritorno entrasse a far parte a pieno titolo della lex credendi.

Tutto questo contesto storico, se pur breve e sommario, è necessario per non scivolare in

interpretazioni anacronistiche del periodo che interessa. Infatti, il Codice del 1917 nasce come

frutto di un albero determinato da questo clima, concime, potature57

.

2.2 IL CODEX IURIS CANONICI

L’esigenza di un’organica riforma di tutta la legislazione canonica si fa strada già durante la

celebrazione del Concilio Vaticano I58

. Molti vescovi, infatti, manifestano la loro difficoltà ad

attingere dal Corpus iuris canonici – difatti, a causa della sua ampiezza, del diverso valore attribuito

alle varie parti di cui era costituito, dell’insufficienza relativa ad una non sistematicità

dell’impianto, ormai troppo datato rispetto alle esigenze dei tempi, esso mal si prestava a facile e

veloce consultazione – gli strumenti giuridici necessari per esercitare il governo59

.

56

PIUS PP. XI, Litteræ encyclicæ: Quas primas, 28 decembris 1925, in AAS, XVII, 1925, 593-610. 57

«Più vasta fu l’azione di consolidamento disciplinare, che culminò nella codificazione del Diritto canonico (1917) e

nella riforma della curia romana (1908), ma ebbe molte altre manifestazioni, che in genere tendevano a sottolineare la

dipendenza immediata di ogni iniziativa di azione cattolica dalla gerarchia, a evitare finché fosse possibile i pericoli

derivanti dalla partecipazione ad associazioni non confessionali […], a rafforzare l’autorità dell’episcopato sul proprio

clero (rendendo più facile e sbrigativa la destituzione dei parroci in via amministrativa, senza processo), e ribadendo,

ancora all’inizio del sec. XX, il diritto degli ecclesiastici alle tradizionali immunità». G. MARTINA, La Chiesa, 655-656. 58

Cf. G. FELICIANI, Il Concilio Vaticano I e la codificazione del Diritto canonico, 35-80. 59

«Quello che i canonisti chiamano ius vetus, diritto vecchio, e che si trascina stancamente fino al 1917, è una enorme

plurisecolare sedimentazione di fonti legislative, dottrinali, giurisprudenziali; se vogliamo, è un ammasso caotico non

molto dissimile dallo ius commune medievale e post-medievale». P. GROSSI, L’Europa del Diritto, 214.

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Mentre alcuni tra gli alti prelati si limitavano a chiedere una nuova composizione e

rielaborazione del Corpus, altri insigni vescovi e cardinali, per altro, affascinati dai codici già usati

in ambito civile, propendevano per la redazione di un codice di tipo moderno60

.

L’utilità di un codice proveniva proprio dalla possibilità di avere uno strumento che

rispondesse a determinate caratteristiche, ovvero, fosse autentico, breve, chiaro, sistematico e

completo. Questo codice doveva essere promulgato dalla suprema autorità e doveva essere tale da

esporre, in forma breve e accessibile a tutti, tutta la legislazione vigente; attraverso un sistema

semplice quale poteva risultare appunto quello fatto di titoli, capitoli e articoli, tutto diviso per

materie61

.

Come si può notare ad occhio nudo, è palese l’influsso che ebbero le codificazioni statali,

compresa quella pontificia, sul desiderio di riforma avvertito, in quel momento, dalla Chiesa. Il

desiderio di unità e di compattezza ben si conciliava con l’idea della creazione di un codice scritto,

sulla falsariga di quelli civili esistenti, che desse certezza e solidità alla comunità cristiana62

. Tutto

ciò fu accompagnato, secondo alcuni, da un desiderio di accentramento del potere, tendente a

limitare o a ridurre l’autonomia legislativa dei vescovi nelle zone territoriali particolari63

. A ragion

del vero, però, anche coloro che erano i “non” sostenitori dell’infallibilità papale desideravano la

realizzazione di un codice che permettesse da un lato maggiore sistematicità e chiarezza, e dall’altro

una maggiore protezione nei confronti dei crescenti poteri della Curia Romana.

Il progetto della formulazione di un codice, che riassumesse tutta la legislazione canonica,

trovò nel Vaticano I un atteggiamento da un lato dilatorio e da un altro addirittura negativo64

. Con

l’interruzione del Concilio e i problemi relativi alla Questione romana, si accantonò il progetto

relativo alla realizzazione di un codice di Diritto canonico. Pio IX e Leone XIII lasciarono cadere

60

«E cominciarono anni di discussioni anche accese; e vi furono voci ostili, che facevano valere il carattere essenziale

della elasticità, insopprimibile perché in stretta connessione con la pastoralità che un Codice avrebbe sacrificato nella

sua rigidezza». Ibidem. 61

Cf. E. GUERRIERO (a cura di), La Chiesa e la modernità, (coll. La grande biblioteca cristiana, II), Storia del

Cristianesimo 1878-2005, Cinisello Balsamo (MI), 2005, 251-275. 62

Nelle formulazioni dei codici «vi trovavano incarnazione compiuta tutti gli ideali illuministici: era una legge generale

(e per tanto ugualitaria), semplice, chiara, certa; il magma giuridico vi era ridotto a sistema coerente ed armonico

realizzando le aspirazioni settecentesche per un ordine di stampo geometrico. Il Diritto era fissato nella sua totalità

all’interno di un testo, che il cittadino (o fedele) era in grado di possedere, leggere, comprendere; era tutto legalizzato, e

cioè controllato dal potere politico ormai stabilmente in mano al ceto borghese (potremmo dire noi: centralizzato ai

vertici della gerarchia ecclesiastica), il quale poteva rinvenirvi con soddisfazione il frutto delle sue abilissime strategie».

Ivi, 149. 63

«Con il Vaticano I che segnò il culmine dell’opera restauratrice di Pio IX e della sua azione centralizzatrice. Questa

centralizzazione, l’intima adesione al pontefice, permise alla Chiesa di superare con minore difficoltà l’assalto

dell’assolutismo e del liberalismo, dato che contribuiva a rendere la Chiesa più forte nei confronti dello Stato […]

spesso l’autorità dei vescovi venne controllata da Roma in modo minuzioso, senza lasciare loro una sufficiente

autonomia, o, in pratica, facendoli dipendere in qualche caso dai funzionari della curia loro inferiori in grado e dignità».

G. MARTINA, La Chiesa, 364-365. 64

Cf. G. FELICIANI, Il Concilio Vaticano I e la codificazione del Diritto canonico, 35-80.

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tale progetto anche se manifestarono una certa preoccupazione tesa a mettere ‘ordine’, specie per

ciò che attiene a determinati istituti65

.

Questo periodo anche se non portò immediatamente alla formulazione del codice – anzi, vide

questo progetto accantonarsi – ebbe comunque il grosso merito di aver posto questo progetto

all’attenzione degli studiosi del tempo.

Con il pontificato di Pio X la linea favorevole alla codificazione trovò maggiore assenso; il

Pontefice, infatti, con il motu proprio “Arduum sane munus”66

intese tutelare l’importanza della

“legge”, specie per ciò che attiene alla vita sociale e pastorale della Chiesa e la conseguente

esigenza di evitare la confusione provocata dal moltiplicarsi delle leggi, ricordando come da più

parti venivano a lui condotte istanze relative alla necessità di raccogliere le leggi della Chiesa,

eliminando leggi obsolete e non più adatte alla nuova realtà storico-sociale, attraverso un ordine

comprensibile. Il Pontefice, attraverso il su citato motu proprio si dichiarerà favorevole ad

approvare e accettare queste istanze, istituendo, per la composizione del codice, un’apposita

commissione che non mancherà di coinvolgere i vescovi di tutto il mondo. A seguito del m. p.

Arduum sane munus, si impose come questione fondamentale, metodologica e non solo, quella

relativa al modo di procedere. Le linee che si contrapponevano erano sostanzialmente due: una,

legata fortemente alla tradizione, e che quindi voleva un riordino della materia, sulla falsa linea del

classico ordine delle decretali; l’altra, decisamente orientata alla nuova metodologia adottata dagli

Stati moderni, ovverosia, orientata verso una codificazione, un unico corpo di leggi, diviso per

materie, attraverso capitoli, articoli e paragrafi. È interessante notare come il processo – che portò

alla formulazione del Codice – pose in luce tutta una serie di implicazioni giuridiche, culturali,

ideologiche ed ecclesiologiche, venute a galla proprio dal confronto tra i vari consultori deputati al

riordino di tutta questa complicata e multiforme materia. Tra i consultori vi furono alcuni che

propendevano per un codice che potesse reggere il confronto con i codici tipici delle legislazioni

statali e altri – si pensi ai canonisti dell’Università Gregoriana – che nutrivano delle perplessità nei

confronti dei nuovi modelli di stampo moderno e volevano mantenere il legame con la tradizione67

.

Tale problema, relativo alla sistematica da adottare per l’opera di ammodernamento e

ordinamento dell’intero corpo di leggi della Chiesa, si risolse in fretta grazie a colui che risultò, poi,

essere l’anima di questa revisione legislativa: il Gasparri. Questi adottò, in linea di massima, la

divisione tripartita giustinianea: personae, res, actiones. Questa scelta permise la pace, per così dire,

tra le due tendenze: la ‘conservatrice’ che venne accontentata attraverso il mantenimento dell’ordine

tripartito tradizionale, e, la ‘progressista’ che trovò soddisfatta l’idea della stesura di un codice, così

65

Cf. G. MARTINA, La Chiesa, 623-633. 66

PIUS PP. X, Motu proprio: Arduum sane munus, 19 martii 1904, in ASS, XXXLI (1904), 549-551. 67

Cf. E. GUERRIERO, La Chiesa e la modernità, 251-275.

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come concepito in ambito civile; infatti, anche i codici civili avevano seguito la nota e ormai

classica tripartizione giustinianea.

Il cammino che portò alla formulazione del Codice pio-benedettino è interessante anche sotto

l’aspetto ideologico, poiché è in questo delicato momento che si consumerà la scelta di propendere

per l’esaltazione della legge scritta a scapito della consuetudine, e soprattutto, a scapito delle

autorità locali, a cui verrà ridotto il campo della propria discrezionalità68

.

Come non sottolineare che l’opera di codificazione del 1917 vide, anche sotto l’aspetto

ecclesiologico, prodursi notevoli cambiamenti. Basti pensare al rapporto tra gerarchia di ordine e

gerarchia di giurisdizione, alla divisione dei fedeli in chierici, religiosi e laici.

In questo frattempo, iniziarono a sentirsi le prime voci riguardo alla necessità di promulgare

uno statuto o una costituzione della Chiesa, anticipando l’idea, sorta dopo il Concilio Vaticano II69

,

di formulare una Legge fondamentale della Chiesa70

.

Una volta deciso il modo di procedere, ossia la tripartizione secondo la divisione giustinianea,

tutto il lavoro successivo fu organizzato dal Gasparri71

che nel 1907 venne creato cardinale. Il

contributo dell’allora Pontefice, Pio X, fu tutt’altro che marginale: il Papa, infatti, volle partecipare

attivamente alla riorganizzazione della legislazione canonica, tanto che molte volte fece presente in

modo diretto alle commissioni cardinalizie i suoi desideri e la sua aspirazione di finire quanto

prima. A questo proposito Pio X costituì diverse commissioni speciali.

L’urgenza avvertita dal Pontefice, di finire quanto prima, non gli vietò comunque di

coinvolgere attivamente nell’opera i vescovi di tutto il mondo, i quali, innanzitutto, si misero

all’ascolto dei rispettivi suffraganei e degli altri ordinari (nel contesto dei concili provinciali) in

modo da segnalare alla sede Apostolica, in un secondo momento, le norme che a loro avviso

necessitavano di essere innovate o emendate. In un secondo tempo, furono poi sottoposti ai vescovi

gli schemi dei diversi libri del Codice, i quali vennero poi discussi alla presenza dei rispettivi

metropoliti; questi ultimi, poi, si sarebbero fatti carico di riportare a Roma i relativi risultati

raggiunti in sede dibattimentale. Tutto questo immenso lavoro proseguì fino al 1916, anno in cui

venne consegnato alle stampe un progetto completo dell’intero Codice. C’è da ricordare, inoltre,

68

Si pensi all’omissione, all’assenza del titolo De dispensationibus nello schema del libro primo del Codice (1912)

inviato ai vescovi di tutto il mondo. Cf. E. GUERRIERO, La Chiesa e la modernità, 258-259. 69

«Un’altra innovazione rimasta inattuata è quella della Lex Ecclesiae Fundamentalis, cioè della formalizzazione di una

legge avente valore giuridicamente costituzionale, alla quale dovrebbero subordinarsi le leggi ordinarie». J. I. ARRIETA,

Voce: Diritto soggettivo., par. 1.1, 3. 70

Cf. G. FELICIANI, Le basi del Diritto canonico, Bologna, 1985, 31-35, 162. 71

Eminente giurista e docente di Diritto canonico, noto anche per la sua nomina a segretario di Stato di Benedetto XV e

di Pio XI; si occupò, inoltre, della stipulazione dei Patti Lateranensi che si concluse nel 1929.

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come tutto questo lavoro sia stato svolto in un clima di ossequioso silenzio e discrezione, che fu

richiesto ai compilatori72

.

Con la Costituzione “Providentissima Mater Ecclesia”73

, del 27 maggio 1917, Papa

Benedetto XV promulgò il Codex iuris canonici, pubblicato il 28 giugno negli Acta Apostolicae

Sedis74. L’opera di Benedetto XV, relativa all’assetto della legislazione canonica, non si esprime

nella semplice promulgazione, non essendo qualificabile il suo apporto come marginale.

«La “responsabilità” tuttavia del nuovo assetto della legislazione canonica attraverso la sua

codificazione non è da ricondursi unicamente a Pio X quale unico “autore” del CIC 17; non si deve

infatti sottovalutare la portata, molto più radicale, profonda e determinata, dell’operato di Benedetto

XV la cui funzione non fu semplicemente quella di promulgare il Codice – come molti credono – ma,

molto più, di guidarne la recezione, l’utilizzo e lo sviluppo, contribuendo personalmente in modo

sommo all’affermazione (o addirittura alla nascita) in ambito canonistico della cd ideologia/mito della

codificazione»75

.

Come premessa ai cinque libri vi è la Costituzione di promulgazione, il m. p. “Cum iuris

canonici”76

e la professione di fede.

Il Codice, approvato e promulgato dal legislatore supremo, ha il valore di una collezione

autentica, ovverosia, tutte le norme ivi contenute hanno uguale forza obbligante. Il Codice, però,

non ha un valore assoluto; questo lo si comprende subito, quando ci si imbatte nel primo canone, il

quale fa esplicito riferimento al fatto che all’osservanza del Codice sono tenuti, solo coloro che

appartengono alla Chiesa latina. Il Codice inoltre è solo parte della legislazione canonica, infatti,

esso, non tratta la materia liturgica, le convenzioni e i concordati riguardanti i rapporti con gli Stati.

Inoltre, vengono consentite le consuetudini (contrarie) centenarie o immemorabili non abrogate

appositamente o cautamente soppresse.

Per comprendere bene la portata innovativa che la realizzazione del Codice ha portato con sé,

bisogna, innanzitutto, essere onesti e riconoscere che se è vero da una parte, che l’idea del Gasparri

di adottare la tripartizione giustinianea fu un tentativo di mantenersi uniti alla tradizione e

soprattutto alla storia, dall’altra, bisogna essere lucidi nel comprendere che proprio con il Codice

non solo si ebbe una novità rispetto allo storico percorso legislativo della Chiesa, ma con

l’impostazione metodologica nuova, propria di un codice, si produsse una grossa frattura tra Storia e

Diritto. Infatti attraverso l’astrattezza e la generalità della norma scritta, più o meno organicamente

72

Cf. E. GUERRIERO, La Chiesa e la modernità, 260-263. 73

BENEDICTUS PP. XV, Constitutio Apostolica: Providentissima Mater Ecclesia, 27 maii 1917, in AAS, IX/II (1917), 5-

8. 74

Per l’iter formativo vedasi P. VAN DE KAMP, Codex juris canonici, in Dictionnaire de droit canonique, II, Paris,

1937, 909 ss.. 75

P. GHERRI, Lezioni di Teologia, 60. 76

BENEDICTUS PP. XV, Motu Proprio: Cum Iuris Canonici, 15 septembris 1917, in AAS, IX (1917), 483-484.

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inserita in un complesso di norme, matura quel distacco, non sempre sano, con la concretezza

storica, tipica del vissuto giuridico ecclesiale fino allora conosciuto.

L’emulazione dei modelli legislativi statali che, in un certo senso, riguardò la Chiesa, causò

all’interno della stessa, la nascita di movimenti di pensiero ostili al processo di secolarizzazione

(l’idea di Chiesa come società giuridicamente perfetta) che inevitabilmente andava verificandosi

con l’adottare sistematiche fino ad allora sconosciute alla Chiesa77

.

«Il contesto in cui nasce l’idea di codice è quello dell’Illuminismo e dell’affermarsi dello Stato

assoluto nel secolo XVIII. La sottolineatura della centralità della ragione umana che caratterizza

l’Illuminismo viene tradotta giuridicamente, da quella che viene chiamata scuola del Diritto naturale,

in una concezione che ritiene possibile arrivare, partendo dalla ragione e non più da un contesto di

fede, ad un Diritto naturale universalmente e assolutamente valido. Tale diritto deve trovare una

propria formulazione razionale, sistematica, globale, semplice e perspicua: ecco il codice»78

.

Tutto questo metteva a rischio proprio l’irriducibile specificità della Chiesa, la quale non

doveva ridursi alla stregua di una società puramente umana, ad ‘una dimensione’, come quelle civili

esistenti. Per finire, la critica proveniente da ambienti più liberali, fu quella di vedere nel Codice, da

una parte, un tentativo di centralizzazione di potere, attraverso una omogeneità disciplinare che

favorisce il giuridismo79

e, dall’altra, la negazione di un sano pluralismo che aveva contraddistinto

fino a quell’istante l’esperienza giuridica della Chiesa.

Oltre alla su richiamata frattura tra Storia e Diritto, la codificazione pio-benedettina accentuò

in modo forte la separazione tra Canonistica e Teologia, Diritto e Morale80

.

Subito dopo la pubblicazione del Codex, venne istituita, con un m. p. del 15 settembre 1917,

una commissione pontificia, la “Commissio Pontificia ad Codicis canones authentice

interpretandos”, alla quale fu affidato il compito dell’interpretazione autentica dei canoni; la

predetta commissione contribuì alla centralizzazione del potere legislativo, in quanto i suoi membri

erano scelti, in via diretta, dal legislatore.

77

«La codificazione della Chiesa, a parte la ovvia specificità dei suoi contenuti, fu, sotto il profilo formale, imitazione

servile di quella laica e quindi abdicativa di quei caratteri bimillenarii assunti dalle regole giuridiche canoniche? Credo

che si debba rispondere che si tratta di un atto normativo che vive a suo modo, in assoluta tipicità, l’aspetto essenziale di

ogni Codice moderno, e cioè la esclusività, il proporsi come norma esclusiva.

Innanzi tutto, non guarda con superba sufficienza al passato come pretende ogni codificazione post-illuministica. La

Chiesa codifica in perfetta continuità con la sua storia bimillenaria, una storia che è considerata ricchezza del presente.

Il canone 6 valorizza espressamente il patrimonio giuridico del passato, gli attribuisce un grosso valore interpretativo e

invita ad utilizzarlo, a meno che non si sia in presenza di una regola del Codice specificamente innovativa e, pertanto,

abrogativa di ogni regola pretèrita». P. GROSSI, L’Europa del Diritto, 215-216. 78

C. M. REDAELLI, L’adozione del principio della codificazione: significato ecclesiologico soprattutto in riferimento

alla ricezione, in AA. VV., Recezione e comunione tra le Chiese. Atti del colloquio internazionale di Salamanca 8-14

Aprile 1996, Bologna, 1998, 275. 79

Ovverosia la sopravvalutazione dell’aspetto giuridico all’interno della Chiesa! 80

Cf. G. DELLA TORRE, Pio X e il codice di Diritto canonico, in Archivio giuridico, CCXXI (2001), 1, 64.

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2.3 IL CHRISTIFIDELIS NEL CODICE DEL 1917

Bisogna innanzitutto partire dalla visione storica per comprendere – e non ridurre lo studio a

sterile esegesi o peggio ancora ad una apologia a-storica di stampo deduttivistico – l’ossatura del

Codice del 1917. Ecco perché si è ritenuto opportuno e fondamentale richiamare alla mente alcuni

passaggi storici. Si è, infatti, persuasi che la Chiesa, corpo mistico di Cristo, vive nel mondo (anche

se non è del mondo) e in esso e per esso è chiamata a realizzare la missione affidatale dal divino

fondatore: ammaestrare tutte le genti e portarle alla salvezza tramite l’unico e solo salvatore Gesù

Cristo, di cui, la Chiesa stessa è l’unica ed autentica mediatrice81

.

Con la codificazione, anche la Chiesa cattolica, sul modello degli Stati moderni, poteva

godere di una propria legge razionale, assoluta e completa, la quale aveva come referente primo –

o sua unica comprensione e spiegazione – la volontà, ormai esclusiva, del supremo legislatore.

Attraverso un’analisi attenta ci si può rendere subito conto come pure all’interno della Chiesa

si sia introdotta la corrente positivista – vista nel primo capitolo – riconoscibile attraverso i suoi

postulati. Alle proprie spalle la Chiesa lascerà, infatti, le c.d. rationes, tipiche dell’ormai passata

concezione del Diritto delle decretali e, accoglierà nella lex codicialis, l’espressione della volontà

dell’autorità legislativa: ius quia iussum82

.

La codificazione canonica, facendo suo il presupposto tipicamente positivista che, la legge

vale per sé stessa in quanto voluta dal legislatore, e, non per una sua ragionevolezza intrinseca di

tomistica memoria, ha prodotto una visione del Diritto tale da ridurlo a pura normatività, favorendo

l’aspetto applicativo-procedurale a danno dell’aspetto più tipico del Diritto canonico, quello

sapienziale83

. Emblematico a tal proposito il giudizio di J. Gaudemet, il quale, esprimendosi sulla

situazione venutasi a creare con il Codice pio-benedettino, non teme nel notificare la quasi assenza

della Teologia nel Codice, e l’ormai palese visione della Chiesa compresa alla stregua delle altre

società (pur giuridicamente “perfette”)84

.

81

«La Chiesa Cattolica è una cosa ben diversa da un raggruppamento umano […] essa è il corpo mistico, dove si

perpetua l’esistenza terrena di Cristo, e questa non è una teoria e neppure una edificante allegoria; è una realtà così

obbiettiva come l’Incarnazione della seconda persona della Trinità». G. RENARD, Contributo allo studio dei rapporti tra

Diritto e Teologia, in Rivista internazionale di Filosofia del Diritto, XVI (1936), 483. 82

«Anche la Chiesa cattolica, societas juridice perfecta al pari degli Stati moderni, possedeva finalmente la propria

legge “scientifica” (razionale, assoluta e completa), secondo la volontà esplicita del supremo legislatore![in nota: è

possibile riconoscere qui con certezza i postulati positivistici che, abbandonate le rationes tanto care al Diritto delle

Decretali, accoglie nella Lex codicialis l’espressione autoritativa della volontà del legislatore: Ius quia iussum]». P.

GHERRI, Lezioni di Teologia, 61. 83

«Il Codice del ʼ17 era stato redatto sulle orme dei codici civili: nessuna meraviglia, dunque, se si dovette ricorrere alle

suaccennate “peculiarità” per correggere la conseguenza alle quali avrebbe portato una sua rigida applicazione

“secundum propriam verborum significationem in textu et contextu consideratam”». J. L. GUTIÉRREZ, La formazione

dei principi per la riforma del CIC, in J. CANOSA (a cura di), I principi per la revisione del Codice di Diritto canonico.

La ricezione giuridica del Concilio Vaticano II, Milano, 2000, 26. 84

Cf. J. GAUDEMET, Théologie et Droit Canonique, in Revue de Droit Canonique, XXXIX (1989), 13.

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A far pendere le cose ancor più verso questa visione ristretta del Diritto canonico fu la scelta

da parte della Sacra Congregatio de Seminariis et de Studiorum Universitatibus – nella prescrizione

del 7 agosto 1917 sull’insegnamento del Diritto canonico nelle Università ecclesiastiche85

– di

imporre come unico metodo di studio al testo codiciale il metodo “scientifico” esegetico86

, vietando

esplicitamente altri possibili approcci metodologici, ritenuti poco rispettosi della struttura e

dell’ordine codiciale87

.

Anche il Codice, quindi, nelle sue parti, è il frutto di una determinata visione storica della

Chiesa, e non poteva essere altrimenti.

È comprensibile che il rapporto del fedele con l’autorità, che semplificando si è indicato come

rapporto di “obbedienza”, in siffatto contesto storico, venisse concepito come risposta ad un

comando/ordine da parte della stessa autorità, indipendentemente dalla sua ragionevolezza o peggio

ancora dipendente da una precisa ritualità, capace di garantire in qualche modo una correttezza,

almeno, relativa al procedimento. Tutto, infatti, partiva dai vertici – supremo legislatore e curia

romana – e, per “emanazione”, doveva diffondersi/trasmettersi nella struttura, fino a giungere alla

base: “i sudditi”88

; per tale fine la gerarchia89

serviva a far sì che le norme e i precetti, decisi dal

legislatore, venissero applicati e osservati fedelmente.

Il perfetto Christifidelis era colui che ubbidiva90

anche agli ordini impartiti al di là della sua

reale comprensione e/o adesione91

. Nella manualistica del tempo92

, infatti, si trovano molteplici

85

Cf. S. CONGREGATIO DE SEMINARIIS ET DE STUDIORUM UNIVERSITATIBUS, De novo iuris canonici codice in scholis

proponendo, 7 augusti 1917, in AAS, IX (1917), 439. 86

«Esegesi è un vocabolo che viene da lontano, dagli studi sulle Sacre Scritture, nei quali si richiede allo studioso un

atteggiamento doverosamente passivo di fronte a un testo ritenuto di provenienza divina e una attività puramente

esplicativa della volontà in quello contenuta. Il trapianto del vocabolo dal sacro al profano ha il significato di esaltare la

volontà del legislatore e ridurre la operosità intellettuale dell’interprete (scienziato o giudice) alla pura conoscenza, a un

esercizio di logica, magari combinando frammenti sparsi entro il sistema legale positivo, ma con la consegna imperiosa

di non varcare i confini del diritto legale». P. GROSSI, L’Europa del Diritto, 153-154. 87

Cf. P. GHERRI, Lezioni di Teologia, 62. 88

«La codificazione pio-benedettina, riconobbe genericamente i diritti dei cristiani derivanti dal battesimo (can. 87) e,

formulò espressamente il diritto dei fedeli di ricevere dal clero i beni spirituali, e in primo luogo gli aiuti necessari per la

salvezza (can. 682). Al fuori di questi elementi, rimarcando ancora una volta la disuguaglianza fra chierici e laici, quel

codice non offrì basi sufficienti per superare la concezione della condizione giuridica dei semplici fedeli

nell’ordinamento canonico, alla stregua di sudditi dell’autorità della Chiesa». F. VENTURA, Il potere di porre le norme e

la presenza di diritti soggettivi nell’ordinamento canonico, in URL: ˂

http://www.iuscanonicum.it/Contributi/2011.09.17%20Ventura%20-%20Comunicazione%20Varsavia.pdf , (consultato,

04/09/2012), 1-2. 89

«La gerarchia, in senso stretto designa i Pastori; in senso più largo è usata anche per designare la Chiesa nel suo

insieme, tutti i fedeli, chierici, monaci e “battezzati laici”. Tuttavia in nota l’autore (F. X. WERNZ, Ius Decretalium, II,

Pars prima, 2) si affretta a dire che, comunemente parlando, i laici sono “sotto” la gerarchia, non “della” gerarchia, nel

cui ceto sono censiti soltanto quelle persone che godono in qualche grado della potestà». E. ZANETTI, La nozione di

“laico” nel dibattito preconciliare: alle radici di una svolta significativa e problematica, Roma, 1998, 23. 90

Ed è qui che avviene la distorsione di tale concetto in quanto viene a coincidere con un dovere di costrizione dettato

da una sproporzione nei rapporti di forza tra chi detta l’ordine e chi (impropriamente) obbedisce. 91

Questo stato di cose lo si può notare anche negli atti di culto, dove, i sacerdoti celebravano la liturgia in latino e i

fedeli, ignorando il significato di tale lingua, ormai non più usata, partecipavano ad essa in modo passivo. Stupisce poi,

che le risposte nelle azioni liturgiche avvenivano in modo del tutto automatico: “obbedendo” ad un comando impartito.

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riferimenti ai fedeli, identificati non come il popolo di Dio – termine tipico del Concilio Ecumenico

Vaticano II –, ma come ‘sudditi’.

«A loro volta i membri della Chiesa hanno altri legami verso lo Stato o verso le altre forme di attività

individuale o consorziata. Il Diritto canonico li assume in funzione di sudditi della Chiesa, regolata da

essa nella esplicazione della loro vita religiosa cristiana, colle conseguenze dirette o indirette d’ordine

giuridico che ne derivano»93

.

La struttura della Chiesa – frutto anche delle reazioni e sollecitazioni del mondo – così come

viene percepita dal Codice e dall’assise conciliare del Vaticano I, è rigidamente composta,

gerarchicamente costituita. La presentazione delle persone, infatti – ormai oggi del tutto superata –,

non solo è di tipo gerarchico, ma addirittura le relazioni tra di esse, vengono a delinearsi attraverso

un’ottica stratificata:

PARS PRIMA: De Clericis (379 canoni):

Sectio I De Clericis in Genere;

Sectio II De Clericis in Specie.

PARS SECUNDA: De Religiosis (195 canoni).

PARS TERTIA: De Laicis (53 canoni)94

.

L’immagine della Chiesa, come il Codice la presenta, è prodotta a partire dalla supremazia del

chierico, mettendo così in luce una relazione di non eguaglianza tra le persone. La sistematica usata

nel Codice separa in modo netto due categorie di persone, quelle che esercitano una missione

ufficiale nella Chiesa (i chierici) e quelle prive di questa missione (i laici)95

. È chiara, in siffatto

Senza la possibilità di comprendere e, quindi, di decidere (vissuta già nella forma base delle celebrazioni liturgiche) si

può ben comprendere la visione che dell’obbedienza canonica si aveva in tale periodo storico. 92

Non diversa era la manualistica civile, anzi, fortemente dipendente da quest’ultima, quella canonica si era ridotta a

letteratura esegetica che, se da un lato «nei suoi esponenti più vivi, offre pagine pregevoli per intelligenza testuale,

chiarezza, rigore logico» dall’altro «è altrettanto chiaro che essa è intrisa del clima legolatrico e che soffre di una

psicologia servile che la colloca costantemente all’ombra incombente della legge. I giuristi, pur essendo le prime

vittime del parossismo legalistico perché espropriati del ruolo loro consueto di fonti di Diritto, sono convintamente

orgogliosi di proporsi come servi legum, dominati dalla maestà indiscutibile di quel prodotto supremo del progresso

umano che è il Codice». P. GROSSI, L’Europa del Diritto, 154. 93

G. CAVIGIOLI, Manuale di Diritto canonico, Torino, 1932, 3. 94

Visti come oggetti dell’azione dei pastori; si tenga in considerazione inoltre che su 53 canoni dedicati ai fedeli, 51

riguardavano le associazioni. «Infatti, alla codificazione piana-benedettina si muoveva la critica di aver trascurato ogni

menzione della posizione dei fedeli laici, in quanto tali, col limitarsi a riconoscere: che essi avessero diritto di ricevere

dal clero i beni spirituali e i mezzi necessari alla salute eterna; che fossero degni di lode ove avessero partecipato ad

associazioni erette o raccomandate dalla Chiesa; che dovessero astenersi dal partecipare a società segrete, condannate,

sediziose, sospette o tendenti a sottrarsi alla legittima vigilanza della Chiesa; nonché a disciplinare, e molto

sommariamente, alcune associazioni di laici (quali i terzi ordini, le arciconfraternite e le pie unioni)». M. PETRONCELLI,

Il nuovo Codice di diritto canonico, Napoli, 1987, 21. 95

«Solo lo status clericalis, inteso come gruppo sociale, veniva riconosciuto il titolare esclusivo di ogni potestà di

governo e di magistero e l’unico responsabile portatore ufficiale della missione sacramentale e dei fini della Chiesa». P.

A. D’AVACK, Il «populus Dei» nella struttura e nelle funzioni odierne della Chiesa, 386.

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67

sistema o corpo di leggi, l’influenza del Diritto pubblico ecclesiastico del XIX secolo96

: esso,

infatti, soleva dividere i membri in modo da evidenziarne la loro disuguaglianza97

.

La triplice missione (docendi, santificandi e regendi) di maestro, sacerdote e re, apparteneva

ai soli chierici, i fedeli erano visti come i destinatari di tale missione98

.

Il Codice pio-benedettino non si pone il problema di definire uno statuto del fedele laico, così

come invece farà il Codice dell’’83, ma si preoccuperà all’inizio, con il canone 87, di definire

l’origine del soggetto-persona giuridico nella Chiesa.

«Baptismate homo constituitur in Ecclesia Christi persona cum omnibus christianorum iuribus et

officiis, nisi, ad iura quod attinet, oste obex, ecclesiasticae communionis vinculum impediens, vel lata

ab Ecclesia censura»99

.

Il canone 107, invece, rileva la trasformata condizione canonica – così come voluta per divina

istituzione –, qualora il fedele venga ad entrare a far parte dei chierici, precisandone la distinzione

dai laici.

«Ex divina institutione sunt in Ecclesia clerici a laici distincti, licet non omnes clerici sint divinae

institutionis; utrique autem possunt esse religiosi»100

.

A questo proposito è bene ricordare come il testo su richiamato, relativo al can. 107 abbia

subito una lieve modifica rispetto a quello proposto nello schema del 1914101

:

«là si diceva che nella Chiesa “per istituzione divina vi sono i chierici e i laici”; qui si dice che nella

Chiesa “per istituzione divina vi sono chierici distinti dai laici”»102

.

Questa modifica, non è da sottovalutare; essa permette di comprendere la motivazione per cui

si volle sottolineare la differenza e la distinzione piuttosto che la comune istituzione divina. Con

tale distinzione, infatti, si volle far fronte alle tesi protestanti, le quali cercavano di annullare ciò che

la Sacra Tradizione aveva sostenuto in passato, ovverosia, il reale salto ontologico che, con

l’ordinazione, per le mani di un vescovo, veniva a crearsi nel fedele battezzato; tutto ciò non a

scapito del sacerdozio comune, ma al servizio di questo in quanto ordinati l’uno all’altro103

. Si

96

Il Codice del ‘17 ha al suo interno veri e propri principi di diritto pubblico ecclesiastico tesi ad affermare il principio

per il quale “Ecclesia est societas iuridice perfecta”: cf. M. NACCI, Origini, sviluppi e caratteri del jus pubblicum

ecclesiasticum, Città del Vaticano, 2010, 175-180; L. MUSSELLI, Storia del Diritto canonico, 73-80. 97

Cf. P. VALDRINI, Comunità, persone, governo. Lezioni sui libri I e II del CIC 1983, Città del Vaticano, 2013, 152-

153. 98

Cf. P. A. D’AVACK, Il «populus Dei» nella struttura e nelle funzioni odierne della Chiesa, 387. 99

Can. 87. 100

Can. 107. 101

«Ex eadem divina institutione sunt in Ecclesia clerici et laici, licet non omnes clerici sint divinae institutionis;

utrique autem possunt esse religiosi» (can. 3, SchCIC, I, 2). 102

E. ZANETTI, La nozione di “laico” nel dibattito preconciliare, 36. 103

Quest’ultimo aspetto sarà messo bene in luce dal Concilio Vaticano II nel noto testo della Lumen Gentium n. 10.

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pensi, a tal proposito, alle fonti del canone in questione104

, ad esempio, il canone 4 sul sacramento

dell’Ordine, contenuto nella sessione XXIII del Concilio di Trento:

«Se qualcuno avrà detto che attraverso la sacra ordinazione non è dato lo Spirito Santo, e quindi

inutilmente i vescovi dicono: “ricevi lo Spirito Santo”; o che attraverso di essa non è impresso il

carattere; o che colui, che una volta era sacerdote, può diventare di nuovo laico: sia anatema»105

.

Attraverso questo canone, il Concilio di Trento intendeva condannare tutte le false dottrine

tese ad affermare, negando l’ordine gerarchico della Chiesa, che tutti i fedeli godevano di pari

potestà e quindi, non vi fosse alcuna differenza tra presbiteri e laici.

L’altra fonte del can. 107 del CIC del 1917 era costituita dal capitolo 40 della lettera di Papa

S. Clemente I ai Corinti, dove il Pontefice, per porre rimedio al disordine istituzionale cerca di far

comprendere che l’ordine è dato solo quando ognuno occupa il proprio posto nella gerarchia della

Chiesa, fatta di sacerdoti distinti dai laici106

.

Le due fonti richiamate servono per comprendere come lo statuto giuridico del fedele, non

viene menzionato in nessuna norma del Codex del 1917, diversamente dal Codice dell’ʼ83 che

invece, stabilirà tale statuto attraverso una norma esplicita107

.

Alla fine del primo capitolo di questo studio si era posto come problema fondamentale la

necessità di comprendere ed identificare lo statuto108

del fedele, inteso come l’insieme dei diritti e

doveri ad esso corrisposti. A tal fine si prenderà ora in esame la norma che, nel Codice del 1917,

maggiormente può aiutare l’identificazione di tale statuto, vale a dire, il canone 682:

«Laici ius habent recipienti a clero, ad normam ecclesiasticae disciplinae, spiritualia bona et

potissimum adiumenta ad salutem necessari»109

.

Diversamente dalle fonti che, il Gasparri enuclea a fondamento di tale norma, il can. 628,

oltre ad essere generale e rivolto ai soli laici, introduce il binomio clero-laici. Se da un lato,

riconosce il diritto dei fedeli a ricevere i sacramenti, dall’altro, stabilisce un preciso dovere da parte

dei chierici: curare la santificazione delle anime. Stando al dettato normativo, il canone, stabilisce il

104

Cf. E. ZANETTI, La nozione di “laico” nel dibattito preconciliare, 36-43. 105

«Si quis dixerit, per sacram ordinationem non dari Spiritum sanctum, ac proinde frusta episcopos dicere: Accipe

Spiritum sancum; aut per eam non imprimi characterem; vel eum, qui sacerdos semel fuit, laicum cursus fieri posse:

anathema sit». CONCILIUM ŒCUMENICUM TRIDENTINUM, Sessio XXIII, Doctrina et canones de sacramento ordinis, 15

iulii 1563, can. 4, in DH, n. 1774. 106

Cf. P. GASPARRI – I. SEREDI, Codici Iuris Canonici Fontes, I, 15. 107

«Christifideles sunt qui, utpote per baptismum Christo incorporati, in populum Dei sunt constituti, atque hac ratione

muneris Christi sacerdotalis, prophetici et regalis suo modo participes facti, secundum propriam cuiusque

condicionem, ad mission emexercendam vocantur, quam Deus Ecclesiae in mundo adimplendam concredidit». Can. 204

§1. 108

«Il termine “stato”, che nel diritto romano era usato per indicare l’insieme dei diritti-doveri del cittadino romano

comune, fu usato in ambito ecclesiastico per designare i diritti-doveri dei laici ossia dello “stato ecclesiastico comune”».

E. ZANETTI, La nozione di “laico” nel dibattito preconciliare, 28; cf. F. X. WERNZ, in Ius Decretalium, II, Pars prima,

20, n. 6. 109

Codex Iuris Canonici, 1917, can. 682.

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diritto dei fedeli di ricevere dai Pastori i mezzi per raggiungere la salvezza della propria anima,

ribadisce la loro presenza in qualità di «persone costituite nella Chiesa di Cristo con diritti e doveri

comuni a tutti i cristiani»110

. A prova di ciò, il canone 87 del CIC del 1917, è riferito a tutte le

persone che attraverso il battesimo entrano a far parte della Chiesa in qualità di persona. Il canone

682 quindi:

«non ha in fondo un tenore restrittivo o negativo; non ha l’intento di assegnare ai laici un ruolo

semplicemente recettivo e passivo; anzi, in qualche modo, vuole essere propositivo e rivendicativo di

ciò che spetta anche ai laici, in forza della loro personalità cristiana. Il ministero dato ai Pastori non è

un privilegio, ma un servizio, che i laici possono esigere a giovamento della propria dignità»111

.

Ora, se da un lato il Codice pio-benedettino si fa portavoce, attraverso due canoni, – anche se

il can. 683 in realtà è solo una proibizione ai fedeli laici di portare l’abito clericale – di una visione

del fedele non subordinata rispetto a quella del chierico, dall’altro lato, bisogna chiedersi perché tale

visione non attecchì né nei commenti al Codice, né negli altri canoni dello stesso Codice. In verità,

ciò che si rivela da una lettura attenta del Codice del 1917 è, sia una netta distinzione tra chierici e

laici, sia un’incertezza terminologico-concettuale riguardo ai termini “fedele” e “laico”; tutta da

sostenere, quindi, è la tesi secondo cui però i laici occuperebbero nel Codice del 1917 un posto di

secondo ordine rispetto ai chierici, così come si vorrebbe far pensare112

.

Sarebbe stato interessante, a questo punto, rintracciare lo statuto del fedele laico nel Codice

del 1917 attraverso la manualistica che, in concomitanza con la pubblicazione del Codice, e anche

prima della sua stessa pubblicazione, si andava formando negli ambienti accademici, tuttavia,

questa sola questione meriterebbe, però per la sua comprensione, un intero percorso di ricerca.

A conclusione di questo breve excursus sul Codice del 1917, si può affermare che, in

relazione ai doveri/diritti dei fedeli, l’“obbedienza” – che sempre nella Chiesa ha costituito una

virtù essenziale – nel clima storico dei primi del Novecento fino al Concilio Vaticano II – anche se

in reazione al modernismo visto come risultato del protestantesimo – assume il carattere di semplice

risposta ad un comando (magari non compreso) dato dall’autorità (gerarchia nel senso stretto).

Bisogna sottolineare, però, che questo modo di concepire i doveri/diritti dei fedeli non trova

nel Codice del 1917 – dove si separano i chierici dai laici, non squalificando, tuttavia, il ruolo di

questi ultimi, e, poco si tratta, se non in due canoni specifici, il tema dei fedeli – una fonte a

sostegno. Pertanto si dovrà cercare non nel Codice del 1917, ma nei suoi commentatori – che, ben

conoscevano la visione secondo la quale la Chiesa è composta, per divina istituzione: di chierici e di

laici – una siffatta concezione dell’obbedienza canonica. Forse questa situazione di fatto venutasi a

110

E. ZANETTI, La nozione di “laico” nel dibattito preconciliare, 41. 111

Ibidem. 112

Cf. E. ZANETTI, La nozione di “laico” nel dibattito preconciliare, 41-44. Cf. P. A. D’AVACK, Il «populus Dei» nella

struttura e nelle funzioni odierne della Chiesa, 386-387.

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creare tra la gerarchia (clero) e i fedeli (sudditi) è da ricercarsi da un lato (ad extra) nel tentativo di

rispondere alle tesi moderniste che mettevano in crisi una visione sociale durata un millennio,

dall’altro (ad intra) nello stato di ignoranza dilagante tra la maggioranza dei cristiani113

.

Si prosegue il percorso ponendo sempre le domande che concludevano il primo capitolo di

questo studio:

«il Christifidelis de quo è un ipotetico quanto generico (a-temporale, a-spaziale, a-storico ed a-

nonimo) “uomo creato e redento da Cristo”, oppure una persona specifica collocata in un tempo ed in

uno spazio determinati e determinanti, in una cultura, in uno status socio-economico, in situazioni e

condizioni che indirizzano e/o forzano il libero esercizio della propria idealità e volontà?»114

.

Il fatto che il Christifidelis sia genericamente un uomo o una specifica persona (con tutto ciò

che questo comporta) sarà rilevante per la relativa comprensione del significato dell’obbedienza:

esercizio dell’autorità, richiesta di ascolto da parte dell’autorità, ingiunzione da parte dell’autorità,

ecc..

Si può concludere questa breve analisi del Codice del 1917, affermando che per più secoli il

principio della ‘sostanziale uguaglianza’ fra i componenti dell’unica Chiesa di Dio, per vari motivi

su descritti, è stato subordinato, se non sostituito, col principio gerarchico, base della costituzione

ecclesiale. Un tale processo involutivo, che ebbe inizio nel secolo IV, prese consistenza nel

Medioevo e si affermò definitivamente nel secolo XVI in opposizione ai principi antigerarchici

della Riforma protestante. Ciò permise la crescita di una visione ecclesiologica di tipo verticistico,

fondata sull’autorità, in cui la Chiesa venne presentata principalmente come “societas

inaequalium”, divisa dualisticamente in superiori e sudditi: coetus ducens e coetus ductus, con la

conseguente radicalizzazione del noto testo attribuito a S. Girolamo (347-420) e riportato da

Graziano (sec. XII): “Duo sunt genera christianorum”115

. Vi sono due specie di cristiani: i chierici e

i laici116

.

«Al contrario, poggiando su una ecclesiologia prevalentemente gerarcologica – che privilegiava il

principio gerarchico, di diritto divino nella Chiesa, e la conseguente disuguaglianza fra chierici e laici

–, il testo codiciale non offrì basi sufficienti per superare una concezione piuttosto riduttiva della

113

«Tutti gli altri fedeli invece usufruivano bensì in teoria, per virtù del sacramento del battesimo, di “omnibus

christianorum juribus et officiis” (can. 87 C. I. C.). In realtà però costituivano all’atto pratico un semplice “gregge”

passivo, radicalmente privo di ogni potestà di ordine, di giurisdizione e di magistero, carente di qualsiasi partecipazione

e responsabilità ecclesiale nel perseguimento della missione e dei fini della Chiesa, sottoposto alla monopolistica

iniziativa e attività della gerarchia clericale». Ivi, 387. 114

P. GHERRI, Diritto canonico, Antropologia, 19. 115

TOMMASO D’AQUINO, Summa Theologiæ, C. XII, q. I, c. VII. 116

Cf. L. PROSDOCIMI, Lo stato di vita laicale nel Diritto canonico dei secoli XI e XII, in I laici nella societas

Christiana dei secoli XI e XII. Atti della III Settimana internazionale di Studio. Mendola 21-27 Agosto 1965, Milano,

1968, 56-77.

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condizione giuridica dei semplici fedeli nell’ordinamento canonico, essendo questi considerati

anzitutto come sudditi dell’autorità della Chiesa»117

.

Da questo stato di cose è facile dedurre che l’obbedienza canonica vissuta in tale contesto

storico rispondesse più al criterio materiale – che consiste nell’eseguire una cosa ingiunta, senza

preciso intento (e neanche forse la possibilità) di conformarsi alla volontà del superiore118

piuttosto che al criterio formale – che consiste nell’esecuzione di una cosa ingiunta con l’intento di

far propria (perché compresa o ritenuta, almeno, non in contraddizione con le leggi divine o

ecclesiastiche) la volontà del superiore –.

2.4 APPROFONDIMENTO: IL ‘DIRITTO SOGGETTIVO’ COME CRITERIO DI ESCLUSIONE

DI UNA NON OBBEDIENZA, ALL’INTERNO DELL’ORDINAMENTO CANONICO

Ciò che ha permesso di inquadrare correttamente la relazione clero-laici, è stato sicuramente

l’acquisizione del concetto cardine, sia in ambito ecclesiologico che canonistico – proprio del

Concilio Vaticano II – della Chiesa come “popolo di Dio”119

(concetto che non intacca né il

concetto di societas, né quello di communitas), con l’articolazione tra sacerdozio comune e

sacerdozio ministeriale.

«Il Concilio ha ribadito la varietà di funzioni e di condizioni di vita esistenti fra i membri della Chiesa

(Idem, loc. cit.), e, in primo luogo, la diversità essenziale tra sacerdozio comune – appartenente a tutti i

fedeli, per il solo fatto di essere battezzati – e il sacerdozio ministeriale o gerarchico (Idem, n. 10),

indispensabile nella Chiesa per Volontà di Cristo, suo divino Fondatore»120

.

Si ritiene, infatti, che la giusta relazione tra sacerdozio comune e sacerdozio ministeriale

costituisca il fondamento ermeneutico per la comprensione dell’obbedienza canonica: il sacerdozio

ministeriale121

– così come voluto dal divin fondatore – è da intendersi solo nell’ottica del

servizio122

.

«Inoltre, la consapevolezza – accresciutasi dopo l’ultima assise ecumenica – dell’importanza della

comunione – comunione dei fedeli con Dio in Cristo, e di conseguenza, comunione dei fedeli tra di

117

J. I. ARRIETA, Voce: Diritto soggettivo, par. 1.1, 1. 118

Anche perché da un lato, la “gerarchia” non era chiamata a dare spiegazioni: al comando si ubbidiva per il semplice

fatto che esso era posto dall’autorità; dall’altro, il “suddito” non era, molte volte, in grado di comprenderle. 119

CONCILIUM ŒCUMENICUM VATICANUM II, Constitutio dogmatica de Ecclesia: Lumen Gentium, 12-21. 120

J. I. ARRIETA, Voce: Diritto soggettivo, par. 1.2, 2. 121

Il sacerdozio ministeriale, infatti, è al servizio del sacerdozio comune a tutti i fedeli. Cf. IOANNES PAULUS PP. II,

Adhoratio apostolica postsynodalis: Pastores dabo vobis, 25 martii 1992, in AAS, LXXXIV (1992), 684; Catechismo

della Chiesa Cattolica, Città del Vaticano, 1992, n. 1547; 1592. 122

«Cristo Signore, per pascere e sempre più accrescere il popolo di Dio, ha stabilito nella sua Chiesa vari ministeri, che

tendono al bene di tutto il corpo. I ministri infatti che sono rivestiti di sacra potestà, servono i loro fratelli, perché tutti

coloro che appartengono al popolo di Dio, e perciò hanno una vera dignità cristiana, tendano liberamente e

ordinatamente allo stesso fine e arrivino alla salvezza». CONCILIUM ŒCUMENICUM VATICANUM II, Lumen Gentium,

n.18, 21-22.

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loro e con la Gerarchia – consente di captare la radicale inadeguatezza di qualsiasi concezione che

interpreti i diritti soggettivi come strumenti di potere antigerarchico o ambiti di insolidarietà, o che

veda il potere quale dominio anziché come servizio, con l’oblio della sua funzione promotrice della

libertà dei cristiani. La vera questione consiste piuttosto nell’armonizzare in ogni momento storico

della vita del Popolo di Dio le funzioni proprie dell’autonomia dei fedeli e quelle appartenenti

all’organizzazione ecclesiastica»123

.

Se il ʻservizioʼ, quindi, è la verifica dell’esercizio dell’autorità, l’ʻobbedienzaʼ124

potrebbe

risultare la verifica dell’essere fedele. Per questa ragione si ritiene opportuno soffermarsi sul

concetto di ʻdiritto soggettivoʼ125

, inquadrato nel contesto ecclesiale126

, per verificare se e come il

tema della relazione gerarchica possa entrare in gioco in questo ambito specifico: l’ambito giuridico

dei diritti soggettivi.

Per poter illustrare la pertinenza del concetto di “diritto soggettivo”127

in relazione al dovere

di obbedienza – all’interno dell’Ordinamento canonico – bisogna innanzitutto porsi (per non cadere

nel rischio di un deduttivismo sterile) nell’orizzonte ecclesiologico del Vaticano II.

«È il Codice del Concilio e, in questo senso, è l’“ultimo documento conciliare”, il che indubbiamente

costituirà la sua forza e il suo valore, la sua unità e il suo irraggiamento. […].

Infatti questo Codice è il Codice del Popolo di Dio, dove è stabilita la struttura della Chiesa, dove è

facilitata l’apertura allo Spirito, dove è espressa la fedeltà ai doni e carismi diversi, dove è rafforzato

l’autentico Diritto, dove viene edificata l’unità nella comunione»128

.

La Chiesa esiste e si costituisce in forza della Missione o mandatum (o comando) di Cristo di

annunciare il Vangelo a tutte le genti perché siano salve (definito come “principio guida

sintetico”129

, così come viene presentato in Lumen Gentium al cap. II)130

. Il Legislatore divino ha

dato una legge il cui fine è raggiunto dalla Chiesa, come comunità di credenti, attraverso quei mezzi

123

J. I. ARRIETA, Voce: Diritto soggettivo, par. 2.1, 3. 124

«Venne dunque da Simon Pietro e questi gli disse: “Signore tu lavi i piedi a me?”. Rispose Gesù: “quello che io

faccio, tu ora non lo capisci; lo capirai dopo”» (Gv 13,6). 125

«Qualunque posizione giuridica attiva spettante ad un soggetto in un dato ordinamento, in virtù della quale un certo

bene gli è proprio, essendo esigibile nei riguardi altrui». A. GARCÍA Y GARCIA, Los derechos de la persona humana en

el ordenamiento canónico medieval, in AA.VV., I diritti fondamentali della persona umana e la libertà religiosa. Atti

del V Colloquio giuridico. Università Lateranense, F. BIFFI (a cura di), Roma, 1985, 85 ss.. 126

«In vista di un ‘risultato ecclesiale’ da raggiungersi in modo stabile e stabilizzante la vita ecclesiale stessa,

conferendo maggiore importanza al buon rapporto tra Istituzione e fedeli invece che ad una – improbabile (?) – ‘tutela’

di diritti soggettivi di singoli, la cui enfatizzazione in chiave tutoria rischia di offrire un’immagine negativa del Diritto

amministrativo canonico facendone – in fondo – uno strumento di rivalsa e contestazione, sbilanciando i diversi

ragionamenti e le questioni su base rivendicatoria e conflittuale, finendo per porre al centro – anche involontariamente –

il contenzioso amministrativo». P. GHERRI, Corresponsabilità, 229. 127

Una prima definizione di “diritto soggettivo”, seppur dall’autore stesso definita generalissima, la recuperiamo da

Juan Ignacio Arrieta: «qualunque posizione giuridica attiva spettante ad un soggetto in un dato ordinamento, in virtù

della quale un certo bene gli è proprio, essendo esigibile nei riguardi altrui». J. I. ARRIETA, Voce: Diritto soggettivo,

par. 1.1, 1. 128

IOANNES PAULUS PP. II, Allocutio: Portate alle vostre Chiese particolari la conoscenza del Codice del Popolo di

Dio, 21 novembris 1983, in Comm, XV (1983), 124-125. 129

P. GHERRI, Lezioni di Teologia, 297. 130

«A ogni discepolo di Cristo incombe il dovere di diffondere, per parte sua, la fede». CONCILIUM ŒCUMENICUM

VATICANUM II, Lumen Gentium, n.17, 21.

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necessari espressi in un appropriato e intenzionale proprio Ordinamento canonico. È da questa

riflessione che l’Ordinamento canonico muove il suo primo passo verso la qualificazione della sua

giuridicità (e la relativa presa di coscienza della sua natura “pubblicistica”); infatti, la sua

connotazione collettiva/comunitaria spiega come l’Ordinamento canonico abbia un sostanziale

interesse comunitario-istituzionale, che prende consistenza solo a partire dalla visione, appunto,

della Ekkλέσιά.

Il sensus Ecclesiae è proprio della comunità cristiana fin dal suo sorgere nel cenacolo: si può

costatare fin dall’età apostolica e sub-apostolica, infatti, che la Chiesa nel suo strutturarsi

istituzionale fa riferimento esclusivamente al proprio carattere collettivo e non ad un carattere

individuale; il bene della comunità, il bene comune, non dipende mai dall’uomo, nel senso che, mai

è lui a costituirne la fonte. Il bene è nell’obbedienza al comando del Signore, (che è bene del

singolo e della comunità) che si riversa nella Chiesa attraverso il comando dato a Pietro: «Pasci i

miei agnelli», «Pasci le mie pecorelle» (Gv 21, 15-17), agli Apostoli, alla gerarchia in senso stretto,

per poi riversarsi su ogni uomo rinato da acqua e da Spirito, ovverosia, divenuto persona131

ecclesiale132

mediante il battesimo133

. Ciò necessariamente deve indurci ad un’attenzione maggiore

e non, alla confusione o sovrapposizione (di diversi quadri di riferimento)134

delle categorie

giuridiche di ‘pubblico’ (inteso come Diritto oggettivo) e ‘privato’ (inteso come diritto

soggettivo)135

. Infatti le suddette categorie, nei codici statuali civili assumono significati

profondamente diversi da quelli rientranti nell’Ordinamento canonico, quantunque simili sul piano

tecnico-concettuale.

L’analisi storica ecclesiale pone in evidenza che il rapporto ‘bi-polare’ ‘pubblico’/‘privato’

non è caratterizzante la dimensione comunitario-istituzionale del Diritto canonico. In effetti, i

Codici di Diritto canonico regolamentano i rapporti istituzionali nella Chiesa tra organi gerarchici

131

Cf. can. 96. 132

L’uomo è costituito persona al momento stesso del concepimento, per questo abbiamo posto l’aggettivo “ecclesiale”

in quanto, il termine persona è riferito ai doveri/diritti acquisiti nella Chiesa. 133

Cf. can. 204. 134

«Sebbene esista un consenso ben generalizzato sull’esistenza dei diritti soggettivi nell’ordinamento giuridico della

Chiesa, sussistono profonde incertezze dottrinali circa il modo di concepirli. Alla base della maggior parte dei problemi

aperti è da riscontrare il fatto che l’affermarsi del diritto soggettivo nella cultura giuridica moderna è storicamente

legato ad un’impostazione di taglio individualistico, che esalta le libertà e i diritti dei singoli, contrapponendoli al potere

pubblico dello Stato. Il retroterra dei diritti soggettivi è ideologicamente vincolato alle concezioni costituzionalistiche

dello Stato di diritto, per le quali i diritti degli individui e di altre entità sono prima di tutto una limitazione del potere

statale». J. I. ARRIETA, Voce: Diritto soggettivo, par. 2.1, 3. 135

Questa attenzione non nega il fatto che con il Concilio Vaticano II si siano prodotte conseguenze dottrinali che

«investono altresì il piano dei rapporti intersoggettivi costituenti la dimensione giuridica del vivere ecclesiale. Può

sostenersi che il fedele, con la sua dignità e libertà battesimale, occupa un posto esplicitamente protagonico nel diritto

della Chiesa dopo il Vaticano II. Senza negare o attenuare affatto il principio gerarchico, lo Spirito Santo ha ispirato una

riemersione della legittima autonomia – composta di libertà e responsabilità, inscindibilmente unite – dei fedeli – e, in

particolare, dei laici – nella Chiesa, tale da mettere in risalto i loro diritti, emananti anch’essi dal volere fondazionale di

Cristo sulla struttura giuridica iure divino del Popolo di Dio». Ivi, par.1.2, 2.

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da un lato, e, tra questi e i singoli fedeli dall’altro, per cui le materie normate hanno una natura

istituzionale e non individuale, privata. Tutto ciò non va assolutamente a discapito del valore

ontologico e fondativo riconosciuto alla singola persona che, nei Codici canonici stessi, ha una forte

valenza ‘derogatoria’ rispetto alla legge generale136

.

Per qualificare in ambito canonico il diritto soggettivo, quindi, è necessario affrontare la

questione concettuale relativa al significato di ‘pubblico’ e ‘privato’ all’interno dell’Ordinamento

canonico e, ancor più, nella compagine ecclesiale.

«Se infatti la bipolarità appartiene pacificamente al Diritto civile, non altrettanto si può affermare per

il Diritto della Chiesa. Quest’ultimo ha assunto e fatto proprio un linguaggio mutuato dal primo, ma

nella sua applicazione alle categorie giuridiche ecclesiali manifesta l’onere di una non perfetta

coerenza tra i due ambiti: se infatti il rapporto tra Diritto civile e Diritto canonico non è ancora

perfettamente delineato, ma riserva agli studiosi spazi tuttora ampi di riflessione, a maggior ragione

l’assunzione delle categorie non può che presentarsi come fonte di discussione e necessita di

chiarificazioni»137

.

Nel tentativo di chiarire l’assunzione delle categorie civili di pubblico e privato all’interno

della riflessione canonistica, esistono due letture della questione: quella tecnica (dove si evince che

nel CIC il termine ‘pubblico’ significa di fatto gerarchico)138

e quella relazionale (dove si evince

dai fatti che l’ecclesiale è per sua natura ‘pubblico’). Le due letture non si escludono a vicenda.

Infatti, il termine ‘privato’ non si oppone a quello di ‘ecclesiale’, in quanto il concetto di ‘privato’

all’interno dell’orizzonte ‘ecclesiale’, distingue solamente la funzione dei fedeli dalla funzione della

gerarchia.

«“Privato” non si oppone a “ecclesiale”, qualificando l’attività propria dei Fedeli in ordine alla

missione di tutto il Popolo di Dio. Esso vuole solamente distinguere la funzione dei fedeli dalla

funzione della Gerarchia, sottolineando il diverso soggetto di attribuzione»139

.

Tutto ciò risulta quanto mai fondato se si tiene in giusta considerazione la ratio stessa

dell’attuale normativa canonica che ha come suo orizzonte interpretativo il can. 216, in cui il

termine ‘cattolico’ fa chiaramente riferimento alla dimensione ‘pubblica’ dove c’è diversità tra

l’agire in nomine Ecclesiae e l’agire del singolo Christifidelis.

«La vera questione consiste piuttosto nell’armonizzare in ogni momento storico della vita del Popolo

di Dio le funzioni proprie dell’autonomia dei fedeli e quelle appartenenti all’organizzazione

ecclesiastica.

136

Cf. P. GHERRI, Introduzione al diritto amministrativo canonico. Fondamenti, Milano, 2015, 58-67. 137

M. VISIOLI, Il Diritto della Chiesa e le sue tensioni alla luce di una antropologia teologica, Roma, 1999, 89-90. 138

Cf. ivi, 90, nota 4. 139

P. GIULIANI, La distinzione tra le associazioni pubbliche e le associazioni private nel nuovo Codice di Diritto

canonico, Roma, 1986, 184-185.

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Attraverso l’approccio fenomenico (storico-dinamico), usato riguardo alla natura e qualifica

del Diritto canonico, giungiamo ad una definizione funzionale dei termini di ‘pubblico’ e ‘privato’.

La pertinenza canonica del concetto di ‘diritto soggettivo’ deve essere valutata nella prospettiva

funzionale in cui non può distinguersi ciò che è ‘pubblico’ (il Depositum fidei o la fides quae) da ciò

che è ‘privato’ (la fides qua dei singoli credenti).

Una chiarificazione, riguardo alla definizione concettuale dei termini su dibattuti, ci viene

offerta dalla riflessione sulla diversità relativa a due modi di costituirsi di una società: ad una

società si può appartenere o aderire. L’appartenenza, infatti, ad una societas non è oggetto di scelta

del soggetto singolo, come lo è l’adesione. In tale prospettiva risultano così limitate e insufficienti

per l’Ordinamento canonico le concettualizzazioni ‘pubblico’ e ‘privato’, perché la vita spirituale

(privata) di ciascun fedele non indicherà mai la categoria di ‘interesse privato’ in riferimento

dialettico a quello ‘pubblico’140

. Non è sostenibile, quindi, l’esistenza di un diritto soggettivo

(privato/individuale) da far valere in opposizione all’istituzione cui si ha aderito; e questo perché è

l’istituzione stessa, attraverso la legittima appartenenza, a conferire status e habilitates. Questi

presunti diritti in sé risultano essere prima di tutto doveri141

da attuare, e, far attuare in modo

corresponsabile, nell’ottica in cui ciascuno concorre “suo modo et sua parte” al conseguimento

dello scopo comune142. È qui che si evidenzia, all’interno dell’Ordinamento canonico, la

complementarietà tra Istituzione e persona, dove il diritto/possibilità equivale al dovere riconosciuto

al singolo soggetto di esigere che, l’Istituzione sia ciò per cui è nata e vive.

«Infatti, la facoltà di esigere che caratterizza il diritto soggettivo si fonda oggettivamente su ciò che

può denominarsi “realtà giusta”: ambito che è proprio di una persona o di una collettività, e che,

perciò, è dovuta in giustizia dagli altri. Questa nozione di “realtà giusta” corrisponde al classico

concetto di ius, ereditato dalla tradizione filosofica aristotelica e dai giuristi romani, e ripresa con

140

Cf. M. VISIOLI, Il Diritto della Chiesa, 126-127. 141

Bisogna precisare però che: «questo non implica che ogni esercizio dei diritti costituisca un dovere. Per chiarire la

questione vanno distinti due classi di doveri: i doveri puramente morali – non giuridici –, e i doveri propriamente

giuridici – che, se sono veri doveri, saranno contemporaneamente morali –. Questi ultimi esistono in correlazione con i

diritti altrui, e comportano la nota di esigibilità sociale, propria di un rapporto di stretta giustizia. Ogniqualvolta non ci

siano questi diritti correlativi, il dovere sociale sarà soltanto morale – con riferimento cioè al fine ultimo della persona

obbligata –, essendo giuridicamente un diritto di libertà. Alla luce di questa distinzione, deve tenersi presente che i

doveri che stanno alla base dei diritti sono sempre di natura morale, ma non necessariamente giuridica.

Non sceverare all’interno dei doveri quelli di tipo giuridico – e raccoglierli in un insieme indifferenziato, come fa il

legislatore canonico nei cann. 208 e ss. – può far cadere in una confusione fra diritto o morale, o fra giustizia e carità,

che, nell’assorbire tutto nella dimensione superiore dell’amore, lascia in penombra la dimensione giuridica – ben

distinta dallo stesso c.i.c. , per es. in materia di separazione coniugale (can. 1152 § 1) –, rischiando di comprometterne

la specifica esigibilità e coattività». J. I. ARRIETA, I diritti dei soggetti nell’ordinamento canonico, URL: ˂

http://dspace.unav.es/dspace/bitstream/10171/6441/1/I-DIRITTI_DEI_SOGGETTI.pdf ˃ (consultato, 19/06/2012), 29-

30. 142

«Una tale articolazione dialettica fra libertà e autorità si rivela assolutamente inadeguata per capire il senso e la

portata dei diritti soggettivi canonici. Basta tener presente che ogni autentico esercizio della libertà dei fedeli, e

parimenti qualunque vero uso del potere ecclesiastico, debbono tendere sempre alla stessa finalità, cioè la salvezza delle

anime, fine soprannaturale della Chiesa che dà senso a tutte le dimensioni della sua missione». J. I. ARRIETA, Voce:

Diritto soggettivo, par. 2.1, 3.

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singolare efficacia da San Tommaso d’Aquino, che definì il diritto come ipsa res iusta, oggetto della

virtù della giustizia»143

.

Si ritiene pertanto, che la relazione di fiducia che potremmo definire relazione di obbedienza

verso l’Istituzione (cf. can. 212) – espressa dal comando, ingiunzione, precetto, o semplicemente da

una richiesta dell’autorità144

– è da ritenersi in via di principio il dovere-diritto (status)

fondamentale di ogni credente145

; si potrebbe diversamente ritenere che il fedele (chierico o laico)

potrebbe opporsi all’Istituzione, quindi “disubbidire”, solo quando l’istituzione non rispetti il

proprio mandato146

.

La possibile “disubbidienza”, non può mascherarsi però, dietro questioni di legittimità solo

formale, essa, può nascere dall’obbligo che incombe (in rapporto alla scienza, alla competenza e al

prestigio) – salva restando l’integrità della fede e dei costumi e il rispetto verso i Pastori, e sempre

considerando l’utilità comune e la dignità della persona147

– sui fedeli di manifestare ai sacri Pastori

il loro pensiero su ciò che riguarda il bene della Chiesa148. Questa “disobbedienza” in realtà è una

obbedienza alla verità dell’Istituzione149

e al suo bene; tale “disobbedienza” è possibile grazie alla

prevista normativa che intende tutelare non solo la dignità del fedele battezzato: «compete ai fedeli

rivendicare e difendere legittimamente i diritti di cui godono nella Chiesa presso il foro competente

a norma di diritto» (can. 221 § 1), ma anche dare, ad esso, la possibilità di rivendicare i propri

diritti: «oggetti del giudizio sono: i diritti di persone fisiche o giuridiche da perseguire o da

rivendicare» (can. 1400 § 1, 1º). Tutto questo discorso, per essere completo, deve tenere in debito

143

Ivi, par. 2.3, 4. 144

«L’obbligatorietà della norma non promana dalla superiorità personale della volontà del governante, per quanto egli

abbia ricevuto la potestas regiminis, per via “religiosa”, ma dal rapporto esistente tra lui e la comunità, rapporto che

può ben qualificarsi giuridico, in quanto esiste davvero una relazione giuridica in cui una è la posizione di colui al

quale spetta la funzione di governare e altra, correlativa ad essa, è la situazione della comunità la quale deve obbedire

(vincolo giuridico) al comando legittimo poiché esso è necessario per il corretto andamento della vita sociale». F.

VENTURA, Il potere di porre le norme e la presenza di diritti soggettivi nell’ordinamento canonico, in URL: ˂

http://www.iuscanonicum.it/Contributi/2011.09.17%20Ventura%20-%20Comunicazione%20Varsavia.pdf , (consultato,

04/09/2012), 1. 145

È interessante notare come il § 2 del can. 223, del Codex Iuris Canonici 1983, obbliga i fedeli ad esercitare i propri

diritti secondo quanto è stabilito dall’autorità ecclesiastica. Anche l’esercizio dei diritti deve essere regolato

dall’autorità; quest’ultima può/deve regolarne l’esercizio solo in vista del bene comune. 146

Sostanziale, sì, ma pure formale, poichè la forma è espressione della sostanza. Le parole evangeliche «come» o

«così» non si riferiscono alla sola sostanza bensì anche alla forma; si potrebbe ritenere che la forma è garanzia, molte

volte, della sostanza. Cf. Gv 13,15-34; Gv 14,27; Gv 15,12 ecc.. 147

«Viene così negata in partenza una concezione dei diritti come potenzialmente sconfinati, per cui i limiti sarebbero

imposti solo dall’esterno. Una assolutizzazione del genere contribuisce soltanto allo scetticismo e allo spregio dei diritti,

che appaiono come arbitrarie pretese soggettive giustificanti qualunque comportamento o rivendicazione. Si evita altresì

un’idea formalistica dei diritti, che li riduce al loro riconoscimento normativo, quasi che questo fosse sufficiente per

ritenerli dovutamente rispettati o soddisfatti […]. Le principali realtà giuste nella Chiesa sono quei beni soprannaturali

affidati ad essa da Cristo, per il cui mezzo gli uomini possono salvarsi: anzitutto la Parola di Dio e i Sacramenti. Circa il

ruolo centrale di questi elementi nella struttura giuridica del Popolo di Dio ha ben insistito K. Mörsdorf, anche se da una

prospettiva che tende a sfumare i confini fra morale e diritto». Ibidem. 148

Cf. can. 212 §3. 149

Prima e fondamentale obbedienza. Cf. At 4,19.

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conto i limiti che, nell’esercizio, possono subire i “diritti soggettivi” all’interno dell’Ordinamento

ecclesiale.

In conclusione, la tensione costitutiva tra Istituzione e persona (dove il bene comune e l’utilità

individuale vanno sempre articolati e mai contrapposti)150

resta il termine da cui non si può

prescindere per comprendere correttamente, all’interno dell’Ordinamento canonico, la pertinenza di

un diritto soggettivo. Tutto ciò necessita:

«un approccio positivo che, per parte sua, si fonda sulla specifica attenzione posta [a] alle persone che

entrano concretamente in gioco e che – comunque – decidono di assumere valutazioni, decisioni,

conseguenze, dell’agire proprio e di altri fratelli nella fede e nell’appartenenza ecclesiale, prima che

[b] a cose (=realtà/elementi) – sempre ben poco individuabili – quali sono, in effetti, ‘diritti’ o

‘procedure’ … o anche solo ‘concetti’ come, per es., quello di ‘legittimità’»151

.

Il discorso relativo ad un utile e quanto mai necessario approccio positivo sarà ripreso

successivamente, quando ci si soffermerà sulla ‘teoria dell’efficacia dell’agire giuridico canonico’.

150

È in questo unico senso che vanno compresi i limiti posti ai diritti soggettivi, infatti, «l’accertamento di questi limiti

intrinseci richiede l’intervento dell’autorità, sia mediante leggi che tramite atti concreti di giudizio. Così va inteso il

disposto del can. 223 § 2, secondo il quale spetta all’autorità della Chiesa regolare i diritti in vista del bene comune. Al

di fuori di questi limiti intrinseci – determinati autoritativamente in sede legislativa o giudiziaria –, l’intervento

dell’autorità diventerebbe arbitrario e privo di fondamento. Inoltre, la regolamentazione da parte dell’autorità trova un

limite invalicabile nei diritti dei soggetti che competono loro in virtù del diritto divino». Ivi, 30. 151

P. GHERRI, L’Autotutela amministrativa come supplemento di conoscenza: la Remonstratio canonica (Cann. 1732-

1734 CIC), 316.

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CAPITOLO III

LO STATUTO GIURIDICO DEL FEDELE

NELLA CODIFICAZIONE DEL 1983

Come per il Codice del 1917, anche per quello attuale, è necessario operare un’analisi storica1

– che dal Vaticano I (e il Codice del 1917) arriva fino all’ultima assise conciliare (che si conclude,

così come afferma Giovanni Paolo II, con il “Codice dell’ʼ83”) 2

– che permetta di comprendere la

struttura del nuovo Codice e lo statuto canonico del fedele, da esso concepito.

3.1 IL CONTESTO STORICO

Il pontificato di Benedetto XV è quello che, in un certo senso, segna il passaggio

dall’Ottocento al Novecento. Con esso, infatti, inizia un lento superamento delle posizioni di forte

cautela – tipiche del pontificato di Pio X3 – nei confronti del mondo moderno e iniziano a verificarsi

aperture tali da portare4, a partire dagli anni Trenta – sotto il pontificato di Pio XI – un clima più

sereno e disteso5; tale clima ebbe vita breve perché, di lì a poco, il cattolicesimo dovette misurarsi

con la nascita dei regimi totalitari e con l’orrore prodotto dal secondo conflitto mondiale6.

