Piattelli Palmarini Massimo - L' Arte Di Persuadere

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1 Massimo Piattelli Palmarini L'arte di persuadere Come impararla, come esercitarla, come difendersene. prefazione... Antefatto... Nel celebre lungometraggio di Marcel Ophùls Le Chagrin et la Pitié (cronaca di una città francese sotto l'occupazione tedesca), che Woody Allen, in Io e Annie, pone addirittura al centro del patrimonio filmico dell'intellettuale cosmopolita, mi colpì la testimonianza del leader più carismatico della sinistra storica francese, Pierre Mendès-France. Capo, alla fine degli anni Cinquanta, di un benemerito governo di breve durata, al quale si deve il pacifico distacco della Tunisia dalla madrepatria e un definitivo passo verso la fine della guerra d'Indocina, Mendès- France conquistò il cuore di molti francesi, per ragioni che sono state ben espresse da Jean Daniel, per molti anni direttore di «Le Nouvel Observateur»: «Devo a Pierre Mendès-France l'aver provato, per qualche mese, la piacevole sensazione di essere pienamente ed entusiasticamente in sintonia con il governo del mio Paese». Nel corso di quell'intervista, Mendès-France racconta di una sua rocambolesca evasione da un carcere di Clermont-Ferrand, controllato dai tedeschi. Condannato a morte in quanto partigiano, riesce, nottetempo, con pochi altri compagni di sventura, a eludere la sorveglianza dei secondini. Gli evasi finiscono per trovarsi in cima all'alto muro della prigione, nell' unico punto in cui il gioco dei tralicci, dei davanzali, delle sporgenze e dell' oscurità consentirebbe loro di raggiungere una via di città sottostante, e quindi la libertà. Ma proprio in quel punto, cercando per tutt'altre ragioni la complice oscurità, indugia in teneri abbracci una coppietta. E' impossibile calarsi in strada senza essere visti dai due, e ugualmente impossibile prevedere la loro reazione. Il soldatino francese cerca di persuadere la ragazza a concedersi a lui, in un appartamento non distante. Acquattati in alto sul muro, ai fuggiaschi tocca seguire, volenti o nolenti, il dipanarsi dell'amorosa trattativa. Di minuto in minuto, ovviamente, si intensifica in loro il tifo per il soldato. «Mai mi è successo» aggiunge nella sua intervista, un po' imbarazzato, Mendès-France «di desiderare tanto ardentemente che una donna si lasciasse persuadere a perdere la propria virtù.» Possiamo ben intuire le argomentazioni tentate da quel soldatino, le solite che, da sempre, il moroso adopera per cercare di smantellare le difese della morosa. Eccezionale, in questa cronaca di vita vissuta sotto l'occupazione, è solo il fortuito imbroglio dei destini, l'intreccio, piuttosto inedito, di amore e morte. Viene naturale immedesimarsi, per un attimo, con gli evasi, restare anche noi sospesi al moto infinitesimo del cuore e della volontà di quella ignota ragazza, rimasta per sempre senza nome e senza effigie, restare sospesi all'effetto della forza di persuasione del soldatino, che intuiamo facilmente, come sempre in tali situazioni, fatta di parole, carezze, suppliche, intensificati ardori, bronci, impazienze. La ragazza, infine, cede. La coppietta si invola verso il nido, i partigiani verso la libertà. Mille sono le situazioni della vita quotidiana in cui a qualcuno risulta vitale che qualcun altro venga persuaso di qualcosa, eppure questa rocambolesca evasione con suspense amorosa ha qualcosa di speciale. Ripenso al percettibile imbarazzo di Mendès-France, e alla sua momentanea esitazione. Gli riusciva ancora difficile, dopo tanti anni, spiegare a quale filo era rimasta sospesa la sua vita, e quella dei suoi compagni di lotta, in quei lunghi momenti. Ripenso ai suoi folti sopraccigli, a quella sua aria insieme burbera e dolce, risoluta e riflessiva, e all' enigma che gli si era, di nuovo, presentato alla mente. Forse soppesava ancora una volta la libertà interiore della fidanzatina, di contro a un'altra, ormai vicinissima, libertà. Questo episodio mi colpì, ma non avrei, allora, saputo dire perché. Mi spinse a chiedermi in cosa consiste veramente una persuasione. Sono dovuti

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Massimo Piattelli Palmarini L'arte di persuadere

Come impararla, come esercitarla,

come difendersene. prefazione... Antefatto... Nel celebre lungometraggio di Marcel Ophùls Le Chagrin et la Pitié (cronaca di una città francese sotto l'occupazione tedesca), che Woody Allen, in Io e Annie, pone addirittura al centro del patrimonio filmico dell'intellettuale cosmopolita, mi colpì la testimonianza del leader più carismatico della sinistra storica francese, Pierre Mendès-France. Capo, alla fine degli anni Cinquanta, di un benemerito governo di breve durata, al quale si deve il pacifico distacco della Tunisia dalla madrepatria e un definitivo passo verso la fine della guerra d'Indocina, Mendès-France conquistò il cuore di molti francesi, per ragioni che sono state ben espresse da Jean Daniel, per molti anni direttore di «Le Nouvel Observateur»: «Devo a Pierre Mendès-France l'aver provato, per qualche mese, la piacevole sensazione di essere pienamente ed entusiasticamente in sintonia con il governo del mio Paese». Nel corso di quell'intervista, Mendès-France racconta di una sua rocambolesca evasione da un carcere di Clermont-Ferrand, controllato dai tedeschi. Condannato a morte in quanto partigiano, riesce, nottetempo, con pochi altri compagni di sventura, a eludere la sorveglianza dei secondini. Gli evasi finiscono per trovarsi in cima all'alto muro della prigione, nell' unico punto in cui il gioco dei tralicci, dei davanzali, delle sporgenze e dell' oscurità consentirebbe loro di raggiungere una via di città sottostante, e quindi la libertà. Ma proprio in quel punto, cercando per tutt'altre ragioni la complice oscurità, indugia in teneri abbracci una coppietta. E' impossibile calarsi in strada senza essere visti dai due, e ugualmente impossibile prevedere la loro reazione. Il soldatino francese cerca di persuadere la ragazza a concedersi a lui, in un appartamento non distante. Acquattati in alto sul muro, ai fuggiaschi tocca seguire, volenti o nolenti, il dipanarsi dell'amorosa trattativa. Di minuto in minuto, ovviamente, si intensifica in loro il tifo per il soldato. «Mai mi è successo» aggiunge nella sua intervista, un po' imbarazzato, Mendès-France «di desiderare tanto ardentemente che una donna si lasciasse persuadere a perdere la propria virtù.» Possiamo ben intuire le argomentazioni tentate da quel soldatino, le solite che, da sempre, il moroso adopera per cercare di smantellare le difese della morosa. Eccezionale, in questa cronaca di vita vissuta sotto l'occupazione, è solo il fortuito imbroglio dei destini, l'intreccio, piuttosto inedito, di amore e morte. Viene naturale immedesimarsi, per un attimo, con gli evasi, restare anche noi sospesi al moto infinitesimo del cuore e della volontà di quella ignota ragazza, rimasta per sempre senza nome e senza effigie, restare sospesi all'effetto della forza di persuasione del soldatino, che intuiamo facilmente, come sempre in tali situazioni, fatta di parole, carezze, suppliche, intensificati ardori, bronci, impazienze. La ragazza, infine, cede. La coppietta si invola verso il nido, i partigiani verso la libertà. Mille sono le situazioni della vita quotidiana in cui a qualcuno risulta vitale che qualcun altro venga persuaso di qualcosa, eppure questa rocambolesca evasione con suspense amorosa ha qualcosa di speciale. Ripenso al percettibile imbarazzo di Mendès-France, e alla sua momentanea esitazione. Gli riusciva ancora difficile, dopo tanti anni, spiegare a quale filo era rimasta sospesa la sua vita, e quella dei suoi compagni di lotta, in quei lunghi momenti. Ripenso ai suoi folti sopraccigli, a quella sua aria insieme burbera e dolce, risoluta e riflessiva, e all' enigma che gli si era, di nuovo, presentato alla mente. Forse soppesava ancora una volta la libertà interiore della fidanzatina, di contro a un'altra, ormai vicinissima, libertà. Questo episodio mi colpì, ma non avrei, allora, saputo dire perché. Mi spinse a chiedermi in cosa consiste veramente una persuasione. Sono dovuti

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passare molti anni prima che quella occasionale, sporadica curiosità si trasformasse nella nostra domanda di adesso: in cosa consiste la persuasione. Persuadere è un'arte, e come ogni arte ha i suoi manierismi e i suoi canoni ripetitivi. Solo in parte si può improvvisare. Esiste una sorta di logica della persuasione, che, come vedremo, non coincide con la logica pura, quella studiata dai logici di mestiere. Anche la parte di improvvisazione, però, è molto importante nella vita di ogni giorno, e non la si trova nei trattati sulla persuasione e sulla retorica. Per questo ho ritenuto utile scrivere un libro di carattere diverso. Quando una volontà, un'intenzione, una credenza, o una decisione, devono trasferirsi da una mente a un'altra, allora si devono innescare, sul momento stesso, moti convergenti nell'una e nell'altra. Per capire esattamente in cosa consiste la nostra individuale competenza a persuadere e ad essere persuasi dovremo arrivare fino alle radici della nostra psiche, fino ai meccanismi essenziali della logica e del linguaggio. Dovremo anche esplorare un fine intreccio tra l'affettivo e il cognitivo. Per sua natura intima, l'arte della persuasione è un esercizio lieve. Aborrisce i mezzi pesanti. E lecito esercitare un certo ascendente, ma non fare appello al principio di autorità. L' autorità, non a caso, subentra proprio quando la persuasione non basta. Per persuadere si devono attivare l'immaginazione e il raziocinio, si devono spesso anche smuovere i sentimenti, perfino le passioni, come ben sapeva quel soldatino. Ma sempre in modo delicato, senza oltrepassare una soglia che è difficile delineare in astratto. Per sua natura intima, il persuadere esclude non solo la minaccia e il ricatto, ma anche mosse sleali come l'appello alla pietà, o alla cieca fiducia. Di nuovo, se si deve ricorrere a questi espedienti, significa che la persuasione non basta. La persuasione può tollerare, invece, la lusinga, l'adulazione, il mettere in guardia contro futuri dolori, o la suggestione di futuri piaceri, l'ambiguità, il presupposto non detto, la conseguenza non dichiarata. Forse nessun mezzo è troppo lieve per esser usato nella persuasione. Ci sono tanti modi per produrre un cambiamento della volontà di un altro. La persuasione è solo uno di questi. E' chiarissimo, per esempio, che non si potrebbe sostenere di aver persuaso qualcuno somministrandogli uno psicofarmaco o sottoponendolo a ipnosi. Non sempre un'alterazione della volontà altrui in una direzione da noi auspicata è il risultato di una persuasione. Non sempre abbastanza lieve è, per esempio, un incentivo promozionale, un forte fascino personale, il prestigio di un grande maestro, l' expertise di uno specialista, il transfert fatto su un analista. Persuadere e convincere sembrano verbi ordinari, ma nascondono, a guardarli meglio, interessanti sottigliezze. Si persuade uno «a» fare qualcosa, e si persuade uno «che» non dovrebbe fare qualcos'altro. Persuadere e convincere, a differenza di «indurre», forse il verbo a questi più prossimo, reggono anche intere frasi, svelando che si applicano a dei contenuti complessi, a delle intere «storie». Si può convincere qualcuno che una certa storia è vera, o che è falsa. Si può persuadere qualcuno a mentire, a divorziare, a perdonare, ad uccidere, ad abdicare. Sembrano non esserci limiti, purché il verbo che segue comporti un atto di libera volontà. Persuadere significa indurre un cambiamento della volontà altrui, ma solo, si badi bene, attraverso un trasferimento di credenze, di opinioni. La moderna teoria linguistica riesce a connettere questo potere di reggere il «che» con una strada che passa obbligatoriamente e solo attraverso un cambiamento di credenze, un trasferimento lieve di puri contenuti mentali. Invece, «indurre», estraneo al «che», agisce sulla volontà anche per altre strade, non necessariamente lievi. Tanto che tollera premi e minacce, bustarelle e licenziamenti, perfino ricatti e torture. Qui contano i risultati, conta l'azione che ne consegue, e ogni mezzo è buono. Si può indurre qualcuno a fare qualcosa anche contro la sua volontà, mentre non si può persuadere qualcuno a fare qualcosa se non si passa sempre e solo attraverso un moto della volontà, attraverso un libero cambiamento di credenze e opinioni. Non si può persuadere uno, che so io, a vedere, a sapere, ad arrivare. Lo si può persuadere, però, rispettivamente, a guardare, a studiare, a partire. Persuadere implica che la persona sia libera non

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solo di volere, di agire, ma anche di pensare, di credere, di decidere. Deve essere, insomma, libera di lasciarsi persuadere. Anche al buio, e anche sotto l'occupazione tedesca. introduzione... L'istoria che andiamo a narrare... Erano stati molto persuasivi, «in Mondadori» (come si dice a Milano). Gian Arturo Ferrari, direttore generale, e Marco Vigevani, direttore della saggistica, gentilmente insistevano: «Dacci un seguito de La voglia di studiare. Scrivi una voglia di studiare per grandi». Cominciai a rifletterci. Non potevo certo scrivere «La voglia di lavorare», innanzitutto perché suona opprimente, poi perché non me ne intendo, e a me per primo spesso fa difetto. Allora, qualcosa sulla scelta della facoltà universitaria? Figurarsi! Oggi, in Italia?! NE veniva la pelle d'oca. No, ci voleva tutt'altro: un argomento che interessasse tutti, grandi compresi, di cui un po' mi intendessi e sul quale, soprattutto, ci fosse da dire qualcosa di nuovo, con un risvolto anche pratico. Dal limbo della memoria riaffiorò l'episodio di Mendès-France, e si riacutizzò quella mia vecchia curiosità per i meccanismi della persuasione. Nel frattempo era crollato il muro di Berlino, in Italia era finita una repubblica, e si poneva urgente il problema della legittimità del potere. Veniva naturale chiedersi se non dovrebbe essere proprio la persuasione, sempre e solo la persuasione, a fondare ogni contratto sociale. E se non vorremmo vederla sovrana, non solo nei rapporti tra elettori ed eletti, ma anche tra genitori e figli, tra professori e studenti, tra dirigenti e esecutori. Quale altra radice può trovare la fiducia se non la persuasione e l'esempio (che è esso stesso un gesto-persuasione)? Insoddisfatto dei trattati esistenti sulla persuasione, cominciai a pensare a un libro come questo. Due importanti sviluppi nelle scienze cognitive mi parvero poter dare corpo a questo progetto. Il mio vecchio amico Dan Sperber, valentissimo antropologo cognitivo francese, aveva proposto una nuova teoria della pertinenza (relevance theory nella dizione anglosassone) che stava giustamente suscitando grande interesse. Risolveva, come avremo qui occasione di verificare, un perenne rompicapo della comunicazione e della persuasione. C'era stato poi un luminoso articolo tecnico del mio attuale collega e sempre maestro Daniel Osherson, allora al Massachusetts Institute of Technology, su cosa rende un ragionamento psicologicamente persuasivo. (Si noti bene: psicologicamente, cioè per i comuni mortali, non in assoluto, cioè per i logici nelle loro torri d'avorio.) Per strade diverse, ma complementari, i due Dan offrivano soluzioni a due problemi centralissimi, della cui esistenza quasi nessuno, al di fuori di una ristretta cerchia di specialisti, si rendeva nemmeno conto. Il primo di questi è in che cosa consiste la «base» implicita dalla quale dobbiamo sempre partire per scambiarci e per «cambiarci» le opinioni. H secondo è in che cosa consiste esattamente il divario tra la logica «pura» e la logica del ragionamento quotidiano. Constatai con entusiasmo che, anno dopo anno, i due Dan, insieme ad altri importanti autori, ci stavano dischiudendo un nuovo continente. Si tratta di scoperte che riguardano tutti, ma di cui poco si sa nel vasto mondo, perché i lavori che le raccontano sono troppo sparpagliati, troppo tecnici e troppo in inglese. Finii con il persuadermi che, in fondo, poteva essere proprio questo il «seguito» che Ferrari e Vigevani chiedevano. Dopo la voglia di studiare, l'arte di persuadere.