Non bisogna dimenticare che a condizionare la visione dei Pontefici vi fu senz’altro anche

l’evoluzione generale che andava producendosi nella società europea. Si pensi all’influenza che

nell’ambiente cattolico si ebbe come effetto del rinnovamento proveniente dai cattolici degli Stati

Uniti d’America e dell’area latino-americana.

1 Anche se, si vuol precisare, non esaustiva, ma che renda almeno ragione dei cambiamenti avvenuti in stretto rapporto

al tema in oggetto. 2 «È il Codice del Concilio e, in questo senso, è l’“ultimo documento conciliare”, il che indubbiamente costituirà la sua

forza e il suo valore, la sua unità e il suo irraggiamento». IOANNES PAULUS PP. II, Allocutio: Portate alle vostre Chiese

particolari, in Communicationes, XV (1983), 124-125. 3 «Purtroppo, si ripetè all’inizio del Novecento, sotto Pio X, quanto era accaduto alla metà del secolo precedente sotto

Pio IX: la curia romana, anche per il carattere dei due papi, non seppe o non volle distinguere i vari aspetti, non separò

gli estremismi dalle posizione moderate, chi credeva nel trascendente e chi nutriva dubbi o aveva perso la fede, ma

condannò in blocco le istanze della base. Il problema, soffocato e non risolto, doveva non riaffacciarsi». G. MARTINA,

La Chiesa, 639. Si pensi ancora a ciò che rappresentò l’enciclica Pascendi Dominici gregis: PIUS PP. X, Litteræ

encyclicæ: Pascendi Dominici Gregis, 8 septembris 1907, in Pii X Pontificis maximi Acta, IV, Romae, 1914, 40-114. 4 «Anche l’atteggiamento di Benedetto XV, ispirato, pur nella sua fermezza, a prudenza e moderazione, sembrava

orientato in questo senso, sia con la cessione della campagna anti-modernista sia con l’abolizione del veto ai sovrani

cattolici di far visita ai sovrani italiani». G. PENCO, Storia della Chiesa in Italia nell’età contemporanea, I, 1919-1945,

dalla crisi liberale alla democrazia, (coll. Complementi alla storia della Chiesa diretta da H. Jedin), Milano, 1988, 5. 5 Cf. R. AUBERT, Il mezzo secolo che ha preparato il Vaticano II, 11-52.

6 Per comprendere la storia della relazione Chiesa e Regimi si cf. G. MARTINA, La Chiesa, 703-753.

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«Del resto tutta la cultura, e la stessa società europea, appare assoggettata negli anni della prima guerra

mondiale e nell’immediato dopoguerra ad un vistoso processo di cambiamento, e dunque anche il

pensiero cattolico deve tenere conto e prendere posizione, uscendo così dall’isolamento nel quale si

era di fatto venuto a trovare da alcuni decenni e che la crisi modernista in verità non aveva determinato

ma piuttosto accentuato»7.

Gli anni dell’immediato dopoguerra sono caratterizzati da un ampio sentimento di sfiducia,

incertezza, causati soprattutto dalla delusione provocata dall’aver creduto, senza freni, al mito del

progresso. Il nuovo secolo si apre quindi con la netta sensazione di un «tramonto dell’Occidente»8;

infatti, la prima guerra mondiale rimetteva in discussione tutta una società che, avendo confidato

nelle presunte certezze della scienza, faceva ora i conti con il suo esatto contrario, ovverosia, la

palese incapacità di garantire il progresso dell’uomo.

Lo schema di riferimento della Chiesa – per ciò che riguarda l’attività pastorale, la formazione

ascetica e i rapporti con la società –, in questi anni, era costituito ancora dal modello tridentino.

Infatti, subito dopo il conflitto, la necessità di definire le relazioni con gli Stati, sempre a livello di

vertici – sia nel compiere scelte che indirizzare iniziative – sarà espressione di tale modello, specie

nel tentativo di riaffermare i diritti della Chiesa e salvaguardare la libertà dei cattolici9. Questo

clima di conservatorismo fu sostenuto anche dalla giovane codificazione, che sembrava proprio

avere il ruolo di ridare autorevolezza all’istituzione ecclesiale, consolidatasi, nonostante tutto10

.

«Spogliata da tempo dei suoi maggiori privilegi, privata della maggior parte dei suoi possessi,

conculcata non di rado nei suoi diritti, la cattolicità italiana aveva nondimeno superato la prova bellica

con una sicurezza che non era stata intaccata dai tanti rivolgimenti anche ideologici di quegli anni»11

.

Se è vero che la Chiesa sopravvisse a tali avvenimenti, è vero anche che si produsse, al suo

interno, un affievolimento di qualsiasi idea di riforma ecclesiale – in ordine a disciplina,

organizzazione, culto – anche perché dalla codificazione del 1917, tutto era rimesso al vaglio delle

autorità competenti.

Con la fine della guerra terminò, per così dire, anche la crisi modernista12

, dalla quale la

Chiesa uscì vincitrice, nel senso che, poté ribadire – e allo stesso tempo essere riconosciuta – la sua

7 E. GUERRIERO, La Chiesa e la modernità, 278.

8 Cf. O. SPENGLER, Il tramonto dell’Occidente, Parma, 2002.

9 «Questa tendenza rispondeva al carattere autoritario di Pio XI, non solo profondamente ostile ad ogni forma di

laicismo, come appare dalle encicliche Ubi arcano (1922) e Quas primas (1925), ma favorevole alla “tesi” dello Stato

cattolico, e pronto a servirsi del Fascismo per questo scopo». G. MARTINA, La Chiesa, 735; sulla mentalità tridentina

persistente cf. R. AUBERT, Il mezzo secolo che ha preparato il Vaticano II, 44-45. 10

A tutto ciò si aggiunse la stipulazione dei Patti Lateranensi, che contribuì alla trasmissione di tale mentalità. Sul

punto: cf. G. MARTINA, La Chiesa, 732-736. 11

G. PENCO, Storia della Chiesa in Italia nell’età contemporanea, 7. 12

«La guerra 1914-18 aveva posto fine ad un mondo ancora in gran parte ottocentesco e se, nella Chiesa, si era

verificato agli inizi del secolo il fenomeno del modernismo, la decisa reazione ecclesiastica ne aveva reso per il

momento inefficace la proposta». Ivi, 8.

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realtà trascendente, carismatica, senza far perdere alla sua struttura visibile, o istituzionale, la

propria forza, non riconosciutagli da molti modernisti.

La contrapposizione tra Stato e Chiesa, tipica dell’Ottocento, era ancora presente nel sentire

della gerarchia ecclesiastica. A tal riguardo fu fondamentale il pontificato di Pio XI (1922-1939)13

,

che con il tentativo di affermare religiosamente – attraverso il culto – la regalità di Cristo14

,

cercava, sul piano politico – attraverso la concezione che tutti i popoli e le Nazioni devono il loro

tributo al Redentore – di riaffermare una società ierocratica15

.

Finita la guerra, il cattolicesimo visse un momento breve ma intenso – si pensi alla possibilità

di una presenza in campo politico, in campo sociale – perché, nel giro di poco tempo dovette far

fronte alla nuova situazione prodotta, in Europa, dall’affermarsi di vari movimenti nazionalistici.

Tali movimenti, assunsero ben presto una fisionomia autoritaria tanto da evolversi in veri e propri

sistemi totalitari di carattere intransigente16

. Tale intransigenza – espressione di una negazione a

qualsiasi altro valore, rispetto a quello dell’unità politico-religiosa, con la finalità di tutelare la

compattezza della propria ideologia – costituì il punto di contatto tra la Chiesa e tali movimenti17

:

«la cultura intransigente aveva accentuato alcuni elementi che favorirono un incontro della Chiesa con

tali movimenti: la negazione di qualsiasi valore, anche semplicemente umano, ad ogni forma di

diversità rispetto a quella unità politico-religiosa che si realizzava in una società ideologicamente

compatta; il richiamo ad un ordine pubblico di tipo gerarchico che cancellava i diritti politici e civili

scaturiti dalla Rivoluzione francese; il privilegio per una organizzazione interclassista e corporativa

13

Con l’enciclica Quas primas (1925) si istituisce per la terza domenica di ottobre la solenne festa di Cristo Re. Cf. G.

FILORAMO – D. MENOZZI, Storia, 165. 14

«Il 23 dicembre 1922 fu resa pubblica l’enciclica Ubi arcano, sulla pace di Cristo nel regno di Cristo. Secondo

l’enciclica, la causa dei mali esistenti doveva essere ricercata nella laicizzazione universale della vita politica sotto tutti

gli aspetti, economici, politici e internazionali. Ogni costruzione sarebbe risultata debole se spinta all’azione dalle

passioni umane. L’origine della sofferenza risiedeva nell’abbandono di Dio e di Gesù Cristo. La vita sulla terra non

poteva essere vissuta senza rapporto con Dio; non si sarebbe potuto conseguire l’ordine terreno agendo come se Dio

non esistesse. JUAN MARÍA LABOA, La Chiesa e la modernità. II. I Papi del Novecento, in Complementi alla Storia

della Chiesa diretta da Hubert Jedin, 1 ed., Milano, 2001. Cf. L. SALVATORELLI, La Chiesa e il mondo, Roma, 1987,

172 ss.; O. ROUSSEAU, La regalità in Cristo, in Concilium, II (1966), 150-156. 15

Cf. R. AUBERT, Il mezzo secolo che ha preparato il Vaticano II, 24-25; M. PAIANO, Liturgia e società nel Novecento:

percorsi del movimento liturgico di fronte ai processi di secolarizzazione, Roma, 2000. 16

«Il nazionalismo ha assunto forme diverse nei vari paesi, ma un pò dovunque ha trasformato l’amor di patria nel culto

idolatrico della patria, che chiude lo Stato in un’autarchia spirituale e materiale, considera utopia la coesistenza pacifica,

fomenta il disprezzo per gli altri popoli, acuisce pericolosamente le questioni di prestigio, tende a regolare la politica

internazionale sulla base della violenza. Sul Nazionalismo del primo Novecento, che costituì uno dei fattori principali

del primo conflitto mondiale, si innestò nel ventennio successivo il totalitarismo». G. MARTINA, La Chiesa, 708. 17

«In Germania, le aspirazioni di una giovinezza spinta all’idealismo nonché a forme di vita più comunitarie giocavano

in favore del cattolicesimo, d’altra parte solidamente impiantato nelle amministrazioni pubbliche grazie al potente

partito del centro, divenuto uno dei pilastri della Repubblica di Weimar. In Italia, il Fascismo, al potere dopo il 1922,

nonostante sporadiche manifestazioni d’anticlericalismo a livello locale, pareva potesse offrire un quadro più propizio

alla vita cristiana rispetto allo Stato liberale borghese dell’anteguerra […]. Bisogna d’altra parte riconoscere che i

regimi fascisti che si svilupparono in Europa tra le due guerre presentavano taluni aspetti che non potevano dispiacere

alla Chiesa: erano fondati sull’idea di autorità, di ordine, di gerarchia, auspicavano una organizzazione corporativa della

società, onoravano la famiglia. Attaccavano la Massoneria e il Comunismo». R. AUBERT, Il mezzo secolo che ha

preparato il Vaticano II, 25, 32-33.

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del mondo del lavoro, che vedeva nella collaborazione tra i gruppi sociali, imposta dall’alto in vista

del bene comune, la soluzione ai conflitti economici e normativi nelle relazioni industriali»18

.

L’incontro privilegiato tra tali movimenti di estrema destra con i vertici della gerarchia

ecclesiastica si ottenne quando entrambe queste parti videro nel Comunismo un nemico comune19

.

A testimonianza di ciò si pensi all’enciclica “Divini redemptoris” (1937)20

di Pio XI, volta a

condannare il Comunismo, in quanto ritenuto intrinsecamente perverso21

. Tale incontro, però, non

deve indurre nell’errore di assimilare il pensiero cattolico con i movimenti nazionalisti, ma deve

solo far comprendere l’innegabile contatto che la Chiesa – nel suo intento di ristabilire una società

teocratica22

– stabilì con i diversi regimi ormai esistenti, proprio perché più si conciliavano con

l’idea, secondo cui lo Stato non poteva essere laico, cioè a-religioso o ateo23

. Se questa fu la linea

generale, non si deve tacere, però, l’esistenza di correnti di pensiero (minoritarie e per di più

ostacolate dai vertici della gerarchia ecclesiastica), all’interno della cristianità, che non

rinunciavano a credere nei valori liberal-democratici, e, pertanto, si pensi al pensiero politico-

filosofico iniziato con J. Maritain, si pensi all’area anglofona, legata ai valori democratici propri

della vita di quei paesi24

.

Se da un lato, è possibile notare che, già con Pio XI, si iniziarono azioni indirette contro le

ideologie dei regimi25

, si deve, dall’altro, comunque considerare che anche con il pontificato di Pio

18

G. FILORAMO – D. MENOZZI, Storia, 200. 19

«L’elezione di Pio XI (Achille Ratti, febbraio 1922 – febbraio 1939) è di poco anteriore all’avvento del Fascismo al

potere (ottobre 1922) […]. Per la sua profonda avversione al Liberalismo, in cui scorgeva soprattutto la tendenza

laicizzatrice, irriducibilmente ostile a un riconoscimento di quanto egli riteneva diritti propri della Chiesa, per la

fortissima opposizione al marxismo, di cui, come nunzio a Varsavia, aveva conosciuto da vicino il pericolo, per il suo

carattere fondamentalmente autoritario, Pio XI fu indotto ad assumere un atteggiamento di cauto ottimismo verso il

nuovo regime, che dal suo canto, velando il suo carattere sostanzialmente anticristiano, andava moltiplicando le sue

proteste teoriche e pratiche di ossequio alla religione e alla Chiesa». G. MARTINA, La Chiesa, 726-727. 20

PIUS PP. XI, Litteræ encyclicæ: Divini redemptoris, 19 martii 1937, in AAS, XXIX, (1937), 65-106. 21

Cf. R. AUBERT, Il mezzo secolo che ha preparato il Vaticano II, 33-34. 22

«Con il nuovo totalitarismo, superiore a quello napoleonico per la teoria e per la prassi, si ripetè un analogo

comportamento. Da una parte, Roma mostrò una certa acquiescenza davanti alla situazione di fatto, tentò di salvare il

salvabile, arginando il totalitarismo con strumenti giuridici di effetto incerto e di indubbio prestigio per le dittature, a

costo di sacrificare forze ad essa fedeli e di chiara ispirazione cristiana: in alcuni casi, essa pensò addirittura di potersi

servire dello Stato autoritario per tentare ancora una volta la realizzazione di un ordine cristiano». G. MARTINA, La

Chiesa, 751. 23

Si pensi al concordato stipulato tra Chiesa e regime fascista del 1929, meglio conosciuto col nome di Patti lateranensi,

al concordato stipulato con la Spagna di F. Franco (1953), ancora, si pensi al concordato con il regime nazista di A.

Hitler (1933). Cf. ivi, 726-742. 24

«Pio XI definì il concordato del ’29 come uno dei migliori, se non proprio il migliore, fra i concordati stipulati dalla

Chiesa […]. Contro questa interpretazione si sollevarono fin dal 1929, come abbiamo accennato, liberali, socialisti e

cattolici di sinistra, con severe critiche sia alla soluzione concordataria in sé stessa, che, se per i laicisti costituisce un

tradimento della vera sovranità statale, che rinunzia a prerogative imprescrittibili inerenti alla sua autorità (fra l’altro,

nella giurisdizione matrimoniale), per questi cattolici mette fatalmente l’accento sull’elemento giuridico della Chiesa,

presentandola davanti allo Stato da pari a pari, cioè come una potenza fondata su mezzi e strutture umane, e difesa da

queste anziché dalla grazia e dall’efficacia della verità». Ivi, 732. 25

Si pensi all’enciclica Mit brennender Sorge (1937), con la quale, nella seconda parte il Pontefice: «Pio XI ribadisce le

fondamentali verità del cattolicesimo, che il Nazismo negava o interpretava ambiguamente, condannando le tendenze

panteistiche, la divinizzazione della razza, del popolo, del capo dello Stato, l’ostilità verso l’Antico Testamento, il

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XII (1939-1958) si cercò di stabilire un compromesso con i regimi, con i quali – in fondo – ancora

si condivideva il modo di concepire la società26

:

«tuttavia l’avvento di Pio XII riconduce il papato ad una linea volta a cercare un accomodamento colle

autorità tedesche, anche perché su tale posizione si riconosce la maggioranza dell’episcopato

germanico. Non cadono certo distinzioni, ripulse e condanne delle persecuzioni subite dai cattolici; ma

vi è la convinzione che, come sostiene “La civiltà cattolica”, sulle concezioni che il regime esprime in

accordo col cristianesimo – amor patrio contro internazionalismo comunista, principio d’autorità

contro liberalismo democratico, potenziamento della Nazione – si possa trovare un accordo»27

.

Durante la seconda guerra mondiale, la linea assunta dalla curia romana, con a capo il

Pontefice, fu quella del silenzio; sappiamo, però, che il silenzio del Papa su ciò che si andava

consumando ad opera dei regimi, al di là dei motivi politici-religiosi, dipendeva anche dal pensiero

della linea intransigente assunta, secondo la quale la Chiesa – semplice testimone – assisteva alla

maturazione di un frutto che aveva le sue radici nella secolarizzazione, iniziata già col

Protestantesimo28

.

La Chiesa, anche in seguito al secondo conflitto mondiale, si fece portatrice di una linea

intransigente verso i modelli di società che si andavano delineando in ambiti laicisti29

, affermando

senza timore che, la riedificazione dell’umana società sarebbe stata possibile solo attraverso la

guida e la direzione della gerarchia ecclesiale, questa volta però – anche perché il conflitto si

concludeva con la vittoria degli alleati – attraverso lo strumento della democrazia, a patto che

quest’ultima risultasse cristiana. All’interno di questa democrazia cristiana, non venne meno la

guerra contro il movimento comunista, presentato dalla Chiesa come incompatibile e contrario sia

alla libertà che alla civiltà democratica30

.

In campo politico, la fine della guerra venne a coincidere con la formazione di due blocchi

contrapposti tra loro: il blocco comunista e il blocco democratico. La guerra fredda, vide la Chiesa

alleata al blocco democratico, per l’intento comune, condiviso, di lottare e di abbattere il

Comunismo. Tuttavia, Pio XII non mancò di mostrare la linea intransigente anche verso il blocco

rifiuto di una morale oggettiva universale e di un diritto naturale». Ivi, 749; cf. R. AUBERT, Il mezzo secolo che ha

preparato il Vaticano II, 34. 26

«Pio XII, appena eletto Papa, si consultò con i Cardinali tedeschi presenti al conclave, e d’accordo con loro, tentò un

approccio distensivo, con una lettera personale ad Hitler, rimasta in realtà senza molta efficacia». G. MARTINA, La

Chiesa, 750. 27

G. FILORAMO – D. MENOZZI, Storia, 206. 28

Sulla questione relativa alla posizione della Chiesa in riferimento alla seconda guerra mondiale e le relative

motivazioni che la storiografia cerca di indicare, si veda: R. AUBERT, Il mezzo secolo che ha preparato il Vaticano II,

38-47; G. MARTINA, La Chiesa, 703-758. 29

«All’acquiescenza e alle speranze dei regimi autoritari si sostituì presto la ferma e persistente condanna di Pio XI, di

Pio XII, della gerarchia tedesca, la resistenza dei cattolici tedeschi, clero e laicato, spesso decisa, talora eroica fino al

martirio. Quando la persecuzione minacciò direttamente la fedeltà dei cattolici alla Chiesa, la fede prevalse su ogni altro

sentimento». Ivi, 752. 30

Cf. G. FILORAMO – D. MENOZZI, Storia, 210-211.

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occidentale, respingendo il modello di vita americano – e, con esso, i suoi pretesi ʻvaloriʼ – in

quanto veicolatore di una mentalità secolarizzante, specie in campo politico-economico31

.

Anche in questo periodo, come nel passato, il rilancio di una visione politica cristiana

avvenne su un piano diverso, quello della fede. Lo strumento attraverso cui il Pontefice fece

giungere alla civiltà occidentale, il messaggio che, la ricostruzione o edificazione della società non

poteva fare a meno della cristianità, fu la fede32

. È da vedersi (anche) in quest’ottica, sia la

proclamazione del dogma dell’assunzione di Maria Vergine al cielo in corpo ed anima (1950), sia

l’istituzione della festa liturgica in onore della regalità di Maria (1954)33, sia l’incoraggiamento

della devozione al Sacro Cuore attraverso l’enciclica “Haurietis aquas” (1956)34

.

Il pontificato di Pio XII passò alla storia anche per il consolidarsi di una ecclesiologia di

stampo societario e giuridico35

, che ristabilì quella linea di intransigenza verso la rinascita di un

modernismo, che stavolta però riguardava le stesse scienze ecclesiastiche36

.

Senza entrare nel merito della questione storica causata da due contrapposti modi di vedere il

pontificato di Giovanni XXIII e il Concilio da lui convocato37

, si può sostenere che con il

pontificato di Papa Giovanni XXIII (1958-1963) si produsse un cambiamento importante nella vita

della Chiesa38

. Egli si mostrò preoccupato più dell’aspetto pastorale, che di quello politico, e questo

causò, il conseguente abbandono di una visione di Chiesa capace di vedere, nel mondo, solo il

mezzo per ottenere privilegi, vantaggi o poteri, e, l’assunzione di una visione di Chiesa capace di

porsi al servizio del mondo39

. In questo senso è da vedersi la posizione che la Chiesa assunse con

31

Cf. R. AUBERT, Il mezzo secolo che ha preparato il Vaticano II, 42-43; G. MARTINA, La Chiesa, 703-758; G.

FILORAMO – D. MENOZZI, Storia del cristianesimo. L’età contemporanea, 212. 32

«Essi erano animati da una doppia preoccupazione: mettere alla base del movimento un pensiero teologico nutrito alle

sorgenti bibliche tradizionali e rispondere ai problemi posti dalla scristianizzazione delle masse, che taluni liturgisti,

troppo presi dall’archeologia, tendevano a perdere di vista». R. AUBERT, Il mezzo secolo che ha preparato il Vaticano

II, 94. Cf. M. PAIANO, Liturgia e società nel Novecento: percorsi del movimento liturgico di fronte ai processi di

secolarizzazione, Roma, 2000. 33

Cf. R. AUBERT, Il mezzo secolo che ha preparato il Vaticano II, 90-92. 34

PIUS PP. XII, Litteræ encyclicæ: Haurietis aquas, 15 maii 1956, in AAS, XXXXVIII (1956), 309-353. 35

Si pensi all’enciclica Mistici corporis e all’enciclica Humani generis. 36

«Se il pontificato di Pio XII sembrava concretizzare le conseguenze radicali dei principi di una monarchia assoluta

religiosa, consacrati dal Concilio Vaticano I, i suoi successori operano piuttosto in una direzione ispirata al

conciliarismo, in cui la collegialità episcopale inquadra e prolunga l’azione del papa». R. AUBERT, Il mezzo secolo che

ha preparato il Vaticano II, 213-214. 37

Da un lato chi pensa finalmente alla estinzione della linea intransigente, dall’altro chi, invece, ritiene che il Concilio

continui – seppur in forme più libere e non dettate da una forma di reazione – a sostenere una linea intransigente (che

non dipende, questa volta da una reazione, ma dalla comprensione e consapevolezza che Cristo è l’unico salvatore del

mondo, consapevolezza propria dell’età apostolica). Cf. G. CAPRILE, Il Concilio Vaticano II, I/1, Roma, 1965-1969, 51. 38

«Un mese dopo la morte di Pio XII e l’elezione di Giovanni XXIII si aprì un periodo di distensione nella cristianità

soprattutto tra l’Ortodossia e il Cattolicesimo romano, e l’annuncio, avvenuto il 25 gennaio 1959, della riunione di un

concilio cattolico avrebbe dato l’avvio a tutto un movimento di idee e iniziative, di cui siamo ancora ben lontani

dall’aver fatto il censimento e la storia completa». R. AUBERT, Il mezzo secolo che ha preparato il Vaticano II, 224. 39

«In occasione della Solennità dei SS. Apostoli Pietro e Paolo, il 29 giugno 1959, Giovanni XXIII emana la sua prima

lettera enciclica, Ad Petri Cathedram, attraverso la quale mostra la sua convinzione e cioè che “la verità, l’unità e la

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l’enciclica “Pacem in terris” (1963)40

, la quale aveva come intento, appunto, quello di rasserenare

gli animi – di entrambe le parti – accesi in occasione della crisi cubana del 196241

. La Chiesa

andava ricomprendendo il suo ruolo di accompagnatrice del mondo; questo ruolo era, ormai,

incompatibile con le tesi che ammettevano la plausibilità di una guerra giusta42

.

Senza dubbio, il merito più importante di Giovanni XXIII, fu quello di convocare la Chiesa a

riflessione, tramite un Concilio ecumenico. Nel 1962, attraverso l’allocuzione “Gaudet mater

Ecclesia”43, diede avvio al Concilio Vaticano II. L’allocuzione non prevedeva un preciso ordine del

giorno ma esprimeva alcune linee generali di pensiero che avrebbero potuto portare la Chiesa a

ritrovare un rinnovato vigore.

«Occorre che questa dottrina certa ed immutabile, alla quale si deve prestare un assenso fedele, sia

approfondita ed esposta secondo quanto è richiesto dai nostri tempi. Altro è infatti il deposito della

Fede, cioè le verità che sono contenute nella nostra veneranda dottrina, altro è il modo con il quale

esse sono annunziate, sempre però nello stesso senso e nella stessa accezione»44

.

La linea che si tentò di sostenere aveva l’intento, di far cessare il pensiero – caratterizzante

fino ad allora, i vertici della Chiesa – che vedeva in tutto ciò che era moderno, un nemico da

abbattere, e, di sottolineare il fatto che la stessa modernità, ripensata con occhi liberi da pressioni

interne ed esterne, costituiva la sola possibilità di proseguire, nell’ottica della continuità, l’unica

missione della Chiesa: annunciare a tutti i popoli Gesù Cristo, morto e risorto per la salvezza

dell’uomo45

.

Le linee e i desideri espressi dal Pontefice, non furono subito, né capiti (forse) né accettati

dall’ambiente riconducibile alla curia romana. La maggioranza dei Padri conciliari, provenienti da

tutto il mondo, però, si orientò verso la neutralizzazione della linea conservatrice e romanocentrica

e questo determinò, tra Giovanni XXIII e la maggioranza dei padri conciliari, una buona sintonia di

intenti46

.

pace” saranno gli argomenti che costituiranno l’oggetto della sua più alta preoccupazione pastorale, beni “da conseguire

e promuovere secondo lo spirito della carità cristiana”, e questo il Papa pensa che “sia particolarmente richiesto dal

nostro apostolico mandato”». G. SEMBENI, Direttorio ecumenico 1993: sviluppo dottrinale e disciplinare, Roma, 1997,

34. 40

IOANNES PP. XXIII, Litteræ encyclicæ: Pacem in terris, 11 aprilis 1963, in AAS, LV (1963), 297-304. 41

Cf. R. AUBERT, Il mezzo secolo che ha preparato il Vaticano II, 51. 42

«Giovanni XXIII ha francamente rinunciato alla nostalgia di cui i suoi predecessori non erano riusciti a liberarsi

completamente, di una cristianità di tipo medioevale in cui la concordia tra le Nazioni risultasse da una comune

obbedienza alle sollecitazioni venute dal Vaticano». Ivi, 51-52. 43

IOANNES PP. XXIII, Allocutio: Gaudet Mater Ecclesia, 11 octobris 1962, in AAS, LIV (1962), 786-795. 44

Ivi, 787. 45

Giovanni XXIII «restava effettivamente fedele alla linea di condotta, piuttosto sconcertante, che l’aveva ispirato

durante la sua nunziatura in Francia: “metà giro a destra, metà giro a sinistra”. Se egli infatti dava certe soddisfazioni

agli ambienti reazionari, peraltro spesso con aria disincantata, come durante la firma del decreto Veterum sapientia, che

ribadiva l’uso del latino, nello stesso tempo prendeva varie iniziative che andavano nel senso opposto». R. AUBERT, Il

mezzo secolo che ha preparato il Vaticano II, 50. 46

Cf. ivi, 49-52, 228-235, 308-311.

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«Di fatto, fin dall’inizio, ma sempre più a mano a mano che il concilio procedeva, la maggior parte dei

Padri si divise in due raggruppamenti abitualmente definiti la maggioranza e la minoranza. La prima

era lontana dal formare un gruppo monolitico e le differenze di temperamento, di formazione teologica

e di interessi provocarono a varie riprese delle divisioni al suo interno, ma incoraggiata dalla

consapevolezza di essere nella linea voluta da Giovanni XXIII, essa fu soprattutto sensibile alle realtà

del mondo e alle necessità dell’adattamento, aperta al dialogo ecumenico, di cui molti fecero la

scoperta nel corso del concilio, con preferenze per una teologia pastorale radicata nella Scrittura, più

preoccupata dell’efficacia concreta delle decisioni da prendere che delle precisazioni dottrinali, e

generalmente diffidente nei confronti di una eccessiva centralizzazione dell’autorità nella Chiesa. La

seconda […], era attaccata soprattutto alla stabilità della Chiesa e al suo carattere monarchico,

sensibile ai rischi inerenti ad ogni cambiamento e assai preoccupata alla salvaguardia del deposito

integrale della fede, ma con tendenza a confondere la formulazione dogmatica con la rivelazione

stessa»47

.

Mentre Giovanni XXIII poteva essere considerato l’anima, o, la “mente” ispiratrice del

Concilio – lasciando libera l’assemblea di svilupparsi – il suo successore, appartenente all’area

maggioritaria, possiamo definirlo il “braccio” del Concilio: infatti, egli dovette intervenire

personalmente per neutralizzare le manovre – capeggiate dalla minoranza conservatrice ed

intransigente – volte a far interrompere il Concilio48

.

Paolo VI (1963-1978), credendo nel ruolo del primato petrino (così come espresso dal

Concilio Vaticano I), non mancò di intervenire in modo diretto; a tal proposito si rammentano la

decisione di avocare a sé la soluzione di questioni importanti come la riforma della Curia romana49

,

la questione relativa al celibato ecclesiastico50

, la regolazione delle nascite51

.

Senza entrare nel merito dei passaggi che portarono allo sviluppo e alla conclusione

dell’assise conciliare52

, è necessario, in questa sede, ricordare i suoi numerosi e copiosi frutti che,

non finirono con la conclusione del Concilio: tra di essi, il Codice dell’ʼ83 potrà, a ragione, definirsi

come l’ultimo frutto del Concilio, anzi, si potrà dire che il Codice esprime, attraverso un linguaggio

particolare, cioè quello giuridico, il Concilio stesso53

.

Il Concilio produsse quattro Costituzioni: “Sacrosanctum Concilium” sulla liturgia (4

dicembre 1963)54

che le ridava il suo senso comunitario, richiamando alla partecipazione attiva di

47

Ivi, 309. 48

Cf. PAULUS PP. VI, Discorso di apertura della seconda sessione conciliare del 29 settembre 1963, 29 settembre 1963,

in AAS, LV (1963), 842-859. 49

PAULUS PP. VI, Constitutio Apostolica: Regimini ecclesiae universae, 15 augusti 1967, in AAS, LXXIX (1967), 885-

928. 50

PAULUS PP. VI, Litteræ encyclicæ: Sacerdotalis coelibatus, 24 iunii 1967, in AAS, LIX (1967), 657-697. 51

PAULUS PP. VI, Litteræ encyclicæ: Humanae vitae, 25 iulii 1968, in AAS, LX (1968), 481-503. 52

Sul punto si cf. R. AUBERT, Il mezzo secolo che ha preparato il Vaticano II, 303-318; G. CAPRILE, Il Concilio

Vaticano II, VI, Roma, 1965-1969; R. LA VALLE, Coraggio del Concilio, Brescia, 1964; A. WENGER, Vatican II, IV,

Paris, 1963-1966; J. RATZINGER, Problemi e risultati del Concilio Vaticano II, [trad. it.], Brescia, 1967. 53

IOANNES PAULUS PP. II, Allocutio: Portate, 124-125. 54

CONCILIUM ŒCUMENICUM VATICANUM II, Constitutio de Sacra Liturgia: Sacrosanctum concilium, 4 decembris 1963,

in AAS, LVI (1964), 97-138.

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tutti i fedeli; “Lumen Gentium” (16 novembre 1964)55

che definiva la Chiesa come Popolo di Dio in

cammino verso il Regno; “Dei verbum” (18 novembre 1965)56

che restituiva alla Chiesa la Scrittura

quale centro e fondamento della vita ecclesiale; “Gaudium et Spes” sulla Chiesa nel mondo

contemporaneo (7 dicembre 1965)57

con cui la Chiesa prendeva le distanze dalla linea intransigente,

espressione della visione ecclesiologica ierocratica; nove Decreti58

e tre Dichiarazioni59

.

In seguito al Concilio, la questione che la Chiesa dovette affrontare fu quella relativa alla

recezione e al grado di obbligatorietà che i diversi documenti prodotti, dovevano occupare. Questo

momento storico, non fu senza lacerazioni per la Chiesa, basti pensare, allo scisma prodotto dalla

corrente conservatrice guidata da mons. Lefebvre e, alle problematiche che l’ala a lui opposta, ossia

l’ala progressista, andò consumando attraverso una concezione spiritualista del messaggio

evangelico60

.

In seno al dibattito, scaturito dal diverso modo di recepire il Concilio, Paolo VI assunse una

linea chiara, tale da rifiutare ogni estremismo: egli combatté sia l’ala conservatrice che l’ala

progressista, presentando le opere prodotte dal Concilio in continuità alla Tradizione e aperte ad un

rinnovamento sereno.

Dopo il pontificato lampo di Giovanni Paolo I, durato 33 giorni, Giovanni Paolo II (1978-

2005), nel dibattito sulla recezione dei testi del Concilio, mantenne la posizione del suo

predecessore: i testi del Concilio erano fondamentali, sì, ma andavano letti e interpretati alla luce

della sacra Tradizione. La recezione del Concilio impegnò molto sia il pontificato di Paolo VI che

quello di Giovanni Paolo II, anche perché, a differenza di quanto avvenne per il Concilio di Trento,

la recezione del Concilio Vaticano II fu più creativa e differenziata. Non mancarono però azioni

volte a controllare tale recezione del Concilio, e, in questo senso, devono vedersi taluni interventi:

la formulazione di un “Credo” (1968)61

, il progetto – non portato a termine – di una “Lex ecclesiae

55

Cf. CONCILIUM ŒCUMENICUM VATICANUM II, Lumen Gentium, 5-71. 56

Cf. CONCILIUM ŒCUMENICUM VATICANUM II, Constitutio dogmatica de Divina Revelatione: Dei Verbum, 18

novembris 1965, in AAS, LVIII (1966), 817-835. 57

Cf. CONCILIUM ŒCUMENICUM VATICANUM II, Constitutio Pastoralis Gaudium et spes, 7 decembris 1965, in AAS,

LVIII (1966), 1025-1120. 58

Ad Gentes (7 dicembre 1965), Presbyterorum Ordinis (7 dicembre 1965), Apostolicam Actositate (18 novembre

1965), Optatam Totius (28 ottobre 1965), Perfectae Caritatis (28 ottobre 1965), Christus Dominus (28 ottobre 1965),

Unitatis Redintegratio (21 novembre 1964), Orientalium Ecclesiarum (21 novembre 1964), Inter Mirifica (4 dicembre

1963). 59

Gravissimum Educationis (28 ottobre 1965), Nostra Aetate (28 ottobre 1965), Dignitatis Humanae (7 dicembre

1965). 60

Cf. G. ROUTHIER, Il Concilio Vaticano II: recezione ed ermeneutica, Milano, 2007, in particolare 133-164. 61

PAULUS PP. VI, Solemnis Professio Fidei, 10 augusti 1968, in AAS, LX (1968), 433-455.

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fundamentalis”62, la promulgazione del Codice dell’’83

63, la promulgazione del “Catechismo della

Chiesa cattolica”(1992)64

.

3.2 IL CODEX IURIS CANONICI

Come risulta dal precedente prospetto storico, il tempo che trascorse tra la promulgazione del

Codice del 1917 e la sua abrogazione, avvenuta con il Codice dell’ʼ83, anche se molto breve, bastò

a far mutare notevolmente il pensiero della Chiesa, sotto molteplici punti di vista. Per cui, sia le

condizioni esterne alla Chiesa, sia le spinte interne alla stessa, produssero il bisogno di una nuova –

anche se molti ritenevano il Codice del 1917 non una riforma ma una sistematizzazione e

ordinazione del materiale giuridico precedente – riforma delle leggi canoniche65

.

Questa esigenza fu sentita già da Giovanni XXIII, il quale, il 25 gennaio del 1959, in

occasione dell’annuncio del Sinodo Romano e del Concilio Vaticano II, annunciava che, a questi

avvenimenti, e, da essi dipendenti, sarebbe iniziata l’opera di riforma del Codice pio-benedettino66

.

«Venerabili fratelli e Diletti figli nostri! Pronunciamo innanzi a voi, certo tremando un poco di

commozione, ma insieme con umile risolutezza di proposito, il nome e la proposta della duplice

celebrazione: di un Sinodo Diocesano per l’Urbe, e di un Concilio Ecumenico per la Chiesa

universale. Per voi, Venerabili Fratelli e Diletti Figli Nostri, non occorrono illustrazioni copiose circa

la significazione storica e giuridica di queste due proposte. Esse condurranno felicemente all’auspicato

ed atteso aggiornamento del Codice di Diritto canonico, che dovrebbe accompagnare e coronare questi

due saggi di pratica applicazione dei provvedimenti di ecclesiastica Disciplina che lo Spirito del

Signore Ci verrà suggerendo lungo la via»67

.

62

Cf. PONTIFICIA COMMISSIO CODICI IURIS CANONICI RECOGNOSCENDO, Schema legis ecclesiae fundamentalis textus

emendatus cum relatione de ipso schemate deque emendationibus receptis, Typis Poliglottys Vaticanis, 1971;

Communicationes, I (1969), 36; P. FEDELE, Lex Ecclesiae Funtamentalis, in Studia et documenta iuris canonici, Roma,

1974; P. GHERRI, Lezioni di Teologia, 280-282. 63

IOANNES PAULUS PP. II, Const. Ap. Sacrae disciplinae leges qua Codex Iuris Canonici recognitus promulgatur, 25

ianuarii 1983, in AAS, LXXV (1983), VII-XIV. 64

Catechismo della Chiesa Cattolica, Città del Vaticano, 1992. 65

«Mentre il Codice pio-benedettino aveva “solo” raccolto ed organizzato la normativa precedente, mantenendola di

fatto in vigore anche se in una veste maggiormente razionalizzata ed organica – realizzando una consolidatio iuris

antiqui –, il nuovo Codice si pone completamente fuori da questa prospettiva, creando autentico jus novum e

marginalizzando la portata di quello vetus». P. GHERRI, Lezioni di Teologia, 269. 66

Sui motivi strettamente giuridici, giuridico-ecclesiologici e storici che resero necessaria la riforma dell’Ordinamento

canonico: cf. J. HERRANZ, Studi, 4-8. 67

IOANNES PP. XXIII, Allocutio: Ad em.os patres Cardinales in urbe praesentes habita, die XXV ianuarii anno

MCMLIX, in coenobio monachorum benedictionorum ad S. Pauli extra moenia, post Missarum sollemnia, quibus

beatissimus Pater in patriarchali basilica ostiensi interfuerat, 25 ianuarii 1959, in AAS, LI (1959), 69.

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La prima commissione per tale riforma, fu costituita il 28 marzo 196368

e sospesa, però, il 12

novembre dello stesso anno per l’esigenza, largamente condivisa dalla maggioranza della

commissione stessa, di attendere la fine del Concilio69

.

«Sodales, post aliquam discussionem, convenerunt cum Praeside, Card. Ciriaci, formales labors

recognitionis Codici differendos esse post conclusionem Concilii Vaticani II, attamen initium dari

posse modo private laboribus praeparatoriis»70

.

Con il pontificato di Paolo VI la commissione per la revisione del Codice, già formata dal suo

predecessore, fu incrementata nel 1964 da settanta consultori, provenienti dalle diverse aree

geografiche del pianeta71

. Nel 1967, in seguito alla morte del Card. Ciriaci, fu nominato presidente

l’Arcivescovo Pericle Felici a cui successe D. Rosalio Castillo Lara72

. Fu l’Arcivescovo Felici,

presidente della prima sessione plenaria, a sottoporre all’attenzione dei membri della commissione,

il 6 maggio del ʼ65, alcune questioni importanti:

«1) la redazione congiunta o disgiunta dei Codici latino ed orientale, presupposta la “Lex Ecclesiæ

Fundamentalis” come Diritto comune ad entrambi;

2) l’individuazione del metodo di lavoro per la Pont. Commissione di Revisione;

3) la divisione della materia da revisionare e la sua assegnazione ai singoli Gruppi di studio da

costituire»73

.

Con la sessione del 20 novembre 1965, in presenza di Papa Paolo VI, si inaugurarono i lavori

di revisione del Codice; in quella occasione, l’allocuzione74

del Pontefice chiarì alcune idee che

avrebbero dovuto guidare i lavori: si pensi alla questione sulla natura del Codice che doveva

tradurre la natura della Chiesa75

, ovverosia, rispecchiare la potestà di giurisdizione ricevuta dallo

stesso Gesù Cristo; alla questione riguardante il fine della legislazione canonica, che doveva

facilitare la cura delle anime e la loro salvezza; o ancora, alla questione relativa alla necessità

68

PONTIFICIA COMMISSIO CODICI IURIS CANONICI RECOGNOSCENDO, Codex Iuris Canonici, Schema Patribus

Commissionis reservatum, Città del Vaticano, 1980. 69

Cf. Communicationes, I (1969), 36. 70

Ibidem. 71

«Il 17 aprile 1964 Papa Paolo VI affiancò alla Commissione cardinalizia un Corpo di 70 Consultori tra cui la maggior

parte dei Segretari delle Commissioni conciliari e vari Periti in Diritto canonico, Teologia, Sociologia ed altre

Discipline, tecniche e scientifiche, giudicate ‘utili’ all’opera da svolgersi. Furono inoltre instaurate relazioni informative

tra le Segreterie della Pont. Commissione e quella del Concilio per permettere alla Commissione stessa la conoscenza

della sostanzialità del dibattito conciliare, al di là di quanto formalmente stabilito nei diversi Documenti promulgati dal

Vaticano II». P. GHERRI, Elementi e Storia della revisione codiciale. Appunti per gli studenti del seminario “Indice

ermeneutico della revisione codiciale”, Roma, A.A. 2008-2009, secondo incontro, 3. 72

Cf. J. HERRANZ, Studi, 4-36. 73

P. GHERRI, Elementi e Storia della revisione codiciale, 3. 74

PAULUS PP. VI, Allocutio: die 20 novembris 1965 habita ad Emos Patres Cardinale set ad Consultores Pontificii

Consilii Codici iuris canonici recognoscendo, 20 novembris 1965, in AAS, LVII (1965), 985-989. 75

«L’opera di codificazione del 1983 doveva, quindi, prendere le mosse da una riflessione approfondita sulla natura e

sulla vita della Chiesa, delle quali il diritto costituisce una dimensione intrinseca: un passo avanti in questo cammino fu

la redazione dei Principia, nei quali si cercò di cogliere quegli aspetti dotati di una dimensione giuridica che apparivano

più salienti nell’ecclesiologia conciliare». J. L. GUTIÉRREZ, La formazione dei principi per la riforma del CIC, 26-27.

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dell’esistenza stessa del Diritto canonico76

. Questo processo doveva, da un lato, condurre ad una

riforma delle norme, adattandole alla mentalità del tempo, dall’altro, essere l’espressione autentica

(lo specchio) del Concilio77

.

«Codicis Iuris canonici recognitio non esse potest sola emendatio prioris quatenus res in aptum

ordinem rediguntur, iis additis, quae inducenda visa sunt, atque iis omissis, quae non amplius vigent,

sed instrumentum vitae Ecclesiae quam maxime accomodatum post celebratum Concilium Vaticanum

II evadat oportet»78

.

L’opera di riforma richiedeva, anche per l’immane lavoro e la presenza di molteplici menti,

che si chiarissero i principi a cui la revisione si sarebbe dovuta ispirare, e, a cui tutti si sarebbero

dovuti attenere79

. Nell’ottobre del 1967 fu presentato, all’Assemblea Generale del Sinodo dei

Vescovi, un documento che aprì la questione sui principia. L’Assemblea dopo un’attenta verifica

approvò i seguenti principi80

:

1) il mantenimento della giuridicità del Codice e la definizione dei diritti ed obblighi di

ciascuno;

2) eliminare i conflitti esistenti tra il foro interno e il foro esterno;

3) che alla giustizia sia affiancata l’equità canonica;

4) risulti chiara l’unicità dell’opera del Papa e dei Vescovi relativa alla cura d’anime, in

questo senso appaia più positivo l’ufficio dei Pastori;

5) si osservi il principio di sussidiarietà;

6) definire e tutelare i diritti di tutti i fedeli;

7) ordinare la procedura che riguarda la tutela dei diritti soggettivi e la necessaria

distinzione degli uffici della potestà ecclesiastica;

8) la porzione del popolo di Dio da governare risulti, in via generale e non esclusivo,

delimitarsi dal criterio territoriale;

9) le pene siano generalmente ferendae sententiae e siano ridotte al minimo le pene latae

sententiae;

10) la sistematica del nuovo codice può essere approntata, ma non in via definitiva,

quest’ultima avverrà alla fine della revisione delle singole parti.

76

Communicationes, I (1969), 36. 77

Cf. P. V. PINTO (a cura di), Commento al Codice di Diritto canonico, Città del Vaticano, 2001, XXXVII-LIV. 78

Communicationes, IX (1977), 24. 79

Per un’analitica e sintetica visione delle fasi della revisione codiciale si veda P. GHERRI, Elementi e Storia della

revisione codiciale, 3-7. 80

Cf. Communicationes, I (1969), 77-85.

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L’opera di riforma, attuata dalla Commissione appositamente istituita, non si limitò a

coinvolgere l’episcopato mondiale (attraverso voti e suggerimenti) ma, si spinse fino al punto di

chiedere ad esso, nomi di periti in diritto canonico, che si distinguessero per dottrina o per speciale

perizia, da segnalare alla Segreteria della Commissione medesima 81

.

Le prime questioni, che gli illustrissimi prelati dovettero affrontare, furono presentate già

prima della conclusione del Concilio; le questioni vertevano: sulla scelta di realizzare uno o due

codici (latino e orientale), su quale fosse l’ordine secondo cui i lavori si sarebbero dovuti svolgere,

e, sulla individuazione dei criteri in base ai quali risultava possibile, la divisione dei lavori da

affidare alle Sottocommissioni82

.

L’opera della Commissione83

fu immane, e, le scelte compiutesi furono diverse, si pensi alla

scelta di non inserire nel Codice le norme liturgiche, le norme circa i processi di beatificazione, e

neppure le norme con cui la Chiesa si sarebbe dovuta relazionare ad extra; o ancora, alla scelta

unanime di inserire tra le norme riguardanti il Popolo di Dio, uno statuto proprio di tutti i fedeli,

trattando, a parte, le potestà e facoltà inerenti a ciascun ufficio o incarico; si pensi alla delicata

scelta di non conservare in modo pedissequo lo schema della codificazione precedente.

Attraverso il certosino lavoro delle sottocommissioni, durato più di sedici anni, si produssero

alcuni schemi, che attraverso una specifica e singolare relazione di presentazione, venivano inviati

al Pontefice84

; quest’ultimo, decideva se gli schemi necessitavano di nuove consultazioni o

potevano essere inviati all’esame dell’intero Episcopato, e, a coloro che svolgevano per questa

occasione, un’opera di consultazione (i Dicasteri della Curia Romana, alcune Università e Facoltà

ecclesiastiche ecc.); a loro volta, questi “organi consultivi” si impegnavano ad esprimere il proprio

parere85. L’apporto proveniente dall’Episcopato mondiale fu notevole, non solo come consistenza,

ma fu decisivo, altresì, per l’intento di far recepire al Codice un carattere propriamente pastorale

(tipico del Concilio Vaticano II)86

, senza dimenticare gli apporti provenienti dalle sacre

81

«Mi sembra importante sottolineare in primo luogo, lo spirito collegiale e pastorale con cui si è fatto il lavoro di

aggiornamento del Corpo legislativo della Chiesa universale. È stato questo – ovviamente per espressa volontà del

Legislatore – un criterio fondamentale della metodologia seguita. Si sa quanto ampia e costante sia stata la

partecipazione dell’Episcopato (mondiale) nel lavoro della nuova Codificazione». J. HERRANZ, Studi, 15. Per un

approfondimento sul tema dell’apporto dell’episcopato: cf. ivi, 71-96. 82

Cf. P. V. PINTO (a cura di), Commento al Codice di Diritto canonico, XLVII. 83

Sul lavoro compiuto dalla Commissione: cf. F. D’OSTILLO, È pronto il nuovo Codice di Diritto canonico, Città del

Vaticano, 1982. 84

«Man mano che gli schemi venivano elaborati, il Presidente della Commissione li inviava al Legislatore, insieme alle

necessarie spiegazioni e con la richiesta di permesso – se il relativo progetto legislativo era giudicato sufficientemente

maturo – per sottoporlo all’esame sia dei membri della Commissione che dell’Episcopato e degli altri organismi

consultivi». J. HERRANZ, Studi, 17. 85

Cf. P. GHERRI, Elementi e Storia della revisione codiciale, 6; P. FELICI, A che punto è la preparazione del Codice?, in

Communicationes, I (1969), 71-75. 86

«Il nuovo Diritto non è “rivoluzionario”, non più che lo sia stato il Concilio Vaticano II, a cui il Codice è

essenzialmente legato […] perché ne esprime e ne attua il carattere eminentemente pastorale, per quanto possa farlo un

testo legislativo». R. PARALIEU, Piccola guida del nuovo Codice di Diritto canonico, Napoli, 1986, 10.

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Congregazioni, dai Tribunali, dalle Università (portatrici di linee di pensiero spesso diverse).

Nell’ultima fase, che durò sette anni, si cercò di formulare lo schema complessivo, tenendo presenti

due principi: da un lato la fedeltà ai principi generali iniziali, dall’altro la necessità di realizzare uno

strumento semplice e facile da usare, non solo ai periti, ma a tutti i fedeli.

Uno schema complessivo fu stampato il 29 giugno 1980 e consegnato a Giovanni Paolo II87

, il

quale lo fece inviare ai membri della Commissione per un giudizio definitivo. Non contento, il

Pontefice allargò il cerchio dei consultori, inviando questo schema ad altri cardinali e vescovi,

prima proposti, e poi, scelti per tale mandato. Tutte le osservazioni e relazioni riassunte ad opera

della Commissione confluirono nell’ultima sessione plenaria88

, convocata dallo stesso Pontefice,

che si espresse con approvazione unanime. Bisogna ricordare che, il testo integrale del Codice

approvato fu integrato da canoni provenienti dal progetto, non realizzatosi, della Legge

Fondamentale della Chiesa.

Il testo, ultimato e pronto per essere promulgato, fu consegnato al Pontefice il giorno 22 aprile

198289

, il quale, dopo un’ulteriore revisione, decise che il nuovo Codice avrebbe visto il suo primo

giorno il 25 gennaio del 1983, in ricordo dell’annuncio della revisione del Codice di Papa Giovanni

XXIII.

«quando il primo Codex Iuris Canonici fu promulgato il suo grande artefice, il Card. Gasparri, volle

ricordare anche in forma relativamente diffusa nella prefazione, questa lunga storia di creazione e, più

ancora, di compilazione della legislazione ecclesiastica. Di fronte al secondo Codice, che sostituisce il

primo dopo appena 65 anni, non occorre tracciare la storia dettagliata delle raccolte precedenti perché

questa volta ancora più che di raccolta si tratta di rinnovamento della disciplina»90

.

È importante, prima di concludere questo capitolo, riflettere su alcune questioni interessanti e

di rilievo per il presente studio, e forse, per qualsiasi canonista moderno. La prima questione è volta

a comprendere che, la struttura giuridica della nuova codificazione, a differenza della precedente, ha

lasciato il criterio positivista91

, secondo cui la norma si regge per il solo suo carattere di imperatività

(o peggio ancora sulla paura di incorrere in una sanzione). La struttura giuridica del Codice dell’’83

87

PONTIFICIA COMMISSIO CODICI IURIS CANONICI RECOGNOSCENDO, Codex Iuris Canonici, Schema Patribus

Commissionis reservatum, Città del Vaticano, 1980. 88

«In base ad un calcolo approssimativo della Segreteria, le proposte di revisione, generali e particolari, superarono il

numero di 90.000. Per il loro esame e la discussione generale furono necessari sei anni, dal 1974 al 28 giugno 1980,

data in cui lo schema corretto e completo del nuovo Codice poté essere inviato all’esame dei membri della

Commissione». J. HERRANZ, Studi, 18-19. 89

PONTIFICIA COMMISSIO CODICI IURIS CANONICI RECOGNOSCENDO, Codex Iuris Canonici, Schema novissimum iuxta

placita Patrum Commissionis emendatum atque Summo Pontifici præsentatum, Città del Vaticano, 1982. 90

A. M. STICKLER, Sguardo storico sull’evoluzione del Diritto canonico, in L’Osservatore Romano, 26 gennaio 1983,

2. 91

Cf. Il nuovo codice, in Il Monitore Ecclesiastico, XXIX (1917), 267.«Si operava così un capovolgimento del

principio attribuito al Card. Gasparri: “Quod non est in Codice non est in mundo”, sostituito con un altro più consono

con la realtà e la tradizione, che enunzierò con parole mie: “Quod in Ecclesia est alteri debitum ut suum, iustum et ideo

ius canonicum est”». J. L. GUTIÉRREZ, La formazione dei principi per la riforma del CIC, 27.

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si poggia sulle acquisizioni teologiche del Vaticano II92

: un aspetto nuovo questo, mai verificatosi

prima 93

. Questa novità condizionerà da lì in poi tutta la canonistica, perché chiunque si avvicinerà

al Codice odierno dovrà inevitabilmente assumere le categorie teologiche-ecclesiologiche del

Vaticano II94

.

A ciò serviva, e, serve, questo breve e certamente non esaustivo percorso storico, ovverosia, a

prendere coscienza che il Diritto della Chiesa, ormai, non è più un Diritto costruito sul modello

bellarminiano della societas juridice perfecta95

, ma il Diritto canonico odierno, affonda le sue radici

in un complesso di nozioni che la Chiesa, grazie all’ultima assise conciliare andava riconquistando,

in quanto facenti parte già del suo patrimonio plurimillenario96

; si pensi in tal senso alle categorie

attraverso cui la realtà “Chiesa” veniva ricompresa: “Popolo di Dio”, “Mistero”, “comunità”,

“corpo mistico di Cristo”97

, ecc..

«Come è noto, infatti, il Diritto, in quanto è regolazione normativa delle relazioni sociali

interpersonali, deve necessariamente intrecciare un’intima relazione con il contesto socio-culturale-

economico, nel quale si svolge la vita di coloro cui esso è indirizzato. In altre parole: il Diritto segue la

vita, l’esprime, senza forzature, cercando di regolare, in vista di un certo ordine, ciò che è già insito

nella natura, e che il momento storico esige. Per questo il Diritto non può assolutamente essere

anacronistico, ossia collocarsi fuori della storia, o, tanto meno, contro la storia.

Questo, salve le dovute proporzioni, vale anche per il Diritto canonico. È vero che si tratta di un

Diritto sui generis, che affonda le radici nella teologia, e che alcuni dei suoi istituti risalgono alla

volontà stessa del Divino Fondatore della Chiesa, mentre molti altri vantano un’origine apostolica o

risalente ad epoca antichissima; ma è anche vero che la formulazione di questi stessi istituti non sfugge

all’evoluzione con la quale la Chiesa, attingendo al tesoro della sua tradizione, mette in luce, lungo il

corso dei secoli, aspetti prima meno conosciuti. E soprattutto è vero che le altre norme, tendenti ad

ordinare la compagine ecclesiale ad un più appropriato svolgimento della sua missione e ad un più

adeguato raggiungimento del suo fine salvifico, devono adattarsi all’uomo storicamente situato, per

poter richiedere a lui una loro responsabile realizzazione»98

.

Il Diritto canonico, che fa sue tutte queste categorie, potrà essere compreso solo da chi sarà

capace di compiere un delicato processo ermeneutico, di gadameriana memoria99

, ovverosia, sarà

capace di riuscire a mettere tra parentesi modelli giuridici esistenti (i sistemi civili conosciuti) ed

92

Cf. P. GHERRI, Lezioni di Teologia, 255. 93

Cf. G. FELICIANI, Le basi del Diritto canonico, 40. 94

Cf. E. CORECCO, I presupposti culturali ed ecclesiologici del nuovo “Codex”, in S. FERRARI, Il nuovo Codice di

Diritto canonico. Aspetti fondamentali della codificazione post-conciliare, Bologna, 1983, 48. 95

«Ecclesia est coetus hominum ita visibili et palpabilis ut est coetus popoli romani vel regnum Galliae aut respublica

Venetorum». R. BELLARMINUS, De controversiis christianae fidei adversus hujus temporis haereticos II, Neapoli, 1857,

75. 96

«Come è ovvio, profonde e radicali sono le conseguenze che profluiscono da questo nuovo indirizzo programmatico

conciliare diretto a dare il più dinamico impulso e la massima valorizzazione all’elemento comunitario di base del

Populus Dei accanto all’elemento istituzionale gerarchico finora dominante in modo assoluto ed esclusivo». P. A.

D’AVACK, Il «populus Dei» nella struttura e nelle funzioni odierne della Chiesa, 385. 97

Cf. CONCILIUM ŒCUMENICUM VATICANUM II, Lumen Gentium, n. 8, 5-71. 98

PONTIFICIA COMMISSIO CODICI IURIS CANONICI RECOGNOSCENDO, Discorso del pro-presidente mons. Rosalio

Castillo Lara, S.D.B., Città del Vaticano, 1983, 13-14. 99

Gadamer rileva che alla base del procedimento ermeneutico ci sia la necessità di colmare una distanza, di superare

un’estraneità. Cf. N. ABBAGNANO, Storia della filosofia. La filosofia contemporanea, 9 ed., VIII/2, Milano, 2000, 12-

13.

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93

affacciarsi, libero, in un “nuovo mondo”100

. Questo mondo che mi si pone dinnanzi, è quello

appunto, della vita ecclesiale, che ha caratteristiche e strutture proprie, non dipendenti da nessun

modello civile.

«Cristo, unico mediatore, ha costituito sulla terra e incessantemente sostenuta la sua Chiesa santa,

comunità di fede, di speranza e di carità, quale organismo visibile, attraverso il quale diffonde per tutti

la verità e la grazia. Ma la società costituita di organi gerarchici e il corpo mistico di Cristo,

l’assemblea visibile e la comunità spirituale, la Chiesa terrestre e la Chiesa arricchita di beni celesti,

non si devono considerare come due cose diverse; formano piuttosto una sola complessa realtà

risultante di un duplice elemento, umano e divino. Per una analogia che non è senza valore, quindi, è

paragonata al mistero del Verbo incarnato […].

Questa è l’unica Chiesa di Cristo […] che il Salvatore nostro, dopo la sua resurrezione, diede da

pascere a Pietro, affidandone a lui e agli altri apostoli la diffusione e la guida, e costituì per sempre

colonna e sostegno della verità»101

.

In questo senso, si potrebbe dire, parafrasando il pensiero di Humboldt, che il Codice sta al

Concilio, come la parola sta al pensiero102

, dove, l’unità di parola e pensiero, o, pensiero e parola

sono fondamentali perché si venga capiti, compresi103

. In questo senso, ancora, potremmo dire che

il Codice svolge un ruolo veritativo-rivelativo nei confronti del Concilio; infatti, il Codice deve

essere pensato come uno degli strumenti (quello del Diritto) attraverso il quale si traducono nella

“comunità” cristiana i principi mutuati dal Vaticano II104

.

Bisogna puntualizzare, inoltre, che il Diritto della Chiesa, viste le sue caratteristiche tipiche, è

comunque un Diritto “vero”.

Un’altra questione importante da visualizzare è il passaggio, che con il Concilio prima, e, con

il Codice poi, si ebbe nella visione ecclesiologica-istituzionale della Chiesa. Per comprendere

questo passaggio, decisivo per il lavoro che si intende compiere, ovverosia, rintracciare lo statuto

canonico del fedele in rapporto all’Autorità ecclesiale, bisognerà soffermarsi sull’acquisizione o

100

«Quali invero che ne siano stati i nobili e pressanti moventi, certo si è che il soffio riformatore conciliare è venuto a

fare sia dell’umanità intera degli homine viatores in hoc mundo peregrinantes, sia del Populus Dei dei christifideles

proprio il nucleo centrale di base, su cui impostare, in una visione del tutto nuova e ben più rispondente ai tempi

presenti, tanto l’azione e missione esterne della Chiesa di fronte alle “cose mortali” nei suoi rapporti con le società

civili, quando insieme la sua stessa struttura e funzionamento interno nei confronti dei propri membri». P. A. D’AVACK,

Il «populus Dei» nella struttura e nelle funzioni odierne della Chiesa, 385. 101

CONCILIUM ŒCUMENICUM VATICANUM II, Lumen Gentium, n. 8, 11. 102

Tenendo presente che il Codice non costituisce l’integrale e piena traduzione sul piano del Diritto di tutta la dottrina

conciliare, così ricca, articolata e complessa. Un’operazione di questo tipo sarebbe stata del resto impossibile (in

considerazione alla irriducibilità della Chiesa nella sua trascendente complessità, negli schemi concettuali, nelle

categorie, nel linguaggio stesso del diritto) ed illogica in quanto il compito del Diritto canonico non è quello di esporre

ciò che la Chiesa è, bensì quello di organizzare e reggere il suo corpo sociale. 103

Cf. PONTIFICIA COMMISSIO CODICI IURIS CANONICI RECOGNOSCENDO, Discorso del pro-presidente mons. Rosalio

Castillo Lara, 18-19. 104

«Cinque lustri che hanno visto il Concilio Ecumenico Vaticano II aprire insospettati orizzonti, collocati quasi pietra

miliare nella storia della Chiesa e del suo continuo sforzo di rinnovamento; ma che hanno visto pure, come umile, e non

di rado nascosta, applicazione di tale generoso sforzo, un fervidissimo lavoro di studi e di ricerche, teso ad una solerte e

attenta elaborazione della legislatura canonica, la quale, traducendo in formule giuridiche le riforme del Vaticano II,

garantisse la retta ed efficace applicazione di esse alla vita della compagine ecclesiale, in vista di una sua sempre più

viva e puntuale presenza nel tessuto dell’umanità di oggi». Ivi, 13.

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meglio sulla riscoperta (in quanto presente nella tradizione della Chiesa) della essenza della Chiesa,

concepita come un unico Popolo di Dio105

. Il concetto di Chiesa-Popolo di Dio fece recuperare

l’unitarietà della Chiesa, voluta dal suo fondatore, formata da chierici e laici106

.

Il concetto di Chiesa come Popolo di Dio ridava senso e verità al sacerdozio comune di ogni

battezzato; la comprensione di tale concetto, infatti, permetteva, da un lato, il recupero della dignità

di ogni fedele facendone comprendere meglio il ruolo, dall’altro, permetteva di approfondire e

orientare il sacerdozio ministeriale, se pur ontologicamente diverso, al servizio e alla crescita del

comune sacerdozio107

. Questa ripresa di una visione ecclesiologica primitiva-apostolica (cf. 1 Pt 2,

9-10) permise anche ai religiosi di ritrovare un posto specifico all’interno della Chiesa; infatti essi

saranno l’espressione particolare della verità del sacerdozio comune, tradotto in termini semplici,

essi incarneranno, in modo più visibile, la comune chiamata alla santità108

.

Un’ultima parola la si può spendere per considerare come, grazie ai termini di Popolo di Dio e

di Christifideles, l’attenzione del Vaticano II e del Codice si spostarono non tanto, su una visione

generica dell’uomo – propria del sistema codiciale precedente – quanto piuttosto, su una visione

personalistica, capace di guardare all’uomo concreto109

.

105

«Ha insegnato, infatti, il Concilio che la Chiesa, fondata da Gesù, è costituita dagli organi gerarchici e dalla

comunità spirituale […]. Questa stessa Chiesa, ancora, “in questo mondo costituita ed organizzata come una società,

sussiste nella Chiesa cattolica, governata dal successore di Pietro e dai Vescovi in comunione con lui”. L’inseparabilità

dell’elemento divino da quello umano, costituente l’unica Chiesa, esclude la possibilità di una contrapposizione tra essi;

ma meno ancora si può contrapporre il cosiddetto Popolo di Dio alla Chiesa istituzionale, lamentando, come sopra si è

ricordato, nella redazione del codice, l’esclusione di “ogni forma di dialogo e di intervento” da parte di quelli che

sarebbero indicati come “membri del Populus Dei”. Nell’interpretazione dell’espressione si rivela un grandissimo

errore perché il concetto di Popolo di Dio non si contrappone alla gerarchia, in quanto gerarchia e laici egualmente

appartengono al Popolo di Dio, come risulta dalla stessa costituzione conciliare che ha premesso un capitolo sul Popolo

di Dio (precisamente il secondo) come introduzione a quelli destinati alla gerarchia ed ai laici». M. PETRONCELLI, Il

nuovo Codice di Diritto canonico, 15-16. 106

Si rimanda qui al capitolo precedente, ove si spiega il periodo storico che vide la distinzione (opposizione) chierici-

laici – causa più di reazioni storiche che magisteriali –, dove, appunto, l’attenzione era posta non sulla comunione e

l’uguale dignità, ma sulla distinzione, sulla differenza di ruoli (che poteva avere risvolti poco sostenibili sul piano

pratico). 107

«Il sacerdozio comune dei fedeli e il sacerdozio ministeriale o gerarchico, quantunque differiscano essenzialmente e

non solo di grado, sono tuttavia ordinati l’uno all’altro, poiché l’uno e l’altro, ognuno a suo proprio modo, partecipano

dell’unico sacerdozio di Cristo. Il sacerdote ministeriale, con la potestà sacra di cui è investito, forma e regge il popolo

sacerdotale, compie il sacrificio eucaristico nel ruolo di Cristo e lo offre a Dio a nome di tutto il popolo; i fedeli, in virtù

del loro regale sacerdozio, concorrono all’offerta dell’Eucaristia, ed esercitano il loro sacerdozio col ricevere i

sacramenti, con la preghiera e il ringraziamento, con la testimonianza di una vita santa, con l’abnegazione e la carità

operosa». CONCILIUM ŒCUMENICUM VATICANUM II, Lumen Gentium, n.10, 14-15; «il Popolo di Dio, oggi costituito da

tutti i credenti in Cristo e rigenerati “non dalla carne ma dall’acqua e dallo Spirito Santo” (Lumen Gentium, n. 9),

comprende sia i membri della gerarchia che i laici, ed esprime la fondamentale eguaglianza di tutti i battezzati». M.

PETRONCELLI, Il nuovo Codice di Diritto canonico, 16. 108

Cf. P. GHERRI, Lezioni di Teologia, 237. 109

«É un dato ormai acquisito nella letteratura teologica e giuridica canonista che il magistero del Concilio Vaticano II

si sia prefisso tra i capitali principi direttivi una rivalutazione e promozione della persona umana nei suoi compiti e nelle

sue finalità di fronte alla Chiesa e al mondo». P. A. D’AVACK, Il «populus Dei» nella struttura e nelle funzioni odierne

della Chiesa, 387.

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«Il riferimento della norma canonica al mistero della Chiesa, auspicato dal Vaticano II passa anche

attraverso la via maestra della persona, dei suoi diritti e doveri, tenendo ovviamente ben presente il

bene comune della società ecclesiale.

Proprio questa dimensione personalistica dell’Ecclesiologia conciliare consente di comprendere

meglio lo specifico ed insostituibile servizio che la Gerarchia ecclesiastica deve prestare per il

riconoscimento e la tutela dei diritti dei singoli e delle comunità nella Chiesa»110

.

Questo discorso di Giovanni Paolo II riconduce al criterio con cui si sta cercando di portare

avanti questo studio sulla obbedienza canonica. Il tentativo è quello di analizzare, innanzitutto,

come si sia evoluto lo statuto del fedele nell’Ordinamento della Chiesa, per poi comprendere, come

ci si è posti di fronte alla relazione gerarchica, che trova nel concetto di obbedienza (diversamente

richiesta e compresa nella storia) la sua espressione più forte e, forse, più incompresa111

.

3.3 IL CHRISTIFIDELIS NEL CODICE DEL 1983

Il diritto delle persone, così come viene presentato nel nuovo Codice, al libro II, risulta

rinnovato in rapporto al CIC del 1917, infatti, fin dal suo titolo “il Popolo di Dio” – ripreso dalla

Costituzione dogmatica sulla Chiesa Lumen Gentium – appare subito la nuova112

concezione

ecclesiologica di riferimento: l’ecclesiologia di comunione, propria del Vaticano II113

. In tal senso si

pensi allo sforzo del Legislatore canonico di far emergere, disciplinando la condizione giuridica

delle persone all’interno della società/comunità ecclesiastica, le acquisizioni del Vaticano II in

ordine all’eguaglianza radicale di tutti coloro che appartengono al Popolo di Dio, e, alla diversità

funzionale nello svolgere la comune missione della Chiesa114

.

110

IOANNES PAULUS II, Allocuzione ai partecipanti alla Giornata Accademica promossa dal pontificio Consiglio per i

Testi legislativi a vent’anni dalla promulgazione del nuovo Codice di Diritto canonico: Il fondamento teologico delle

norme canoniche, 24 gennaio 2003, in L’Osservatore romano, CXLIII (2003), n. 20 (43.256) 25 gennaio 2003, 5. 111

Per la ricostruzione storica cf. P. GHERRI, Lezioni di Teologia, 282-296; P. V. PINTO (a cura di), Commento al Codice

di Diritto canonico, XXXIX-LIV. 112

Il termine “nuovo” va inteso bene, infatti, non siamo dell’opinione secondo la quale il “nuovo” vada a sostituire e

soppiantare una determinata faccia della Chiesa: «Si è da più parti affermato che il Concilio Vaticano II avrebbe non

solo posto in crisi, ma addirittura spazzato via questa tradizionale strutturazione istituzionale, gerarchica e

monopolistica della Chiesa in tutte le sue caratteristiche note essenziali passate.

A mio giudizio, tale drastica tesi, così come viene in genere formulata, è da ritenersi inaccettabile». P. A. D’AVACK, Il

«populus Dei» nella struttura e nelle funzioni odierne della Chiesa, 387. 113

«Il II Libro, che costituisce la spina dorsale del Codice, non viene più intitolato “DE PERSONIS”, come nel Codice

del 1917, ma “DE POPULO DEI”, volendosi con ciò assumere, già nella sistematica, un concetto basilare della “Lumen

Gentium”, e significare che i fedeli vengono considerati non isolatamente, ma prevalentemente in dimensione

comunitaria, formando un popolo, gerarchicamente strutturato, qual è la Chiesa». PONTIFICIA COMMISSIO CODICI IURIS

CANONICI RECOGNOSCENDO, Discorso del pro-presidente mons. Rosalio Castillo Lara, 20. 114

«Tale uguaglianza fa sì che tutti i fedeli, in ordine alla salvezza eterna, abbiano eguale dovere di osservare la legge

divina, ma Vescovi e fedeli sono un solo Popolo di Dio e l’appartenenza al Popolo di Dio è l’inizio ed il pegno della

Salvezza eterna. Inoltre “chi pensa di poter a suo senso conservarsi cristiano, disertando il recinto istituzionale della

Chiesa visibile e gerarchica, o immaginando di rimanere aderente al pensiero di Cristo modellando per sé una Chiesa

concepita a proprio piacimento, è fuori strada, e illude sé stesso” (Paolo VI, all. 1° settembre 1971, in Oss. Rom. 2

settembre 1981)». M. PETRONCELLI, Il nuovo Codice di Diritto canonico, 16.

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«Che infatti sotto un certo aspetto vi sia stato un effettivo superamento della concezione passata della

cosiddetta Chiesa istituzionale gerarchica è innegabile, non fosse altro per aver privato la sacra

hyerarchia dell’esclusivo monopolio clericale nella partecipazione ai compiti ecclesiali e per avere

insieme fatto dei suoi munera gerarchici non più altrettante potestates proprie dei loro titolari, ma

altrettanti servizi ministeriali da rendere all’umanità»115

.

Con l’assumere, sul piano giuridico, la categoria di Popolo di Dio, si volle sottolineare un

carattere particolare e tipico della Chiesa, quello di corporazione istituzionale116

. La parola

“Popolo”, infatti, richiama l’elemento sociale, e, il riferimento a “Dio” richiama l’assoluta

peculiarità di questo popolo (questa novità risulta dal fatto che, né le finalità, né i mezzi derivano

dalla volontà dei consociati)117

.

L’organizzazione, la sistematica del Libro II del CIC del 1983, è già rivelatrice delle relazioni

giuridiche delle varie persone; il libro presenta innanzitutto i fedeli (designazione giuridica dei

battezzati), poi i laici e alla fine i chierici118

. La novità che subito viene messa in evidenza è la

presenza di una parte relativa al fedele come tale, completamente assente nel CIC del 1917; questa

parte bisognerà sempre considerare, soprattutto quando le diverse funzioni, che successivamente si

andranno a delineare, andranno a distinguere i fedeli in laici, chierici e religiosi.

«Al contrario il nuovo codice, dopo aver ripetuto in veste giuridica il principio teologico che col

battesimo l’uomo è incorporato nella Chiesa di Cristo e costituito come persona con diritti e doveri

propri della sua condizione (can. 96), nel libro II, dedica una prima parte ai fedeli in Cristo, cioè a tutti

coloro che, incorporati a Cristo attraverso la ricezione del battesimo, formano il Popolo di Dio e,

secondo la condizione propria di ciascuno, sono chiamati ad esercitare la missione che Dio ha affidato

alla Chiesa perché la adempiano nel mondo (can. 203, n.1)»119

.