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Sul tema della persuasione, sia manifesta che «occulta», pareva fosse già stato scritto tutto. Tutto, forse, meno l'essenziale. Una lunga tradizione, che risale ai Sofisti e passa poi per Aristotele, Cicerone, Quintiliano e i nazionalisti, faceva coincidere l'arte della persuasione con l'arte della retorica (ci ritorneremo nell'Appendice 1). Strano, perché nessuno si lascia mai persuadere dalla retorica, se appena appena la riconosce tale. Già Aristotele ci aveva messo in guardia, proprio nel suo trattato sulla retorica: «Bisogna sembrare di parlare non ad arte, ma naturalmente: questo infatti è persuasivo, mentre quello è l'opposto. Infatti si diffida di chi parla astutamente così come si diffida dei vini adulterati». Come diremo, i trattati classici, semplicemente, presupponevano tutto ciò che qui ci interessa, senza spiegarlo. Da Aristotele in poi esiste addirittura una «teoria centrale» della persuasione, che è presto detta: si ottiene il massimo della presa quando si adottano le linee di ragionamento che l'interlocutore è più incline ad accettare e quando si fa appello alle motivazioni che più gli stanno a cuore. Volendo essere un po' irrispettosi, si direbbe che, di primo acchito, suona come la scoperta dell'acqua calda. Come si fa, appunto, ad indovinare le motivazioni e le linee di ragionamento dell'interlocutore? Oggi, per nostra fortuna, anche questa «teoria centrale» della persuasione acquista un vero spessore, perché finalmente abbiamo un'agguerrita psicologia del ragionamento, una linguistica matura e raffinata, e le scienze cognitive. Cominciamo a sapere come anticipare le motivazioni e gli itinerari mentali dei nostri interlocutori. Sappiamo quali tasti suonare. Occorrono, a volte, anche i tasti della psicologia «del profondo», quando l'interlocutore non riconosce le proprie motivazioni, né le linee di ragionamento a lui più congeniali, fino a quando non sappiamo renderle esplicite, portarle alla superficie e farle affiorare alla sua coscienza, L'argomento «un dì, quando le veneri» usato da Germont con la «traviata» Violetta Valéry, con il quale si aprirà tra un momento il nostro spartito, ce lo confermerà. Sono certo che tanti lettori e lettrici saranno, come me, da sempre stupefatti che il vecchio Germont riesca ad ottenere tanto con così poco. Stupefatti... fino a quando non ci si riflette meglio. Ma non anticipiamo troppo. Questo delle «veneri» è il primo di una serie di esempi e di aneddoti che ho ritenuto indispensabili proprio per dar vita e sostanza alla nostra «teoria». Infatti, un tasto da tenere sempre premuto nei «nostri» strumenti di persuasione è l'originalità. L'argomento più persuasivo è sempre quello più nuovo. Nessuno si lascia persuadere da un argomento che ha già incontrato tante volte, a meno che, appunto, non ci scopra qualcosa di nuovo e di originale. Il guaio è che l'originalità sfugge per sua stessa essenza a qualsiasi regola di composizione. La potevo solo mostrare suonando delle «arie» e delle canzoni, cioè con brevi esempi concreti. Il secondo tasto su cui esercitarsi sempre è lo stile, appannaggio dei trattati sulla retorica. Noi qui lo azioneremo per ottenere gli accordi essenziali sul pentagramma del nostro linguaggio comune. Il terzo è la logica della persuasione (o piuttosto una psico-logica, se mi si perdona il bisticcio). Sarà per forza un tasto vitale, perché è quello aggiunto più di recente agli strumenti della persuasione. Quarto (e ultimo) tasto centrale del nostro pannello sarà la pertinenza, sul quale pure ci eserciteremo costantemente. Infatti, essere persuasivi significa riconoscere istantaneamente, e far riconoscere all'interlocutore, nuove relazioni di pertinenza, pur giocando sui tasti di quelle «vecchie». Il paradosso per noi centrale è che nessun atto di persuasione aziona «tutto», ma non è nemmeno possibile circoscrivere in formule, in astratto, una volta per tutte, come separare i tasti pertinenti da quelli che non lo sono. Eppure, di volta in volta, noi ben sappiamo quali tasti del sapere totale sono pertinenti alla nostra argomentazione. E lo sa il nostro interlocutore. E noi sappiamo che lui sa, e lui sa che noi sappiamo che lui lo sa. Altrimenti la persuasione sarebbe impossibile. La nuova teoria della pertinenza (la relevance theory di Dan Sperber e Deirdre Wilson), che qui espongo nei suoi tratti essenziali, ci consentirà di uscire da questo paradosso. In un libro sulla persuasione, inevitabilmente, il lettore si aspetta di trovare anche delle regolette pratiche per migliorare la propria forza di persuasione, e dei segreti per meglio resistere alla

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persuasione altrui, magari «occulta». Non mi sono sentito di deluderlo (quindi l'intero cap. 4, le regolette del cap. 6 e il cap. 10), pur senza illuderlo. Immunizzatomi con una vasta letteratura «tecnica» sulla persuasione che abbonda di paludate banalità, mi sono ripromesso, in questo libro, di limitarmi solo a ciò che sulla persuasione oggi si può dire che è insieme inaspettato, attendibile, e (spero) divertente. Doveva o no essere un libro per grandi? capitolo 1... La forza della persuasione... La durezza dei minerali viene misurata dalla cosiddetta Scala di Mohs, che va da uno a dieci. Questa scala, seppur molto utile in pratica, è qualitativa e relativa, non assoluta, cioè esprime solo la durezza degli uni rispetto agli altri, in ordine crescente. Più in basso di tutti è il talco, appena sopra il gesso, più in alto di tutti il diamante. Il criterio è semplice: fregando energicamente un tipo di minerale contro un altro, uno dei due scalfisce l'altro, ma non ne viene a sua volta scalfito. Possiamo pensare che uno «vince» sull'altro in durezza, consentendo, così, di stabilire una graduatoria. Le tracce del tenero gesso sulla dura lavagna visualizzano bene il principio. Cerchiamo ora di stabilire una scala analoga, approssimativa, ma indispensabile, per la forza persuasiva dei diversi tipi di argomentazione. Proviamo a adottare un criterio simile a quello di Mohs, e vediamo quale, tra due interlocutori, scalfisce l'altro, cioè riesce a persuadere, senza essere a sua volta persuaso. Converrà cominciare dalla vetta, dalle situazioni umane che richiedono maggior forza persuasiva, prendendo come riferimento obiettivo i casi nei quali qualcuno viene persuaso a sacrificare liberamente ciò che ha di più caro: la propria vita, la vita e il benessere delle persone care, la carriera, l'onore, o un grande amore cui tiene più che alla vita. Argomentazioni che possono persuadere qualcuno a compiere liberamente questi sacrifici estremi meritano un posto molto alto nella nostra scala. Inevitabilmente, fanno leva allo stesso tempo sulla ragione e sulle emozioni. Gli esempi non mancano. 1.1. Germont contro Violetta Nel secondo atto della Traviata assistiamo a un caso quasi perfetto. Il vecchio Germont, padre di Alfredo, va a trovare Mademoiselle Violetta Valéry, con l'intento preciso di spezzare la scandalosa relazione che la lega a suo figlio. Perché? Come lui stesso spiega, la sorella di Alfredo, pura siccome un angelo, aveva trovato un bravo giovane e il fidanzamento procedeva a gonfie vele, ma, quando questo giovine è venuto a sapere che Alfredo convive con una donna di assai dubbia reputazione, ha rotto seduta stante. L'amato e amante giovane, Cui sposa andar dovea, Or si ricusa al vincolo Che lieti ne rendea. Noi tutti diremmo: meglio perso che trovato! Ma non così la pensano i vecchi Germont, e, fatto ancor più strano, non così la pensa la fidanzatina abbandonata, che si strugge in lacrime ([Sono]... mutate in triboli / Le rose dell'amor). Il suo dolore è uno strazio che nessun padre amorevole può sopportare. Si lascia addirittura intendere, implicitamente, che questo angelo di purezza non

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troverebbe alcun marito rispettabile, fin tanto che dura la scandalosa relazione tra Violetta e Alfredo. Per ridare pace alla famiglia, Violetta deve troncare la sua relazione con Alfredo. E non per un certo periodo, ma per sempre. Il provincialotto provenzale e la giovane Germont potranno così convolare a giuste nozze. Per quanto implausibili a noi possano oggi apparire alcuni presupposti fondamentali di tutta la vicenda, non ci è affatto difficile, concedendo questi, seguirne poi il filo, e immedesimarci nelle emozioni dei personaggi. Tre presupposti (che anche noi dobbiamo concedere), condivisi da Germont padre e da Violetta Valéry, e mai messi in discussione durante tutta la loro conversazione (né nel seguito della vicenda): (1) Il giovanotto ha buone ragioni di essere scandalizzato ed è perfettamente comprensibile che abbia rotto il fidanzamento. (2) Bisogna dargli motivo di riconsiderare la sua giusta decisione. (3) Il matrimonio della giovane Germont con questo provincialotto perbenista è cosa molto, molto desiderabile, anzi, il bene supremo di tutta la famiglia. Questi tre punti fermi sono certamente, per noi, l'anello più debole dell'argomentazione di Germont padre. Ma, considerati i tempi, e il perbenismo moralista di quell'epoca e di quella società, concediamoli pure. Del resto, la stessa Violetta non sembra mai eccepire su queste motivazioni. Cerca solo di difendere i diritti del proprio amore, malgrado la immane sventura che questo suo amore per Alfredo obiettivamente causa alla di lui sorella e all'intera famiglia. Germont, come un rullo compressore, riesce a persuadere Violetta che questo «grande sacrificio» è necessario (t d'uopo!). Sa perfettamente che Violetta e Alfredo soffriranno moltissimo, ma non sembra curarsene più di tanto. H matrimonio tra il provinciale perbenista e la candida Germont figliuola deve avere il sopravvento sulla felicità peccaminosa di Alfredo e Violetta. Deve addirittura avere il sopravvento sulla vita di Violetta, già ammalata (Ah, il supplizio è sì spietato, / Che morir preferirò). Germont prima tenta con il rimprovero, e la condanna morale della loro relazione, ma Violetta lo mette subito al suo posto, minacciando di uscire dalla stanza, se intende continuare su quel tono. Donna son io, signore, ed in mia casa; Ch'io vi lasci assentite. Più per voi che per me. Germont deve usare armi persuasive più raffinate. In sequenza logica, e non cronologica, queste sono le sue argomentazioni: Prima argomentazione di Germont: Siete una creatura perduta, senza onore. Avete rincorso solo i vostri vantaggi e i vostri piaceri, non avete mai fatto niente per gli altri. Fate questo bel gesto (Un sacrificio chieggo ... ) e diverrete una sorta di madrina della nostra famiglia. Noi vi benediremo per sempre (Siate di mia famiglia L'angiol consolatore). Il primo tentativo del vecchio Germont punta, quindi, sull'amor proprio di Violetta. Accettate di fare questo sacrificio e farete, per una volta, una cosa nobile e grande. Ci sarà almeno qualcuno al mondo (io e mia figlia) che vi benedirà. Sulla base dei tre presupposti visti sopra, ecco come potremmo visualizzare la forma «logica» di questa argomentazione: Premessa 1: Siete ancora in tempo a emendarvi.

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Premessa 2: Rinunciando ad Alfredo vi emendereste. Premessa 3: Il matrimonio di mia figlia avverrà, se questa vostra relazione con Alfredo verrà troncata. Conclusione: Troncate questa relazione. Contro-argomentazione della povera Violetta: Questo grande amore per Alfredo è, in tutto e per tutto, la fine della sua carriera di cortigiana (Il passato... più non esiste... or amo Alfredo e Dio lo cancellò col pentimento mio). Insomma, lei si sta già emendando, proprio attraverso questo grande amore disinteressato per Alfredo (la prova obiettiva della sua sincerità è fornita a Germont dal fatto che Violetta sta in segreto vendendo - o piuttosto svendendo - tutti i suoi averi). Bisogna incalzare in qualche altro modo. Seconda argomentazione: La mia giovine figlia è una fanciulla casta e piena di virtù. Ella ha diritto alla felicità coniugale. Il sacrificio della vostra felicità, e di quella di Alfredo, sarà causa della felicità di mia figlia. t obiettivamente giusto che l'avvenire di mia figlia prevalga. Quello che questa relazione significa per voi è irrilevante agli occhi del mondo. Schematicamente: Premessa 1: La felicità di mia figlia vale obiettivamente molto più della vostra e di quella di Alfredo messe insieme. Premessa 2: Agli occhi di tutti, e in particolare a quelli del fidanzatino provenzale, questa relazione è uno scandalo, comunque voi la viviate nel vostro intimo. Premessa 3: Lo scandalo è già avvenuto, ma il danno può ancora essere rimediato. Conclusione (come sopra): Troncate questa relazione. Contro-argomentazione, implicita, di Violetta: Si potrebbe cercare di far capire anche agli altri che questa relazione è la mia sola via di redenzione, l'inizio di una svolta irreversibile nella mia vita. Al vecchio Germont conviene tentare altre mosse ancora. Terza argomentazione: Bella voi siete, e giovane... Col tempo... Insomma, presto avrete dimenticato Alfredo e potrete scegliervi un altro corteggiatore, fra tanti. Mossa infelice, questa, e subito sdegnosamente rifiutata (Ah, più non dite... V'intendo... m'è impossibile... Lui solo amar vogl'io). Germont ha commesso la gaffe imperdonabile di negare l'intensità dell'amore di Violetta per Alfredo, e la di lei sincerità nel voler cambiar vita. I presupposti sono talmente inaccettabili che questa terza argomentazione fallisce miseramente. Non merita nemmeno di ricevere una veste logica. Infine, arriva la quarta, la più efficace. Quarta ed ultima argomentazione: Un dì, quando le veneri... Alfredo si stancherà presto di voi e vi lascerà comunque (Volubile sovente è l'uom). La vostra unione, per quanto intensa, è precaria. Invecchierete, appassirete (Un dì, quando le veneri / Il tempo avrà fugate, Fia presto il tedio a sorgere / Che sarà allor?... pensate ... ). Meglio anticipare i tempi e, almeno, soffrire questo doloroso, ma inevitabile, distacco per una causa grande e nobile.

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La forma logica, irresistibilmente persuasiva per Violetta, sarebbe la seguente (una combinazione di due argomenti): Prima parte Premessa 1: L'uomo è incostante e volubile, quando non è legato dal sacro vincolo del matrimonio. Premessa 2: Alfredo è un uomo. Premessa 3: La vostra relazione non è, né potrebbe mai diventare, un vero matrimonio ( ... dal ciel non furono tai nodi benedetti). Conclusione: Alfredo, prima o poi (più prima che poi), vi lascerà. Seconda parte Premessa 1: La conclusione della prima parte. Premessa 2: Soffrirete comunque, e il danno a mia figlia sarà diventato irreparabile. Premessa 3: Agendo ora, tempestivamente, la situazione è ancora rimediabile (ne siete in tempo ancor), quindi avrete la nostra eterna gratitudine. Conclusione finale (manco a dirlo): Troncate questa relazione. A questo punto Violetta si dichiara infine persuasa: «t vero, è vero!» ammette singhiozzando. Congeda il vecchio Germont, assai rassicurato, e si risolve a scrivere, tra le lacrime, la sua eroica lettera di addio per Alfredo. Il vecchio Germont ha introdotto, in tutto questo, un solo elemento nuovo, una sola genuina «informazione»: che esiste una sorella di Alfredo, e che il fidanzato di questa l'ha lasciata a causa della relazione tra Alfredo e Violetta. Tutto il resto rappresenta solo un uso scaltro di luoghi comuni, perbenismi e sentimentalismi. Non dice a Violetta niente che lei non potesse pensare da sola. Infatti, il colpo di grazia, la prospettiva dell'inevitabile abbandono da parte di Alfredo, risulta così efficace proprio perché Violetta già, in cuor suo, lo prevedeva, ma non voleva prenderne coscienza. Il fulcro dell'argomentazione interna che infine riesce a scalfire Violetta è il seguente (esposto in tinte vagamente freudiane, come penso si debba): - Io sono una poco di buono. - Non ho speranza di redimermi (di più risorgere speranza è muta). - Alfredo, uomo meraviglioso, non può veramente amare una poco di buono come me. Quindi: - Prima o poi mi lascerà. Considerando esplicitamente la precarietà del loro legame, e ascoltando soprattutto la profonda disistima che ha di sé stessa, Violetta si decide a fare il gesto grande e nobile, un sacrificio a fin di bene. Ritroviamo proprio il principio fondamentale della persuasione, quello già scoperto da Aristotele, secondo il quale il persuasore deve sfruttare le molle già presenti e cariche nella persona da persuadere. La forza dell'argomento «delle veneri» di Germont è quella di portare in superficie e far scattare qui e ora una molla che era sprofondata nell'inconscio di Violetta. La molla scatta davvero, ed ecco che, infin persuasa, se ne esce con questo straziante, sublime messaggio-sospiro: Dite alla giovane sì bella e pura Ch'avvi una vittima della sventura Cui resta un unico raggio di bene... Che a lei sacrifica e che morrà!

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Come se questo sacrificio non fosse già abbastanza eroico, la logica spietata della situazione ne richiede un altro, ancora più gravoso. Il fatto stesso di accettare questa immensa (e in effetti mortale) rinuncia le conquisterebbe enorme rispetto da parte di Alfredo, lo spingerebbe ad amarla ancora di più. Mai Alfredo accetterebbe la fine della loro relazione, se ne sapesse il vero motivo. Quindi Alfredo non deve sapere. Si deve mentirgli, a fin di bene. Germont non lesina suggerimenti, diciamo, pratici: Dirgli che lei non lo ama. Nol crederà. Partire. Seguirammi. Germont è a corto di immaginazione, ma Violetta sa bene come fare. Alfredo deve essere convinto che lei è effettivamente una poco di buono, solo così accetterà il distacco definitivo. Insomma, per essere veramente efficace, il nobile gesto di Violetta deve apparire un'infamia. Alfredo deve credere che lei lo lascia perché rimpiange i lussi e la vita dissoluta. Germont padre sa la verità, ma non deve rivelarla ad Alfredo. Non prima che lei sia morta. Solo dopo (la mia memoria / Non fia ch'ei maledíca). Quindi il gesto viene compiuto facendolo apparire, appunto, un'infamia. Alfredo così lo interpreta, comincia a disprezzare Violetta, e la tragedia corre verso la sua fine. Unica consolazione di Violetta è che, come Germont le assicura: Mercé di queste lagrime Dal cielo un giorno avrete Premiato il sacrificio Sarà del vostro amor. Violetta viene persuasa, d'un solo colpo, a rinunciare al suo grande amore, a tener nascoste le altruistiche motivazioni del suo gesto, e a perdere perfino il rispetto che Alfredo ha per lei. Si direbbe che, per aver ottenuto tanto, le argomentazioni di Germont sono state un po' debolucce. Dove possiamo trovare, veramente, tanta forza persuasiva nel suo discorso? Come abbiamo visto, Germont ha solo fatto scattare un meccanismo preesistente. La vera forza dell'argomentazione viene da Violetta stessa. La forza persuasiva sta tutta nel disprezzo di sé, nella conseguente sfiducia in Alfredo (che lei pensa la lascerà non appena la sua bellezza sfiorirà) e nel credere impossibile qualsiasi riscatto, se non attraverso questo gesto di irreparabile autolesionismo. Germont riesce nel suo intento solo perché offre a Violetta il pretesto della distruzione, e le fornisce un alibi morale. Il riscatto, giudicato impossibile per lei in carne ed ossa, può almeno essere concesso alla buona memoria che lei si lascerà dietro, a tempo debito. Tanto bastava. t già arduo persuadere qualcuno a sacrificare un grande amore. Ancor più arduo persuaderlo a sacrificare anche la vita. Quasi impossibile persuaderlo a sacrificare e l'amore, e la vita e l'onore. La vera forza dell'argomentazione qui è fornita proprio dal senso dell'onore riscattato, a un più alto livello, dopo la morte. 1.2. Da una tragica finzione a una ancor più tragica realtà Si dirà: ma questo è teatro, finzione. Anzi, teatro d'opera, una forma d'arte che non pretende nemmeno di essere verosimile. A questo si può ben controbattere che, forse, per noi oggi non lo è più (benché personalmente io non ne sia poi tanto certo), ma intendeva essere perfettamente verosimile quando fu scritto. Un'opera era verosimile, non solo perché commuoveva, faceva gioire,

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o piangere, suscitava nello spettatore compassione, o ammirazione, o disprezzo, per i vari personaggi, ma anche perché era costruita molto pignolamente su particolari realistici. I librettisti e il compositore si scervellavano per escogitare situazioni, parole e reazioni credibili. E ci riuscivano. Al punto che certe opere sono inizialmente cadute sotto il taglio della censura. Per esempio, proprio un'altra opera dello stesso Verdi, Un ballo in maschera, venne censurata per motivi politici. Il librettista fu costretto a situare l'azione, poco plausibilmente, a Boston, trasformando la figura del re di Svezia in quella di un remoto proconsole del lontano «nuovo mondo». Anche La traviata urtò la suscettibilità morale di molti e faticò ad essere accettata dal pubblico, per motivi morali. Era giudicato sconveniente far palpitare il pubblico per le sorti di una sgualdrina. I compositori e i librettisti intendevano rappresentare emozioni credibili in personaggi credibili. Né mi sembra si faccia, ancora oggi, tanta fatica a crederci. Non possiamo liquidare le vicende di un melodramma in quanto, appunto, «melodrammatiche». Se, comunque, la finzione artistica non ci sembra possedere abbastanza verosimiglianza, prendiamo casi della vita reale. Saliamo ancora di un grado nella nostra scala, cerchiamo di raggiungere il vertice. Cerchiamo casi veri, nei quali si chiede ancor più di quanto Germont ha chiesto e ottenuto. Arthur Koestler, in Buio a mezzogiorno, romanzo largamente autobiografico che, almeno per la mia generazione, ha rappresentato la più persuasiva denuncia dei crimini di Stalin, narra di pratiche poliziesche ed inquisitorie dei regimi staliniani talmente perverse da farci esitare a riconoscervi una qualsiasi componente di genuina persuasione. Eppure, risulta che venisse messo in atto, dai commissari, anche un tentativo di persuasione. Pur se irrobustita da tormenti fisici e psicologici, esisteva anche questa componente persuasiva. La logica spietata e cinica della macchina stalinista viene così sintetizzata durante l'ultimo interrogatorio dell'inquisito Rubasciov da parte del suo «inquisitore» Cletkin. Parla Gletkin: «Il Baluardo deve resistere, a costo di qualunque sacrificio. n capo del Partito ha identificato questo principio con impareggiabile chiarezza e lo ha costantemente applicato. La politica dell'Internazionale doveva essere subordinata alla nostra politica nazionale. Chiunque non aveva capito questa necessità doveva essere ucciso. Interi gruppi dei nostri migliori funzionari in Europa hanno dovuto essere fisicamente liquidati. Non abbiamo esitato a distruggere le nostre stesse organizzazioni all'estero quando gli interessi del Baluardo lo esigessero. Non abbiamo esitato a collaborare con la polizia dei Paesi reazionari per soffocare movimenti rivoluzionari che sorgevano intempestivamente. Non abbiamo esitato a tradire i nostri amici e a scendere a compromessi con i nostri nemici, per salvare il Baluardo. Questo è il compito che la Storia ci ha dato, a noi, rappresentanti della prima rivoluzione vittoriosa. I miopi, gli esteti, i moralisti non hanno capito. Ma il capo della Rivoluzione ha compreso che tutto dipendeva da una sola cosa: essere quelli che resistono di più». Gletkin a questo punto fa una pausa, è sudato e soprattutto imbarazzato di aver rotto il suo consueto riserbo. Torna al suo posto dietro alla scrivania, si ricompone e con voce fredda e contegnosa di nuovo riprende: «[ ... I Voi e i vostri amici, cittadino Rubasciov, avete creato una frattura nel Partito. Se il vostro pentimento è sincero, dovete aiutarci a sanare questa frattura. Come vi ho detto, è l'ultimo servizio che il Partito vi chiede. Il vostro compito è semplice [...]. La politica dell'opposizione è l'errore. t vostro compito, quindi, rendere l'opposizione spregevole; far capire alle masse che l'opposizione è un delitto e che i capi dell'opposizione sono dei criminali! Questo è il semplice linguaggio che le masse comprendono. Se cominciate a parlare dei vostri complicati motivi, creerete solo della confusione tra di esse. Il vostro compito, cittadino Rubasciov, è di evitare di ridestare la simpatia e la pietà. La simpatia e la pietà per l'opposizione sono un pericolo per il Paese».

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Rubasciov ormai sta subendo il plagio e annuisce. Cletkin riprende: «Notate bene che il Partito non vi offre alcuna prospettiva di compenso. Alcuni accusati sono stati resi ragionevoli da pressioni fisiche; altri dalla promessa di aver salva la vita, o la vita dei loro parenti che erano caduti come ostaggi nelle nostre mani. A voi, compagno Rubasciov, non facciamo alcuna proposta e non promettiamo nulla». «Capisco» disse Rubasciov. Cletkin continua: «Il Partito promette una sola cosa: dopo la vittoria, quando non potrà più essere dannoso, il materiale degli archivi segreti verrà pubblicato. Allora il mondo saprà che cosa si nascondeva dietro le quinte di questa commedia medievale, come voi la chiamate. [...] E allora voi, e alcuni vostri amici della vecchia generazione, avrete la simpatia e la pietà che vi sono negate oggi». Alla fine di questo ultimo interrogatorio Rubasciov cederà e firmerà la propria condanna a morte, «confessando» d'avere commesso i suoi delitti per motivi controrivoluzionari e al servizio di una potenza straniera. Durante le purghe staliniane, per il bene del Partito, gli accusati dovevano, quindi, non solo accettare di essere eliminati fisicamente, ma di essere eliminati con disonore. Il popolo non avrebbe compreso che questo sacrificio era «obiettivamente» necessario, nonostante le accuse fossero infondate e le colpe inesistenti. Questo, come precisa freddamente Cletkin, avrebbe richiesto da parte della «base» uno sforzo troppo grande. Il popolo doveva pensare che le colpe erano reali, che si era veramente scoperto ed eliminato un immondo complotto controrivoluzionario. Questa menzogna avrebbe fatto obiettivamente progredire la marcia verso il socialismo. Chiedere di sacrificare la propria vita con onore è cosa che ogni Stato, ogni regime, ha fatto senza batter ciglio, persuadendo, secolo dopo secolo, moltitudini di valorosi. Ma sotto Stalin, il Partito poteva chiedere ancora di più, proprio perché si considerava più grande di ogni Stato e di ogni regime. Poteva arrivare a chiedere di sacrificare la propria vita con disonore. Riesce davvero difficile immaginare un'argomentazione che possa persuadere uno a compiere liberamente questo gesto di totale, irredimibile autoannientamento. Infatti si usava la forza, assai più che la persuasione. Per ottenere confessioni dettagliate di colpe inesistenti e credibili autocritiche pubbliche, si minacciava di eliminare membri della famiglia, amici, colleghi, altri compagni innocenti. La macchina di annientamento era talmente spietata, e talmente meschina, che, subito prima dei processi-farsa, gli imputati venivano improvvisamente super-nutriti e fatti sbrigativamente abbronzare con lampade ai raggi ultravioletti, in modo da apparire in buona forma fisica. Se anche, caso mai, avessero trovato il coraggio di denunciare pubblicamente le torture subite, scatenando una repressione ancora più feroce e indiscriminata, nessuno ci avrebbe creduto. Venivano, oltretutto, costretti ad indossare dei pantaloni enormi, senza cintura né bretelle, in modo che durante la loro deposizione pubblica calassero, lasciandoli in mutande. Il sinistro trucchetto (del resto adottato anche dal regime nazista contro gli attentatori alla vita di Hitler) funzionava. Incoraggiato dai ghigni degli stessi giudici, il pubblico rideva, aggiungendo la beffa al danno, trasformando gli imputati, oltre tutto, in ridicoli, spregevoli buffoni. Questo era il tenore della macchina di «giustizia» cui erano sottomessi. Purtuttavia, il persecutore Gletkin descritto da Koestler tenta con la sua vittima, come abbiamo visto, anche una goffa forma di persuasione. Fa valere, appunto, le necessità «storiche», la fase di assestamento del regime, e accenna timidamente a un estremo riscatto, molto più in là, quando il potere del Partito sarà sufficientemente consolidato e il Popolo sarà più cosciente. Forse, forse, verrà perfino il giorno della riabilitazione. Ma non per ora. Ora devi essere eliminato con infamia.

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Se sei davvero un buon compagno, devi capire che questo è necessario. Se non lo sei, ebbene, allora non ci facciamo più tanti scrupoli. Il destino degli sventurati era segnato comunque, ma si tentava anche con la persuasione, non foss'altro per ottenere la loro totale, terminale remissività. Questo caso ci spinge a chiederci se potrebbe esistere un'argomentazione capace di persuadere una persona a sacrificare volontariamente sia la vita che la dignità e l'onore. Non per riconquistarlo, come Violetta, subito dopo la morte, ma per non riconquistarlo mai più. 0 almeno senza alcuna certezza di riconquistarlo mentre ancora, chi resta, ne conserva la memoria. Se eliminassimo dal fosco quadro del Gulag staliniano le camere di tortura e ogni altra costrizione fisica e psichica, potremmo immaginare un'argomentazione con forza persuasiva sufficiente ad ottenere volontariamente il sacrificio di cui parla Gletkin? Se una tale argomentazione esiste davvero, allora può essere, in buona approssimazione, posta al vertice della nostra scala. Risulta difficile immaginare un sacrificio ancora più grande, e quindi una forza più intensa di quella di un'argomentazione che può persuadere qualcuno a farlo di propria volontà. Il valore supremo cui fare appello poteva solo essere quello della gloriosa marcia verso una società infinitamente migliore e l'assoluta insignificanza dell'individuo nei confronti della Storia (esse maiuscola) e del Popolo (idem). Come dichiarato da Cletkin, molti valorosi compagni di lotta e perfino quadri di partito sono stati cinicamente denunciati alle polizie nazi-fasciste, costretti a sacrificare la vita e l'onore in nome di questi ideali. Non esistono documenti storici indubitabili che provino che qualcuno abbia accettato questo spietato tradimento liberamente, in virtù della sola persuasione. La vita sì. La vita e l'onore a breve termine (se così si può dire), possono forse ancora essere accettabili. Ma la vita e l'onore della propria memoria futura è forse chiedere troppo alla forza della sola persuasione. E' nella natura umana riconoscere, magari solo in astratto, valori più grandi della propria vita individuale. La storia dimostra che moltitudini di uomini e donne, in ogni epoca e sotto ogni regime, hanno scelto liberamente di sacrificare la propria vita per uno di questi valori. Ma importa molto che le proprie azioni servano concretamente la causa, e importa molto che l'atto stesso del proprio sacrificio rappresenti in quanto tale il trionfo di questi valori supremi. E' da tutti considerata particolarmente tragica la sorte di coloro che si sono sacrificati inutilmente. (Nella recente guerra del Golfo, durante la quale ci sono state molte vittime di friendly fire, cioè soldati uccisi per errore dai loro stessi alleati, le autorità militari evitarono di rivelare questa imbarazzante causa di morte alle famiglie dei singoli caduti.) Ma ancora più tragica è la sorte di chi, per un diverso genere di errore, o a causa di un cinismo particolarmente efferato dei suoi stessi superiori, si vede perfino privato del riconoscimento, da parte di chi resta, del valore del proprio sacrificio. Esiste davvero qualcuno che, informato in anticipo, avrebbe liberamente accettato comunque una simile sorte? Nelle vicende della resistenza al nazi-fascismo mi risulta, da fonte attendibile, che si sia verificato realmente almeno (dico almeno) un caso che ci avvicina molto a questo estremo. In un Paese occupato dai nazisti, un'organizzazione di resistenza armata era riuscita ad inoltrare un informatore nelle maglie della Gestapo. La missione di questo temerario doppio-giochista era di fornire ad arte ai tedeschi false informazioni. Ovviamente, dovevano essere false, ma credibili. Ad un certo momento, si progettò un'importante azione di sabotaggio, in concomitanza con un'offensiva alleata. Il falso informatore rappresentava davvero una risorsa preziosa. Mediante un'efficace e precisa disinformazione, avrebbe potuto garantire il successo dell'azione. Il problema era di renderlo preventivamente credibile, assolutamente credibile. Proprio come raccontato da Koestler, l'organizzazione, considerata l'importanza dell'obiettivo militare, decise di aumentare la credibilità di quell'informatore agli occhi del comando tedesco, facendogli rivelare l'esistenza e l'ubicazione di un nucleo combattente clandestino, con tanto di nascondiglio di armi, rice-trasmittente e altro preziosissimo materiale. Agli interessati, o piuttosto, alle vittime, non venne

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detto nulla. Fu deciso di immolare questi compagni, a loro insaputa, sull'altare della ragione politico-militare. Questa gravissima, machiavellica mossa era frutto di una tale spregiudicatezza e di un tale cinismo da rendere impensabile ai tedeschi che potesse essere stata fatta ad arte. Proprio per questo, a carissimo prezzo, l'organizzazione riuscì veramente a dare una patente di credibilità al suo agente. Alcuni sventurati partigiani vennero così intenzionalmente traditi dal loro stesso comando. Uno di loro, per una beffa del destino, venne a sapere, o indovinò, come erano veramente andate le cose e trascorse la sua ultima notte straziato, non solo dalle piaghe delle torture e dalla prospettiva della morte imminente, ma soprattutto dal pensiero che l'organizzazione non aveva avuto abbastanza fiducia in lui e nei suoi compagni. Si disperava di non essere stato informato preventivamente della necessità di quella manovra delatoria. «Avremmo accettato di buon grado questo sacrificio» disse a un compagno di cella che è poi fortunosamente sopravvissuto «ma perlomeno potevano concederci la loro fiducia e dircelo. Quello che mi addolora di più è di dover morire così, ingannato dal nostro stesso comando, per mancanza di fiducia.» 1.3. La forza dell'ideale e la forza della persuasione estrema Abbiamo forse oltrepassato un po' l'ambito del nostro argomento. Stiamo misurando adesso la forza dei grandi ideali, e non più solo la forza persuasiva di una qualche specifica argomentazione. Dato che volevamo raggiungere il grado massimo della scala, era inevitabile trovarci in questa situazione. Sarebbe insensato voler ridurre questi possenti motori dei sentimenti e dei comportamenti umani a qualche formuletta di tipo logico. Siamo a un livello troppo alto, dove regnano gli imperativi etici, il patriottismo, il senso del dovere, l'abnegazione. Non vorrei essere frainteso. Non sto tentando di «ridurre» questi a un meccanismo cognitivo, né a niente che possa chiamarsi, in alcun modo, un meccanismo. Suggerisco solo che può essere di un certo interesse analizzare queste situazioni anche sotto un'ottica un po' diversa da quella storica, etica e politica, che comunque resta quella più appropriata. Il nostro intento è vedere fin dove può spingersi la forza della persuasione in quanto tale, vedere dove si situa il grado massimo della nostra scala. Si può riuscire a persuadere uno a fare un sacrificio, se si può far leva su un vantaggio ancora più grande. Quando si tratta della vita stessa, non si può più parlare di vantaggi, ma si deve piuttosto parlare di valori. La lista dei valori che un essere umano può considerare più alti della propria vita è piuttosto ristretta e, a un certo livello di astrazione, universale. Lo abbiamo in parte già visto: una vita eterna di altra natura, la vita di altre persone care, o di molte persone innocenti, la libertà, la dignità e l'onore, propri o di qualche entità collettiva, il progresso di una nobile causa, il benessere di una vasta collettività, l'armonia dell'universo. Spesso questi valori superiori non si escludono l'un l'altro, ma anzi si rafforzano mutuamente. Anche se molte sono le variabili etniche e storiche che decidono chi, o che cosa, incarna di volta in volta questi valori, si può ben discernere un ordine immutabile di valori. Non si può persuadere uno a sacrificare la propria vita, se non lo si persuade che uno di questi valori, da lui riconosciuto come sommo, viene accresciuto in conseguenza di questo sacrificio. L'argomentazione può limitarsi a poche parole appena, se si tratta solo di ricordare la superiorità di questi valori a chi ben la conosce. La Pasionaria (alias Dolores Ibarruri), leggendario condottiero comunista della guerra civile spagnola, incitava i suoi miliziani con il celebre, laconico slogan: «Meglio morire in piedi che vivere in ginocchio.» Come ben mostra, esempio tra tanti, I dialoghi delle Carmelitane di Georges Bernanos, una possente forza persuasiva è esercitata anche dall'esempio. Si convincono gli altri a fare altrettanto, dimostrando nei fatti, con il proprio comportamento e la propria parola, che si è sereni e rassegnati. Non si può essere laconici come La Pasionaria, quando si deve trasmettere, come la Priora alle Carmelitane imprigionate e condannate a morte dai Giacobini («per aver tenuto conciliaboli anti-rivoluzionari, mantenuto corrispondenze fanatiche e conservato scritti liberticidi»), la certezza