È comprensibile che l’obbedienza canonica, in siffatto contesto, venga concepita in modo

completamente nuovo rispetto a come poteva essere concepita prima del Vaticano II. Il nuovo

Codice, infatti, sottolineando un’eguaglianza sostanziale, proveniente dal comune battesimo, dalla

comune fede, dalla comune dignità dei redenti, da cui deriva, sul piano giuridico, tutta una serie di

doveri e diritti, abbandona la visione secondo cui l’obbedienza canonica fosse il risultato (provocato

anche dall’influenza positivista) di un comando/ordine dell’autorità, indiscutibile e soprattutto da

eseguirsi al di là di una ragionevolezza riconosciuta e compresa120

.

«Oggi cioè è appunto l’intero Populus Dei, nell’unità e uguaglianza del suo status di uomini e di

cristiani e nella varietà insieme dei propri carismi personali e dei rispettivi munera individuali e

115

P. A. D’AVACK, Il «populus Dei» nella struttura e nelle funzioni odierne della Chiesa, 387. 116

Cf. ivi, 385-388. 117

Cf. P. V. PINTO (a cura di), Commento al Codice di Diritto canonico, 111-112. 118

I religiosi occuperanno un posto particolare nel Codice, dopo la trattazione delle “associazioni” e della “costituzione

gerarchica della Chiesa”. 119

M. PETRONCELLI, Il nuovo Codice di Diritto canonico, 21-22. 120

Ci sentiamo autorizzati a poter esprimere alcune considerazioni in quanto supportate da precedenti capitoli e

paragrafi, corredati da una nutrita bibliografia, in cui abbiamo illustrato il contesto storico, sociale, giuridico che ha

visto il concepimento, la gestazione e la nascita del Codice del 1917.

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collettivi, che è stato chiamato dal magistero conciliare a concorrere nella sua totalità all’opera di

apostolato e di missione salvifica della Chiesa con attività responsabilmente svolta in piena libertà e

dignità, anche se sotto il controllo, la direzione e l’autorità della gerarchia»121

.

A ben vedere il Codice nuovo, non partiva più da una visione verticistica della Chiesa, alla e

dalla quale poi, tutto si doveva uniformare.

Il perfetto Christifidelis, non considerato più come suddito, ma come cooperatore122

, è colui

che, conscio della propria dignità e missione, si fa carico di rispondere all’obbedienza canonica, la

quale però, da un lato, deve risultare comprensibile e condivisibile – dove il condivisibile deve

essere compreso sempre nell’ottica del bene comune della Chiesa, e non, del bene del singolo –

dall’altro, deve essere il risultato di una procedura che garantisca il rispetto della persona/e

coinvolta/e e la comunione stessa con il capo e le membra123

.

L’immagine della Chiesa, così come il Codice del 1983 la presenta, non è prodotta più a

partire dalla supremazia del chierico; infatti, l’immagine prodotta dalla Chiesa ‘Popolo di Dio’, e la

conseguente condizione di eguaglianza tra le persone, anche sul piano giuridico, rende il

Christifidelis persona libera di esprimersi e servire la Chiesa in modo più attivo e presente124

.

La sistematica usata dal nuovo Codice fece superare la concezione che vedeva il fedele laico

solo come destinatario della missione dei chierici: essa aprì alla visione di un laicato che, suo modo

proprio, è partecipe della comune missione che Dio ha affidato alla sua Chiesa125

.

Come già menzionato, il Codice del 1983, a differenza del Codice pio-benedettino, definisce

un proprio statuto al fedele laico:

Ǥ1 Christifideles sunt qui, utpote per baptismum Christo incorporati, in populum Dei sunt constituti,

atque hac ratione muneris Christi sacerdotalis, prophetici et regalis suo modo participes facti,

121

P. A. D’AVACK, Il «populus Dei» nella struttura e nelle funzioni odierne della Chiesa, 388. 122

«Ut Concilium impensius docuit, communio Ecclesiæ a fidelibus et pastoribus simul constituitur, ita ut fideles,

sacerdotio communi præditi et communicationibus et consiliis cum pastoribus in bonum Ecclesiæ operantes, non

tantum subditi habentur, sed etiam cooperatores ordinis hierarchici, cui obsequiosum auxilium præstant in omnibus

eius gradibus». PAULUS PP. VI, Allocutio: Ad Tribunalis Sacræ Romanæ Rotæ Decanum, Prælatos auditores,

Officiales et Advocatos, novo litibus iudicandis ineunte anno, 4 februarii 1977, in AAS, LXIX (1977), 150-151. Cf. M. J.

ARROBA CONDE, Diritto processuale canonico, 86. 123

«Ci riferiamo innanzitutto al concetto basilare di “comunione”, che, presupponendo il battesimo che incorpora il

battezzato a Cristo e lo costituisce in popolo (can. 204 §I), si radica profondamente nell’Eucarestia che ne è la fonte ed

espressione più alta, e si snoda lungo una duplice dimensione, complementare ed integrante, teologica e giuridica allo

stesso tempo, della comune partecipazione alla stessa fede, agli stessi sacramenti ed allo stesso regime ecclesiastico

(can. 205). La comunione costituisce così il primo dovere di ogni cristiano (can. 209) ed esprime la realtà profonda e

mistica della Chiesa nell’unione dei Cristiani con la gerarchia e tra di loro, nell’Eucarestia e nella fede». PONTIFICIA

COMMISSIO CODICI IURIS CANONICI RECOGNOSCENDO, Discorso del pro-presidente mons. Rosalio Castillo Lara, 21. 124

«Ricordando che tra i fedeli in Cristo va fatta, per divina disposizione, una distinzione tra coloro che sono ministri

sacri, detti anche chierici, e gli altri che sono (can. 207, n.1) i laici, si elencano i diritti e gli obblighi dei fedeli tutti, cioè

indipendentemente dalla loro appartenenza all’uno o all’altro status (cann. 208-223) e poi, in un Titolo II della stessa

parte, i diritti e le obbligazioni dei laici in quanto tali (cann. 224-231)». M. PETRONCELLI, Il nuovo Codice di Diritto

canonico, 22. 125

Cf. can. 204; P. A. D’AVACK, Il «populus Dei» nella struttura e nelle funzioni odierne della Chiesa, 387-388.

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secundum propriam cuiusque condicionem, ad mission emexercendam vocantur, quam Deus Ecclesiae

in mundo adimplendam concredidit.

§ 2. Haec Ecclesia, in hoc mundo ut societas constituta et ordinata, subsistit in Ecclesia catholica, a

successore Petri et Episcopis in eius communione gubernata»126

.

Il canone 204 del CIC del 1983, uno dei fondamentali del Codice, in quanto facente parte

anche del progetto – non realizzatosi – della Lex Ecclesiae fundamentalis127

, definisce uno statuto

comune a tutti i battezzati appartenenti alla Chiesa. In questo canone, dove il termine “fedele” è

usato in senso specifico, vengono descritte le conseguenze giuridiche fondanti lo statuto del fedele

dipendenti dalla ricezione del battesimo. La prima conseguenza è l’appartenere/appartenenza al

Popolo di Dio (incorporazione a Cristo); la seconda è la capacità/facoltà di esercizio della comune

missione sacerdotale, profetica e regale128

.

Si può concludere sostenendo che, le due qualità giuridiche dipendenti, derivanti dal

sacramento del battesimo, che costituiscono l’essere (anche giuridicamente parlando) del Cristiano,

sono l’appartenenza e la missione. Tutto il libro II descriverà i doveri/diritti concreti, propri del

fedele capace di mettere in opera tale essenza (appartenenza-missione). Il secondo paragrafo

richiama tutta la questione sulla realtà sociologica e giuridica della Chiesa la quale sussiste nella

Chiesa cattolica129

.

Un’altra descrizione del legame battesimo-statuto giuridico, la troviamo nel can. 96:

«Baptismo homo Ecclesiae Christi incorporatur et in eadem constituitur persona, cum officiis et

iuribus quae christianis, attenta quidem eorum condicione, sunt propria, quatenus in ecclesiastica

sunt communione et nisi obstet lata legitima sanctio»130

.

In questo canone, che non accenna più al termine fedele, viene esplicitato che, mediante il

battesimo, sul piano giuridico si ottiene un duplice effetto: l’incorporazione alla Chiesa di Cristo e

l’acquisizione, in diritto, della personalità giuridica131

.

I canoni 204 e 96, non differiscono riguardo al contenuto; ciò che li differenzia è lo stile della

composizione, uno più giuridico (can. 96), l’altro più ecclesiologico (can. 204).

126

Can. 204. 127

Cf. P. FEDELE, Lex Ecclesiae Funtamentalis, 11-32; cf. Communicationes, VIII-IX (1977), 68. 128

Cf. P. VALDRINI, Comunità, persone,governo,153; «Sempre nell’ambito della comunione, viene sancita la “vera

uguaglianza quanto alla dignità e all’azione” di ogni fedele, che apre spazio ad una vasta partecipazione alla missione

comune della Chiesa, differenziata soltanto secondo la condizione di ognuno ed il munus che nella Chiesa gli è stato

affidato (can. 208)». PONTIFICIA COMMISSIO CODICI IURIS CANONICI RECOGNOSCENDO, Discorso del pro-presidente

mons. Rosalio Castillo Lara, 21. 129

Cf. P. ERDÖ, Il cattolico, il battezzato e il fedele in piena comunione con la Chiesa Cattolica. Osservazioni circa la

nozione di “cattolico”nel CIC, in Periodica, 86 (1997), 213-240. 130

Can. 96. 131

Cf. P. VALDRINI, Comunità, persone,governo, 154.

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In entrambi i canoni, inoltre, si fa riferimento alla condizione propria di ciascuno che bisogna

tener presente: attenta quidem eorum condicione (can. 96) e secundum propriam cuiusque

condicionem (can. 204). Questi incisi riguardano le circostanze – giuridicamente qualificate – che,

in taluni casi, possono modificare lo statuto delle persone fisiche dei fedeli. Il Codice non fornisce

alcuna indicazione per definire queste condizioni. Queste condizioni non riguardano la sola capacità

giuridica (o l’esercizio dei doveri e diritti), ma un insieme di situazioni giuridiche che possono

incidere sull’esercizio dei doveri e diritti; si pensi in tal senso ai canoni 208-223 per ciò che

concerne lo statuto; al can. 207 che prevede dei doveri/diritti specifici; infine ai doveri/diritti

provenienti da atti o fatti giuridici (sacerdote parroco, laico membro di un istituto secolare, chierico

membro di un istituto di vita consacrata, laico nello stato matrimoniale ecc.)132

.

È necessario comprendere che, in virtù del Battesimo, l’uomo è incorporato e costituito

persona nella Chiesa, e questo, sul piano giuridico significa divenire titolare di doveri/diritti;

l’Ordinamento canonico, tuttavia, pretende di regolare/determinare, sia sul piano generale

(legislativo), sia su quello individuale (amministrativo), l’esercizio e/o l’estensione di tali

doveri/diritti a seconda delle diverse condizioni canoniche in cui la persona ecclesiale può trovarsi.

La condizione può esser sia imposta dal Diritto, sia imposta da un titolare della potestà di governo,

sia scelta dalla persona stessa.

A proposito dei fatti giuridici, invece, si tenga presente tutta la normativa prevista, per

esempio, in ordine all’età133

, al domicilio o quasi domicilio134

, all’essere consanguinei135

, affini136

o

adottivi137

, all’iscrizione ad una Chiesa rituale138

ecc..

Un’ultima considerazione bisogna farla a proposito della necessità di trovarsi nella comunione

ecclesiale per poter esercitare i diritti ricevuti con l’incorporazione a Cristo mediante il Battesimo.

Nella codificazione pio-benedettina, vista nel capitolo precedente, al can. 87, era prevista una vera e

propria sanzione «oste obex, ecclesiasticae communionis vinculum impediens, vel lata ab Ecclesia

censura». L’obex previsto, secondo una comune interpretazione post-codiciale, sospendeva solo

l’uso dei diritti139

.

132

Ivi, 155-156. 133

Cf. cann. 97-98 ss.. 134

Cf. cann. 100-107 ss.. 135

Cf. can. 108. 136

Cf. can. 109. 137

Cf. can. 110. 138

Cf. cann. 111-112. 139

«Chi ha ricevuto il battesimo, poiché questo è un sacramento di quelli che imprimono il character, è perpetuamente

membro della Chiesa. Questa qualità però non porta necessariamente l’esercizio di tutti i diritti dei soggetti, perché, ad

esempio, non sono eccezionalmente acquistati i diritti dei fedeli da quell’adulto che riceve il battesimo in una

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La questione ebbe una sua evoluzione in seguito all’enciclica di Pio XII, Mistici corporis140

(29 giugno 1943), attraverso la quale, riprendendo l’idea di Chiesa come Corpo mistico, si cercò di

sottolineare la trascendenza dell’Istituzione Chiesa, riconosciuta a quei tempi alla stregua di altre

società umane. La Mistici corporis, affermando che la Chiesa cattolica romana è il corpo di Cristo,

sostenne che tra i membri della Chiesa bisogna annoverare esclusivamente – reapse – (o

effettivamente) quelli che, ricevendo il lavacro della rigenerazione (il Battesimo), e, professando la

vera fede, non si erano separati da essa, né per gravi colpe, né per volere di legittime autorità.

Con l’Enciclica si diede nuovo impulso alla riflessione ecclesiologica e a quella canonistica

sul tema dell’appartenenza;

«per quanti non appartengono all’organismo della Chiesa, e quindi non possono oggettivamente

godere della pienezza dei doni e degli aiuti spirituali che essa mette a disposizione dei suoi membri, si

afferma un non meglio precisato legame di ordinazione inscio quodam desiderio ac voto al Corpo

mistico del Redentore, che mentre da un lato implica una reale distanza dall’essere membro effettivo

della Chiesa, dall’altro suggerisce l’esistenza di un certo qual rapporto con la Chiesa stessa per ogni

uomo che perviene alla salvezza; ciò che è sufficiente a salvaguardare il rispetto della tradizionale

opinione extra Ecclesiam nulla salus o della salvezza mediante la Chiesa»141

.

Il Concilio Vaticano II, non mancò di esprimere la sua rinnovata considerazione a riguardo:

«questa è l’unica Chiesa di Cristo, che nel Simbolo professiamo una, santa, cattolica e apostolica e che

il Salvatore nostro, dopo la sua resurrezione, diede da pascere a Pietro (cfr. Gv 21,17), affidandone a

lui e agli altri apostoli la diffusione e la guida (cfr. Mt 28,18 ss.), e costituì per sempre colonna e

sostegno della verità (cfr. 1 Tm 3,15). Questa Chiesa, in questo mondo costituita e organizzata come

società, sussiste nella Chiesa cattolica, governata dal successore di Pietro e dai vescovi in comunione

con lui, ancorché al di fuori del suo organismo si trovino parecchi elementi di santificazione e di

verità, che, appartenendo propriamente per dono di Dio alla Chiesa di Cristo, spingono verso l’unità

cattolica»142

.

Il canone 205, espressione fedele della Costituzione LG recita:

«Plene in communione Ecclesiae catholicae his in terris sunt iii baptizati, qui in eius compage visibili

cum Christo iunguntur, vinculis nempe professionis fidei, sacramentorum et ecclesiastici

regiminis»143

.

consapevole adesione ad opinioni condannate. Egualmente chi, dopo aver ricevuto il battesimo, si separa dalla Chiesa o

con l’allontanarsi dalla fede cristiana (apostata), o con il negare o porre in dubbio una verità di fede (eretico), o col

rifiutarsi di riconoscere l’autorità del Pontefice (scismatico can. 1325 § 2), oppure è allontanato dalla comunità dei

fedeli con quella forma di scomunica più grave che lo rende vitando (can. 2258), resta legato alla Chiesa ed è obbligato

all’osservanza della legge ecclesiastica; però non ha l’esercizio dei diritti che normalmente spettano ai fedeli e conserva

solo il diritto di ottenere una particolare cura da parte dell’autorità ecclesiastica (can. 1350), e, infine, alla celebrazione

di messe private in suo suffragio (can. 2262 § 2)». M. PETRONCELLI, Diritto canonico, 7 ed., Napoli, 1976, 111. 140

PIUS PP. XII, Litteræ encyclicæ: Mystici corporis, 29 iunii 1943, in AAS, XXXV (1943), 193-248. 141

Cf. R. CORONELLI, Linee di sviluppo della dottrina in tema di appartenenza alla Chiesa: dal CIC/1917 al CIC/1983,

in Periodica, LXXXIX, (2000), 211. 142

CONCILIUM ŒCUMENICUM VATICANUM II, Lumen Gentium, n. 8, 11-12. 143

Can. 205.

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Il canone parla di una piena comunione che si ottiene mediante i tre vincoli: fede, sacramenti

e governo ecclesiastico.

A conclusione di questo breve excursus sul Codice del 1983, si può affermare che, la

relazione gerarchica (comunionale), in seguito all’innegabile riforma operata dal Concilio Vaticano

II che, ha eliminato la visione – determinata anche dalla reazione al modernismo visto come

risultato finale del movimento protestante – di una semplice e immediata risposta ad un comando

(magari non compreso) dato dall’autorità (gerarchia nel senso stretto), si presenta con caratteristiche

molto più rispettose della comune dignità e uguaglianza dei fedeli. Inoltre, a garanzia dei

doveri/diritti di ciascun fedele (chierico o laico), si è andata sviluppando tutta una linea, auspicata

già dai famosi principi che hanno guidato la revisione (o riforma) codiciale, secondo cui, la cura e il

rispetto delle ‘forme’ previste dalla nuova normativa – da dover usarsi sia in campo legislativo che

in quello amministrativo e penale –, servano da garanzie, e per l’autorità (intesa come servizio) e,

per la tutela dei doveri/diritti dei singoli fedeli.

Si proseguirà questo percorso di ricerca riprendendo le domande proposte nel primo e nel

secondo capitolo di questo studio:

«il Christifidelis de quo è un ipotetico quanto generico (a-temporale, a-spaziale, a-storico ed a-

nonimo) “uomo creato e redento da Cristo”, oppure una persona specifica collocata in un tempo ed in

uno spazio determinati e determinanti, in una cultura, in uno status socio-economico, in situazioni e

condizioni che indirizzano e/o forzano il libero esercizio della propria idealità e volontà?»144

.

Il fatto che il Christifidelis sia genericamente un uomo o una specifica persona sarà rilevante

per la connessa comprensione della relazione che intercorre tra autorità e fedele, tra chi rappresenta

l’istituzione e chi ne fa parte ‘semplicemente’; relazione che, in modo provocatorio, è stata

denominata in questo studio come relazione di obbedienza: esercizio dell’autorità? Richiesta di

ascolto da parte della autorità? Ingiunzione da parte dell’autorità? Ecc..

Si può concludere questa, non esaustiva, analisi del Codice del 1983 affermando che, il

principio della ‘sostanziale uguaglianza’ fra i componenti dell’unica Chiesa di Dio è stato ormai

ripreso, compreso e messo al sicuro e che, di conseguenza, il principio gerarchico – che a ragione

non è stato eliminato, in quanto voluto per istituzione divina – è andato ricomprendendosi secondo

il principio evangelico del servizio145

.

144

P. GHERRI, Diritto canonico, Antropologia, 19. 145

«Da questo l’esigenza di un legislatore che, sempre per divina istituzione, è la Gerarchia ecclesiastica, cui è stato

conferito il potere di interpretare il diritto naturale e tradurlo in pubbliche norme. Il Vangelo non ha abolito l’autorità,

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Come già precedentemente affermato, tutto ciò ha permesso la crescita di una visione

ecclesiologica, non più di tipo verticistico, fondata sull’autorità – in cui la Chiesa veniva presentata

principalmente come “societas inaequalium”, divisa dualisticamente in superiori e sudditi, chierici e

laici: coetus ducens e coetus ductus, con la conseguente radicalizzazione del noto testo attribuito a

S. Girolamo (347-420) e riportato da Graziano (sec. XII): “Duo sunt genera christianorum”146

: vi

sono due specie di cristiani: i chierici e i laici” – ma, di una visione di Chiesa come Popolo di Dio

pellegrinante nella storia, sicuro della sua vocazione pastorale più che sociale.

Tutto ciò non deve portare a credere, o peggio, a illudere che, le acquisizioni presenti nei

documenti conciliari, o nei canoni del nuovo Codice, abbiano prodotto una situazione idilliaca, dove

la relazione tra autorità e fedele (l’‘obbedienza’ chiesta o vissuta come atto di vera libertà), dove la

dinamica relazione dei doveri/diritti del fedele – espresse precisamente nel libro II del CIC –

rispondano al solo ‘criterio formale’ – consistente nell’esecuzione di una cosa ingiunta con l’intento

di farla propria perché compresa o ritenuta, almeno, non in contraddizione con le leggi divine o

ecclesiastiche –, tutt’altro.

Ancora oggi, siccome sia il Codice, sia i testi conciliari, giustamente, rimandano all’azione

dall’autorità locale (vescovi e sacerdoti)147

, è possibile rilevare come tale relazione gerarchica sia

mal interpretata, e soprattutto, mal richiesta (ci si riferisce qui soprattutto alla forma)148

.

A questo punto dello studio è necessario sollevare una questione osservabile da più punti di

vista:

a) colui che esercita il governo spesso interpreta l’obbedienza come qualcosa che

riguardi il solo governato (dimenticando il suo diretto coinvolgimento);

b) il governato interpreta soventemente l’obbedienza come un potere a cui deve

sottomettersi (dimenticando il suo necessario apporto).

Tenendo presente che la relazione gerarchica o l’obbedienza canonica riguarda il solo foro

esterno149

, si intende qui proporre una terza prospettiva150

, attraverso la quale, guardare la relazione

di obbedienza tramite qualcosa che tenga uniti, e, coinvolti i soggetti tra loro, inseriti però

ma l’ha stabilita ponendola al servizio altrui, non perché derivata dalla comunità, ma perché derivata dall’alto per

governare e giudicare». M. PETRONCELLI, Il nuovo Codice di Diritto canonico, 16. 146

GRAZIANO, Decretum, p. II, c. XII, q. I, c. VII. 147

Attraverso il principio di sussidiarietà. 148

In quanto il principio di sussidiarietà (che si esprime nella discrezionalità dell’autorità inferiore) spesso diviene

sinonimo di intuito pastorale irrazionale. Il rispetto delle forme (possibilmente e previamente stabilite dall’autorità

locale) invece, mutuate da procedure generali previste, o, semplicemente dettate dal buon senso ‘disinteressato’,

potrebbero garantire il corretto uso del potere discrezionale (servizio). Questo è ciò che si pensa, quando ci si riferisce al

principio di sussidiarietà. 149

Di cui ci si occuperà nei prossimi capitoli. 150

Più conforme al principio di comunione, già richiamato, come una delle chiavi ermeneutiche dell’intera odierna

codificazione.

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all’interno della realtà teandrica della Chiesa151

evitando la confusione, o, la non distinzione dei due

fori152

.

3.4 APPROFONDIMENTO: LA “TEORIA DELL’EFFICACIA DELL’AGIRE GIURIDICO

CANONICO”, POSSIBILE GARANZIA DI UNA CORRETTA COMUNIONE GERARCHICA.

Il più delle volte, la forma dice e manifesta anche la sostanza delle cose; in questo senso

sembra opportuno approfondire il tema dell’efficacia dell’agire giuridico canonico, visto come

possibile mezzo, atto a realizzare un’effettiva comunione gerarchica, provocatoriamente definita

come ‘obbedienza canonica’. Quest’approfondimento sulla teoria dell’efficacia dell’agire giuridico

canonico, sarà sviluppato a partire da un ambito particolare del Diritto, quello amministrativo,

ambito in cui si rilevano le maggiori libertà – in quanto, molto in quest’ambito è lasciato alla

‘prudente’ scelta dell’autorità particolare – e, di conseguenza, maggiori abusi.

«La specifica competenza del diritto particolare e l’applicazione del ʻprincipio di sussidiarietàʼ non

possono tuttavia giustificare la grande approssimazione e disorganicità che spesso si riscontrano nelle

Chiese particolari su queste tematiche; il problema si pone in modo specifico nella proliferazione di

tanti Uffici/Incarichi assegnati spesso ad personam senza una previa strutturazione organica generale

che permetta a ciascuno di conoscere le specificità del proprio incarico. Nascono in questo modo

sovrapposizioni (conflittuali o de-responsabilizzanti), di competenza, sovra-strutturazioni operative,

zone d’ombra, carenze di referenzialità, vuoti decisionali, che danneggiano gravemente la stessa vita

ecclesiale, ponendo spesso gli stessi Superiori nell’impossibilità reale di meglio provvedere alla

necessità concrete a causa dell’assenza di precise definizioni di caratteristiche, compiti e ruoli attribuiti

ai singoli uffici/incarichi ecclesiali, finendo così per lasciare tutto alle circostanze o convenienze del

caso, alimentando personalismi, favoritismi, discrezionalità (indebite) ed arbitrio»153

.

151

«La dimensione soggettiva cede il passo alla dimensione oggettiva; in altre parole non è rilevante tanto il soggetto

emanatore quanto il suo obbiettivo contenuto: che è doppiamente precisato; consiste in un ordinamento, ordinamento

esclusivamente demandato alla ragione. Ordinatio è la parola che sposta l’asse della definizione dal soggetto

all’oggetto, perché insiste non sulla libertà ma sui limiti alla sua libertà; ordinare è infatti un’attività vincolata, giacché

significa prendere atto di un ordine obbiettivo preesistente e non eludibile entro il quale inserire il contenuto della lex.

Ed è proprio per questo che lo strumento dell’ordinare è identificato nella ragione, cioè in un’attività psicologica

prevalentemente conoscitiva: perché la conoscenza è il più grande atto di umiltà che un soggetto possa compiere nei

confronti del cosmo e della società, perché la conoscenza è proiezione del soggetto al di fuori della propria individualità

per scoprire nella realtà a lui esterna le verità in essa contenute, per scoprirvi l’ordine progettato e attuato dalla Divinità.

Veramente essenziale è la ragionevolezza della lex, cioè la determinata e rigidissima corrispondenza del suo contenuto a

un modello che né il Principe né il popolo né il ceto dei giuristi creano ma sono chiamati semplicemente a scoprire nella

ontologia del creato. Qui la lex, che ha una dimensione conoscitiva sicuramente prevalente su quella volitiva, non può

essere soltanto forma e comando; è innanzi tutto un certo contenuto sostanziale perché è innanzi tutto lettura del reale».

P. GROSSI, Mitologie, 25-26. Cf. TOMMASO D’AQUINO, S. Th., I-IIae

, q. 90, a. 4. 152

Esigenza questa affermata dal Sinodo dei vescovi del 1967, il quale, stabilì come secondo criterio per la revisione del

Codice da un lato la distinzione e dall’altro la relazione, il coordinamento dei due fori. Cf. Communicationes, I (1969),

75-85. 153

P. GHERRI, Diritto amministrativo canonico. Introduzione generale: Fondamenti, Teoria e Metodo, pro manuscripto

ad uso degli studenti, Roma, A.A. 2009-2010, 111-112.

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104

Per raggiungere il fine proposto da questo approfondimento è necessario compiere un previo

discernimento sulla metodologia da adottare, in quanto, il momento relativo alla scelta della

metodologia è tutt’altro che questione da poco.

«Il vero problema del Diritto amministrativo – come, per altro, anche della stessa Canonistica – però è

il metodo: è questo, infatti, il ʻcuoreʼ della scientificità; la sua importanza è tale che solo chi riuscirà a

proporre un metodo realmente efficace dal punto di vista operativo potrà credere di aver trovato la

strada giusta nell’individuazione e teorizzazione del Diritto amministrativo canonico … l’esperienza

ha già dimostrato come le sistematizzazioni teoretiche – da sole – non bastino»154

.

Una corretta metodologia, quindi, deve essere capace di mantenere insieme, ordinare e

coordinare tutti gli elementi in gioco. La scelta di una corretta metodologia in ambito giuridico è di

capitale importanza – in relazione alle domande poste al termine del paragrafo precedente – per

capire se la questione del rapporto gerarchico, oggi sovente in crisi, riguardi più l’autorità chiamata

a governare o il fedele chiamato ad ‘obbedire’, ovvero, entrambi155

.

Dopo l’indicazione sulla questione metodologica, si cercherà di capire cosa si intende per

“efficacia di un atto amministrativo” per poi fare delle osservazioni che consentano di proseguire

l’indagine sulla relazione canonica.

Per efficacia solitamente si intende – in ambito amministrativo – l’idoneità di un atto «a

produrre gli effetti propri»156

. A tale affermazione ci si potrebbe fermare qualora si voglia restare

su un piano solo teorico senza considerare quindi la concreta vita storico-sociale di qualsiasi

società. In altri termini, se si considera l’efficacia di un atto giuridico, a partire da un ambito

puramente teorico, si ricadrebbe in una visione del Diritto ‘puro’, sganciato dalla realtà, dove

l’uomo non verrebbe visto come persona libera e cosciente, bensì come una macchina, un prodotto

di laboratorio di cui, in maniera del tutto ipotetica e irrealistica, si potrebbero conoscere in anticipo

le risposte relative alle determinate sollecitazioni; ergo, si potrebbe produrre un atto tale da

154

P. GHERRI, Corresponsabilità e Diritto: il Diritto amministrativo, in P. GHERRI (a cura di), Responsabilità ecclesiale,

corresponsabilità e rappresentanza. Atti della Giornata Canonistica Interdisciplinare, Città del Vaticano, 2010, 144. 155

«La prospettiva già espressa circa la funzione di organizzazione, gestione e coordinamento delle risorse di cui la

Chiesa dispone per l’adempimento della propria missione kerigmatica, in cui consiste e si concretizza strutturalmente il

governo ecclesiale (quale peculiare espressione formale della c.d. Pastorale 23), non lascia – con evidenza – nelle mani

dei suoi ‘titolari’ (la c.d. sacra Gerarchia) ambiti e spazi di competenza ed operatività – tanto – ampi quanto si potrebbe

pensare […] e per lunghi secoli si è presunto (e gestito) e come ancor oggi rimane – almeno in parte – sotteso al

concetto di “giustizia amministrativa” (da rivendicarsi) nei confronti dell’attività di una (sempre in qualche modo

terza/estranea) “Pubblica Amministrazione Ecclesiastica” (individuabile quasi sempre nei c.d. Superiori)». P. GHERRI,

L’Autotutela amministrativa come supplemento di conoscenza: la Remonstratio canonica (Cann. 1732-1734 CIC), 321. 156

«L’efficacia dell’atto è la sua idoneità – vale a dire la sua attitudine concreta – a produrre gli effetti propri. Un atto

perfetto può non essere ancora efficace per diversi motivi: perché i suoi effetti non si producono sino al momento della

notificazione al destinatario, perché deve avverarsi una condizione, perché esso deve precedentemente essere sottoposto

a un controllo necessario (per esempio, la revisione o approvazione da parte di un’Autorità superiore) ecc.». J. MIRAS –

J. CANOSA – E. BAURA, Compendio di Diritto amministrativo canonico, (coll. Subsidia canonica), trad. A. PERLASCA, 2

ed. aggiornata, Roma, 2009, 194.

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consentire un determinato risultato157

garantendo la perfetta e infallibile efficacia di un atto

giuridico.

Si comprende bene, vista la chiara ironia che, bisogna partire dal considerare piuttosto, un

“agire giuridico”158

che non si identifica con il solo “atto giuridico”159

; infatti l’agire giuridico in

quanto appartenente all’operatività di una persona ha una sua nascita, un suo sviluppo e anche una

sua fine. L’“atto giuridico”, secondo la sua struttura fisiologica (e non patologica), ha un inizio

(concepimento), uno sviluppo (nascita) e un effetto160

.

Fuori da ogni metafora, bisogna avere cognizione che, l’“atto giuridico” può raggiungere la

sua efficacia solo se, si parte dal considerare il Diritto espressione concreta di un vivere con, con-

vivere per realizzare un fine più o meno comune. A tal proposito:

«Il problema, tutt’altro che teoretico, presenta una pregnanza specifica all’interno delle concezioni

giuridiche effettivamente ‘realistiche’, quelle cioè che assumono la concreta realtà del vivere sociale

quale loro orizzonte fondativo. Non importa che si tratti di quella scandinavo-americana, di quella

socio-ordinamentale o di quella istituzional-personalista: in ciascuna di esse, infatti, il reale baricentro

della giuridicità si colloca nel concretamente vissuto/esperito, nella specifica azione rispondente e

conseguente al Diritto, e non nelle pretese caratteristiche del Diritto in sé o degli atti giuridici come

tali … o delle spettanze ‘naturalmente giuridiche’ di qualcuno (il “cuiusque suum”). La differenza di

prospettiva è strutturale: mentre infatti nella seconda concezione “Diritto” e “giuridicità” esistono in sé

… anche in un mondo (pressoché) ‘vuoto’, automaticamente generati dal semplice ‘esserci’ di almeno

due individui, nella prima concezione “Diritto” e “giuridicità” sono, invece, ‘generati’ dal con-vivere

comunitario o societario nel perseguimento di uno scopo, più o meno comune.

157

«Qualunque agire giuridico non è mai ‘meccanico’, non risponde mai ad una semplice logica di mera causalità fisica

(azione e reazione). Non basta disporre con legittima potestà l’attuazione o la omissione di un determinato

comportamento perché questo ‘si’ realizzi. Azione e reazione, infatti, si collocano sempre all’interno di ambiti

inanimati, fisici (onticamente necessitati): privi di qualunque vera intenzionalità e, più ancora, volontà e consapevolezza

(deonticamente necessitanti). Non è così per l’agire umano … e meno ancora per quello espressamente ‘personale’, in

cui tutto quanto ‘avviene’ è, in realtà, realizzato da qualcuno sulla scorta di ragione, intenzione, volontà. L’agire umano

non è mai costituito di eventi (che ‘accadono’, come un terremoto, un ciclone, rispondendo a precise – per quanto a noi

spesso sconosciute – cause fisiche) ma di comportamenti, ed i comportamenti ‘si assumono’, ‘si adottano’ …

personalmente». P. GHERRI, Il concetto amministrativistico di ‘efficacia’: linee evolutive, in CONSOCIATIO

INERNATIONALIS STUDIO IURIS CANONICI PROMOVENDO, J. WROCEŃSKI – M. STOKŁOSA (a cura di), La funzione

amministrativa nell’ordinamento canonico. Administrative Function in canon law. Administracja w prawie

kanonicznym, I, Warszava, 2012, 300-301. 158

«È tuttavia necessario porre in evidenza come ciò che normalmente viene percepito – e conseguentemente

tematizzato – come “atto giuridico” non sia in realtà ‘qualcosa’ di puntuale, monolitico, statico, chiuso … qualcosa di

‘posto’, ‘realizzato’, una volta per tutte e, spesso, rinchiuso nel passato delle cose che già sono giunte al loro termine

(‘come’ la res iudicata). La consapevolezza attuale della complessità e dinamicità dell’agire umano, non meno che la

sua dimensione personalistica posta in risalto dal Magistero post-conciliare, sollecitano al contrario una concezione

dell’actus umano – anche e forse soprattutto giuridico – come realtà ‘distribuita’, complessa, dinamica, aperta,

partecipata … com’è, in fondo, lo stesso vivere umano. Una consapevolezza di questo genere sembra però postulare un

cambio di vocabolario, utile per evitare ambiguità e fraintendimenti: sarà pertanto meglio parlare di – un più ampio –

“agire giuridico” anziché di – un puntuale – “atto giuridico”, conferendo finalmente ‘spessore’ e ‘volume’ a quanto si è

troppo spesso concepito in modo solo ‘puntiforme’». Ivi, 300. 159

Strumento della sua formalizzazione. 160

Con termini diversi P. Gherri così esprime la parabola evolutiva dell’ “atto giuridico”: «dal punto di vista sostanziale

il vero ‘atto giuridico’ è proprio quello intenzionato/voluto/disposto a riguardo di una specifica condotta da tenersi (da

parte di qualcuno o di molti) al fine di conseguire un determinato ‘esito’ che abbia conseguenze giuridicamente

apprezzabili all’interno della comunità/società di riferimento». P. GHERRI, Il concetto amministrativistico di ‘efficacia’:

linee evolutive, 301.

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È proprio in questa prospettiva che l’efficacia come “risultato corrispondente alla volontà che lo ha

eseguito” non potrebbe mai esistere sulla carta soltanto, né dipendere dalle sole caratteristiche degli

strumenti giuridici attraverso cui s’intenda perseguirlo; paradossalmente, forse: è efficace una

intimidazione (ingiusta, illegittima ed ‘invalida’) mentre può non esserlo affatto una disposizione

(formalmente ‘perfetta’) ma disattesa. Non si tratta certo, qui, [a] di assumere a criterio giuridico la

legge della forza, ma neppure [b] di perseverare nell’illusione che “il” Diritto basti a sé stesso. L’unico

vero ‘giudice’ del vivere sociale/comunitario è – da sempre – la vita … quella di molti, quella di ogni

giorno»161

.

Gli effetti che, tale visione del Diritto e dell’agire giuridico (piuttosto che atto giuridico)

suggeriscono, sono a dir poco rivoluzionari, nel senso che, si riuscirebbe finalmente a far passare

l’idea secondo cui, governare, significa compiere un vero e concreto ‘discernimento’ che, a sua

volta, si concretizza nell’individuare e gestire “capitale umano” allo scopo esclusivo di permettere

alla Chiesa di realizzare, nel modo migliore, il suo fine. In altri termini, l’agire giuridico (o l’atto

giuridico) non sarà più inteso come, lo ‘strumento’ attraverso il quale semplicemente viene

conferito un ufficio, bensì sarà inteso come, il procedimento atto a compiere un vero e proprio

discernimento.

La teoria sistematica dell’efficacia, relativa all’agire giuridico canonico, sembra essere la

metodologia che più di altre sia idonea per indagare l’oggetto preso in esame: la comunione

gerarchica o relazione di obbedienza. La teoria dell’efficacia dell’agire giuridico canonico, infatti, si

sviluppa a partire da una possibilità/necessità relativa alla esigenza di qualificare giuridicamente le

diverse componenti della vita ecclesiale. Questa qualifica previa compete al tecnico del Diritto

canonico; è lui a dover qualificare oggetti, eventi e circostanze e, a far presente, quando queste

acquistano rilevanza all’interno dell’Ordinamento ecclesiale162

.

Partire dall’efficacia, quindi, significa porsi in una prospettiva che riesca ad abbracciare

l’intero iter di formazione di un atto, dal suo concepimento alla sua realizzazione (incidenza nel

tessuto sociale e giuridico). Questa prospettiva, definita ‘unitaria’, è la sola capace di comprendere

tanto il momento costruttivo dell’agire giuridico ecclesiale quanto il momento patologico degli atti

stessi. A tal proposito P. Gherri sostiene:

«il primo passo da compiere riguarda l’unitarietà del Diritto amministrativo canonico in una

prospettiva che sia in grado di superare la presunta opposizione tra quelle che si presentano a tutti gli

effetti come due ʻfasiʼ della pratica del Diritto amministrativo: quella fisiologica e quella

patologica»163

.

Tale prospettiva unitaria offre una panoramica completa delle funzioni, dei ruoli e dei compiti

di ciascun fedele all’interno dell’Ordinamento giuridico ecclesiale, spostando l’attenzione dall’atto

161

Ivi, 299. 162

Cf. P. GHERRI, Introduzione al diritto amministrativo canonico, 259-260. 163

P. GHERRI, Corresponsabilità e Diritto: il Diritto amministrativo, 116.

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in particolare alla concreta attività ecclesiale. Il ruolo (munera/ministeria) che ciascun Christifidelis

deve assumere, all’interno dell’Ordinamento ecclesiale, può essere deciso dall’autorità competente

la quale gode dell’apposita potestà164

per farlo. Tale discernimento è fatto sempre sulla

persona/comunità coinvolta anche se in relazione ad una situazione da risolvere o ad un ufficio da

occupare.

Una volta compresa la prospettiva dalla quale si osserva l’agire giuridico, e fermo restando

che, è l’autorità il soggetto preposto a compiere questo discernimento, ci si domanda: a) è possibile

che colui che gode di potestà di governo possa discernere da solo165

?; b) esiste un procedimento

esterno e razionale (oltre a quello di fede) atto a garantire la possibilità di una correttezza intrinseca

al procedimento intrapreso, e, comprensibile alla/e persona/e-comunità coinvolta/e, tale da

permettere all’autorità di procedere e decidere?

Assodato che la decisione non può mai presumere la sua infallibilità, c) è possibile richiedere

all’autorità che le decisioni, il discernimento – nell’esercizio della potestà di governo – godano

della stessa certezza morale166

che in ambito processuale viene richiesta al giudice al momento della

dichiarazione della sentenza167

?

È chiaro che in questa visione unitaria, l’‘atto giuridico’ diventi la sintesi di un percorso di cui

si sono valutati i possibili ed eventuali effetti.

Gli atti compiuti da colui che ha potestà sono il risultato 1) indirettamente del discernimento

compiuto a-priori da colui che lo ha posto, nominandolo a tale ufficio e 2) il discernimento che lui

stesso in base alla sua fede, sapienza, competenza, intelligenza sarà in grado di compiere.

164

Il problema di fondo è che tale potestà non significa automaticamente capacità di discernimento. La questione aperta

è il corretto uso della potestà affidata. 165

Presumendo per assurdo quasi una sorta di infallibilità nell’ambito giuridico (amministrativo). «La mera

decisione/disposizione potestativa che non riesca ad avere ‘presa’ sulla realtà esistenziale cui è destinata potrà

certamente essere concepita e denominata come “atto giuridico” secondo il linguaggio tecnico in uso, ma non riuscirà

ad essere tale finché non arriverà ad incidere effettivamente sulla relazionalità intersoggettiva del gruppo socio

antropologico di riferimento, mutando (o confermando) lo status relazionale di qualcuno o qualcosa al suo interno.

Esattamente quanto si dovrebbe intendere con efficacia quando ciò ‘realizzi’ una precisa ed espressa intenzionalità e

volontà d’incidere sulla realtà». P. GHERRI, Il concetto amministrativistico di ‘efficacia’: linee evolutive, 301-302. 166

«La certezza morale necessaria per la decisione si riferisce agli elementi di fatto che il giudice dovrà valutare

accuratamente con la potestà di cui è investito dall’ordinamento (cioè discrezionalmente e rispettando le norme circa il

valore probatorio)». M. J. ARROBA CONDE, Diritto processuale canonico, 522. 167

A cui si può giungere, qualora si possa escludere ogni ragionevole dubbio sulla questione. Sul concetto di certezza

morale: PIUS PP. XII, Allocutio: Ad Prelatos auditores ceterosque Officiale set Administros Tribunalis S.R. Rotæ

necnon eiusdem Tribunalis Advocatos et Procuratores, 2 octobris 1944, in AAS, XXXVI (1994), 281-290; J. LLOBELL,

La genesi della sentenza canonica, in AA. VV. Il processo matrimoniale canonico, (coll. Studi giuridici, n. XXIX),

nuova ed. aggiornata ed ampliata, Città del Vaticano, 1994, 700-703; C. IZZI, La certezza morale nel Giudizio canonico,

in Apollinaris, LXXXIV (2011), 245-269.

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Questa concreta attuazione dell’attività ecclesiale interessa in modo particolare questo studio,

in quanto, se si tiene in debita considerazione l’intero iter di un atto giuridico, ci si accorge che esso

costituisce la possibilità di comprensione e realizzazione della relazione di fiducia, gerarchicamente

costruita sulla comunione.

In questo senso:

«il Diritto amministrativo canonico non riguarderebbe più soltanto l’azione di governo esercitata da

chi possiede potestà (esecutiva) nella Chiesa, ma l’intera relazionalità cui ciascun fedele partecipa

tanto in ragione del proprio status di battezzato che in forza del suo concreto impegno/ruolo ecclesiale,

insieme a tutto ciò che intervenga a modificare in modo pubblicamente rilevabile e rilevante la portata

della sua appartenenza/azione ecclesiale»168

.

Partendo da un’altra prospettiva, quella pastorale, – la concreta attività ecclesiale – (come

soglia strutturale minima) si potrebbe affermare che, il Diritto canonico è l’insieme delle norme che

guidano la corretta modalità di esercizio del proprio ruolo ecclesiale (istituzionale o personale),

secondo i principi ecclesiologici e pastorali espressi dal Vaticano II e recepiti nel CIC del 1983169

.

Se si vuole invece, far riferimento alla prospettiva storica, tanto cara al Vaticano II, e per

questo oggi imprescindibile punto di partenza, si può definire il Diritto canonico come lo strumento

per il corretto governo ecclesiale, inteso quest’ultimo come capacità (funzione) di «organizzazione,

gestione e coordinamento delle risorse – personali e materiali – di cui la Chiesa dispone per

l’adempimento della propria – costitutiva – missione di annuncio del Vangelo»170

. In questo senso

si comprende come le azioni di governo prima che essere ‘dispositive’, devono essere azioni

operative, volte cioè a far sì che determinati risultati vengano raggiunti; in termini più semplici, le

azioni di governo devono essere capaci di far funzionare le cose171

. Questa funzionalità non deve

essere intesa o fraintesa con una semplice efficienza, in quanto, con la teoria dell’efficacia si vuole

perseguire – nel compito di ordinare la vita sociale della Chiesa – una ‘determinata’ finalità non una

‘qualsiasi’ finalità172

; per tanto, sarà la finalità da voler raggiungere, a dirigere l’intero iter di

discernimento e di azione173

.

L’efficacia del governo ecclesiale è misurata sul principio de autorìa come raggiungimento

dello scopo/fine previsto e voluto da chi pone l’atto, con l’affidamento implicito di tutti i mezzi

necessari per il suo efficace conseguimento. Infatti risulta fondamentale che il conferimento di un

incarico di rilievo istituzionale (munus, Ministerium) sia funzionale all’efficace conseguimento dei

168

P. GHERRI, Corresponsabilità e Diritto: il Diritto amministrativo, 116. 169

Cf. ivi, 70. 170

P. GHERRI, L’Autotutela amministrativa come supplemento di conoscenza: la Remonstratio canonica (Cann. 1732-

1734 CIC), 317. 171

Cf. ivi, 321-322. 172

Cf. ivi, 327-328. 173

Cf. G. LO CASTRO, Comunicazione e conoscenza degli atti amministrativi, in J. I. ARRIETA (a cura di),

Discrezionalità e discernimento nel governo della Chiesa, Venezia, 2008, 154.

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suoi fini istituzionali. A sostegno di ciò, la communio (intesa come corresponsabilità), arriva a

conferire al Diritto Canonico, la realtà di giusta risposta strumentale alla necessità di agire sempre

per l’edificazione della Chiesa e, mai, a suo detrimento. A tal proposito si vuole qui riprendere la

visione schematica, che della questione, presenta il prof. P. Gherri174

:

«questo, però, comporta un radicale cambiamento degli elementi in gioco e della loro consistenza e

portata poiché, mentre nella [a1] sottomissione personale alla volontà dell’Autorità il peso maggiore

incombe al destinatario del comando (è lui che deve sottomettersi!), nella [b1] adesione personale alla

stessa volontà il maggior peso compete a chi deve suscitare e motivare le proprie Decisioni

(l’Autorità) affinché – almeno l’impegno per – il perseguimento del risultato possa ritenersi

certo/efficace. Lo scarto tra le due posizioni è dato dalle ‘motivazioni’ che si possono o devono

apportare per la Decisione/Atto adottata. Nel primo caso [a2], ancora, esse sono – state –

preferibilmente ‘soggettive’ in capo al destinatario ed a lui ‘sollecitate’, nel secondo caso [b2], per

contro, esse devono essere ‘oggettive’ per potersi comunicare/trasmettere dall’autore della

Decisione/Atto al suo destinatario (cfr. can. 51). Nel primo caso [a3] la motivazione (di fatto interiore)

compete al destinatario che deve trarre da sé i motivi e la forza morale per realizzare quanto gli viene

imposto, nel secondo caso [b3] la motivazione (di fatto esteriore) compete all’Autorità di governo che deve saperla esplicitare e condividere affinché venga responsabilmente assunta dal suo destinatario.

Ciò comporta anche una ricollocazione del fondamento e della consistenza della Decisione/Atto [a4]

dalla sua ‘fonte’ [b4] alla sua ‘finalità’: non importa più tanto [a5] ‘chi’ decida ma [b5] ‘per quale

fine’ lo faccia … così come poco importa ormai [a6] ‘chi’ decida e ‘chi’ attui ma [b6] ‘che’ venga

attuato quanto ritenuto necessario/utile e, quindi per ciò, deciso. Il profondo stacco – finalmente –

ormai esigito tra [a7] forum conscientiæ e [b7] foro esterno a riguardo dell’attività di governo

ecclesiale permette oggi (e sollecita a) una sua concezione assolutamente rinnovata basata su [b8]

‘fatti’ (esterni, oggettivi, valutabili) e non più su [a8] ‘sentimenti’ (interni, soggettivi, imponderabili)

… su [b9] motivazioni e finalità effettive e non più [a9] su ‘disposizioni affettive’»175

.

Il metodo costruttivo, sinteticamente presentato, risulta essere il mezzo idoneo a delineare

organicamente e in modo progressivo l’agire giuridico ecclesiale, realmente adeguato alla realtà

ecclesiale e personale concreta, producendo in tal modo risultati stabili; questa dovrebbe essere la

finalità di un corretto ed efficace agire giuridico canonico.

L’attenzione posta sull’efficacia dell’agire giuridico ecclesiale – e il relativo aspetto positivo

dedotto da una nuova visione concettuale – che fa capo alla consapevole presa di coscienza che la

Chiesa ha avuto di sé, in seguito al Concilio Vaticano II, permette di individuare in una metodologia

di carattere costruttivo176

la possibilità di accompagnare e sorreggere l’agire ecclesiale dell’intero

popolo di Dio, nell’orizzonte, ad esso proprio, della su citata norma communionis (ove ciascuno è

attivo proprio modo et propria parte)177

.

174

In quanto ogni tentativo di riassumerlo ci è sembrato superfluo e inutile vista la chiarezza con la quale viene

presentato tale concetto. 175

P. GHERRI, L’Autotutela amministrativa come supplemento di conoscenza: la Remonstratio canonica (Cann. 1732-

1734 CIC), 323-324. 176

Capace di delineare e costruire progressivamente l’atto giuridico ecclesiale. 177

Cf. P. GHERRI, Introduzione al diritto amministrativo canonico, 207-210.

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110

CAPITOLO IV

IL DIRITTO CANONICO: DISTINTO E ‘DIPENDENTE’

DALLA TEOLOGIA

A questo punto, si impone una riflessione sulla corretta relazione che deve sussistere tra il

Diritto canonico e la Teologia178

.

A tal fine bisogna rifarsi alla Teologia del Diritto canonico, disciplina autonoma che ha come

compito delicato e necessario quello di porre in dialogo, correttamente, il Diritto canonico e la

Teologia179

. Innanzitutto, si vuole sottolineare come storicamente la Teologia del Diritto canonico

abbia assunto uno statuto epistemologico proprio che gli ha consentito di procedere verso le sue

(specifiche) finalità, attraverso lo sviluppo di mezzi sempre più adeguati e qualificanti la disciplina

stessa. Sarà necessario quindi, evidenziare ciò che unisce le due discipline attraverso la

individuazione degli elementi di reciproco interesse180

. Tutto questo perché si è convinti che la

giusta relazione tra Teologia e Diritto canonico nasca dalla capacità di tenere, sì, distinte le due

discipline, ma soprattutto, dalla capacità di farle dialogare correttamente, essendo l’una (la

178

Per un approfondimento sui termini della questione si veda: T. JIMÉNEZ URRESTI, Diritto canonico e Teologia: due

Scienze diverse, in Concilium, III (1967), n. 8, 28-38; W. PANNENBERG, Epistemologia e Teologia, Brescia, 1975; G.

GHIRLANDA, Introduzione al Diritto ecclesiale, Casale Monferrato (AL), 1993; T. JIMÉNEZ URRESTI, De la Teología a

la Canonistíca, Salamanca, 1993; R. DAVID, I grandi sistemi giuridici contemporanei, Padova, 1994; F. J. URRUTIA, Les

normes Générales. Commentaire des canones 1-203, Paris, 1994; P. ERDÖ, Teologia del Diritto canonico. Un

approccio storico-istituzionale, Torino, 1996; IOANNES PAULUS PP. II, Litt. Enc.: Fides et ratio, 14 septembris 1998, in

AAS, XCI (1999), 5-88; F. D’AGOSTINO, Fondazione del Diritto; P. GHERRI, Canonistica e questione gnoseologica, in

Ius Canonicum, XLII (2002), 203-211; CONCILIUM ŒCUMENICUM VATICANUM II, Dei Verbum; G. CANOBBIO – P.

CODA, La Teologia del XX secolo. Un bilancio, Roma, 2003, in particolare: P. CODA – N. REALI, Statuto e metodo della

Teologia, in G. CANOBBIO – P. CODA, La Teologia del XX secolo. Un bilancio, Roma, 2003, 29-30; P. GHERRI, Lezioni

di Teologia, Roma, 2004; P. GHERRI, Teologia del diritto canonico: note per individuare la nuova disciplina

accademica, in Ius Canonicum, 90 (2005), 693-754. 179

«Ai canonisti spetta il compito di “tradurre in linguaggio canonistico” i dati irrinunciabili che la Teologia dogmatica

pone alla base della vita ecclesiale; compito dei tecnici del Diritto canonico non è il semplice studio e la spiegazione

[…] quanto, molto più profondamente ed utilmente, il ricondurre la normativa vigente e l’Ordinamento canonico tutto

(jus conditum) all’interno dell’Ecclesiologia proposta dal Vaticano II (OT 16), oltre al continuo sforzo di conformare

sempre più le diverse, contingenti, espressioni della vita ecclesiale (jus condendum) allo stesso spirito espresso

dall’Assise conciliare e mai compiutamente esprimibile attraverso il linguaggio giuridico». P. GHERRI, Lezioni, 101. 180

Questa micro ricerca è per sua natura orientata alla macro ricerca che la contiene (la relazione di comunione

gerarchica, l’obbedienza come ricapitolazione dello statuto giuridico del fedele). Tale parentesi non sarà per tanto

esaustiva sull’argomento. Si provvederà, però, di fornire un’accurata bibliografia qualora si voglia approfondire un

determinato aspetto che tocchi le questioni storiche e sistematiche più importanti. Tale capitolo consentirà alla ricerca

iniziata di proseguire il suo percorso con la consapevolezza che è dalla Teologia (comprensione della verità in sé) che si

passa al Diritto canonico (costruzione della verità in comunione).

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Teologia) il presupposto dell’altra181

. Non bisogna dimenticare, però, che la Teologia è sempre in

cammino, a motivo dello Spirito Santo che la conduce via via a tutta la verità; infatti, la Teologia

serve a cogliere la verità dello Spirito Santo in un’opera particolare della storia. La verità riguarda

Dio, l’uomo, l’intero universo, ogni persona nella Chiesa e fuori di essa, ogni credente e non

credente. La verità è universale e sempre in cammino. La verità si vive in una relazione. La

relazione è con Dio, con sé stessi, con gli altri, con ogni persona, con l’intera creazione.

Quando nasce il Diritto come scienza applicata della verità? Nasce nel momento in cui la

propria verità incontra la verità dell’altro. Per essere pragmatici, si può ricordare il pensiero di S.

Paolo riguardo ai Corinzi del suo tempo: i Corinzi pensano che la loro verità sia assoluta e

ritengono che ad essa ogni altra verità dovrà sottomettersi: è la Babele (cf. 1 Cor 1,11-12). In

presenza di una tale convinzione, bisogna avere il coraggio di condurre la comunità ad esame di

coscienza, visto che, è la fede che deve verificare la storia, non la storia che deve dettare legge alla

fede: a questo scopo, ad intervenire nella comunità non può essere il singolo. È giusto che

intervenga chi ha autorità su di essa, colui che ha il potere di intervenire con quei provvedimenti atti

a togliere l’errore di fede e immettere al suo posto la verità di Cristo con la quale ogni membro della

comunità deve confrontarsi per camminare sempre sulle orme di Gesù. Non si può intervenire per

ristabilire l’unità operativa, se colui che ha l’autorità di farlo, non interviene sulla fede falsa che è a

fondamento della discordia. Su questo bisogna che regni la più grande certezza. Nessuna discordia

operativa può essere risolta se non si risolve la discordia nella fede, o non si pone mano a creare

l’unità di fede nella comunità (cf. At 15,5-35)182. S. Paolo nella 1 Corinzi insegna invece, che

ognuno possiede una sua particolare ‘verità’ che non potrà viversi se non nella comunione. Chi

stabilisce, determina, sancisce la legge – connessa/dipendente dalla verità di fede – da viversi nella

comunione? Il Diritto (si badi bene: non solo il Diritto canonico, ma il Diritto in genere ha tale

compito in seno alla comunità/società). Purtroppo a volte, anzi spesso, si insiste per abolire le

discordie operative, mentre dominano e governano le menti, fedi differenti, fedi che, sovente

rasentano l’eresia e che, altre volte sono la negazione stessa del mistero di Cristo e della sua opera

di salvezza.

Bisogna iniziare dal riportare la retta fede nella comunità di Cristo Gesù, nella sua Chiesa:

questo è il compito della vera Teologia. Se si osserva la storia, infatti, si deve constatare che tutte le

eresie, tutti gli scismi, tutte le separazioni hanno un unico principio: la differente fede, o la non fede

181

«Il Diritto canonico parte da basi pregiuridiche ed ha un fine metagiuridico e tutto ciò è offerto ad esso dalla

Teologia». L. DE ECHEVERRIA, Teologia del Diritto canonico, in Concilium, III (1967), n. 8, 19. 182

Sulla relazione fede/comunione, in riferimento ad At 15, cf. P. GHERRI, Lezioni, 187-189.

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che ha conquistato i cuori e le menti e li ha posti in discordia, in opposizione, in contrasto con

quanti professano la retta e l’unica fede in Cristo Gesù. Come dalla non fede, o dalla fede distorta

sono nate le differenti ‘confessioni’, o ‘partiti’ nell’unica Chiesa del Signore Gesù, così è giusto e

necessario operare il procedimento inverso. Chi vuole creare l’unità nella Chiesa deve partire dalla

fede.

Si potrebbe applicare per la scienza del Diritto canonico lo stesso principio che adopera S.

Tommaso per la scienza teologica. Il principio primo della scienza teologica dell’Aquinate è la

parola di Dio così come giace nella Scrittura. Il principio primo della scienza del Diritto canonico è

la verità (dell’unica fede), sempre in cammino, che lo Spirito Santo dona oggi alla sua Chiesa: la

verità di ogni essere (increato e creato) che, necessariamente entra in comunione con ogni altro

essere. Se si aggiorna la comprensione della verità e tale comprensione è sempre aggiornata/guidata

dallo Spirito Santo nella Chiesa, necessariamente si deve aggiornare il Diritto canonico. Così come

la scienza teologica dipende dalla verità, anche la scienza del Diritto dipende dalla verità. Alla

Teologia è affidato il compito di aggiornare la comprensione della verità in sé. Al Diritto canonico,

invece, è affidato il compito di ri-costruire/fare la verità in comunione.

«La Chiesa, sposa di Cristo, sa realizzare in sé stessa, sempre che ciò appaia necessario, una

riflessione teologica e disciplinare – ricerca e aggiornamento – che la converte in un sempre attivo

fermento di novità umane: di vita nuova (cfr. Rom 6, 4), di uomini nuovi (cfr. Col 3, 10). Così è stato

nel Concilio Vaticano II e nella successiva riforma della legislazione ecclesiastica, necessario

corollario disciplinare del Magistero conciliare»183

.

Questa considerazione preliminare consentirà di muovere il successivo passo, verso la novità

proposta da questo percorso, senza perdere di vista l’orizzonte ecclesiale entro cui ci si sta

muovendo: guardare la relazione d’obbedienza, sintesi della relazione gerarchica, (distinta dalla

relazione teologica e morale) come la ricapitolazione dello statuto giuridico-canonico del

Christifidelis184

. Questo, a sua volta, sarà possibile, però, solo a patto che non si dimentichi il locus

specifico della relazione gerarchica canonica: l’agire socio-comunitario185

della Chiesa, il foro

esterno186

.

183

J. HERRANZ, Studi sulla nuova legislazione della Chiesa, 241. 184

L’obbedienza è da ricondurre alla corretta relazione gerarchica che sussiste all’interno della compagine visibile

della Chiesa. Questa relazione è espressione dei doveri/diritti dei fedeli così come canonicamente posti

nell’ordinamento ecclesiale. Detto ciò, non si deve dimenticare che le modalità storiche di vivere questa relazione

tramontano, muoiono, vengono a volte ripristinate, esse non sono l’essenza della relazione a cui si è chiamati nella

comunità di Cristo, la relazione piena, essenziale è la relazione di fede. La fede, però, va oltre ogni sua possibile

incarnazione nella storia; essa le supera tutte. 185

In quanto il Diritto fa riferimento alla pratica sociale di una determinata comunità. Cf. F. VIOLA, Il Diritto come

pratica sociale, Milano,1990. 186

Su questo tema ci soffermeremo in seguito.

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«L’oggettività esteriore evidenzia la portata della relazione sociale: non importano le disposizioni

interiori dei singoli quanto piuttosto ciò che si può vedere e sperimentare concretamente nel rapporto

sociale; anche nei confronti di un soggetto “sconosciuto” (è questa la radice del c.d. “foro esterno”);

la separabilità enfatizza il valore sociale della relazione, al punto che, pur avendo le intenzioni, i

sentimenti, e gli stessi “doveri” di natura morale come riferimento ultimo la giustizia, in ambito

sociale ciò non ricade sotto l’operatività concreta della legalità; questa infatti guarda all’oggettività

della relazione sociale separandola dalla disposizione soggettiva del suo autore»187

.

Questo “agire sociale” dovrà misurarsi, o configurarsi alla realtà complessa (teandrica) della

Chiesa che poggia le sue basi non su un qualsiasi, condiviso, modo di vedere e concepire il mondo,

il Lebenswelt188

di husserliana memoria, ma su una rivelata visione di esso, alla quale ci si deve

uniformare, o meglio, confrontare continuamente189

.

Semplificando, si potrebbe affermare che ciò che interessa in questa fase dello studio, è

«identificare i corretti rapporti tra ciò che si deve credere e ciò che è necessario fare»190

. A

complicare le cose, solo a prima vista semplici, è il fatto che la fede (ciò che si deve credere) è

qualcosa che si evolve col crescere della comprensione della verità. È questa consapevolezza che

consente di far dialogare le discipline autonome della Teologia e del Diritto canonico, infatti, è

sempre la Teologia191

a donare la materia prima al Diritto, ad esempio: il Concilio Vaticano II ha

aggiornato la comprensione della verità di fede. La comprensione della verità aggiornata è stata data

al Diritto ed è nato il nuovo Codice. In futuro la Teologia aggiornerà ancora una volta la

comprensione della verità, e, ancora una volta la offrirà al Diritto perché aggiorni le regole della sua

comunione192

. Il problema sta tutto qui: verità universale, verità particolare, verità storica, verità

aggiornata, verità in comunione (Diritto).

Si vuole ricordare, ora, come S. Paolo supera il problema del Diritto attraverso l’Inno alla

carità. Tuttavia, la carità è vissuta dall’uomo spirituale, il quale è perennemente mosso dallo Spirito

e conosce i limiti della verità. Per l’uomo carnale vale quanto Paolo insegna nella Prima Lettera a

Timoteo:

187

P. GHERRI, Lezioni, 18. 188

Cf. S. BANCALARI, Voce: Mondo della vita, in FONDAZIONE CENTRO STUDI FILOSOFICI DI GALLARATE, Enciclopedia

filosofica, vol. VIII, Milano, 2006, 7574-7575. 189

La comprensione della Rivelazione è in continuo aggiornamento, crescita, sviluppo in quanto artefice di tale dono di

comprensione è lo Spirito Santo. 190

P. GHERRI, Lezioni, 8. 191

Qui col termine ‘Teologia’ non ci si riferisce alla speculazione teologica, bensì alla comprensione della verità di fede

proposta in modo definitivo dal Magistero della Chiesa, dalla quale la Teologia cattolica (speculativa) non può e non

deve discostarsi. Cf. CONCILIUM ŒCUMENICUM VATICANUM II, Lumen Gentium, 29-31; Dei Verbum, n. 5, 819;

CONGREGATIO PRO DOCTRINA FIDEI, Instructio Donum veritatis, De ecclesiali theologi vocatione, 24 maii 1990, n. 15,

in AAS, 82 (1990), 1556. 192

«Se dunque il Concilio Vaticano II dal tesoro della Tradizione ha tratto elementi antichi e nuovi, e la sua novità è

contenuta da questi e da altri elementi, appare manifestamente che anche il Codice recepisce in sé la nota della fedeltà

nella novità e della novità nella fedeltà, ed a quella si conforma quanto alla materia ad esso propria, ed alla peculiare

struttura del linguaggio». IOANNES PAULUS PP. II, Const. Ap. Sacrae disciplinae leges, 12.

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«noi sappiamo che la Legge è buona, purché se ne faccia un uso legittimo, nella convinzione che la

Legge non è fatta per il giusto, ma per gli iniqui e i ribelli, per gli empi e i peccatori, per i sacrileghi e i

profanatori, per i parricidi e i matricidi, per gli assassini, i fornicatori, i sodomiti, i mercanti di uomini,

i bugiardi, gli spergiuri e per ogni altra cosa contraria alla sana dottrina, secondo il vangelo della gloria

del beato Dio, che mi è stato affidato» (1 Tm 1, 8-11).

Fa un uso legittimo della legge193

, solo chi conosce la legge nella sua natura. La natura della

legge non è nella legge, è in Dio. Quindi, fa uso legalmente della legge, solo chi conosce secondo

verità, la volontà di Dio. Tutti gli altri useranno la legge illegalmente, cioè non secondo la natura

della legge e, quindi, ne faranno uno strumento cattivo a servizio della stoltezza dell’uomo. Lo si è

già detto, ora lo si ripete con maggiore forza: “la volontà di Dio solo lo Spirito Santo la conosce”.

Solo Lui può sostenere nella Chiesa la ragione e permettere a quest’ultima di conoscere la natura e

il fine di una legge. Solo lui conosce secondo verità Dio e solo lui può darci secondo verità l’uso

della legge. Su questo fronte, bisogna fare molta attenzione a non stabilire leggi che poi alla fine si

rivelino contro l’uomo, perché non rispettano l’uomo nella sua vera essenza, nella sua natura e nella

sua vocazione. La legge non può che delimitare il male, mettere una siepe di protezione perché

l’uomo non la valichi. Oltre questa siepe c’è la morte della comunione, la morte della comunità:

essa però, rappresenta sempre il limite minimo, poiché la stessa legge può sempre essere superata

dalla carità. La carità è la suprema lex della Chiesa. Infatti, la Chiesa è strumento sacramentale di

salvezza: Cristo continua la sua opera di redenzione attraverso il suo corpo mistico, che per

l’appunto, la Chiesa è. Il Diritto deve cedere il passo, sospendersi, se ciò serve alla salvezza di

un’anima.

4.1 CONTESTO STORICO

Se è la storia, così come si crede, a rilevare il concreto esistere di qualsiasi cosa umanamente

raggiungibile, allora la si interrogherà per comprendere il concepimento, la nascita e lo sviluppo

della Teologia del Diritto canonico. Di fatto, si rileva che la nascita della disciplina autonoma

Teologia del Diritto canonico sia da rinvenire in concomitanza, e, in dipendenza della/dalla

riforma194

dell’ordinamento degli studi delle Facoltà di Diritto canonico195

. Tale riforma fu operata

dalla Congregazione per l’Educazione Cattolica della fede, attraverso una modifica della

193

Anche se S. Paolo si riferisce alla TORAH, non alla ‘legge’. 194

Riforma che riguardò l’art.76 della Costituzione Apostolica Sapientia Christiana e gli artt. 56 e 57 dei regolamenti. 195

Cf. CONGREGATIO DE INSTITUTIONE CATHOLICA, Decretum quo ordo studiorum in Facultatibus Iuris Canonici

innovatur, Novo Codice, 2 septembris 2002, in AAS, XCV (2003), 281-285.

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Costituzione Apostolica Sapientia Christiana196

. La modifica del 2002 costituisce l’atto di nascita

della giovane disciplina autonoma della Teologia del Diritto canonico197

, tuttavia, bisogna ricordarsi

che, la fase ultima della sua gestazione è possibile riscontrarla nel 1979, anno in cui la Costituzione

stessa fu emanata. La Costituzione Sapientia Christiana, infatti, rispondendo alla direttiva

conciliare (OT 16)198

, aveva previsto che nelle Facoltà di Diritto canonico venisse introdotto

l’insegnamento di “Elementa Sacræ Theologiæ et Philosophiæ”199

; questa novità permetteva ai

canonisti, non solo di ridare al Diritto canonico il suo habitat naturale, – perduto nel 1917 quando si

volle “guardare e/o assomigliare” alle legislazioni civili200

– espressione di una societas particolare,

ma allo stesso tempo, permetteva agli stessi, di respirare anche, e soprattutto, con il polmone della

Teologia, polmone che, consente l’elaborazione di un Diritto proprio, dipendente da una visione

antropologica specifica, quella, appunto, rivelata e magisterialmente compresa201

.

Anche se i propositi erano dei migliori, l’applicazione della Costituzione Sapientia Christiana

si tradusse in un riduttivo ed insignificante202

inserimento, tra le materie previste, di un corso di

Filosofia e Teologia giuridica, che poco rispondeva alle ferventi provocazioni provenienti dall’area

tedesca, la quale, invece, voleva la Teologia del Diritto come principio e fondamento della

canonistica203

, ritenuta parte indispensabile del curriculum accademico del futuro canonista. È in

questa prospettiva che si può cogliere la finalità del Decreto del 2002:

«prima di iniziare gli studi canonistici occorre conoscere la Teologia vera e propria, poiché ciò che

caratterizza come proprium il Diritto canonico ab imis fundamentis non è la Teologia “intera” allo

stesso Diritto canonico ma quella che lo precede, confermando il principio che la specializzazione in

Diritto canonico presuppone una vera – per quanto generale – formazione teologica»204

.

196

IOANNES PAULUS PP. II, Const. Ap. de studiorum Universitatibus et Facultatibus ecclesiasticis: Sapientia Christiana,

15 aprilis 1979, in AAS, LXXI (1979), 469-499. 197

«È da questa riforma che “nasce” ufficialmente la Disciplina accademica denominata “Teologia del Diritto

canonico” con una propria specificità ed autonomia – anche formale – rispetto alla situazione precedente». P. GHERRI,

Lezioni, 52. 198

Cf. CONCILIUM ŒCUMENICUM VATICANUM II, Decretum de Institutione sacerdotali: Optatam Totius, 28 octobris

1965, in AAS, LVIII (1966), 724. «Di fatto l’introduzione nel 1979 degli “Elementi di Sacra Teologia e Filosofia” tra le

discipline – obbligatorie – complementari a quelle “codiciali” non costituiva altro che un’applicazione delle direttive

conciliari di OT 16». P. GHERRI, Lezioni, 53. 199

Cf. S. CONGREGATIO DE INSTITUTIONE CATHOLICA, Const. Ap. de studiorum Universitatibus et Facultatibus

ecclesiasticis: Sapientia Christiana, 514. 200

Cf. G. DALLA TORRE, Pio X e il Codice di Diritto canonico, 64. 201

Qui ci si riferisce sia al magistero solenne della Chiesa, sia al suo magistero ordinario e universale a cui bisogna

credere (obbedire) per fede divina e cattolica. Cf. Codex Iuris Canonici, 1983, can. 750. 202

I termini riduttivo ed insignificante qui sono da ritenere in relazione ai propositi auspicati, non certo, ai corsi in sé. 203

«Di fatto l’ambiente polemico-apologetico anti-protestante (ed anti-modernista) della metà del XX sec. in cui si

sviluppò la Scuola bavarese ne oscurò fin dagli inizi le prospettive a causa di gravi travisamenti dei presupposti di

riferimento: per Mörsdorf e discepoli infatti la “crisi” non riguardava il livello metodologico (la Canonistica) ma il

livello fondativo-teologico (lo stesso Diritto canonico); neppure l’orizzonte di riferimento culturale e teologico erano

quelli della Canonistica cattolica classica». P. GHERRI, Lezioni, 68; cf. anche 53-54. 204

Ivi, 59.

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Cosa del tutto diversa, però, è comprendere poi, come il dato teologico (comprensione della

‘verità in sé’) possa diventare oggetto di valutazione nell’ambito del Diritto (costruzione della

‘verità in comunione’): questo, potremmo dire, è il locus della specifica Disciplina denominata

“Teologia del Diritto canonico”205

.

Una spinta verso un Diritto canonico più legato alla Teologia fu storicamente maturata in

seguito al forte distacco realizzatosi, tra le due discipline con la Codificazione del 1917206

, la quale,

è considerata da alcuni studiosi, come il punto di maggior rottura tra la Teologia e il Diritto207

.

«Il Codice Pio-Benedettino, riportando la sola parte disciplinare delle norme, sanciva di fatto, sotto il

profilo teoretico, la massima separazione fra Diritto e Teologia, facendo del Codice una sorta di

distillato puro che, quia iussum a beo qui curam communitatis [spiritualis] habet, acquistava valore

nella società del tempo proprio in ossequio alle dottrine positivistiche imperanti»208

.

Lo sbilanciamento verso un Diritto coincidente con la legge, quest’ultima da intendersi

valevole per il semplice fatto di essere stata promulgata209

– dimenticando il presupposto della

razionalità intrinseca – creò inevitabilmente una caduta di interesse nei confronti della ricerca del

fondamento della norma canonica210

. Tale caduta provocò, a sua volta, lo svilimento di una

componente fino ad allora qualificante il Diritto canonico, ovverosia, la componente sapienziale

dello Ius vetus211

.

A consolidare questa deriva, per certi versi identificabile con la linea autoritaria e positivista,

furono le successive indicazioni tese a regolare l’apprendimento e lo studio del Diritto canonico: la

Sacra Congregatio de Seminariis et de Studiorum Universitatibus, infatti, indicò come unica

metodologia da adottare, quella della esegesi del Codice. Allo studio del Codice, alla canonistica in

genere, veniva tolto anche l’elemento storico, ridotto a semplice introduzione.