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dell'infinita superiorità della Gloria di Dio e della ricompensa eterna che è stata promessa a chi rifiuta di abiurare la propria fede. Le sedici suore si riuniscono in un cortiletto interno. Madre Maria dell'Incarnazione è stata condannata in contumacia. Parla la Madre Priora: «Figlie mie, ho desiderato con tutto il cuore di salvarvi ... Si, avrei voluto che questo calice si allontanasse da voi, perché vi ho amate fin dal primo giorno come una madre secondo natura, e quale madre fa volentieri, sia pure alla stessa Maestà Divina, il sacrifìzio delle sue creature? Se ho fatto male, Dio vi provvederà. Così come sono, voi siete il mio bene ed io non son di quelli che gettano dalla finestra il loro bene. Infine, non importa, figlie mie, eccoci giunte al termine, si tratta ormai solo di morire. Sia benedetto Iddio, che fa del supplizio, che siamo sul punto di subire insieme, come l'ultima cerimonia della nostra cara Comunità! «Figlie mie! è venuta l'ora di ricordarvi il voto che avete pronunziato. Fino a questo momento ho voluto risponderne io sola. Posso ormai assumerne la sola parte che mi spetta e anche dovrei rivendicarla umilmente nel nome della nostra ammirevole Madre Maria dell'Incarnazione, perché dispongo io della sua parte, quantunque indegna, per l'ultima volta ed una volta per tutte, con la mia materna benedizione». Persuasioni di questa grandezza, in frangenti così tragici, consistono in un solenne memento, per chi già sa, o in una vera e propria conversione, per chi non si era mai reso conto dell'esistenza e della superiorità di questi valori. Più arduo ancora è persuadere qualcuno a sacrificare la propria vita e uno di questi sommi valori. Morire, come nel Gulag, e allo stesso tempo offendere la giustizia, la verità e l'onore. Nel commovente caso del partigiano, morire senza il beneficio della fiducia nel proprio coraggio e nella propria totale fedeltà all'organizzazione. Una morte subita da passivo agnello sacrificale, quando avrebbe saputo andarle incontro a fronte alta, da volontario. Questi esempi incitano a chiedersi se perfino la forza di un ideale, magari unita a quella dell'esempio, basterebbe a persuadere qualcuno a sacrificare liberamente sia la propria vita che uno di questi alti valori. Un modo efficace può essere quello di prospettare un valore ancora più alto, che viene raggiunto proprio sacrificando tutte e due le cose insieme. Oppure facendo presente che la rinuncia a questo sommo valore è, in fondo, solo apparente, non reale. Il lungo termine prevale sul breve termine, il grande disegno sul privato, l'onore futuro sull'onore di oggi. Il vecchio Germont e - mutatis mutandis - il commissario di Koestler usavano proprio questa strategia. Andiamo un passo oltre. Chiediamoci se si potrebbe riuscire a persuadere qualcuno a sacrificare la vita e l'onore (o un altro sommo valore) senza una simile remota, astratta promessa di redenzione, senza prospettare un valore ancora più alto. In terreni come questi, i confini della natura umana sono insondabili ed è difficile stabilire principi. Diremmo, però, almeno in buona approssimazione, che stiamo chiedendo l'impossibile. Nessuno può, con i mezzi lievi, non coercitivi, della sola persuasione, essere liberamente indotto a fare un simile sacrificio. Abbiamo forse veramente toccato il vertice della nostra scala, forse abbiamo davvero trovato il diamante della persuasione. Non si può, umanamente, pensare a niente che sia tanto forte, pur restando lieve. La gratitudine promessa da Germont alla memoria di Violetta, il progresso del socialismo ottenuto a prezzo del proprio disonore, costituiscono la frontiera più avanzata del territorio della persuasione. Unendo le forze del sentimento, dell'ideale, dell'utopia, dell'altruismo, della fede e anche, in questi frangenti, ultima, ma mai futile, dell'argomentazione, si può spingere una persona a tanto. Ma non oltre.

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capitolo 2... I paradossi della persuasione... In un libro recente su «le armi della persuasione», lo psicologo americano Robert B. Cialdini propone la metafora del jujitsu l'arte giapponese della difesa personale: come il lottatore deve sapientemente sfruttare la forza dell'avversario, l'inerzia, i principi delle leve e la gravità, mettendoci il minimo di forza propria, così il persuasore deve solo incanalare la forza delle convinzioni e delle argomentazioni già presenti e attive nell'ascoltatore. L'immagine è nuova e divertente, ma il concetto è pur sempre quello scoperto fin da Aristotele. Lo abbiamo già incontrato sotto il nome di «teoria centrale» della persuasione. E qui ci imbattiamo subito in un paradosso: se niente è più persuasivo per la lepre che l'invito a correre, allora la persuasione è tanto più efficace quanto meno ce n'è bisogno. Il caso di Germont e Violetta, però, mostra il contrario. Fare emergere in superficie, mediante un'abile persuasione, delle forze interne, oscuramente già presenti, ma sommerse, può effettivamente cambiare un intero corso di eventi, far passare dal grande amore alla grande rinuncia, dalla vita alla morte. Vedremo più avanti (par. 4. 1) come uscire da questo paradosso, la cui soluzione può a volte richiedere le armi di una psicologia «del profondo». Il processo della persuasione presenta anche altri paradossi. Uno di questi, forse il più centrale, riguarda l'originalità che deve possedere ogni argomentazione veramente persuasiva, e la perfetta prevedibilità del suo effetto. Anche la più elegante, pertinente e inattesa delle argomentazioni risulta persuasiva se, e solo se, ha una sua precisa «logica». Infatti, dalla parte del persuasore, l'effetto di un'argomentazione è perfettamente prevedibile. La si è escogitata proprio per ottenere quell'effetto. Il paradosso, quindi, è che nella persuasione devono coesistere, spalla a spalla, elementi prevedibili, quasi calcolabili, e elementi di spontaneità, freschezza, sorpresa. Se, al momento stesso, si dovesse spiegare a qualcuno perché un'argomentazione è persuasiva, significa che non lo è. Sarebbe come dover spiegare la battuta finale di una barzelletta. Significa che non fa ridere. La persuasività, come lo humour, si deve poter trasmettere di getto, al primo contatto. 2.1. Il paradosso di Cartesio Nei meccanismi della persuasione, come in tutti i meccanismi di cambiamento di opinioni e credenze, esiste sia una forte sistematicità, che il rigetto della ripetizione e dell'imitazione. Esiste una quasi perfetta prevedibilità che, però, esclude ogni determiniamo, ogni meccanicismo. Come già aveva ben visto Cartesio, un cambiamento di opinione che risulta da un processo di persuasione non è né causato dall'argomentazione persuasiva, né è indipendente da questa. Questo doppio «né» (né causato da, né indipendente da) va ben oltre l'ambito della persuasione: è il paradosso centrale di tutte le scienze cognitive (il cosiddetto paradosso di Cartesio-Chomsky). Le opinioni, le convinzioni, le decisioni, le credenze, i ragionamenti, strettamente parlando, non hanno «cause». Eppure sono strettamente, intimamente legati tra di loro, e legati alle vicende del mondo circostante. Sempre strettamente parlando, le cause appartengono al mondo studiato dalle scienze della natura, e al mondo delle macchine, per quanto complesse e «intelligenti». Per esempio, l'incuneazione di un fronte di pressione entro un altro causa un ciclone, un virus causa una malattia, una lesione cerebrale causa un deficit linguistico, un'istruzione in un programma di calcolo causa una certa iscrizione nella memoria centrale del calcolatore. Per traslato, diciamo anche che quell'ingiustizia subita da Rossi sul lavoro è stata la «causa» delle sue dimissioni, ma esiste pur sempre il filtro della sua libera volontà. I moti della volontà e le decisioni sono, se si vuole, cause

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interne, ma sempre governate dal libero arbitrio e da quella famosa, fondamentale, non-formalizzabile relazione di pertinenza, che non si lascia ridurre a un rapporto di causa e effetto. 2.2. La «base» implicita non è poi così «relativa» L'illustre psicologo cognitivo inglese Jerome Bruner disse acutamente, orsono quasi quarant'anni, che, se si scava fino alle origini di un'opinione qualsiasi, non troveremo solo un'altra opinione, ma piuttosto «un campionario dei modi che il detentore di quell'opinione adotta per cavarsela nel mondo». Un trasferimento di opinioni e di credenze, quale si verifica in un processo di persuasione, deve, appunto, presupporre tale «campionario» comune di altre opinioni e, oltre a questo, un sistema condiviso di modi di cavarsela nel mondo. Se il campionario fosse radicalmente diverso per ogni persona, se i «modi per cavarsela nel mondo» variassero troppo al variare delle conoscenze, dei ricordi, degli scopi di ciascuno di noi, allora ci sarebbero scarse speranze di potersi servire della persuasione. Per fortuna, non è così. L'apparato cognitivo della specie umana si rivela, a un livello di indagine più approfondito, notevolmente costante e notevolmente ben strutturato. In questo libro, cerchiamo di farne tesoro. Esiste, quindi, una via per uscire dal paradosso centrale della persuasione: attribuire ad ogni essere umano, come «base» implicita, un fiuto raffinato (anche se non infallibile) per le relazioni di pertinenza, e una certa sistematicità degli itinerari mentali per passare, in modo pertinente, da certe premesse a certe conclusioni. Dobbiamo attribuire a ciascuno una siffatta «Competenza» cognitiva comune, che varia solo per alcuni particolari. Questa competenza comune ci occorre per poter correttamente attribuire, a noi stessi e agli altri, stati d'animo, credenze, opinioni, progetti, ragionamenti. E intuire le connessioni pertinenti. Infatti, siamo tutti straordinariamente bravi a farlo, senza nemmeno rendercene conto. In particolare, siamo bravissimi nel passare spontaneamente e pertinentemente da premesse nuove a conclusioni nuove. Siamo, anche, bravissimi nell'anticipare analoghi passaggi negli altri. Vedremo che la sistematicità di queste connessioni non coincide con la logica pura, ma non è nemmeno totalmente estranea alla logica, Un altro interessante paradosso. Questa competenza, e questo patrimonio comune di contenuti e di itinerari mentali, attualmente studiati dalle scienze cognitive, risultano essere più vasti e affidabili di quanto si fosse mai sospettato in passato. Non ci si limita più a constatare che un certo schema di ragionamento, o una certa figura retorica, ottiene certi effetti. Adesso si comincia a capire perché. (Il caso che vedremo in un certo dettaglio nel cap. 7 è quello, per noi capitale, del «se..., allora ... ».) 2.3. Il relativismo e... un'eclissi di sole C'era una volta una dottrina molto in voga, chiamata relativismo culturale. Gli antropologi, viaggiando per il vasto mondo, avevano scoperto una varietà impressionante di culture, usi e costumi, credenze, stili di vita. Ne avevano tratto la conclusione che esistono tanti modi di ragionare sul mondo e su noi stessi, e quindi tante «logiche», quante sono queste culture. Solo in anni molto recenti questa conclusione ha cominciato ad essere drasticamente ridimensionata. Basti un solo esempio: a dispetto di quanto si è sentito dire per anni e anni con tanta sicumera, non è vero che gli eschimesi hanno decine di parole per descrivere la neve (ne hanno quattro o cinque, come noi). Si è ricostruito passo passo come questa falsa credenza è nata e si è propagata, cavalcando una sequela di quiproquo, sospinta dalla tesi che lingue diverse rappresentano filtri diversi per vedere il mondo. Il mito dei cento nomi per la neve, e dei cento modi, letteralmente, di vedere la neve, è solo, appunto, un mito, un abbaglio, un fraintendimento. Una nuova antropologia a indirizzo cognitivo ci sta mostrando, invece, che anche popoli diversi da noi per lingua, habitat, stili di vita, e credenze, «vedono il mondo» sostanzialmente come lo vediamo noi, e soprattutto «ragionano» in un modo non troppo diverso dal nostro. Basta cercare i processi cognitivi veramente fondamentali (per esempio le regole universali che governano il lessico dei colori in

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qualsiasi lingua), prestare attenzione alla base comune sottostante a tutte le lingue e i dialetti del mondo, e porre problemi la cui soluzione non risente della diversità di credenze e opinioni tra una cultura e un'altra. Il discorso sarebbe lungo e rischierebbe di diventare tecnico. Preferisco fornire una divertente smentita del relativismo, tratta dalla vita del grande genetista inglese J.B.S. Haldane. Alla fine degli anni Cinquanta, Haldane si trovava a nord dell'India, ospite di un'amichevole popolazione di montanari, in una di quelle culture che allora si definivano, senza peli sulla lingua, come «primitive». Scopo del suo soggiorno era seguire gli incroci tra alcune rare varietà di insetti, ancora presenti in quelle remote regioni. Proprio durante il suo soggiorno, si sarebbe verificata un'eclissi totale di sole. Haldane era smaniosissimo di sapere quali reazioni avrebbe suscitato su quella gente semplice e ingenua un fenomeno naturale tanto impressionante. Già alcuni giorni prima dell'eclissi, attraverso il suo fidato interprete, cominciò a interrogare gli indigeni, il loro capo e gli altri notabili sulle loro credenze in materia di eclissi. Non riusciva ad ottenere alcuna risposta. Alzavano le spalle e passavano a parlar d'altro. Le sue insistenze cozzavano contro la loro indifferenza. Haldane cominciò a sospettare che le eclissi fossero associate a qualche credenza talmente strana e inconfessabile da non poter essere rivelata a uno straniero. Bruciava di curiosità, ma decise di aspettare il giorno fatidico. Inizia l'eclissi e, mentre il sole comincia ad abbuiarsi, Haldane diventa frenetico. Sospinge letteralmente l'interprete verso l'uno o l'altro indigeno, facendogli chiedere: «Che pensi?»; «Di' allo straniero cosa pensi di questo fatto». La terra si fa sempre più scura, mentre tutti sembrano continuare imperterriti nelle loro occupazioni. Haldane è fuori di sé. Trascina a forza l'interprete direttamente dal capo tribù e lo supplica di farsi dire cosa gli passa per la testa. H capo, tranquillissimo, pronuncia, infine, una sola frase. Haldane scuote addirittura l'interprete per le spalle. Arde di sapere cosa ha detto. Ed ecco la traduzione: «Il capo dice: straniero, non agitarti cosi, il sole poi ritorna». 2.4. Una lezione capitale Ammettere che esiste una solida competenza di base, comune a tutti i membri della nostra specie, per riconoscere ed elaborare concetti, intuizioni, ragionamenti e relazioni di pertinenza, ci consente di poter sempre ricorrere alla persuasione, facendo intendere le nostre ragioni e cercando di capire quelle degli altri. Non è inevitabile dover ricorrere alla spada laddove possiamo ricorrere alla lingua. Tutti sappiamo, almeno in cuor nostro, che la persuasione dovrebbe essere il solo modo civile di far cambiare le opinioni altrui e di indurre le persone a modificare la loro volontà. A dispetto di mille settarismi, mille prevaricazioni e mille sotterfugi, questo monopolio morale della persuasione resta perlomeno un'idea guida, un limite ideale. La persuasione dovrebbe regnare suprema, spazzando via le cannoniere, le parrucche dell'autorità, le fiscalità dei controlli, l'odiosità delle reprimende e degli incentivi. Se talvolta ci appare indispensabile che si debba arrivare a ingiungere, comandare, imporre, premiare, punire, presupponiamo pur sempre che esista un atto di persuasione, a monte, che rende questi atti efficaci e legittimi. Ogni intervento «pesante» funziona, alla lunga, se e solo se trova la sua ultima ragion d'essere nella lievità persuasiva di un perché. Viene sempre il momento in cui si è portati a distaccarsi dal quotidiano e a interrogarsi sui fini, i motivi e i valori. Affiorano, allora, quelle tipiche domande: «che senso ha?», «in nome di che cosa?», «dove sta scritto?». Se la persuasione non può, o non sa, venire in soccorso almeno a questo livello, non c'è autorità, né costrizione, che, alla lunga, funzioni, non c'è nemmeno terrore di Stato che possa durare. Gli orrori descritti da Koestler (par. 1. 2) sono già parte del passato, e negli ultimissimi anni hanno preso a circolare testimonianze dettagliate e commoventi scritte dalle vittime delle infamie e dei crimini perpetrati da Mao (v. cap. 10). Anche quel regime sta volgendo alla fine e, si spera, alla resa dei conti. Viene sempre il momento nel quale i Gletkin della terra vengono ricacciati nelle fogne. La storia recente ce lo ha insegnato. Mettere in chiaro i meccanismi della persuasione significa, quindi, cercare le radici ultime di ogni convivenza civile, risalire alle fonti stesse di ogni contratto sociale. Significa anche sondare i

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confini tra razionalità ed emozioni, tra meccanismi cognitivi da tutti condivisi e particolari opinioni di un gruppo. Ci ritorneremo più ampiamente nel cap. 10. capitolo 3... Il gesto-persuasione... E' sempre vantaggioso esplorare alcuni casi-limite, fenomeni di frontiera nei quali i criteri ordinari di definizione e di spiegazione sembrano saltare. Le classificazioni dei trattati di retorica, per esempio, non contemplano i casi nei quali la persuasione si basa su un gesto, invece che su un discorso. Eppure, la forza persuasiva di un semplice gesto, nella circostanza giusta, può essere irresistibile. Come abbiamo già detto, la persuasione attraverso l'esempio è un gesto-persuasione pienamente riuscito. Uno dei gesti-persuasione della tradizione classica che più ha colpito l'immaginazione dei posteri è quello che si dice sia avvenuto durante il processo alla cortigiana greca Frine (vissuta nel IV secolo a. C.), accusata di oltraggio al comune senso del pudore per aver girato in pubblico discinta. Il suo difensore, Iperide, avvertendo che la sua arringa non era stata abbastanza persuasiva, d'un tratto, la spoglia nuda in aula di fronte a tutti. La bellezza, così rivelata, di un corpo perfetto abbaglia gli astanti. Tanta bellezza non può essere considerata oltraggio al pudore. Frine viene assolta. Cristoforo Colombo, per persuadere i regnanti di Spagna a finanziare la sua spedizione alla ricerca della nuova via per le Indie, si serve del celeberrimo uovo. Sfida i consiglieri reali a far stare in piedi un uovo sul tavolo. Pare impossibile riuscirci. Poi, come ben noto, schiaccia delicatamente il guscio alla base e così riesce a far stare l'uovo ritto sul tavolo. La piccola, efficace messa in scena di Colombo dà corpo alla sua argomentazione essenziale: tutte le soluzioni geniali paiono ovvie a posteriori, dopo averle viste concretamente, ma quasi nessuno ci arriva prima che gli vengano mostrate. Raggiungere le Indie dalla «parte opposta» del globo terracqueo è, appunto, una soluzione di questo tipo. Anche se questo trucchetto sarà stato del tutto secondario, Colombo ottiene le sue tre caravelle, e completa la spedizione che avrebbe prodotto più conseguenze di qualsiasi altra esplorazione. Un altro gesto-persuasione di esemplare efficacia è quello di Manon Lescaut, nel secondo atto dell'opera omonima di Puccini. Diventata da tempo la mantenuta del vecchio e ricco Geronte di Ravoir, Tesoriere generale del re di Francia, Manon viene da lui sorpresa in tenero atteggiamento con il suo vero innamorato, il giovane e squattrinato Cavaliere Renato des Grieux. Seccata dai rimproveri e dalle rimostranze di Geronte, che tenta di richiamarla a sé in nome dell'amore, beffarda, sbotta: Amore? Amore? Mio buon signore! Ecco! Guardatevi... guardatevi! E poi guardate noi. Prende uno specchio e invita Geronte a guardarvisi, e poi a guardare lei e Renato. Nello specchio si riflette solo vecchiaia, lubricità, e un freddo che agghiaccia, mentre i due giovani innamorati irraggiano vitalità, passione e spontaneità. Con questo gesto, Manon è talmente persuasiva da

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segnare la propria fine. Geronte chiama gli arcieri e la fa prima imprigionare, poi esiliare nelle «lontane Americhe», dove Manon morrà di stenti, tra le braccia di Renato. Che simili gesti-persuasione possano essere di efficacia decisiva me lo conferma anche un aneddoto di vita vissuta, narratomi anni orsono da un amico di mio padre. Durante l'abitualmente silenzioso e contegnoso pasto in mensa, all'Accademia Navale di Livorno, negli anni lontani della guerra, quando il cibo era scarso per tutti, un allievo ufficiale trova un bacherozzo nel suo piatto di carne. Compuntamente si alza e, senza una parola, tenendo la forchetta a tutti ben visibile, con infilzato il boccone sovrastato dal verme contorcentesi, cammina a passi regolari fino al comandante, che sedeva lontano a capotavola. Giuntogli di fronte, battendo i tacchi in un perfetto attenti, con un lieve inchino, gli mette forchetta e increscioso contenuto proprio sotto gli occhi. Sempre senza una parola, il comandante prende quella forchetta, si discosta appena dal tavolo, ruota il torso di un quarto di giro e spazza via il bacherozzo con un secco e preciso «biscotto», assestato facendo scattare dalla punta del pollice la punta del medio (come si fa per giocare alle biglie o ai tappini). Poi mangia non meno compuntamente, dalla forchetta, quel che resta del boccone, restituisce la forchetta, adesso vuota, all'allievo, indicandogli con la medesima di tornare al suo posto, e riprende tranquillamente il suo pasto. Mai più nessuno, mi assicura l'ex allievo ufficiale (poi diventato ammiraglio), osò lamentarsi della qualità del cibo. Ciò che più colpisce, in casi come questi, è proprio la straordinaria pertinenza del gesto, e l'inventiva di chi lo escogita. Tali gesti devono essere molto, molto specifici. Se non si ha un corpo come quello di Frine, la nudità non persuade nessuno. Una teoria che, per forza di cose, astraesse dalla bellezza di Frine e generalizzasse troppo, ci lascerebbe con un pugno di mosche. Infatti, questi casi mi interessavano proprio per mostrare la corda delle teorie tradizionali della persuasione. Non regge, per esempio, la tradizionale divisione tra ragione e emozione, tra immaginazione e realtà. Manon fa certo leva anche sulle emozioni di Geronte, ma gli propone una «verifica» del tutto fattuale, anzi brutale e impietosa. Lo specchio non è una metafora, è un oggetto ben reale. Il guardarvisi dentro ha significato anche metaforico, ma il gesto è quanto mai concreto. Colombo presenta un uovo e, certo, ha in mente il vasto mondo. Anche qui, il significato metaforico dell'uovo si compenetra con la sua realissima rotondità. Se il trucchetto di Colombo colpisce l'immaginazione, allora come oggi, è perché si assiste, soprattutto, a uno scacco concreto dell'ingegno pratico. Molto pratico! Basta esercitare appena un po' più di forza del dovuto e l'uovo si rompe, rovinando completamente l'effetto. Infine, il gesto concretissimo del comandante dell'Accademia non lascia alcun posto all'immaginazione, né alle metafore. Esemplarmente, inghiotte proprio quel boccone di carne, in quel momento, in quel contesto, perché la carne è, del tutto letteralmente, bacata. Solo così il suo gesto poteva essere persuasivo. capitolo 4... Persuadere contrattando... Avendo recentemente consacrato un intero libro alle illusioni cognitive, e a come evitare in noi e negli altri i loro effetti perniciosi, non mi soffermerò qui sulle trappole della persuasione, su come difendersi dai persuasori (il libro di Cialdini, già citato, il classico di Vance Packard I persuasori occulti, e un recente libro del sociologo francese Raymond Boudon, trattano essenzialmente questo aspetto). Mi concentrerò, piuttosto, su qualche regoletta pratica per rafforzare le nostre strategie persuasive, e per migliorare le

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nostre chances in una contrattazione. Altre, più specifiche, le incontreremo nelle sette corde della persuasione (cap. 6). 4.1. Il metodo centrale della persuasione Da Aristotele in poi, come abbiamo già visto, si sa che la persuasione più efficace è quella che smuove dei meccanismi già presenti nell'interlocutore. Abbiamo appena visto che questo rischia ad ogni momento di diventare un paradosso: che bisogno c'è di persuadere qualcuno a fare qualcosa che già ha intenzione di fare, con o senza la nostra persuasione? Sembrerebbe proprio che la persuasione riesca di più laddove ce n'è meno bisogno. Vi è un modo per uscire da questo paradosso: si tratta di quello che possiamo ritenere il metodo centrale della persuasione. Come la storia di Germont e Violetta ci dimostra, avviene spesso che si presenti una delle situazioni seguenti: (1) L'interlocutore, con ogni probabilità, da quanto noi sappiamo, nutre una certa opinione, crede una certa cosa, riconosce un certo valore, teme una certa eventualità, senza esserne ben cosciente. Il nostro intervento argomentativo può essere decisivo per far affiorare alla sua coscienza ciò che era sino ad ora rimasto sommerso: Un di, quando le veneri... (2) L'interlocutore, pur essendone cosciente, non ha avuto occasione (o non è stato capace) di trarre tutte le conseguenze. Il nostro intervento può essere decisivo per facilitare questo passaggio, e per prospettargli, tra tutte le conseguenze, quelle che a noi più premono: Che sarà allor?... pensate (3) L'interlocutore, insieme a certe opinioni (credenze, valori, scopi, desideri ecc.) che condivide con noi, ne nutre anche altre, incompatibili con le prime (R passato... più non esiste... or amo Alfredo). Sarà per noi decisivo mostrare, prima mediante un'argomentazione lucida e ben mirata, che esiste questa incompatibilità, e che quindi occorre fare una scelta, per poi perorare la causa della componente «giusta», contro la componente «sbagliata»: ne siete in tempo ancor (4) L'occasione stessa della conversazione, o dibattito, può rappresentare un'opportunità speciale, magari irripetibile, per far emergere uno, o più, dei tre punti precedenti. Solo ora solo con noi, solo per il cammino della nostra argomentazione, l'interlocutore può «sentire» intimamente la validità di certe ragioni, che magari riconosceva già implicitamente, in astratto, ma che non lo avevano mai «toccato» nell'intimo: E'vero! E'vero! (5) Si può plausibilmente far leva su qualche informazione nuova su qualche prospettiva inattesa, su qualche variazione in uno spettro di probabilità, per quanto apparentemente insignificanti: Siate di mia famiglia / L'angiol consolatore.

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Queste varianti, spesso decisive, ci consentono di sfuggire al paradosso centrale della persuasione. L'opera di persuasione sfrutta, in effetti, le molle già cariche nell'interlocutore, ma gli dischiude motivazioni nuove per farle scattare, e direttrici nuove lungo le quali estendersi. L'immagine del jiajitsu di Cialdini viene a pennello, ma con una componente aggiunta di psicologia del profondo, quando si possono sfruttare le leve e le forze inconsce, preconsce o semi-consce dell'interlocutore. Inoltre, non bisogna dimenticare che esistono occasioni e momenti privilegiati, magari irripetibili, per esercitare un'azione di persuasione. Lo «stesso» argomento può non essere lo «stesso» per la stessa persona in fasi diverse della sua vita e/o in condizioni psicologiche diverse. Sarebbe insensato voler dire di più. Ma il principio, per quanto vago, meritava di essere sottolineato. 4.2. Pietro Abelardo, ovvero il metodo dell'autoimmunizzazione Alcuni psicologi moderni hanno usato l'immagine della «inoculazione» per descrivere il processo di trasferimento di opinioni e di credenze dal persuasore al persuaso. Questa metafora fa pensare subito ai vaccini e all'immunizzazione. Infatti, risulta che una persona si consolida in una sua opinione, e la difende più efficacemente, cioè più persuasivamente, contro robuste argomentazioni contrarie, quando è stata precedentemente esposta ad altre argomentazioni contrarie, ma piuttosto fiacche. Si sono ad arte prese opinioni implicitamente diffuse, e giuste, come le seguenti: fa bene lavarsi spesso i denti; la malattia mentale non è contagiosa; gli antibiotici hanno rappresentato un bene per l'umanità. L'esperimento consiste ora nel presentare al signor Rossi alcuni deboli argomenti a favore, al signor Bianchi alcuni deboli argomenti contrari e al signor Bruni argomenti che non c'entrano niente. Ebbene, di fronte a nuovi argomenti robusti che attaccano queste opinioni, dei tre il più risoluto e persuasivo sarà Bianchi. t proprio come se i deboli attacchi subiti lo avessero immunizzato contro gli attacchi più forti. Questo processo di immunizzazione è notoriamente ben sfruttato dai candidati alla Presidenza degli Stati Uniti, quando si devono affrontare in un dibattito televisivo a due, in diretta. Non si tratta, però, solo di una immunizzazione mediante argomenti fiacchi, perché, prima del dibattito vero, i loro assistenti li bersagliano per ore e ore in finti dibattiti, con tutte le obiezioni più micidiali e più persuasive che vengono loro in mente. Più che di immunizzazione si tratta di un vero e proprio allenamento. Inoltre, l'obiettivo non è certo quello di persuadere sé stessi, ma quello di persuadere i loro potenziali elettori. Il trucco dell'immunizzazione-allenamento era ben noto già nel Medioevo ai teologi che si sfidavano nelle aule universitarie della Sorbona, di fronte a un pubblico ristretto, ma agguerritissimo, a volte per giorni e notti di seguito, senza interruzione, in sfibranti disputationes. Come si apprende, tra le altre fonti, dalla vita di Pietro Abelardo (lo sfortunato filosofo e teologo amante di Eloisa, che venne castrato dal di lei zio-tutore e dai suoi accoliti), questi sottili e agguerriti teologi chiedevano ai confratelli di uguale convinzione di essere messi duramente alla prova, in un pre-dibattito finto, ricevendo e contestando tutte le obiezioni e le contro-argomentazioni più micidiali che i loro stessi alleati riuscivano ad escogitare. Infatti, ciò che nel XII secolo impegnava le menti più acute era la dialettica o arte del ragionare, considerata l'arte per eccellenza. La dialettica presuppone la discussione, la conversazione, lo scambio. Questa è appunto la forma secondo cui si perseguiva allora la ricerca della verità: attraverso la discussione o la disputa. Non si concepiva possibile giungere ad una verità che non fosse stata anteriormente disputata. Era letteralmente di importanza vitale (allora si usava la mano pesante con gli eretici) saper ben porre le premesse di una conversazione, enunciare correttamente i termini di una proposizione, stabilire gli elementi del pensiero e del discorso, e condurre una discussione insieme feconda e tagliente come una lama.

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Pietro Abelardo era in questa linea di pensiero e tra tutte le discipline filosofiche preferiva le armi della dialettica. Nella sua toccante Storia delle mie disgrazie, si legge: Giunsi finalmente a Parigi dove già da tempo gli studi di dialettica avevano raggiunto sviluppi eccezionali, e frequentai la scuola del mio maestro Guglielmo di Champeaux, allora celebre per preparazione e per fama in questo campo. Rimasi con lui per poco tempo, dapprima discepolo assai gradito, poi modestissimo, soprattutto da quando avevo cominciato a criticare le sue teorie e non temevo di dimostrargli che spesso era lui che sbagliava, tanto che il più delle volte, chi usciva vincitore dalle nostre dispute ero io. [... 1 Per non ricordare che una delle tante nostre dispute, gli confutai proprio in quei giorni, anzi gli demolii, facendogli persino cambiare opinione, la sua vecchia dottrina sugli universali. Gli esperti in Abelardo ci dicono che di qui ebbe inizio la serie delle sue disgrazie, come lui stesso riconosce. Per tutta la vita impersonerà l'importuno, colui che interrompe argomentando, indispettisce, esaspera. Per tutta la vita provocherà contemporaneamente entusiasmo e collera. Divertente è la sua descrizione di un pallone gonfiato dell'epoca (un capostipite di quelli che oggi, in America, si chiamano «asini in pompa magna» - pompous asses). Abelardo si reca dalla «massima autorità nel campo della teologia, già da molto tempo», il vecchio maestro Anselmo di Laon. Mi recai dunque da questo vecchio, ma ben presto mi resi conto che più che un'effettiva preparazione, gli aveva giovato la lunga pratica. [... 1 Aveva, è vero, una eccezionale facilità di parola, ma alla fine ci si accorgeva che diceva soltanto cose banali e senza senso. Era simile a un fuoco che quando si accende, invece di illuminare la stanza, ti riempie la casa di fumo; o come un albero che da lontano, a causa di un gran numero di foglie, ti sembra maestoso e carico di frutti, ma da vicino, se lo guardi bene, scopri che non ne ha neanche uno. lo mi ero accostato a questo albero per raccogliesse qualche frutto, ma capii che era come il fico sterile maledetto dal Signore o come la vecchia quercia cui Lucano paragona Pompeo, dicendo: «E' solo l'ombra dell'eroe che fu, un'alta quercia in un campo di messi». E per merito di «scocciatori» come Abelardo, e non di imbonitori come Anselmo di Laon, che il sapere ha progredito nei secoli. E continua a farlo. A questa illustre tradizione appartiene, infatti, anche un mio amico, illustre logico e filosofo americano, il quale mi ha confessato che, dopo aver scritto la prima versione di un lavoro, o di un teorema, consacra sempre almeno un paio di settimane alla stesura minuziosa, per iscritto, di tutte le critiche più feroci, di tutte le contro-argomentazioni più insidiose che gli vengono in mente. Solo dopo aver «risposto», una per una, a queste autocritiche, elaborando una nuova versione, spedisce l'articolo ai colleghi che più stima per ricevere le loro critiche. E solo dopo aver risposto esaurientemente anche a queste, si risolve a spedire una terza versione a una rivista professionale, per la pubblicazione, sottoponendosi così allo spietato giudizio «terminale» dei referees anonimi di quella rivista. Da tutto questo possiamo distillare una strategia generale per essere più persuasivi, che mi azzarderò a chiamare il metodo di Abelardo, o della autoimmunizzazione: e Proviamo sempre prima a demolire intelligentemente da noi stessi, magari con l'aiuto di amici e colleghi, una nostra argomentazione che giudichiamo nuova, pertinente, ed efficace. Possiamo sperare di essere persuasivi con un avversario se, e solo se, questa nostra argomentazione ha resistito ai più forti e ingegnosi attacchi che noi stessi siamo riusciti ad escogitare. 4.3. La persuasione nella negoziazione

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Da qualche anno a questa parte, soprattutto nelle migliori università americane, esistono centri specializzati nello studio della negoziazione. Ed esistono esperti nella scienza della negoziazione che, facendosi pagare profumatamente, impostano in anticipo, per il loro cliente, tutte le possibili strategie ottimali in vista di una specifica, futura contrattazione (per esempio, tra due grandi ditte, tra una ditta e i rappresentanti di un sindacato, tra un privato e una ditta, tra una ditta e il Governo federale, o tra un gruppo industriale e i rappresentanti di uno Stato estero). Si fa tesoro del metodo appena visto, quello dell'allenamento-immunizzazione, ma anche di alcuni tratti della natura umana, solo recentemente messi in luce dalla psicologia e dalle scienze cognitive. Vediamone alcuni, insieme alle loro conseguenze: (1) L'effetto dotazione Tutti noi siamo irrazionalmente troppo attaccati a ciò che già possediamo, o riteniamo di possedere. Per cederlo, chiediamo un prezzo più alto di quello che saremmo disposti a pagare per acquisirlo, se già non l'avessimo. L'esperimento tipico è il seguente: Alcune matricole arrivano fresche fresche al college, all'inizio dell'anno accademico, e vengono loro assegnate le stanze. Le matricole vengono a caso, a loro insaputa, suddivise in due gruppi. Quelli di un gruppo trovano ciascuno, nella stanza che viene loro assegnata, uno di quei tipici gotti (mug) per il caffè americano, con lo stemma del college. Quelli dell'altro gruppo trovano, invece, una busta con sei dollari, «per migliorare a tuo piacere la dotazione della stanza». La tazza costa, appunto, sei dollari allo spaccio del college. Dopo un'ora (si noti bene, solo un'ora) i gruppi vengono riuniti e tutti vengono invitati a contrattare liberamente la compra-vendita delle tazze e di altri piccoli oggetti. L'effetto dotazione (endowment effect) consiste nel fatto seguente: le matricole che hanno trovato il gotto nella stanza, e che quindi lo sentono già loro, non lo cedono (in media) a meno di otto dollari e mezzo, pur sapendo che costa sei dollari. Un altro esempio tipico è quello del professore che ha comprato, qualche anno prima, due bottiglie di un eccellente vino di Bordeaux per trenta dollari. Oggi ne valgono duecento: «Professore, accetta di venderle per duecento dollari?» «No di certo!» «Ehmm, accetta allora di comprare altre due bottiglie dello stesso vino, stessa annata, per duecento dollari?» «Certo che no!» «Eppure, se non le vende per quella cifra, significa che ritiene valgano più di duecento dollari, e quindi dovrebbe essere disposto a comprarne altre due per tale prezzo, dato che, per Sua stessa ammissione, è inferiore al loro valore». Questo ragionamento, pur economicamente impeccabile, non persuade il nostro professore. (Supponiamo che possa benissimo permettersi di spendere duecento dollari. Del resto, se non potesse permetterselo, sarebbe ancora più strano il suo rifiuto di vendere le bottiglie che già possiede.) Come si vede, l'effetto dotazione non segue alcuna razionalità economica. Le bottiglie che già possiede valgono per lui più di duecento dollari, mentre quelle, identiche, che però non fanno parte della sua «dotazione», valgono per-lui meno di duecento dollari. Talvolta, molto di più (e, rispettivamente, molto di meno). In una negoziazione è utilissimo conoscere e sfruttare questo effetto. Per ciascuna delle due parti, ciò che deve essere ceduto, per il solo fatto di possederlo già, vale più di quanto valga per la controparte, che ancora non lo ha e deve acquisirlo. L'effetto è, ovviamente, simmetrico. Per questo si prolungano talvolta in modo sfibrante delle negoziazioni che, sulla carta, teoricamente, avrebbero dovuto scivolar via lisce come l'olio. Mi dicono gli esperti di negoziazioni che aiuta molto la razionalità di una trattativa, per esempio, far scorporare in anticipo, e depositare su un conto a parte, la somma massima che l'acquirente è disposto a pagare. E far prescorporare dalla controparte l'oggetto della transazione. Fintantoché quella stessa somma in denaro (o pacchetto di titoli, o proprietà immobiliare) resta conglobata nella massa consolidata e indistinta del patrimonio, la trattativa viene inceppata dall'irrazionalità dell'effetto dotazione. Ambedue le parti tendono a dare più valore a ciò che già hanno, e che