«Nel 1917 invece, indipendentemente ormai dalle opinioni dei singoli autori, la pubblicazione del

Codice di Diritto canonico ha imposto un cambiamento metodologico nella Scienza canonica: la

Scienza del Diritto canonico vigente doveva riferirsi al testo del Codice recentemente promulgato,

205

Cf. G. GHIRLANDA, La riforma degli studi nelle facoltà di Diritto canonico, in Periodica, XCII (2003), 200. 206

Cf. C. WACKENHEIM, L’influence des modale juridiques sur la théologie catholique, in Revue de Droit Canonique,

XXXIX (1989), 32-33. 207

«La Teologia ne è quasi assente. […]. È il Codice della Chiesa, vista come “una società perfetta”. Dio ne è quasi

assente. I sacramenti sono messi tra le “cose”! I benefici ecclesiastici occupano cento Canoni». J. GAUDEMET,

Théologie et Droit Canonique, 13; cf. G. DALLA TORRE, Pio X e il Codice di Diritto canonico, 64. 208

P. GHERRI, Lezioni, 61; sul punto si cf. C. M. REDAELLI, L’adozione del principio della codificazione, 275. 209

Si vuole ricordare, però, che affermazioni del genere sono frutto di una comprensione della verità teologica di oggi,

frutto di un aggiornamento della verità teologica quindi che sempre, nella Chiesa, è opera dello Spirito Santo. In poche

parole si vuole dire che il Diritto, così come concepito dal Codice del ʼ17, è dipendente, è espressione della verità

teologica aggiornata a quel tempo. 210

Sul punto si veda S. KUTTNER, Il diritto canonico nella storia, in Jus, 18 (1967), 239-248; P. GHERRI, Il primo

Codice di diritto canonico: fu vera codificazione?, in Apollinaris, 77 (2003), 827-898; P. GHERRI, Canonistica,

Codificazione e metodo, Città del Vaticano, 2007, 19-98. 211

Cf. P. GROSSI, L’Europa del Diritto, 214; P. GHERRI, Lezioni, 61.

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mentre tutto lo studio delle fonti e dell’antica Scienza si trovava ormai in una situazione autonoma.

[…]. I professori dovevano trattare la storia soltanto a modo di introduzione prima della spiegazione

del Diritto vigente che riguardava i vari istituti giuridici. In questo modo la Scienza del Diritto

canonico vigente e quella della sua storia sono state chiaramente distinte, anzi, in qualche misura,

anche separate»212

.

Tale visione del Diritto, sempre dipendente dalla comprensione teologica del tempo,

determinò la spinta verso un nuovo aggiornamento – ricostruzione – della ‘verità in comunione’ (il

Diritto) che si produsse nel 1939, a soli pochi anni dalle disposizioni su richiamate213

, attraverso

l’esigenza di ridare al Diritto canonico la sua vitale componente storica214

. Nel 1931, infatti, furono

inserite nel nuovo piano di studi una serie di materie volte alla ripresa dello stile di insegnamento

classico215

, recuperando almeno l’elemento storico216. Della “vite” (la Teologia del Diritto), però, a

cui il “tralcio” (la relazione di comunione) deve restare unito per vivere, crescere, rinvigorirsi e

portare frutto, ancora nessuna traccia217

.

Forti provocazioni in tal senso, così come si accennava, vennero dall’orizzonte protestante, –

segnato com’era da una visione dicotomica della Teologia e del Diritto – le quali però, non

potevano non essere messe da parte dalla Teologia cattolica che, vede invece, i diversi aspetti della

Chiesa sempre tesi allo sviluppo e all’unità del corpo mistico di Cristo218

.

«Mentre il Diritto – in ciascuna delle sue forme – non aveva mai rappresentato un problema in ambito

cattolico (come testimonia chiaramente l’esperienza millenaria dello ius commune e dell’utrumque

jus), ben diversa era stata la situazione nel mondo della Riforma; per i protestanti, infatti, Teologia e

Diritto, epigoni di grazia e legge, non possono coesistere all’interno di uno stesso “sistema” unitario: è

il presupposto “dogmatico” della dottrina cosmica luterana dei due regni dalla quale deriva la profonda

distinzione tra Diritto naturale spirituale e Diritto naturale secolare senza più alcuna partecipatio

212

P. ERDÖ, La storiografia del Diritto canonico medievale, 3-4. 213

«Il nuovo indirizzo impartito con tanta forza all’indomani della promulgazione del CIC ed imposto all’insegnamento

nelle Facoltà ecclesiastiche (coi decreti del 1917 e 1918) portò ben presto ad un evidente impoverimento della

Canonistica, divenuta il più delle volte semplice “codicistica”, basata sulla sola esegesi, sostanzialmente dimentica della

storia e sganciata dalla Teologia, tanto che a poco più di un decennio si dovette intervenire, ai massimi livelli, per

un’autorevole correzione di rotta». P. GHERRI, Lezioni, 63. 214

Si pensi ad alcuni passaggi proposti nel primo capitolo teso a sostenere il pensiero secondo cui la Storia sta al Diritto

come l’anima sta al corpo. Senza un concreto riferimento alla storia si rischia di ordinare una vita che non esiste,

costruita sulla visione di un uomo ideale, a-storico. 215

Cf. S. CONGREGATIO DE SEMINARIIS ET DE STUDIORUM UNIVERSITATIBUS, Ordinationes ad Constitutionem

apostolicam «Deus scientiarum Dominus», in AAS, XXIII (1931), 263-284; PIUS PP. XII, Constitutio apostolica De

universitatibus et facultatibus studiorum ecclesiasticorum: Deus scientiarum Dominus, 12 iunii 1931, in AAS, XXIII

(1931), 241-262. 216

Sottolineamo “almeno” in quanto della Teologia del Diritto non vi è traccia alcuna: «l’esame specifico delle

discipline d’insegnamento indicate nel 1931 tanto dal romano Pontefice che dalla S. Congregazione evidenzia come

l’elemento storico costituisce la “certezza” anche sotto il profilo metodologico senza accenno di sorta ad una

(qualsivoglia) “Teologia del Diritto”, non conosciuta neppure dalla Circolare del 1975 sull’insegnamento del Diritto

canonico nei seminari, che si cura semplicemente di prescrivere che “nell’insegnamento vengano indicati i fondamenti

teologici generali del Diritto canonico e quelli particolari di ogni istituto giuridico”». S. CONGREGATIO PRO

INSTITUTIONE CATHOLICA, De doctrina Iuris canonici candidatis ad sacerdotium apte tradenda atque deinde

permanenter colenda, Postremis hisce annis, in Communicationes, VII (1975), 16. Cf. P. GHERRI, Lezioni, nota 50, 63. 217

L’immagine evangelica ripresa, vuole anche sottolineare la crescita, sia della comprensione Teologica (in questo

caso la vite), sia della relazione di comunione che il Diritto deve salvaguardare (tralcio). 218

Cf. J. HOFFMANN, Droit canonique et Théologie du Droit, in Revue de Droit Canonique, XX (1970), 289.

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legis æteræ nella ragione umana: la legge naturale spirituale è solo una volontà giuridica di Dio che

comanda e giudica alla fine del mondo e, pertanto, fuori della storia (estrinsecismo)»219

.

Il problema fondamentale da risolvere resta, quindi, quello di capire se la Teologia del Diritto

canonico sia uno studio volto a cercare una verità teologica ‘assoluta’ da proporre (si ricordi il

pensiero dei Corinzi) – cosa che si ritiene impossibile perché la verità teologica, come qualsiasi

altra, è compresa dall’uomo sempre come particolare verità –, oppure, sia uno studio volto alla

comprensione di una verità particolare che non potrà viversi se non nella comunione. Se si propende

per la prima ipotesi, ci si troverà di fronte ad una guerra senza fine: in questa ipotesi il Diritto

canonico (e il Diritto in sé) non avrebbe nessun senso ed efficacia, in quanto il Diritto, per natura

sua, è espressione storica della vita dell’uomo, particolare e in continuo movimento. Se al contrario,

si comprende che la verità, anche la verità teologica è sempre particolarmente compresa e

affermata, allora il Diritto canonico diventerà lo strumento capace di stabilire, determinare, sancire

la verità da viversi nella comunione.

«Sappiamo bene che da alcuni questo intento è stato criticato come irraggiungibile, ontologicamente

impossibile, perché – si affermava – il linguaggio giuridico è incapace di contenere tutta la ricchezza

dottrinale del Concilio Vaticano II. Noi invece abbiamo sempre ritenuto che questa obbiezione, anche

se proveniente da autorevoli voci, parta da un falso presupposto (METODOLOGICO). Non si è mai

pensato di imprigionare il Concilio in formule giuridiche. In primo luogo i documenti conciliari di

carattere dottrinale conservano tutto il loro valore e vigore; ma poi è da tener presente che documenti

conciliari e Codice, teologia e diritto, appartengono a generi letterari molto diversi, ed ognuno deve

restare fedele alla propria peculiarità. Il diritto canonico come tutti sanno, si appoggia sulla teologia,

che ne fonda e giustifica le prescrizioni. Non può esserci contrasto tra di loro, anche se si tratta di due

discipline diverse. Tutto ciò quindi che nel Concilio toccava la struttura gerarchica della Chiesa, le

istituzioni ecclesiastiche, l’esercizio del triplice munus, la vita dei fedeli, e richiedeva, per la sua

effettiva applicazione, la traduzione in norme giuridiche, è stato incorporato nel Codice»220

.

A questo punto sembra necessario accennare alla fase storica221

– contestualizzandola

geograficamente222

– che permise il concepimento223

della Teologia del Diritto: ci si riferisce qui

alla fecondazione prodotta dalla Scuola canonistica di Monaco224

. Però, prima di passare alla c.d.

219

P. GHERRI, Lezioni, 68. 220

PONTIFICIA COMMISSIO CODICI IURIS CANONICI RECOGNOSCENDO, Discorso del pro-presidente mons. Rosalio

Castillo Lara, 18-19. 221

Bisogna ricordare che una vera e propria Storia su tale Disciplina non esiste; ciò che esiste, invece, è il riferimento a

due personaggi: Rudolph Shom (1841-1917) e Klaus Mörsdorf (1909-1989) che risultano essere i primi referenti della

Teologia del Diritto. Cf. P. GHERRI, Primi appunti per una storia delle origini della Teologia del Diritto (canonico), in

Ius Canonicum, L (2010), 223. 222

«In un ambiente che continuava a soffrire le asprezze del confronto critico col Protestantesimo liberale e/o

razionalista di cui R. Shom, con le sue tesi anti-istituzionali, aveva rappresentato solo un apice temporaneo». P. GHERRI,

Lezioni, 81. 223

Anche se alcuni studiosi rilevano l’esistenza – nella sua essenza – della disciplina in secoli precedenti; sul punto cf.

D. COMPOSTA, Indicazioni e incidenze storiche per una Teologia del Diritto, in Salesianum, XXXII (1970), 281; P.

ERDÖ, Teologia del Diritto canonico. Un approccio, 16. 224

«È solo a partire dalla provocazione del fondatore della scuola canonistica di Monaco che nell’immediato post-

Concilio si apre un vero e proprio dibattito sullo statuto epistemologico e metodologico del diritto canonico come

scienza». E. CORECCO – L. GEROSA, Il Diritto Della Chiesa, in Manuale di Teologia cattolica, XII, Milano, 1995, 58.

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scuola di Monaco, bisogna ricordare, perché, e, in che termini, sorse il problema relativo alla

necessità/utilità di una Teologia del Diritto.

Nella seconda metà dell’Ottocento si produsse, in seguito alla (conseguenza della) Riforma

Protestante, la discussione relativa alla rilevanza del Diritto della Chiesa (cattolica) rispetto al

Diritto statuale. Sostenitore della non ammissibilità, nella Chiesa, di un Diritto pubblico (o Ius

publicum ecclesiasticum – esterno –), in quanto estraneo alla natura carismatica della Chiesa fu

Rudolph Sohm:

«secondo Sohm (come insegnava la Teologia liberale) era solo lo Stato, ultima ed unica istanza non

solo normativa ma – molto di più – morale ed etica, ad avere la possibilità di principio di dettare leggi

all’interno della società moderna … non certo una corporazione religiosa, com’erano considerate al

tempo le Chiese (nazionali protestanti) e, non di meno, quella cattolica. L’oscura ombra kantiana ed

hegeliana che stava per produrre anche le teorie giuridico-fondative di H. Kelsen (1881-1973) aveva

già eclissato in ambito germanico le maggiori acquisizioni della cultura cattolica in materia»225

.

Tale premessa, fondamento della tesi di Sohm, venne per così dire a frantumarsi in seguito

alla rivendicazione, in campo protestante, di una autonomia – organizzativa, funzionale e gestionale

– della Chiesa nei confronti dello Stato Nazista (conosciuto anche come Terzo Reich).

«La rivendicazione di una giusta (perché teologicamente necessaria) autonomia organizzativa,

funzionale e gestionale, della Chiesa rispetto ad uno Stato divenuto ormai etico (solo come pretesa!) e

palesemente anti-evangelico, non trova precedenti nella storia ecclesiale luterana (e riformata in

genere), ponendo così l’evidente problema di – almeno – giustificare un nuovo corso teologico

espressamente contrario all’ormai assodata comune recezione del protestantesimo. Occorreva una

nuova fondazione […].

Proprio il Kirchenrecht, però (!), era il problema sostanziale impiantatosi a Barmen per la Teologia

protestante: ciò che per motivi soteriologici alle origini della Riforma era stato reputato una semplice

quæstio facti da gestire al di fuori della Chiesa, nel regnum mondano (Grazia contro Diritto; fede

contro legge; fiducia contro obbedienza), diventava ora oggetto di specifica rivendicazione

ecclesiologica di natura dogmatico-teologica, non potendosi più tollerare che nella Chiesa vigessero

norme palesemente anti-evangeliche come il paragrafo ariano, originante da un legislatore

assolutamente diverso da quello pre-moderno, cui lo stesso Lutero aveva demandato funzioni pur

irrinunciabili per la vita stessa della Chiesa»226

.

Senza questo substrato di storia, non si comprenderebbero le istanze teologiche successive,

tese a vedere per contro, il Diritto troppo legato, o forse, quasi confuso con la Teologia. In questo

senso:

«Barth, che si pone in diretta polemica con lo Storicismo e il Positivismo giuridico, ha come orizzonte

quello della Teologia dialettica dove il problema centrale è quello di stabilire la natura del rapporto

Dio-uomo a partire non dalla Theologia naturalis, ma dalla costatazione che Dio è Dio in quanto pone

l’uomo di fronte ai propri limiti. Per cogliere questa alterità di Dio l’Ontologia razionale e il Diritto

naturale non servono: solo la Rivelazione può formulare affermazioni vincolanti. Nessuna Metafisica

umana – quella di Platone come quella di Aristotele o di Hegel – è capace di dire cosa sia lo Stato e il

225

P. GHERRI, Primi appunti per una storia, 231. 226

Ivi, 230-231.

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Diritto. La realtà può essere conosciuta solo con la fede e non con la Filosofia per cui l’analogia entis

è sostituita con l’analogia fidei»227

.

Una volta avvertita la necessità dell’indipendenza dallo Stato, la Chiesa evangelica, sentì la

necessità di organizzarsi a livello giuridico in modo diretto ed indipendente; questo stato di cose

portò come prima conseguenza positiva, la risoluzione del tradizionale conflitto Vangelo-Legge,

prodottosi in seno alla Riforma228

, al contempo però, produsse l’esigenza di ricerca di una solida, e

soprattutto, “evangelica” fondazione del Diritto.

È in questa esigenza di ricerca fondativa del Diritto ecclesiale tedesco (cattolico) che sorge la

riflessione di K. Mörsdorf229

, il quale, impegnò tutte le sue forze – all’interno della disputa tra

Carisma e Istituzione di matrice protestante230

– nel tentativo di affermare l’esistenza e l’utilità di

un Diritto nella Chiesa231

– palesemente contro le affermazioni di Shom secondo cui il Diritto è

ontologicamente incompatibile con essa –, un Diritto che dipendesse direttamente dalla Teologia232

,

uno ius sacrum233

.

«Il Diritto canonico richiedeva ormai una comprensione a partire dalla fede e non, in prima istanza,

dalla “semplice” giuridicità umana, considerata teologicamente non probante perché inficiata di

giusnaturalismo […]. La sostituzione delle ormai sclerotizzate categorie giuridiche con termini di

portata più “spirituale” quali: Parola di Dio, Sacramento, communio, la distanza sempre maggiore

interposta tra la dottrina della Scuola ed il Diritto vigente (ancora il CIC ’17), guadagnarono grandi

consensi alle idee raggruppate sotto l’etichetta “Teologia del Diritto” che pareva essere ormai divenuta

il nuovo volto dell’istituzionalità ecclesiale, quasi in contrapposizione con lo stesso Codice ormai

esautorato di qualunque credibilità […]. La Scuola di Monaco s’indirizzò così sempre più in

profondità sul tema della fondazione teologica del Diritto canonico ritenendo che solo una sua

“necessità ontologica” potesse risolvere la crisi in atto, non bastò, pertanto, una generica teologicità

del Diritto (come quella evocata dai discorsi di Paolo VI) ma si cercò di articolare una vera e propria

227

E. CORECCO, Voce: Diritto, in Dizionario teologico interdisciplinare, I, Casale Monferrato (AL), 1977, 138-139. 228

Cf. C. M. REDAELLI, Il concetto di Diritto della Chiesa: nella riflessione canonistica tra Concilio e Codice, Milano,

1991, 72. 229

«In quell’effervescente contesto teologico, inclinato ormai decisamente verso la nuova Teologia politica e la

Rechtstheologie, che i teologi protestanti portavano avanti nelle aule delle Università, il nuovo cattedratico cattolico

distolse ben presto l’interesse della propria ricerca dall’esegesi dei testi codiciali canonici (Kanonischenrecht) per

dedicarsi ai fondamenti del Kirchenrecht ed alla Rechtstheologie, certamente più consoni alla sua preparazione,

competenza e sensibilità». P. GHERRI, Primi appunti per una storia, 242-243. 230

Sulle origini storico-formali di tale disputa si rimanda alla accurata ricerca di P. GHERRI, Primi appunti per una

storia, 224-230. 231

A ben vedere, tale questione sulla necessità di un Diritto nella Chiesa, sorse in seno alla Riforma protestante stessa:

inizialmente, infatti, in seguito all’approvazione della Chiesa Evangelica Tedesca del c.d. paragrafo ariano – con cui si

manifestava chiaramente la volontà di appoggiare il nuovo Cancelliere Hitler – che proibiva ai non ariani di divenire

ministri o maestri di religione, si andò consumando una spaccatura tra, coloro che, appoggiavano indiscussamente lo

Stato, e chi invece, rivendicava la possibilità/necessità di un proprio Diritto, distinto e indipendente da quello dello

Stato stesso. Cf. P. GHERRI, Primi appunti per una storia, 228. 232

Di chiara natura apologetica, che non tenne conto del diverso contesto (Diritto pubblico ecclesiastico esterno) a cui

Sohm faceva riferimento. Cf. P. GHERRI, I fondamenti del Diritto canonico secondo K. Mörsdorf. Note contenutistiche

alla traduzione italiana degli scritti maggiori, in Ius Canonicum, XLIX (2009), 677-696. 233

Sul punto cf. K. MÖRSDORF, Schriften zum kanonischen Recht, in W. AYMANS – K. T. GERINGER – H. SCHMITZ

(eds.), Paderborn, F. Schöningh, 1989, in Studia canonica, 24 (1990) 266-267; K. MÖRSDORF, Kanonischen Recht als

theologische Disziplin, in Seminarium, 15 (1975), 802-821.

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“Teologia del Diritto” che nel frattempo, a Concilio terminato, tralasciò sempre più l’originale

riferimento al binomio Parola-Sacramento per utilizzare, in modo del tutto strumentale, una nuova

categoria “tipicamente” conciliare quale la communio»234

.

Se Corecco, figlio della riflessione iniziata con Mörsdorf235

, intravede nella communio il

fondamento teologico della normatività del Diritto canonico236

, ancor più si è convinti che, per

comprendere correttamente la relazione sui generis – in quanto avente caratteristiche peculiari – tra

autorità e fedele all’interno dell’Ordinamento canonico, non si possa tralasciare l’orizzonte237

particolare donatoci dall’ultima riflessione Conciliare238

; tutto questo, però, senza cadere nel rischio

di una “teologizzazione239

del Diritto”, poiché si è convinti che la storia240

, e quindi la socialità241

non la fede242

– sia l’habitat proprio di qualunque Diritto243

. Infatti,

234

P. GHERRI, Lezioni, 85-86. 235

«La scuola di Monaco di Baviera (fondata da Klaus Mörsdorf) […] cercava di dedurre l’esistenza e la legittimità di

tutto il Diritto canonico da principi teologici, soprattutto dalla nozione di Comunione, e di utilizzare la Teologia del

Diritto canonico invece della Teoria generale del Diritto». P. ERDÖ, Storia della Scienza del Diritto canonico. Una

introduzione, Roma, 1999, 184. 236

«Il Diritto canonico, a differenza di quello secolare, non è generato dal “dinamismo spontaneo (biologico) della

convivenza umana”, ma da quello specifico inerente alla natura stessa della comunione ecclesiale, la cui socialità è

prodotta genericamente non dalla natura umana, ma dalla Grazia che instaura rapporti intersoggettivi e strutturali

diversi, propri alla costituzione della Chiesa e conoscibili solo attraverso la fede». E. CORECCO, Ordinatio rationis o

ordinatio fidei? Appunti sulla definizione della legge canonica, in Communio, 36 (1977), 51. 237

Non bisogna dimenticare che si tratta di un orizzonte teologico, orizzonte cui il Diritto canonico deve sempre

riferirsi, altrimenti si rischia di cadere in una falla che non ci consentirebbe di tenere distinti, l’ambito dell’obbedienza

canonica (foro esterno) dall’ambito dell’obbedienza teologico/morale (foro interno). Pertanto urge non cadere in una

«visione monista che non può evitare la propria conseguenza più tragica: la sacralizzazione istituzionale.

Un’impostazione di questo tipo non riesce infatti ad evitare esiti mistificatori soprattutto a livello di norme, strutture,

istituti canonici che acquistano valore “sacramentale” riproponendo una ierocrazia (clericale) di stampo

veterotestamentario». P. GHERRI, Lezioni, 92. 238

Il quale pur essendo ben conscio della reale necessità di un Diritto della/nella Chiesa, riconosce ad esso un

fondamento “dal basso”, realtà umana, ovviamente, che necessita di essere, anch’essa, illuminata dalla fede. Si ritiene

pertanto, di dover intendere in questa direzione, l’indicazione che il Concilio Vaticano II diede nella Optatam Totius n.

16: è a partire dalla Ecclesiologia e non dalla Teologia (soteriologia) che il Diritto canonico può e deve essere

compreso. 239

«Il teologismo consiste nel considerare l’interpretazione teologica come l’unica versione veritiera o adeguata del

reale. Questo spirito porta il teologo ad opporre artificialmente la lettura teologica ad altre letture, come se l’unica

lettura legittima fosse la sua. Egli critica il “materialismo” o la “parzialità” delle altre letture, come se quella teologica

fosse la lettura totale ed esaustiva della realtà. […]. Si dà neologismo laddove una Teologia ha la pretesa di incontrare

dentro le proprie mura tutto ciò che è necessario per esprimere adeguatamente il politico, nello stesso istante in cui essa

ignora i presupposti silenziosi, dal punto di vista delle Scienze Sociali, implicati nella sua trattazione». C. BOFF,

Teologia e prática. Teologia do politico e suas mediaçoes, Petropolis, 1978, 76-77. 240

Questo spiega la nostra particolare e puntuale attenzione alla storia; crediamo, infatti, che non si possa comprendere

e riflettere il/sul Diritto, se non, avendo uno sguardo onesto sull’evoluzione storica a cui segue, non precede, il diritto. 241

«Una Teologia cattolica del Diritto che abbia un proprio statuto non solo non esiste praticamente nei fatti, ma la sua

legittimità è contestata per principio […] il Diritto appartiene alla natura umana; esso rileva pertanto nella Filosofia e

non nella Teologia». W. STEINMÜLLER, Evangelische Rechtstheologie, Köln-Graz, 1968, 7. 242

«Il problema dell’esistenza del “Ius canonicum” è un problema essenzialmente teologico: appartiene al contenuto

centrale della Teologia, perché appartiene al contenuto essenziale della fede. Non può essere risolto al di fuori di questa.

[…]. Il Diritto è una realtà teologico-soprannaturale, ma come tale è anche una realtà che deve incarnarsi nella storia,

assumendo forme giuridiche anche umane». A. RAUCO VARELA – E. CORECCO, Sacramento e Diritto: antinomia della

Chiesa? Riflessioni per una Teologia del Diritto canonico, Milano, 1971, 52-53. 243

«Quando si pensa al problema del Diritto fino al fondo del “che (cosa)” e il “come” della sua “praticità” come

giustizia storicamente vissuta, si termina col costatare la sua insolubilità, umano-naturale-relazionale, in quanto “si

tratta del problema della vita stessa: della vita come ordine” [E. Wolf]. Conseguentemente, se non si vuol cadere in un

atteggiamento di scetticismo e di disperazione giuridica, o di cinismo machiavellico, bisogna ammettere la necessità

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«cosa ben diversa sarebbe, ed è stata in effetti, una “Teologia del sociale” o “Teologia politica”, come

la chiamò J. B. Metz, che sappia stimolare la fede dei cristiani a farsi concretamente prassi nella storia

e nella società; una linea, tra l’altro, imboccata con decisione dallo stesso Magistero pontificio già dal

1891 con l’Enciclica “Rerum novarum” di Leone XIII, ed ora organicamente fissata nella c.d. Dottrina

sociale della Chiesa»244

.

Di conseguenza, il problema fondamentale della Teologia del Diritto (canonico) risulterà

essere un problema di metodo245

: essa deve solo servire come strumento di acquisizione e

conversione dei dati/verità (via via compresi, aggiornati dalla Teologia) che la vita della Chiesa,

corpo mistico-sociale-storico di Cristo, deve esprimere nella sua struttura, soggetta anch’essa,

pertanto, ad un aggiornamento continuo246

.

«L’esistenza di diritti ed obblighi nella Chiesa, in riferimento ad una prospettiva antropologica ed

ecclesiologica che scaturisce nella cristologia, si fonda in ultima analisi proprio in questa sede: nella

persona di Gesù, la cui identità singolare nella dimensione dell’unità e in quella della differenza

permette l’esistenza del diverso da sé senza mai separarsi dall’altro. Anche i rapporti giuridici nella

Chiesa, come fondamentalmente tutto il fenomeno giuridico teologicamente compreso, sono custoditi,

protetti e rivelati nell’unità e differenza cristologica»247

.

Per completare il quadro storico – seppur sommario, per le ragioni espresse precedentemente

in nota – non bisogna tralasciare l’apporto dottrinale offerto dalla c.d. Scuola di Navarra che, nel

contesto della crisi della canonistica dovuta alla codificazione del 1917248

, si contraddistinse per una

elaborazione più tecnica del Diritto. La Codificazione, infatti, fu vista come lo strumento mancante

alla realizzazione di un Diritto proprio249

, alla stregua delle altre società, consentendo in tal modo

allo Jus Publicum Ecclesiasticum di esprimersi al meglio250

.

teorico-pratica di un trattamento teologico dello stesso [Diritto]. È in questo momento, che sorge inevitabilmente la

domanda per la Teologia del Diritto». A. M. ROUCO VARELA, Filosofia o Teologìa del Derecho? Ensayo se una

respuesta desde el Derecho Canónico, in AA. VV., Wharheit und Verkündigung. Michael Schmaus zum 70. Geburtstag,

München-Paderborn-Wien, 1967, II, 1726-1727. 244

P. GHERRI, Teologia del Diritto canonico: identità, missione e statuto epistemologico, in Apoll, LXXX (2007), 346. 245

«L’inconsistenza metodologica di questo genere di posizioni non abbisogna di commenti: il Diritto è identificato tout

court con la “relazione interpersonale doverosa”; in essa si pretende individuare l’essenza del rapporto giuridico che da

questa stessa tipologia relazionale viene dedotto nelle sue caratteristiche, in quanto Diritto e prima ancora di diventare

Diritto ecclesiale! Questo presupposto viene poi ricondotto al suo fondamento antropologico-teologico per cui il Diritto

(ogni Diritto) è in realtà questio theologica». P. GHERRI, Lezioni, 89. 246

La Teologia dona la materia prima al Diritto. Esempio: Il Concilio Vaticano II ha aggiornato la comprensione della

verità teologica. La comprensione di tale verità, aggiornata, è stata data al Diritto ed è nato il nuovo Codice. Domani la

Teologia aggiornerà ancora una volta la sua comprensione della verità di fede. E ancora una volta la offrirà al Diritto

perché aggiorni le regole della sua comunione. Il problema sta tutto qui: verità universale, verità particolare, verità

storica, verità aggiornata, verità in comunione (Diritto). 247

M. VISIOLI, Quale fondazione per il Diritto della Chiesa?, in G.I.D.D.C, Fondazione del Diritto. Tipologia e

interpretazione della norma canonica (coll. Quaderni della Mendola), Milano, 2001, 61. 248

Sul punto si veda: C. M. REDAELLI, Il concetto di Diritto della Chiesa; R. TORFS, L’es écoles canoniques, in Revue

de Droit Canonique, XLVII (1997), 89-110. 249

«Il concetto di Diritto proprio del Diritto canonico è lo stesso di quello del Diritto secolare: da qui la non differenza

di metodo e la possibilità di applicare alla Chiesa le concettualizzazioni elaborate dalla scienza giuridica, salvo il

riferimento alle sue peculiarità, che però sono di contenuto e non di formalità giuridica». C. M. REDAELLI, Il metodo

esegetico applicato al Codice di diritto canonico del 1917, in Periodica, LXXXVI (1997), 87. 250

Cf. P. GHERRI, Lezioni,75-80.

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«Il Diritto nella Chiesa non è o non era in crisi perché troppo giuridico, troppo tecnico, ma, al

contrario, per non essere studiato ed elaborato a un livello paragonabile a quello del Diritto secolare.

In questo senso la soluzione non va cercata in una sua teologizzazione, con il rischio di perdere la sua

giuridicità, ma in un suo rigoroso approccio giuridico, scientificamente convincente»251

.

Questi fondamentali cenni storici sono utili per mettere in luce, se pur brevemente, le due

istanze fondamentali che hanno spinto a rivedere il fondamento della canonistica; si ritiene però

che, entrambe le impostazioni cadono in direzione opposta, nella falla di ritenere e poggiarsi, ora, su

un elemento, ora, sull’altro, a scapito di una visione unitaria che mantenga in tensione le due

istanze, entrambe fondamentali per evitare, sia un teologismo del Diritto, sia un tecnicismo dello

stesso. Infatti, i due ambiti, benché distinti, devono dialogare perché essi non possono contraddirsi,

in quanto dipendenti, in ultimissima istanza, dalla stessa Fonte252

, costituendo l’uno la verifica

dell’altro (fides et ratio). Pertanto, si tenterà di proseguire la ricerca stando attenti a non cadere, né

in una teologizzazione del Diritto dipendente da una verità assoluta (non istantaneamente

accessibile all’uomo), né in un tecnicismo di stampo positivista (la verità della comunione, il

Diritto, dipende sempre da una verità particolare superiore a cui si deve man mano aggiornare).

Ciò che rende il Diritto canonico peculiare tra le varie espressioni della socialità è proprio il

suo fine, ossia, ordinare una relazione di comunione (in vista della comunione eterna) all’interno

della compagine visibile della Chiesa, definita da una specifica relazionalità tridimensionale (io-

tu/terzo-Cristo/Istituzione)253

. Questa relazione a cui il Diritto canonico deve far riferimento, deve

comunque restare sul piano del foro esterno e, pertanto, non va confusa né con un tradizionalismo,

né con un fideismo254, causa altrimenti di ricadere in una visione che ritenga possibile l’accesso, la

comprensione di una verità assoluta, statica. Aver bene in mente che, riflettere sulla corretta

relazione istituzionale gerarchica (obbedienza canonica) significa riflettere a partire dal foro

esterno, eviterà il rischio di cadere nella deriva della concezione sacrale dell’istituzionalità

ecclesiale, la quale

251

C. M. REDAELLI, Il metodo, 85. 252

«Nella Chiesa di Cristo – ci ha ripetuto il recente Concilio – accanto all’aspetto spirituale e interno c’è quello visibile

ed esterno; in essa c’è unità, se è vero com’è vero che è questa una delle fondamentali sue note, ma tale unità lungi

dall’escludere si compone e si intreccia con la “diversità delle membra e degli uffici” (cf. Lumen Gentium, 7-8)».

IOANNES PAULUS PP. II, Allocutio: A summo pontifice in aula super porticum Vaticanæ basilicæ habita, ad novum

Codicem Iuris Canonici, paucis ante diebus promulgatum, publice exhibendum, 3 februarii 1983, in AAS, LXXV

(1983), 455-463. 253

Si pensi qui a tutte le eccezioni previste dall’ordinamento stesso, tese alla salvezza dell’anima e non solo ad una

(pre)soluzione dei conflitti terreni. 254

«Per di più, il modo di procedere di questi autori si presenta spesso perentorio, aprioristico, propenso alla semplice

affermazione senza argomentazioni in grado di mostrare la correttezza delle proprie affermazioni; molti paiono essere

gli elementi presupposti di carattere assolutamente generico e non pertinenti all’ambito giuridico come tale, spostando

costantemente le questioni dall’ambito tecnico d’origine ad ambienti teoretici e fondativi incapaci di reale integrazione

col vissuto quotidiano». P. GHERRI, Lezioni, 93.

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«fa sì che all’esercizio del potere sub specie servitii debba corrispondere l’attestazione – assertoria –

della propria fede (fedeltà?) verso la natura di servizio del popolo stesso. In tal modo il Battezzato –

anziché offrire la propria responsabile collaborazione – “testimonia” la propria fede, riconoscendo

valido (congruo ed equo) quanto proviene dal servizio svolto dai Superiori»255

.

4.2 TEOLOGIA DEL DIRITTO

Nella concezione canonistica post-conciliare, il punto di riferimento teologico è

l’ecclesiologia di comunione, la struttura e il funzionamento della realtà ecclesiale, la quale, deve

essere in grado di custodire e trasmettere il Vangelo in modo coerente con il Vangelo stesso256

. Va

osservato innanzitutto, l’aspetto storico della questione, soprattutto per quel che riguarda il rapporto

col Protestantesimo, sul problema della “visibilità” della Chiesa. Il Concilio Vaticano II risolve la

questione in maniera ‘definitiva’, secondo i termini fissati al Concilio di Trento dal card.

Bellarmino257

.

«Cristo, unico mediatore, ha costituito sulla terra e incessantemente sostenuta la sua Chiesa santa,

comunità di fede, di speranza e di carità, quale organismo visibile, attraverso il quale diffonde per tutti

la verità e la grazia. Ma la società costituita di organi gerarchici e il corpo mistico di Cristo,

l’assemblea visibile e la comunità spirituale, la Chiesa terrestre e la Chiesa arricchita di beni celesti,

non si devono considerare come due cose diverse; esse formano piuttosto una sola complessa realtà

risultante di un duplice elemento, umano e divino. Per una analogia che non è senza valore, quindi, è

paragonata al mistero del Verbo incarnato. Infatti, come la natura assunta serve al Verbo divino da

vivo organo di salvezza, a lui indissolubilmente unito, così in modo non dissimile l’organismo sociale

della Chiesa serve allo Spirito di Cristo che la vivifica, per la crescita del corpo (cfr. Ef 4,16).

Questa è l’unica Chiesa di Cristo, che nel Simbolo professiamo una, santa, cattolica e apostolica e che

il Salvatore nostro, dopo la sua resurrezione, diede da pascere a Pietro (cfr. Gv 21,17), affidandone a

lui e agli altri apostoli la diffusione e la guida (cfr. Mt 28,18 ss.), e costituì per sempre colonna e

sostegno della verità (cfr. 1 Tm 3,15). Questa Chiesa, in questo mondo costituita e organizzata come

società, sussiste nella Chiesa cattolica, governata dal successore di Pietro e dai vescovi in comunione

con lui, ancorché al di fuori del suo organismo si trovino parecchi elementi di santificazione e di

verità, che, appartenendo propriamente per dono di Dio alla Chiesa di Cristo, spingono verso l’unità

cattolica. Come Cristo ha compiuto la redenzione attraverso la povertà e le persecuzioni, così pure la

Chiesa è chiamata a prendere la stessa via per comunicare agli uomini i frutti della salvezza. Gesù

Cristo “che era di condizione divina ... spogliò sé stesso, prendendo la condizione di schiavo” (Fil 2,6-

7) e per noi “da ricco che era si fece povero” (2 Cor 8,9): così anche la Chiesa, quantunque per

compiere la sua missione abbia bisogno di mezzi umani, non è costituita per cercare la gloria terrena,

bensì per diffondere, anche col suo esempio, l’umiltà e l’abnegazione» (LG 8).

255

Ivi, 94. 256

«Già si è accennato più volte al mandato conciliare di “esporre il Diritto canonico tenendo presente il mistero della

Chiesa secondo la Costituzione dogmatica Lumen Gentium”; allo stesso tempo è emerso chiaramente dall’itinerario fin

qui articolato come la collocazione – il locus – del Diritto all’interno della vita della Chiesa non sia quella

comportamentale (etica e morale) ma quella istituzionale: fornire cioè alla Comunità dei discepoli del Signore Gesù

“strutture” e “funzionalità” (personali, non meccaniche) capaci di custodire e trasmettere il Vangelo alle generazioni

future, in modo coerente con la natura ed il contenuto del Vangelo stesso». Ivi, 225. 257

Cf. R. BELLARMINUS, Disputationes de controversiis christianæ fidei adversus huius temporis hæreticos, T. II, 1.3,

c. 2, Venetiis, 1721, 53; R. BELLARMINUS, De controversiis christianæ fidei adversus huius temporis hæreticos,

Coloniæ Agrippinæ, 1615, 44.

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Il protestantesimo distingue tra una “ecclesia abscondita”, la Chiesa spirituale, la vera, e, la

“ecclesia visibilis”, quella terrena. Con il Concilio invece si ritiene che, la Chiesa è una realtà

complessa che non si può esprimere con un’unica affermazione, essendo essa strutturata a più

livelli. Il Concilio Vaticano II intende sanare l’irrisolta dicotomia ecclesiologica, a un livello

profondo, cioè, il livello della ontologica unitarietà della Chiesa, e lo fa, attraverso la categoria

teologica dell’Incarnazione258

. Al menzionato n. 8 della Lumen Gentium, infatti, si afferma

l’ontologica unitarietà della Chiesa, che risulta composta da un elemento umano e uno divino.

Nell’interpretare il n. 8 della LG, molti autori, però, cadono in un pericoloso fraintendimento259

: nel

tentativo, infatti, di stabilire un rapporto tra Diritto canonico/Chiesa, si accentua la categoria

“sacramentale” in riferimento alla funzione/funzionalità della Chiesa260

. La LG non accenna affatto

al concetto di sacramentalità, ma introduce soltanto l’analogia con l’Incarnazione261

: come Cristo è

stato vero uomo, così anche la Chiesa è una vera realtà umana.

«Va evidenziato innanzitutto come LG 8 in riferimento all’essenza della Chiesa non parli in nessun

modo di “sacramentum” o sacramentalità, ma si limiti ad evocare (analogicamente) il modello

dell’Incarnazione (una sola complessa realtà risultante di un elemento umano e di un elemento divino)

come soluzione definitiva delle diverse bipolarità ormai storicamente alla base dei conflitti

ecclesiologici: (a) società gerarchica - (b) corpo mistico, (a) assemblea visibile - (b) comunità

spirituale, (a) Chiesa terrena - (b) Chiesa celeste. […] Scopo precipuo di LG 8 è, sotto il profilo

dogmatico, affermare senza possibilità di replica l’unitarietà totale ed invisibile nella Chiesa

dell’elemento divino e di quello umano in piena “unione” ma senza “confusione”. Si tratta di una

affermazione che riguarda l’essenza e la “struttura” della Chiesa, e non la sua “funzione /funzionalità”,

come spesso invece viene semplicisticamente inteso con un ricorso troppo immediato alla categoria

“sacramentaria”»262

.

258

Questo modo di presentare la realtà della Chiesa attraverso la categoria teologica dell’Incarnazione non è nuova,

infatti sul punto: G. SOGLIA, Institutiones Juris Publici Ecclesiastici, Laureti, 1842; P. ERDÖ, Teologia del Diritto

canonico. Un approccio, 19; J. H. NEWMAN, An Essay on the Developement of Christian Doctrine, Westminster, 1968. 259

Si confronti ad esempio A. MONTAN, Il Diritto nella vita e missione della Chiesa, 1. Introduzione, norme generali, il

Popolo di Dio, Libri I e II del Codice, Bologna, 2001, 81. 260

Esplicito sul punto il Card. J. H. Newman: «la Chiesa partecipa al triplice compito di Cristo, ma in misura umana.

L’enunciato e il giudizio teologico secondo cui la Chiesa è immagine di Dio e che essa, organizzata in un’unità visibile,

riveste una funzione sacramentale, non può condurre in nessun modo alla divinizzazione ideologica della Chiesa e della

sua organizzazione visibile, o dell’intero Diritto canonico». J. H. NEWMAN, An Essay, 104. 261

A tal proposito: «l’analogia tra la Chiesa in quanto corpo mistico di Cristo e Cristo stesso in quanto Verbo incarnato

è diretta ed indiretta allo stesso tempo. L’analogia è indiretta dal punto di vista dell’unità inscindibile dell’elemento

umano e di quello divino. Sotto questo aspetto la somiglianza sta soprattutto nel fatto che i due elementi non si possono

separare né in Cristo né nella Chiesa. La differenza sta invece nel fatto che il Verbo incarnato l’elemento umano e

quello divino formano un’unità ipostatica (unio hypostatica), essendo le due nature unite in un’unica persona; nel Corpo

mistico possiamo parlare di unità mistica tra lo spirito della Chiesa cioè lo Spirito Santo (cfr. LG 7g), ed i credenti. È

dovuto a questo che le istituzioni della Chiesa sono vivificate dallo Spirito (cfr. AG 4). D’altro canto, tra queste stesse

realtà sussiste anche un’analogia diretta, precisamente dal punto di vista che, sia nel caso del Verbo incarnato che nel

caso del Corpo mistico, l’elemento umano è una realtà vivente, organica, che serve per la salvezza degli uomini. Tale

ruolo viene svolto dal Corpo mistico in un rapporto di dipendenza dallo stesso Cristo, partecipando alla sua forza

salvifica». P. ERDÖ, Teologia del Diritto canonico. Un approccio, 97. 262

P. GHERRI, Lezioni, 232-233.

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Per quanto riguarda il Diritto canonico, che secondo i canoni della scienza giuridica

canonistica, è vero Diritto, esso si riferisce all’ambito umano che corrisponde alla struttura visibile

della Chiesa263. Dal fraintendimento del concetto di “sacramentalità” nella LG, alcuni autori

ritengono che il Diritto canonico abbia come suo fine la salvezza dell’uomo. Secondo questa

prospettiva il Diritto ecclesiale positivo sarebbe:

«un mezzo, uno strumento, al servizio del Fedele per il raggiungimento della stessa salvezza nella

Chiesa. In questo senso lato si può dire che il Diritto canonico partecipi della sacramentalità della

Chiesa. La Grazia, assumendo le realtà umane redente da Cristo nella struttura sacramentale, non ne

distrugge la natura, cioè quello che sono e significano antropologicamente, anzi sviluppa e perfeziona

tale natura e significato. […]. Tenuto conto di quanto fin’ora è stato detto si deve ammettere il valore

salvifico anche del Diritto ecclesiale positivo umano, che può essere definito come “Diritto sacro” (ius

sacrum) e “Diritto di comunione” (ius communionis), in quanto espressione e strumento di

incarnazione del Diritto divino sia naturale che rivelato, volto alla protezione e alla promozione della

comunione ecclesiale»264

.

Si ritiene, però, che affermare il fine soteriologico del Diritto non sia sostenibile, né dal punto

di vista teologico, né dal punto di vista giuridico.

«Appare abbastanza chiaramente che il Codice non ha come scopo in nessun modo di sostituire la

fede, la grazia, i carismi e soprattutto la carità dei fedeli nella vita della Chiesa. Al contrario, il suo

fine è piuttosto di creare tale ordine nella società ecclesiale che, assegnando il primato all’amore, alla

grazia e al carisma, rende più agevole contemporaneamente il loro organico sviluppo nella vita sia

della società ecclesiale, sia anche delle singole persone che ad essa appartengono»265

.

Il Diritto è sempre uno strumento quanto mai necessario, con il quale si conserva il debito

ordine, sia nella vita personale e sociale, sia nella stessa attività della Chiesa266

. La conoscenza che

il Diritto è chiamato a donare riguarda il minimo, il limite della relazionalità ecclesiale. Esso,

pertanto, non solo deve restare ‘uno’ strumento, ma deve sempre essere pronto a cedere il passo alla

carità, ovverosia, la relazione di fede a cui sempre deve tendere il Christifidelis.

La vera novità in ambito ecclesiologico e canonistico del Concilio Vaticano II è il concetto di

Chiesa come “popolo di Dio”267

(concetto che non intacca quello di societas e communitas), con

l’articolazione tra sacerdozio comune e sacerdozio ministeriale.

263

«Se il Diritto, nella verità del suo concetto, è relazione tra pari, esso, anche nella sua forma canonistica, sarà sempre

e comunque Diritto “civile”, regolerà cioè sempre e comunque relazioni sociali tra gli uomini, dato che nessun uomo

potrà mai essere ritenuto estraneo ad una qualsivoglia civitas. […] il Diritto canonico non è diverso nella sua essenza

dal Diritto “civile”; essendo a pieno titolo Diritto, anch’esso farà riferimento ad una civitas ed avrà come obbiettivo

garantirne la possibilità. La differenza tra i due diritti dipende dall’orizzonte in cui il Diritto canonico si muove». F.

D’AGOSTINO, Fondazione del Diritto, 15-16. 264

G. GHIRLANDA, Introduzione al Diritto ecclesiale, 30. Cf. G. GHIRLANDA, Introduzione al Diritto ecclesiale.

Elementi per una teologia del diritto nella Chiesa, Roma, 2013, 40. 265

IOANNES PAULUS PP. II, Const. Ap. Sacrae disciplinae leges, 11. 266

Cf. IOANNES PAULUS PP. II, Const. Ap. Sacrae disciplinae leges, 12-13. 267

«Il ruolo strutturante (ma non esclusivo) dato al tema della Chiesa-Popolo di Dio permette di superare la

“gerarcologia”, e di mettere in rilievo la dimensione storica ed escatologica della Chiesa. L’accento messo sulla

collegialità episcopale (con la definizione della sacramentalità dell’Episcopato), riequilibra una visione della Chiesa

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«Alla base del Popolo di Dio viene posto il sacerdozio comune dei Fedeli quale elemento fondante

della realtà e vita ecclesiale; proprio questo “sacerdozio” – distinto per essenza e non solo per grado da

quello ministeriale – è il “fine” dell’esistenza stessa e dell’esercizio del ministero ordinato della

Gerarchia ecclesiastica; questo stesso “sacerdozio comune” trova nella vita consacrata una

particolarissima forma di espressione ed esercizio a servizio dell’annuncio del Vangelo e come

testimonianza profetica dell’universale vocazione alla santità del Popolo di Dio»268

.

Presa visione della strumentalità del Diritto canonico, così come emerge dai documenti del

Concilio, bisogna inquadrare lo statuto epistemologico della Teologia del Diritto. In rapporto alla

Teologia del Diritto canonico, è necessario chiarire prima di tutto, la differenza che intercorre tra gli

stessi termini presi in considerazione269

. Va detto infatti che, dal punto di vista metodologico, il

tema da trattare non è il rapporto tra Teologia e Diritto canonico270

, ma quello tra “Scienza

teologica” e “Scienza canonistica”, come sottolinea Paolo Gherri, dal momento che, la Teologia è

una “scienza” e, il Diritto canonico invece, un “fatto” che, come tale, può costituire materia

d’indagine della prima271

. Osserva a proposito T. J. Urresti che la canonistica è una scienza

giuridica, che ha un oggetto e un metodo giuridico, ma un presupposto teologico;

«il canonista comprende che il suo studio del Diritto canonico è Scienza propria, i cui dati giunge a

sistematizzare in teoria in ogni epoca storica del medesimo; e al contempo è cosciente che, in quanto

canonista, non è competente per dare la ragione radicale del fenomeno canonico, ma la riserva al

teologo, o la realizza lui stesso ma teologizzando, agendo da teologo, formulando i dati rivelati, pre-

canonici, così come i dati di finalità ulteriore ai quali serve e presta la propria funzione il Diritto

canonico, i dati meta-canonici»272

.

Il canonista, infatti, professa che il Diritto canonico è una scienza propria, ma riconosce

altresì che non è in grado di pronunciarsi circa la ragione radicale del fatto, del fenomeno canonico,

che rientra, invece, nelle competenze del teologo. Tutt’altra posizione si riscontra nella linea seguita

dai discepoli di K. Mörsdorf, i quali ritengono che il Diritto canonico debba essere affrontato come

problema teologico, in quanto appartenente o dipendente al/dal contenuto della fede273

. Questo

divenuta troppo unilateralmente papale e l’affermazione della qualità teologica della Chiesa locale porta ad una visione

nuova dell’unità e della cattolicità. Infine, la non identificazione della Chiesa Corpo del Cristo con la Chiesa cattolica

“romana” (est è stato sostituito con subsistit in: cf. Lumen Gentium, n.8) dà un fondamento nuovo allo sforzo di

ricomposizione dell’unità della Chiesa». J. HOFFMANN, La Chiesa e la sua origine, in AA.VV., Iniziazione alla pratica

della Teologia, vol. 3, Dogmatica II, Brescia, 1986, 74-75. 268

P. GHERRI, Lezioni, 237. 269

Cf. P. GHERRI, Teologia del Diritto canonico: identità, 355-356. 270

Cf. P. ERDÖ, Teologia del Diritto canonico. Un approccio, 49. 271

Cf. P. GHERRI, Lezioni, 124. 272

T. J. URRESTI, De la Teologίa a la Canonistίca, Salamanca, 1993, 380. 273

«Il problema dell’esistenza del “Ius canonicum” è un problema essenzialmente teologico: appartiene al contenuto

centrale della Teologia, perché appartiene al contenuto essenziale della fede. Non può essere risolto al di fuori di questa.

Sarebbe di conseguenza scorretto affrontarlo partendo con presupposti metodologici di ispirazione filosofica, sia di tipo

giusnaturalistico, come ha fatto la scuola del “Ius Publicum Ecclesiasticum” sia di tipo filosofico sociale. Il “locus

theologicus” del Diritto canonico è il mistero dell’Incarnazione che si ripropone nella storia attraverso il mistero della

Chiesa […]. Il Diritto è una realtà teologico-soprannaturale, ma come tale è anche una realtà che deve incarnarsi nella

storia, assumendo forme giuridiche anche umane (cf. A. M. ROUCO VARELA – E. CORECCO, Sacramento e Diritto:

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modo di pensare il Diritto canonico, però, dipendente dalla fede, come problema teologico non

rispecchia l’esigenza dichiarata dal Legislatore di mantenere sul piano giuridico (e non teologico) –

anche se con esso intimamente in relazione – il Diritto canonico. A questo proposito, P. Gherri

sostiene che:

«alle caratteristiche – e pretese – di questa “Teologia del Diritto (canonico)”274

non risponde in nulla la

nuova Disciplina omonima posta dal Legislatore all’interno di un quadro caratterizzato senza

esitazioni dalla piena giuridicità del Diritto canonico; d’altra parte già il Sinodo dei Vescovi del 1967

aveva stabilito con chiarezza, quale primo principio per la Revisione del CIC ’17, che il Codice di

Diritto canonico dovesse avere natura “giuridica” a tutti gli effetti. Proprio quanto la nuova decisione

pontificia circa le modalità di studio superiore del Diritto canonico sancisce definitivamente,

distinguendo con chiarezza tra la previa formazione teologica di base – da attuarsi nel Primo Ciclo di

studi (irrinunciabile per tutti i canonisti) – e la vera formazione “giuridica” dei successivi due Cicli di

studio»275

.

Si rende indispensabile quindi, una Teologia del Diritto canonico che, più che disciplina

teologica a sé stante, si presenti come disciplina metodologica276

, in quanto, il suo oggetto specifico

è creare un aggancio tra la Teologia e la Canonistica277

, cogliendo gli aspetti specifici delle due

scienze e tentando le strade migliori per la loro interconnessione278. Per tale motivo l’approccio

corretto risulterà essere quello interdisciplinare, in quanto, con la Teologia del Diritto canonico non

antinomia della Chiesa? Riflessioni per una Teologia del Diritto canonico, Milano, 1971, 52-53); il merito di detta

impostazione sotto il profilo metodologico consiste indubbiamente nel fatto che la prova dell’esistenza del Diritto

ecclesiale viene offerta operando su un fondamento nettamente teologico, che non vuole rompere con ogni

precomprensione di tipo filosofico-sociologico di marca giusnaturalistica». F. COCCOPALMERIO, Fondare

teologicamente il Diritto della Chiesa? in AA. VV., La Teologia italiana oggi. Ricerca dedicata a Carlo Colombo nel

70° compleanno, Brescia, 1979, 398. 274

Riferendosi qui chiaramente all’impostazione della linea seguita dai discepoli di K. Mörsdorf. 275

P. GHERRI, Lezioni, 128. 276

«Che applica, cioè una logica non speculativa (come la Teologia), né deontica (come la Canonistica), ma

“procedurale” in quanto riguardante non una “realtà” vera e propria ma il “rapporto” tra due ambiti disciplinari del tutto

specifici». Ivi, 134, nota 236. 277

«La Teologia studia i dati rivelati; il suo intento è di formulare la verità rivelata, muovendosi sul piano della propria

adeguazione a questa verità, la definisce con giudizi dottrinali.

Il Diritto canonico, invece, ricevendo questi dati teologici che riguardano, in maniera generica, la struttura sociale della

Chiesa, li positivizza nelle sue leggi; suo fine è il bene politico della Chiesa; muovendosi sul piano della strumentalità e

della positivizzazione, ordina i suoi mezzi sociali strumentali (leggi) al suo fine e prescrive una condotta sociale con

giudizi pratici, di modo che la “verità canonica” consiste in questa adeguazione dei suoi mezzi al fine inteso dal

legislatore, cioè nella sua efficacia. Solo la Teologia può emettere un giudizio dottrinale, quello dell’adeguazione alla

verità oggettiva rivelata, e formularlo in varie lingue, prospettive e con diversi gradi di profondità. Il Diritto canonico,

invece, può formulare tanti giudizi quante sono le concretizzazioni o positivizzazioni, che gli permette la “sostanza

teologica”, e secondo la prudenza del legislatore». T. JIMÈNEZ URRESTI, Diritto canonico e Teologia, 31. 278

In tutta onestà, bisogna, però, ricordare che «ad oggi non è ancora possibile definire dal punto di vista strettamente

epistemologico tale Disciplina, poiché la sua identità continua a coincidere in massima parte con la fase più recente

della sua stessa storia e non esiste alcun consenso nel fissarne l’oggetto materiale d’indagine. Soltanto si è molto

discusso in tema di metodo e solo a questo si riferisce la quasi esclusività della letteratura in materia; mentre di fatto

ciascuno tratta poi di quanto ritiene meglio. Non si può tuttavia nascondere o ignorare come questo costituisca in effetti

un gravissimo problema proprio sotto il profilo epistemologico, poiché non è possibile trattare scientificamente del

metodo di una Disciplina senza neppure sapere di che cosa essa si occupi». P. GHERRI, Primi appunti per una storia,

223.

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siamo «davanti alla Teologia vera e propria, né alla semplice Scienza canonistica, quanto piuttosto

davanti ad un vero ambito “sovra-disciplinare”»279

. In tal senso Giovanni Paolo II:

«un’autentica interdisciplinarietà tra la Scienza canonistica e le altre Scienze sacre. Un dialogo

davvero proficuo deve partire da quella realtà comune che è la vita stessa della Chiesa, pur studiata da

angolature diverse nelle varie Discipline scientifiche, la realtà ecclesiale rimane identica a sé stessa e,

come tale, può consentire un interscambio reciproco fra le Scienze sicuramente utile a ciascuna»280

.

Il tentativo quindi, della Teologia del Diritto canonico sarà non solo di mettere in contatto il

dato di fede con quello giuridico, integrando il secondo alla luce del primo281

, ma anche di

bilanciare la corrispondenza tra norma communionis, cioè l’ortoprassi comunitaria, e la norma fidei,

ovvero l’ortodossia dottrinale. Pertanto, l’oggetto della Teologia del Diritto diventa funzionale,

ossia il trasferimento della Ecclesiologia (sempre sottoposta a riforma) conciliare in termini

canonistici282

. Si potrà affermare quindi che, come la Teologia fondamentale stabilisce un contatto

tra l’evento della Rivelazione, oggettivamente intesa, e le circostanze storiche, culturali,

antropologiche in cui si è realizzato283

, così la Teologia del Diritto canonico relaziona Diritto e

Teologia284

. Il limite in cui si potrebbe incorrere se si relazionassero, senza una metodologia

appropriata, la Teologia e il Diritto canonico, è quello di assolutizzare le leggi canoniche che

risulterebbero irrigidite da una visione onnicomprensiva della Teologia285

.

«Come il Teologo offre al canonista alcuni dati, così il canonista offre al teologo i risultati pratici del

Diritto, che, per essere espressione concreta e socializzata del Diritto divino della Chiesa, sono non

solo fatti canonici, fatti con contenuto teologico, che dovranno essere conformi alla costituzione

generica del Diritto divino della Chiesa e pertanto anche alle spiegazioni e sistemazioni teologiche.

[…].

Per questo il canonista, familiarizzato con la relatività canonica delle molteplici e diverse Discipline

esistenti legittimamente nella storia, aiuterà il teologo a prendere coscienza del carattere generico dei

principi teologici che informano il Diritto canonico, e ad aprire di conseguenza i suoi orizzonti

teologici senza restringerli all’apparenza dei fatti canonici.

Se il teologo dimentica questa lezione, correrà il grave rischio, accusato già da alcuni, di teologizzare i

fatti consumati, cioè elevare, senz’altro, a categoria teologica i concreti comportamenti canonici

storici, senza spogliarli della loro corteccia di posivitizzazione canonica per estrarne il contenuto

teologico.

Con ciò il teologo soffocherebbe il Diritto canonico per immobilizzarlo col rigore assoluto della verità

teologica che attribuisce al fenomeno canonico. E siccome sembra che questo peccato sia stato

commesso più di una volta, non è strano che in questo senso si parli di “de-teologizzazione” del Diritto

279

P. GHERRI, Lezioni, 127. 280

IOANNES PAULUS PP. II, Allocuzione ai partecipanti alla Giornata Accademica “Vent’anni di esperienza canonica

1983-2003”, 24 gennaio 2003, n. 3, in L’Osservatore romano, 25 gennaio 2003, 5. 281

«Canonistica e Teologia si sono relazionate e devono relazionarsi reciprocamente in una dimensione

d’interdisciplinarità capace di creare non solo “ponti” estemporanei tra le due Scienze ma una vera forma mentis che

sappia integrare il dato di fede e quello giuridico (comportamentale sociale)». P. GHERRI, Lezioni, 132. 282

Cf. P. GHERRI, Teologia del Diritto canonico: identità, 361-365. 283

Si pensi qui al concetto di “integrazione” esposto come “strumento” metodologico della Teologia fondamentale. Cf.

R. FISICHELLA, Metodo in Teologia fondamentale, in R. LATOURELLE – R. FISICHELLA, Dizionario, 746. 284

Cf. P. GHERRI, Lezioni, 134-135. 285

Cf. P. GHERRI, Teologia del Diritto canonico: identità, 365-369.

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canonico, non per privarlo del suo nucleo teologico, ma per estrarne il suo contenuto teologico senza

aggiunte. Per di più, il teologo che commette questo peccato restringe l’ampiezza che, per quanto

generici, tengono i principi teologici, identificandoli con una delle loro possibili realizzazioni

concrete»286

.

Se si coglie, per tanto, la “genericità” (particolarità) della norma teologica si evita di

trasformarla in un riferimento assoluto di prescrittività concreta, permettendo di considerarla invece

come un presupposto, un principio cui ispirarsi. Allo stesso modo va tenuto presente che, la norma

canonica è una delle possibili determinazioni cui si può concretamente giungere. Questo richiamo

alla relatività, della norma teologica e della norma canonica, consente di assaporare la difficoltà287

sentita da molti288

, di adattare (convertire) l’assunta dottrina giuridica plurisecolare ad una struttura

giuridica flessibile (pastorale)289

, espressione non più di una comprensione ermeneutica della

norma, concepita come forza intrinseca dipendente dal semplice fatto di essere stata promulgata,

bensì quale espressione di nuova comprensione ermeneutica della norma, dipendente da una verità

teologica in cammino, espressione oggi della comprensione avutasi col Vaticano II290

.

4.3 IL DIRITTO CANONICO: DISTINTO E ‘DIPENDENTE’ DALLA TEOLOGIA

Un modo istantaneo per comprendere la necessaria e vitale distinzione che esiste tra Diritto

canonico e Teologia, è costituito dalla prospettiva ermeneutica di base che ritiene291

il Diritto, e il

Diritto canonico in particolare, un mezzo, uno strumento che mai può assumere un carattere

connaturale292

“alla Chiesa”. Infatti, il Diritto perderebbe la sua funzione/funzionalità se interpretato

come essenza e non come mezzo.

Una volta affermata la natura del Diritto come mezzo, strumento, bisogna sottolineare

l’intimo legame che sussiste tra la Teologia (comprensione della verità in sé) e il Diritto canonico

(costruzione della verità in comunione). Infatti, il Diritto gode nella Chiesa di una tradizione

286

T. JIMÈNEZ URRESTI, Diritto canonico e Teologia, n. 8, 33-34. 287

Alla quale l’uomo è sempre sottoposto. 288

Col Vaticano II sono cambiate le basi dell’Ordinamento canonico, per cui il cambiamento per certi versi è stato di

sostanza e non di eccellenza. Cf. J. HERRANZ, Studi sulla nuova legislazione della Chiesa, 66. 289

Sull’incidenza pastorale di un Diritto canonico così concepito, si rimanda ad un articolo di P. GHERRI, Quali istanze

istituzionali pone oggi la pastorale al modo in cui comprendere e vivere il cammino di iniziazione cristiana?

Prospettiva canonistica, in GIDDC (a cura di), Iniziazione cristiana: Confermazione ed Eucaristia, (coll. Quaderni

della Mendola), 17, Milano, 2009, 107-130. 290

Cf. G. FELICIANI, Le basi del Diritto canonico, Bologna, 1990, 40. 291

In quanto fenomenologicamente evidente. 292

In questa deriva cade chi, come Visioli, traslando ideologicamente affermazioni magisteriali in ambito giuridico,

afferma che «Prima di svolgere la sua funzione organizzativa a servizio della vita ecclesiale, il Diritto assolve il suo

compito ricomprendendo la propria connaturalità alla Chiesa stessa: la sua formulazione positiva è solo conseguenza e

momento successivo della precisazione della propria natura. L’utilità del Diritto nasce dalla sua connaturalità intrinseca

alla dimensione ecclesiale». M. VISIOLI, Il Diritto della Chiesa, 86. Cf P. GHERRI, Lezioni, 95.

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plurimillenaria, che va tenuta distinta (ma in relazione) dalla vita della Grazia che, precede e

accompagna l’ordine sociale e istituzionale della Chiesa293

. Il Diritto canonico partorito sempre

nella realtà sociale della Chiesa, nasce a seguito della crescente complessità “della vita” ad intra ed

ad extra di quest’ultima, infatti,

«è ben naturale che, nel corso dei secoli, esigenze emergenti, necessità pratiche ed esperienze via via

maturate nell’esercizio congiunto dell’autorità e dell’obbedienza294

, in un variare assai differenziato di

circostanze, venissero a creare in seno ad essa, come realtà storica e vivente, un complesso di leggi e

di norme, che già nel primo Medioevo divenne ampia ed articolata legislazione canonica»295

.

Se, tuttavia, da un lato si è convinti che il Diritto sia un mezzo, uno strumento, dall’altro

bisogna affermare, contro chi lo ritiene superfluo, che il Diritto è necessario alla Chiesa ‘visibile’, in

quanto appartiene al suo essere storico-sociale, istituzionale296

.

«In effetti, essa, Popolo di Dio e Corpo di Cristo, non è stata indistintamente fondata soltanto come

comunità messianica ed escatologica “soggetta al suo Capo” (Ivi, 7), ma “come compagine visibile” e

“costituita e organizzata quale società” (Ivi, 8), è stata edificata sopra la pietra (cf. Mt 16, 18), e dal

Signore stesso è stata divinamente arricchita di “doni gerarchici” (cf. Lumen Gentium, 4) e di vari

istituti, che sono da considerare effettivamente suoi elementi costitutivi. La Chiesa, insomma, nella sua

viva unità è anche struttura visibile con precise funzioni e poteri (“sacra potestas”).

Pertanto, benché tutti i fedeli vivano in modo che “comune è la dignità delle membra per la loro

rigenerazione in Cristo, comune la grazia dei figli, comune la chiamata alla perfezione, una la

salvezza, una la speranza e indivisa la carità” (Lumen Gentium, 32), tuttavia questa generale e mistica

“eguaglianza” (Ivi, 32) implica la già menzionata “diversità delle membra e degli uffici”, sicché

“grazie ai mezzi appropriati di unione visibile e sociale” (Ivi, 8) vengono a manifestarsi la divina

costituzione e l’organica “diseguaglianza” della Chiesa. Bisogna dire, dunque, che “il Popolo di Dio

non soltanto si raccoglie da popoli diversi, ma che al suo interno, altresì, si compone di vari ordini.

Difatti, tra le sue membra esiste una diversità a seconda sia degli uffici […] sia della condizione e

della forma di vita” (Ivi, 13)»297

.

293

«Una tale prospettiva vale tuttora per tutti i credenti: mossi dallo Spirito, essi sono in grado di instaurare in sé stessi

questo nuovo ordine, che Paolo chiama la legge di Cristo (cf. Gal 6, 2): Cristo, cioè, vive nel cuore dei fedeli in una

comunione, per la quale ciascuno instaura in sé stesso il mistero della carità e dell’obbedienza del Figlio. Riappare così

il nesso tra “foedus” e “lex”, e i fedeli, congiunti a Cristo nello Spirito, hanno non solo la forza, ma anche la facilità e la

gioia di ubbidire ai precetti». IOANNES PAULUS PP. II, Allocutio: A summo pontifice in aula super porticum Vaticanæ

basilicæ habita, 458. 294

Vogliamo sottolineare come il Pontefice sintetizza qui il sorgere e lo svilupparsi del Diritto nella Chiesa attraverso la

relazione che lui stesso definisce “esercizio congiunto dell’autorità e dell’obbedienza”, tale richiamo ci consente di

sentirci confortati e assicurati nella nostra ricerca che ci vede interessati al tema dell’obbedienza come ricapitolazione

dei doveri/diritti dei fedeli: esercizio congiunto dell’autorità e dell’obbedienza. 295

IOANNES PAULUS PP. II, Allocutio: A summo pontifice in aula super porticum Vaticanæ basilicæ habita, 458. 296

«E in realtà il Codice di diritto canonico è estremamente necessario alla Chiesa. Poiché, infatti, è costituita come una

compagine sociale e visibile, essa ha bisogno di norme: sia perché la sua struttura gerarchica e organica sia visibile; sia

perché l’esercizio delle funzioni a lei divinamente affidate, specialmente quella della sacra potestà e

dell’amministrazione dei sacramenti, possa essere adeguatamente organizzato; sia perché le scambievoli relazioni dei

fedeli possano essere regolate secondo giustizia, basata sulla carità, garantiti e ben definiti i diritti dei singoli; sia,

finalmente, perché le iniziative comuni, intraprese per una vita cristiana sempre più perfetta, attraverso le leggi

canoniche vengano sostenute, rafforzate e promosse». IOANNES PAULUS PP. II, Const. Ap. Sacrae disciplinae leges, 12-

13. 297

IOANNES PAULUS PP. II, Allocutio: A summo pontifice in aula super porticum Vaticanæ basilicæ habita, 459-460.

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Per cui sarà fondamentale per chiunque voglia riflettere sui doveri/diritti nella Chiesa,

ricordarsi, sì, della natura strumentale298

del Diritto, ma altrettanto, della indispensabilità di tale

strumento in quanto facente parte della struttura sociale del convivere umano299

. Solo così si

possono ben comprendere, senza confonderle, le dimensioni che Giovanni Paolo II riconosce al

Diritto e al Diritto canonico:

«se la Chiesa-Corpo di Cristo è compagine organizzata, se comprende in sé detta diversità di membra

e di funzioni, se “si riproduce” nella molteplicità delle Chiese particolari, allora tanto fitta è in essa la

trama delle relazioni che il diritto c’è già, non può non esserci. Parlo del diritto inteso nella sua

globalità ed essenzialità, prima ancora delle specificazioni, derivazioni o applicazioni di ordine

propriamente canonico. Il diritto, pertanto, non va concepito come un corpo estraneo, né come una

superstruttura ormai inutile, né come un residuo di presunte pretese temporalistiche. Connaturale è il

diritto alla vita della Chiesa, cui anche di fatto è assai utile: esso è un mezzo, è un ausilio, è anche –

in delicate questioni di giustizia – un presidio»300

.

È chiaro che il termine “connaturalità” non va inteso come qualcosa che appartenga

ontologicamente alla Chiesa corpo di Cristo. “Connaturale”, è da riferirsi, invece, a qualsiasi

struttura sociale umana, quindi anche alla Chiesa. Se si dimentica, infatti, il foro in cui tipicamente

si esprime il Diritto, ossia, il foro esterno301

storico-concreto, si corre il rischio di traslare ivi,

indebitamente, elementi teologici302

– che potrebbero assomigliare più, con le dovute differenze, ai

principi espressi in una Costituzione – facendo del Diritto un trattato di Teologia.

Non è però necessario al fine di guardare la relazione gerarchica – esercizio congiunto

dell’autorità e dell’obbedienza – come la risultante della corretta relazione tra doveri/diritti dei

fedeli303

, avere necessariamente uno sguardo globale sulla realtà della Chiesa304

. Ciò che serve in

realtà al canonista – tecnico del diritto – è un sincero dialogo con l’ambito della Teologia

298

Così come di ogni cosa che appartenga a questo mondo, destinato a passare. 299

«Di qui – dico della realtà intima della Chiesa –, secondo quella diversità delle membra e degli uffici, scaturiscono i

diritti e i doveri, corrispondenti alle singole persone o agli stessi gruppi, che la Chiesa, peraltro, salvo il diritto divino e

nativo, ha avuto cura di regolare emanando leggi e precetti a seconda delle circostanze, cioè secondo la necessità o

esigenze dei tempi e dei luoghi». IOANNES PAULUS PP. II, Allocutio: A summo pontifice in aula super porticum

Vaticanæ basilicæ habita, 460. 300

Ivi, 461. 301

Senza dimenticare il legame col foro interno; ma di questo parleremo in seguito quando rifletteremo sulla distinzione

tra foro interno, foro conscientia e foro esterno. 302

«In questo modo si continua a non evitare la trasformazione del Diritto in un “trascendentale”, una “essenza”, un

“noumeno”, che partecipa ab imis fundamentis alla struttura stessa della realtà senza riuscire, tuttavia, a superare

l’inevitabile estrincesismo di una visione volontaristica (e positivistica) del Diritto stesso “imposto” da Dio nelle sue

forme di diritto divino naturale e diritto divino rivelato». P. GHERRI, Lezioni, 96. 303

Che noi intendiamo attraverso la relazione obbedienziale. 304

Così come invece, diversamente, ritiene Ghirlanda: «Oggetto dell’indagine del canonista dev’essere innanzitutto la

considerazione globale del posto che l’attività giuridica nel mistero complessivo della Chiesa, quindi lo studio di quel

“giuridico dommatico”, che costituisce il Diritto divino rivelato, da cui scaturisce la definizione dei rapporti

fondamentali tra i Fedeli e della loro obbligatorietà non solo nella sfera della coscienza, ma dell’esterno vivere sociale

della comunità ecclesiale». G. GHIRLANDA, La Riforma degli studi, 212. Anche se uno sguardo complessivo eviterebbe

il rischio di ridurre la parte istituzionale della Chiesa a semplice società tra le società.

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(dommatica), in modo da apprendere e tradurre, nel linguaggio giuridico, ciò che è fondamentale

per la vita ecclesiale305

, ciò che è indispensabile per vivere la relazione di comunione:

«Teologia e Diritto sono Discipline così diverse che non è possibile, né tantomeno legittimo,

accostarle e valutarle allo stesso modo; il loro rapporto è tuttavia vitale e vivente nella Chiesa, al punto

che è la stessa vita ecclesiale che, spesso impercettibilmente, prende spunto dai contenuti teologici per

tradurli in concreti modi di agire, che diventano anche “regole” d’azione a servizio di una più efficace

opera evangelizzatrice e pastorale: le norme di Diritto canonico»306

.

In tal modo, il canonista, si potrà concentrare meglio e ‘solo’ sull’ambito di sua competenza:

il vivere sociale, esterno, della comunità ecclesiale. La novità, dunque, che si intende con questo

studio sottolineare, è che la relazione gerarchica307

– l’obbedienza canonica, non morale e non

teologica, anche se da queste non separata308

– è espressione del vivere sociale, esterno, della

comunità ecclesiale. L’obbedienza canonica, ovverosia quella vissuta nel foro esterno, quindi, avrà,

per natura sua, una logica che necessariamente è, o dovrebbe essere, espressione della razionalità

della persona umana (sempre illuminata dalla fede); altrimenti non sarebbe più espressione del

vivere sociale, espressione del foro esterno.

Premesso ciò, la Teologia del Diritto canonico, quale disciplina autonoma, dovrebbe essere

strumento che permetta, nel rispetto delle regole, il funzionamento del gioco del dialogo, in cui la

Teologia e il Diritto canonico costituiscono i due giocatori. Bisogna ricordare però, che ogni gioco

ha delle regole che se rispettate, consentono ai partecipanti di capire la finalità, l’obbiettivo del

gioco stesso, le mosse che si possono compiere, ecc.. Pertanto, si potrebbe identificare la Teologia

del Diritto canonico come l’istruzione (la carta delle regole), che bisogna previamente conoscere

per il corretto svolgimento del gioco del Diritto canonico. Le regole di ogni specifico gioco:

«consentono due cose fondamentali: a) di comprendere le mosse del gioco, che si presenta per ciò

intelligibile a partire da sé stesso; b) di giudicare se i giocatori sanno o non sanno giocare bene […].