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devono cedere, di contro a ciò che ancora non hanno, e che vogliono acquisire. Per lo stesso motivo, un esperto di transazioni immobiliari del Massachusetts mi dice che non fa mai visitare un lotto, o una casa, ai possibili acquirenti, se essa non porta già di fronte, ben visibile, il cartello «For sale» (vendesi). Troppo spesso succede che i proprietari, all'ultimo minuto, rifiutino un'offerta anche assai superiore a quella che avevano prima dichiarato essere ottimale. Il cartello rappresenta un piccolo, ma efficace, antidoto contro l'effetto dotazione. Segnala sia simbolicamente che realmente ai proprietari attuali che la casa, o il terreno, non devono più essere da loro pensati come parte integrante del loro stabile patrimonio. In tutti questi casi si tratta di valori concreti, economicamente misurabili. Ma, nella vita intima delle persone, l'effetto dotazione è pronto a scattare anche nell'immaginario, su oggetti, situazioni e privilegi che non si possiedono veramente, che solo ci si immagina di possedere. Qui la latitudine dell'argomentazione, e il potere della persuasione, diventano enormi. Tra tutti, mi colpì particolarmente il caso dell'anziano padre di un mio collega francese. Da allora l'ho sempre chiamato, nel mio dialetto privato, l'effetto Nahum. Ecco in cosa consiste. (2) L'effetto Nahum, ovvero non hai niente da perdere Durante la prima guerra mondiale, Monsieur Nahum, ebreo di Salonicco, combatté da partigiano contro i turchi. Negli ultimi mesi della guerra, la banda cui apparteneva venne operativamente integrata in un distaccamento dell'esercito francese. Il suo amico d'infanzia Goldmann si era, invece, arruolato volontario con i francesi e aveva combattuto per tre anni, fino alla fine della guerra e alla relativa smobilitazione, con la divisa dell'esercito regolare francese. Quarant'anni dopo, quando erano ambedue da lungo tempo residenti in Francia, e ivi naturalizzati, Goldmann ottenne, dopo un certo iter burocratico, la pensione di guerra da parte del Governo francese. Un giorno, a Goldmann venne la bella pensata di incitare anche l'amico Nahum a chiedere una pensione di guerra. Cercò di persuaderlo a richiedere la pensione, offrendo la debole argomentazione che una banda di irregolari posta sotto il comando militare francese era da considerarsi, a tutti gli effetti, parte dell'esercito francese. Sulle prime, Nahum non si lasciò persuadere. Ebbe il riflesso giusto, cioè quello di mettersi a ridere e controbattere che l'idea era semplicemente pazzesca. Goldmann, però, insistette e, piano piano, riuscì ad instillare nella testa del vecchio Nahum una serie di strampalate giustificazioni, infondate equipollenze, con in più la prospettiva di un aiuto da parte di un conoscente al Ministero. Ma soprattutto, soprattutto, usando l'eterno, irresistibile, stupido argomento: «Tanto non hai niente da perdere». Per farla breve, Monsieur Nahum si assoggettò a una vera e propria odissea di anticamere, code, bolli, timbri, traduzioni legali, dichiarazioni giurate, convalide notarili. Quanto più cresceva il fastidio di queste interminabili pratiche, tanto più si faceva strada nella sua testa l'illusione (davvero una pura illusione cognitiva) che questa benedetta pensione gli era, in fondo, dovuta. Inconsciamente, come spesso succede in questi casi, la fatica stessa della lunga pratica sembrava potesse meritargli, da sola, la pensione. Un bel giorno, infine, arrivò dal Ministero la fatidica, inappellabile e prevedibilissima lettera che, in sostanza, gli diceva picche: la tanto sospirata pensione non era stata accordata, né lo sarebbe stata mai. Ebbene, la stessa persona che un anno prima aveva riso all'idea, adesso entrò in uno stato di depressione davvero preoccupante. Non parlava più con nessuno, non mangiava, non usciva di casa per giorni e giorni di fila. Tirarlo fuori dalla depressione richiese tempo, cure mediche e tutta la sollecitudine della famiglia. Nella sua mente, si era piano piano stabilizzata una situazione immaginaria di status quo un potente «effetto dotazione» per quella pensione di guerra. Da mesi aveva preso a progettare in dettaglio tutto quello che avrebbe fatto con i soldi di quella pensione. Averla era diventata la situazione di base, mentre «perderla» costituiva, adesso, per lui una privazione insopportabile. Goldmann, in perfetta buona fede, e con le migliori intenzioni, aveva combinato un disastro. Alla faccia della stupida idea, della quale, da allora, ho per sempre appreso a diffidare, che «tanto non hai niente da perdere». L'effetto Nahum, alla luce del ben più generale effetto dotazione, fa si che

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adesso, di primo impulso, la mia prima reazione all'argomento «tanto non hai niente da perdere» mi porti a metter subito (se così posso dire) mano alla pistola. Ho assistito a troppi altri esempi, seppur meno tristi di quello di Monsieur Nahum, per non concludere che, a causa dell'effetto dotazione, c'è sempre qualcosa da perdere. Una regola aurea da estrarre dall'effetto Nahum: Non lasciamoci mai persuadere dall'argomento «tanto non hai niente da perdere». C'è sempre qualcosa da perdere! Al minimo, la nostra tranquillità, e al massimo la nostra autostima e quel po' di fiducia che abbiamo nella vita, negli altri, nelle istituzioni. (3) Far balenare nuove opzioni e sospingere le vecchie. Gli esperti di negoziazione sanno anche che può essere decisivo far balenare di fronte alla controparte una nuova opzione, che non verrà scelta, per spingere, in un senso a noi vantaggioso, una delle opzioni già esistenti. C'è un aneddoto, riferitomi come vero, che aiuta subito a capire di che si tratta. Un noto filosofo della Columbia University di New York va in un ristorante italiano. Il cameriere gli propone la scelta tra ravioli e linguine. «Mi porti le linguine.» Però il cameriere aggiunge: «Ah, mi scusi, Sir, dimenticavo di dire che abbiamo anche le lasagne al forno». «Ebbene», dice imperterrito il filosofo, «in tal caso mi porti i ravioli». Al suo compagno sbigottito, spiega: «Se si avventurano a fare la pasta al forno, vuol dire che hanno un cuoco abile. In tal caso preferisco i ravioli. Le linguine le avevo ordinate per prudenza». Qui agisce, ovviamente, un meccanismo di informazione ulteriore. Inesistenza della nuova opzione, in quanto tale, illumina di luce nuova la qualità delle opzioni preesistenti. Un amico che aveva subito un incidente di moto mi raccontò il seguente episodio. Venne portato al pronto soccorso della più vicina cittadina. Aveva una brutta frattura esposta. Il «dottorino» di quell'ospedale di provincia gli lasciò la scelta tra un piccolo intervento temporaneo, con una buona dose di antidolorifici, per poter essere trasportato fino a Roma, e un intervento chirurgico vero e proprio. Il mio amico infortunato optò senza esitazioni per il minimo intervento provvisorio. Il dottorino aggiunse: «Se poi preferisce, posso io stesso operarla a Roma giovedì, dove opero ogni settimana al [segue il nome di un qualificato ospedale di Roma]». La conclusione fu del tutto naturale: «Allora, caro dottore, La prego, mi operi qui subito». In casi come questi è chiarissimo perché la presenza di nuove opzioni, che pur non vengono scelte, riesce a modificare la scelta tra quelle pre-esistenti. Ci sono, però, anche altri casi, nei quali la logica è assai meno trasparente. Gli psicologi hanno recentemente accertato, in esperimenti attentamente controllati, che tra due lettori di Compact Disc (o due forni a microonde, o due videoregistratori) di caratteristiche e prezzi leggermente diversi, quello un po' più caro e raffinato viene scelto più spesso quando si presenta anche un terzo modello, nettamente più caro e lussuoso di ambedue i precedenti. Pochissimi scelgono il prodotto superlativo, ma il solo fatto che esiste come opzione teorica induce molti a preferire il prodotto «intermedio». Un'applicazione diffusa di questo principio è quella, ben nota agli agenti immobiliari, di far visitare al cliente anche case nettamente più belle e più care di quelle che intendono proporre, in modo da indurlo a non scegliere la meno cara tra quelle che lo interessano veramente. Il fatto di aggiungere (o, in qualche caso, il fatto di togliere) opzioni rispetto a un insieme di opzioni pre-esistenti può influenzare la scelta finale, anche se, conviene insistere, nessuna delle nuove opzioni viene scelta (e nessuna delle opzioni eliminate sarebbe comunque stata scelta). Un ulteriore esempio, tanto banale quanto rivelatore: Gianni cerca un appartamentino da affittare, nella città in cui si accinge a trasferirsi per frequentare l'università. Gli viene mostrato un monolocale arioso a 550.000 lire al mese, a venti minuti a piedi dall'università. Pietro è nella stessa

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situazione. Gli viene mostrato lo stesso monolocale, e in più un semi-interrato buio, a 600.000 lire al mese, a mezz'ora dall'università. Chi dei due continuerà a cercare? E chi si precipiterà, invece, a firmare il contratto per il monolocale? Parrebbe che, negli Stati Uniti, alcune agenzie immobiliari poco scrupolose tengano a bella posta disponibili case e appartamenti scadenti, da far vedere ai loro clienti oltre a quelle sulle quali puntano, proprio per accelerare la conclusione degli affari. Un grande economista francese, Maurice Allais, che ha molto tardivamente ricevuto il premio Nobel, stabili fino dagli anni Cinquanta che la razionalità delle scelte economiche non può prescindere dallo spettro di tutte le possibilità che il soggetto si vede dischiuse di fronte. Tra due opzioni fisse, A e B, in un caso sarà razionale scegliere A, e in un altro caso Farà, invece, razionale scegliere B, semplicemente a seconda che vengano aggiunte, o tolte, altre opzioni teoriche, che non saranno mai scelte, e che non sarebbe stato razionale scegliere. (4) La foderina d'argento Al signor Rossi viene annunciato che il suo biglietto della lotteria aziendale vince 700.000 lire. Al signor Bianchi viene annunciato, al mattino, che il suo biglietto della lotteria aziendale vince 500.000 lire; nel pomeriggio, gli viene annunciato che il suo biglietto della lotteria parrocchiale vince 200.000 lire. Chi dei due sarà più contento? Bianchi, possiamo star certi. Eppure hanno ambedue ugualmente vinto 700.000 lire. Al signor Rossi viene affibbiata una multa per divieto di sosta aggravato di 200.000 lire. Dovrà recarsi in Comune per pagarla. Il signor Bianchi aveva preso una multa per divieto di sosta semplice di 100.000 lire. Va in Comune a pagarla, parcheggia irregolarmente, e trova un'altra multa di 100.000 lire. Chi dei due sarà più infuriato? Di nuovo Bianchi! Anche qui possiamo star certi. Eppure hanno ambedue ugualmente ricevuto multe di 200.000 lire per divieto di sosta. Continuiamo con questa elementare casistica comparata di Rossi e Bianchi. Rossi arriva in ufficio e scopre che una vecchia trattativa, di cui neanche più si ricordava, è inaspettatamente andata in porto. Gli spetta una commissione di 200.000 lire. Sul suo tavolo c'è anche un'intimazione di pagamento di 180.000 lire al padrone di casa per danni involontariamente arrecati all'appartamento. Neanche di questo episodio si ricordava più. Bianchi arriva in ufficio e scopre che una vecchia trattativa, di cui neanche più si ricordava, è inaspettatamente andata in porto. Gli spetta una commissione di 20.000 lire. Chi dei due sarà più contento? Bianchi. Possiamo esserne certi. Rossi, uscendo dal garage di casa, sbaglia una manovra e striscia contro il muro. La sua auto subisce danni di carrozzeria per un milione. Quando arriva in ufficio, mezz'ora dopo, lo informano che ha ricevuto un vecchio rimborso, insperato, di 100.000 lire. Bianchi, uscendo dal garage di casa, sbaglia una manovra e striscia contro il muro. La sua auto subisce danni di carrozzeria per novecentomila lire. Chi dei due sarà più infuriato? Di nuovo, Bianchi. Anche qui possiamo essere sicuri. In ambedue i casi, Rossi e Bianchi, alla fine dei conti, sono nella stessa identica situazione sotto il profilo strettamente economico, ma non sotto quello psicologico (o piuttosto, dovremmo dire psico-economico). Nel primo caso, Rossi ha avuto il tempo di «assestarsi» mentalmente in uno stato in cui ha vinto 200.000 lire, che sente pienamente «sue». (Si noti bene, forse solo per pochi minuti, ma tanto basta.) La perdita successiva delle 180.000 gli «costa» molto. Bianchi, invece, si assesta mentalmente nel piacevole stato di chi ha inaspettatamente vinto ventimila lire e ci rimane. Analogamente, nel secondo caso, Rossi si è mentalmente assestato nella spiacevole situazione in cui uno ha perso un milione, ma la «vincita» inaspettata delle 100.000 lire viene a rincuorarlo un

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po'. Bianchi, invece, si assesta nella spiacevole situazione di chi ha perso novecentomila lire e, anche qui, ci rimane. In sostanza, di fronte a una vincita di poco superiore a una perdita, si tende mentalmente ad «accorpare» l'una all'altra, mentre di fronte a una vincita che riduce di poco una perdita si tende a tenere l'una mentalmente separata dall'altra. Questo ultimo effetto è stato battezzato «rivestimento d'argento» (silver lining) - un termine estratto dal mondo delle pompe funebri, che si applica ai rivestimenti interni delle bare - per dare l'idea di qualcosa che, considerata a sé stante, ingraziosisce un po' una situazione di per sé molto spiacevole. Gli psicologi che studiano i processi mentali alla base delle contrattazioni e delle transazioni economiche in genere ci possono insegnare due fatti basilari. Primo: vincere una certa cifra, poniamo 100.000 lire, ci dà soddisfazione, ma il dispiacere di perdere una cifra uguale (quelle «stesse» 100.000 lire) è nettamente maggiore. Una buona stima, a braccio, per cifre non troppo elevate, è un rapporto di uno a due. Cioè, per compensare psicologicamente (si noti bene: psicologicamente) il dispiacere di aver perso oggi 100.000 lire, occorre riceverne domani ben 200.000. Secondo: la soddisfazione per una vincita non cresce allo stesso passo con cui cresce la cifra della vincita (detto molto semplicisticamente, se oggi vinco un milione, e tra qualche mese ne vinco due, la seconda volta sono più contento della prima. Certo! Ma non «il doppio» più contento. Qualcosa meno). Lo stesso vale anche per le perdite, ma (come abbiamo appena visto) in modo più intenso per qualunque cifra. Tutto questo lo vediamo chiarissimamente per delle cifre enormi. Prendiamo a caso un tizio che cammina per la strada. Immaginiamoci quanto sarebbe contento di vincere un miliardo. Chiamiamo questo grado di contentezza M. Immaginiamoci ora il grado di contentezza di quello stesso tizio se avesse, invece, vinto due miliardi. Sarà ancora più grande, ma sarà ben al di sotto di 2M. Ancora più chiaro (se proprio non vi avessi persuaso) è il caso seguente: pensiamo alla piccola differenza, in grado di contentezza, tra il caso in cui quel signore vincesse quindici miliardi, e il caso in cui ne vincesse, invece, sedici. Quasi non c'è più alcuna differenza. In cifre monetarie brute c'è pur sempre una differenza di un miliardo (sia tra zero e uno, che tra quindici e sedici), ma in moneta psicologica, la differenza è immensamente inferiore alla nostra «unità di soddisfazione» M. La curva della soddisfazione psicologica tende ad «appiattirsi» a mano a mano che cresce l'ammontare della vincita. Anche quella del dispiacere per una perdita fa lo stesso: quando si raggiunge la bancarotta totale, poco importa se si sommano altri debiti. Un mio vago conoscente romano, mi dissero anni fa, ricevette un giorno una telefonata. Riappese il ricevitore, disse alle segretarie che doveva assentarsi per il resto della giornata, e uscì. Si comprò, nell'arco di poche ore, una Ferrari, un orologio di gran lusso, e una pelliccia di visone per la moglie. Solo successivamente venne ricostruito che quella telefonata gli aveva, in pratica, annunciato la bancarotta totale e definitiva. Allora tanto valeva... Tutte le operazioni psico-economiche viste sopra (integrazione, segregazione, foderina d'argento), e altre ben studiate in questi ultimi anni, sono perfettamente spiegabili, e previsibili, semplicemente osservando l'andamento della curva delle soddisfazioni e dei dispiaceri. Basta combinarla con il principio, assai plausibile, che a parità di conteggio economico bruto, ciascuno tende mentalmente a massimizzare la soddisfazione e a minimizzare il dispiacere. Siccome la soddisfazione (o, rispettivamente, il dispiacere) associato alla somma di due cifre vinte, come nel caso delle lotterie (o perse, come per le multe), non dà mai la somma delle soddisfazioni separate per ciascuna vincita (o dei dispiaceri separati per ciascuna perdita), ci «conviene» sempre tenere mentalmente le vincite segregate, e accorpare, invece, le perdite. Nel caso misto (una vincita e una perdita), dipende da cosa prevale. Il dispiacere per la perdita di una certa cifra vale il doppio, in valore assoluto, della soddisfazione per la vincita della stessa cifra. Quindi, ci «conviene» incorporare una piccola perdita a una più grossa vincita, riducendo l'impatto psicologico della perdita. Così facendo, si sposta di poco il punto finale a nostro favore. Ci «conviene», invece, tenere una piccola vincita

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separata da una più grossa perdita, in quanto, così facendo, il valore psicologico che la vincita ha da sola sposta il punto finale più a nostro favore di quanto lo sposterebbe se venisse accorpata alla perdita (il punto finale resta, naturalmente, comunque, alla fine, a nostro sfavore). Una curiosa algebra mentale! Eppure si può oggi dimostrare che questi fattori psicologici hanno spesso effetti importanti sull'economia reale, in situazioni reali. (5) Lo spettro dei possibili Bianchi si mette in coda alla biglietteria di un cinematografo. Quando arriva il suo turno, scopre con soddisfazione che gli spetta un premio di un milione, pre-assegnato al centomillesimo cliente di quel cinematografo. Rossi si mette in coda alla biglietteria dello stesso cinematografo. Quando arriva il suo turno, scopre con soddisfazione che gli spetta un premio di centomila lire, preassegnato al centomilleunesimo cliente di quel cinematografo. La sua soddisfazione gli muore un po' in gola, però, quando scopre che il signore subito di fronte a lui, il centomillesimo cliente, ha ricevuto un milione. Effetto dell'invidia? Forse. Ma c'è di più. Una «stessa» situazione in termini brutalmente monetari (la vincita inaspettata di centomila lire) può sembrarci molto soddisfacente, o molto insoddisfacente, non solo al confronto delle situazioni altrui, ma anche al confronto delle opportunità (magari puramente teoriche) che la nostra mente si immagina fossero aperte di fronte a noi, senza riferimento alla fortuna e alla sfortuna degli altri. Bianchi, contentissimo, racconterà a sua moglie della fortuna che gli è toccata. Rossi, invece, racconterà a sua moglie: «Che rabbia! Pensa, bastava mi mettessi in coda un attimo prima ... ». (6) Do ut des Lo psico-economista americano Dick Thaler arriva a Bangkok per una conferenza e prende un taxi dall'aeroporto all'albergo. E'atteso a una cena di lavoro e il tempo comincia a stringere. Per prudenza, chiede al tassista di aspettarlo. Risulta che l'albergo non ha registrato la prenotazione e occorre cercarne un altro. Dopo molti giri, mentre il tassametro sta arrivando alle stelle, infine trova l'albergo. Di nuovo chiede al tassista di aspettarlo, deposita lestamente la valigia e si fa portare al luogo della cena, in un quartiere affollatissimo. Il tassametro a questo punto segna l'equivalente di ottanta dollari. (Una discreta cifra per chiunque, ma una vera fortuna per un tassista thailandese.) Il tassista chiede a Thaler se desidera essere preso e riportato in albergo alla fine della cena. Il professore esita. Stralunato dalla differenza di fuso orario, si sente già molto stanco. Non sa se fidarsi. E se poi quel tassista gli fa un bidone? «Semplice» dice il tassista «non mi paghi adesso. Mi pagherà tutto insieme quando la porto in albergo. Così siamo sicuri tutti e due che non ci saranno bidoni.» Tutto filerà liscio e l'indomani Thaler userà questo aneddoto in esordio della sua conferenza sulle componenti psicologiche dell'economia. Tre riflessioni su questa contrattazione: 1) Per una persona onesta, il gesto del tassista è irresistibilmente persuasivo; 2) La teoria economica standard premierebbe il valore certo degli ottanta dollari, molti, benedetti e subito, contro l'incertezza creata su quegli ottanta dollari, «solo» per aggiungervi l'assai più modesta, e ugualmente incerta, tariffa del ritorno; 3) La mossa strategica del tassista ci apre il cuore, testimoniando la presenza delle migliori componenti della natura umana: fiducia, coraggio di un rischio ben calcolato, onestà che ci si aspetta ricambiata dall'onestà altrui. Si assiste a una flagrante violazione del principio dell'equilibrio degli egoismi, cardine della teoria economica tradizionale. Il tassista smentisce il criterio della massimizzazione dei vantaggi individuali al minimo rischio e, in sostanza, sovverte le leggi della razionalità economica. Infatti, per Thaler sarebbe stato massimamente «vantaggioso» approfittare dell'opportunità per dileguarsi,

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risparmiando ottanta dollari, senza alcuna penalizzazione prevedibile. Il tassista, ben sapendolo, avrebbe dovuto trovare assai più «razionale» farsi pagare i suoi meritati ottanta dollari. Casi come questo, di cui per fortuna tutti siamo stati testimoni, dimostrano che in molte contrattazioni esiste anche il piacere puro dell'onestà, della reciprocità, e il piacere puro di prendere un rischio ben calcolato. Gli psico-economisti come Dick Thaler stanno cercando di introdurre anche questi criteri nell'economia pura e dura. Non «invece di», ma «accanto a» quelli della rigorosa razionalità economica. 4.4. Venendo al concreto: alcune formulette Questi effetti possono essere persuasivamente sfruttati in svariati modi, che, del resto, i più scaltri venditori, negoziatori, politici e avvocati implicitamente sanno da sempre. Vediamo di renderne espliciti alcuni, alla luce degli effetti appena visti: Persuadiamo il nostro interlocutore che si trova in una situazione meno favorevole di quella nella quale realmente è, e persuadiamolo che noi siamo, invece, in una situazione più favorevole di quella nella quale realmente ci troviamo. Potremo così persuasivamente esagerare il costo di ogni nostra cessione, mentre potremo sminuire il costo di ogni sua cessione. Introduciamo nella trattativa opzioni alternative, anche se fittizie, che sono nettamente meno attraenti per l'interlocutore, escogitando argomenti persuasivi per spingerle, e spingendole poi con insistenza. E probabile che, cosi facendo, otterremo un effetto di rimbalzo: finiremo per spingere persuasivamente, invece, un'opzione reale, preesistente, più vantaggiosa per noi e meno vantaggiosa per lui, che non sarebbe stata scelta altrimenti. Capitalizziamo subito sulle concessioni, seppur minime, fatte dall'interlocutore. Cosi facendo, lo persuaderemo che ci siamo solidamente «installati» in uno status quo da cui ci sarebbe molto, molto costoso «scendere». Questo, curiosamente, a volte funziona perfino con delle concessioni immaginarie, che noi stessi avremo introdotto nella trattativa, a mo' di ipotesi teoriche. L'essenziale, sotto il profilo psicologico, è descriverle con grande minuzia, illustrando realisticamente tutte le implicazioni e le conseguenze, e poi fare riferimento a queste come se fossero state effettivamente concesse. (1 bravi venditori, per esempio, ci parlano subito dell'auto o della casa come de «la Sua casa», «la Sua auto», quando ancora resta da decidere se verrà acquistata o meno.) Simmetricamente, creiamo nella mente dell'interlocutore, fin dall'inizio, una sua «autostabilizzazione» in uno status quo inferiore a quello reale. «Lei sa benissimo che la Sua vecchia auto è assolutamente invendibile. Vediamo allora se, invece ... » Ci sarà più facile presentare poi come nostre generose concessioni il semplice riconoscimento di dati di fatto obiettivi. Ingaggiamo prima possibile l'interlocutore sui dettagli, sulle minuzie, sul «come». Questo presuppone che si dà per scontato il «se». Invitiamolo persuasivamente a situarsi già, mentalmente, in un «dopo». Renderemo così penoso per lui «ritrattare», tirarsi indietro, «perdendo» qualcosa che già dava per acquisito nella sua mente. («Quale formula di finanziamento preferisce per la Sua auto?»; «Prego, usi pure il mio telefono per dare a Suo marito la bella notizia di questo Suo acquisto»; «E quando viene il caldo, per azionare l'aria condizionata nella Sua auto, non deve fare altro che ... ») Creiamo mentalmente uno stato di fatto, a noi vantaggioso, tale che occorra al nostro interlocutore fare qualcosa per ritornare alla situazione iniziale. Presentiamo come già fissato, come svolgentesi

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del tutto naturalmente «per conto suo», che so io, l'appuntamento con il notaio, l'appuntamento con il meccanico per il primo tagliando, la consegna a domicilio, la prenotazione della partenza per la vacanza, il rifiuto di concedere un anticipo da parte «della nostra Direzione». Se niente succede, le cose andranno avanti cosi, per il loro corso «naturale». Per far fare marcia indietro al meccanismo, invece, l'interlocutore deve fare qualcosa. Ebbene, assai spesso saranno tra loro alleati la pigrizia, l'effetto dotazione, l'imbarazzo, l'acquiescenza, l'amor proprio, l'orrore di passare per pitocco, a lasciare le cose «come stanno». Fare qualcosa, psicologicamente, «costa» sempre più che non far niente. Presentiamo sempre le spese, le perdite e gli svantaggi come «accorpati» fin dall'inizio, mentre invece elenchiamo ad uno ad uno, e teniamo ben separati tra di loro, i benefici. «Calcoli poi due milioni di spese, tra notaio, tasse, interessi e cose del genere.» (Guai a elencarle tutte, una dopo l'altra!) All'opposto: «Vede, Lei beneficia dello sconto fedeltà del 5 per cento, cui deve aggiungere lo sconto promozionale del 3 per cento, il coupon di assistenza gratuita che vale ... ». E così via, e così via. Faremo la somma se, e solo se, ci viene esplicitamente richiesto. Anche per un grosso esborso, conviene insistere sulle piccole compensazioni, suggerendo subito di mantenere Separati l'uno dalle altre. (Un autista svizzero mi magnificò una volta, profusamente, i «vantaggi anche economici» di una berlina dodici cilindri che valeva 150 milioni: ridotto consumo di carburante e, nell'improbabilissima eventualità che si guasti qualcosa, è garantita un'auto in sostituzione temporanea. Non poteva certo permettersela lui, come non potevo permettermela io, ma a lui queste «foderine d'argento» sembravano attraentissime.) Per prodotti di modesto costo, che comportano, però, alti esborsi di altro genere, conviene tenere le due cose completamente separate (conviene «segregare»). Sforziamoci di presentare sempre le opzioni che a noi interessa veder scelte come le migliori possibili non solo come le migliori accessibili. Usiamo intelligentemente e persuasivamente la nostra e l'altrui immaginazione per esplorare ogni sorta di scenari alternativi, ma meno attraenti. «Vede, immagini di uscire di qui senza aver concluso questo affare, e immagini che domani ... » Niente è più persuasivo che lo scoprire quanto sarebbe impossibile, o perfino inconcepibile scegliere un'opzione ancora più vantaggiosa. Cerchiamo di ritrovare più spesso il «coraggio della fiducia» (come ci insegna quel tassista thailandese). Sorprendiamo il nostro interlocutore, «spiazziamolo» con una nostra concessione inattesa, generosa, lungimirante, basata sulla fiducia nei suoi confronti, volta ad accendere in lui un gesto di reciprocità. A volte le persone si «scoprono» particolarmente oneste per sfida quando vengono messe in situazioni di volerlo essere, pungolate nel loro amor proprio. Una trattativa ha sempre anche una componente di gioco. A volte conviene accentuare questa componente, o renderla addirittura dominante. L'oggetto stesso della trattativa sarà, magari, relativamente insignificante, ma lo stile originale di quella contrattazione, e la «trovata» escogitata per concluderla, verranno ricordati per tutta la vita da ambedue le parti. Ambedue ci avranno «guadagnato» ben più che un puro vantaggio economico. Inutile dire che queste ricette, a seconda della posizione nella quale ci si situa, possono costituire delle armi persuasive, oppure un efficace antidoto contro la persuasione. Il lettore si troverà certamente a volte da una parte, a volte dall'altra, di questo perenne steccato. Spero che queste ricette siano utili in ambedue i casi.

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Ci siamo sempre mantenuti entro i confini, non solo del lecito, ma anche del leale. Se si volesse sconfinare nel territorio dello sleale, pur rimanendo entro l'ambito della persuasione, i trucchi non mancherebbero. Si rischierebbe di dover aggiungere un capitolo sulle frodi e sugli imbrogli, su casi, cioè, nei quali si strappa la persuasione con la menzogna, l'omissione, la reticenza, la millanteria. (Rimando piuttosto ai libri di Vance Packard, di Robert B. Cialdini e di Raymond Boudon per questa zona di chiaroscuro tra persuasione e imbroglio.) Solo dopo aver esaminato i rapporti tra logica e persuasione, e tra linguaggio e persuasione, ci soffermeremo sulla persuasione perversa (cap. 9). Perversa, ma pur sempre lecita. capitolo 5... E' vero, ma non ci credo... Cosa succede quando verità e plausibilità prendono strade diverse? La palestra ideale per questo genere di esercizi di persuasione sono i cosiddetti sillogismi, per secoli campo di battaglia dei logici e dei retori, e solo più recentemente anche degli psicologi e degli scienziati cognitivi. Ne esistono una sessantina di forme diverse, alcune con nomi graziosi come Barbara e Barocco (già, il nome viene proprio da un tipo di sillogismo!). Non dovremo esaminarle tutte. Vediamo, piuttosto, i loro tratti generali. Un sillogismo è composto da tre elementi distinti, tre frasi, o piuttosto, per essere un minimo rigorosi, tre «enunciati» (o «proposizioni») tra loro logicamente collegati. Un sillogismo logicamente valido è tale che, se i primi due enunciati sono ambedue veri, allora lo è necessariamente anche il terzo, che si chiama, appunto, conclusione. La forma più semplice, che anche i bambini capiscono, è la seguente: Tutti gli attori famosi sono ricchi. Kevin Costner è un attore famoso. Kevin Costner è ricco. (La riga che si tira sotto al secondo enunciato sta a significare «quindi», o «dunque», o «di conseguenza». Possiamo, tra noi, alla buona, pensarla un po' come la riga che si tira in un'addizione per poi fare il totale.) Questo è un sillogismo logicamente valido, e che ci persuade. Diremmo che ci persuade perché è valido, ma non avventuriamoci troppo. Ci preme che un tipo di sillogismo sia valido in virtù della sua sola forma, indipendentemente dagli enunciati specifici che, di caso in caso, collega tra loro. Della stessa forma del precedente è, per esempio, anche il seguente, celeberrimo: Tutti gli uomini sono mortali. Socrate è un uomo. Socrate è mortale. Un sillogismo logicamente valido è tale che è impossibile, logicamente impossibile, trovare un contro-esempio. Cioè, se il sillogismo è valido, allora non è mai possibile che i due enunciati sopra alla riga siano veri, ma l'enunciato sotto alla riga (la conclusione) sia falso. Se davvero tutti, proprio tutti gli attori famosi sono ricchi, senza eccezione, né oggi, né ieri, né in futuro, e Kevin Costner è un attore famoso (come in effetti è), allora, per forza, per necessità logica, Kevin Costner deve essere ricco. Se scoprissimo che esiste un attore famoso che non è ricco, allora significa che

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non è vera la premessa Tutti gli attori famosi sono ricchi. Attenzione, questo non significherebbe che questa forma di sillogismo non sia valida. Per dimostrare che questa forma di sillogismo non è valida deve succedere qualcosa di molto diverso: dobbiamo poter trovare un esempio nel quale ambedue le premesse sono vere, ma la conclusione no. Provateci pure e vedrete che per questo tipo di sillogismo non è possibile. La formula: Tutti gli A sono B x è A x è B non ammette contro-esempi. Se, invece, per una diversa forma di sillogismo, possiamo immaginare, congetturare, escogitare, anche un solo contro-esempio, allora quella forma di sillogismo non è logicamente valida. Un sillogismo valido, quindi, è una macchinetta argomentativa veramente infallibile. La sua forza è genuinamente indipendente dal suo occasionale contenuto. Se si accettano come vere le sue premesse, sarebbe irrazionale non accettare per vera anche la sua conclusione. 5.1. Le cause di un divorzio Chiediamoci, ora, se un sillogismo valido è sempre persuasivo, e se un sillogismo non valido è sempre non persuasivo. Intendo dire per noi, comuni mortali, nella vita di ogni giorno. Gli psicologi hanno escogitato tutta una batteria di esempi di sillogismi e hanno constatato che, nel mondo dei ragionamenti per sillogismi, tra il vero e il persuasivo c'è di mezzo il mare. Si consuma un divorzio tra validità e persuasività. Prendiamo il seguente esempio: Nessun ristorante costa poco. Alcune pizzerie costano poco. Alcuni ristoranti non sono pizzerie. Piuttosto convincente, no? La conclusione la davamo per scontata anche indipendentemente dal sillogismo, ma il ragionamentino in quanto tale pare filare via molto bene. Che ci suoni persuasivo è un fatto molto interessante, perché la conclusione è logicamente non valida. Basta sostituire gli insiemi di cui si parla con altri, pure a noi ben noti, ma tra loro disposti diversamente, per accorgercene. Prendiamo un altro sillogismo della stessa identica forma: Nessun roditore ha le piume. Alcuni animali hanno le piume. Alcuni roditori non sono animali. Ricordiamoci la regola del gioco: Un sillogismo è valido se, e solo se, è impossibile costruire contro-esempi. Ma questo è quanto abbiamo appena fatto. Quindi, questa forma di sillogismo non è valida. Eppure, nel caso visto sopra, quello sui ristoranti e le pizzerie, ci persuade. Ecco, invece, un sillogismo che non ci persuade, pur essendo logicamente valido: Nessun compositore è bracconiere. Alcuni bracconieri non sono imbianchini. Alcuni imbianchini non sono compositori.