Questo ci istruisce sul fatto che i giochi linguistici, come ogni pratica sociale, hanno delle finalità

intrinseche inerenti i valori che intendono realizzare, e che in vista di queste finalità sviluppano

modalità e criteri d’azione che si oggettivano in regole […]. Non bisogna pensare tuttavia che le

regole abbiano carattere costrittivo, poiché non è possibile prevedere le applicazioni successive di esse

in base alle applicazioni precedenti: esse non sono già tutte determinate nelle applicazioni che fin qui

hanno ricevuto, e tuttavia non sono indeterminate»309

.

La presa di coscienza del fatto che, la Teologia del Diritto canonico sia una disciplina a

carattere strumentale-regolamentale, consente di alzare l’attenzione rispetto alla possibilità di

compiere salti o trasposizioni illegittimi di concetti da una disciplina all’altra.

305

Cf. P. GHERRI, Lezioni, 81-101. 306

Ivi, 105-106. 307

La corretta relazione tra doveri/diritti. 308

Nel senso che non vi deve essere tra loro contraddizione sostanziale (altra cosa è la contraddizione apparente). 309

G. GIORGIO, La via del comprendere, 179-180.

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«In quest’ottica i legittimi appelli affinché i canonisti ricerchino “più profondamente nella Scrittura e

nella Teologia le ragioni della propria dottrina” non vanno necessariamente interpretati come esigenza

della creazione di nuove Discipline canonistiche (questa fu, invece, l’interpretazione ed il proposito

della Scuola canonistica di Monaco) quanto, molto più efficacemente, come acquisizione di una nuova

consapevolezza metodologica in grado di ʻscandireʼ appropriatamente i ʻpassaggiʼ da un ambito

disciplinare ʻsacroʼ agli altri legittimamente attinenti la materia trattata: nulla di nuovo rispetto

all’adagio plurisecolare “canonista sine civilista parvum, canonista sine theologus nullum”»310

.

Questa possibile deriva si eviterà maggiormente se si terrà presente che esiste una distinzione

fondamentale tra Teologia e Diritto canonico, ovverosia, la distinzione che sussiste tra sapere

teorico e sapere pratico. La Teologia, è espressione di un sapere teorico (sapere che); il Diritto è

espressione di un sapere pratico (sapere come)311

. Si può sapere e intendere il come, solo se si

conosce l’essere, ecco perché si ritiene comunque, la dipendenza del Diritto canonico nei confronti

della Teologia. È la Teologia, volta per volta aggiornata, che dona al Diritto canonico la possibilità

di determinare e aggiornare il come. Ciò servirà a capire che il Diritto canonico è sempre qualcosa

di relativo, nel senso di relazionato ad un tempo e ad uno spazio determinato e – senza pensare di

suscitare scandalo in qualcuno – relazionato anche ad una comprensione teologica storicamente

determinata, come accade per le Chiese orientali. Il Diritto canonico, per questo, non può assumere,

nella sua globalità, un carattere di assolutezza, infatti, solo in relazione a determinate norme

potrebbe risultare assoluto, in quanto, attraverso tali norme si vorrebbe cercare di veicolare un

principio teologico assoluto312

. Tale assolutezza però deve sempre fare i conti con le espressioni

linguistiche che, appartenendo alla storia, sono sempre relative ad un contesto. Pertanto:

«la consapevolezza della “relatività canonica” dovrebbe aiutare a non assolutizzare teologicamente i

comportamenti canonici della storia, come se un “fatto canonico” potesse costituire immediatamente

anche un legittimo locus theologicus da cui dedurre direttamente “principi” teologici di pronto utilizzo

speculativo e pastorale. Di fatto proprio la varietà e contraddittorietà delle Discipline canoniche (anche

simultaneamente vigenti in varie parti della stessa Chiesa cattolica) manifesta la presenza e possibilità

di diverse Teologie, servata fide catholica, anche in ambito sacramentale: vedasi per es., l’Iniziazione

cristiana nelle Chiese cattoliche Orientali o il loro ministro del Matrimonio»313

.

Ultimo elemento da considerare – per poter sempre tener distinte, nell’ottica della mutua

relazione, la Teologia dal Diritto canonico – è quello relativo alla specifica azione della Chiesa che

comunemente viene chiamata Pastorale314

. Il Diritto canonico, infatti, è uno strumento a servizio

310

P. GHERRI, Lezioni, 100. 311

Per un approfondimento sulla distinzione tra “sapere teorico” e “sapere pratico”, si cf. G. RYLE, Il concetto di mente,

Roma-Bari, 2007, specie il cap. II. 312

Si pensi al principio assoluto della salvezza delle anime espresso nel can. 1752. 313

P. GHERRI, Lezioni, 107. 314

«La Teologia pastorale costituisce un vero e proprio oggetto formale del pensiero teologico, paragonabile a quello

della dogmatica, della Teologia morale o del Diritto canonico: il suo status teologico scientifico non dipende, sul piano

epistemologico, dal semplice confronto deduttivo tra più scienze (umane e religiose). La Teologia pastorale permette di

considerare la globalità del mistero della salvezza sotto un aspetto specifico: quello del suo divenire ecclesiale storico

(cfr. Mölher, Chenu, Rahner). Il riferimento concreto moderno di questo approccio è il modo in cui il Concilio Vaticano

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della Pastorale in quanto è espressione particolare e specifica di questa; pertanto è il Diritto

canonico a seguire la Pastorale, offrendo ad essa una struttura (uno strumento) di appoggio,

sostegno attraverso la quale la stessa può realizzarsi315

. Si potrebbe in senso lato definire lo stesso

CIC strumento “pastorale” in quanto traduzione316

di un Concilio “pastorale”317

.

«L’indirizzo pontificio è senza tentennamenti nel tracciare una linea “discensiva” dal Concilio al

Codice, dall’ecclesiologia all’istituzionalità, da una nuova immagine di Chiesa alla sua rinnovata

struttura e funzionalità: il Codice “deriva” dal Vaticano II e lo “traduce” in rapporti quotidiani

all’interno della Comunità ecclesiale […].

Di fatto anche la logica cui dichiarano di essersi continuamente rifatti gli elaboratori del nuovo Codice

pare suffragare questa impostazione di carattere deduttivo: a Concilio ad Codicem»318

.

Ora, prima di compiere nel capitolo successivo un passo ulteriore, è opportuno – proprio per

avere chiaro il sistema di riferimento319

entro il quale ci si muove – approfondire accuratamente,

all’interno dell’antropologia filosofico-cristiana, la relazione di comunione, ossia, la relazione di

fiducia che provocatoriamente è stata definita relazione di obbedienza320

, termine caduto in disuso

nel contesto teologico attuale:

«cosa significa obbedire? La risposta è ovvia: adeguare il proprio comportamento ad un volere altrui,

diverso dal volere proprio autonomo determinato. L’obbedienza è tale – virtù o non virtù che la si

II ha inteso sé stesso come concilio pastorale. Non si tratta di un atto ecclesiale svalutato rispetto ad altri Concili detti

“dogmatici”, ma del riconoscimento conciliare esplicito di un livello dell’essere della Chiesa e del compimento del

mistero della salvezza». D. BOURGEOIS, La pastorale della Chiesa. Manuali di Teologia cattolica, vol. XI, Milano,

2001, 631. 315

Cf. M. D. CHENU, Un concile “pastoral”, in Parole et Mission, 21 (1963), 190. 316

«Questa traduzione del Concilio in norme giuridiche rappresenta per noi un principio molto importante e di non

facile applicazione, che ci obbligava continuamente a ricorrere ai testi conciliari e ad esaminare se ci muovevamo

nell’orbita di questo Concilio». R. CASTILLO LARA, Criteri ispiratori della Revisione del Codice di Diritto canonico, in

AA.VV., La nuova legislazione canonica. Corso sul nuovo Codice del Diritto canonico (coll. Studia Urbaniana), 14-25

febbraio 1983, Roma, 1983, 19. 317

«Poiché il Concilio è un evento giuridico di sommo grado da considerarsi comunque sovraordinato rispetto ad altre

“fonti” – tanto più se non giuridiche –, il canonista deve investigare e cogliere le componenti teologiche sottese al

Diritto vigente in riferimento al rapporto Concilio-Codice nella sua specifica giuridicità. È questo, infatti, uno dei

cardini sostanziali dell’attuale fase giuridica della Chiesa.

Né potrebbe valere, per eludere questa prospettiva, l’affermazione circa la pastoralità del Vaticano II; questa, infatti,

potrebbe essere invocata “contro” approcci eccessivamente teoretici o dogmatici ai testi conciliari, ma non certamente

in opposizione alla naturale concretezza del Diritto la cui portata operativa nella quotidianità è una delle componenti più

solide della pastorale». P. GHERRI, Lezioni, 253. 318

Ivi, 257-258. 319

«Ogni sistema giuridico, e valoriale in genere, è sotteso da una specifica Antropologia intesa come visione

dell’uomo (come i piedi che, reggendo un tavolo, contribuiscono alla sua stessa costituzione)». P. GHERRI, Diritto

canonico, antropologia e Personalismo, in P. GHERRI (a cura di), Diritto canonico, Antropologia e Personalismo. Atti

della seconda Giornata Canonistica Interdisciplinare, Città del Vaticano, 2007, 13. 320

Concetto strettamente legato al concetto di autorità: entrambi fanno parte dell’essere/ci di una società: «la costanza

del darsi del fenomeno autorità in rapporto a una società indica che si tratta di una funzione che si rivela necessaria in

una convivenza umana in quanto tale (cioè in quanto umana convivenza, in quanto societas): pur nel suo divenire

storico, si rivela necessaria. In questo senso potremmo dire che l’autorità (l’esserci di un’autorità, il rispetto di essa, il

porre le condizioni al suo corretto esercizio) è cosa che appartiene alla lex naturae». S. BASTIANEL, Moralità personale

nella storia. Temi di morale sociale, Trapani, 2011, 273.

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voglia definire, e io, antimilianamente, parteggio per la prima ipotesi, come dirò – se e solo se riguarda

un comportamento uniforme ad un volere altrui diverso e non opposto al mio autonomo volere.

Non abbiamo però ancora guadagnato l’essenza dell’obbedienza autenticamente intesa. Ci si può

infatti adeguare ad un volere altrui semplicemente perché vi si è costretti da una sproporzione nei

rapporti di forza tra chi detta l’ordine e chi (impropriamente) obbedisce. È il caso del soldato nei

confronti del superiore, della vittima nei confronti dell’aguzzino, del bambino indifeso nei confronti

del papà violento. Qui non c’è obbedienza: c’è invece sottomissione a un potere più forte. Ecco allora

il paradosso: l’obbedienza autentica è un atto di libertà. È autenticamente obbediente colui che

liberamente decide di sospendere l’esercizio del proprio libero arbitrio e di affidarsi consapevolmente

ad un altro (o all’Altro): l’obbedienza è sempre un vero e proprio atto di fede nei confronti dell’altro.

L’obbedienza autentica non è mai una pretesa, una imposizione da parte di chi impartisce un ordine: è

piuttosto una concessione da parte di chi liberamente si determina per essa. È quella che concediamo

non in ragione della autorità dell’altro (ricadremo nella sottomissione), ma in ragione della sua

autorevolezza.

Decidiamo di obbedire, di sospendere il nostro giudizio per il tempo necessario a compiere quell’atto

contrario al nostro immediato volere, perché riconosciamo nell’altro la capacità di comprendere di più

e meglio di quanto sappiamo fare noi, e riteniamo che tale obbedienza ci farà crescere, condurrà anche

noi a un più elevato grado di comprensione e di consapevolezza.

Nella autenticità di questo rapporto è proprio colui che chiede (e non impone, che sarebbe puro

esercizio di potere) obbedienza a mettersi in gioco e a rischiare di più, poiché sa che all’atto di

obbedienza dovrà far seguito l’effettiva dimostrazione di quel superiore livello di comprensione cui

l’obbediente, prima di obbedire, non poteva attingere: se fallirà in questo, sa che non avrà più

obbedienza (ma eventualmente solo sottomissione), poiché avrà perso la sua credibilità, la sua

autorevolezza (e dovrà ricorrere semmai alla sua autorità e al suo potere).

Dovessi individuare una scena che plasticamente renda tutta la complessità delle relazioni in gioco tra

chi chiede e chi concede obbedienza autentica, nei termini sopra descritti, non avrei dubbi: è la scena

in cui Dio chiede ad Abramo di sacrificargli Isacco, “tuo figlio, il tuo unico figlio che ami”. Dio chiede

non impone, non minaccia alcuna sanzione […].

Il silenzio con cui Abramo si concentra totalmente nell’agire obbediente grida ad ogni passo

l’interrogativo che solo dopo l’atto troverà risposta: Perché tutto questo? Quello stesso grido che Gesù

Cristo spirando renderà esplicito dalla Croce: “Dio mio, perché mi hai abbandonato?”. Grande è

anche la responsabilità di Dio, che sa che la mercede a cui ha diritto l’obbediente è la comprensione

del senso di ciò che ha chiesto. Abramo, grazie alla sua obbedienza, avrà da Dio il figlio salvo e la

benedizione nei secoli, e la comprensione totale e definitiva che il suo Dio è un Dio di cui vale la pena

fidarsi ciecamente»321

.

Tale approfondimento si rende necessario al canonista post Vaticano II322

, in quanto il

destinatario del suo lavoro di studioso e di tecnico è proprio l’uomo323

, o meglio, la persona324

; il

321

A. TOMBOLINI, Piccola fenomenologia dell’obbedienza, in URL: ˂

http://www.antoniotombolini.com/obbedienza.html , (consultato, 16/06/2012). 322

«Non solo per lo spirito di contestazione e la crisi di autorità e di obbedienza che pervade la Chiesa, come altre

compagini sociali, ma anche perché è stato il Concilio stesso ad auspicare una legislazione più semplice, più lineare, più

pastorale, meno complicata della precedente, e ciò al fine di rendere la legge più intelligibile, più chiara e perciò più

pratica per coloro che devono applicarla e farla applicare». P. FELICI, A che punto è la preparazione del Codex, in

Communicationes, I (1969), 71. 323

«Il problema del Diritto ecclesiale tocca immediatamente la fede, perché tocca la natura dell’uomo creato da Dio e

redento in Cristo e la natura della Chiesa: l’uso, necessario, dei concetti della Teologia generale del Diritto è

subordinato ai dati che emergono dalla riflessione teologica sul mistero dell’uomo e della Chiesa». G. GHIRLANDA, Ius

gratiæ – Ius communionis. Corso di Teologia del Diritto ecclesiale, pro manuscripto ad uso degli studenti, nuova

edizione, Roma, 1977 (ristampato nel 2000), 4. 324

«Di fatto la Rivelazione suppone una visione di uomo come “persona” aperta alla relazione interpersonale, anche

spirituale: (dimensione – teologica – “sociale” dell’uomo): è l’ambito dell’Antropologia teologica.

Questo “dato” che scaturisce dalla Rivelazione, per una sufficiente ed opportuna penetrazione ed articolazione (anche

teologica), implica/richiede una visione dell’uomo personalista-relazionale-trascendente: è l’ambito dell’Antropologia

filosofica». P. GHERRI, Lezioni, 99.

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confronto quindi, con il pensiero filosofico/teologico sull’uomo-persona appare centrale325

non solo

per la possibilità di accrescere le proprie competenze sull’oggetto del suo studio, ma anche per

rispondere a diverse326

richieste pervenuteci dal magistero stesso327

:

«non è sufficiente richiamarsi alla persona umana e alla sua dignità, senza prima essersi sforzati di

elaborare un’adeguata visione antropologica, che, partendo da acquisizioni scientifiche certe, resti,

ancorata ai principi basilari della filosofia perenne e si lasci insieme illuminare dalla vivissima luce

della Rivelazione cristiana»328

.

L’intento tuttavia che si vuole perseguire è non fare del Diritto canonico una espressione della

Teologia329

. Sarà necessario quindi andare ad evidenziare, nella plurimillenaria riflessione

antropologica (teologica) della Chiesa, tutto ciò che sarà utile per identificare l’oggetto dello studio,

ovverosia, la relazione di fiducia del Christifidelis all’interno della strutturata comunità di fede, il

corpo di Cristo in quel particolare aspetto della Chiesa che è la compagine visibile sottesa al termine

“Istituzione ecclesiale”.

4.4 L’‘ASCOLTO’, FONDAMENTO DELL’ANTROPOLOGIA CRISTIANA-CATTOLICA

La visione antropologica odierna si giova di grandi traguardi raggiunti, non da ultimo, sul

piano cristologico, per una più grande comprensione del mistero di Cristo. Oggi, un fronte aperto

dal Concilio e sviluppato dalla Teologia, è di certo quello di un serrato confronto tra cristologia ed

antropologia, anzi, di un circolo ermeneutico che dalla prima va verso la seconda330

. E ciò in

riferimento al famoso passo della Gaudium et spes:

325

Anche P. Gherri riconosce il necessario recupero dell’elemento antropologico, infatti, egli riconosce la necessità di

«ricuperare l’elemento più debole della concezione teologica di riferimento: il dato antropologico – strutturalmente

sottovalutato nelle dottrine protestanti ed – ignorato dagli autori della Scuola di Monaco». P. GHERRI, Lezioni, 95. 326

Si pensi anche all’appello del pontefice Paolo VI, il quale, chiese ai canonisti di ricercare «nella sacra Scrittura e

nella Teologia le ragioni della propria dottrina». PAULUS PP. VI, Allocutio: Ad clarissimum Virum Romanæ Studiorum

Universitatis Rectorem ceterosque Iuris Canonici peritos, qui Cœtui internazionali interfuerunt Romæ habito, 20

ianuarii 1970, in AAS, LXII (1970), 108. 327

Cf. P. GHERRI, Diritto canonico, antropologia e Personalismo, 11-50. 328

IOANNES PAULUS PP. II, Allocutio: Ad Romanæ Rotæ Iudices, 10 februarii 1995, in AAS, LXXXVII (1995), 1015, n.

3. 329

Esso deve intendersi piuttosto, nel senso che: «Col Concilio Vaticano II si è definitivamente chiuso il tempo in cui

certi canonisti ricusavano di considerare l’aspetto teologico delle discipline studiate, o delle leggi da essi applicate.

Oggi è impossibile compiere studi di Diritto canonico senza una seria formazione teologica. […]. Il rapporto intimo tra

Diritto canonico e Teologia si pone dunque con urgenza; la collaborazione tra canonisti e teologi deve farsi più stretta;

nessun dominio della Rivelazione può rimanere ignorato, se si vuole esprimere e approfondire nella fede il mistero della

Chiesa, il cui aspetto istituzionale è stato voluto dal suo Fondatore e appartiene di essenza al suo carattere fondamentale

sacramentale». PAULUS PP VI, Allocutio: Ad participes Congressus internazionalis Iuris Canonici penes Universitatem

Catholicam a S. Corde Mediolani habiti, 17 septembris 1973, in Communicationes, V (1973), 124. 330

Cf. A. SCOLA – G. MARENGO – J. PRADES LÓPEZ, La persona umana. Antropologia teologica (AMATECA, 15),

Milano, 2000, 50 ss..

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«In realtà solamente nel mistero del Verbo incarnato trova vera luce il mistero dell’uomo […] Cristo,

che è il nuovo Adamo, proprio rivelando il mistero del Padre e del suo amore svela anche pienamente

l’uomo a sé stesso e gli manifesta la sua altissima vocazione» (GS 22).

ed a quanto segue, sia nello sviluppo del dettato conciliare, sia nelle acquisizioni e negli

sviluppi che il tema ha avuto nella Teologia successiva (spiritualità331

, antropologia332

, morale333

,

dogmatica334

).

Di questa antropologia, alla luce della vicenda storica di Cristo, evidentemente, l’‘ascolto’335

indicativo di una relazione di fiducia, diviene una categoria portante, sia sul piano ontologico che su

quello esistenziale336

.

È la vicenda di Cristo, che visse l’‘obbedienza’ come via di piena realizzazione e

d’innalzamento dopo l’annichilimento della croce, a ridonare in modo sempre nuovo a questa

categoria, un’attualità significativa per l’antropologia in ogni epoca storica337

. È pure innegabile che

pesano su di essa pregiudizi ideologici e culturali che ne determinano una lettura in chiave assai

negativa338

.

331

Cf. A. ÁLVAREZ SUÁREZ, Nuove istanze antropologico-spirituali nella riflessione della Gaudium et spes, in B.

MORICONI (a cura di), Antropologia Cristiana. Bibbia, teologia, cultura, Roma, 2001, 415-457; J. K. MICZYŃSKI, La

cristologia esistenziale nella esperienza e nella dottrina di Elisabetta della Trinità (Serie Spiritualità, 11), Roma, 2005,

374 ss.; A. FIOZZO, Spiritualità trinitaria. Il riflesso del mistero di Dio nella vita cristiana secondo Giovanni Paolo II

alla luce dei testi ufficiali del Grande Giubileo del 2000, Soveria Mannelli, 2005; C. LAUDAZI, L’uomo chiamato

all’unione con Dio in Cristo. Temi fondamentali di teologia spirituale, Roma, 2006. 332

Cf. F. G. BRAMBILLA, Antropologia teologica. Chi è l’uomo perché te ne curi?, Brescia, 2005; F. BRANCACCIO,

Antropologia di comunione. L’attualità della Gaudium et Spes (coll. Verbum, 2), Soveria Mannelli, 2006. 333

Cf. G. BORGONOVO, Karol Wojtyla/Giovanni Paolo II: una passione continua per l’uomo, Soveria Mannelli, 2003,

143 ss.; C. E. CURRAN, The moral theology of John Paul II, London, 2006, 58 ss.; G. DEODATO, Aspetti teologici di

morale filiale alla luce di 1Cor e applicazioni morali, in PATH, 10 (2011/2), 275-291; S. BASTIANEL, Moralità

personale nella storia, 271-283. 334

Cf. G. DEODATO, La persona in San Tommaso d’Aquino. Gli inediti apporti tommasiani per una fondazione

cristologica e metafisica della relazione in antropologia (coll. Verbum, 6), Soveria Mannelli, 2009. 335

Che provocatoriamente potremmo definire “relazione di obbedienza”, vista come ricapitolazione dello statuto

giuridico del fedele. Si ritiene infatti che, oggi, il termine “obbedienza” proprio per i suoi fraintendimenti, non possa

essere usato senza dovute e opportune specifiche, causa altrimenti la sua non comprensione e/o pregiudizievole

(pre)comprensione. Si userà, per tali motivazioni, il termine teologico che, oggi, esprime la virtù fondamentale

dell’“obbedienza”: l’ ascolto nella relazione di fiducia. 336

L’esistenza del diritto è un’esigenza vitale dell’uomo così che «è lecito dire che il diritto ci accompagna, come

l’ombra che segue i nostri passi dalla nascita alla tomba». S. COTTA, Perché il diritto?, Brescia, 1992, 5. 337

Cf. A. VERWILGHEN, Christologie et spiritualité selon saint Augustin: l’hymne aux Philippiens (coll. Théologie

historique, 72), Paris, 1985, 205 ss., in part. 401ss., 410ss.. Che l’obbedienza dai toni sacrificali di Cristo non

rappresenti un deficit di umanità, l’Autore lo esprime così commentando l’inno ai Filippesi, alla luce del pensiero

agostiniano: «Le mystère de l’humiliation, dont le dénuement suprême du Golgotha est l’aboutissement, s’origine tout à

la fois dans le dessein de la miséricorde divine et dans l’existence volontairement obéissante du Fils. Le Fils humilié in

forma servi ne perd pas pour autant la forma dei en laquelle il est égal au Père : c’est si vrai que le mystère de

l’anéantissement a pour but de rendre les hommes “conformes” au Fils de Dieu», (ivi, 401). Ancora F. URSO, «Imparò

l’obbedienza dalle cose che patì» (Eb 5, 8). Il valore educativo della sofferenza in Gesù e nei cristiani nella Lettera agli

Ebrei, (coll. Serie Teologia, 119), Roma, 2004, in part. 301 ss.. 338

«Nell’immaginario comune la realtà dell’obbedienza è spesso associata a sottomissione e a non-libertà. Dialogo e

obbedienza vengono, così, facilmente considerate come due realtà opposte che si escludono. […] – in realtà si è potuto

cogliere – significativamente sia attraverso l’approccio filosofico di J. Splett che attraverso quello teologico di W.

Kasper, l’obbedienza si è delineata come genuina categoria dialogica. Essa è, dunque, indice di piena maturità umana,

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4.4.1 L’‘OBBEDIENZA’: ASCOLTO PER LA VITA

Il dato ormai acquisito anche a livello antropologico, della relazionalità come dimensione

costitutiva della persona umana, in una dipendenza ontologica da Dio ed una finalizzazione che è,

in Cristo, vera ricomposizione, ed al contempo, elevazione e compimento dell’umanità, non nega in

alcun modo l’autonomia ‘relativa’ e drammaticamente reale dell’uomo339. L’obbedienza,

espressione della relazione autentica di fiducia, di ascolto, lungi dall’essere qualcosa di esterno

all’uomo, o, uno stadio da superare, rappresenta l’espressione più alta della libertà costitutiva della

persona umana; è la sua verità, in quanto essere creato, chiamato per atto volontario a vivere la

relazione di abbandono, di fiducia al suo Creatore. Mentre la dipendenza del creato non umano,

vive la relazione con il suo Creatore per un istinto naturale ed un finalismo che non permette ad

esso margini di reale, e, neppure relativa autonomia, la creatura umana, invece, è chiamata a

stringere legami di fiducia con il suo Creatore, di cui porta impressa l’immagine e la somiglianza,

per volontà, per scelta340

. Solo attraverso la scelta di questa dipendenza nella comunione, l’uomo

giunge a realizzarsi pienamente. Dove non c’è relazione di fede, non c’è la manifestazione piena

della dignità dell’uomo.

«Dunque l’obbedienza è l’unica via di cui dispone la persona umana, essere intelligente e libero, per

realizzarsi pienamente. In effetti, quando dice “no” a Dio la persona umana compromette il progetto

divino, sminuisce sé stessa e si destina al fallimento.

L’obbedienza a Dio è cammino di crescita e, perciò, di libertà della persona perché consente di

accogliere un progetto o una volontà diversa dalla propria che non solo non mortifica o diminuisce, ma

fonda la dignità umana. Al tempo stesso, anche la libertà è in sé un cammino d’obbedienza, perché è

obbedendo da figlio al piano del Padre che il credente realizza il suo essere libero. È chiaro che una

tale obbedienza esige di riconoscersi come figli e di godere d’esser figli, perché solo un figlio e una

figlia possono consegnarsi liberamente nelle mani del Padre, esattamente come il Figlio Gesù, che si è

abbandonato al Padre. E se nella sua passione si è pure consegnato a Giuda, ai sommi sacerdoti, ai

suoi flagellatori, alla folla ostile e ai suoi crocifissori, lo ha fatto solo perché era assolutamente certo

che ogni cosa trovava un suo significato nella fedeltà totale al disegno di salvezza voluto dal Padre, al

via concreta attraverso cui si attua la struttura ricettiva e responsiva dell’uomo: è nell’obbedienza vissuta come risposta

all’interpellare di Dio nell’incontro con l’altro, che in concreto si attua la libertà e umanità dell’uomo». A. VARSALONA,

Il dialogo e i suoi fondamenti. Aspetti di antropologia filosofica e teologica secondo Jörg Splett e Walter Kasper, (coll.

Serie Teologia, 151), Roma, 2007, 225. 339

In relazione a questi aspetti, il rigore delle categorie tommasiane dona all’autonomia relativa antropologica una luce

per certi versi nuova, consentendo di cogliere nell’uomo un’autentica e sostanziale dimensione relazionale, pur

trattandosi di un legame che lo pone nei riguardi dell’Altro e degli altri in una relazione di dipendenza ontologica; cf. G.

DEODATO, La persona in San Tommaso d’Aquino, 405. Ma di autonomia relativa l’Autore parla anche citando la

Commissione Teologica Internazionale, 176-177 (n. 237), 363, 385. 340

Il Brancaccio sostiene: «La Genesi manifesta un uomo in tutto dipendente dal suo Creatore per essere e vivere, ma di

una dipendenza nella comunione, che, lungi dal costituire un limite per l’uomo, è tale da realizzarlo in pienezza,

secondo la verità del proprio essere». F. BRANCACCIO, Antropologia di comunione, 60; «non sarebbe obbedienza una

forma di ʻesecuzioneʼ che non fosse un modo di assunzione concreta, libera e responsabile, della propria

corresponsabilità verso il bene comune». S. BASTIANEL, Moralità personale nella storia, 275.

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quale – come ricorda san Bernardo – “non fu la morte che piacque, ma la volontà di colui che

spontaneamente moriva” [S. BERNARDO, De errore Abelardi, 8, 21: PL 182,1070A]»341

.

L’uomo è chiamato all’ascolto/obbedienza di Dio per natura, per vocazione, per alleanza, per

sacramento, per ministero. Questi diversi aspetti antropologici attestano chiaramente che tale

relazione di fede costituisce l’essenza dell’uomo342

e, pertanto, fondano uno stile

comportamentale343

.

«Poiché – cattolicamente – l’accoglienza del dono della salvezza richiede nell’uomo un’adesione

libera ed attiva alla volontà salvifica di Dio, nella Chiesa c’è posto per la normatività [obbedienza],

tanto di “contenuto” (Depositum Fidei), che di “comportamento” (mores); questa seconda, poi, si

rivolge tanto al singolo, che all’intera comunità credente»344

.

(a) “Chiamato all’ascolto/obbedienza per natura”. Richiamando questo aspetto, non ci si può

non collocare nell’orizzonte scritturistico trattato dai primissimi capitoli del libro della Genesi. È lì

che si trova il racconto della creazione dell’uomo345

come creazione dal nulla346. L’uomo ha una

origine che non è da sé stesso347

: dal momento che egli è una creatura, il proprio essere, il proprio

divenire, non si origina da sé, bensì dal suo Creatore, da Dio348

(Gen 1,26-31; 2,7-25)349

. Secondo la

341

CONGREGATIO PRO INSTITUTIS VITAE CONSECRATAE ET SOCIETATIBUS VITAE APOSTOLICAE, Instructio: Faciem tuam,

Domine, requiram. Il servizio dell’autorità e l’obbedienza, 11 maggio 2008, Città del Vaticano, 2008. 342

Cf. G. DE LUCA, Egli ci ha fatto e noi siamo suoi. Antropologia cristiana tra grazia e responsabilità, (coll. Verbum),

Soveria Mannelli, 2009. 343

«Si quis dixerit, Christum Iesum a Deo ho minibus datum fuisse ut redemptorem, cui fidant, non etiam ut

legislatorem, cui obediant: an. s.». CONCILIUM ŒCUMENICUM TRIDENTINUM, Sessio VI, Decretum de Iustificatione, 13

ianuarii 1547, can. 21, in DH, 1571. 344

P. GHERRI, Lezioni, 99. 345

«La prima obbedienza a cui la creatura è chiamata è quella di venire all’esistenza, in adempimento al fiat divino che

la chiama ad essere. Tale obbedienza raggiunge piena espressione nella creatura libera di riconoscersi ed accettarsi

come dono del Creatore, di dire “sì” al proprio venire da Dio. Così essa compie il primo, vero atto di libertà, che è

anche il primo e fondamentale atto di autentica obbedienza». CONGREGATIO PRO INSTITUTIS VITAE CONSECRATAE ET

SOCIETATIBUS VITAE APOSTOLICAE, Instructio: Il servizio dell’autorità e l’obbedienza, 11 maggio 2008, n. 7, in

L’Osservatore Romano, 29 maggio 2008, CXLVIII, n. 124 (44.864). 346

CONCILIUM ŒCUMENICUM VATICANUM I, Constitutio dogmatica de fide catholica: Dei Filius, in AA. VV.,

Conciliorum Œcumenicorum Decreta, ed. bilingue, Bologna, 1991, Canones 1-5, 804-811; Catechismo della Chiesa

Cattolica, Città del Vaticano, 1992, n. 296. 347

«Nous savons que l’homme n’est pas l’origine ni du monde, ni de lui-même». F. M. GENUYT, Vèrité de l’être et

affirmation de Dieu. Essai sur la philosophie de Saint Thomas, Paris, 1974, 140. 348

Cf. G. DE LUCA, Egli ci ha fatto e noi siamo suoi, 29. 349

Il magistero ha sempre difeso questa verità: cf. Concilio Lateranense IV contro la dottrina manichea dei Catari (DH

800) e Concilio Vaticano I contro le ipotesi emanazionistiche e Panteistiche (DH 3002; 3021-3025). Sul secondo

racconto della creazione dell’uomo, a cui viene ricollegato immediatamente il successivo racconto della caduta, un

autore così si esprime: «Même s’il utilise certains motifs connus, Gn 2,4b-3,24 est un récit original. […]. Anthropologie

et théologie sont ici inséparables. Gn 2,4b-3,24 est une page d’anthropologie théologique. Dès les premières lignes en

effet, le récit précise que “Yahvé Élohim modela l’homme (’adam) à partir de l’argile du sol (’adamah), insuffla dans

ses narines un souffle de vie, et l’homme devint un être vivant” (2,7). […]. Le souffle vital renforce à son tour les liens

entre la créature et son créateur. L’argile prend vie lorsque Yahvé Élohim introduit en elle un “souffle de vie”. Alors

seulement l’homme est constitué en être vivant. Ensuite, Yahvé Élohim plante un jardin, vaste et riche, dans l’Éden. Là,

il place l’homme afin de le garder e de le cultiver (2,8-9.15), et met à sa disposition tous les arbres du Jardin (2,16),

sauf un: “Tu ne mangeras pas de l’arbre de la connaissance de ce qui est bon ou mauvais, ca du jour où tu en

mangeras, tu devras mourir” (2,17). Le sens de la vie paradisiaque ne réside pas tant dans le plaisir […] que dans

l’obéissance à l’ordre divin. Tant que l’homme observe l’ordre divin, il peut profiter du jardin; sinon, sa situation

change de tout au tout». F. GARCIA LOPEZ, Comment lire le Pentateuque, Genève, 2005 (orig. esp. 2003), 80.

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Sacra Scrittura, infatti, il mondo intero ha origine per creazione350

. Alla scienza, in una certa

misura, spetta approfondire la creazione circa le sue modalità, in quanto, nella Scrittura nulla di ciò

viene menzionato351

, ciononostante, rimane l’essenzialità del dato rivelato che esprime come

l’uomo sia da Dio e per Dio352

.

Questo primo elemento mette immediatamente in evidenza il carattere costitutivo e, non

accidentale, del principio dell’ascolto nella natura umana. Infatti, il Signore nel porre in essere, per

mezzo del Verbo, della Parola, tutto il creato e l’uomo, creatura fatta a sua immagine e somiglianza,

da subito lo invita ad avere con Lui una relazione speciale di fiducia, che consiste nell’ascolto del

suo volere. In questa relazione, si esprime la dipendenza della creatura dal suo Creatore, in senso

pieno ed assoluto. La creatura, non solo dipende dal Creatore, in quanto posta in essere, ma dipende

dalla Sua Parola anche il prosieguo della sua stessa esistenza; la creatura, infatti, non può realizzare

naturalmente il proprio essere nell’indipendenza relazionale dal suo Creatore, e, neppure, dalle altre

creature353

.

L’ascolto sancisce questa unità indissolubile, relazione che deve sussistere tra Dio e

l’uomo354. L’ascolto, quindi, non è elemento accidentale della natura dell’uomo, ma è parte

350

Cf. K. LOENING – E. ZENGER, In principio Dio creò. Teologie bibliche della creazione, Brescia, 2006. 351

Cf. P. HAFFNER, Il mistero della creazione, Città del Vaticano, 1999, 20 ss.. 352

«È da Dio. Dio è il suo creatore. È Lui che l’ha creata: “E Dio disse: ‘Facciamo l’uomo a nostra immagine, a nostra

somiglianza, e domini sui pesci del mare e sugli uccelli del cielo, sul bestiame, su tutte le bestie selvatiche e su tutti i

rettili che strisciano sulla terra’. Dio creò l’uomo a sua immagine; a immagine di Dio lo creò; maschio e femmina li

creò” (Gn 1,16-27). Nell’istante stesso in cui Dio crea l’uomo, lo crea in un modo particolarissimo: lo crea maschio e

femmina. Lo crea in relazione perenne. Questa differenza di maschio e di femmina è costitutiva, essenziale, naturale

della persona umana. Chi volesse abolirla, negarla, inficiarla, distruggerla, sappia che distrugge lo stesso essere uomo.

[…]. È per il Signore. È per fare sempre la sua volontà. Per questo è stato voluto, creato, posto in essere: per compiere

sulla terra la volontà del suo Dio. Questo significa una cosa sola: l’uomo è uomo in quanto obbedisce, ascolta, esegue,

compie, realizza ciò che il Signore giorno per giorno gli comanda. Dov’è allora l’autonomia della persona umana? Può

essere l’uomo autonomo dall’aria che respira, se l’aria è ciò che lo mantiene in vita? Così dicasi dell’autonomia

dell’uomo dal suo Creatore e Signore. Dio è più che l’aria, più che il cibo, più che ogni altro elemento naturale

necessario all’uomo per essere e per conservarsi in vita. Non appena l’uomo decide di non essere più per il Signore, per

obbedire alla sua volontà, entra in un processo irreversibile di morte». C. DI BRUNO, La persona mistero indicibile di

relazioni, in G. DEODATO, La persona in San Tommaso d’Aquino,7-8. 353

«L’atto creativo di Dio si “prolunga” o attualizza sempre come atto di conservazione nell’essere e, come Dio si

avvale, ordinariamente, della cooperazione umana per avviare il processo di una vita personale, così continua a farlo in

seguito. È quanto ricordava Paolo agli Ateniesi in un passo che abbiamo già utilizzato: “In lui infatti viviamo, ci

muoviamo ed esistiamo” (At 17,28). Il ruolo della mediazione e, dunque, della relazione, nello spirito della rivelazione,

è sempre fondamentale e mai marginalizzabile o escludibile. Ogni attimo di sussistenza è dono attuale di vita che il

Creatore fa per mezzo di una molteplicità di cause seconde, in armonia con il dono attuale, direttamente da lui infuso,

della vita dell’anima». G. DEODATO, La persona in San Tommaso d’Aquino, 404. È evidente che la citazione va

applicata per riflesso al nostro tema dell’obbedienza. Di fatto però, scorgiamo nel principio ispiratore dell’Autore, la

stessa verità che noi vogliamo asserire, e cioè che, in nessun caso, mai, l’uomo è da sé stesso. 354

«Interrogarsi sul rapporto tra Dio e l’uomo chiede qualcosa di più che il semplice scoprire quale essere entrambi

abbiano in comune, ma urge domandarsi come l’uomo possa realizzare nella sua esistenza una piena corrispondenza al

volere di Dio. In questa linea il registro dell’analogia non è tanto funzionale a formalizzare in un concetto il rapporto tra

Dio e l’uomo, ma pone in primo piano l’urgenza di un atteggiamento di obbedienza e di abbandono dell’uomo di fronte

all’evento dell’auto comunicazione di Dio nel quale riceve la misura della propria corrispondenza. […]. Per questo

l’uomo è continuamente teso verso quella misura compiuta della sua umanità che, rivelata da Dio nella Sua auto

manifestazione, definisce l’orizzonte universale del senso della sua esistenza cioè l’essenza stessa dell’uomo (essentia).

Naturalmente questa essenza non è presupposta al processo dell’esperienza umana, né può essere solo il risultato di un

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costitutiva del suo essere creato. Si potrebbe dire che, l’uomo conserva la sua natura nella verità del

suo essere – nell’oggi della storia, prima ancora che in vista dell’eternità – solo in una relazione

perenne, continua con Dio. La sua natura è da Dio: l’obbedienza della creatura umana riflette questo

legame ontologico con Dio, per continuare ad essere/esistere nella natura creata, anche come natura

creata. L’Enciclica Veritatis splendor, al n. 12, sembra essere un ottimo commento e

completamento del discorso relativo al legame ontologico con Dio, specie tenendo presente ciò che

Cristo stesso consiglia come via d’accesso alla vita (Mt 19,17).

«Solo Dio può rispondere alla domanda sul bene, perché Egli è il Bene. Ma Dio ha già dato risposta a

questa domanda: lo ha fatto creando l’uomo e ordinandolo con sapienza e con amore al suo fine,

mediante la legge inscritta nel suo cuore (cf. Rm 2,15), la “legge naturale”. Questa “altro non è che la

luce dell’intelligenza infusa in noi da Dio. Grazie ad essa conosciamo ciò che si deve compiere e ciò

che si deve evitare. Questa luce e questa legge Dio l’ha donata nella creazione”. Lo ha fatto poi nella

storia di Israele, in particolare con le “dieci parole”, ossia con i comandamenti del Sinai, mediante i

quali Egli ha fondato l’esistenza del popolo dell’Alleanza (cf. Es 24) e l’ha chiamato ad essere la sua

“proprietà tra tutti i popoli”, “una nazione santa” (Es 19,56), che facesse risplendere la sua santità tra

tutte le genti (cf. Sap 18,4; Ez 20,41). […]. Per questo, dopo l’importante precisazione: “Uno solo è

buono”, Gesù risponde al giovane: “Se vuoi entrare nella vita, osserva i comandamenti” (Mt 19,17).

Viene in tal modo enunciato uno stretto legame tra la vita eterna e l’obbedienza ai comandamenti di

Dio: sono i comandamenti di Dio che indicano all’uomo la via della vita e ad essa conducono. Dalla

bocca stessa di Gesù, nuovo Mosè, vengono ridonati agli uomini i comandamenti del Decalogo; egli

stesso li conferma definitivamente e li propone a noi come via e condizione di salvezza. Il

comandamento si lega a una promessa: nella Alleanza Antica oggetto della promessa era il possesso

di una terra in cui il popolo avrebbe potuto condurre un’esistenza nella libertà e secondo giustizia (cf.

Dt 6,20-25); nella Alleanza Nuova oggetto della promessa è il “Regno dei cieli”, come Gesù afferma

all’inizio del “Discorso della Montagna” – discorso che contiene la formulazione più ampia e

completa della Legge Nuova (cf. Mt 5-7) –, in evidente connessione con il Decalogo affidato da Dio a

Mosè sul monte Sinai. Alla medesima realtà del Regno fa riferimento l’espressione “vita eterna”, che è

partecipazione alla vita stessa di Dio: essa si realizza nella sua perfezione solo dopo la morte, ma nella

fede è già fin d’ora luce di verità, sorgente di senso per la vita, incipiente partecipazione ad una

pienezza nella sequela di Cristo»355

.

(b) “Chiamato all’ascolto/obbedienza per vocazione”. L’uomo, infatti, è chiamato a vivere

conformemente alla sua “matrice” anche per un comando esterno. Il Signore non ha lasciato che

l’uomo si pensasse da sé neppure la sua esistenza. Sempre mediante la Parola, sin da subito ha

indirizzato la sua esistenza, l’ha orientata verso il suo compimento. Sempre per comando ha affidato

a lui il compimento della creazione che gli è stata affidata in uno stato, evidentemente, non di

perfezione attuale, ma certo di perfezione embrionale356

.

processo di trasformazione, bensì inerisce direttamente all’atto del divenire: “per essere e permanere, essa deve

divenire; divenire ciò che essa è e che, se diviene, nondimeno non è ancora; per conseguire sé medesima, deve

protendersi aspirando, e in questa sua protensione deve adempiere la propria legge”. Questo dinamismo che non

conosce termine rappresenta la reale corrispondenza della creatura al suo Creatore». A. SCOLA – G. MARENGO – J.

PRADES LÓPEZ, La persona umana, 57-59. 355

IOANNES PAULUS PP. II, Litt. Enc.: Veritatis splendor, 6 augusti 1993, in AAS, LXXXV (1993), n. 12, 1140-1143. 356

«Nella Parola della divina Rivelazione è iscritta molto profondamente questa verità fondamentale, che l’uomo,

creato a immagine di Dio, mediante il suo lavoro partecipa all’opera del Creatore, ed a misura delle proprie possibilità,

in un certo senso, continua a svilupparla e la completa, avanzando sempre più nella scoperta delle risorse e dei valori

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Il Signore che lo ha creato a sua immagine (Gen 2,8) vuole l’uomo al suo “vertice”: «l’uomo

è l’apice di tutto l’ordine del creato nel mondo visibile; il genere umano, che prende inizio dalla

chiamata all’esistenza dell’uomo e della donna, corona tutta l’opera della creazione»357

. Questa

dignità è carica di responsabilità in quanto, tutto il creato è affidato all’umana responsabilità358

.

Questa dignità è espressa dalla signoria che l’uomo è chiamato ad esercitare sul creato. Questa

signoria non può essere vissuta in indipendenza dal Creatore; essa può essere vissuta solo attraverso

una ‘sana’ autonomia359

: questa ‘giusta’ autonomia, dipendenza dal Creatore, è il principio che deve

guidare l’uomo sempre, in quanto, senza questo principio, l’uomo resterebbe privo della sua verità.

È stato giustamente osservato, recentemente, in un contesto di riflessione sulla Dottrina sociale

della Chiesa che ha affrontato anche questi problemi:

«l’uomo ha ricevuto il comando di sottomettere a sé tutto il creato. Ma essendo egli stesso sganciato e

liberato da Dio, non può portare il creato nella verità se prima non porta sé stesso nella verità. Non può

subordinare tutta la realtà a sé stesso, se egli stesso è insubordinato al suo Creatore e Signore. Tuttavia

può sviluppare tutta la creazione, nel suo microcosmo ed anche macrocosmo, può avere la perfetta

conoscenza dell’atomo e delle galassie, ma nel momento in cui si tratta di dominare la conoscenza, di

farne un uso esclusivo per il bene, di subordinarla al suo Creatore e Signore, non essendo egli stesso

subordinato a Dio, diviene impossibile poterla subordinare a sé stesso. Figuriamoci poi a subordinarla

a Dio»360

.

Nella storia, dunque, riuscire ad indirizzare la creazione verso il suo compimento può

avvenire, e di fatto avviene, quando l’uomo rimane nell’ascolto della sua parola; mentre, se egli

vive la sua esistenza al di fuori di essa, produce morte prima di tutto per sé (Gen 2,16), e, in questa

morte, trascina la stessa creazione. Quindi l’uomo non solo, è fatto per ascoltare/obbedire al suo

Creatore, cioè, non solo, ha una natura concepita in dipendenza e non indipendente, ma è anche

racchiusi in tutto quanto il creato». IOANNES PAULUS PP. II, Litt. Enc.: Laborem exercens, 14 septembris 1981, in AAS,

LXXIII (1981), n. 25, 638. «Il compito affidato da Dio all’uomo consiste nel prendersi cura del mondo come creazione

di Dio, “seguendone il ritmo e la logica”. Occorre dunque rispettare le sue leggi e i suoi tempi, rispettare il creato come

qualcosa che è stato ricevuto in dono, o meglio in affidamento; la creazione è affidata all’uomo affinché egli la porti a

diventare ciò di cui essa è capace». E. BABINI, Lo sguardo dell’uomo verso Dio attraverso il mondo. Alcune

interrogazioni critiche sulla sua evoluzione storica, in R. MARTÌNEZ – J. J. SANGUINETI (a cura di), Dio e la natura,

Roma, 2002, 151- 159, qui 157. 357

IOANNES PAULUS PP. II, Litt.: Apost., Mulieris Dignitatem, 15 augusti 1988, in AAS, LXXX (1988), n. 6, 1662. 358

Alcuni autori hanno recentemente parlato di «una visione teocentrica della bioetica dell’ambiente, una visione cioè

che intende fondare sull’esistenza di Dio l’etica della relazione uomo-ambiente. […]. L’evidenza teocentrica del

rapporto uomo-ambiente propria dell’etica ambientale cattolica emerge spesso nella Bibbia, anche con l’uso di un

linguaggio metaforico, suggestivo e di notevole spessore poetico. […]. Il rapporto uomo-mondo si radica in

un’antropologia che vede l’uomo come responsabile del dono che Dio gli ha fatto, in quanto alleato di Dio e custode del

mondo. Il modello antropologico della custodia emerge dalla lettura della seconda narrazione ecologica di Gen 2,15: “Il

Signore Dio prese l’uomo e lo pose nel giardino di Eden perché lo coltivasse e lo custodisse”». V. MELE – S. GIARDINA,

Alcune suggestioni letterarie per una visione teo-centrica della bioetica dell’ambiente, in R. MARTÌNEZ – J. J.

SANGUINETI (a cura di), Dio e la natura, 161-169, qui 161-162. 359

L’indipendenza è una signoria assoluta, l’autonomia è una signoria dipendente, biblicamente ciò viene espresso dai

termini “custodire” e “coltivare” (Gen 2,15); cf. CONCILIUM ŒCUMENICUM VATICANUM II, Gaudium et spes, in AAS,

LVIII (1966), 1053-1054, n. 36. 360

A. ROTUNDO, L’imprenditore cristiano. La via della Chiesa per costruire il bene comune, (coll. Varia Verbum, 1),

Soveria Mannelli, 2010, 116-117.

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chiamato all’obbedienza, in quanto, Dio esige dall’uomo che rimanga nella natura che Egli gli ha

donato, creandolo.

(c) “Chiamato all’ascolto/obbedienza per alleanza”. Il Signore non solo ci ha creati, ma,

anche sempre e solamente Lui, ci ha liberati dalle nostre infinite schiavitù. È bene, per tale ragione,

approfondire un’altra dimensione dell’ascolto/obbedienza, sovente oggi trascurata. L’opera di vera

liberazione, di vero riscatto, di vera salvezza dell’uomo solo Dio la potrà iniziare, proseguire e

portare a compimento. La storia ha sempre attestato, e, sempre attesterà che, tutte le vie umane di

auto redenzione sono false e quindi fallimentari; sono fallimentari perché false361

.

L’alleanza nella fattispecie, è riferita all’antica alleanza e costituisce una tappa fondamentale

di questo cammino di liberazione. Il Signore costituisce Israele “suo popolo” chiamandolo a vivere

secondo le sue leggi362

. Il Signore entra nella storia istaurando una relazione personale con il

popolo, relazione Io-tu (Lv 19,3), infatti, «l’aspetto particolare e unico del rapporto d’Israele con

Dio non si manifesta nell’ambito del culto, ma dell’ubbidienza all’unico Dio»363

.

La storia di Israele è paradigma della storia di ogni uomo. Ogni uomo, infatti, viene cercato da

Dio per essere liberato e rientrare nella sua casa. Con il patto di alleanza, infatti, Dio vuole far

comprendere all’uomo l’impossibilità di un’esistenza vissuta in indipendenza da Lui, fonte della

vita. Tuttavia, è possibile anche che ogni uomo cerchi nel Signore la sua liberazione ed elevi il suo

grido a colui che solo può intervenire nella storia cambiandone il corso. Ecco perché riteniamo

emblematica la vicenda storica che condusse il popolo d’Israele alla stipulazione dell’Alleanza:

361

«Mai un uomo da solo, con le sole sue forze, può essere salvatore di altri uomini. Ne può aiutare uno, di certo non ne

potrà mai aiutare molti. Per aiutarne molti occorre un intervento soprannaturale, dall’alto, perché l’uomo è solo di Dio.

L’uomo non è dell’uomo, non gli appartiene. Se non gli appartiene, nessun uomo riconoscerà un altro uomo suo

salvatore. Potrà riconoscerlo, ma solo perché ingannato, schiavizzato, torturato, obbligato, costretto con la forza o con il

lavaggio del cervello. Poiché l’uomo non appartiene all’uomo, alla fine, colui che ha preteso di salvarlo con l’inganno,

con la forza, con i molteplici sotterfugi, si accorge che l’uomo non gli appartiene. Avrà pure costruito dei mostri umani

– e questo sovente avviene perché la storia ce lo attesta e testimonia – ma non riuscirà mai a dominare ciò che non gli

appartiene. L’uomo è di Dio e solo suo e di nessun altro. Da soli possiamo svestire l’uomo non vestirlo, impoverirlo non

arricchirlo, ucciderlo non risuscitarlo, abbassarlo non elevarlo, schiavizzarlo non renderlo signore. Prima o poi l’uomo

riprenderà il suo cammino, la sua autonomia, la sua libertà. Nell’uomo c’è una forza irresistibile che nessun altro uomo

potrà mai dominare e governare a suo piacimento. In uno stato di schiavitù, di oppressione, può l’uomo liberarsi

dall’uomo, da solo, con le sole sue forze? Neanche questo è possibile. Si potrà liberare, ma attraverso la via del male,

non quella del bene. Per liberarsi attraverso la via del bene occorre un particolare aiuto dall’Alto, dal Signore

dell’uomo. L’uomo non è di sé stesso. Non si appartiene. L’uomo appartiene a Dio. È di Dio e Dio solo lo potrà salvare,

liberare, renderlo vero uomo. Se l’uomo è di Dio, a Dio soltanto può chiedere la vera liberazione». A. ROTUNDO,

L’imprenditore cristiano, 188-189. 362

La vocazione dell’uomo è «quella di riconoscersi prevenuto, chiamato per nome, costruito da Lui: l’unica

mediazione possibile per un rapporto salvifico tra Dio e l’uomo è l’uomo stesso in quanto si è sentito voluto, amato,

“creato” da Jahvé, in quanto legato a Lui in un “possesso particolare”, sancito da un’Alleanza di sangue. L’uomo

salvato è l’uomo storicamente in dialogo: la mediazione è in questo dialogo (le 10 parole cui l’uomo risponde) che – se

rispettato – ottiene la benedizione di Dio. Dal punto di vista storico-salvifico, cioè, l’immagine di Dio è l’uomo stesso

che ha ricevuto le Sue parole, che è entrato in relazione con Lui. In tal modo viene compresa la creazione come la

plasmazione di una immagine di Dio che costituzionalmente possiede la Parola che lo fa vivere, come parola cui

obbedire». A. SICARI, Chiamati per nome. La vocazione nella Scrittura, Milano, 2 ed., 1990, 123. 363

M. NOTH, Esodo, Brescia, 1977, 96-97.

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«I figli di Israele in Egitto gridarono al Signore la loro schiavitù e Dio ascoltò il loro grido. La

preghiera si rivela via fondamentale, primaria, essenziale per creare nel mondo il bene che sia

rispettoso della dignità dell’uomo. […]. Gridare al Signore la propria miseria spirituale è certezza di

liberazione, perché è certezza di esaudimento. Mosè non solo è stato scelto da Dio per essere il

liberatore del suo popolo, ma anche colui che avrebbe dovuto condurre alla liberazione morale e

spirituale, cioè colui che avrebbe dovuto insegnare, sempre per volontà manifestata di Dio, come un

uomo deve conquistare la sua vera libertà, che non è solo fisica, ma anche dell’anima e dello spirito.

[…]. La vera libertà di un uomo non è quella fisica, quella cioè di non appartenere a nessun altro

uomo, di non essere schiavo di nessuno. […]. Si può essere fisicamente schiavi e veri uomini, perché

liberi nell’anima e nello spirito. L’uomo più libero di questo mondo è il Crocifisso, l’Appeso al palo.

Egli è il solo uomo veramente libero eppure è un Crocifisso, è il Crocifisso. […]. Quando si vuole

liberare solo fisicamente un uomo, ma lo si lascia nella schiavitù di sé stesso, del suo cuore, della sua

mente, dei suoi pensieri e desideri, della sua concupiscenza, arroganza, superbia, è questa la peggiore

delle liberazioni. Molte volte è questa la liberazione che si vuole inculcare, insegnare. Liberazione da

Dio e dagli uomini. Questa liberazione mai potrà esistere. Non potrà mai esistere perché l’uomo è

essere storico. È da Dio ed è dagli altri. Mai potrà separarsi da Dio e dagli altri. È il suo stesso essere

che lo esige, lo vuole. Dio e gli altri sono la sua stessa vita. La vita di un uomo è sempre in Dio e negli

altri. Per questo chi lo volesse liberare dagli altri e da Dio, lo uccide, perché lo priva della sua vera

vita. Per Mosè è stato alquanto facile liberare il suo popolo dalla schiavitù fisica degli Egiziani.

Bastarono dieci segni potenti fatti dal Signore per mezzo di lui. Facile invece non fu liberare l’uomo,

l’Ebreo, da sé stesso, gli furono necessari ben quaranta anni e alla fine quale fu la confessione di

Mosè? […] la liberazione vera, globale, perfetta, di tutto l’uomo che Dio avrebbe voluto operare per

mezzo di Mosè […] è una sola: quella che passa attraverso la via dei Comandamenti»364

.

La voce ‘alleanza’, dunque, compresa nella sua accezione religiosa, indica un accordo tra due

parti (Dio/uomo), ossia, un incontro di due volontà (divina/umana), le quali, in totale libertà, si

obbligano vicendevolmente a non infrangere la parola data e, posta a fondamento del legame

contratto: Dio si impegna con delle promesse solenni, a condizione che l’uomo mantenga fedeltà a

quanto gli viene richiesto365

. La caratteristica dell’alleanza biblica, però, è rappresentata dal fatto

che, i termini del patto sono decisi da una sola parte e, accettati dall’altra366

. Emerge ancora un altro

dato significativo per la nostra ricerca, e, per le brevi note di antropologia biblica che stiamo

tracciando: Israele, come figura dell’umanità, è un popolo definito dall’ascolto del Signore367

, cioè,

è un popolo che, per realizzare sé stesso come popolo, per conquistare la sua liberazione ha

necessariamente bisogno di Dio. É anche chiamato da Dio a partecipare a quest’opera di

liberazione per mezzo dell’adempimento della condizione, che per l’appunto è l’obbedienza368

.

Dunque l’opera salvifica, liberatrice, redentrice per quanto opera divina, è stata, e, sempre sarà,

un’opera condizionata369

.

364

A. ROTUNDO, L’imprenditore cristiano, 189-192. 365

Cf. G. DE LUCA, Egli ci ha fatto e noi siamo suoi, 145-147. 366

Cf. A. VANOHYE, La Nuova Alleanza nel Nuovo Testamento, Roma, 1984. 367

Cf. W. BRUEGGEMANN, Teologia dell’Antico Testamento. Testimonianza, dibattimento, perorazione, Brescia, 2002. 368

«L’Ancienne Alliance est une Alliance conditionnelle: du fait qu’elle se fonde sur l’observance de la Loi et qu’elle

est ainsi, de par sa nature, liée au comportement de l’homme, il est possible de la rompre, et elle a été rompue».

BENOIT XVI – J. RATZINGER, Paul. Apôtre de l’unité, Paris, 2008, 82. 369

«La salvezza è un dono che è fuori dello stesso uomo, ma che l’uomo è chiamato ad accogliere e fare suo. In fondo

questo è il vero significato dei Dieci Comandamenti. Dio invita l’uomo a fare un’alleanza con Lui. Questa alleanza è

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(d) “Chiamato all’ascolto/obbedienza per sacramento”. Anche dopo il peccato, sempre per

mezzo di un appello, di una vocazione, di un dialogo mediato da una parola che Dio dona all’uomo

andandolo a cercare, e, manifestando la sua volontà di salvezza che è libera, gratuita, segno della

sua infinita misericordia. A questa Parola salvifica l’uomo è chiamato a rispondere in un dialogo di

pentimento e di progressivo ritorno, nel limite e all’interno del quale, egli, liberamente, dovrà

riportare la sua vita, se vuole che ritorni a fiorire nell’alveo della benedizione divina, poiché, dopo il

peccato originale, l’uomo può vivere in obbedienza alla legge dello Spirito solo rimanendo “in”

Gesù, parola fatta carne, nella Chiesa suo corpo mistico (cf. 1 Cor 12,12-14)370

.

Con il battesimo, infatti, si è resi partecipi della natura divina, conformati a Cristo o

cristificati, come oggi sovente si usa affermare. È da questa cristificazione che scaturisce una

morale dai toni essi pure cristologici come ricordano tutte le lettere paoline e la stessa grande

tradizione teologica agostiniana371. L’uomo nuovo, in Cristo, può quindi compiere il cammino della

semplice da comprendersi: Dio dona la salvezza all’uomo. L’uomo accoglie di essere salvato dal suo Dio. La salvezza

di Dio è nei Dieci Comandamenti. L’uomo osserva i Comandamenti e la salvezza sarà sempre sua. Quando l’uomo

uscirà dai Comandamenti, uscirà anche dalla salvezza. Sarà nella distruzione del suo essere sociale, personale,

familiare, civile, politico, economico. Tutto l’uomo perderà nel momento stesso in cui uscirà dai Comandamenti, perché

uscirà dalla salvezza che il Signore gli ha consegnato. Ancora una volta l’uomo è invitato a non cercare in sé ciò che è

fuori di sé. Portando sé stesso in ciò che è fuori di sé, portando dentro sé stesso ciò che è fuori di sé stesso, l’uomo

entrerà nella salvezza, perché entrerà nel dono della vita che Dio gli ha fatto. Fin dal primo istante è stato così. Fino

all’ultimo istante sarà così. La salvezza dell’uomo è fuori dell’uomo. Essa è nell’ascolto del comandamento del suo

Dio». A. ROTUNDO, L’imprenditore cristiano, 216-217 (particolarmente importanti da un punto di vista fondativo le

note 86 e 87). «È utile distinguere l’alleanza sul Sinai e le sue successive conferme, dall’alleanza con Noè e Abramo (e

poi da quella con David, modellata su quest’ultime). Le prime alleanze erano promesse assolute e incondizionate di

Dio. Questa è la promessa ad Abramo: “Ti farò moltiplicare in modo abnorme […]. Darò a te e ai tuoi discendenti dopo

di te la terra dove abiti ora da forestiero, tutta la terra di Canaan […]” (Genesi 17:6-8). Sul Sinai, invece, le promesse di

Dio sono condizionate: “Or dunque, se voi ascolterete la mia voce e osserverete il mio patto, voi sarete mia speciale

proprietà fra tutti i popoli” (Esodo 19:5). […]. L’affrancamento dalla schiavitù egiziana non è condizionato, non

dipende dalla condotta morale degli schiavi; ma il primo affrancamento porta Israele solo fino al deserto. È il momento

cruciale della storia dell’Esodo: ai piedi del monte Sinai, Dio rivela le condizioni per ogni ulteriore passo in avanti». M.

WALZER, Exodus and revolution, New York, 1985, [tr. it., Esodo e rivoluzione (coll. Saggi), Milano 2004, 56] (la

citazione non implica che si sposi ogni pensiero dell’autore). 370

In questo senso S. Agostino afferma: «il Cristo ci ha incorporati a sé, ci ha fatto suoi membri. Eccoci in lui divenuti

Cristo. Siamo realmente il suo corpo; in lui dipendiamo dal Cristo, Christi sumus; più ancora Christus sumus, non

solamente di Cristo, ma Cristo medesimo». AGOSTINO D’IPPONA, Enarratio in Psalmum 26-2, 11, 2: Patrologia Latina

36, 204. 371

In particolare mi rifaccio a quanto affermato commentando alcuni aspetti della 1Cor: «Che Paolo abbia fermamente

chiaro che la morale cristiana non possa che essere spiegata, annunciata, vissuta se non in termini cristologici, cioè in

un orizzonte di fede e di grazia che operano la filiazione dell’uomo, è un dato evidente nel suo epistolario, laddove si

osservi che la parte cosiddetta parenetica o esortativa, qualora assente, è sostituita da un “codice comportamentale”, che

altro non è se non un richiamo, anch’esso, al cristiano circa la sua identità filiale. Da essa deve scaturire in virtù della

sua immersione nel mistero della redenzione, per mezzo dei sacramenti celebrati nella fede, quella luce nuova in cui è

stato trasformato». G. DEODATO, Aspetti teologici di morale filiale, 276. «Ora, se il battesimo costituisce la possibilità di

diventare figli di Dio, al dono comunicato nel sacramento deve corrispondere una vita caratterizzata da opere buone.

Agostino è chiaro e immediato: “cerca di vivere come uno diventato figlio d’un così grande Padre di famiglia, come

uno sul quale è invocato il nome di Dio”». M. DOLDI, L’uomo, figlio di Dio in Agostino, in Auctores nostri, 8 (2010),

217-230.

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propria santificazione. Cristo Gesù è il sacramento di salvezza per l’umanità intera372

. Il sacramento

fa dell’uomo una realtà nuova, pertanto egli non appartiene più al prima, “uomo vecchio” segnato

dal peccato, ma per sacramento (Grazia) muta ontologicamente la sua condizione, divenendo

membra del Corpo mistico di Cristo, e, per tale nuova condizione egli è tenuto ad obbedire alle

leggi di questa natura nuova che riceve per dono di grazia373

.

(e) “Chiamato all’ascolto/obbedienza per ministero”. Anche la vocazione, il ministero, sono

via di salvezza a cui il Signore chiama, e, per cui chiede ascolto. Pertanto, la vocazione non si viene

ad aggiungere alla persona in un secondo momento, ma essa appartiene alle fibre più intime del suo

stesso essere, fin dal grembo materno chiamato (cf. Is 49, 1-2; Gal 1, 15-16). Alcune citazioni

scritturistiche ci consentiranno di spiegare quanto si vuole affermare. Dall’apostolo Paolo si

apprende:

«Vi sono diversi carismi, ma uno solo è lo Spirito; vi sono diversi ministeri, ma uno solo è il Signore;

vi sono diverse attività, ma uno solo è Dio, che opera tutto in tutti. A ciascuno è data una

manifestazione particolare dello Spirito per il bene comune: a uno infatti, per mezzo dello Spirito,

viene dato il linguaggio di sapienza; a un altro invece, dallo stesso Spirito, il linguaggio di conoscenza;

a uno, nello stesso Spirito, la fede; a un altro, nell’unico Spirito, il dono delle guarigioni; a uno il

potere dei miracoli; a un altro il dono della profezia; a un altro il dono di discernere gli spiriti; a un

altro la varietà delle lingue; a un altro l’interpretazione delle lingue. Ma tutte queste cose le opera

l’unico e medesimo Spirito, distribuendole a ciascuno come vuole. […].

Alcuni perciò Dio li ha posti

nella Chiesa in primo luogo come apostoli, in secondo luogo come profeti, in terzo luogo come

maestri; poi ci sono i miracoli, quindi il dono delle guarigioni, di assistere, di governare, di parlare

varie lingue» (1Cor 12, 4-11.28).

In questo testo, l’apostolo delle genti vuole mettere in luce, che ogni dono, carisma, o

ministero, di cui l’uomo è ricolmo, proviene dallo Spirito Santo; non è l’uomo a donarselo, tanto

meno egli può pensare di poter distribuire, nel senso di assegnare, un ministero a qualcuno374

.

372

«Il Cristo è la perfetta rivelazione del Padre e del suo amore per l’uomo. Ed è al tempo stesso la perfezione di

quell’adorazione in spirito e verità (Gv 4,23-24) che è obbedienza, fedeltà, abbandono di sé fino alla morte, culto

gradito a Dio sopra ogni altro. Rivelazione dell’amore di Dio e perfezione dell’obbedienza della creatura, Cristo è in

senso pieno e radicale il sacramento della salvezza attuata da Dio nella storia». A. SANTANTONI, Voce: Sacramenti, in

F. COMPAGNONI – G. PIANA – S. PRIVITERA, Nuovo Dizionario di Teologia Morale, Cinisello Balsamo (MI), 4 ed.,

1999, 1120; cf. pure E. SCHILLEBEECKX, Cristo, sacramento dell’incontro con Dio, Cinisello Balsamo (MI), 1981. 373

«La morale filiale dev’essere, per ragioni ontologiche e cristologiche, morale di santificazione, di perfetta

obbedienza, di crocifissione, d’immolazione, di perfetta conformazione a Cristo, durante il tempo per potersi ritenere

veramente autentica, e perciò aprire le porte alla beatitudine eterna […]. Ora, questo processo, tutto racchiuso nella

potenza della grazia sacramentale e nell’efficacia della Parola di salvezza recata per mezzo dell’annuncio del Vangelo,

che trasfondono la vita di Cristo nelle membra del suo Corpo e le configurano alla Sua vita filiale, per mezzo della fede,

può essere impedito solo dalla volontà dell’uomo». G. DEODATO, Aspetti teologici di morale filiale, 277-278. 374

«Ora se la crescita in sapienza e grazia viene omessa, ritardata, mal vissuta l’uomo spirituale cresce male, o si arresta

nella crescita o accusa gravi ritardi. Le conseguenze di questo stato spirituale dei membri di questa comunità sono

perciò evidenti: essi pensano secondo la carne, agiscono, progettano e si relazionano con gli altri non secondo

quell’ottica soprannaturale che fu di Cristo, come si è visto. Dopo aver iniziato a gustare la libertà dei figli di Dio, loro,

non crescendo nella verità del Vangelo e non camminando ogni giorno nello Spirito del Signore sono tornati a

riprendersi la loro vita, riprecipitando nella schiavitù del peccato come dimostrano i frutti da loro prodotti: invidia e

discordia. In questa comunità ciascuno vuole primeggiare. Laddove altri abbiano un carisma più appariscente e dai frutti

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Datore e dispensatore è solo lo Spirito Santo, è lui il Signore, e, proprietario dei carismi e ministeri

che consegna alla responsabilità degli uomini375

.

Essere obbedienti per ministero equivale ad accogliere ciò che lo Spirito Santo ha disposto e

dato a ciascun uomo376

. Non riconoscere, e, non avvalersi del proprio ministero e di quello altrui,

ricevuto e servito nello Spirito Santo, costituisce disobbedienza nel ministero. L’obbedienza per

ministero, consiste unicamente ad obbligarsi a ciò che lo Spirito Santo ha disposto e manifestato

alla specifica persona377

. La non obbedienza al ministero, manifestato dallo Spirito Santo, ha come

conseguenza, non solo, la non realizzazione della persona interpellata, rischiandone anche la sua

salvezza eterna, ma, compromette anche la realizzazione e la difficoltà di salvezza, di tutti coloro

che avrebbero dovuto dipendere da quel dato ministero. Il fine di questo ascolto è sempre per la

piena realizzazione degli uomini e per il raggiungimento della propria salvezza.

4.4.2 IN SINTESI

Esaminando fugacemente queste cinque voci: per natura, per vocazione, per alleanza, per

sacramento, per ministero, non si è fatto altro che ripercorrere in modo assai sommario il cammino

della salvezza di Dio con l’uomo, facendo emergere la natura dell’uomo: essere chiamato

all’ascolto, perché essere relazionale.

Tutto l’impegno di Dio verso l’uomo, infatti, consiste nel cercare di riportarlo nella sua natura

costitutiva. Dio crea l’uomo, lo chiama all’ascolto, stabilisce con lui un’alleanza per ricondurlo

all’obbedienza, lo ricrea attraverso l’opera della redenzione donandogli la grazia necessaria per

vivere l’ascolto. Tutto l’intervento di Dio verso l’uomo ha soltanto questa finalità: ricostruire la

relazione di totale fiducia, ristabilire l’ordine distrutto dalla disobbedienza per riportalo nella sua

più eclatanti ecco sorgere l’invidia, la quale, evidentemente, genera discordia e divisione. In questa prospettiva

disprezzando il dono dell’altro, si disprezza l’opera dello Spirito Santo che è dispensatore dei doni. Ecco allora che la

comunità di Corinto non realizza le attese divine che il Signore ha su ciascuno, perché non vive secondo lo Spirito.

Manca il contatto con quella volontà particolare che il Padre ha su ogni singolo membro del corpo ecclesiale, la quale

compresa ed attuata nello Spirito Santo, consentirebbe a ciascuno di vivere in armoniosa unità ed al servizio dei fratelli,

come fu per Cristo». G. DEODATO, Aspetti teologici di morale filiale, 288-289. 375

«Il carisma esige il compimento morale nella vita». K. H. SCHELKLE, Paulus. Leben - Briefe - Theologie, 2 ed.,

Darmstadt, 1988, [trad. it., Paolo. Vita, lettere, teologia, Brescia, 1990, 213]. 376

«Se si partisse da lui, come Paolo vuole che accada, l’unico problema per ciascuno dei membri della comunità

dovrebbe essere la conoscenza della volontà di Dio, in ordine al posto da occupare nel mondo, nella storia, nella società

e nella Chiesa, ed il carisma per mezzo del quale bisogna compiere quel dato ministero. Sapendo che dalla piena

adesione a questo progetto, per mezzo di un’obbedienza che rispetti in tutto l’itinerario percorso da Cristo scaturisce per

il mondo intero la salvezza». G. DEODATO, Aspetti teologici di morale filiale, 289. 377

«A questo punto la vita si rivestirebbe di trascendenza e tutto diventerebbe relativo e l’unica cosa necessaria

rimarrebbe la piena obbedienza ai voleri divini. Entrare in questa visione richiede libertà da sé stessi, dalla propria

superbia e concupiscenza; cammino ascetico teso all’estirpazione di ogni vizio, per vivere come Cristo interamente al

servizio del Padre, in un’obbedienza a prova di martirio. Per cui la verità di sé stessi, la si riceve da Dio, ed aiutati dalla

grazia la si trasforma in amore verso i fratelli, visti nella fede come membra di un unico corpo da edificare portando sé

stessi nella più alta giustizia e carità». Ibidem.

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autentica identità, riconsegnarlo al suo giusto posto di creatura in ascolto del suo Creatore e

Signore.

Nell’ascolto, nell’obbedienza è la natura dell’uomo; nel non ascolto, nella disobbedienza

l’uomo non è più naturale, non è più vero uomo. Per l’uomo l’ascolto della volontà di Dio è la sola

via che lo conduce a realizzarsi e (ri)conquistare la vita eterna; il non ascolto, invece, è la via della

sua deformazione e morte eterna.

Col minare il concetto di ascolto, di obbedienza, incentivando una cultura d’indipendenza da

Dio, altro non si fa che distruggere e disumanizzare l’uomo. Tutti questi aspetti non fanno che porre

in filigrana come l’uomo sia costitutivamente chiamato all’ascolto, alla relazione di totale fiducia

con Dio.

Riletta, in senso negativo, questa breve e non esaustiva riflessione sul concetto di

ascolto/obbedienza nell’antropologia cristiana, potremmo dire che, l’ascolto a cui l’uomo è

chiamato è la verifica della sua personale responsabilità.

Sappiamo che il giudizio di Dio avverrà per tutti gli uomini (cf. gli oracoli contro le nazioni

in: Is 13-47): il giudizio verterà su (non) aver ascoltato la voce della coscienza per i pagani, su

(non) aver ascoltato la conoscenza per gli ebrei, su (non) aver ascoltato la rivelazione ultima e

definitiva di Cristo per i cristiani378

.

I termini della relazione uomo-Dio, che sottendono ad una corretta antropologia cristiana,

sono dunque la signoria e l’ascolto/obbedienza. Dio è il Signore e “comanda”; l’uomo è chiamato

ad obbedire, ad ascoltare: «Ascolta Israele» (Dt 6,4).

Ciò che fonda l’obbedienza è la capacità di ascolto, in quanto l’ascolto dice che vi è una verità

al di fuori dell’uomo, a cui egli tende e, alla quale è chiamato ad uniformarsi.

Il comando del Signore e l’ascolto/obbedienza della creatura, costituiscono due categorie

asimmetriche. L’asimmetria della relazione di obbedienza è necessaria, in quanto solo chi è

costituito o riconosciuto ʻsuperioreʼ può istaurare una relazione di obbedienza/ascolto con un

ʻinferioreʼ. La dimensione asimmetrica della relazione di obbedienza, non può essere ignorata ed

offuscata: Dio al vertice della piramide non attinge il comando da nessuno, perché Egli non è da

nessuno – è verità assoluta – ma, con tutto ciò che si pone gradatamente sotto, Egli ha solo una

relazione di consegna dei suoi comandi/Parola. Dio ha il solo posto del comando, mentre, man

mano che si procede verso il basso, comincia a svilupparsi una duplice relazione, di discepoli e di

maestri, di servi e di autorità.

378

Gesù ci chiede di dichiararci servi inutili. Servi che hanno fatto semplicemente il loro dovere, il compito che è stato

loro affidato. Siamo servi che altro non fanno che vivere secondo la loro natura: è proprio della natura umana

l’obbedienza, allo stesso modo che è proprio degli uccelli volare nei cieli. Questi per natura volano, senza alcun merito.

Noi per grazia obbediamo, senza alcun merito. L’obbedienza per il cristiano deve essere l’opera della sua natura.

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150

Il comando è dato/donato379

da chi è posto più in alto, occupando il posto del maestro,

dell’autorità; di conseguenza occupa il posto del discepolo o del servo chi è chiamato ad accogliere,

o meglio, rispondere380

al comando dato/donato. Perdendo di vista queste due categorie

dell’antropologia cristiana, viene abbattuta, per così dire, la dimensione piramidale, gerarchica, con

il rischio di cadere in un livellamento ed appiattimento esistenziale, apportando solo una sconfinata

confusione. Senza queste due categorie è impossibile comprendere l’antropologia cristiana381

.

Tutto questo percorso nell’antropologia teologica382, non deve portarci a compiere l’errore di

guardare all’uomo nella sua astrattezza, di usare concetti, mutuati da un ambito diverso (quello della

Teologia) e trapiantarli nel nostro, con il conseguente risultato di un’analisi aprioristicamente già

data e senza attinenza all’uomo concreto, al quale il Diritto tenta di orientare le sue disposizioni,

nell’auspicio di poter ordinare, in qualche modo, la realtà socialmente e storicamente data.

«Un’idea di un uomo semplicemente “creato e redento in Cristo” – come adottata da una certa

Canonistica – non riuscirebbe, invece, ad evitare che ciascun Christifidelis sia ridotto ad uno dei tanti

milioni di anti-typoi ʻricavatiʼ dal typos per eccellenza, che è Cristo stesso.

Se così fosse – o dovesse essere – ci troveremmo davanti ad un Diritto canonico che, per quanto

ʻantropologicoʼ, si mostrerebbe però incapace – come minimo – di evitare l’adozione di una logica ʻdi

genereʼ (l’uomo) e non di singolarità (la persona) in cui invece ciascuno è chiamato alla salvezza ʻper

nomeʼ[…] col proprio nome, con la propria vita: in quanto ʻpersonaʼ, ʻfiglioʼ, che si rivolge a Dio

dicendo: ʻPadreʼ […] e non come semplice – anonima – ʻcreaturaʼ verso un altrettanto anonimo, per

quanto amorevole e provvido, ʻCreatoreʼ»383

.

Questo passaggio da un’antropologia astratta ad un’antropologia personalista, è impresa non

semplice ma quanto mai necessaria per chi voglia porre l’uomo come persona a fondamento di un

Ordinamento giuridico. Questo passaggio dall’uomo (astratto e generico) alla persona non è

scontato neanche quando ci si confronta con un ordinamento particolare come quello canonico.

Evidente a questo proposito la concezione che dell’uomo aveva l’impianto sistematico che reggeva

il Codice di Diritto canonico del 1917. La concezione sottesa al Codex pio-benedettino, infatti,

risultava dipendente da una visione di una società, in cui l’uomo era visto non come corpo

379

L’obbedienza vera, dovrebbe essere vista come un vero dono. 380

«Perché l’obbedienza è una determinazione della volontà; è qualcosa che si dà, che si rende. Non c’è obbedienza là

dove vi è imposizione: chi è costretto ad agire in un certo modo non è un obbediente, ma un costretto. Vi è dunque un

legame stretto ed originario tra obbedienza e libertà, perché senza libertà non c’è obbedienza, ma costrizione.

L’obbedienza è dunque un modo singolare di consegnarsi e di accettare, non di subire. Essa è una modalità

dell’accogliere». S. NATOLI, L’obbedienza è una virtù?, 17. 381

Cf. C. DOTOLO, Ontologia della creaturalità. Il contributo dell’antropologia teologica all’identità dell’uomo, in

Ricerche teologiche, X/2 (1999), 311-337; A. SCOLA, Questioni di antropologia teologica, Roma, 1997. 382

«Questo ‘dato’ che scaturisce dalla Rivelazione, per una sufficiente ed opportuna penetrazione ed articolazione

(anche teologica), implica/richiede una visione dell’uomo personalista-relazionale-trascendente: è l’ambito

dell’Antropologia filosofia». P. GHERRI, Lezioni, 99. 383

P. GHERRI, Diritto canonico, Antropologia, 15-16.

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spiritualizzato (così come siamo soliti pensare noi, figli del Concilio Vaticano II), ma come spirito

incarnato, dove la “carne” aveva tutt’altro che connotati positivi.

«Che il Christifidelis sia, oggi, una persona e non semplicemente un’anima aggiogata ad una ʻcarneʼ è

dato certo; che l’azione pastorale della Chiesa non si rivolga più a delle ʻanimeʼ – spesso come singole

e disincarnate – ma ad una Comunità di credenti, altrettanto»384

.

L’apporto a questa nuova visione dell’uomo come persona espresso, in modo particolare,

dalla Costituzione Gaudium et spes e dalla Dichiarazione Dignitatis humanae, ma in generale da

tutto il movimento conciliare, è stato notevolissimo. Nel Codice di Diritto Canonico del 1983, tali

acquisizioni sono innegabili, già fin dai criteri che ne hanno guidato la riforma; si pensi alla

distinzione tra il foro interno ed esterno, alla delineazione giuridica e tutela dei diritti dei fedeli in

chiave istituzionale.

A questo punto, per procedere, bisogna compiere un’ennesima scelta di campo, perché, pure

la scelta del sistema antropologico di riferimento, sarà tutt’altro che neutrale, nel senso che porterà

con sé innegabili conseguenze logiche e teoretiche.

Le prospettive che si aprono sono molteplici, ma riconducibili, attraverso l’analisi che il prof.

Paolo Gherri compie sulla questione, a due:

«a) il modo deduttivo, con applicazione prevalente dell’analogia fidei partendo dall’antropologia

teologica […] ponendo poi il problema conseguente circa quale Antropologia teologica seguire: quella

balthasariana, quella tomistica, quella agostiniana, o quella scotista? Oppure b) partendo

dall’Antropologia filosofica attraverso l’indagine esperienziale-induttiva e fenomenica, nel confronto

col portato delle diverse Scienze/Discipline antropologiche, sociologiche e storiche, con apertura

responsabile e veritiera verso i ʻdatiʼ che la Rivelazione biblica pone come imprescindibili ed

invalicabili»385

.

Il problema, come giustamente fa notare Paolo Gherri, non è accidentale ma sostanziale, in

quanto dal presupposto con cui si cercherà di osservare dipenderà, poi, la nostra concezione del

Christifidelis:

«il Christifidelis de quo è un ipotetico quanto generico (a-temporale, a-spaziale, a-storico ed a-

nonimo) “uomo creato e redento da Cristo”, oppure una persona specifica collocata in un tempo ed in

uno spazio determinati e determinanti, in una cultura, in uno status socio-economico, in situazioni e

condizioni che indirizzano e/o forzano il libero esercizio della propria idealità e volontà?»386

.

Queste domande sono di fondamentale importanza ai fini del percorso che si conduce, in

quanto la semplice collocazione del Christifidelis in uno dei due sistemi su descritti, porterà a

concepire la relazione gerarchica canonica, sintesi dell’obbedienza canonica, in modalità del tutto

differenti. Infatti, il fatto che il Christifidelis sia considerato genericamente un uomo o una specifica

384

Ivi, 18. 385

Ivi, 19. 386

Ibidem.

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persona (con tutto ciò che questo comporta) sarà rilevante per l’esercizio dell’autorità, o richiesta di

ascolto da parte dell’autorità, o ingiunzione da parte dell’autorità.

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CAPITOLO V

L’AMBITO D’ESERCIZIO DELLA POTESTÀ DI GOVERNO

Il percorso intrapreso porta ad affrontare la delicata questione riguardante l’ambito d’esercizio

della potestà di governo ecclesiale e riflettere su alcuni principi che, seppur sottoposti sempre ad

evoluzione, possono aiutare a comprendere il funzionamento, le dinamiche che appartengono alla

natura, al fine e all’essenza del Diritto canonico così come espresso nell’attuale Codice. Prima di

poter fare ciò, potrebbe risultare utile riflettere sulla fonte della potestà di governo in seno alla

Chiesa, ma poiché la questione ancora oggi risulta essere quanto mai spinosa, dai risvolti tutt’altro

che semplici, si preferisce lasciare ai teologi il compito di indagare su tale tema. Bisogna

considerare, però, il fatto che, il Diritto potrebbe aiutare l’approfondimento di questo tema in

quanto capace di comprendere le implicazioni pratiche di talune ipotesi che, i teologi stessi

potrebbero usare per calibrare le loro acquisizioni ed evitare così inutili e rischiose teorie,

soprattutto quando ‘contrarie’ al vissuto storico della Chiesa.

È stato ampiamente ribadito quanto la codificazione attuale dipenda dal Concilio Vaticano II,

anzi si è addirittura giunti ad affermare, nel corso del presente studio, che il Codice del 1983 sia

l’ultima espressione dell’aggiornamento – che non avrà mai fine – tanto auspicato e promosso da

Giovanni XXIII prima, e dai Pontefici a lui succeduti poi1. Cosa bisogna richiamare alla memoria

ora? Gli elementi di particolare interesse per lo studio che si sta affrontando e che hanno segnato, in

un certo senso, l’Assise conciliare:

1 «Anzi, si può affermare che di qui procede quella caratteristica, per cui il Codice è ritenuto come complemento del

magistero proposto dal Concilio Vaticano II, in modo peculiare per quanto attiene alle due Costituzioni, cioè quella

dogmatica e quella pastorale.

Ne segue, che quella fondamentale ragione di novità, che, mai staccandosi dalla tradizione legislativa della Chiesa, si

trova nel Concilio Vaticano II, in specie per quanto riguarda la sua dottrina ecclesiologica, formi anche la ragione di

novità nel nuovo Codice». IOANNES PAULUS PP. II, Constitutio Apostolica: Sacrae disciplinae leges, 23 ianuari 1983, in

AAS, LXXV (1983), II, 11-12.

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«tra gli elementi poi che esprimono la vera e propria immagine della Chiesa, questi sono

principalmente da ribadire: la dottrina con cui si propongono la Chiesa come Popolo di Dio (cf. Cost.

Lumen gentium 2), e l’autorità gerarchica come servizio (ib., 3); inoltre la dottrina che mostra la

Chiesa come comunione, e perciò stabilisce le relazioni mutue che debbono intercedere tra Chiesa

particolare ed universale, e tra collegialità e primato; egualmente la dottrina per cui tutti i membri del

Popolo di Dio, nel modo proprio a ciascuno, partecipano del triplice ufficio di Cristo, cioè sacerdotale,

profetico e regale, alla quale dottrina si annette anche quella che riguarda i doveri e i diritti dei fedeli,

e nominatamente dei laici […]. Essendo costituita anche a modo di compagine sociale e visibile, essa

ha necessità di norme affinchè diventi manifesta la sua struttura gerarchica ed organica, affinchè

l’esercizio degli uffici ad essa divinamente affidati, in specie della sacra potestà e

dell’amministrazione dei sacramenti, sia debitamente ordinato, affinchè secondo la giustizia fondata

sulla carità siano armonizzati i mutui rapporti dei fedeli, essendosi tutelati e definiti i diritti dei singoli,

affinchè infine le comuni iniziative, che si promuovono per vivere una vita cristiana sempre più

perfetta, siano sostenute, irrobustite e promosse per mezzo delle leggi canoniche […]. Dio voglia

perciò che la gioia e la pace con la giustizia e l’obbedienza raccomandino questo Codice, e che quanto

viene ordinato dal capo sia osservato nel corpo.

Confidando nell’aiuto della divina grazia, fondati sull’autorità dei Beati Apostoli Pietro e Paolo, di

scienza certa e accogliendo i voti dei Vescovi del mondo intero, che con animo collegiale hanno

collaborato con noi, per la suprema autorità di cui godiamo…»2.

Tutti gli elementi chiave dei capitoli precedenti di questo studio si trovano compresi nel

passaggio della Costituzione apostolica appena citata, con cui Giovanni Paolo II procede alla

promulgazione dell’attuale Codice.

Richiamati tali elementi, grazie alla sintesi che lo stesso Giovanni Paolo II ha dato nella

Costituzione Sacrae disciplinae legis, si passerà ad approfondire alcuni principi che hanno guidato

la revisione del Codice del 1917 e che più interessano l’ambito della ricerca sostenuta – la relazione

di fiducia/obbedienza: ricapitolazione dello statuto giuridico del fedele – ovverosia il secondo, sesto

e settimo principi di revisione codiciale così come espressi nel sinodo del 19673.

Ritenendo superfluo dover riprendere il contesto storico che ha preceduto il Codice del 1983,

– in quanto già menzionato nel capitolo II – si passerà quasi immediatamente all’analisi del

secondo, sesto e settimo principio di revisione codiciale. Bisogna ricordare però, prima di

procedere, che era indispensabile, per iniziare l’opera di riforma del Codice del 1917, che le

sottocommissioni o gruppi di studio potessero fare riferimento ad alcuni principi generali, i quali,

avrebbero avuto una funzione catalizzatrice tale da far risultare l’opera di riforma quanto più

organica possibile. Un gruppo centrale di consultori preparò il testo di un documento, che per

ordine del sommo Pontefice, nel mese di ottobre del 1967, fu sottoposto allo studio dell’Assemblea

Generale del Sinodo dei Vescovi. Tale documento conteneva i principi secondo cui le varie

2 Ivi, 12-14.

3 Sulla storia relativa alla formulazione dei Principi: cf. J. L. GUTIÉRREZ, La formazione dei principi per la riforma del

CIC, 13-29.

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commissioni si sarebbero dovute attenere per la realizzazione della riforma: il documento fu

approvato quasi all’unanimità il 7 ottobre 19674.

5.1 ELIMINARE I CONFLITTI ESISTENTI TRA IL FORO INTERNO E IL FORO ESTERNO5

«Fori externi et interni optima coordinatio in Codice Iuris Canonici esista oportet, ut quilibet

conflictus inter utrumque vel dispareat vel ad minimum reducatur. Quod in iure sacramentali et in

iure poenali peculiariter curandum est»6.

Evitare i conflitti esistenti tra il foro7 interno

8 e il foro esterno

9 cercando un coordinamento tra

gli stessi, è il secondo dei principi che furono presentati e approvati nel Sinodo dei Vescovi del

1967; tale principio rispecchiava l’esigenza di porre fine ad un malessere sentito dalla maggioranza

dei canonisti, stanchi di sopportare situazioni imbarazzanti dovute alla non chiara distinzione (tutta

canonica) tra i due fori e alla loro non armonica relazione10

. Questa situazione di fatto permetteva il

formarsi d’interpretazioni discordanti e ambigue, che influivano non poco sul modo di vivere le

relazioni all’interno della compagine visibile della Chiesa. La relazione canonica fondata sulla

“comunione gerarchica” veniva spesso, per la confusione prodotta da tale non chiarezza, sbilanciata

a favore del solo aspetto gerarchico che consentiva spesso all’autorità, di eccedere i limiti della

giuridicità (razionalità), giustificando taluni atti giuridici attraverso il solo piano della fede o della

4 Cf. Communicationes, I (1969), 77-85; Prefatio al Codex Iuris Canonici del 1983; la votazione si concluse con 159

placet. Cf. G. CAPRILE, Il Sinodo dei Vescovi. Prima assemblea generale, (29 settembre – 29 ottobre 1967), Roma,

1968, 83-139. Per quanto riguarda l’elaborazione di tali principi si veda: Communicationes, I (1969), 86-100. 5 Per una bibliografia sul tema oltre a quella citata nel corso del paragrafo: P. CAPOBIANCO, De notione fori interni in

iure canonico, in Apollinaris, IX (1936), 364-374; P. CIPRIOTTI, Potestas iuridictionis fori interni et productio iuris in

Ecclesia, in Acta conventus Internationalis canonistarum, Romae diebus 20-25 maii celebrati, Città del Vaticano, 1970,

262-268. 6 Communicationes, I (1969), 79.

7 Nel diritto romano il termine ‘foro’ stava ad indicare il luogo pubblico dove venivano compiuti gli atti giuridici, con il

passare del tempo il termine diviene, in seno alla Ecclesia, il luogo dove si esercita la potestà giudiziale; pian piano

passerà a significare il luogo, o meglio il tribunale in cui si concede il perdono dei peccati. Per una analisi del termine

‘foro’ nella storia si confronti: B. FRIES, Forum in der Rechtssprache, München, 1963, 190-223 (forum externum -

forum internum); A. MOSTAZA, Foro internum-foro externum (En torno a la naturaleza juridica del fuero interno), in

Revista espanola de Derecho canónico, 23 (1967), 255-256; F. J. URRUTIA, Il criterio di distinzione tra foro interno e

foro esterno, in R. LATOURELLE (a cura di), Vaticano II. Bilancio e prospettive venticinque anni dopo. 1962-1987, I,

Assisi, 1987, 546-570. Per l’antichità di tale concetto e le implicazioni che ha avuto in campo giuridico si confrontino i

seguenti testi patristici: GREGORIO MAGNO, Moralia in Iob, lib. II, cap. 48, in P. SINISCALCO ED ALTRI (a cura di), San

Gregorio Magno Commento Morale a Giobbe/I, [trad. it. E. GANDOLFO], Roma 1992, 224-225.

AGOSTINO DI IPPONA, Sermo 355 De moribus clericorum suorum. Sermo primus, 5, in A. TRAPÈ – R. PICCOLOMINI (a

cura di), Nuova Biblioteca Agostiniana, XXXIV, Discorsi/6 (341-400) Su argomenti vari, [trad. it. V. PARONETTO – A.

M. QUARTIROLI], Roma, 1989, 252-253. 8 Per la formazione del concetto di “foro interno” si veda: G. SARACENI, Riflessioni sul foro interno. Nel quadro

generale della giurisdizione della Chiesa, Padova, 1961, 31 ss.; A. MOSTAZA RODRÍGUEZ, “Forum internum-Forum

externum”. En torno a la naturaleza jurídica del fuero interno, in Revista Espanola de Derecho Canónico, 23 (1967),

253-331; 24 (1968), 339-364; A. MOSTAZA RODRÍGUEZ, De foro interno iuxta canonistas postridentinos, in PONTIFICIA

COMMISSIO CODICI IURIS CANONICI RECOGNOSCENDO, Acta Conventus Internationalis Canonistarum, Città del

Vaticano, 1970, 269-294. 9 La nascita della divisione tra foro ‘interno’ ed ‘esterno’ è da rintracciarsi tutta nell’ambito canonico.

10 Cf. M. VISIOLI, Il Diritto della Chiesa, 131.

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morale11

. Questa confusione tra Morale e Diritto12

che veniva a crearsi specie in relazione al foro

interno provocava non poche ambiguità e abusi. Infatti, la confusione degli ambiti provocava e

provoca – qualora si verifichi – nelle relazioni intraecclesiali delle vere e proprie falsificazioni13

,

espressioni queste, di una certa visione autoritaristica e positivistica, distorta dell’‘obbedienza’, che

lede sia la dignità della persona fedele a Cristo, sia il Diritto affermato con forza, nel Codice attuale,

della “pari dignità” di ciascun fedele.

«La questione è significativa e riguarda il retto modo di comprendere la funzione di governo nella

Chiesa. Esercitare la giurisdizione attraverso il foro interno, infatti, non può essere assolutamente

concepito come un “optional” nelle mani dell’autorità ecclesiastica per sottrarsi alle regole stabilite

per l’esercizio della potestà di governo, per esempio, imponendo a qualcuno un precetto in forma

occulta. Oltre a non essere previsto da nessuna norma dell’ordinamento canonico, se fosse possibile un

atto del genere, esso risulterebbe non impugnabile e comporterebbe una rilevante lesione dei diritti

fondamentali»14

.

Era necessario che, la coordinazione richiesta tra i due fori non desse adito a fraintendimenti

ed ambiguità, e soprattutto che si mantenesse esclusivamente nell’ambito giuridico, senza sforare in

altri ambiti15

.

11

«Dal punto di vista meramente storico, infatti, la distinzione e la conseguente dialettica tra foro interno e foro esterno

viene formulata per la prima volta dalla canonistica post-tridentina, soprattutto in relazione ad alcune precisazioni

proprie del diritto penale. In quattro secoli di storia della Chiesa, il diritto ha subito evoluzioni e modifiche, così che

anche l’assetto dei due fori non ha potuto mai stabilizzarsi in modo definitivo, rappresentando per alcune aree peculiari

del Diritto canonico un motivo di versatilità del rapporto. I due ambiti si sono così diversificati e precisati nei seguenti

termini: l’ambito “esterno” riguardante gli atti notori, e quello della “coscienza” dipendente piuttosto dall’azione non

notoria del singolo fedele. Pur rimanendo tra loro fortemente relazionati, essi hanno assunto colorazioni proprie, fino a

porre il titolare della potestà di giurisdizione a scelte fra loro difficilmente armonizzabili». Ivi, 135. Cf. G. OESTERLE,

De relatione inter forum externum et internum, in Apollinaris, XIX (1946), 86; G. TORRE, De relatione inter forum

internum et iudiciale quoad matrimonia accusanda ex can. 1087 CIC, in PONTIFICIA COMMISSIO IURIS CANONICI

RECOGNOSCENDO, Acta Conventus Internationalis Canonistarum Romae diebus 20-25 maii 1968 celebrati, Città del

Vaticano, 1970, 680. 12

«Si è ormai radicato nel linguaggio parlato – e a volte anche in quello più tecnico – un uso del concetto di “foro

interno” lontano da quello cui fa riferimento il Diritto canonico. La nozione di foro interno è usata spesso nel contesto

logico dell’idea di “privacy” o per designare materie che riguardano esclusivamente la coscienza morale o la libera

coscienza delle persone». J. I. ARRIETA, Il foro interno: natura e regime giuridico, in J. KOWAL – J. LLOBEL (a cura di),

Iustitia et iudicium. Studi di Diritto matrimoniale e processuale canonico in onore di Antoni Stankiewicz, Città del

Vaticano, 2010, 1249. 13

«Non di meno, oggi, sia [a] il ricupero della dimensione prettamente ‘comunitaria’ dell’attività ecclesiale che [b] la

connotazione personalistica della sua concreta attuazione pongono in palese evidenza l’irrinunciabile necessità di

applicare anche nel governo ecclesiale il principio “del minimo mezzo” nell’impiego delle ‘risorse’ disponibili;

superando finalmente la presunta componente di espresso forum conscientiæ che fino al Vaticano II si presupponeva

contenuta ed espressa nei c.d. comandi dei Superiori: le – ancor oggi – dette “obbedienze” con cui si qualificavano

anche spiritualmente (per il grave ‘costo’ ascetico/esistenziale spesso comportato) tali atti di vero e proprio imperio». P.

GHERRI, L’Autotutela amministrativa come supplemento di conoscenza: la Remonstratio canonica (Cann. 1732-1734

CIC), 322. 14

J. I. ARRIETA, Il foro interno, 1259. 15

Il Cardinale De Paolis, riferendosi alla remissione di una censura penale e alla concessione della dispensa da

impedimento per matrimonio, a proposito di norme che si riferiscono al foro interno e al foro esterno afferma che il

conflitto da risolvere, nella misura del possibile, riguarda solo l’ambito giuridico in quanto «conflitto per due norme

giuridiche all’interno dello stesso ordinamento giuridico». V. DE PAOLIS, Natura e funzione del foro interno, in

Investigationes Theologico-Canonicae, Roma, 1978, 140.

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Bisogna tener presente che nell’ambito giuridico anche l’esercizio dell’autorità viene, nella

misura del possibile, regolamentato16

. Giuridicamente parlando le autorità devono cercare di

esprimere, nell’espletamento della loro potestà giurisdizionale, un agire che sia quanto più razionale

possibile17

pur senza dimenticare, o, per questo tralasciare, il dono della fede elemento

imprescindibile per comprendere le relazioni ecclesiali18

. La fede e la ragione hanno un’unica

origine e pertanto, nell’ambito giuridico ‘puro’ – nonostante l’effettiva comprensione possa

dipendere da limiti creaturali personali – non si potrebbe mai giustificare un’azione irragionevole,

irrazionale, bensì soltanto si potrebbe avanzare la considerazione del fatto che, in quel momento,

non si comprende (perchè non si può) tale azione, per una varietà di motivi19

, motivi difficilmente

riconducibili alla irrazionalità dell’azione stessa.

Storicamente, la nascita della confusione tra foro interno ed esterno potrebbe essere ricondotta

alla circostanza, dettata dalla necessità e dalla preoccupazione del confronto con le società civili, –

dove tale distinzione era del tutto superflua e pertanto assente – di aver relegato il foro interno in un

ambito metagiuridico sottraendolo di fatto alla competenza giuridica20

. Il foro interno, infatti,

divenne per molti canonisti un ambito da considerarsi di dominio esclusivo della Morale21

a seguito

soprattutto dell’ambigua formulazione del can. 196 del CIC ’1722

: «io ho sempre sostenuto […] la

16

«Il principio di giustizia e di legalità. Il Vescovo nel guidare la diocesi si atterrà al principio di giustizia e di legalità,

sapendo che il rispetto dei diritti di tutti nella Chiesa esige la sottomissione di tutti, incluso egli stesso, alle leggi

canoniche. I fedeli infatti hanno il diritto di essere guidati tenendo presenti i diritti fondamentali della persona, quelli dei

fedeli e la disciplina comune della Chiesa, a tutela del bene comune e di quello dei singoli battezzati. Tale esempio del

Vescovo condurrà i fedeli ad assolvere meglio i doveri di ciascuno nei confronti degli altri e della stessa Chiesa. Egli

eviterà di governare secondo visioni e schemi personalistici riguardanti la realtà ecclesiale». CONGREGATIO PRO

EPISCOPIS, Direttorio per il ministero pastorale dei Vescovi: Apostolorum Successores, Città del Vaticano, 2004, n. 62.

In dottrina cf. J. HERRANZ, Il principio di legalità nell’esercizio della potestà di governo, in J. HERRANZ, Studi, 113-

139; I. ZUANAZZI, Il principio di legalità nella funzione amministrativa canonica, in Ius Ecclesiae, VIII (1996), 37-69. 17

Questo agire razionale viene ad evidenziarsi, svilupparsi quando l’attività di governo è concepita secondo quanto si è

espresso, nel capitolo terzo, con una corretta “teoria dell’efficacia dell’agire giuridico canonico”. 18

Al di fuori della visione di fede, infatti, anche la relazione più semplice intra ecclesiale potrebbe essere confusa e

fraintesa, ma questo comunque non giustifica una irrazionalità della stessa. 19

Sempre riconducibili al limite umano storico: si pensi all’età, alla sapienza, alla scienza, alla grazia. Il limite in

questione riguarda la persona, non la sua razionalità o irrazionalità. Cf. Gv 13, 7-10; Lc 2, 52; Gv 16, 12. 20

Anche se: «la dottrina canonistica ha sempre usato l’idea di “foro” in relazione diretta con l’originaria nozione

romanistica di “forum”, di luogo, cioè, dove si realizzavano gli atti giuridici in generale, o più specificamente, dove

veniva determinata la cosa giusta, cioè, il Diritto, da parte dei magistrati. Pur ammettendo la legittimità dell’uso

analogico di questo termine, occorre tener ben presente che si tratta di un concetto il cui senso più preciso è strettamente

legato all’esercizio della giurisdizione». J. I. ARRIETA, Il foro interno, 1250. 21

Cf. C. CIPROTTI, Lezioni di Diritto canonico, Padova, 1943, 12-59; M. CONTE A CORONATA, Institutiones iuris

canonici, I, Torino, 1947, 323-324; P. D’AVACK, Corso di Diritto canonico, Milano, 1956, 93 ss., 107 ss.; A. BERTOLA,

Corso di Diritto canonico. La costituzione della Chiesa, Torino, 1958, 263; C. CIPROTTI, Morale e Diritto

nell’ordinamento della Chiesa, Napoli, 1960. 22

«La problematica canonica sottostante al foro interno, con tutti i suoi limiti e le sue contraddizioni, trovò una sintesi

nella codificazíone del 1917. Il can. 196 dichiarava allora che nella Chiesa esistono due diverse potestà: “alia est fori

externi alia fori interni, seu conscientiae, sive sacramentalis sive extrasacramentalis”. È stato, bisogna dirlo, un

enunciato sfortunato, che compendiava – purtroppo per confonderli – i principali problemi in cui si dibatteva la dottrina

circa la natura e il contenuto del foro interno, e sulla sua distinzione col foro esterno. Perciò, lungo il XX secolo, la

dottrina canonistica si è dovuta confrontare a lungo sulla formulazione adoperata nel 1917, e tale confronto è servito a

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159

netta distinzione tra i due fori e la identificazione del campo del foro interno con quello della

Morale, e del campo del foro esterno con quello del Diritto»23

.

«Si può anche capire che, come reazione ad una simile confusione normativa tra ordine giuridico,

morale e sacramentale, prese corpo in dottrina una posizione estrema, che tendeva a delimitare

l’ambito dell’ordinamento e del Diritto canonico al solo foro esterno. Tale corrente era fondata anche

su un’interpretazione eccessivamente positivistica del Diritto ed era, in realtà, ignara delle

caratteristiche proprie del Diritto della Chiesa. In tale prospettiva, e in vista della revisione del Codex

luris Canonici, si propugnò così il superamento di qualunque eventuale contrapposizione tra ordine

giuridico e ordine morale, attraverso il semplice abbandono delle problematiche riguardanti il foro

interno e l’ordine morale» 24

.

Tale ‘semplificazione’25

porterebbe, sì, a risolvere il problema in modo istantaneo, ma

eliminerebbe quella tipicità tutta canonica di regolamentare giuridicamente parte del c.d. foro

interno26

. Per tale necessità il Sinodo dei Vescovi ripropose il problema, dichiarando il foro interno

di pertinenza e di competenza del Diritto canonico, riportandolo, in tal modo, nell’ambito

giuridico27

:

«Confirmare autem oportet et indole iuridicam nostri Codicis in his quae forum externum respiciunt,

et necessitatem fori interni prout in Ecclesia optimo iure per secula viguit. Normae igitur in recognito

Codice tradentur respicientes omnia quae ad forum externum attinent atque etiam, ubi animarum

salus id exigat normae quae pertinent ad provisiones in foro interno elargiendas. Fori externi et

interni optima coordinatio in Codice luris Canonici existat oportet, ut quilibet conflictus inter

utrumque vel dispareat vel ad minimum reducatur. Quod in iure sacramentali et in iure poenali

peculiariter curandum est»28

.

La direzione interpretativa che il secondo principio di revisione consegnerà alle commissioni

di studio impegnate nell’aggiornamento del Codice del 1917 e, di conseguenza, a qualunque

canonista successivo al Codice del ’83, incontrerà le sue difficoltà maggiori per ciò che riguarda in

modo specifico due ambiti particolari: quello sacramentale e penale. È qui che i due fori risultano

chiarire le linee fondanti del concetto di foro interno che presenta oggi la legislazione vigente». J. I. ARRIETA, Il foro

interno, 1251. 23

P. CIPRIOTTI, Il Diritto penale nella Chiesa dopo il Concilio, in Atti del Congresso internazionale di Diritto canonico,

Milano, 1972, 527. Cf. P. CIPRIOTTI, Potestas iuridictionis, 116-120. 24

J. I. ARRIETA, Il foro interno, 1253. 25

Cf. F. R. MCMANUS, The internal forum, in PONTIFICIA COMMISSIO CODICI IURIS CANONICI RECOGNOSCENDO, Acta

Conventus Internationalis Canonístarum, Città del Vaticano, 1970, 251-261; P. CIPROTTI, Potestas iurisdictionis fori

interni et productio iuris in Ecclesia, in PONTIFICIA COMMISSIO CODICI IURIS CANONICI RECOGNOSCENDO, Acta

Conventus Internationalis Canonistarum, Città del Vaticano, 1970, 262-268. 26

«Anche contro alcune teorie che ne vorrebbero screditare la portata, si presenta in primo luogo come proprio di un

ambito eminentemente giuridico (senza per questo dimenticare la valenza morale che entrambi i fori presentano) […].

In secondo luogo appartiene alla specificità del Diritto ecclesiale, in quanto gli ordinamenti secolari, sottolineando come

prerogrativa della giuridicità il suo aspetto di pubblicità o notorietà, non assumono la relazione tra i fori quale oggetto

della propria riflessione, e lasciano al canonista il compito (non condiviso) di duplicare l’ambito legislativo ed esecutivo

della potestà di governo». M. VISIOLI, Il Diritto della Chiesa, 137. 27

«Avviando i lavori di revisione del Codice del ’17, il Sinodo dei Vescovi pose come criterio fondamentale la

necessità di assumere sotto l’egida della scienza canonistica l’ambito interno del foro, assumendosi l’onere di

investigare su una maggiore coordinazione tra i due fori». Ivi, 133-134. 28

Communicationes, I (1969), 79, n. 2.

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spesso entrare in conflitto, ed è qui che il canonista deve porre la massima attenzione. Soprattutto

dovrà ricordare da una parte, che l’atto di governo, di foro interno, è di carattere amministrativo,

anche se è frutto di un vero e proprio giudizio (non di natura contenziosa)29

, quindi mai di natura

discrezionale30; dall’altra, dovrà tener presente che la giurisdizione nel foro interno ha solo natura

remissiva:

«La giurisdizione nel foro interno ha necessariamente, però, natura remissiva. Come ha sostenuto

esplicitamente un settore dottrinale, non è dato imporre atti giuridici di sottomissione nel solo foro

interno, non potendo essere diversamente trattandosi, infatti, di una giurisdizione volontaria. Detto in

maniera generale e positiva, occorre affermare che nell’ordinamento canonico non è dato configurare

altro genere di precetti giuridici che quelli procedenti dalle norme o dai precetti vincolanti nel foro

esterno.

La questione è significativa e riguarda il retto modo di comprendere la funzione di governo nella

Chiesa. Esercitare la giurisdizione attraverso il foro interno, infatti, non può essere assolutamente

concepito come un “optional” nelle mani dell’autorità ecclesiastica per sottrarsi alle regole stabilite per

l’esercizio della potestà di governo, per esempio, imponendo a qualcuno un precetto in forma occulta.

Oltre a non essere previsto da nessuna norma dell’ordinamento canonico, se fosse possibile un atto del

genere, esso risulterebbe non impugnabile, e comporterebbe una rilevante lesione dei diritti

fondamentali.

Il principio, invece, è proprio l’inverso: l’attuazione della giurisdizione ecclesiastica attraverso il foro

interno viene attivata e “fissata” dal fedele quando in maniera spontanea fa ricorso all’autorità»31

.

Il canonista non dovrà farsi prendere dallo sconforto derivante dalla consapevolezza che vi

sarà sempre qualcosa di mai compiutamente risolto e appianato tra i due fori32

, in quanto espressioni

dell’unico mistero dell’uomo e, non dovrà cedere alla tentazione di risolvere tale problematicità

attraverso soluzioni semplicistiche – volte ad eliminare il problema relegando il foro interno in un

ambito non propriamente giuridico – che non renderebbero ragione della ricchezza e complessità

della giuridicità canonica33

.

La questione non va risolta quindi, eliminando uno dei due fori34

, bensì va affrontata

cercando, nella misura del possibile, di renderli quanto più razionalmente e armoniosamente

coordinati fra loro35

; lo stesso Legislatore canonico «pur avendo ben attenuato alcune gravi asperità

nella coesistenza dei due fori, non ha ritenuto di poter aderire, senza danno per le anime, a soluzioni

29

Cf. Z. GROCHOLEWSKI, I tribunali, in P. A. BONNET e C. GULLO (a cura di), La curia Romana nella cost. ap. Pastor

Bonus, Città del Vaticano, 1990, 395-428. 30

Cf. J. I. ARRIETA, Il foro interno, 1258. 31

Ivi, 1259. 32

«Si tratta ancora una volta di un binomio di non pacifica armonizzazione. Esso infatti, come vedremo

successivamente in alcune esemplificazioni, non può essere assunto senza accettare con i due termini le conflittualità

che essi comportano». M. VISIOLI, Il Diritto della Chiesa, 137. 33

Cf. V. DE PAOLIS, Animadversiones ad «Schema documenti quo disciplina sanctionum seu poenarum in Ecclesia

latina de nuo ordinatur», in Periodica, 63 (1974), 489-491. 34

Il principio di conservazione del foro interno è chiaramente espresso: «prout in Ecclesia optimo iure per saecula

viguit». Communicationes, II (1969), 79, n. 2. 35

Cf. M. VISIOLI, Il Diritto della Chiesa, 133.

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di fondo»36

. Pertanto, ben si comprende come la finalità di tale principio fosse quella della «optima

coordinatio» e non quella di un’eliminazione definitiva dei conflitti, anche perché il conflitto non

può mai essere preventivamente evitato da un ordinamento giuridico positivo:

«il principio direttivo del Sinodo dei Vescovi […] ne testimonia in modo autorevole la problematicità,

e lascia intendere che l’‘optima coordinatio’, obbiettivo da raggiungere nella formulazione del nuovo

codice, non può essere pienamente raggiunta dalla mera promulgazione di norme di carattere

positivo»37

.

Una volta compreso il limite, che appartiene al Diritto tutto, della imprevedibilità della

storia38

, limite assunto dal Divino Fondatore nell’incarnazione e limite costitutivo della Chiesa

stessa, perché sempre in cammino, sempre in aggiornamento, si può passare alla riflessione sulla

coordinazione tra i due fori partendo dal considerare l’unicità – sia di derivazione che di esercizio –

della potestà di governo all’interno dell’unica Chiesa di Cristo39

. A questo proposito però, va

ricordato un elemento caratterizzante la realtà complessiva e particolare (personale) della Chiesa,

ovverosia l’assistenza dello Spirito Santo che, anche se potrebbe far sorridere qualche ‘canonista’ in

tale contesto argomentativo, riteniamo di dover richiamare.

Lo Spirito Santo è Colui che ‘procede’ dal Padre e dal Figlio. Lo Spirito Santo continua

l’opera della redenzione voluta dal Padre in Cristo reso da lui presente e vivo nella Chiesa oggi. La

Chiesa, corpo mistico di Cristo può realizzarsi solo se si lascia guidare, fare dallo Spirito così come

l’incarnazione stessa fu per mezzo dello Spirito: Cristo da Lui fu sempre condotto, sorretto e

guidato. La comunità cristiana storica necessariamente deve essere edificata sulla giustizia; la

giustizia altro non è che la volontà di Dio che riguarda ogni persona, considerata nei suoi carismi,

nel suo ministero, in relazione con le altre persone. Queste relazioni possono essere di ordine

spirituale (ministeri e carismi secondo la fede), ma anche di ordine materiale (famiglia, creato,

lavoro, mentalità del tempo, struttura sociale del momento). Interprete della verità delle relazioni sia

appartenenti all’ordine spirituale che a quello materiale è lo Spirito Santo. Lo Spirito Santo deve

essere lasciato libero di operare all’interno e all’esterno dell’uomo, nell’intimo della sua coscienza e

nelle strutture esterne ad esso, in quanto unico conoscitore dello stesso mistero dell’uomo.

36

G. SARACENI, Fori externi et interni optima coordinatio in codice iuris canonici esista oportet, in Il Diritto

Ecclesiastico, 4 (1985), 528. 37

M. VISIOLI, Il Diritto della Chiesa, 137. 38

Fucina di nuovi e diversi conflitti. 39

«In Diritto canonico il “foro interno” è semplicemente un “modo” di agire della potestà ecclesiastica di giurisdizione

(potestas regiminis, c. 129 CIC); una “via” cioè, per mezzo della quale tale potestà è messa efficacemente in atto attraverso regole giuridiche proprie e originali della Chiesa, quando le circostanze pastorali impongono detto

trattamento». J. I. ARRIETA, Il foro interno, 1249-1250.

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Lo Spirito Santo, in ultima istanza, è Colui che giustifica la potestà esercitata dalla Chiesa in

entrambi i fori; questa affermazione, la si può sostenere senza necessariamente pensare che si stiano

confondendo ambiti di ricerca. Per tanto, come lo Spirito è garante della correttezza e verità delle

relazioni, così il Diritto canonico, le sue leggi, devono essere ‘espressione’ di questa ‘tensione’

verso la correttezza delle relazioni40

; da questa corretta relazione (di comunione: Diritto – e di

amore: Teologia –) dipende la salvezza delle anime, suprema legge della Chiesa41

.

La salvezza è presente anche nel ristabilimento della “verità delle relazioni” perduta con il

peccato. Il Diritto, come ‘strumento’ particolare, modo suo proprio, concorre insieme ad altri

strumenti, altre discipline, a che le relazioni entro la Chiesa possano essere espressione di quella

giustizia richiesta al fedele dal Divino legislatore: la legge suprema resta però, quella dell’amore,

altrimenti non potremmo parlare di comunità ecclesiale.

«L’esercizio della giurisdizione ecclesiastica in foro interno, dunque, appare giustificato dalle esigenze

della salus animarum, alle quali, in ultima analisi, vanno anche ricondotti gli altri criteri che guidano

l’esercizio della giurisdizione ecclesiastica in tale foro: la protezione del diritto fondamentale alla

buona fama di ogni fedele (c. 220 CIC); l’esigenza di promuovere il pentimento del soggetto senza

rendere gravoso il ricorso all’autorità; la necessità, in alcuni casi, di facilitare e garantire ovunque

l’assistenza pastorale ai fedeli.

D’altra parte, la giurisdizione in foro interno risponde anche alla singolarità dell’ordine giuridico

ecclesiale e al modo in cui esso delimita la realtà dell’esperienza giuridica della Chiesa, al di là dei soli

parametri di pubblicità degli atti. L’esercizio della giurisdizione ecclesiastica non è circoscritto

soltanto a quanto risulta apparente, ma all’intera realtà delle cose che sono rilevanti nella società

ecclesiale (spirituale), nel rispetto di regole particolari quando tale potestà non si muove nel foro

esterno»42

.

Pertanto, al canonista chiamato sempre ad operare attraverso lo strumento razionale a sua

disposizione, ovverosia il Diritto, va ricordato che l’interpretazione e la comprensione delle leggi

canoniche non possono prescindere dal particolare orizzonte di fede proprio della Chiesa, altrimenti

si snaturerebbe il Diritto canonico per farlo diventare possibile causa di un male (persino, si pensi

all’ambito sacramentale, di un male eterno). La comprensione della natura della legge è necessaria

per il suo uso corretto, perché non si trasformi in strumento di non relazione, di non comunione.

Dopo aver affermato la giuridicità di entrambi i fori e dopo aver, seppur brevemente,

richiamato alla memoria l’assistenza dello Spirito Santo che deve sempre essere invocata, anche per

40

«Il Diritto interpreta la realtà senza esaurirla, la declina senza possederla, la regola senza diventarne il dominus

assoluto. E trattandosi di una realtà umana informata dalla rivelazione divina, il diritto ecclesiale dovrà misurarsi con il

mistero dell’uomo che “internamente” ed “esternamente” risponde nella storia all’appello del suo Dio alla santità». M.

VISIOLI, Il Diritto della Chiesa, 158. 41

Il principio della salus animarum al quale ciascuna, e, tutta la legge canonica ‘tende’ è «inerente […] alla istituzione

divina e alla costituzione intima della Chiesa. Un principio che, anche se non dichiarato, è da leggersi scritto ad

inchiostro simpatico al di sotto di ogni canone». P. GROSSI, Diritto canonico e cultura giuridica, in P. GROSSI, Società,

Diritto, Stato. Un recupero per il diritto, Milano, 2006, 132. 42

J. I. ARRIETA, Il foro interno, 1256.

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il corretto uso dello strumento razionale quale quello del Diritto, si tenterà di distinguere i due fori e

successivamente, vagliare come l’unica potestà di governo deve entrare e regolamentare l’unico

ambito giuridico43

che nella Chiesa è composto di due fori.

«La distincíon entre el fuero externo y el interno no entrana pluralidad de órdenes jurídicos en la

Iglesia, cual si la vida social cristiana pudiera dividirse en dos órdenes de obrar separados entre sí, si

ninguma conexión e inderdipendencia. En la Iglesia, como en el Estado, sólo se ad un orden jurídico,

bien que sea posible distinguir en el ordinamento iurídico-canónico esas dos esferas, las cuales, no

obstante ser distintas entre sí, costituyen un solo ser, como las partes que integran el organismo

humano»44

.

Il CIC del 1983 al can. 13045

distingue il foro interno dal foro esterno attraverso il duplice

esercizio dell’unica potestà di governo46

e dei suoi conseguenti effetti47

.

«Il can. 196 dichiarava allora che nella Chiesa esistono due diverse potesà: “alia est fori externi alia

fori interni, seu conscientiae, sive sacramentalis sive extrasacramentalis”. È stato, bisogna dirlo, un

enunciato sfortunato, che compendiava – purtroppo per confonderli – i principali problemi in cui si

dibatteva la dottrina circa la natura e il contenuto del foro interno, e sulla sua distinzione col foro

esterno. Perciò, lungo il XX secolo, la dottrina canonistica si è dovuta confrontare a lungo sulla

formulazione adoperata nel 1917, e tale confronto è servito a chiarire le linee fondanti del concetto di

foro interno che presenta oggi la legislazione vigente. Il c. 130 CIC 83 ha rovesciato in tutto la

definizione del 1917, proponendo, come si vedrà, un concetto in armonia con la tradizione e con la

unicità della giurisdizione ecclesiastica»48

.

Per quanto concerne gli effetti prodotti da tale esercizio della potestà, essi devono restare

separati a meno che non sia il Codice stesso a prevedere diversamente49

. Proprio perché il Codice

43

«C’è un’unità essenziale tra la potestà di giurisdizione di foro interno e di foro esterno, anzi si tratta dell’unica potestà

della Chiesa che agisce in una duplice sfera». V. DE PAOLIS, Natura e funzioni del foro interno, 129. «L’aspetto

istituzionale di quest’ultima (la Chiesa), in quanto radicato nella sua natura misterica, non consente la formulazione di

due ordini o modi di agire tra loro isolati. Al contrario, la Chiesa presenta un unico ordine giuridico entro il quale la

differenza delle sfere di applicazione risulta espressione di una sola realtà, per quanto talvolta conflittuale […].

Così è altrettanto urgente precisare, quasi come naturale conseguenza, che il risultato dell’esposizione circa i criteri

differenziali tra fori non potrà essere una duplicazione della potestà di giurisdizione della Chiesa, che rimane una ed

indivisa». M. VISIOLI, Il Diritto della Chiesa, 139. 44

A. MOSTAZA, Foro internum-foro externum, 298. Cf. M. GITZLER, De fori interni et externi differentia et

necessitudine, secundum principia iuris canonici, Vratislaviae, 1867, 28-33; W. BERTRAMS, De natura iuridica fori

interni Ecclesiae, in Periodica, 40 (1951), 320; L. BENDER, Forum externum et forum internum, in Ephemerides Iuris

Canonici, 10 (1954), 15 ss.. 45

«Potestas regiminis de se exercetur pro foro externo, quandoque tamen pro solo foro interno, ita quidem ut effectus

quos eius exercitium natum est habere pro foro externo, in hoc foro non recognoscantur, nisi quatenus id determinatis

pro casibus iure statuatur». Can. 130. 46

«Il CIC 1983 rimuove la confusione dottrinale che si trova nel can. 196 CIC 1917, che sembrava configurare due tipi

di potestà riguardo ai due fori e identificava il foro interno con la coscienza. Per il Codice attuale, infatti, si tratta

sempre della stessa potestà di governo che viene esercitata per l’uno o per l’altro foro». G. GHIRLANDA, Introduzione,

80. 47

Diversa era l’indicazione che dal can. 196 del CIC del ’17 si poteva trarre in merito alla questione della potestà: cf. F.

MAROTO, Institutiones Iuris Canonici, Madrid, 1918, 857-859; A. VAN HOVE, De legibus ecclesiasticis, Mechliniae-

Romae, 1930, 181, n. 175; E. F. REGATILLO, Istitutiones Iuris Canonici, Santander, 1961, 273, n. 365. 48

J. I. ARRIETA, Il foro interno, 1251. 49

«La regola dell’incomunicabilità dei due fori di attuazione della giurisdizione della Chiesa, con alcune determinate

eccezioni, è un principio generale dell’ordinamento canonico a garanzia della libertà e della dignità della persona». Ivi,

1261.

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prevede casi in cui gli effetti, posti dalla potestà di giurisdizione nel foro interno, siano riconosciuti

in foro esterno50

, non si può usare come criterio di distinzione il solo criterio materiale51

, anche se

in linea ordinaria è la materia (occulta o notoria) a dividere l’esercizio dell’unica potestà. Senza

entrare nella questione discussa dei criteri di distinzione dei due fori52

, è necessario, comunque,

osservare la linea assunta dal Codice riguardo a tale questione. Se si considera il solo canone 130,

già menzionato, si può constatare come il Legislatore adotti come criterio distintivo dei due fori non

solo il criterio modale53, ma soprattutto l’esercizio pubblico o occulto della potestà

54. In tal senso si

vedano anche i canoni:

37 «L’atto amministrativo, che riguarda il foro esterno, si deve consegnare per iscritto; così pure il

relativo atto di esecuzione, se viene fatto in forma commissoria»;

74 «Benché una persona possa usare in foro interno di una grazia concessale oralmente, è tenuta a

provarla per il foro esterno, ogniqualvolta ciò le sia legittimamente richiesto»;

1074 «L’impedimento si ritiene pubblico se può essere provato in foro esterno; altrimenti è occulto»;

1079 §3 «In pericolo di morte il confessore ha la facoltà di dispensare dagli impedimenti occulti nel

foro interno, sia durante sia fuori della confessione sacramentale»;

1081 «Il parroco oppure il sacerdote o il diacono, di cui al ⇒ can. 1079, §2, informi subito l’Ordinario

del luogo della dispensa da essi concessa in foro esterno; e la medesima sia annotata nel libro dei

matrimoni»;

1082 «Se il rescritto della Penitenzieria non dispone diversamente, la dispensa da impedimento

occulto concessa nel foro interno non sacramentale, sia annotata nel libro che si deve conservare

nell’archivio segreto della curia; né occorre altra dispensa per il foro esterno, qualora l’impedimento

occulto in seguito divenisse pubblico»;

1123 «Ogni volta che un matrimonio o è convalidato per il foro esterno, o è dichiarato nullo, o viene

sciolto legittimamente fuori del caso di morte, deve essere comunicato al parroco del luogo della

celebrazione del matrimonio, perché se ne faccia la dovuta annotazione nel registro dei matrimoni e

dei battezzati»;

1126 «Spetta alla conferenza Episcopale sia stabilire il modo in cui devono essere fatte tali

dichiarazioni e promesse, sempre necessarie, sia determinare la forma per cui di esse consti nel foro

esterno e la parte non cattolica ne sia informata»;

1361 §2 «La remissione in foro esterno sia data per scritto, a meno che una grave causa suggerisca

altrimenti».

50

Cf. Codex Iuris Canonici, 1917, can. 2314 §2. 51

«Forum internum respicit tantum materiam occultam, et eo usque se extendi quo ipsum occultum. Quare quaestio de

ambitu fori interni coincidit cum questione de notione occulti in iure canonico». P. CAPOBIANCO, De ambitu fori interni

ante Codicem, in Apollinaris, VIII (1935), 590-591. Cf. P. CAPOBIANCO, De notione fori interni in iure canonico, in

Apollinaris, IX (1936), 366. 52

Per un’attenta analisi critica sui possibili criteri di distinzione dei due fori: cf. M. VISIOLI, Il Diritto della Chiesa, 141-

155. 53

«La nozione non identifica una peculiare categoria di “materie” che debbano esser trattate in una determinata

maniera, bensì un “trattamento giuridico”, un “modo” di agire della giurisdizione in funzione di “come” sono

formalmente poste le questioni davanti all’autorità ecclesiastica». J. I. ARRIETA, Il foro interno, 1254. 54

«Il criterio per distinguere ed individuare i due differenti modi è quello dell’esercizio pubblico o occulto della potestà:

se l’esercizio della giurisdizione avviene in modo che la comunità ne ha una legittima conoscenza, perché ci sono prove

legittime (documentali o testimoniali) di esso, si ha l’esercizio per e nel foro esterno; se invece l’esercizio della potestà

e i suoi effetti rimangono occulti alla comunità, perché mancano prove legittime, allora si ha l’esercizio della

giurisdizione per e nel foro interno». G. GHIRLANDA, Introduzione, 8. Cf. F. J. URRUTIA, Il criterio di distinzione, 551.

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Richiamando il solo canone 130 si può sostenere che, una volta posto un atto di governo, se i

suoi effetti non sono resi noti alla comunità ci si trova all’interno del solo foro interno55

; nel caso in

cui questi stessi atti vengano a coinvolgere la comunità, attraverso la loro notorietà, l’esercizio della

potestà di governo riguarderà il foro esterno56

. Questo, però, pone in evidenza come la vera ‘sede’

del foro interno sia l’ambito c.d. occulto.

Al percorso di ricerca intrapreso, interessa sollevare la questione, mai pienamente risolta, tra

foro interno-foro esterno, in quanto entrambi costituiscono insieme l’unico ambito d’esercizio della

potestà di governo della Chiesa. Richiamare l’attenzione sulla conflittualità tra i due fori, anche se

attenuata dal Codice del 198357

, serve a tenere alta l’attenzione del canonista, qualora affronti la

delicata questione relativa alla relazione gerarchica che il fedele, chierico o laico, è chiamato a

vivere nella Chiesa. Tale relazione gerarchica, anche se mitigata dalla accresciuta consapevolezza

dell’aspetto comunionale – frutto dell’aggiornamento voluto dallo Spirito e realizzatosi nel

Vaticano II – è verità che il Diritto canonico assume ed esprime anche col tentativo di coordinare i

due fori – espressioni dell’unico mistero dell’uomo fatto di anima, spirito e corpo – affinchè tale

relazione risulti quanto più possibile in armonia con la verità della fede e della ragione, doni

entrambi fatti all’uomo affinchè egli raggiunga la perfezione, la santità.

5.2 L’ESERCIZIO DELLA POTESTÀ COME SERVIZIO ‘DIPENDENTE’ DALL’ACCURATA

DEFINIZIONE E TUTELA DEI DIRITTI DELLE PERSONE

«Propter fundamentalem aequalitatem omnium christifidelium et propter diversitatem officiorum et

munerum, in ipso ordine hierarchico Ecclesiae funtatam, expedit ut iura personarum apte definiantur

55

«Omnia quae fiunt in foro externo etiam fiunt in foro interno et ad illud etiam pertinent. Non autem e converso.

Proprie loquendo non habentur actus qui positi sunt in solo foro externo. Proprie actus distinguuntur, actus positi in

solo foro interno et actus positi in utroque foro. Omnia quae pertinent ad forum ecclesiasticum pertinent ad forum

internum». L. BENDER, Forum externum et forum internum, 22-23. 56

«Cosa differente è, però, il passaggio al foro esterno di una questione che originariamente era stata posta in quello

interno. Alle volte questi passaggi accadono come doverosa conseguenza della pubblicità del fatto (ad es., un

impedimento che prima era occulto), che rendono ormai necessario il provvedimento nel foro esterno. In altre occasioni,

perché il fatto delittuoso è diventato pubblico, è stato denunciato, o si pone l’esigenza di prevenire lo scandalo

attraverso una sanzione penale». «Il fatto che l’atto di giurisdizione realizzato nel foro interno non sia riconosciuto

(immediatamente) dall’ordinamento canonico nel foro esterno non è dovuto alla sua inefficacia, ma alla mancanza della

necessaria pubblicità formale affinché venga delineato un generale dovere di accettarlo come atto di giurisdizione». J. I.

ARRIETA, Il foro interno, 156. 57

Ci si riferisce qui al tentativo operato dalla revisione del Codice del ‘17 di coordinare i due fori attraverso una

distinzione e separazione, così che, separate le due vie del foro interno e del foro esterno, si limiti il più possibile la

possibilità di conflitto tra i due. «I risultati, nell’attuale codex, sono davvero notevoli. Che si potesse arrivare

all’eliminazione di ogni contrasto, avrebbe comportato il prezzo di una vera statalizzazione del diritto ecclesiale». G.

SARACENI, Fori externi et interni, 546.

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atque in tuto ponantur. Quod efficit, ut exercitium potestatis clarius appareat veluti servitium, magis

eius usus firmetur, et abusus removeantur»58

.

È di notevole interesse per la ricerca intrapresa rilevare come il sesto principio di revisione

codiciale metta in relazione l’esercizio della potestà con la definizione e tutela dei diritti dei fedeli59

,

dove il termine della relazione è dato dal ‘servitium’60

. La comunione gerarchica che si andrà a

costruire, quindi, non potrà prescindere dalla chiave ermeneutica – costituita dal ‘servizio’ –

derivante dal sesto principio di revisione codiciale61

; il concetto di “obbedienza canonica” ad esso

sotteso dovrà, pertanto, essere sempre pensato in termini di servizio/adesione più corrispondente

all’attuale visione ecclesiologica:

«“assemblea dei figli di Dio”, o suo “Popolo santo” (LG 8; 9; 11; 13…), in cui il sacerdozio conferito

col Sacramento dell’Ordine (LG 10) è essenzialmente (=per essenza) ‘ministeriale’ (=di pubblico

servizio/utilità) ed in cui la ‘potestà’, soprattutto episcopale, si presenta in modo radicalmente diverso

da una – mera – quæstio iurisdictionis rispetto al semplice Presbiterato/sacerdozio (LG 21), allora – a

maggior ragione – ogni Decisione/Atto in personam/vitam Christifidelium non potrà ridursi ad un

mero atto d’imperio/potestà validamente e legittimamente (“rite”) emanato secondo la ‘Legge’ vigente in ogni tempo/luogo – da considerarsi per ciò soltanto ‘perfetto’ –, ma dovrà essere riconosciuto e –

conseguentemente – assunto come almeno ecclesialmente/pastoralmente utile dal suo ‘destinatario’

che ad esso dovrà indirizzare e sottomettere – forse/anche tutta – la propria esistenza […] in

riferimento al ‘dove’ vivere, ‘cosa fare’, ‘con chi’ […] ogni giorno […] anche per decenni. Il

benvenuto superamento delle teorie sulla “potestas dominativa” (o privata) o lo “ius (privatum!) in

corpus coniugis” (CIC ’17, can. 1081 §1) professate in epoca ante-conciliare non lascia più esitazioni

in merito.

Se tale prospettiva troverà sufficiente accoglienza pratica, lo stesso esercizio del governo ecclesiale

dovrà saper passare dalle coordinate della [a] sottomissione personale a quelle della [b] adesione

personale»62

.

I due termini della relazione (doveri-diritti dei fedeli/esercizio della potestà) – che

costituiscono temi fondamentali per il Diritto e il Diritto canonico63

– hanno suggerito, a seconda

delle scuole di provenienza, approcci al Codice diversi e talvolta in conflitto tra loro. C’è chi ritiene,

58

Prefatio al CIC, in AAS, LXXV (1983), II, 22, n. 6. 59

«Il Principio n. 6 stabilisce così una relazione fra due componenti – entrambe di diritto divino: l’autorità gerarchica

dotata di poteri per il conseguimento del fine della Chiesa ed il christifidelis come persona dotata di diritti e doveri

radicati immediatamente nel battesimo e perciò fondamentali, garanzie di un ambito legittimo di libertà ed autonomia

nell’ordinamento canonico. In questo modo, da una parte, l’esercizio della potestà, e dall’altra, i diritti fondamentali dei

fedeli, si presentano come realtà relazionali di altissimo contenuto». H. PREE, Esercizio della potestà e diritti dei fedeli,

in J. CANOSA (a cura di), I principi per la revisione del Codice di Diritto canonico. La ricezione giuridica del Concilio

Vaticano II, Milano, 2000, 306. 60

Come il principio stesso sostiene «Pro pastorali cura subditorum». Cf. IOANNES PAULUS PP. II, Pastores dabo vobis,

684; Catechismo della Chiesa Cattolica, Città del Vaticano, 1992, nn. 1547, 1592. 61

«A sua volta il n. 6 dei principia quae codicis iuris canonici recognitionem dirigant, più diffusamente afferma che

l’esercizio della potestà nella Chiesa non deve essere arbitrario, dal momento che l’arbitrio è proibito dal diritto

naturale, dal diritto divino positivo e da quello ecclesiastico. Per tanto a tutti i fedeli vanno riconosciuti e tutelati i diritti

derivanti dalla legge naturale e dalla legge divina positiva, e quelli conseguenti alla condizione sociale che vengono ad

acquisire nella Chiesa». S. MAZZOTTI, La libertà dei fedeli laici nelle realtà temporali (C. 227 C.I.C.), Roma, 2007, 84. 62

P. GHERRI, L’Autotutela amministrativa come supplemento di conoscenza: la Remonstratio canonica (Cann. 1732-

1734 CIC), 323. 63

Cf. J. I. ARRIETA, I diritti dei soggetti nell’ordinamento canonico, in Fidelium Iura, 1 (1991), 9-46, qui 15 ss.; J.

HERRANZ, Studi, 117-120.

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infatti, che l’attuale Codice sia il frutto di un’esigenza, sentita a livello globale, di definire i diritti

dell’uomo (sulla scia degli ordinamenti civili), e, chi ritiene che l’attuale Codice sia stato concepito,

sì, con un riferimento esplicito ai diritti-doveri dei fedeli64

, ma innanzitutto per ricalibrare –

attraverso una presa di coscienza maggiore, avvenuta con il Vaticano II – un modo di concepire il

governo nella Chiesa in continuità con la tradizione che è in continuo aggiornamento. Si è orientati

più sulla seconda ipotesi, anche se, si è dell’idea che le due visioni ermeneutiche non siano

necessariamente contrastanti: lo diventeranno solo qualora, non si equilibri bene la bilancia che

tiene uniti, il governo da una parte, e, i diritti-doveri dall’altra, e senza confondere questi ultimi con

i “diritti fondamentali della persona umana” di natura pre-giuridica. L’equilibrio sarà dato dal

termine che più riuscirà ad esprimere e ordinare la particolare struttura del governo ecclesiale65

.

Esito auspicato dal sesto principio di revisione codiciale è il libro II del CIC in vigore,

intitolato il “Popolo di Dio”. Basta il solo titolo66

del Libro II del CIC ad inserire il Christifidelis in

una nuova dimensione giuridica67

, quella maturata in seno al Concilio Vaticano II68

ed in particolar

modo dalla costituzione dogmatica sulla Chiesa Lumen Gentium. Non si può negare infatti che il

secondo libro del CIC del 1983 sia lo sforzo – seppur non pienamente riuscito a causa del suo limite

naturale – di tradurre in termini giuridici l’uguaglianza radicale di tutti i fedeli e la diversità

funzionale nello svolgimento della comune missione della Chiesa.

Ciò che qui interessa è osservare come l’uguaglianza di tutti i fedeli e la diversità nelle

funzioni, elementi definiti nella Lumen Gentium, vengono a costituire la base dello statuto giuridico

64

Non bisogna confondere però i “diritti della persona” e i “diritti soggettivi”: «proprio tuttavia sotto il profilo giuridico

non pare possibile identificare tra loro “diritti della persona” e “diritti soggettivi” in quanto, mentre i primi sono di

natura extra-ordinamentale (pre-giuridica), i secondi sono tipicamente ordinamentali (quelli ammessi dall’Ordinamento

stesso); allo stesso modo – o forse, a maggior ragione – non risulta semplice sotto il profilo atropo-teologico definire ad

uso giuridico canonistico i ‘diritti fondamentali dei Christifideles’; tanto più che l’espressione massima di tale

‘sensibilità’, la “Dichiarazione fondamentale dei diritti dell’uomo” adottata dall’Assemblea Generale delle Nazioni

Unite il 10 Dicembre 1948, ha natura puramente convenzionale». P. GHERRI, Diritto amministrativo canonico: Strutture

e strumenti, appunti pro manuscripto ad uso degli studenti, Roma A.A. 2010-2011, versione 4.2, 132. 65

Secondo il nostro modesto e umile avviso quest’equilibrio è dato dalla complementarietà di due elementi: il governo

come servizio e l’obbedienza canonica come cooperazione, adesione. 66

«Sotto questo profilo appare assai rilevante l’operazione che il legislatore canonico è stato in grado di effettuare con

la nuova codificazione, vale a dire con la traduzione sul piano del diritto di una categoria del tutto estranea al mondo

culturale del giurista, qual è quella di popolo di Dio. Perché assunta ormai sul piano del diritto, la categoria biblico-

patristica di popolo di Dio se non nega certo, né confonde, la giuridicità dell’ordinamento canonico, d’altra parte

contribuisce a porne in evidenza le peculiarità che lo distinguono, e così profondamente, dagli altri ordinamenti, e

specialmente dagli ordinamenti giuridici statuali». P. V. PINTO (a cura di), Commento al Codice di Diritto canonico,

111-112. 67

«La differenza è enorme ed è la logica conseguenza che ha avuto sul terreno legislativo lo sviluppo dottrinale operato

dal Concilio Vaticano II, cioè il passaggio da una ecclesiologia preferentemente gerarcologica ad una ecclesiologia di

comunione». J. HERRANZ, Studi, 205. 68

Cf. IOANNES PAULUS PP. II, Const. Ap. Sacrae disciplinae leges, VII-XIV; IOANNES PAULUS PP. II, Adhoratio

Apostolica postsynodalis: Christifideles laici, 30 decembris 1988, in AAS, LXXXI (1989), 44-84; R. J. CASTILLO LARA,

La communion ecclesiale dans le nouveau Code de Droit Canonique, in Communicationes, XV (1984), 242-266; J.

HERRANZ, Génesis del nuevo cuerpo legislativo de la Iglesia, in Ius Canonicum, 23 (1983), 491-526, in particolare 505-

510.

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del fedele che in modo esplicito69

si è voluto inserire nel Codice del 1983. Questo nucleo base

(uguaglianza e diversità), espressione dell’unità di tutto il Popolo di Dio, viene a costituirsi con il

sacramento del battesimo, vincolo primario di appartenenza all’unico Corpo mistico di Cristo70

.

Proprio per tali motivazioni, si comprese fin dall’inizio dell’iter formativo dei canoni relativi allo

statuto giuridico dei fedeli “De omnium christifidelium obligationibus et iuribus” che, bisognava

rifarsi a ciò che la Chiesa aveva dichiarato essere, in ambito dogmatico, i principali doveri/diritti dei

fedeli.

«Si era consci di una cosa, e cioè: la maggior parte delle fonti di questi canoni si trova nel Cap. IV (nn.

30-38) della Lumen Gentium, sotto il titolo “De laicis”. Per esempio, l’uguaglianza fondamentale “in

dignitate et actione”, il dovere di condurre una vita santa e di fare apostolato, il diritto di ricevere i

beni spirituali dalla Chiesa, il dovere di obbedienza ai sacri Pastori, il diritto di petizione all’autorità

ecclesiastica e così via»71

.

Il passaggio successivo che si compirà immediatamente richiede un’attenzione particolare in

quanto, in questo passaggio, vi è la chiave per comprendere come nella Chiesa è legittimo affermare

che vi è uguaglianza nella diversità o diversità nell’uguaglianza72

. Uguaglianza in quanto

appartenenti all’unico Popolo di Dio (status giuridico fondamentale)73

, diversità quanto a

condizione giuridica personale (status giuridico particolare)74

. La formulazione giuridica di questa

comprensione teologico-dogmatica impegnò fin dalla prima sessione75

il gruppo dei consultori

denominato “De laicis”, specie nell’intento di far risultare il termine “laico” uno “status giuridico

particolare” distinto dallo “status giuridico fondamentale” di “fedele”76

. Il fondamento solido, che

permette di fondare sia l’uguaglianza che la diversità nella Chiesa, è espresso dall’insieme dei

canoni 204 §1 e 20577

. A tal proposito il Cardinale J. Herranz, Presidente emerito del Pontificio

Consiglio per i Testi Legislativi e Presidente emerito della Commissione Disciplinare della Curia

Romana sottolinea:

«in primo luogo, il suo ricco contenuto teologico e pastorale, che corresponsabilizza tutti i membri del

Popolo di Dio e pone l’intera Chiesa in stato di missione. In secondo luogo, le espressioni “nel modo

69

«I diritti dei fedeli sono sempre stati riconosciuti più o meno chiaramente nelle varie formulazioni storiche del diritto

ecclesiastico (soprattutto in materia sacramentale, penale e processuale), ma non nella forma esplicita in cui lo si fa

nell’attuale CIC». J. HERRANZ, Studi, 209. 70

Cf. CONCILIUM ŒCUMENICUM VATICANUM II, Lumen Gentium, n.7.18, 5-71. 71

J. HERRANZ, Studi, 211. 72

Cambiando l’ordine degli addendi il risultato non cambia. 73

«Condizione questa o stato giuridico fondamentale, che precede ontologicamente qualsiasi differenziazione di

funzioni, ministeri specifici o particolari stati di vita. C’è pertanto una vera aequalitas quoad dignitatem fra tutti i fedeli

della Chiesa, chierici e laici, fratelli e discepoli di Cristo unico Signore». J. HERRANZ, Studi, 243. 74

J. I. ARRIETA, Voce: Diritto soggettivo, par. 1.2, 2. 75

Cf. Communicationes, XVII (1985), 164-196. 76

Cf. A. DEL PORTILLO, Fieles y laicos en la Iglesia. Bases de sus respectivos estatutos jurídicos, Pamplona, 1969, 17

ss.; E. CAPARROS, Les notions juridiques de fidèle et de laic, in Studia Canonica, 6 (1972), 79-98. 77

Dal teologo Jerôme Hamer definiti la chiave di lettura dell’intero Codice dell’’83: cf. J. HAMER, Il Codice e il

Concilio, in L’Osservatore Romano, CXXIII (1983), n. 20 (37.209), 26 gennaio 1983, 1.

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loro proprio” e “secondo la condizione giuridica propria di ciascuno”: con queste espressioni si

accenna già alla diversità di ministeri e specifiche funzioni e compiti ecclesiali che giustificherà dopo

la diversità di statuti giuridici personali. Sul solido fondamento di questo canone fu piuttosto facile alla

Commissione elaborare i sedici canoni sui diritti e doveri fondamentali di tutti i christifideles. Ciò fu

fatto – bisogna dirlo – senza la pretesa di voler redigere un catalogo esaustivo di diritti soggettivi od

una dichiarazione simile alla “Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo”. Infatti, com’è già stato

notato, non soltanto il contenuto, ma anche il fondamento e le modalità di esercizio e di tutela dei

diritti e doveri fondamentali sono diversi nella comunità ecclesiale e nella società civile»78

.

Ciò che si vuole fare ora, non è tanto analizzare uno ad uno i doveri/diritti dei fedeli79

, bensì

far emergere l’esplicita volontà, intenzione del Legislatore, tradotta in concreto nel Codice – fin dai

principi che ne hanno ispirato la revisione – di porre lo statuto giuridico dei fedeli – che assumerà

poi particolarità specifiche a seconda dello stato di vita scelto liberamente – in relazione al corretto

esercizio della potestà di governo, che è sempre per il servizio dell’intero corpo della Chiesa

cattolica. Infatti, se da un lato, il Codice definisce ogni fedele come colui che, incorporato a Cristo,

è erede – secondo la condizione di ciascuno – dell’unica missione che Dio ha affidato alla Chiesa80

;

dall’altro, nello stesso canone ribadisce il compito, il dovere, il servizio di Pietro e dei Vescovi – in

comunione con lui – di governare tale corpo81

. Questa affermazione trova la sua giustificazione, la

sua plausibilità in espliciti riferimenti conciliari. Per esempio nel Decreto Apostolicam actuositatem

viene affermato:

«questo è il fine della Chiesa: con la diffusione del regno di Cristo su tutta la terra a gloria di Dio

Padre, rendere partecipi tutti gli uomini della salvezza operata dalla redenzione, e per mezzo di essi

ordinare effettivamente il mondo intero a Cristo. Tutta l’attività del corpo mistico ordinata a questo

fine si chiama “apostolato”; la Chiesa lo esercita mediante tutti i suoi membri, naturalmente in modi

diversi; la vocazione cristiana infatti è per sua natura anche vocazione all’apostolato. Come nella

compagine di un corpo vivente non vi è membro alcuno che si comporti in maniera del tutto passiva,

ma unitamente alla vita partecipa anche alla sua attività, così nel corpo di Cristo, che è la Chiesa “tutto

il corpo […] secondo l’energia propria ad ogni singolo membro […] contribuisce alla crescita del

corpo stesso” (Ef 4,16). Anzi in questo corpo è tanta l’armonia e la compattezza delle membra (cfr. Ef

4,16), che un membro il quale non operasse per la crescita del corpo secondo la propria energia

dovrebbe dirsi inutile per la Chiesa e per sé stesso»82

.

Ancora nella Lumen Gentium al n. 30:

78

J. HERRANZ, Studi, 213-214. 79

Per uno studio sui singoli doveri diritti nel Codice dell’’83: cf. J. H. PROVOST, cc. 208-223, in J. A. CORIDEN – T. J.

GREEN – D. E. HEINTSCHEL (a cura di), The Code of Canon Law: A Text and Commentary, New York-Mahwah, 1985,

117-173, 134-159; J. FORNÉS – D. CENALMOR, cc. 208-223, in A. MARZOA – J. MIRAS – R. RODRÌGUEZ OCAÑA (a cura

di), Comentario exegético al Código de Derecho canónico, II, Pamplona, 1995, 59-161; J. HERVADA, Diritto

costituzionale canonico, Milano, 1989 [trad. ita. dell’originale “Elementos de derecho constitucional canónico”,

Pamplona, 1986], 110-138; H. J. F. REINHARDT, cc. 208-223, in K. LÜDICKE (a cura di), Münsterischer Kommentar zum

Codex Iuris Canonici, Essen, 1984. 80

Cf. can. 204 §1. 81

Cf. can. 204 §2. 82

CONCILIUM ŒCUMENICUM VATICANUM II, Decretum: Apostolicam actuositatem, 18 novembris 1965, in AAS, LVIII

(1966), n. 2, 837-864. «Ad ogni discepolo di Cristo incombe il dovere di espandere per quanto gli compete la fede».

CONCILIUM ŒCUMENICUM VATICANUM II, Lumen Gentium, n.17b, 17-18.

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«i sacri Pastori sanno infatti benissimo quanto i laici contribuiscano al bene di tutta la Chiesa. Sanno di

non essere stati istituiti da Cristo per assumersi da soli tutto il peso della missione salvifica della

Chiesa verso il mondo, ma che il loro eccelso ufficio è di pascere i fedeli e di riconoscere i loro

ministeri e carismi, in modo che tutti concordemente cooperino, nella loro misura, al bene comune»83

.

A chiudere questo quadro, vi è il can. 208, posto a completamento dei canoni che aprono il

Libro II del CIC, e, a orientamento per la comprensione degli obblighi e diritti specifici di tutti i

fedeli:

«fra tutti i fedeli, in forza della loro rigenerazione in Cristo, sussiste una vera uguaglianza nella dignità

e nell’agire, e per tale uguaglianza tutti cooperano all’edificazione del corpo di Cristo, secondo la

condizione e i compiti propri di ciascuno»84

.

Nel canone 208 è esplicito il volere del Legislatore che, la diversità pure presente

(ontologicamente) nella Chiesa85

, si poggi sulla vera uguaglianza nella dignità e nell’agire, e, sia

sempre orientata al servizio di Cristo nel suo corpo mistico, all’ascolto, all’unica vera obbedienza86

.

È bene ricordare tale verità, per cui a tal proposito, si riporta una parte del Decreto Presbyterorum

Ordinis che con molta semplicità ribadisce questo principio in riferimento ai presbiteri:

«i sacerdoti del Nuovo Testamento, anche se in virtù del sacramento dell’ordine svolgono la funzione

eccelsa e insopprimibile di padre e di maestro nel popolo di Dio e per il popolo di Dio, sono tuttavia

discepoli del Signore, come gli altri fedeli, chiamati alla partecipazione del suo regno per la grazia di

Dio. In mezzo a tutti coloro che sono stati rigenerati con le acque del battesimo, i presbiteri sono

fratelli membra dello stesso e unico corpo di Cristo, la cui edificazione è compito di tutti.

Perciò i presbiteri nello svolgimento della propria funzione di presiedere la comunità devono agire in

modo tale che, non mirando ai propri interessi ma solo al servizio di Gesù Cristo uniscano i loro sforzi

a quelli dei fedeli laici, comportandosi in mezzo a loro come il Maestro il quale fra gli uomini “non

venne ad essere servito, ma a servire e a dar la propria vita per la redenzione della moltitudine” (Mt

20,28). I presbiteri devono riconoscere e promuovere sinceramente la dignità dei laici, nonché il loro

ruolo specifico nell’ambito della missione della Chiesa»87

.

Questa reciprocità o complementarietà dei due sacerdozi88

, quello comune e quello

ministeriale – che si potrebbe anche affermare, intensificandone il significato, tra coloro che godono

della pienezza del sacerdozio, i Vescovi, e coloro che ne partecipano, i presbiteri – è un

imprescindibile presupposto categoriale per chiunque desideri relazionarsi autenticamente nella

Chiesa, oltre a costituire imprescindibile riferimento per chiunque decida o pensi di riflettere, in

83

Ivi, nn. 30, 37; cf. P. FELICI, Il Concilio Vaticano II e la nuova Codificazione Canonica, Roma, 1967, 21. 84

Can. 208. 85

Cf. can. 1008. 86

Cioè quella fondata sulla vera uguaglianza nella dignità e nell’agire. 87

CONCILIUM ŒCUMENICUM VATICANUM II, Decretum de Presbyterorum ministerio et vita: Presbyterorum ordinis, 7

decembris 1965, in AAS, LVIII (1966), 991-1024, n. 9, 1005-1006. 88

«Ma questa differenziazione tra sacerdozio comune e sacerdozio ministeriale secumfert coniunctionem, comporta cioè

una necessaria complementarietà, perché le due forme di partecipazione all’unico sacerdozio di Cristo ad invice

ordinantur, si richiedono reciprocamente». J. HERRANZ, Studi, 245.

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senso speculativo, sulle relazioni di vera obbedienza89

canonica90

intra ecclesiali. È bene quindi,

concludendo la breve riflessione sul sesto principio di revisione del Codice, affermare con chiarezza

che i doveri/diritti dei fedeli (chierici o laici), così come concepiti dal Codice, costituiscono la base

o l’ambiente entro cui, l’esercizio della potestà di governo possa essere svolto nella verità della

comunione e della corresponsabilità, propria della visione ecclesiologica odierna91

. Solo attraverso

la categoria del servizio – oltre a quella soprannaturale della fede – è possibile vedere, e quindi

vivere, la vera relazione canonica di obbedienza (o relazione gerarchica)92

.

«L’aspirazione al trionfo del diritto e della giustizia di fronte al possibile arbitrio di chi detiene il

potere non è un’aspirazione di oggi: è stata sempre presente nel cuore degli uomini. Ma era

un’aspirazione che poteva realizzarsi solo mediante il riconoscimento giuridico della dignità e libertà

della persona umana e dell’uguaglianza fondamentale di tutti gli uomini. È stato precisamente il

cristianesimo, con la sua concezione dell’uomo come creatura fatta ad immagine e somiglianza di Dio,

la dottrina che ha contribuito decisivamente al conseguimento di questo progresso giuridico,

conferendo ai diritti umani un valore proprio ed insostituibile, che li preserva dalle aberrazioni a cui

potrebbe condurli ogni riflessione culturale teologicamente infondata, e dando nello stesso tempo

all’esercizio del potere un’autorità morale, senza la quale lo stesso potere si debilita»93

.

89

«Divenuto membro della Chiesa, il battezzato non appartiene più a sé stesso, [Cf. 1Cor 6,19 ] ma a colui che è morto

e risuscitato per noi [Cf. 2Cor 5,15 ]. Perciò è chiamato a sottomettersi agli altri, [Cf. Ef 5,21; 1Cor 16,15-16 ] a servirli

[Cf. Gv 13,12-15 ] nella comunione della Chiesa, ad essere “obbediente” e “sottomesso” ai capi della Chiesa, [Cf. Eb

13,17 ] e a trattarli “con rispetto e carità” [Cf. 1Ts 5,12-13 ]. Come il Battesimo comporta responsabilità e doveri, allo

stesso modo il battezzato fruisce anche di diritti in seno alla Chiesa: quello di ricevere i sacramenti, di essere nutrito

dalla Parola di Dio e sostenuto dagli altri aiuti spirituali della Chiesa». Catechismo della Chiesa Cattolica, Città del

Vaticano, 1992, n. 1269. 90

Cf. cann. 204 §2; 209§1; 212. Codex Canonum Ecclesiarum Orientalium, cann. 7§2; 12§1; 15. 91

«Proprio a riguardo della corresponsabilità va osservato come in effetti si tratti di un vero principio portante del Libro

II del Codice latino; forse la maggiore in assoluto tra le sue novità. La Chiesa del Vaticano II, infatti, non più

identificata con la “sacra gerarchia”, pur confermando la natura personale dell’autorità episcopale – assistita ora anche

da una specifica sacramentalità – non lascia soli i singoli Pastori nella sempre più difficile e specialistica cura pastorale

ma li spinge ad avvalersi di specifici – organismi di consultazione e collaborazione (tanto stabili che temporanei)

attraverso il cui consilium poter meglio procedere alle decisioni irrinunciabili spettanti a chi ricopre il pastorale

ministerium. Lo stacco – non solo funzionale – con le Istituzioni ‘consultive’ del passato è palese». P. GHERRI, Bilancio

canonistico, in P. GHERRI (a cura di), Responsabilità ecclesiale, corresponsabilità e rappresentanza. Atti della IV

Giornata canonistica interdisciplinare (2009), Città del Vaticano, 2010, 387-389. 92

«Fra gli elementi che caratterizzano l’immagine vera e genuina della Chiesa, dobbiamo mettere in rilievo soprattutto

questi: la dottrina secondo la quale la Chiesa viene presentata come il Popolo di Dio (cf. Cost. Lumen Gentium, 2) e

l’autorità gerarchica viene proposta come servizio (cf. ib. 3); […] la dottrina, inoltre, per la quale tutti i membri del

Popolo di Dio, nel modo proprio a ciascuno, sono partecipi del triplice ufficio di Cristo, sacerdotale, profetico e regale;

dottrina alla quale si riconnette anche quella che riguarda i doveri e i diritti dei fedeli, e particolarmente dei laici».

IOANNES PAULUS PP. II, Const. Ap. Sacrae disciplinae leges, Pars II, VIII. 93

J. HERRANZ, Studi, 113.

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5. 3 LA CURA DELLE PROCEDURE: TUTELA GIURIDICO-CANONICA DEI DIRITTI

SOGGETTIVI

Il discorso iniziato con il sesto principio di revisione – teso a definire e tutelare lo statuto

giuridico di ciascun fedele, tale da permettere all’esercizio dell’autorità di apparire chiaramente

come un servizio, eliminando in tal modo gli abusi derivanti da una visione mondana del potere (cf.

Mc 10,42; Mt 20,25) – prosegue con il settimo principio di revisione codiciale94

che prevede la

necessità di concretizzazione e applicazione della difesa dei doveri/diritti dei fedeli, nella prassi

giuridico-canonica, attraverso la cura delle procedure95

, poste a tutela dei diritti soggettivi96

.

«Quae ut apte in praxim deducantur, necesse est ut peculiaris cura tribuatur ordinandae procedurae,

quae ad iura subiectiva tuenda spectat. In novando igitur iure ad ea attendatur quae hac in re

hucusque magnopere desiderabantur, scilicet ad re cursus administrativos et administrationem

iustitiae. Ad haec obtinenda, necesse est ut varia potestatis ecclesiasticae munera clare distinguantur,

vide licet munus legislativum, administrativum et iudiciale, atque apte definiatur a quibusdam organis

singula munera exercenda sint»97

.

Tale principio di revisione ha avuto il merito di porre attenzione alla relazione giuridico-

canonica (autorità/fedele) come relazione di comunione, sottolineando l’aspetto legale/razionale

quale garanzia dei doveri/diritti dei fedeli, in quanto, attraverso la ragionevolezza/legittimità98

dei

procedimenti, è possibile tutelare sia l’agire dell’autorità (liberandola dalla tentazione dell’arbitrio)

che l’accoglimento da parte del fedele (liberandolo dalla tentazione di sentirsi un semplice

esecutore/servo). Tale principio è ancor più necessario oggi, in quanto, consente la partecipazione

attiva di tutti i fedeli99

che, coinvolti (come protagonisti e non semplici spettatori) nella ricerca della

verità del discernimento – che comunque sarà riservata, in ultima istanza, a chi gode della debita

potestà – contribuiscono alla concretizzazione/realizzazione di tale discernimento100

. In tal senso:

94

Cf. Communicationes, I (1969), 77-85. 95

In particolar modo in ambito amministrativo. 96

«Agnoscenda enim sunt iura subiectiva vera et propria sine quibus ordinatio iuridica societatis vix concipitur.

Proclamari idcirco oportet in iure canonico principium tutelae giuridica aequo modo applicari superioribus et

subditis». Communicationes, I (1969), 83. Per il significato del termine “diritto soggettivo” all’interno della Chiesa si

rimanda al cap. II di questo percorso e precisamente al paragrafo 2.4. 97

Principia, n.7, 14. 98

«La necessaria legittimità (chiamata anche da una parte della dottrina legalità) dell’Atto amministrativo è diventata

un tema studiato con un nuovo interesse dopo la creazione della Sectio altera della Segnatura Apostolica». P. VALDRINI,

La decisione di governo nella Chiesa. Rationabilitas e iustitia dell’Atto amministrativo singolare, in Apollinaris,

LXXXIV (2011), 624, nota 6. 99

Stimolando l’altrettanto importante principio della corresponsabilità di tutti i fedeli. 100

«Se il governo ecclesiale, infatti, si esplica in una sostanziale attività di discernimento nell’attribuire e conferire a

singoli Christifideles i vari munera/ministeria di cui la Comunità dei discepoli di Cristo (che ‘questa’ è la Chiesa!) ha

necessità – o da cui potrebbe ragionevolmente trarre utilità o giovamento –, il vero baricentro della c.d. potestas (o della

‘giurisdizione’ in senso ampio) non può che individuarsi proprio nella specifica responsabilità di stabilire

‘definitivamente’ ‘chi’ e ‘come’ debba impegnarsi per conseguire il risultato ministeriale/pastorale in oggetto che, per

quanto affidato specificamente a ‘singoli’, rimane comunque di ‘pertinenza/competenza’ totale ed esclusiva della

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«pensiamo che la migliore apologia e difesa che si possa fare dell’autorità ecclesiastica consiste

precisamente nell’assicurare ai sacri Pastori il maggior grado possibile di legalità e di giustizia

nell’esercizio del loro ministero. L’omissione di questo necessario approfondimento giuridico mi pare

che ridurrebbe la teologia pastorale alla triste condizione di scienza puramente teorica, cioè ad una

specie di dilettevole trattenimento intellettuale, incapace di stimolare efficacemente i fedeli a

partecipare attivamente, ciascuno pro parte sua, all’unica missione del Popolo di Dio. Né possiamo

dimenticare che in qualsiasi società umana le situazioni di crisi di autorità – che precedono o seguono i

cosiddetti moti contestatori – vanno veramente affrontate e veramente risolte, più che con gesti

destinati ad incidere temporaneamente sull’opinione pubblica, con serene ed equilibrate

manifestazioni di autorità che abbiano uno squisito senso del diritto. È infatti fuori dubbio che, anche

per quanto concerne la vita della Chiesa, la legalità nell’esercizio della potestà favorisca e stimoli

l’obbedienza»101

.

Ritornando a ciò che il settimo principio richiedeva per la tutela dei diritti soggettivi,

ovverosia la cura delle procedure – specie riguardo all’ambito amministrativo, ove si registravano la

maggioranza di disordini, sia nel senso di veri e propri abusi di poteri, sia nel senso di atteggiamenti

rinunciatari da parte dell’autorità – bisogna attestare il notevole sviluppo e l’attenzione sempre

maggiore alla formulazione di procedure tese a garantire non solo la tutela dei diritti, bensì anche

l’esercizio corretto della potestà da parte dell’autorità. Si è convinti infatti che, la cura delle

procedure veicoli un principio giuridico fondamentale, il principio di legalità: più propriamente,

qui, per principio di legalità si intende il fatto che, l’autorità nell’esercizio del suo potere è

sottoposta anch’essa alla legge, in modo particolare, al Diritto, in modo universale, alla Giustizia102

.

«Ancora da qui la convenienza che la stessa autorità ecclesiastica sia disposta ad ordinare l’esercizio

del suo potere non in maniera paternalistica, arbitraria o semplicemente rinunciataria dei suoi diritti

(tutte forme di esercizio del potere in un senso o nell’altro lesive dei diritti dei fedeli), bensì in una

forma giusta. Inoltre questo è il miglior modo per prevenire o risolvere le possibili crisi di obbedienza,

molte delle quali ordinariamente hanno origine in vere crisi di autorità. Non possiamo dimenticare

infatti che i fedeli hanno diritto di essere ben governati da quelli che a loro volta hanno diritto di essere

ben obbediti»103

.

Al di là di alcune considerazioni personali, relative alla necessità di trasmettere a tutti coloro

che occupano un posto di governo, tale comprensione dell’autorità, si vuole mostrare come il

principio di legalità sia capace di riportare al centro dell’attenzione giuridico-canonica la

responsabilità personale dell’autorità, come, nel su citato testo, il Cardinale Herranz precisa:

«questo principio comporta l’idea di responsabilità giuridicamente esigibile nell’attività di

governo»104

.

Chiesa come tale, tanto nella sua destinazione che realizzazione». P. GHERRI, L’Autotutela amministrativa come

supplemento di conoscenza: la Remonstratio canonica (Cann. 1732-1734 CIC), 321. 101

J. HERRANZ, Studi, 114. 102

Sul principio di legalità all’interno dell’ordinamento canonico cf. ivi, 123-126. 103

Ivi, 120. 104

Ivi, 121.

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Un concetto di ‘responsabilità giuridicamente esigibile’ è ciò che indirettamente si pensa, o

meglio, che intende richiamare il settimo principio di revisione codiciale quando, esplicitamente, fa

menzione dell’assenza, e quindi della opportunità/obbligatorietà dei ricorsi amministrativi.

L’ambito amministrativo infatti, è quello che ravvisava le maggiori difficoltà/disordini in ambito

canonico105

; del resto da tempo si esprimevano istanze di una carenza a livello amministrativo106

.

Queste difficoltà nascono quando si lascia, troppo spesso, al solo prudente discernimento

dell’autorità le risoluzioni di questioni seppur particolari, ma di notevole incidenza giuridica e non

solo107

.

«La reale esistenza nella Chiesa, a livello di governo tanto universale che diocesano, di situazioni di

insicurezza giuridica, sia per mancanza di controllo giudiziario degli atti amministrativi singolari (con

i relativi riflessi negativi quanto alla tutela dei diritti soggettivi dei fedeli), sia anche per la mancanza

di una adeguata delimitazione nell’esercizio della potestà ecclesiastica tra gli atti di natura legislativa e

gli atti amministrativi generali a carattere meramente regolamentare. Né la Cost. Ap. Sapienti consilio,

del 29 giugno 1908, nel riorganizzare la Curia Romana, né la promulgazione del Codice di Diritto

canonico del 1917 fornirono gli elementi tecnici necessari per rimediare a queste situazioni, di cui

ebbe molto ad occuparsi la dottrina canonistica. […]. L’introduzione, al n. 106 della Cost. Ap.

Regimini Ecclesiae universae (15 agosto 1967), riguardante la Sectio altera della Segnatura

Apostolica, della possibilità di revisione giudiziaria degli atti amministrativi singolari dei Dicasteri

della Curia Romana. Ciò fu evidentemente una coraggiosa risposta alle istanze espresse da tempo dalla

scienza canonistica, ma doveva costituire anche un forte stimolo allo sviluppo del diritto

amministrativo canonico, oltre che alla stessa scienza e prudenza del buon governo»108

.

Lo studio in questione, non potendo, per ovvie motivazioni, concentrarsi su tutte le tre

funzioni della potestà di regime (o di governo)109

, si concentrerà – come del resto intuibile – su

quella che lo stesso settimo principio di revisione dichiarava essere carente110

, ovverosia la funzione

di governo propriamente denominata esecutiva (o amministrativa)111

.

105

Per un approfondimento di tale questione particolare si rimanda a: J. A. SOUTO, Sugerencias para una visìon actual

del Derecho administrativo canónico, in Ius canonicum, 5 (1965), 111 ss.. 106

Cf. F. X. WERNZ, Ius Decretalium, t. I, 2 ed., Roma, 1905, 103-104; S. M. RAGAZZINI, La potestà nella Chiesa.

Quadro storico-giuridico del Diritto costituzionale canonico, Roma, 1963, 195-204. 107

«In questa prospettiva risulta del tutto congruo che la – derivata – auctoritas non possa essere esercitata proprio

marte o ad nutum seipsi, ma interagendo con una serie di interventi legittimanti quali sono quelli dei diversi Organismi

di consiglio (pareri, consensi, decisioni collegiali) di cui il Vaticano II ha dotato ‘questa’ Auctoritas». P. GHERRI,

Bilancio canonistico, in P. GHERRI (a cura di), Decidere e giudicare nella Chiesa, Atti della VI Giornata canonistica

interdisciplinare, Città del Vaticano, 2012, 411. 108

J. HERRANZ, Studi, 143-146. 109

Per un approfondimento su tale distinzione della potestà, si rimanda a: V. TIRADO, De iurisdictionis acceptione in

iure ecclesiastico, Romae, 1940; P. G. MARCUZZI, Distinzione della ‘potestas regimini’ in legislativa, esecutiva e

giudiziaria, in Salesianum, 43 (1981), 275-304. 110

«Il numero 7 in riferimento alla giustizia amministrativa è senza dubbio uno dei punti più forti che troviamo nei

Principia approvati durante la prima Assemblea Generale del Sinodo dei Vescovi nel 1967. Ivi si legge: “mentre i

ricorsi e gli appelli giudiziari vengono considerati sufficientemente regolati secondo le esigenze della giustizia nel

Codice di Diritto canonico, l’opinione comune dei canonisti al contrario ritiene che i ricorsi amministrativi nella prassi

ecclesiastica e nell’amministrazione della giustizia siano fortemente carenti. Di qui è sentita ovunque la necessità di

predisporre nella Chiesa tribunali amministrativi secondo i gradi e le specie, cosicché la difesa dei diritti trovi in essi

una procedura propria e canonica che si sviluppi normalmente presso le autorità di vario grado”.

Questa costatazione è molto dura e risoluta. Si afferma infatti: a) una forte carenza per quanto riguarda la giustizia

amministrativa nella Chiesa; b) l’opinione comune dei canonisti circa tale carenza; e c) la necessità sentita ovunque di

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È nel settore amministrativo, infatti, che la solitudine dell’autorità manifestava maggiormente

la sua debolezza; tutto questo veniva ad aggravarsi quando il fedele (chierico o laico) desiderava

‘difendersi’ da un atto amministrativo, mancando una vera ed efficace possibilità di difesa. L’unica

difesa prevista, infatti, nei confronti di un atto posto dall’autorità amministrativa, era il ricorso al

superiore di colui che aveva posto l’atto stesso, fino a salire via via al Dicastero della Curia Romana

competente. Questo ricorso però veniva svolto senza offrire al “ricorrente” un’adeguata

soddisfazione del fondamentale e necessario – per garantire il minimo della giustizia – diritto alla

difesa, in quanto: a) non si aveva la possibilità di essere aiutati da un avvocato qualora se ne avesse

avuto bisogno, vista l’estraneità o ignoranza relativa alla procedura amministrativa; b) non si

potevano visionare gli atti, ragion per cui non si sapeva come difendersi e soprattutto da cosa

difendersi; c) da parte dell’autorità non vi era la necessità di motivare le decisioni prese, favorendo

la possibilità di un totale arbitrio nel decidere. Per non pensare poi, alle questioni relative alle

relazioni gerarcologiche che intercorrevano tra le varie autorità del ricorso gerarchico,

psicologicamente facili a coinvolgimenti-compromessi personali112

.

«Ovviare l’arbitrio nell’esercizio della potestà esecutiva ossia amministrativa nella Chiesa. Già al n. 6

è stato notato: “l’uso [della] potestà nella Chiesa non può essere arbitrario” (cpv. 3). Ciò viene ribadito

anche al n. 7 quando si afferma la necessità di proclamare nel diritto canonico che la tutela giuridica

debba essere applicata in modo uguale ai superiori e ai sudditi “cosicché scompaia totalmente

qualunque sospetto di arbitrio nell’amministrazione ecclesiastica” (cpv. 1)»113

.

Grande è stata l’incidenza in ambito amministrativo114

di questo principio – anche se nel

Codice attuale non compare per intero lo sforzo che, la Pontificia Commissione per la revisione del

Codice, aveva prodotto fin quasi alla vigilia della promulgazione del Codice del’’83115

– : si pensi a

costituire nella Chiesa una rete di tribunali amministrativi secondo i gradi e le specie». Z. GROCHOLEWSKI, Il sistema

dei ricorsi e la giurisdizione dei tribunali amministrativi, in J. CANOSA (a cura di), I principi per la revisione del Codice

di Diritto canonico. La ricezione giuridica del Concilio Vaticano II, Milano, 2000, 463. 111

«Il CIC parla di Atto amministrativo singolare (can. 35) mentre il can. 135 parla di potestà esecutiva e i cann. 1400 e

1445 §2 di potestà amministrativa. Sembra che la seconda qualificazione, potestà amministrativa, sia stata introdotta

per la prima volta in un testo ufficiale nell’Art. 106 della Costituzione apostolica Regimini ecclesiæ universæ (cfr.

PAULUS PP. VI, Constitutio Apostolica de Romana Curia: Regimini Ecclesiæ Universæ, in AAS, LIX (1967), 885-928)

che introduceva il Ricorso contenzioso-amministrativo contro gli Atti amministrativi singolari dei titolari della potestà

di governo, che non erano Atti del romano Pontefice; la formula “potestà amministrativa” è stata mutuata senz’altro dai

Diritti statali (soprattutto dall’Ordinamento giuridico italiano) che furono modelli per la creazione di una nuova

giurisdizione amministrativa nella Chiesa. Il CCEO usa l’espressione potestà esecutiva. Il CIC del 1917 parlava di

potestà coattiva mentre l’Enciclica “Quas primas” di Pio XI dell’11 dicembre 1925 (cf. PIUS PP. XI, Litteræ encyclicæ

de festo Domini nostri Iesu Christi regis constituendo: Quas Primas, in AAS, XVII [1925], 593-610) usava l’espressione

potestà esecutiva». P. VALDRINI, La decisione di governo nella Chiesa, 622, nota 3. 112

Cf. Z. GROCHOLEWSKI, Il sistema dei ricorsi e la giurisdizione dei tribunali amministrativi, 462-467. 113

Ivi, 467. 114

Non bisogna dimenticare inoltre che il 30 marzo 1968, durante la discussione dei Principia, venne istituita la Sectio

Altera della Segnatura Apostolica: il primo tribunale amministrativo della S. Sede, a cui si poteva accedere una volta

compiuto il ricorso gerarchico. Cf. SECRETARIA STATUS, Rescriptum De vocatione legis Constitutione Apostolica:

«Regimini Ecclesiae universae» latae, 30 decembris 1967, in AAS, LXXX (1968), 50. 115

Si fa qui un esplicito richiamo alla previsione e istituzione dei tribunali amministrativi locali e alle procedure che

questi avrebbero dovuto seguire nel loro esercizio. Cf. Communicationes, II (1970), 191-194; IV (1972), 35-38; V

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ciò che il can. 135 §4 afferma riguardo alle disposizioni da osservarsi per l’esercizio della potestà

esecutiva (cann. 136-144); si pensi ai cann. 51 e 1738 che richiamano, in maniera indiretta, il

fondamentale diritto alla difesa116

; ancora si pensi alle norme riguardanti la natura e le modalità

degli atti amministrativi (cann. 29-93), in particolar modo, si pensi alla parte relativa ai cann. 35-93,

e, al criterio usato per la formulazione e presentazione di tale gruppo di norme117

. A tal proposito:

«i redattori del CIC non hanno scelto di presentare i vari Atti di governo secondo un criterio che

avrebbe portato a collocare gli Atti in base al tipo di potestà esercitata (criterio formale). […]. Per la

presentazione degli Atti amministrativi singolari, è stato scelto un criterio materiale che dà rilevanza

al contenuto dell’Atto. Gli Atti amministrativi contengono sempre una decisione singolare e non

generale (i canoni 31 e 34 non usano l’espressione Atti amministrativi. Infatti, una parte della dottrina

considera il loro carattere amministrativo mentre un’altra ne mette in risalto il carattere normativo). Da

ciò deriva che il Rescritto può essere posto nell’elenco degli Atti singolari»118

.

Per terminare questa breve presentazione del settimo principio di revisione del Codice,

accenniamo alla discussa questione sui tribunali amministrativi locali che, sebbene richiesti da più

parti, hanno trovato un esito diverso nell’attuale Codice. Senza entrare nella critica diversificata su

tale questione119

, si vuole in questa sede far notare, comunque, l’esigenza sentita da più parti di

ridare all’autorità (amministrativa) una sorta di limite o quanto più, metterla nelle condizioni di

dover in qualche modo giustificare razionalmente l’esercizio della propria (o vicaria) potestà di

governo120

, non solo dinanzi a Dio, ma anche nei confronti della comunità e del singolo fedele.

5.4 L’ATTO AMMINISTRATIVO STRUMENTO DELLA POTESTÀ DI GOVERNO

5.4.1 PREMESSA

(1973), 40. 235-243; VI (1974), 32-33. 112. 219; VIII (1976), 198-200; IX (1977), 72; XV (1984), 78-90; XIX (1987),

303-304. Anche se, secondo illustri canonisti, il Codice non sembra escludere l’istituzione di tali tribunali: cf. Z.

GROCHOLEWSKI, Atti e ricorsi amministrativi, in Apollinaris, LVII (1984), 516-518; R. J. CASTILLO LARA, Some

General Reflections on the Rights and Duties of the Christian Faithful, in Studia Canonica, 20 (1986), 25, nota 50. 116

In via preventiva anche il can. 50 del CIC ’83 richiama l’autorità ad ascoltare tutti coloro i cui diritti potrebbero

essere lesi, prima di dare un decreto singolare. 117

Per uno studio approfondito su tale questione, si confrontino i seguenti testi: F. J. URRUTIA, Les Normes générales.

Commentaires des Canons 1-203, Paris, 1994, 121-163; E. LABANDEIRA, Trattato di Diritto amministrativo canonico,

Milano, 1994, 292-435; J. GARCÍA MARTÍN, Le Norme generali del Codex Iuris canonici, Roma, 2002, 182-346; I.

ZUANAZZI, Præsis ut prosis. La funzione amministrativa nella diakonía della Chiesa, Napoli, 2005, 495-561; J. MIRAS

– J. CANOSA – E. BAURA, Compendio di Diritto amministrativo canonico, (coll. Subsidia canonica), trad. A. PERLASCA,

1 ed., Roma, 2007, 147-165; V. DE PAOLIS – A. D’AURIA, Le Norme generali. Commento al Codice di Diritto canonico.

Libro primo, Roma, 2008, 199-264. 118

P. VALDRINI, La decisione di governo nella Chiesa, 622, nota 4. 119

Cf. Z. GROCHOLEWSKI, Il sistema dei ricorsi e la giurisdizione dei tribunali amministrativi, 475-478. 120

In questa direzione si vedano i cann. 50, 51, 57, 1733 §2, 1737, 1738, 1739, 1483. Cf. Z. GROCHOLEWSKI, Atti e

ricorsi amministrativi, 263-268; Z. GROCHOLEWSKI, Il nuovo Codice di Diritto canonico, (Utrumque Ius, 9), Roma,

1993, 506-511.

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Il settimo principio di revisione, dopo aver chiarito la necessità di riconoscere i c.d. diritti

soggettivi dei fedeli, richiama il principio fondamentale della tutela giuridica di tali diritti:

«Proclamari idcirco oportet in iure canonico principium tutelae giuridica aequo modo applicari

superioribus et subditis, ita ut quaelibet arbitrarietatis suspicio in administratione ecclesiastica

penitus evanescat»121

.

Il can. 221 §1 CIC dell’’83 è la norma canonica che veicola il principio della tutela giuridica

dei diritti, dichiarando, infatti, diritto di ogni fedele, di rivendicare e difendere legittimamente i

diritti di cui gode nella Chiesa. Tale diritto beneficia della massima tutela nell’Ordinamento

canonico, in quanto non solo, appartiene ai diritti c.d. naturali, ossia, i diritti universalmente

esigibili da ogni uomo122

, ma pure in quanto, ha una sua specifica rilevanza teologica, operativa, nei

confronti dei diritti dei fedeli123

. Tale canone veicola quindi, non solo un diritto fondamentale, ma

una responsabilità, un dovere fondamentale in capo all’autorità, chiamata a fornire possibilità

concrete che, rendano effettivamente realizzabile la tutela dei diritti dei fedeli124

.

Una volta, quindi, assodata a) l’uguaglianza di tutti i fedeli (LG 32), b) l’esistenza

nell’Ordinamento della Chiesa di uno statuto giuridico fondamentale e personale e c) la

necessità/responsabilità da parte dell’autorità di offrire, attraverso strutture concrete, la possibilità di

tutelare i propri diritti, si passerà a verificare come, nella pratica amministrativa, tutto questo si

realizzi e in quale misura125

.

Prima di proseguire però si vuole ribadire il pensiero secondo cui la relazione giuridico-

canonica126

– che si è definita, a più riprese, con il termine “relazione di obbedienza”127

– è una

relazione ecclesiale e personale allo stesso tempo – che trova nella fede e nella ragione il proprio

121

Communicationes, I (1969), 83. Su tale questione si veda anche la relazione tenuta da Del Portillo, in

Communicationes, II (1970), 89-98. 122

Cf. D. CENALMOR, cc. 220-221, 137-150. Cf. E. BAURA, Analisi del sistema canonico di giustizia amministrativa, in

AA. VV., La giustizia nell’attività amministrativa della Chiesa: il contenzioso amministrativo, E. BAURA – J. CANOSA (a

cura di), Milano, 2006, 52. 123

Cf. Z. GROCHOLEWSKI, Aspetti teologici dell’attività giudiziaria della Chiesa, in Monitor Ecclesiasticus, 31 (1985),

489-504, in particolare 492. 124

Cf. H. PREE, Esercizio della potestà e diritti dei fedeli, in J. CANOSA (a cura di), I principi per la revisione del

Codice di Diritto canonico. La ricezione giuridica del Concilio Vaticano II, Milano, 2000, 324-345. Per lo specifico

ambito amministrativo: cf. J. CANOSA, La legislazione generale sul procedimento di formazione degli atti

amministrativi nel Diritto canonico, in Ius Ecclesiae, 10 (1997), 255-273, n. 5 e 6. 125

Ricordando che «la portata ed irrinunciabilità della problematica si amplia quando, invece di decidere de præterito,

come avviene per il Giudice, si deve decidere de futuro, come avviene per chi presiede il funzionamento o l’operatività

di una Organizzazione/Istituzione (il c.d. governo). In esso, infatti, più che trovare ‘soluzioni’ a situazioni

problematiche emerse nella quotidianità, l’attività sostanziale consiste nel porre in opera le ‘risorse’ (personali e

materiali) per un futuro che realizzi specifiche esigenze e consegua obiettivi predeterminati in sede ‘intenzionale’

(=politica)». P. GHERRI, Bilancio canonistico, in P. GHERRI (a cura di), Decidere e giudicare nella Chiesa, 401. 126

Cf. J. I. ARRIETA, I diritti dei soggetti, 9-46, 15 ss.; J. HERRANZ, Studi, 117-120; H. PREE, Esercizio della potestà e

diritti dei fedeli, in J. CANOSA (a cura di), I principi per la revisione del Codice di Diritto canonico. La ricezione

giuridica del Concilio Vaticano II, Milano, 2000, 306. 127

Con il significato specifico e positivo che si è dato a questa definizione, più volte ribatito.

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178

fondamento – di reciproca responsabilità, fondata sul servizio128

, affinchè tutti gli uomini (di buona

volontà) possano giungere alla salvezza, suprema legge della Chiesa; tutto questo attraverso la

concreta e mutua relazione tra i doveri e i diritti di ogni fedele.

In questo senso:

«l’esercizio della potestà, dal punto di vista della sua essenza e del suo fine, deve essere qualificato

come attuazione di una relazione giuridico-pastorale. È un rapporto di altissimo contenuto: ecclesiale

e personale, di responsabilità reciproca (senza arbitrarietà ed abusi da entrambe le parti), caratterizzata

dalla strumentalità (carattere ministeriale o di servizio) della Gerarchia (senza pretensioni autoritarie)

per la salvezza di tutti i fedeli (inclusi i soggetti della potestà) nella comunione ecclesiastica –

mediante quei diritti che chiamiamo giustamente fondamentali»129

.

La vera relazione canonica di obbedienza – ricapitolazione dello statuto giuridico del fedele –

quindi, ha come presupposto da un lato, la libera accettazione delle disposizioni dell’autorità,

dall’altro, la fiducia che il fedele è chiamato a riporre nell’autorità. Questa fiducia sarà tanto

maggiore quanto più l’autorità sarà capace di agire attraverso un’oculata oggettività e senza

parzialità130

. Perciò è opportuno ribadire che, l’esercizio della potestà è sempre e solo un mezzo –

seppur di istituzione divina – teso alla realizzazione di un unico fine, vale a dire, della salus

animarum. In questo senso si comprende essere decisivo il fattore o elemento “libertà”: l’autorità,

infatti, nell’esercizio della potestà (a lei affidata) sarà chiamata sempre a ricercare l’accoglienza

libera delle sue disposizioni da parte del fedele (a lei affidato), anche se, sul fedele incombe un

obbligo di obbedienza, che, si vuole ripetere, non va confuso con la sottomissione pura (in cui non

c’è possibilità di scelta, quindi non c’è libertà)131

. Solo così, si comprende chiaramente che, la

potestà deve sempre (e solo) essere il mezzo attraverso cui la comunità (Corpo mistico di Cristo)

viene “servita” e non “asservita”132

.

«L’esercizio della potestà non è, come quella stessa, fine a sé stesso, ma mezzo al fine, non viceversa.

In vista del fine ultimo dell’esercizio della potestà, questo comporta, fra l’altro, che l’esercizio della

potestà non raggiunga il suo fine, se non accettato con un atto libero e volontario da parte

dell’uomo/fedele; questo vale indipendentemente dal fatto che i fedeli siano giuridicamente obbligati

128

Cf. V. GÓMEZ IGLESIAS, Acerca de la autoridad como servicio en la Iglesia, in PONTIFICIUM CONSILIUM DE LEGUM

TEXTIBUS INTERPRETANDIS, Ius in vita et in missione Ecclesiae. Acta Symposii Internationalis Iuris Canonici

occorrente X Anniversario Promulgationis Codicis Iuris Canonici diebus 19-24 Aprilis 1993 in Civitate Vaticana

celebrati, Città del Vaticano, 1994, 193-217; S. BERLINGÒ, Dal mistero al ministero, in Ius Ecclesiae, 5 (1993), 91-106. 129

H. PREE, Esercizio della potestà e diritti dei fedeli, in J. CANOSA (a cura di), I principi per la revisione del Codice di

Diritto canonico. La ricezione giuridica del Concilio Vaticano II, Milano, 2000, 345-346. 130

Cf. J. HERRANZ, La giustizia amministrativa nella chiesa dal Concilio Vaticano II al Codice del 1983, in AA. VV.,

La giustizia amministrativa nella Chiesa, Città del Vaticano, 1991, 13-31, 30 ss.. 131

Cf. P. ERDÖ, Liberté religieuse dans l’Eglise? (Observation à propos des canons 748, 205 et 209 §1 CIC), in

Apollinaris, LXVIII (1995), 607-618; C. ERRÀZURIZ, Esiste un diritto di libertà religiosa del fedele all’interno della

Chiesa?, in Fidelium Iura, 3 (1993), 79-99. 132

Cf. J. HERRANZ, Studi, 121 ss.; A. DEL PORTILLO, Fieles y laicos en la Iglesia. Bases de sus respectivos estatutos

jurídicos, 2 ed., Pamplona, 1981, 70-72; A. VIANA, Aspectos de la relación del fiel con la organización eclesiástica, in

Fidelium Iura, 4 (1994), 96-99; A. VIANA, Organización del gobierno en la Iglesia segùn el derecho canónico latino,

Pamplona, 1995, 33-36.

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all’ubbidienza. Perciò l’esercizio del potere deve informarsi prima di tutto alle esigenze (“interessi”)

dei destinatari. Tutto il potere giuridico nella Chiesa non può non essere che una “potestas-functio o

ius-functio (cioè la considerazione del potere non come potere illimitato, come dominum in subditos,

ma come funzione o ufficio pubblico, costituito ed esercitato a vantaggio della stessa comunità)”»133

.

Un ultimo elemento fondamentale – prima di proseguire con una focalizzazione sulla concreta

possibilità di attuazione (o conflitto) della relazione gerarchica di obbedienza nel settore/ambito

amministrativo – che si intende richiamare, nuovamente, è il c.d. principio di legalità che, anche

nell’ambito amministrativo deve potersi esprimere e trovare il posto che gli spetta, in quanto,

principio posto a garanzia affinché non si producano condizioni favorevoli per un arbitrario utilizzo

della potestà di governo. Il principio di legalità, infatti, serve a bilanciare ciò che, in ambito

amministrativo viene – forse troppe volte – richiamato col principio di libertà nel procedimento134

, e

quello correlato, alla cui stregua, colui che ricorre all’amministrazione non può essere definito un

vero e proprio attore135

, in quanto, è semplicemente un soggetto (persona) che fa una richiesta ad un

‘ente’ chiamato a regolare e ordinare il bene comune136

.

Tale situazione di fatto richiederebbe quindi l’attuazione o realizzazione di uno strumento,

organo, che garantisse all’autorità, nello svolgimento della sua attività amministrativa, il rispetto

non soltanto formale, ma anche sostanziale dello statuto giuridico (fondamentale e personale) di

ogni singolo fedele. Tale strumento lo si potrebbe realizzare anzitutto con lo stabilire, con accurata

attenzione, norme relative ai diversi procedimenti (per i diversi gradi amministrativi) e le rispettive

competenze, attraverso la normativizzazione dei principi generali e comuni all’attività

amministrativa in genere:

«a) Armonizzare il riconoscimento di una sfera di attuazione discrezionale degli organi amministrativi

[…] con la regolazione dell’esercizio della funzione amministrativa per mezzo di norme di ordine

legale, e con istruzioni complementari.

b) Stabilire quindi nei diversi gradi dell’amministrazione ecclesiastica norme di procedimento che,

oltre la determinazione di competenza dei diversi organi, sembra che dovrebbero considerare: i

principi generali dell’attività amministrativa (requisiti forma e contenuto, termini, costanza e efficacia

degli atti, così come l’integrazione ordinata delle stesse pratiche); la possibilità e le formalità di

intervento dei fedeli nell’inoltro di queste pratiche (petizioni, reclami, termini, ecc.); i ricorsi non

giudiziari contro gli atti amministrativi.

c) Tener conto – in relazione con la parte discrezionale degli atti amministrativi – che la costituzione

divina della Chiesa, nello stesso tempo in cui attribuisce il potere alla Gerarchia, deputa ugualmente

anche gli altri fedeli, per mezzo dei sacramenti, a funzioni specifiche fondate nello stesso diritto

133

H. PREE, Esercizio della potestà e diritti dei fedeli, in J. CANOSA (a cura di), I principi per la revisione del Codice di

Diritto canonico. La ricezione giuridica del Concilio Vaticano II, Milano, 2000, 312. 134

Cf. F. GARIDO FALLA, Tratado de Derecho Administrativo, Madrid, 1598, 386 ss.. 135

Cf. J. HERRANZ, Studi, 133. 136

È chiaro che si è dell’idea più equilibrata, secondo cui, si ritiene poter assumere anche in ambito amministrativo, la

qualifica di attore – sempreché questa sia interpretata nell’ottica della comune ricerca della verità –, qualora al soggetto

sia stato negato un diritto fondamentale, previsto e tutelato dall’Ordinamento canonico, attraverso un atto

amministrativo.

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divino. Queste funzioni pertanto non sono concesse dalla Gerarchia: compete certamente ad essa

ordinarle nel loro esercizio, ma in nessun modo impedirle o ostacolarle […].

d) Possibilità di revisione giudiziaria degli atti amministrativi mediante adeguati ricorsi che si

interpongono, i quali siano inoltrati e si risolvano secondo un procedimento regolato legalmente. […].

In qualsiasi caso si dovrebbe evitare il processo sommario che, ispirato al cosiddetto processo

clementino del diritto antico, oggi non pare più sostenibile»137

.

5.4.2 L’ATTO AMMINISTRATIVO

Una volta fissati i principi generali del diritto amministrativo, si procederà ad analizzare

come, nel Codice, tali principi siano stati recepiti nell’ambito amministrativo e in che misura. Prima

di fare ciò, si cercherà di definire e capire cosa si intende, nell’Ordinamento della Chiesa, per atto

amministrativo:

«gli atti amministrativi, in quanto tali, sono manifestazioni di volontà da parte di una persona o di un

Collegio che, in forza di un Ufficio ecclesiastico o di una Delega, è titolare della potestà di governo

esecutiva»138

.

Gli elementi chiave di questa definizione sono, in ordine cronologico: a) soggetto titolare

(personale o collegiale) della potestà esecutiva139

, b) la manifestazione (concretizzazione) di una

volontà. Questi due elementi, come del resto è intuibile, sono l’uno oggettivo, l’altro soggettivo:

essi entrano in gioco a partire dal momento del conferimento di un determinato ufficio. Tale

titolarità, modificando lo statuto giuridico personale (non quello fondamentale), pone una persona

in una relazione asimmetrica rispetto ad altri soggetti/persone140

. Tuttavia, questa asimmetria non

deve essere, affatto, espressione di una superiorità, così come fu intesa e tramandata nei/dai

commenti al Codice del 1917141

– tipica, tra l’altro, della concezione ecclesiologica-istituzionale

della societas inæqualis142

– in quanto, oggi, il can. 208 del CIC del 1983 ha ben messo in evidenza

la sostanziale uguaglianza di tutti i fedeli. Ciò che si vuol far notare è che, la scelta del titolare della

potestà esecutiva è tutt’altro che irrilevante, specie in relazione agli atti amministrativi che, in forza

dell’ufficio, sarà chiamato ad emettere143

.

137

J. HERRANZ, Studi, 134-135. 138

P. VALDRINI, La decisione di governo nella Chiesa, 622-623. 139

In virtù di un ufficio o per delega oggettivamente riscontrabile. 140

«Quando un soggetto riceve un Ufficio o una Delega, il suo rapporto con le altre persone, sul piano giuridico,

cambia. S’instaura un rapporto d’ineguaglianza: uno comanda l’altro obbedisce; uno ha il diritto e, persino, il dovere di

decidere, l’altro ha il dovere di obbedire». P. VALDRINI, La decisione di governo nella Chiesa, 624. 141

Cf. G. MICHIELS, Normæ generales Iuris canonici. Commentarius libri I Codicis, I, Fornaci, 1949, 504. 142

M. NACCI, Origini, sviluppi e caratteri del Jus publicum ecclesiasticum, 15-21. 143

È rilevante soprattutto in quanto tali atti andranno ad incidere sulla concreta vita dei fedeli, modificandone lo statuto

giuridico personale. «Tali Atti, anche quelli conseguenti ad una necessaria richiesta, come nel caso dei Rescritti,

producono i loro effetti direttamente o indirettamente nella sfera giuridica delle persone andando ad incidere su di

essa». P. VALDRINI, La decisione di governo nella Chiesa, 623.

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Gli atti amministrativi, infatti, non godono di una sorta di “ex opere operato” sul modello

degli atti sacramentali quindi, in quanto fallibili, essi dipendono da numerosi fattori personali

(umani e spirituali); ecco perché sia nella Scrittura Sacra (1Tm 3, 1-13; Tt 1,7-16; Tt 2, 1-15) che

nell’Ordinamento canonico sono richieste alcune caratteristiche che rendono umanamente e

spiritualmente abile un fedele ad assolvere tale compito di capitale importanza nella vita della

Chiesa; si pensi al can. 1029 del CIC del 1983, il quale enumera gli elementi indispensabili per

un’ordinazione144

, da cui dipende145

secondo il can. 129 l’abilità alla potestà di giurisdizione.

«decidere e giudicare – cioè la Iurisdictio – nella Chiesa (ma non in essa soltanto) dipendono e

derivano – in realtà – da un munus/ministerium esercitato in aliis e non da una auctoritas/potestas

posseduta in proprio … senza che, in realtà, il ‘modo’ di attribuzione del munus/ministerium stesso

(Ordinazione sacra o no) faccia una concreta differenza quanto al suo esercizio. L’Ordine sacro,

infatti, quale ‘abilitazione ontologica’ all’esercizio della (sacra) potestas, si colloca – anche dal punto

di vista giuridico vigente – tra i requisiti soggettivi per la sua assunzione/esercizio ministeriale,

ponendosi pertanto a livello di ‘condizione’ e non di ‘costituzione’… come, d’altra parte, sarebbe – ci

si passi l’esempio bizzarro ma chiaro – per la necessità (soggettiva/ individuale/singolare) delle gambe

(=condizione) per un maratoneta (=costituzione). Allo stesso tempo occorre non scivolare nella pre-

comprensione (errata!) che vuole il funzionale come in qualche modo anti-ontologico: l’approccio

ontologico, infatti, non riguarda la ‘funzione’ in sé ma i suoi ‘presupposti’. La differenza tra cattolici e

riformati sul ‘ministero’ in connessione o meno al Sacramento dell’Ordine è palese: se il ministero è

funzione auto-referente ed auto-fondante rispetto alla comunità, allora ciascuna comunità ‘elegge’ (o

stabilisce in altro modo) ‘chi’ tra i suoi membri eserciti – anche temporaneamente ed a rotazione – tale

ministero/funzione (i Pastori delle diverse Chiese evangeliche e riformate); se, al contrario, il

ministero è funzione etero-fondata (quindi non auto-referente) rispetto alla comunità, l’accesso al

ministero dipende giustamente da ‘altro’: cattolicamente, il Sacramento – permanente – dell’Ordine

sacro»146

.

Questo richiamo alle qualità che rendono abile una persona a ricevere un ufficio

ecclesiastico147

, cui è annessa la potestà di governo, serve per comprendere una verità molto

semplice, ma che, con altrettanta semplicità, viene dimenticata: il soggetto titolare dell’ufficio ha

ricevuto l’autorità/potestà148

; ciò vuol dire che, se l’ha ricevuta, l’ha ricevuta in qualità di

amministratore, non come proprietario. Ora ciò che si chiede all’amministratore è che, serva – per

144

«1) sia eminente per fede salda, buoni costumi, pietà, zelo per le anime, saggezza, prudenza e virtù umane […]».

Can. 378 §1.1°. « […] hanno: fede integra, sono mossi da retta intenzione, posseggono la scienza debita, godono di

buona stima, sono di integri costumi e di provate virtù e sono dotati di tutte quelle altre qualità fisiche e psichiche

congruenti con l’ordine che deve essere ricevuto». Can. 1029. Il can. 1031 richiama inoltre una sufficiente maturità. 145

Volutamente si è usato il termine “dipende” e non “deriva” in quanto si rimanda alla riflessione teologica la

discussione sulla potestà di governo, che indiscussamente è di istituzione divina; discussa, invece, è la possibilità o

meglio, il grado di partecipazione che non trova altro riscontro nel Codice se non al can. 129 §2. 146

P. GHERRI, Bilancio canonistico, in P. GHERRI (a cura di), Decidere e giudicare nella Chiesa, 405. 147

Cf. can. 149. 148

«Nulla si perde in questa prospettiva neppure a livello ecclesiale, laddove non è discutibile che la funzione di

governo nella Chiesa non derivi affatto – democraticamente – dalla Comunità ma costituisca un espresso dono/carisma

dello Spirito Santo: il problema, infatti, non è di attribuzione (quindi: origine) ma di riconoscimento (quindi:

funzionalità). È infatti per fede ed in ragione della fede che la Comunità credente riconosce, accoglie ed asseconda il

ministero apostolico (=successione apostolica) ritenendolo il primo custode e garante del Depositum fidei … e ciò in

conformità alla natura stessa della Chiesa quale Comunità di fede, ben prima di qualunque sua configurazione

‘societaria’ (=istituzionalizzazione)». P. GHERRI, Bilancio canonistico, in P. GHERRI (a cura di), Decidere e giudicare

nella Chiesa, 410.

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tanto è sempre servo – secondo le disposizioni impartitegli (Tt 1,7; Lc 12,42) e, che, sia trovato, nel

servizio, fedele all’unica Autorità dalla quale ogni altra autorità discende (Rm 13, 1; Gv 19, 11).

Quello che si sta tentando di dire, con parole diverse, è che, si potrebbe facilmente cadere e

compiere un passaggio non ammissibile: il passaggio dall’“avere” autorità all’“essere” l’autorità149

.

«Giudici e governanti, in fondo, non fanno altro che ‘gestire’, pur assumendola anche in prima persona

come accade per i chierici nella Chiesa, una ‘posizione’ di indirizzo (nel senso della ‘norma’ come

direzione vera e propria di sviluppo intenzionale) che in realtà è – solo – una specifica ‘funzione’

comunque ‘affidata’ all’interno della società/comunità. Affidata ed accolta/riconosciuta, al tempo

stesso»150

.

La debita considerazione dell’elemento soggettivo e oggettivo, di cui si compone un atto

amministrativo, quindi, aiuta e predispone all’obbedienza, ovverosia alla capacità di accogliere

l’atto amministrativo e farlo proprio, in quanto espressione, manifestazione delle reali abilità

dell’autorità, chiamata ad usare la potestà affidatagli sempre e solo per il bene e la salvezza delle

anime. Tutto ciò, non toglie all’atto amministrativo le caratteristiche, pur essenziali, di imperatività

e unilateralità151

, ma dona allo stesso la necessaria ‘copertura’152

affinchè questo atto (di imperio)153

venga assunto e fatto proprio dal destinatario; se non altro perché il procedimento è corretto e colui

che lo ha emesso è degno di fede154

.

149

In questo senso si ricordi la leggenda secondo cui alle reclute Templari, al momento dell’iniziazione, per saggiare la

loro “obbedienza” (sottomissione), «secondo l’atto d’accusa e le confessioni dei Templari, si esigeva, al momento

dell’iniziazione, un triplice rinnegamento di Cristo ed un triplice sputo sulla Croce». Cf. in URL: ˂

http://www.fiammacanicatti.it/libri/I%20cavalieri%20Templari.pdf , (consultato, 25/09/2012). 150

P. GHERRI, Bilancio canonistico, in P. GHERRI (a cura di), Decidere e giudicare nella Chiesa, 402-403. 151

Neccesaria e fondamentale, nel caso in cui, ai destinatari mancasse (per varie motivazioni esterne o interne al

destinatario stesso) la possibilità, nel presente, di comprendere tale atto. 152

A titolo esemplificativo, qui, si consideri un assegno bancario da una parte, ‘formalmente’ perfetto – giacché emesso

nel pieno rispetto dei requisiti essenziali di cui all’art. 1 r. d. 1736/1933 – ma dall’altra, ‘materialmente’ imperfetto –

giacché non coperto da somme disponibili presso la banca – ad assolvere la funzione per cui la stessa legge lo

concepisce, ossia, quella di pagamento ‘a vista’, sostitutivo della moneta contante. Cf. A. SCIARRONE, La circolazione

del denaro: gli strumenti di pagamento, in AA. VV., Manuale di diritto commerciale, M. CIAN (a cura di), Torino, 2016,

149-156, in part. 150, 153. 153

«Esso serve a creare una situazione giuridica, modificarla o sopprimerla, ad imporre ad una persona o a più persone

di “essere” o di “fare”, a creare un nuovo oggetto giuridico nell’Ordinamento canonico che, pur non avendo il carattere

generale proprio della Legge, cioè essere vincolante erga omnes, obbliga comunque il destinatario o i destinatari

singolari. La decisione di governo, pertanto, è imperativa e unilaterale». P. VALDRINI, La decisione di governo nella

Chiesa, 623-624. 154

Si è dell’idea, infatti, che si debba tenere unite e bilanciate le concezioni di S. Tommaso – ove considera la Legge

come un atto della ragione: «ordinatio rationis ad bonum commune ab eo qui curam habet communitatis promulgata»

(TOMMASO D’ AQUINO, Summa Theologiæ, I-II, q. 90, a. 4, resp.) – e quella di Suarez – che considera la legge un atto di

autorità, insistendo sul carattere gerarchico dell’Atto promulgato: «commune præceptum, iustum ac stabile sufficienter

promulgatum» (F. SUÁREZ, Tractatus de Legibus ac de Deo legislatore in decem libros distributus, Conimbricæ, 1612,

1, I, Can. 12, 5) –. Entrambi gli autori tengono in debito conto anche l’altro elemento sul quale premono di meno. Le

scuole però, che da loro prendono le mosse, hanno finito per accantonare, ora l’uno, ora l’altro aspetto divenendo così,

in un certo senso, opposte e concorrenti. Cf. P. GHERRI (a cura di), Norme e regole nella vita e nel Diritto. Atti della

Giornata canonistica interdisciplinare, Città del Vaticano, 2009, 40-42; G. MICHIELS, Normæ generales Iuris canonici,

154; E. JOMBART, Le volontarisme de la Loi d’après Suárez, in Nouvelle Revue de Théologie, LIX (1932), 34-44; M.

BASTIT, Naissance de la Loi moderne. La pensée de la Loi de Saint Thomas à Suárez, Paris, 317; sul dibattito che ne è

scaturito si veda inoltre: L. DE LUCA, L’accettazione popolare della Legge canonica nel pensiero di Graziano e dei suoi

interpreti, in Studia gratiana, III (1955), 201; P. VALDRINI, La ricezione della Legge nel Diritto canonico. Pertinenza e

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183

Per tale motivo non basta che l’atto sia formalmente legittimo155

, esso deve esserlo anche

sostanzialmente156

.

«Discutere dell’importanza del contenuto dell’atto amministrativo consente di uscire da un punto di

vista fissato o concentrato sul rapporto gerarchico tra persone ineguali e di porre l’attenzione sul

carattere volontaristico dell’Atto in quanto manifestazione di volontà di una persona cui si deve

obbedire. L’Atto di governo, come esercizio di quella potestà con cui l’Autorità decide l’applicazione

della Legge o manifesta la sua volontà nel quadro della stessa, impone alle persone o alle Istituzioni di

eseguire quella decisione. Esso deve essere anche valutato per la sua efficacia e il suo significato

rispetto alla finalità della Chiesa che è quella di realizzare la salus animarum all’interno del dovere,

come società, di promuovere il bene comune delle comunità e garantire l’ordine pubblico»157

.

Per dare sostanza ad un atto amministrativo c’è bisogno, quindi, di conferirgli

ragionevolezza158

, ovverosia, di dare all’atto amministrativo la capacità di imporsi alla ragione

terza, non tanto e, non solo, per il fatto che sia stato emesso dall’autorità legittima e competente

attraverso le procedure previste159

, quanto piuttosto, per la presenza in esso di un’argomentazione

logica e consequenziale, capace di farsi carico della complessità della realtà che necessita sempre di

essere riordinata160

.

L’elemento che dona all’atto tale intrinseca razionalità è la motivazione161

. La motivazione è

un’argomentazione complessiva e coerente in cui il valore delle premesse garantisce il valore della

conclusione162

. In sintesi: le ragioni formali (come) e materiali (cosa) che donano ragionevolezza

all’atto non possono non far riferimento ad elementi non pertinenti.

«Qualificare una cosa come razionale significa farne una valutazione: significa dire che quelle su cui

poggia sono ragioni buone (di un certo tipo) e che essa soddisfa gli standard (di un certo tipo) che

deve soddisfare. Questi standard […] possono variare a seconda del campo, del contesto o del

tempo»163

.

significato, in Diritto e religioni, V (2010), 148, nota 26; M. C. RUSCAZIO, Receptio Legis. Sviluppo storico, profili

ecclesiologici, realtà giuridica, Napoli, 2011. 155

Cf. J. HERRANZ, Il principio di legalità nell’esercizio della potestà di governo, 113-139. P. MONETA, Il controllo

giurisdizionale sugli Atti dell’Autorità amministrativa nell’Ordinamento canonico. I. Profili di Diritto sostanziale,

Milano, 1973, 117-139. 156

«Il Diritto vuole che la parola detta o pronunciata diventi un Atto amministrativo giuridicamente perfetto per ciò che

riguarda non solo la forma ma anche il contenuto la cui importanza deriva dal fatto che esprime il desiderio e la volontà

del titolare della potestà di governo». P. VALDRINI, La decisione di governo nella Chiesa, 624. 157

Ivi, 625. 158

«Nella stessa prospettiva di necessaria ragionevolezza si pongono anche i fondamenti delle varie modalità

‘dialogiche’ adottate in modo specifico in ambito giuridico e, specialmente, giudiziale laddove attraverso la

collaborazione (almeno funzionalmente dialogica) di tutti i partecipanti si cerca di delineare – o anche (solo)

selezionare/eleggere – una “razionalità possibile” – poiché sovra-individuale – che possa sostenere a sufficienza la

decisione finale adottata in modo potestativo dall’Autorità competente». P. GHERRI, Bilancio canonistico, in P. GHERRI

(a cura di), Decidere e giudicare nella Chiesa, 401. 159

In quanto questo potrebbe anche essere veicolo di negazione e sopraffazione di diritti tutelati e difesi. 160

«Ciò che nell’oggi può essere voluto e certo in sé, potrebbe anche non rimanere stabile nel tempo se ed in quanto

non ‘integri’ a sufficienza un/il futuro nella valutazione posta alla base della decisione stessa». P. GHERRI, Bilancio

canonistico, in P. GHERRI (a cura di), Decidere e giudicare nella Chiesa, 401. 161

Cf. cann. 51 e 57 § 3. 162

Cf. G. GIORGIO, La via del comprendere, 272-274. 163

R. NOZIK, La natura della razionalità, Milano, 1995, 139.

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Le motivazioni, quindi, anche nell’atto amministrativo, si rendono necessarie, al fine di

realizzare/ricostituire una possibile e vera relazione di obbedienza canonica164

che rispetti sia

l’Istituzione sia il singolo fedele165

. Le motivazioni però, devono essere pertinenti al determinato

quesito, fatto o atto che, assumendo rilevanza giuridico-amministrativa, necessita di risposta. Per

cui, prima di emettere un qualsiasi atto amministrativo, così come prevede il CIC del 1983, bisogna

anteporre ad esso la fase cosiddetta istruttoria, nella quale devono essere considerati tutti gli

elementi giuridicamente, e, pastoralmente rilevanti. È la fase istruttoria quindi, che via via matura

l’atto da emettere e intimare166: tale istruttoria o momento fondante l’atto amministrativo dovrebbe

godere nell’Ordinamento canonico di una tutela maggiore; infatti, essa, allo stato attuale sembra

lasciare troppa discrezionalità all’autorità che, in ogni caso può discostarsi dal consiglio, anche se

concorde167

, degli organi che, dal Codice sono previsti come aiuti nell’attività di governo. Si

conclude questo breve segmento su cosa sia e come nasca l’atto amministrativo, con una

attestazione che si condivide pienamente e che ci consente di fare l’ultimo passo, per poi trarre le

conclusioni di tutto questo percorso di ricerca:

«questo è uno snodo cruciale nel momento della fase decisionale propria dell’Ordinamento canonico

che può legittimamente essere valutato come una debolezza del CIC del 1983 nel garantire una

protezione dell’Istituzione e delle persone. Richiederebbe, quindi, lo sviluppo di Procedure a tutela

della ragionevolezza e della giustizia del contenuto delle decisioni di governo. […].

1) Anzitutto, auspicheremmo un senso ed un esercizio di iurisdictio che sia più attento alla formazione

del contenuto ragionevole e giusto dell’Atto e non solo all’imperatività del decidere. Sarebbe

necessario dimostrare che il Diritto canonico ha ancora nella sua mens e nella sua sistematica una

visione ancorata al dato tradizionale dell’esercizio della iurisdictio.

2) Di conseguenza, il carattere gerarchico della manifestazione di volontà, pur essendo una qualifica e

un momento importante del Procedimento decisionale, ovviamente insuperabile, non potrà mai

diventare il fine del decidere.

3) Infine, ci augureremmo, tanto ad un livello più generico quanto ad uno più specifico, lo sviluppo di

Procedimenti per gli Atti amministrativi di maggior rilievo. Del resto, questo è già stato fatto dal CIC

del 1983 laddove, senza impedire il giudizio e la valutazione sul “da farsi” da parte degli stessi Pastori,

garantisce la giustizia del contenuto della decisione ed il rispetto dei diritti delle persone. In questo

modo sarebbe garantita la partecipazione sia di persone istituzionalmente incaricate come, ad esempio,

164

«Solo questa comunione ristabilita e giustificata attraverso la motivazione della decisione giudiziale può condurre

nella compagine ecclesiale ad una autentica pace e concordia. È quanto significa il noto principio: Opus iustitiae pax. Il

faticoso ristabilimento della giustizia è destinato a ricostruire giuste e ordinate relazioni tra i fedeli e tra loro e

l’Autorità ecclesiastica». BENEDICTUS PP. XVI, Discorso del Santo Padre benedetto XVI ai partecipanti alla Plenaria

del Supremo Tribunale della Segnatura Apostolica, 4 febbraio 2011, (corsivo nostro). 165

«Nel secondo caso, si tratta di creare e di sviluppare Procedimenti atti a garantire un contenuto dell’Atto che sia

rispettoso tanto dell’Istituzione (bene comune) quanto delle persone (bene privato)». P. VALDRINI, La decisione di

governo nella Chiesa, 630. 166

Cf. cann. 50-51. Questi due soli canoni sono una risposta del tutto insufficiente all’esigenza espressa nei Principia,

ovverosia il desiderio di tutelare maggiormente (attraverso organi ad esso dedicati) i diritti dei fedeli. La ragionevolezza

e la giustizia di un atto, infatti, dovrebbero essere elementi costitutivi e necessari sia per la difesa dei diritti sia per il

coinvolgimento dei fedeli alla responsabilità comune. 167

Cf. can. 127 §2, 2°.

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i Collegi, sia di persone che non lo sono, il tutto a garanzia della ragionevolezza e giustizia dell’Atto

che, in quanto posto da un titolare della potestà ecclesiastica, deve essere perfetto»168

.

5.5 I RICORSI AMMINISTRATIVI: LIVELLI DIVERSI DI ESPRESSIONE

DELL’OBBEDIENZA CANONICA169

.

5.5.1 PREMESSA

Prima di riflettere sul momento ‘patologico’ del diritto amministrativo, si vuole richiamare

ciò che, nel corso di questa ricerca, si è andato man mano chiarendo, e che, costituisce base

imprescindibile per affrontare l’ultimo passo di questo studio.

È stato puntualizzato fin dall’introduzione che: a) la Chiesa, corpo di Cristo, ha una finalità

(che costituisce anche la sua natura) missionaria che si sintetizza nel dovere/diritto di annunciare

l’Evangelo a tutte le nazioni170

; b) tale dovere/diritto investe, secondo la propria e specifica

condizione, ogni fedele171

; c) ogni fedele pertanto, deve necessariamente sentirsi corresponsabile di

questa missione di salvezza; corresponsabile, significa infatti, essere chiamato, secondo il proprio

168

P. VALDRINI, La decisione di governo nella Chiesa, 635-636. 169

«In una Chiesa che è Popolo di Dio, dove la dignità fontale è quella del Battesimo ed in cui il ministeriale

Sacerdotium è accolto e vissuto come munus perché i fratelli raggiungono la perfezione della propria esistenza

sacerdotale, profetica e regale (Ef 4, 12) secondo l’insegnamento di S. Agostino: “Vobis enim sum Episcopus, vobiscum

sum Christianus”, l’applicazione concreta dell’irrinunciabile Principio gerarchico non può più essere semplicemente

‘autoritativa’ pretendendo soggezione ad una Potestà sacrale ricevuta (direttamente) da Dio, ma deve configurarsi come

autorevole Discernimento teologico e spirituale, capace di indicare la via certa per la vita della comunità di fede […].

Un tale fondamento del munus regendi, se nulla toglie all’efficacia della potestà ecclesiale di Governo, non le permette

tuttavia di esprimersi in qualunque modo – né in modi qualunque – ma esige un vero atteggiamento di

corresponsabilità ecclesiale e ministeriale che non si accontenti della MERA ESECUZIONE di ‘comandi’ ricevuti

autoritativamente, ma sappia rendere ciascuno e tutti pienamente e responsabilmente partecipi dei bisogni, delle

esigenze, delle risorse e delle prospettive della Comunità ecclesiale.

Ne deriva concretamente, a riguardo degli Atti amministrativi singolari, la possibilità/eventualità di non

sapersi/potersi/doversi necessariamente riconoscere nelle puntuali scelte di Governo dei Superiori, ma di potere – o

addirittura dovere – offrir loro ulteriori Elementi valutativi per un miglior Discernimento delle situazioni e circostanze,

in modo tale da garantire il pieno rispetto delle legittime esigenze e neccessità anche dei singoli Fedeli, secondo lo

spirito più autentico della normatività canonica ‘sempre’ pronta a superare quanto possa ostacolare un ‘miglior bene’ di

qualcuno». P. GHERRI, Diritto amministrativo canonico: Strutture e strumenti, 134. 170

«È con gioia e conforto che noi abbiamo inteso, al termine della grande assemblea dell’ottobre 1974, queste parole

luminose: “Vogliamo nuovamente confermare che il mandato di evangelizzare tutti gli uomini costituisce la missione

essenziale della Chiesa”, compito e missione che i vasti e profondi mutamenti della società attuale non rendono meno

urgenti. Evangelizzare, infatti, è la Grazia e la vocazione propria della Chiesa, la sua identità più profonda». PAULUS

PP.VI, Adhoratio apostolica de evangelizatione in mundo huis temporis: Evangelii Nuntiandi, 8 decembris 1975, in

AAS, LXVIII (1976), n. 14, 13. «L’evangelizzazione è compito della Chiesa. Ma questo soggetto dell’evangelizzazione

è ben più di una istituzione organica e gerarchica, poiché anzitutto è un popolo in cammino verso Dio. Si tratta

certamente di un mistero che affonda le sue radici nella Trinità, ma che ha la sua concretezza storica in un popolo

pellegrino ed evangelizzatore, che trascende sempre ogni pur necessaria espressione istituzionale». FRANCISCUS PP.,

Adhoratio apostolica: Evangelii gaudium, 24 novembris 2013, in AAS, CV (2013), 1019-1137, n. 111, 1066. 171

Cf. can. 204.

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grado di scienza, competenza e prestigio, a sostenere/aiutare l’esercizio d’autorità172

a viversi nella

giustizia, e, a viversi sempre orientato al bene della Chiesa173

; d) l’esatto equilibrio tra Istituzione da

un lato, e, fedele/persona174

dall’altro, (cor)risponde al concetto relazionale, “aggiornato” di

obbedienza canonica, vista come il supremo atto della libertà dell’uomo che, in modo consapevole,

libero, responsabile e proprio, decide decidendosi all’accoglimento delle disposizioni di chi, nella

Chiesa è chiamato, nella fede e con la ragione, ad ordinare, vigilare sulla vita sociale della comunità

dei fedeli.

«Ne deriva non tanto la caduta del Principio gerarchico a favore di una sorta di democratismo

populista ed egualitario di fatto irresponsabile, quanto piuttosto una rinnovata concezione

dell’OBBEDIENZA ECCLESIALE interpretata non più in chiave ‘ascetica’ (pura sottomissione all’autorità

costituita, in quanto rappresentante istituzionale di Dio stesso e della sua volontà) ma come

‘RESPONSABILITÀ ORGANICA’ in cui ciascuno – suo modo et sua parte –, in quanto ‘membro vivo’ del

Corpo di Cristo che è la Chiesa (Ef 4, 25; 5, 30), contribuisce con tutta la propria esistenza alla

Missione evangelica ed alla crescita del Regno di Dio già su questa terra»175

.

Tali elementi permettono di impostare in modo conforme al magistero conciliare quest’ultimo

passaggio sul momento c.d. patologico della relazione canonica176

, in modo specifico riguardo alle

decisioni di natura amministrativa; questa premessa, infatti, ben ci introduce – attraverso la chiave

ermeneutica codiciale – nel pensiero del supremo legislatore, il quale fin da subito, nella sezione

relativa ai ricorsi amministrativi, invita/richiama i fedeli a risolvere i conflitti attraverso mezzi di

natura evangelica o, se non altro, attraverso mezzi che evitino la vera e propria contestazione o

conflitto177

.

172

«Ciò nonostante, come emerso a più riprese durante l’intero percorso, il binomio auctoritas-potestas continua a

rimanere pressoché irrinunciato nelle teorizzazioni anche contemporanee del Diritto, cedendo spesso a vere e proprie assolutizzazioni rispetto all’altro estremo dello stesso ‘pendolo’ concettuale-fondativo (del Diritto stesso) costituito

dalla sostanziale corresponsabilità dell’intero contesto socio-istituzionale di riferimento … senza che l’essere “societas” o “communitas”, di natura semplicemente ‘umana’ o religiosa, introduca reali differenze né in linea teorica

né – tanto meno – in quella pratica». P. GHERRI, Bilancio canonistico, in P. GHERRI (a cura di), Decidere e giudicare

nella Chiesa, 402. 173

Cf. can. 212. 174

«La persona, cioè, non è il “collo di bottiglia” che rallenta ed ‘ostacola’ il regolare ed ottimale fluire della realtà

secondo verità, logica, giustizia, carità, ecc.. La persona non è né de-plemento, né com-plemento, né sup-plemento, di una generica e – solo – teorica ‘attività’

decisionale, poiché il decidere non è mai un semplice “facere” (demandabile anche in buona parte ad una ‘macchina’

adeguatamente ‘istruita’ ed ‘istruibile’ – pure autonomamente –) ma costituisce e realizza sempre un vero e proprio

“agere”… mai affidabile a nessuna ‘regola’ o routine, per quanto sofisticata, né ad una – non semplice – “intelligenza

artificiale”… che rimarrebbe solo “calcolo”». P. GHERRI, Bilancio canonistico, in P. GHERRI (a cura di), Decidere e

giudicare nella Chiesa, 396-397. 175

P. GHERRI, Diritto amministrativo canonico: Strutture e Strumenti, 133. 176

«Una delle novità pressocchè assolute del Codice latino del 1983 può essere riconosciuta senza troppa fatica nella

sensibilità espressa da almeno due dei dieci Principi che hanno guidato la Revisione del CIC pio-benedettino:

definizione e tutela dei diritti delle persone (sesto Principio) e procedura di tutela dei diritti soggettivi (settimo

Principio), all’interno di una concezione del Diritto canonico maggiormente vicina alla ‘legalità’ che non alla Morale

(primo Principio)». Ivi, 130. 177

Cf. can. 1733.

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«La finalità/natura missionaria della compagine ecclesiale, il suo principio aggregativo comunitario, il

suo governo come corresponsabilità e discernimento, il bilanciamento tra l’istanza istituzionale e

quella personalistica, offrono la possibilità d’impostare in modo radicalmente nuovo, per quanto non

meno efficace, la gestione della c.d. patologia dell’agire giuridico ecclesiale.

Si tratta, in effetti, di riconoscere nell’in-efficacia dell’agire giuridico ecclesiale non tanto, né

principalmente, la violazione di norme oggettive o di diritti soggettivi – di cui chiedere tutela e/o

soddisfacimento – quanto piuttosto di prendere atto della non corrispondenza tra atto/agire giuridico e

realtà concreta, dovuta ad una non sufficiente considerazione di tutti gli elementi (soggetti, oggetti,

circostanze) coinvolti. Nella Chiesa – comunità di fede – un tal genere di problematiche non può

essere immediatamente indirizzato nell’alveo contenzioso, favorendo la contrapposizione di ‘diritti’ ed

‘interessi’ anziché la risposta possibile alle concrete necessità delle persone (singole) o dell’Istituzione

come tale nel perseguimento dello scopo/meta comune»178

.

5.5.2 I LIVELLI DELLA PROCEDURA AMMINISTRATIVA

Una volta assodato il livello base, quello richiamato dal can. 1733, si passerà ad analizzare e a

riflettere sui successivi livelli di procedura amministrativa previsti dal Codice179

. Essi

sostanzialmente si risolvono in altri tre livelli specifici: 1) la richiesta di revoca o correzione al suo

autore180

; 2) il ricorso gerarchico181

; 3) il contenzioso amministrativo182

.

In realtà solo con il terzo livello ci si troverà dinnanzi ad un vero e proprio giudizio

contenzioso183

che, comunque, non andrà ad interessarsi del merito dell’atto, ma della sola sua

legittimità. Gli altri due livelli, il primo e il secondo possono essere visti come espressione di una

vera e propria verifica a posteriori dell’inefficacia184

dell’atto/agire giuridico:

«l’espletamento delle prime due fasi della Procedura (Remostratio e Ricorso gerarchico) può

convenientemente essere inquadrato come verifica a posteriori dell’inefficacia dell’atto/agire

giuridico proprio attraverso il coinvolgimento anche formale di un soggetto intensamente coinvolto

178

P. GHERRI, Corresponsabilità e Diritto: il Diritto amministrativo, in P. GHERRI (a cura di), Responsabilità ecclesiale,

corresponsabilità e rappresentanza. Atti della IV Giornata Canonistica Interdisciplinare, Città del Vaticano, 2010, 151. 179

«Allo stesso tempo le esigenze di certezza del Diritto ed il bene pubblico pongono tutti e ciascuno nella necessità di

assumersi personalmente e formalmente (in modo, cioè, ‘pubblico’) le PROPRIE RESPONSABILITÀ – tanto nel decidere

che nel ‘resistere’ alle Decisioni – attivando in tal modo quei livelli superiori di Discernimento che l’Ordinamento ha

previsto e predisposto per le questioni concretamente più complesse, adottando anche FORMALITÀ STRAORDINARIE

(come quelle processuali) perché le DECISIONI che riguardano la Vita dei singoli possano godere della necessaria

CERTEZZA MORALE ed essere ragionevolmente accettabili da parte degli stessi, anche contro il proprio ‘interesse’ di

parte in causa quando sia evidente la reale portata ‘pastorale/ecclesiale’ della decisione stessa». P. GHERRI, Diritto

amministrativo canonico: Strutture e Strumenti, 134. 180

Cf. can. 1734. 181

Cf. can. 1737. 182

Il terzo livello, che richiama il Contenzioso amministrativo, in realtà, di amministrativo ha solo il nome: «sarà

soltanto il terzo livello, quello espressamente giudiziale, ad assumere le coordinate del vero contenzioso, quando ci si

rivolgerà al Giudice (terzo per antonomasia) chiedendogli di riconoscere e definire il reale status quæstionis della

situazione, pronunciando il Diritto tra le parti secondo quanto strettamente disposto dalla Legge». P. GHERRI,

Corresponsabilità e Diritto: il Diritto amministrativo, in P. GHERRI (a cura di), Responsabilità ecclesiale,

corresponsabilità e rappresentanza, 151. 183

«Sarà soltanto il terzo livello, quello espressamente giudiziale, ad assumere le coordinate del vero contenzioso,

quando ci si rivolgerà al Giudice (terzo per antonomasia) chiedendogli di riconoscere e definire il reale status

quæstionis della situazione, pronunciando il Diritto tra le parti secondo quanto strettamente disposto dalla Legge».

Ibidem. 184

Sulla specifica questione dell’efficacia dell’agire giuridico, si rimanda al capitolo 3°, paragrafo 3.4, di questo studio.

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(spesso il destinatario) e precedentemente trascurato nelle proprie ragioni; gli apporti del metodo

costruttivo anche in queste fasi appaiono decisivi per delineare correttamente tutti gli elementi

coinvolti e le loro reciproche relazioni, permettendo la ri-costruzione dell’atto/agire giuridico in

questione per una reale efficacia di quanto posto in essere»185

.

Si passa ad analizzare, ora, come l’autorità e il fedele dovrebbero186

entrare in relazione,

qualora si verifichi la situazione prospettata o prevista dal can. 1733187

(il sentirsi onerato da un

decreto amministrativo). Prima di far questo, però, bisogna ricordare ancora che, l’approccio a tali

livelli ‘superiori’ (o ‘inferiori’, dipende dalla soggettiva prospettiva) di procedura amministrativa

non può essere che visto, e, pensato, attraverso un’ottica di ‘corresponsabilità’, e non più di

contrapposizione, conflittualità, rivendicazione o disobbedienza; tale punto di vista necessita di una

vera e propria conversione in ambito giuridico, infatti,

«un approccio di questo tipo cambia però radicalmente l’intera prospettiva della materia che non

può/deve più essere accostata sotto l’angolazione della conflittualità o della rivendicazione o della

disobbedienza (in sé sempre riprovevoli), ma del supporto istituzionale ‘a posteriori’ alle forme di

decisionalità concretamente più complesse, all’interno delle quali il ‘gioco delle parti’ e dei ruoli offre

fattori ed elementi di discernimento normalmente inaccessibili al singolo»188

.

Bisognerà tener presente inoltre che, a nessun fedele è concesso ricorrere all’autorità

superiore di colui che ha emesso il decreto senza aver chiesto, per iscritto, alla stessa, la revoca o la

correzione del decreto stesso189

. Lo stesso principio viene mutuato per il relativo ricorso al Supremo

Tribunale della Segnatura Apostolica, ovverosia, bisognerà aver espletato l’intero iter del Ricorso

Gerarchico190

. Questa obbligatorietà di passaggi sembra, non solo, conforme all’ottica di

corresponsabilità sopra ampiamente richiamata191

, ma per di più, sembra voler respingere, allontare

185

P. GHERRI, Corresponsabilità e Diritto: il Diritto amministrativo, in P. GHERRI (a cura di), Responsabilità ecclesiale,

corresponsabilità e rappresentanza, 152. 186

Usiamo il condizionale in quanto nella prassi concreta, la nuova impostazione della relazione giuridico-ecclesiale,

voluta ed espressa dal Codice, trova ancora resistenze, specie in coloro che hanno come eredità di formazione, l’antica e

ormai superata impostazione gerarcologica. In questo senso: «muta radicalmente (evolve) il concetto di “PATOLOGIA”

degli ATTI AMMINISTRATIVI che non riguarda più soltanto l’ATTO come tale nei propri DIFETTI TECNICI imputabili in

massima parte all’Autorità che li emette (INESISTENZA, NULLITÀ, INVALIDITÀ, RESCINDIBILITÀ, INEFFICACIA), ma la

globalità del loro porsi effettivo nella vita dei Fedeli ai quali è oggi riconosciuto un ruolo attivo non tanto nella loro

‘RECEZIONE’ (cui sono tenuti davanti alla Potestà di Governo) quanto piuttosto alla loro stessa FORMULAZIONE, cui

possono ‘partecipare’ – spesso soltanto – in seconda battuta. La norma fondamentale degli ATTI AMMINISTRATIVI,

d’altra parte, colloca proprio all’origine degli stessi l’apporto ad validitatem degli interessati (can. 50)». P. GHERRI,

Diritto amministrativo canonico: Strutture e Strumenti, 131. 187

A proposito del valore fondativo e programmatico di tale norma – interessante anche per il fatto che non menzioni

termini specifici come ‘diritti’, ‘della Persona’, ‘soggettivi’ – si veda: Ivi, 135-136. 188

Ivi, 134. Cf. P. GHERRI, “Decidere e giudicare nella Chiesa”, in Apollinaris, LXXXIV (2011), 79-80. 189

Cf. can. 1734 §1. 190

IOANNES PAULUS PP. II, Cost. Ap., De Romana Curia: Pastor Bonus, 28 iunii 1988, in AAS, LXXX (1988), 841-912,

art. 123. 191

«L’ottica è innovativa poiché si tratta di non considerare più l’Atto di governo come ‘perfetto’ (cioè completo ed

adatto a conseguire i propri scopi) con la sua sola emanazione e notifica ad normam Iuris – come avviene per una

decisione giudiziale/aria –, ma anche attraverso l’eventuale – successivo – apporto volontario (poiché non

specificamente richiesto) del suo destinatario». P. GHERRI, “Decidere e giudicare nella Chiesa”, in Apollinaris,

LXXXIV (2011), 79.

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dall’interno dell’Ordinamento della Chiesa, l’idea stessa di conflittualità192

che non si addice, per

sua natura, al fedele di Cristo.

L’intervento del destinatario dell’atto – anche se volto alla modifica, o, alla revoca dell’atto

stesso – non può, e, non deve qualificarsi nei termini di una disobbedienza canonica – cosa che

farebbe sprofondare, nuovamente, il ricorso amministrativo, nell’idea di conflitto, riportando alla

memoria l’idea negativa/falsa del termine obbedienza, meglio qualificabile, in questo senso, come

sottomissione – ma piuttosto, nei termini di offerta di elementi di conoscenza e valutazione di fatti e

circostanze ulteriori. Tale offerta permette all’autorità stessa di completare la sua visione delle/sulle

cose che, viceversa risulterebbe mancante, qualora venisse meno il punto di vista del ‘destinatario’;

ciò è confermato dal principio, espresso in una norma specifica193, secondo cui l’autorità è chiamata

non solo, a ricercare le notizie e le prove necessarie, ma altresì, ad ascoltare (in un tempo

antecedente l’atto stesso) coloro i cui diritti potrebbero essere lesi.

«L’intervento, infatti, del destinatario che – dopo la Notifica – ‘offre’ nuovi/ulteriori elementi di

conoscenza e valutazione di fatti e circostanze in precedenza non adeguatamente considerate dal

decidente permette di rivedere l’Atto stesso conferendogli in seconda battuta l’efficacia prima carente

senza che, in tal modo, si attivi un contrasto istituzionale né l’Atto come tale sia posto in vera

discussione. L’Autorità di governo ecclesiale che sapesse riconoscere nei nuovi elementi conoscitivi e

valutativi fornitigli dal destinatario dell’Atto la necessità di operare un diverso giudizio sulla realtà

sottoposta alla sua decisione potrebbe così mutare giudizio e relativa decisione al fine di non incorrere

in un vero e proprio ‘errore’ (di valutazione e giudizio)»194

.

Si cercherà ora di analizzare, per ordine, i diversi livelli di ricorso amministrativo possibili nel

caso in cui ‘qualcuno’ – volendo usare il termine generalissimo del canone 1733 – si ritenga onerato

da un decreto. Lo scopo di questo passaggio, però, è mettere in rilievo, attraverso ciò che abbiamo

definito essere la relazione di obbedienza canonica – ma che con altri termini195

è stata definita

autotutela amministrativa196

– che l’autorità e il fedele sono chiamati entrambi a confrontarsi tra

192

Tale conflittualità trova spazio nella visione, di tali procedure amministrative, in chiave contenziosa: cf. J. MIRAS –

J. CANOSA – E. BAURA, Compendio di Diritto amministrativo canonico, (coll. Subsidia canonica), trad. A. PERLASCA, 2

ed. aggiornata, Roma, 2009, 335. 193

Cf. can. 50. 194

P. GHERRI, “Decidere e giudicare nella Chiesa”, in Apollinaris, LXXXIV (2011), 80. 195

«Autotutela che si realizza attraverso il volontario apporto conoscitivo-valutativo del destinatario della Decisione

stessa che interviene attraverso un’istanza di ‘verifica a posteriori’ dell’efficacia della Decisione assunta ma ricusata.

[…]. Per quanto ciò appaia difforme rispetto alla teoria sostanziale dell’Atto amministrativo canonico come espressa

dalla dottrina (e recepita dal Legislatore canonico), il suo fondamento risulta non di meno di planare evidenza nella

necessità – anche legale – che la Decisione di governo ecclesiale sia ad ogni buon conto e fine ‘adeguatamente

motivata’ così da risultare condivisibile ed ottenere l’accoglienza ed esecuzione da parte del suo destinatario (cf. can

51)». Ivi, 79. 196

Di chiara matrice civilistica; ciononostante «proprio la strutturale non-specialità del diritto amministrativo canonico

rispetto alla generalità dell’Ordinamento ecclesiale – anzi: l’identificazione quasi perfetta dell’uno nell’altro […] – pone

il primo e maggiore ostacolo all’utilizzo amministrativistico canonico di modelli e categorie di origine statalistica, per

quanto singoli Istituti giuridici soprattutto “tecnici” siano rintracciabili in entrambi gli ambiti caratterizzandosi in modo

pressoché identico, almeno dal punto di vista funzionale». Cf. P. GHERRI, Il diritto amministrativo della Chiesa

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190

loro. Se questo confronto non dovesse bastare, ci si potrà rivolgere (evangelicamente, cf. Mt 18, 15)

all’autorità ‘superiore’ di chi ha emesso l’atto. L’obbedienza canonica vera e propria infatti è

partecipazione, condivisione, assunzione, nella fede, di responsabilità. Tale obbedienza è chiara,

autentica espressione del quadro concettuale nuovo derivante dalla visione amministrativa,

propriamente denominata, autotutela amministrativa, in cui Autorità e fedele concorrono, seppur

con azioni formali di contrasto, alla ricerca del bene e del giusto.

In questo senso, ovverosia, nella comune ricerca della giustizia – secondo l’ottica della

corresponsabilità e della comunione, appartenente sia all’autorità che al fedele – è da interpretarsi il

canone fondamentale197

che apre concretamente, nel Codice, la trattazione delle procedure da

ritenersi in caso di ricorso amministrativo. Il can. 1733 CIC del 1983, infatti, focalizza la sua

attenzione sulla possibilità di ingiustizia, identificando nella stessa, l’unica ragione/motivazione che

permette il ricorso gerarchico, più opportunamente denominato “Confronto istituzionale col

superiore ecclesiale”. Tale ingiustizia, inoltre, non fa nessun riferimento specifico a “diritti

soggettivi”, “interessi legittimi”, ecc., essa fa riferimento ad un unico criterio, quello soggettivo, che

da solo è sufficiente – equilibrato dal principio di corresponsabilità198

– per richiedere il “confronto

istituzionale”199

.

«Nella stessa linea il can. 1737 presentando direttamente il Ricorso (gerarchico) puntualizza che esso

possa darsi “propter quodlibet iustum motivum” indicando proprio nella ‘in-giustizia’ la ragione del

CONFRONTO ISTITUZIONALE col SUPERIORE ECCLESIALE.

Espressione eminente di Personalismo è anche quella utilizzata per indicare l’obiectum quæstionis:

“gravatum se putet”, dove tanto l’aggettivo (gravatum) che il verbo (puto-as) lasciano pieno spazio

alla dimensione e portata ‘soggettiva’ della PERCEZIONE DI ATTI/FATTI. Ciò che il Canone individua

come ‘elemento di contesa’ non è affatto la VIOLAZIONE di un ‘DIRITTO SOGGETTIVO’ o di un

‘INTERESSE LEGITTIMO’ ma la percezione soggettiva di un aggravio della propria condizione

esistenziale!»200

.

cattolica da un punto di vista di dirito canonico, in AA. VV., Il diritto amministrativo tra ordinamenti civili e

ordinamento canonico. Prospettive e limiti della comparazione, M. DE BENEDETTO (a cura di), Torino, 2016, 93-94. 197

Cf. can. 1733. 198

«Qualificando a questi livelli l’eventuale ‘ascesi’ dell’autentica ‘obbedienza’» ancora «solo un’ACCOGLIENZA

RESPONSABILE offre garanzie di VERA OBBEDIENZA». P. GHERRI, Diritto amministrativo canonico: Strutture e

Strumenti, nota 27, 137-137. 199

Non bisogna dimenticare che questa ampia possibilità di ricorrere al “confronto istituzionale” viene, per così dire,

equilibrata e limitata dall’invito a che tali questioni vengano, in via preferenziale, risolte “senza contesa”, “di comune

accordo”, attraverso “un’equa soluzione”. Questa indicazione è una vera e propria richiesta/chiamata alla responsabilità

comune dei fedeli. In questo senso si veda: M. ARROBA CONDE, Canon 1733, in A. BELLOCH POVEDA (a cura di),

Código de Derecho canónico: edición bilingüe fuentes y comentarios de todos los cánones, Valencia, 1994, 743. 200

P. GHERRI, Diritto amministrativo canonico: Strutture e Strumenti, 136.

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5.5.2.1 Primo livello della procedura amministrativa201

: confronto con l’autorità che ha emesso

l’atto (can. 1734)

Sulla sostanza e la coerenza di tale livello rispetto ai principi dell’Ordinamento canonico, ci si

è già ampiamente dilungati in precedenza202

, tuttavia, bisogna ancora specificare che, del tutto

discutibile resta la posizione di chi riduce tale livello di procedura amministrativa a semplice

avvertimento dell’autorità di una concreta intenzione di ricorso, così come farebbe pensare, a prima

vista, la triste espressione usata nel Compendio di Diritto amministrativo canonico, riguardo alla

c.d. Remostratio:

«soprattutto quella di avvertire l’autorità ecclesiastica che c’è qualcuno che si ritiene onerato dall’Atto

amministrativo emesso e ha intenzione di impugnarlo, per modo che essa possa riconsiderare la

propria decisione e scegliere di confermarla, affrontando quindi il Ricorso, oppure di revocarla o

modificarla»203

.

La petizione204

– vero momento procedurale previsto dalla normativa in vigore – da

presentare all’autorità che ha emesso l’atto, sotto forma scritta, al contrario, deve essere vista

nell’ottica della comune e corresponsabile ricerca della giustizia205

.

Già precedentemente si è fatta menzione della possibilità/opportunità data – attraverso la

petizione – all’autorità di allargare il proprio orizzonte conoscitivo, con l’offerta di valutazioni e

circostanze che, altrimenti, sarebbero rimaste sconosciute alla stessa.

Per il resto la normativa prevede: 1) un termine perentorio di dieci giorni utili – che iniziano a

decorrere dalla legittima intimazione del decreto206

– per presentare la Petitio o Remostratio

all’autore dell’atto; 2) qualora, una volta inviata la Remostratio207

non si riceva risposta208

o passino

201

Da tale procedura sono esclusi sia il Ricorso contenzioso-amministrativo (che si esaminerà in seguito), vero e

proprio ambito giudiziale (cf. can. 1445 §2) che il ricorso per gli atti emessi da un titolare di potestà esecutiva vicaria o

delegata. Cf. can. 1734 §3. 202

C’è chi tra i canonisti contemporanei ha visto questo incontro – non affronto – tra l’autorità, che ha emesso il

decreto, e il fedele, che si sente onerato da esso, la sostituzione più appropriata, in ambito canonico, della proposta fatta

nei Principia della costituzione di tribunali amministrativi locali. Cf. Z. GROCHOLEWSKI, Il sistema dei ricorsi e la

giurisdizione dei tribunali amministrativi, 475-491. 203

J. MIRAS – J. CANOSA – E. BAURA, Compendio di Diritto amministrativo canonico, (coll. Subsidia canonica), trad.

A. PERLASCA, 2 ed. aggiornata, Roma, 2009, 335. 204

La petizione è ciò che abbiamo inteso definire primo livello, diverso dal livello base indicativo di risoluzione

attraverso il ‘semplice’ comune accordo. 205

Cf. can. 1734 §1. 206

Cf. can. 1734 §2. 207

È opportuno ricordare che bisogna poter attestare che la remostratio sia stata ricevuta, in modo da poter far iniziare il

decorso dei trenta giorni previsti per la risposta. (es. raccomandata con ricevuta di ritorno, raccomandata a mano presso

la Cancelleria della Curia che certifichi con numero di prot. tale ricevuta, la presenza alla consegna di due testimoni,

ecc.). 208

Il chè, in ambito amministrativo, equivale ad una risposta negativa.

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30 giorni continui, si può passare direttamente al livello successivo209

; 3) termine di quindici giorni

utili – dallo scadere del trentesimo in caso di non risposta o dalla data di notifica della risposta

negativa – per presentare il ricorso gerarchico al Superiore di chi ha emesso l’atto.

Ciò che maggiormante interessa, al di là della ‘procedura’ (più o meno definita nei canoni

analizzati), è verificare e riflettere sull’efficacia di tale procedura, e, su come questa abbia risposto

alle esigenze venute fuori con la redazione dei Principia, precedentemente esaminati.

5.5.2.2 Secondo livello della procedura amministrativa: Ricorso al Superiore di colui che ha

emesso l’atto (can. 1737)

In questo secondo livello, non solo si cambia l’autorità di riferimento, ma si cambia anche il

modo di relazionarsi con essa, in quanto, quest’autorità risulta essere ‘altra’, rispetto sia all’autore

dell’atto amministrativo, sia al destinatario, o colui che, si sente onerato da tale atto. Per tanto, col

secondo livello siamo di fronte ad un vero e proprio ‘contenzioso’ amministrativo, anche se

extragiudiziale.

Riguardo al tempo utile per indire tale ricorso, si rimanda al numero 3 del precedente

sottoparagrafo, con una specifica sulla possibilità di presentare il ricorso presso l’autorità che ha

emesso l’atto, e questo, per permettere la concreta attuazione del c.d. principio di difesa, che tende a

semplificare la procedura a chi può risultare difficile, far giungere – direttamente e nei tempi

stabiliti ex lege – la petizione di ricorso (di secondo livello) all’autorità competente210

. Nulla viene

menzionato sulle formalità da osservarsi per la composizione valida e lecita di tale richiesta; si può

solo supporre che possano valere le norme date dal Codice stesso per la redazione del libello con

cui si introduce una causa in ambito giudiziale211

.

In questo livello viene prevista anche la possibilità (diretta o indiretta)212

– volta a tutelare e

garantire il principio di difesa – che, chi ha intrapreso il ricorso possa godere, avvalersi dell’aiuto di

un procuratore o avvocato213

. Come finalità, il ricorso, può giungere a molteplici conclusioni:

conferma, dichiarazione di nullità ex tunc, rescissione ex nunc, revoca, modifica, sostituzione,

209

Durante questi trenta giorni si può tentare la fase ‘conciliativa’ prevista dal can 1733 §3. Per quanto riguarda poi le

concrete modalità di questa possibilità, dal Codice nulla viene definito, se non solo attraverso la possibilità data al §2

alle Conferenze Episcopali o al Vescovo, di costituire per tali conciliazioni un vero e proprio ufficio. 210

Si è usato il termine generico di ‘autorità competente’ in quanto questa cambia a seconda dei casi e dei soggetti

coinvolti, ma anche della materia del ricorso. 211

Cf. cann. 1501-1504. 212

Designato dal ‘ricorsista’ o assegnatogli dall’autorità incaricata del giudizio. 213

Cf. can. 1738.

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abrogazione, non ultimo, può pretendere di far fronte ai danni subiti dalla vera parte ‘onerata’

(autorità che ha emesso l’atto o fedele che sia)214

.

Una volta giunto il ricorso all’organo competente della Curia romana215

, viene istruita la

causa similmente a come si fa in ambito processuale: la differenza sta nel fatto che, comunque, la

potestà con cui viene esercitata la decisione è quella esecutiva, amministrativa, propria del superiore

gerarchico, che interviene, ‘sostituendosi’ all’autore dell’atto per il quale si è deciso di ricorrere.

Proprio in virtù di questa sostanziale sostituzione, l’autorità competente sarà chiamata (o potrà

trattare) ad esprimere il proprio giudizio, sia per ciò che concerne le formalità dell’atto – verificarne

la legittimità – sia per il suo contenuto sostanziale – verificarne il merito –, ovverosia, esprimersi

sulla concreta questione, su come essa è stata decisa, e, sulle relative motivazioni che hanno

sostenuto tale decisione. In altri termini, l’autorità gerarchica procederà a verificare, per quale

motivo l’atto amministrativo non abbia raggiunto il fine voluto, non abbia raggiunto la sua efficacia.

Questo momento amministrativo è di notevole rilievo per lo studio che si sta portando avanti,

in quanto, questo livello, più degli altri, pone la discussione, attraverso una parte terza, – anche se

agisce come se fosse l’autore stesso dell’atto, ovverosia, con la stessa sua potestà – sulla

reale/effettiva relazione di obbedienza canonica. Infatti, tale livello dovrebbe, esaminando l’atto,

constatare/decidere chi, e come, nella concreta relazione gerarchica di comunione, ha mancato nel

suo dovere di ascolto, che si traduce dall’altra parte, con la richiesta di far valere il proprio diritto

all’ascolto. Di fatto, è solo nell’ascolto libero e responsabile che la relazione di obbedienza può

trovare la sua vera e ordinaria espressione.

Tale discorso sul mancato ascolto, base fondamentale per la relazione di obbedienza

(canonica), è ancor più vero se si tiene, in debito conto, l’ormai compiuto/terminato primo livello

del ricorso, che abbiamo definito propriamente attraverso il concetto di autotutela, espressione

quest’ultima di un vero e proprio dialogo, scambio di visioni e circostanze. Nel caso in cui questo

dialogo sia ‘insoddisfacente’, per motivazioni che riguardano entrambi i poli della relazione

canonica di obbedienza – anche se in riferimento ad un atto particolare – l’Ordinamento canonico,

prevede, per il ristabilimento della ‘giustizia’, – che si compie pienamente con il ristabilimento

dell’autentica relazione – la necessità/opportunità di un secondo livello di comprensione dell’atto

stesso e della relazione che esso veicola.

In questo secondo livello, però, l’interprete autorevole, non sarà né l’autore dell’atto né il suo

‘destinatario’ (o colui che da esso si sente onerato), bensì un soggetto terzo che, godendo anch’esso,

214

Cf. can. 1739. 215

Che opera attraverso una normativa speciale e particolare: il Regolamento generale della curia romana. Ma che può

variare anche a seconda dei regolamenti interni di ciascun Dicastero competente per una data materia. Per una analisi

dettagliata di tali procedure si veda: J. MIRAS – J. CANOSA – E. BAURA, Compendio di Diritto amministrativo canonico,

(coll. Subsidia canonica), trad. A. PERLASCA, 2 ed. aggiornata, Roma, 2009, 350-366, 380-400.

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di potestà esecutiva, sarà chiamato a ristabilire il giusto ascolto/relazione tra le parti, tramite la

disamina, sia in procedendo che in decernendo, dell’atto in questione.

Questa visione che alcuni potrebbero definire ideale, è la sola che regge l’impianto

ordinamentale canonico, in quanto è la sola che si confà alla concezione comunitaria della Chiesa,

nella quale, tutti i battezzati godono di uguale dignità, e dove, anche se è prevista la possibilità di

‘confronto’, ugualmente, è prevista la possibilità che, questo confronto, venga tutelato da qualsiasi

‘abuso’ di potere.

5.5.2.3 Terzo livello o livello contenzioso amministrativo giudiziale (can. 1455 §2)

Per un criterio di completezza si accennerà anche alla possibilità – una volta però concluso

l’intero iter del ricorso gerarchico – di una ulteriore istanza che, nel caso, verterà semplicemente

sulla legittimità delle procedure, attraverso un vero ricorso contenzioso216

. Il giudizio dell’unico

Tribunale amministrativo della Chiesa, non solo sarà incontestabile, ma chiuderà definitivamente la

controversia217

.

«Codesto Supremo Tribunale è altresì impegnato in un altro ambito delicato dell’amministrazione

della giustizia, che gli fu affidato dal servo di Dio Paolo VI; la Segnatura conosce, infatti, le

controversie sorte per un atto della potestà amministrativa ecclesiastica e ad essa deferite tramite

ricorso legittimamente proposto avverso atti amministrativi singolari emanati o approvati da Dicasteri

della Curia Romana (cf. Cost. ap. Regimini Ecclesiae universae, 15 agosto 1967, n. 106; CIC, can.

1445 §2; Cost. ap. Pastor bonus, art. 123; Lex propria, art 34). È questo un servizio di primaria

importanza: la predisposizione di strumenti di giustizia – dalla pacifica composizione delle

controversie sino alla trattazione e definizione giudiziale delle medesime – costituisce l’offerta di un

luogo di dialogo e di ripristino della comunione nella Chiesa»218

.

Prima di chiudere il capitolo, sull’“esercizio della potestà di governo e la sua accoglienza”

(ordinaria e straordinaria), è bene manifestare con chiarezza la chiave ermeneutica attraverso cui si

è guardata la potestà di governo. L’idea è semplice: l’esercizio della potestà (e non l’autorità in

quanto tale) di governo219

che dal can. 135 viene distinta in legislativa, esecutiva e giudiziale, crea,

216

Perché non riguarderà l’atto amministrativo ma il controllo sulla legittimità degli atti; questo perché a

completamento del sistema giuridico ecclesiale, vi sia: «la possibilità di controllare la legittimità degli atti con la

necessaria indipendenza, vale a dire, non governando rispetto alla stessa materia, ma giudicando sulla legittimità

dell’attività amministrativa precedentemente posta in essere». Ivi, 368. 217

«La giustizia, che la Chiesa persegue attraverso il processo contenzioso amministrativo, può essere considerata quale

inizio, esigenza minima e insieme aspettativa di carità, indispensabile ed insufficiente nello stesso tempo, se rapportata

alla carità di cui la Chiesa vive». BENEDICTUS PP. XVI, Discorso del Santo Padre benedetto XVI ai partecipanti alla

Plenaria del Supremo Tribunale della Segnatura Apostolica, 4 febbraio 2011, in AAS, CIII (2011), 118. 218

Ivi, 117 (corsivo nostro). 219

«Di fatto la categorialità del Diritto quale fenomeno espressamente umano, la sua natura/funzione prettamente

regolamentare, la sua diretta connessione alla vita sociale (=induttività), la costitutività del riferimento personale e non

semplicemente antropologico – già emersi nelle riflessioni delle precedenti Giornate – contribuiscono ad evidenziare

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per il semplice fatto di esserci, una relazione asimmetrica tra chi governa e chi è governato. Tale

relazione asimmetrica, o semplicemente e comunemente denominata gerarchica, è chiara nei tre

distinti ambiti220

. Meno chiara però, è l’anima di questa relazione gerarchica, ovverosia il servizio,

per il quale tale relazione è stata istituita/voluta dal Divino fondatore. Se il servizio quindi, è la

finalità per la quale tale relazione sussiste nella Chiesa, bisogna che nelle varie espressioni della

potestà, tale servizio venga concepito ed esperito. Quando invece tale relazione perde la propria

anima, allora la relazione gerarchica – relazione di obbedienza canonica – si perde, trasformandosi,

nella peggiore delle ipotesi, in vera e propria sottomissione. In questo senso:

«per quanto, [infatti], nelle teorizzazioni – soprattutto moderne – del Diritto si possa insistere sulla

coercitività a disposizione dell’Autorità per far rispettare la ‘Norma’ (Legge, Precetto, Sentenza …

disposizione), non di meno tale coercitività deve sempre essere esercitata da/attraverso qualcuno che –

riconoscendo la ‘legittimità’ di quanto stabilito/intimato – se ne faccia ‘esecutore’ anche fisico, nella

certezza di non esercitare – né per sé, né per conto di altri – vendetta, violenza privata o sopraffazione

ma la realizzazione di una “disposizione legittima”. “Legittima” non in sé e per sé, in quanto

proceduralmente ‘corretta’, o autoritativamente impartita da legittimo ‘superiore’ (il kelseniano “keine

Imperativ ohne Imperator”), ma nella società/comunità e per chi la esegue. Accuse,

difese/giustificazioni, condanne, al Processo di Norimberga per i gerarchi nazisti lo hanno ben

evidenziato: il solo “obbedire agli ordini” dell’Autorità (del momento) non basta! Non di meno: i casi

in cui, lungo la storia, la forza pubblica o quella militare non hanno – almeno di fatto –

accolto/assecondato le direttive dei loro ‘superiori’ costituiscono un chiaro esempio di assenza di

‘credibilità’ o [a] circa la legittimità della decisione/giudizio in sé e per sé, oppure [b] circa la

legittimità del decidente/giudicante come tale»221

.

Ora, se da un lato, con questo studio si è voluta richiamare l’attenzione sulla modalità di

esercizio dell’obbedienza in capo all’autorità, a) sottolineando la facile e possibile deriva arbitraria

(specie in campo amministrativo), b) sottolineando, per contro, il dovere dell’autorità all’ascolto di

coloro che nell’ottica di comunione sono corresponsabili222

del bene/fine della Chiesa; dall’altro, si

è voluto sottolineare che c) nell’animo del fedele/governato, deve ritrovarsi uno spirito di vera

obbedienza cristiana223

– che potrà essere verificata, per esempio tramite i livelli di ricorso

amministrativo analizzati, qualora ci si ritenesse onerati da un decreto amministrativo224

– d) il

quale deve/può essere vissuto – nella comune responsabilità, che permette al fedele/governato la

rinuncia al proprio “diritto” ma non al proprio dovere – solo nell’ottica della fede in Dio, così come

con chiarezza, una volta di più, il fatto che né auctoritas (come avviene prevalentemente in ambito civile) né potestas

(indicata, spesso, come ‘peculiare’ dell’ambito canonico) costituiscono – in realtà – ragioni/condizioni necessarie e

sufficienti per ‘fondare’ – e ‘mantenere’ – il Diritto …né a livello ‘umano’ né a livello ‘religioso’». P. GHERRI, Bilancio

canonistico, in P. GHERRI (a cura di), Decidere e giudicare nella Chiesa, 402. 220

Specie, nel tempo antecedente il Concilio Vaticano II. 221

P. GHERRI, Bilancio canonistico, in P. GHERRI (a cura di), Decidere e giudicare nella Chiesa, 403 222

P. GHERRI, Bilancio canonistico, in P. GHERRI (a cura di), Responsabilità ecclesiale, corresponsabilità e

rappresentanza. Atti della IV Giornata canonistica interdisciplinare, Città del Vaticano, 2010, 387-389. 223

Cf. can. 212 §1. 224

«Questi costituiscono, anzitutto, luoghi di dialogo, che talvolta conducono alla concordia e alla riconciliazione».

BENEDICTUS PP. XVI, Discorso del Santo Padre benedetto XVI ai partecipanti alla Plenaria del Supremo Tribunale

della Segnatura Apostolica, 4 febbraio 2011, 117.

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viene definito, in modo preciso e completo, nel “bilancio canonistico” dell’ultima Giornata

canonistica interdisciplinare:

«questo, però, mette in luce come la decisione/giudizio non sia mai un fatto-a-sé, riconducibile

soltanto alla coscienza e responsabilità individuale del decidente/giudicante, ma coinvolga almeno una

parte significativa dell’intera società/comunità di riferimento … rendendola ‘corresponsabile’, almeno

per inerzia o non-opposizione o anche solo ‘accettazione’ e ‘sottomissione’. Di fatto negli Stati si

governa e si giudica “in nome del popolo”, nella Chiesa “in nome della fede in Dio”: è solo questa

non-autoreferenzialità del governante/giudicante che ne rende ‘possibile’ (=accettabile) ed assumibile

la decisione, per quanto eventualmente gravosa … in un incontro di consapevolezze e volontà sempre

‘personali’. Le diverse modalità e forme decisionali, soprattutto giuridiche, illustrate nelle Relazioni

della Giornata (Arbitrato e Mediazione in primis), intervengono pertanto ad offrire nuova linfa alla

riflessione non tanto sul ‘come’ ma – ben più radicalmente – sul ‘perché’ dell’esercizio potestativo

ecclesiale. Se, infatti, la Chiesa non è più ‘costituzionalmente’ la “societas inæqualium” dello Ius

Publicum Ecclesiasticum ‘discriminata’ in ragione del Sacramento dell’Ordine che ‘costituiva’ nei

gradi gerarchici, ma il nuovo Popolo di Dio accomunato dall’unico Battesimo e raccolto attorno alle

mense della Parola e dell’Eucaristia, allora auctoritas e potestas vengono comunque ‘dopo’ la

pienezza dell’Iniziazione cristiana, quali ‘specifici modi’ e non ‘semplici gradi’ (cfr. LG 10) di

concretizzazione della propria configurazione sacramentale a Cristo»225

.

Distinti, quindi, i rischi che è possibile correre, sia da parte dell’autorità che da parte del

fedele/governato, è bene che si capisca che la necessaria azione, tesa a (ri)costruire la relazione di

obbedienza, può iniziare solo a partire da una corretta interpretazione della visione di fede. Tale

visione di fede, se da una parte, è il fondamento assoluto dell’accoglimento dell’esercizio della

potestà, dall’altra, essa da sola, non può servire a giustificare ogni agire dell’autorità, chiamata

sempre a manifestare con la vita, con le opere, la vitalità della fede (Gc 2, 18.20.26.24), ‘copertura’

(autorevolezza) necessaria affinchè questa venga accolta, trasmessa.

«Pur tuttavia tale irrinunciabile appello alla fede quale fondamento per la potestas

(=autoassoggettamento) non potrà essere – invece – utilizzato da parte dell’Auctoritas a conferma o

presupposto del proprio operato e quale pretesa di soggezione, soprattutto se/quando ciò servisse a

‘compensare’ o surrogare in modo del tutto estrinseco (appellando alla ‘propria’ sacralità) reali ed

effettive carenze degli elementi costitutivi qualunque ‘decisione’ umana (ed istituzionale): esperienza

(propria/altrui), comprensione, valutazione-giudizio, decisione responsabile»226

.

Concludiamo questo percorso con un’affermazione molto semplice, ma di notevole ricaduta,

qualora la si comprendesse e vivesse, nel contesto del vivere sociale della Chiesa. L’affermazione

ha un grande rilievo esperienziale/storico (vera anima del Diritto): io fedele/laico o chierico,

fedele/autorità o governato, non ho nessun diritto (Diritto/potere) sulla vita dell’altro (Gv 19,11) –

anche se si potrebbe obbiettare il contrario, ricadendo però, inevitabilmente, nella deriva

225

P. GHERRI, Bilancio canonistico, in P. GHERRI (a cura di), Decidere e giudicare nella Chiesa, 404. 226

Ivi, 411.

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ampiamente sottolineata della sottomissione227

, che comunque non risolve il problema della

relazione ecclesiale, forse lo acuisce – ho sempre, invece, un grande dovere (Diritto/servizio) verso

la vita dell’altro. Cristo Gesù, dal Diritto come potere, fu consegnato alla morte (Gv 19,10), dal

Diritto come servizio, per assurdo, avrebbe potuto essere messo in libertà con un’assoluzione piena,

in quanto il giudice, il governatore, lo ritenne senza alcuna colpa (Gv 19,6).

Cristo Gesù è l’uomo del Diritto come servizio, in quanto capace, non immediatamente, di

affermare (effettivo) e far accogliere (efficacia) l’unico vero Diritto, l’unica vera relazione di

obbedienza, quella fatta a partire dalla condizione di servizio. Ora, non si vuole travisare il Diritto

teologizzandolo, bensì si vuole solo dare ad esso la sua essenza:

Il Diritto è servizio alla verità, in quanto è anche ricerca della verità storica da condurre nella

verità di fede e secondo la verità di fede (l’aggiornamento magisteriale), giudicare la verità storica

perché sia condotta nella verità di fede.

«Lo scopo del comando è però la carità, che nasce da un cuore puro, da una buona coscienza e da una

fede sincera. Deviando da questa linea, alcuni si sono perduti in discorsi senza senso, pretendendo di

essere dottori della Legge, mentre non capiscono né quello che dicono né ciò di cui sono tanto sicuri.

Noi sappiamo che la Legge è buona, purchè se ne faccia un uso legittimo» (1 Tm 1, 5-8).

Il Diritto, quindi, o è mezzo a servizio dell’uomo o diventa la causa, come estrema

conseguenza, della sua morte. Il Diritto non può e non deve identificarsi col potere, esso ben si

identifica, invece, con uno strumento. Tale strumento serve l’uomo, non si serve di esso. Per tanto

in capo a tutti i fedeli, in particolar modo i fedeli-governanti vi è un obbligo, quello del corretto uso

del Diritto: mezzo per servire. Per servire, però, bisogna essere capaci di ritenere la vita dell’altro

superiore alla propria – così come Cristo ha ritenuto superiore la vita degli uomini – solo così il

servizio sarà vero, efficace e soprattutto fedele fino alla fine.

227

In una delle reazioni più forti alla visione della Chiesa come semplice collegium, associazione di persone uguali sul

piano giuridico e aventi scopi comuni, realizzata dal movimento – di alcuni canonisti tedeschi, in seguito alla riforma

protestante – che prenderà il nome di Jus publicum ecclesiasticum, si ribadisce che la Chiesa, al pari di ogni Stato, gode

di un proprio Diritto autonomo ed indipendente. Solo molti anni dopo, una volta superata la fase apologetica e, con le

acquisizioni del Concilio Vaticano II, si chiarisce che il Diritto non è «sottomissione di una moltitudine di persone ad un

potere sovrano» (cf. M. NACCI, Origini, sviluppi e caratteri del jus pubblicum ecclesiasticum, 18) così come afferma

Pufendorf, (cf. S. VON PUFENDORF, Samuelis Pufendorfi De habitu religionis Christianae ad vitam civilem, liber

singularis. Accedunt Animadversioes ad aliqua loca e Politica Adriani Houtuyn JCti Batavi, sumptibus Anthonii

Guntheri Schwerdfegeri bilop., Bremae, 1687, §§ 32-33), bensì, strumento di comunione, di dialogo, di servizio. Sul

passaggio avvenuto nel Diritto pubblico ecclesiastico con il Concilio Vaticano II si veda: M. NACCI, Origini, sviluppi e

caratteri del Jus pubblicum ecclesiasticum, 181-206.

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CONCLUSIONE

Come è previsto dalla consuetudine ormai comune e costante – diventata regola in quanto

ragionevole e necessaria – la ‘conclusione’ di un percorso deve essere una sorta di verifica/controllo

tra le domande che inducono a riflettere e studiare un determinato argomento (introduzione) e

l’evolversi/svilupparsi dello stesso (il corpo, i capitoli della tesi). Questa verifica, inoltre, deve

essere capace di trarre delle conclusioni o, quanto meno, di completare/raccogliere su di un dato

argomento, le informazioni/conoscenze prodotte negli anni, permettendo che si compia una specie

di “posizione di blocco” – tipica posizione iniziale dell’atleta che si prepara a correre i cento metri –

importantissima e quasi esclusivamente finalizzata ad aumentare la spinta in avanti.

In maniera molto chiara riteniamo che il cammino compiuto, più che ‘innovativo’, sia stato

‘ordinativo/chiarificativo’ – simile ad una “posizione di blocco” – della materia presa in esame; si

ritiene, infatti, che il percorso concluso possa servire a fare chiarezza e a comprendere, in modo

corretto, cosa si intende per “relazione gerarchica (comunionale)”; che abbiamo riassunto con la

formula ‘obbedienza canonica’, vedendo in essa, la sintesi o la ricapitolazione dei doveri/diritti del

fedele.

L’obbedienza canonica, quindi, è ‘relazione istituzionale’, ovverosia quella relazione presente

– anche nella Chiesa/comunità dei credenti – nella vita di ogni comunità ‘complessa’, dove, proprio

per data complessità, le relazioni assumono la dimensione “io/terzo sconosciuto”. Con il termine

‘terzo sconosciuto’ non si intende qualcosa di negativo, bensì si vuole indicare il semplice

superamento della relazione familiare, tipica delle società piccole, semplici, ristrette. Questo tipo di

relazione particolare (io/terzo/prossimo) è ciò che si intende per relazione sociale, propria delle

società/comunità complesse. Tali società/comunità complesse, per esistere, necessitano di un

Ordinamento giuridico (complesso organico di norme che regolano la vita di una comunità) che

permetta loro, non solo di strutturarsi, ma di mantenere ordinate e pacifiche le relazioni al loro

interno.

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Ogni socialità/comunità organizzata – dalla presenza di un Ordinamento cui obbedire –

prende il nome di Istituzione (configurazione organizzata di relazioni sociali giuridicamente e

storicamente orientata); ogni Istituzione, a sua volta, avrà delle sue caratteristiche specifiche,

dipendenti da una base fondativa, costitutiva propria che la distingue da altre.

L’Istituzione canonica ha un’origine particolare, un’origine divina: questa origine prevede che

alcune persone, scelte nella comunità, ma non dalla comunità, assumano, sotto l’azione della grazia

(non però nella linea dell’ex opere operato, bensì nella linea dell’ex opere operantis), la

‘conduzione’ di essa, non come ‘proprietari’, ma in qualità di ‘custodi’, ‘amministratori’. Tali

persone anche se vengono chiamate “autorità”, non sono l’Autorità, ma, semplicemente, esercitano

autorità. Questo ufficio/dono ricevuto è soprattutto una responsabilità, ed è questa responsabilità, e

non l’autorità in sé, ad abilitarli – tramite la scelta di regole e norme, sempre concordi con i principi

fondativi dell’Istituzione stessa – al servizio della struttura socio-comunitaria, permettendo ad essa

il raggiungimento del suo fine.

Nel tentativo di fondare questa semplice verità siamo passati ad analizzare, con il primo

capitolo, la concezione/fondamento della ‘norma’, propria della Istituzione ecclesiale, ovverosia si è

voluto osservare la ‘norma’ canonica a partire dalla sua realtà fondativa/mentale. Si è affermato che

essa non è semplice espressione del potere, e non va rispettata per il semplice fatto che è stata

promulgata, o peggio, per la paura della sanzione ad essa annessa (potere coercitivo). La ‘norma’

canonica, secondo il profilo fondativo giusnaturalista (cristiano) analizzato, è innanzitutto

attività/espressione della ‘ragione’ che si attiva nel momento in cui il vissuto sociale di una

determinata comunità necessita di una messa/tenuta in ordine. È nella ragionevolezza, quindi, che la

norma – effettiva capacità di rispondere, secondo giustizia, alla necessità della realtà sociale – trova

il suo fondamento, e solo tramite essa, può formalizzarsi, e quindi imporsi, nel dettato di una

‘norma’ e divenire anche sanzionabile qualora la si trasgredisca, non viceversa.

Già solo questo semplice passaggio dona luce a tutto il nostro studio: l’esercizio dell’autorità

(in questo caso legislativa) viene svolto correttamente quando, osservando la

complessità/conflittualità sociale, nell’oggi della storia (vera anima del Diritto – canonico –, a cui

abbiamo dato l’attenzione che merita), è in grado di formulare leggi ragionevoli e giuste, capaci di

ordinare la detta complessità sociale.

Nel secondo e terzo capitolo si è andati a verificare, poi, come la ‘norma canonica’, specie in

relazione allo statuto giuridico del fedele, è stata formalizzata, canonizzata. Ci si è accorti come la

sua formalizzazione, storicamente/facilmente inquadrabile, nel Codice del 1917, abbia vissuto una

vera e propria “posizione di blocco” con il Concilio Vaticano II, il quale ha permesso una revisione,

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per certi aspetti rivoluzionaria, dell’‘antico’ complesso di norme. Una posizione innovativa, è

andata maturando specie in relazione al fondamento delle norme stesse, più attinente al

fondamentale impianto ecclesiale (dipendente dall’aggiornata comprensione magisteriale).

Con il secondo capitolo si è preso in esame come il principio della ‘sostanziale uguaglianza’

– fra i componenti dell’unica Chiesa di Dio – sia stato concepito ed espresso nel Codice del 1917.

Attraverso tale esame, si è costatato che questo principio è stato subordinato, se non sostituito, col

principio gerarchico, anch’esso basilare (ma non esclusivo) nella Istituzione ecclesiale. Un tale

processo involutivo si è andato consumando anche e soprattutto in risposta e in opposizione ai

principi antigerarchici della Riforma protestante, che generò, per reazione, lo sviluppo di una

visione ecclesiologica di tipo verticistica, fondata sul concetto d’autorità. Tale visione della Chiesa

come “societas inaequalium” ha portato una frattura all’interno della vita ecclesiale, ormai divisa

dualisticamente in superiori e sudditi, chierici e laici.

Attraverso il terzo capitolo si è giunti a rilevare da una parte, come il principio della

‘sostanziale uguaglianza’ fra i componenti dell’unica Chiesa di Dio – messo da parte per quasi un

millennio – è stato ripreso, compreso e messo al sicuro dal Concilio Vaticano II, così come traspare

anche dalla normativa canonica vigente; dall’altra, come il principio gerarchico – che a ragione non

è stato eliminato, in quanto voluto per istituzione divina – è andato ricomprendendosi attraverso

un’“ermeneutica del servizio”, di matrice sub-apostolica.

Tale ri-elaborazione e ri-comprensione ha permesso la crescita di una visione ecclesiologica,

non più di tipo verticistico, fondata sull’autorità – in cui la Chiesa veniva presentata principalmente

come “societas inaequalium”, divisa dualisticamente in superiori e sudditi, chierici e laici – ma una

visione di Chiesa come Popolo di Dio, pellegrinante nella storia, sicuro della sua vocazione

pastorale più che sociale.

Si è concluso il terzo capitolo cercando di restare con i piedi per terra e non cadere in una

facile illusione riguardo alla possibile ingenuità di considerare le acquisizioni dei documenti

conciliari o dei canoni del nuovo Codice come l’espressione di una situazione storica ormai assunta,

dove l’obbedienza (richiesta o vissuta) risponda al solo criterio formale, tutt’altro.

Nel quarto capitolo si è voluto mettere in rilievo la dipendenza e la differenza del Diritto

canonico dalla Teologia, da cui il Diritto canonico deriva i suoi principi fondativi. Per conseguire

tale intento abbiamo fatto ricorso/riferimento alla Teologia del Diritto canonico, disciplina

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autonoma che ha come compito delicato e necessario quello di far dialogare correttamente il Diritto

e la Teologia.

Tutta la riflessione sulla Teologia del Diritto canonico, ben si comprende, nel percorso

sostenuto, se si osserva il tema generale preso in esame: la relazione Istituzionale-gerarchica. Il

Diritto, infatti, partorito sempre nella realtà sociale della Chiesa, nasce a seguito della crescente

complessità della vita ad intra ed ad extra di quest’ultima, infatti, è a tale complessità che il Diritto

canonico guarda. Una piccola novità, che si è voluta, con questo studio, sottolineare, è che la

relazione gerarchica – l’obbedienza canonica, non morale e non teologica, anche se da queste non

separata – è espressione tipica, specifica del vivere sociale, esterno, della comunità ecclesiale.

L’obbedienza canonica, ovverosia quella vissuta nel foro esterno, quindi, avrà, per natura sua, una

logica che necessariamente è, o dovrebbe essere, espressione della razionalità della persona umana

(pur sempre illuminata dalla fede); altrimenti non sarebbe più espressione del vivere sociale,

espressione del foro esterno, da tenersi distinto dal foro interno, evitando, nella misura del possibile,

il loro conflitto.

Col quinto capitolo si è voluto, in una prima parte richiamare tre dei dieci Principi di

revisione del Codice che più hanno avuto incidenza in relazione al nostro tema:

a) il secondo principio, relativo all’esigenza di creare un’armonica relazione tra il foro

(giuridico) interno e il foro esterno, sottolineando l’aspetto giuridico del foro interno stesso, troppe

volte confuso col foro della coscienza, di tutt’altra natura e sottoposto a diverso tipo di

regolamentazione;

b) poi si è preso in esame il sesto principio che intendeva unire l’esercizio della potestà – già

inteso come servizio – e la tutela dei diritti delle persone. Tale indicazione preliminare e

programmatica – di chiara matrice conciliare – permise la composizione della visione secondo cui

esiste, tra i fedeli, all’interno della Chiesa-società, una vera uguaglianza nella diversità o diversità

nell’uguaglianza: uguaglianza in quanto tutti appartenenti all’unico Popolo di Dio (status giuridico

fondamentale), diversità quanto a condizione giuridica personale (status giuridico particolare). Il

fondamento solido, che permette di fondare sia l’uguaglianza che la diversità nella Chiesa, è

espresso, nel CIC 1983, dall’insieme dei canoni 204 §1 e 205;

c) in ultimo, attraverso il settimo principio si è compreso quanto sia necessaria, per la tutela

dei diritti, la costituzione e normativizzazione di procedure atte a tutelare i diritti soggettivi dei

fedeli, specie nel settore amministrativo, dove, più che la differenziazione delle funzioni della

potestà ecclesiastica (legislativa, esecutiva e giudiziaria), servirebbe ribadire il significato canonico

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del concetto di autorità, o meglio, il senso del suo esercizio. A tale scopo si è voluto sezionare parte

dell’ambito amministrativo per verificare come e in che misura, oggi, all’interno dell’Ordinamento

canonico, si è risposto alle esigenze avvertite e formalizzate nei principi su menzionati.

Bisogna poter affermare, attestare, il notevole sviluppo e l’attenzione sempre maggiore alla

formulazione di procedure tese a garantire non solo la tutela dei diritti, ma tese anche a fondare,

specie in riferimento all’aggiornamento magisteriale, l’esercizio corretto della potestà da parte

dell’autorità. Tale attenzione alle procedure ha permesso la riscoperta, specie in ambito

amministrativo, del principio di responsabilità giuridicamente esigibile nei confronti della stessa

autorità. L’esigenza, infatti, sentita da più parti, fu quella di ridare all’autorità (amministrativa in

modo particolare) una sorta di limite o quanto più, metterla nelle condizioni di dover, in qualche

modo, giustificare razionalmente l’esercizio della propria (o vicaria) potestà di governo, non solo

dinanzi a Dio, bensì nei confronti della comunità e del singolo fedele.

A partire da questa analisi si è sottolineato come nell’esercizio di autorità entrino in gioco

elementi soggettivi e oggettivi; tali elementi, devono essere, però, ben coordinati al fine di aiutare e

predisporre i fedeli tutti all’obbedienza canonica, ovverosia alla capacità di ascoltare/accogliere

l’atto di governo – manifestazione delle reali abilità di discernimento dell’autorità, chiamata ad

usare la potestà affidatagli sempre e solo per il bene della socialità/singolo fedele – e farlo proprio.

L’esercizio della potestà deve sempre essere, infatti, espressione della giustizia – di cui il Diritto è

custode – che costituisce poi la base indispensabile perché si possa edificare la carità. Siamo

dell’idea, infatti, che con il Vangelo si produca il superamento – che non si traduce con la sua

inutilità, anzi – della Giustizia; lo stesso Vangelo, però, per essere accolto, necessita di un

fondamento di giustizia (Diritto), un terreno buono, sul quale, poi, seminare il seme del Vangelo. La

carità che non si poggia sulla giustizia, infatti, è in sé falsa e creatrice di disordine: «si accordò con

loro per un denaro al giorno e li mandò nella sua vigna» (Mt 20,2). L’“un denaro” è ciò che

garantisce la giustizia della relazione – la paga di un operaio di allora era infatti di un denaro –, ed è

questa giustizia che consente al Padrone della vigna di agire, in seguito, con autorità: «Amico, io

non ti faccio torto. Non hai forse concordato con me per un denaro? Prendi il tuo e vattene» (Mt 20,

13-14). Appartiene al Diritto, per tanto, il compito, primario ed insostituibile, di mantenere questa

comunione/giustizia, che nell’introduzione definivamo come habitat necessario per la diffusione del

Vangelo (Gv 13,45), in quanto il Diritto canonico costituisce la base strutturale della comunione, lo

strumento attraverso cui essa può essere salvaguardata.

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Nell’introduzione si rilevava (attraverso l’autorità di Paolo Grossi) la crisi del Diritto –

percepito alla base come qualcosa di distante dalla realtà e incomprensibile quanto a sua

costituzione/costruzione – mettendo in parallelo questa crisi con la deriva del termine ‘obbedienza’

a cui ogni Diritto, in un certo senso, richiama. L’obbedienza (canonica), infatti, oggi, non è vista più

come suprema espressione della libertà della persona umana, somma virtù dell’uomo, bensì viene

vista come impossibilità di dialogo, relazione di potere, comando che piove dall’alto e da lontano,

di chiaro carattere autoritario. Per tanto ci si è domandati se l’obbedienza canonica – espressione

dell’intero Ordinamento – fosse risposta ad un atto di volontà, la cui forza è collegata alla sua

promulgazione da parte d’un legislatore, o piuttosto un atto rationabilis, la cui forza vincolante

promana dal suo contenuto, considerando, inoltre, tutto il problema relativo alla recezione delle

norme. La successiva domanda, che in quella sede ci si poneva, collegata e dipendente dalla

precedente, era: quanto (o cosa) l’obbedienza canonica poteva significare in termini di statuto

giuridico; in altre parole, se l’obbedienza – come relazione – fosse in contrasto o fosse

coordinativa/equilibrativa dei doveri/diritti dei fedeli.

Agli interrogativi, posti in sede introduttiva, si è cercato di rispondere in maniera esaustiva,

anche se mai del tutto completa, ammettendo, quindi, la possibilità di aver trascurato qualche

aspetto.

Tramite autori degli ultimi tempi – presi come riferimento – e la loro produzione dottrinale,

siamo giunti ad affermare che l’obbedienza canonica, rettamente compresa, non solo è espressione

vera ed autentica della relazione sociale/istituzionale della Chiesa, ma è il concetto che più di altri è

capace di equilibrare i doveri/diritti dei fedeli, con la particolare e complessa struttura gerarchica di

governo della Chiesa.

L’obbedienza però, così come abbiamo illustrato è altro, rispetto a ciò che, forse, avrebbero in

mente o desidererebbero le ‘autorità’; essa, infatti, è capacità/assunzione personale di responsabilità.

Tale capacità può presentarsi nella forma più forte come presunta disobbedienza – qui, non solo si

fa riferimento esplicito alla norma che prevede la possibilità e talvolta la necessità di far presente (in

misura proporzionata alla propria scienza, alla competenza e al prestigio) all’autorità il proprio

pensiero (cf. can. 212 §3), ma soprattutto a tutte le forme di ricorso, possibili, in quanto consentite

dall’Ordinamento –, che noi abbiamo inteso, invece, come possibilità/necessità di vivere

autenticamente l’obbedienza canonica, in quanto comune e completa (quanto a punti di vista a

confronto) ricerca della verità storica smarritasi.

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Detto ciò, riteniamo che il Diritto canonico, espressione della corretta relazione istituzionale

ecclesiale, della corretta relazione di obbedienza, sia mezzo a servizio dell’uomo. Il Diritto

canonico, così come è insegnato alla Università Lateranense non può e non deve identificarsi col

potere, esso ben si identifica, invece, con uno strumento.

La “posizione di blocco”, così come personalmente si definiva la ricerca sostenuta, è

l’espressione, forse, più emblematica della nostra posizione attuale. Ci siamo impegnati, ma

soprattutto ci siamo lasciati formare e coinvolgere da coloro che hanno ricoperto il ruolo, in questi

anni, dell’allenatore, a cui faremo sempre costante riferimento: il corpo docente della Facoltà di

Diritto canonico della Pontificia Università Lateranense, e, in particolare, i professori che hanno

guidato quest’ultimo ed importantissimo tratto di strada. Ora siamo sulla linea di partenza,

quest’ultima però ci consente di puntare l’obbiettivo, guardare al prossimo traguardo.

Fuori da ogni metafora, ora cercheremo di indicare uno – in quanto abituati a fare un passo

alla volta – dei possibili sviluppi che tale lavoro potrebbe sostenere; a questo sviluppo, poi,

guardiamo con particolare attenzione, coinvolgimento, anche e soprattutto per l’ufficio, il ministero

che Dio ci ha affidato per l’edificazione del suo Regno.

Si potrebbe continuare e compiere un’analisi approfondita degli status giuridici personali

(particolari) di ogni fedele, visti sempre nell’ottica del servizio al prossimo/terzo/sconosciuto: lo

status giuridico del Vescovo diocesano, ad esempio, che comprende diritti, ma anzitutto doveri,

dove i primi (diritti) sono fatti valere attraverso il compimento dei secondi (doveri). Siamo convinti,

infatti, che questo servizio, da noi inteso come ‘obbedienza’ – capacità di guardare ai propri doveri

e, solo attraverso questi, riconoscere i propri e altrui diritti – sia la sola chiave di lettura, per capire

il perchè della potestà di governo all’interno della Chiesa-Istituzione divina/umana: l’obbedienza,

infatti, è possibile sempre e solo nella fede (a Dio); per questo motivo, nella Chiesa si governa solo

in nome della fede in Dio. E la fede (nell’uomo/Dio) che consente, da una parte, la “non-

autoreferenzialità” del governante/giudicante, dall’altra, rende possibile al governato/giudicato

l’assunzione personale, libera e cosciente della volontà altrui, anche se gravosa. Sarebbe

interessante e soprattutto utile, sulla base di questo orizzonte, indagare sui requisiti soggettivi che

consentono di assumere prima, ed esercitare poi, i ministeri (‘mini’, non ‘magi’ come qualcuno

vorrebbe far passare; il ‘mini’ indica sempre una visione di servizio, abbassamento) nella Chiesa,

guardando più alla ‘condizione’ che alla ‘costituzione’ dell’autorità, più al ‘riconoscimento’ di essa

che all’‘attribuzione’. Nessuno discute, infatti, nella Chiesa cattolica, l’origine dall’Alto della

potestà di governo, bensì, ciò che si discute è la modalità/finalità del suo esercizio.

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In ultimo ci permettiamo di indicare comunque una via certa, sicura, che serva da garanzia sia

a chi dona l’obbedienza, sia a chi la riceve. Questa garanzia ci viene dalla Teologia: l’obbedienza è

alla verità sempre ... (At 4,19; Gv 18,37). Dio è la verità (Gv 14,6).

Mediatore nel dire la verità (comprensione teologica) è l’uomo, e, mediatore nel fare (Diritto)

la verità è l’uomo. Dio dice e fa la verità attraverso l’uomo (Gv 20,21; Gs 1,5). Nella comunione

con Dio, sia di chi comanda, che di chi obbedisce è la certezza che la verità è fatta perché detta, ma

è anche detta perché venga fatta (Gv 15,4-11).

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FONTI

A- FONTI ECCLESIASTICHE

I. CONCILIA

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ordinis, 15 iulii 1563, in DH, 1774.

CONCILIUM ŒCUMENICUM TRIDENTINUM, Sessio VI, Decretum de Iustificatione, 13 ianuarii 1547,

in DH, 1520-1583.

CONCILIUM ŒCUMENICUM VATICANUM I, Constitutio dogmatica I de Ecclesia Christi: Pastor

Æternus, 18 iulii 1870, in DH, 3050-3075.

CONCILIUM ŒCUMENICUM VATICANUM I, Constitutio dogmatica de fide catholica: Dei Filius, in

AA. VV., Conciliorum Œcumenicorum Decreta, ed. bilingue, Bologna, 1991, 804-811.

CONCILIUM ŒCUMENICUM VATICANUM I, Constitutio dogmatica I: Dei Filius de fide catholica, 18

aprilis 1870, in DH, 3000-3045.

CONCILIUM ŒCUMENICUM VATICANUM II, Constitutio de Sacra Liturgia: Sacrosanctum concilium, 4

decembris 1963, in AAS, LVI (1964), 97-138.

CONCILIUM ŒCUMENICUM VATICANUM II, Constitutio dogmatica de Ecclesia: Lumen Gentium, 21

novembris 1964, in AAS, LVII (1965), 5-71.

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CONCILIUM ŒCUMENICUM VATICANUM II, Constitutio Pastoralis: Gaudium et spes, 7 decembris

1965, in AAS, LVIII (1966), 1023-1120.

CONCILIUM ŒCUMENICUM VATICANUM II, Constitutio dogmatica de Divina Revelatione: Dei

Verbum, 18 novembris 1965, in AAS, LVIII (1966), 817-835.

CONCILIUM ŒCUMENICUM VATICANUM II, Decretum: Apostolicam actuositatem, 18 novembris

1965, in AAS, LVIII (1966), n. 2, 837-864.

CONCILIUM ŒCUMENICUM VATICANUM II, Decretum de Institutione sacerdotali: Optatam Totius, 28

octobris 1965, in AAS, LVIII (1966),713-727.

CONCILIUM ŒCUMENICUM VATICANUM II, Decretum de Presbyterorum ministerio et vita:

Presbyterorum ordinis, 7 decembris 1965, in AAS, LVIII (1966), 991-1024.

II. PONTIFICES

PIUS PP. VI, Litteræ Apostolicæ: Quod aliquantum, 10 martii 1791, in Acta Pii VI Pont. Max.,

1792/I, 427-432.

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PIUS PP. IX, Syllabus, 8 decembris 1864, in Pii IX P.M. Acta, I/3, 9-24.

LEO PP. XIII, Litteræ encyclicæ: Diuturnum illud, 29 iunii 1881, in Acta Leonis XIII Pont. Max., II

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LEO PP. XIII, Litteræ encyclicæ: Immortale Dei, 1 novembris 1885, in Acta Leonis XIII Pont. Max.,

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GREGORIUS PP. XVI, Litteræ encyclicæ: Mirari vos, 15 augusti 1832, in Acta Gregorii XVI E.M., I,

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BENEDICTUS PP. XV, Motu Proprio: Cum Iuris Canonici, 15 septembris 1917, in AAS, IX (1917),

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BENEDICTUS PP. XV, Constitutio Apostolica: Providentissima Mater Ecclesia, 27 maii 1917, in

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PIUS PP. XI, Litteræ encyclicæ de festo Domini nostri Iesu Christi regis constituendo: Quas Primas,

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PIUS PP. XII, Litteræ encyclicæ: Mystici corporis Christi, 29 iunii 1943, in AAS, XXXV (1943),

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PIUS PP. XII, Allocutio: Ad Prelatos auditores ceterosque Officiale set Administros Tribunalis S.R.

Rotæ necnon eiusdem Tribunalis Advocatos et Procuratores, 2 octobris 1944, in AAS,

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PIUS PP. XII, Litteræ encyclicæ: Haurietis aquas, 15 maii 1956, in AAS, XXXXVIII (1956), 309-

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ianuarii anno MCMLIX, in coenobio monachorum benedictionorum ad S. Pauli extra moenia,

post Missarum sollemnia, quibus beatissimus Pater in patriarchali basilica ostiensi

interfuerat, 25 ianuarii 1959, in AAS, LI (1959), 65-70.

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PAULUS PP. VI, Allocutio: die 20 novembris 1965 habita ad Emos Patres Cardinale set ad

Consultores Pontificii Consilii Codici iuris canonici recognoscendo, 20 novembris 1965, in

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ceterosque Iuris Canonici peritos, qui Cœtui internazionali interfuerunt Romæ habito, 20

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INDICE

SIGLE E ABBREVIAZIONI............................................................................................................... 4

PREMESSA ......................................................................................................................................... 7

INTRODUZIONE .............................................................................................................................. 15

CAPITOLO I IL DIRITTO: DISTINTO E ‘DIPENDENTE’ DALLA MORALE ......................... 21

1.1 CONTESTO STORICO................................................................................................................... 23

1.1.1 Moralità del diritto ............................................................................................................. 23

1.1.2 La separazione del Diritto dalla Morale ............................................................................ 28

1.1.3 Il primato del Diritto sulla Morale ..................................................................................... 31

1.2 GIUSPOSITIVISMO E GIUSNATURALISMO: DUE CORRENTI A CONFRONTO .................................... 44

1.2.1 Fondamento e valore delle norme nel positivismo giuridico............................................. 44

1.2.2 Fondamento e valore delle norme nel giusnaturalismo ..................................................... 42

1.2.3 In sintesi ............................................................................................................................. 52

CAPITOLO II LO STATUTO GIURIDICO DEL FEDELE NELLA CODIFICAZIONE DEL

1917…………………………………………………………………………………………………56

2.1 CONTESTO STORICO................................................................................................................... 56

2.2 IL CODEX IURIS CANONICI......................................... ERRORE. IL SEGNALIBRO NON È DEFINITO.

2.3 IL CHRISTIFIDELIS NEL CODICE DEL 1917 ................................................................................... 73

2.4 APPROFONDIMENTO: IL ‘DIRITTO SOGGETTIVO’ COME CRITERIO DI ESCLUSIONE DI UNA NON

OBBEDIENZA, ALL’INTERNO DELL’ORDINAMENTO CANONICO ......................................................... 81

CAPITOLO III LO STATUTO GIURIDICO DEL FEDELE NELLA CODIFICAZIONE DEL

1983…………………………………………………………………………………………………90

3.1 IL CONTESTO STORICO ............................................................................................................... 90

3.2 IL CODEX IURIS CANONICI......................................... ERRORE. IL SEGNALIBRO NON È DEFINITO.

3.3 IL CHRISTIFIDELIS NEL CODICE DEL 1983 ................ ERRORE. IL SEGNALIBRO NON È DEFINITO.

3.4 APPROFONDIMENTO: LA “TEORIA DELL’EFFICACIA DELL’AGIRE GIURIDICO CANONICO”,

POSSIBILE GARANZIA DI UNA CORRETTA COMUNIONE GERARCHICA. .. ERRORE. IL SEGNALIBRO NON

È DEFINITO.

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CAPITOLO IV IL DIRITTO CANONICO: DISTINTO E ‘DIPENDENTE’ DALLA

TEOLOGIA………………………………………………………………………………………..110

4.1 CONTESTO STORICO................................................................................................................. 114

4.2 TEOLOGIA DEL DIRITTO ........................................................................................................... 124

4.3 IL DIRITTO CANONICO: DISTINTO E ‘DIPENDENTE’ DALLA TEOLOGIA ...................................... 130

4.4 L’‘ASCOLTO’, FONDAMENTO DELL’ANTROPOLOGIA CRISTIANA-CATTOLICA ........................... 137

4.4.1 L’‘Obbedienza’: ascolto per la vita ................................................................................. 139

4.4.2 In sintesi ........................................................................................................................... 148

CAPITOLO V L’AMBITO D’ESERCIZIO DELLA POTESTÀ DI GOVERNO .......ERRORE. IL

SEGNALIBRO NON È DEFINITO.

5.1 ELIMINARE I CONFLITTI ESISTENTI TRA IL FORO INTERNO E IL FORO ESTERNO ........... ERRORE. IL

SEGNALIBRO NON È DEFINITO.

5.2 L’ESERCIZIO DELLA POTESTÀ COME SERVIZIO ‘DIPENDENTE’ DALL’ACCURATA DEFINIZIONE E

TUTELA DEI DIRITTI DELLE PERSONE .............................. ERRORE. IL SEGNALIBRO NON È DEFINITO.

5. 3 LA CURA DELLE PROCEDURE: TUTELA GIURIDICO-CANONICA DEI DIRITTI SOGGETTIVI .. ERRORE.

IL SEGNALIBRO NON È DEFINITO.

5.4 L’ATTO AMMINISTRATIVO STRUMENTO DELLA POTESTÀ DI GOVERNO . ERRORE. IL SEGNALIBRO

NON È DEFINITO.

5.4.1 Premessa ................................................................... Errore. Il segnalibro non è definito.

5.4.2 L’atto amministrativo ............................................... Errore. Il segnalibro non è definito.

5.5 I RICORSI AMMINISTRATIVI: LIVELLI DIVERSI DI ESPRESSIONE DELL’OBBEDIENZA CANONICA. 200

5.5.1 Premessa .......................................................................................................................... 200

5.5.2 I livelli della procedura amministrativa ........................................................................... 202

5.5.2.1 Primo livello della procedura amministrativa: confronto con l’autorità che ha emesso

l’atto (can. 1734). .................................................................................................................. 206

5.5.2.2 Secondo livello della procedura amministrativa: Ricorso al Superiore di colui che ha

emesso l’atto (can. 1737). ..................................................................................................... 207

5.5.2.3 Terzo livello o livello contenzioso amministrativo giudiziale (can. 1455 §2) .......... 209

CONCLUSIONE .............................................ERRORE. IL SEGNALIBRO NON È DEFINITO.

FONTI

……………………………………………………………………………………………..ER

RORE. IL SEGNALIBRO NON È DEFINITO.

A- FONTI ECCLESIASTICHE ............................................ ERRORE. IL SEGNALIBRO NON È DEFINITO.

I. Concilia .......................................................................... Errore. Il segnalibro non è definito.

II. Pontifices ....................................................................... Errore. Il segnalibro non è definito.

III. Curia Romana .............................................................. Errore. Il segnalibro non è definito.

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IV. Alii ............................................................................... Errore. Il segnalibro non è definito.

V. Patres et Doctores……………………………………………………………………….....231

B- FONTI NON ECCLESIASTICHE ..................................... ERRORE. IL SEGNALIBRO NON È DEFINITO.

I. Philosophici .................................................................... Errore. Il segnalibro non è definito.

BIBLIOGRAFIA .............................................ERRORE. IL SEGNALIBRO NON È DEFINITO.

SITOGRAFIA……………………………………………………………………………..………261

INDICE ............................................................................................................................................ 247