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Certamente di primo acchito, intuitivamente, spontaneamente, non ci persuade. Bisogna pensarci su bene, e non è affatto detto che alla fine si accetti per buona la conclusione, pur dando per buone le premesse. Dobbiamo innanzitutto tener presente che, nelle argomentazioni quotidiane, al di fuori degli istituti di psicologia, contano molto le nostre intuizioni, conta quanto noi sappiamo del mondo. Poco ci aiuta qui la nostra intuizione, perché gli insiemi dei compositori, dei bracconieri e degli imbianchini, per come sono evocati da questo esempietto, sono configurati non si sa come. Diciamo che non arriviamo a «visualizzare» i loro rapporti reciproci in modo da poter accettare o non accettare questa argomentazione. Forse basterebbe sostituire sistematicamente, e con ordine, dei raggruppamenti che hanno tra di loro relazioni a noi ben note, e la validità dell'argomentazione salterebbe subito agli occhi. Forse. Proviamoci: Nessun bambino è un soggetto IVA. Alcuni soggetti IVA sono persone fisiche. Alcune persone fisiche non sono bambini. Siccome tutti sappiamo come sono posizionati tra di loro nel mondo questi insiemi, ciascuna di queste affermazioni ci risulta perfettamente accettabile, compresa la conclusione. Continuiamo, però, a non vedere come la conclusione discenda dalle due premesse. Siamo portati ad accettare la conclusione a prescindere da questa argomentazione, di cui continuiamo a non afferrare la logica. Un metodo infallibile per vedere quando un sillogismo è valido e quando non lo è consiste nel tracciare il disegnino degli insiemi di cui si parla. Rispettando sempre il modo in cui gli insiemi devono essere disposti tra di loro secondo quanto afferma il sillogismo in questione, si disegnano tutte le disposizioni possibili, e si vede se esiste una disposizione che rispetta le premesse, ma falsifica la conclusione. Questi disegnini, come hanno insegnato a scuola ai nostri figli (ma non ai miei coetanei, perché allora gli insiemi a scuola non si insegnavano), si chiamano diagrammi di Venn. (Detto sbrigativamente, si legge molto attentamente cosa dicono le premesse e le si «traducono» in disegni di circuiti chiusi - ciascuno è il simbolo di un certo insieme - stando ben attenti che questi insiemi stiano tra di loro sul foglio esattamente come dicono le premesse: uno contenuto nell'altro, oppure uno che si sovrappone solo parzialmente all'altro ecc. Tracciato il disegno degli insiemi che traduce le premesse, si controlla come sarebbe il disegno che corrisponde alla conclusione. Se anche il disegno della conclusione «torna», il sillogismo è valido. Se non torna, o non torna in tutti i casi possibili, allora il sillogismo non è valido.) Nella vita reale, si hanno, quindi, quattro situazioni possibili: Sillogismi validi che ci persuadono; Sillogismi validi che non ci persuadono; Sillogismi non validi che ci persuadono; Sillogismi non validi che non ci persuadono. Forse un marziano troverebbe questo stato di cose sbalorditivo, ma per noi è proprio così. Particolarmente allarmante è il caso di sillogismi non validi, ma che ci persuadono. E' allarmante, perché siamo spontaneamente portati a farci persuadere da argomentazioni logicamente fallaci. Cerchiamo di capire meglio cosa ci succede. Da gran tempo gli apparati di propaganda e i cosiddetti «persuasori occulti» ben sanno che siamo propensi a prendere per buoni degli argomenti che portano a conclusioni per noi vantaggiose, o lusinghiere, o piacevoli. Se un ragionamento sballato porta ad una conclusione che siamo comunque portati ad accettare, ha buone probabilità di apparirci convincente.

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Fu per molti irresistibile, sotto il fascismo, il celebre slogan di Mussolini: «Anche gli italiani hanno diritto a un posto al sole». Come ben sappiamo, ne seguirono tragiche avventure coloniali. All'opposto, un ragionamento impeccabile, ma che porta a conclusioni a noi sgradite, rischia di non apparirci persuasivo. Questo è molto imbarazzante ed è stato, è, e sarà, fonte di tragedie, pubbliche e private. Ci ritorneremo (cap. 10). Adesso, però, stiamo prendendo in esame un fattore psicologico ancora più sottile e ancora più inquietante. Il sillogismo sui soggetti IVA e sui bambini non ci presenta certo una conclusione sgradita, offensiva o comunque difficile da accettare. t logicamente impeccabile, si basa su enunciati che riconosciamo senza esitazione come veri, e porta ad una conclusione che non esitiamo ad accettare, Eppure non ci sembra affatto persuasivo. Ci dà l'impressione di fare un «salto» logico. Gli psicologi hanno individuato un fattore che spiega, almeno in parte, la nostra esitazione. Sebbene i logici puri non abbiano posto per queste considerazioni, per gli psicologi sono molto importanti. L'idea di base è che un sillogismo crea in noi, come si diceva un tempo di un noto brandy, «un'atmosfera». Nel ragionamento per sillogismi esiste un «effetto atmosfera». Le premesse creano un mood, cioè una sorta di vena umorale, che a sua volta crea l'atmosfera del ragionamento. La vena positiva e universale è quella che più ci soddisfa, e che più ci invita alla persuasione. Un prototipo di sillogismo ad atmosfera interamente positiva è il seguente: (1) Tutti i politici amano il potere. Tutti coloro che amano il potere sono pericolosi. Tutti i politici sono pericolosi. Anche quella che va dal generale al particolare ha un tono positivo. Il sillogismo sugli attori famosi e su Socrate lo illustra bene. Invece, un sillogismo basato su delle negazioni e su insiemi parziali («alcuni», «non tutti») crea un'atmosfera per noi meno persuasiva. Rispetto al caso degli attori e di Kevin Costner, e a quello dei politici, dobbiamo riflettere un attimo, solo un attimo di più, per trovare persuasivo il ragionamento seguente: (2) Nessun chimico è velista. Tutti i suoi amici sono chimici. Nessuno dei suoi amici è velista. Un sillogismo di atmosfera assolutamente negativa, che non persuade, è quello in cui si parla di «nessuno» e «tutti» nelle premesse, ma si conclude negativamente, con un «non» su «alcuni». Il caso più noto agli psicologi della deduzione è del tipo seguente: (3) Nessuno degli imbianchini è pianista. Tutti i pianisti sono accordatori. La reazione di una vasta maggioranza di persone intelligenti e riflessive è che non esiste alcuna conclusione da trarre da queste due premesse. Se si fa, invece, presente che la conclusione logicamente impeccabile esiste (Alcuni accordatori non sono imbianchini), resta, almeno inizialmente, una certa perplessità. L'argomentazione non è molto persuasiva, a dispetto del fatto che non si possono trovare contro-esempi a questo tipo di sillogismi, che sono logicamente validi. In termini di atmosfera, quello che sembra giocare un ruolo predominante è proprio il mood creato dalle premesse. Esse sono di portata «universale» (nessuno, tutti) e accompagnate da affermazioni

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«positive» (è pianista, sono accordatori). Mentre la conclusione è di portata «limitata» (alcuni) e di tono negativo (non sono imbianchini). Inoltre c'è un insolito incrocio degli schemi che connettono gli insiemi in questione. Per noi, l'atmosfera «normale» di un sillogismo deve essere, come l'esempio (1), del seguente tipo: A-B B-C A-C Questa costruzione ci mette a nostro agio, ci persuade facilmente. Nel caso ci sia un incrocio, abbiamo preferenza, come nell'esempio (2), per uno schema del tipo: B-A C-B C-A Il problema psicologico grave creato in noi dal sillogismo (3), sugli imbianchini e gli accordatori, è che ha uno schema anomalo, a incrocio, del tipo: A-B B-C C-A A questo si aggiungono le difficoltà di universali/particolari, positivi/negativi già dette. Alla fine si ottiene uno schema con atmosfera molto, molto «sgradevole», appunto del tipo: Nessuno degli A è B. Tutti i B sono C. Alcuni dei C non sono A. Gli effetti di «incrocio» (chiamati in gergo figurali) e l'effetto atmosfera a volte congiurano per rendere certi tipi di sillogismi particolarmente contro-intuitivi, e quindi poco persuasivi, indipendentemente dal fatto che siano o no validi. Come abbiamo appena visto, anche certi tipi di alternanze tra «tutti», «alcuni» e «nessuno» possono rendere le cose più complicate. Molto persuasivo è questo sillogismo: Nessuna delle begonie è in una stessa aiuola con nessuna delle petunie. Tutte le petunie e tutte le margherite sono nelle stesse aiuole. Nessuna delle begonie è in una stessa aiuola con nessuna delle margherite. La situazione cambia drasticamente con il seguente, pur conservando identica la prima premessa: Nessuna delle begonie è in una stessa aiuola con nessuna delle petunie. Tutte le petunie sono nelle stesse aiuole con qualche margherita. ??? Di nuovo, la maggior parte delle persone smaliziate e riflessive non trova alcuna conclusione. Invece ne esiste una valida: Qualche margherita non è nella stessa aiuola con nessuna delle begonie.

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Anche quando questa conclusione ci viene presentata esplicitamente, può ancora sembrare che il ragionamento non fili. Forse non ci persuade, perché non vediamo che possono esistere «altre» margherite, oltre a quelle che condividono le aiuole con le petunie, che potrebbero, a quanto ne sappiamo, condividere l'aiuola con qualche begonia. Infatti tutte le petunie sono nelle stesse aiuole con qualche margherita. Quindi, in base alla prima premessa, devono esserci margherite che non sono nella stessa aiuola con nessuna delle begonie. E' vero... ma non ci crediamo. La lezione importante di questo capitolo è che, in generale, ciò che dà persuasività ad un argomento non è la sua validità logica, ma qualcos'altro. Verità e persuasività prendono sovente cammini diversi. Se la formuletta del sillogismo ci sembra troppo artificiosa e poco «naturale», passiamo pure a forme più libere, e forse più spontanee, di argomenti. Il divorzio tra verità e persuasività verrà, purtroppo, confermato. capitolo 6... Le sette corde della persuasione E' sempre interessante chiedersi se la forma da sola può spiegare la forza persuasiva di un'argomentazione, indipendentemente dal contenuto. Questo possiamo farlo in generale, anche quando non si tratta di sillogismi, purché l'argomentazione si lasci ricondurre a una forma sufficientemente schematica da ritrovarla intatta in casi tra loro molto diversi per contenuti, presupposti, usi e scopi. Non si tratta di un esercizio barocco, da puri accademici, perché sarebbe molto importante per la vita di tutti i giorni riuscire a decidere, una volta per tutte, quando un'argomentazione è intrinsecamente persuasiva, indipendentemente da chi la formula, dal perché e dalle conoscenze di base a cui fa appello. Chiediamoci, dunque: Esiste un metro oggettivo, razionale, universale, per accettare o rifiutare un certo ragionamento? Nel caso dei sillogismi «puri», abbiamo visto che questo metro esiste, ed è fornito dalla logica. Qualcosa ci dice che, forse, in generale è chiedere troppo. Il passo successivo, allora, è quello di chiedersi se ci si può avvicinare almeno un po' a questo ambizioso obiettivo. Sarebbe importante, perché la forza di un'argomentazione può, da sola, smuovere delle moltitudini a intraprendere immani azioni. Ci piacerebbe sapere in anticipo se è bene muoversi, e in quale direzione. Fino dall'antichità, era ben noto ai maestri di retorica che esistono delle forme di argomentazione che sfruttano in noi una sorta di riflesso condizionato, che possiedono una sorta di vernice di persuasività, ma solo una vernice, perché sono fallaci. Questi sofismi (fallacies in inglese) possono essere catalogati e studiati ad uno ad uno. Sono un po' come degli specchi deformanti delle buone forme di argomentazione. Un caso arci-famoso, non proprio serio, è il seguente pseudo-sillogismo: Il cane è una costellazione. Il cane abbaia. La costellazione abbaia. Più interessante è quest'altro: Premessa 1: La sede del Papato è Roma. Premessa 2: Per un certo periodo, la sede del Papato fu Avignone.

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Conclusione: Per un certo periodo Roma fu Avignone. Ci fa sorridere, ma non è molto facile precisare cosa sia andato storto in questo pseudo-ragionamento. Le varie forme di sofismi sono state puntualmente insegnate per secoli nelle università, come parte integrante della logica e della retorica, al fine di proteggere le giovani menti dall'errore e dall'equivoco. Non si sa bene perché, questo insegnamento è poi scomparso, proprio mentre aumentavano enormemente la portata e la diffusione dei canali di persuasione. I logici e i filosofi hanno continuato a scoprire forme sempre nuove e sempre più insidiose di paradossi argomentativi, ma si è per lo più trattato di studi lasciati in appannaggio agli specialisti. Solo negli ultimi anni, grazie allo sviluppo delle scienze cognitive, della psicologia del ragionamento, e dell'intelligenza artificiale, l'interesse per le forme di argomentazione si è intensificato e sta cominciando a uscire dall'orticello degli addetti ai lavori. Questo è un bene, perché l'uso di pseudo-ragionamenti volti a strappare il nostro consenso riguarda tutti. Prendiamo il caso seguente, molto realistico, in tutto simile a una dichiarazione che, ricordo, fu riportata dai giornali alcuni anni addietro e mi lasciò indignato (arrotondo le cifre per semplicità). Un litro di benzina super costa 1000 lire. I Paesi produttori di petrolio hanno aumentato il prezzo del 30 per cento. Quindi: La benzina ora costerà 1300 lire. Ammettiamolo pure: scatta in noi, almeno sulle prime, una sorta di riflesso condizionato. La forma di questo ragionamento ha qualcosa di plausibile, qualcosa che ci persuade. Su questo riflesso contavano certo i nostri governanti, e forse i giornalisti che si incaricarono, non so quanto in buona fede, di rivenderci questo disonesto sofisma. Infatti, il prezzo della benzina alla pompa, in Italia, è in forte maggioranza fatto di tasse (oltre il settantacinque per cento - e non parlo dell'ultimissimo aumento annunciato mentre andiamo in stampa). Inoltre, il prezzo del prodotto raffinato è assai superiore a quello del greggio. L'aumento giustificato sarebbe stato solo il trenta per cento di quanto il prezzo del greggio incide sul prezzo alla pompa. Non molto. Eppure mi accorsi con stupore che molti si erano subito rassegnati a quell'aumento, proprio in base a questo sofisma. Alcuni anni dopo mi accadde qualcosa di molto simile con il prezzo della carta e il prezzo dei libri. Nella seconda metà degli anni Settanta, il costo della carta, per una serie di cause complesse sulle quali non ci interessa soffermarsi qui, subì di colpo un netto aumento. A noi tutti, autori e anche semplici acquirenti di libri e riviste, venne fatto presente che il mercato era in difficoltà e che, per lasciare intatto il margine di utile, era necessario un aumento significativo dei prezzi di copertina. Ignaro della composizione reale dei costi di pubblicazione, inghiottii senza fiatare. Per caso, poi, mi trovai una sera a cena con un industriale canadese della carta e con un esperto italiano di distribuzione libraria. Si guardarono e sorrisero della mia ingenuità, del resto condivisa da milioni di altri cittadini. Su una salviettina di carta, al ristorante, mi calcolarono l'impatto di quell'aumento del costo della carta sul prezzo di copertina di un libro di trecento pagine. Si trattava di poche centinaia di lire. I costi importanti erano tutt'altri. Il caso era in tutto simile a quello della benzina. Una volta di più, eravamo stati convinti da uno pseudo-ragionamento, da un riflesso automatico di persuasione. Questi esempi di vita reale, naturalmente, sono legati a svariati fattori. Per capire che si è stati tratti in inganno occorre possedere informazioni attendibili sui costi dei materiali, dei processi di fabbricazione, dello stoccaggio e così via. Occorre anche rendersi conto delle tecniche di comunicazione sapientemente messe in atto dai governi e dagli industriali, e dei loro scopi. La sola forma delle argomentazioni non basta a farci capire che si è giocato sulla nostra credulità. Eppure sarebbe bello se potessimo capirlo sulla base della sola forma, senza aspettare di incontrare, per caso, degli esperti che ci aprono gli occhi.

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In fondo, il caso della benzina e quello della carta, a dispetto delle diversità, possiedono qualcosa in comune. Il tipo di argomento usato è lo stesso, e ci persuade esattamente per gli stessi motivi. Un aumento, obiettivamente indipendente dalla volontà dei nostri diretti interlocutori, viene presentato come giustificazione di un aumento della stessa entità sul prodotto finito. Si tace il fatto capitale che, invece, l'aumento tocca solo una piccola frazione del prezzo al consumo. In un certo senso, in questi due esempi, c'è una lezione comune, qualcosa che ha anche a che fare con la forma, indipendentemente dalla sostanza. Purtroppo, sarebbe utopia sperare di proteggerci sempre e comunque da tali sofismi esaminando solo la forma delle argomentazioni addotte. Un vizio di forma, come i maestri di retorica ben sapevano, e come hanno per secoli insegnato ai loro allievi, basta a sconfessare un sofisma. Si tratta di una condizione sufficiente, ma non necessaria. Miriadi di altri sofismi, come quello della benzina e quello della carta, possono essere formalmente impeccabili, ma fallaci per un vizio di contenuto. Ne vedremo alcune ottime ragioni tra poco. In quei casi, escogitati a bella posta, antichi quanto il mondo, occorre acquisire delle informazioni specifiche e pertinenti. Possiamo chiederci, però, se non si può almeno capire qualcosa di più da un attento esame della sola forma di un'argomentazione. La risposta è che si può, e questo capitolo intende mostrarlo. Esamineremo sette forme principali di argomentazione e ci chiederemo cosa le rende per noi psicologicamente persuasive. Si tratta di una selezione essenziale delle forme di argomentazione più studiate dagli esperti di logica, di filosofia della scienza e di psicologia del ragionamento. Ciascuna può essere condensata in una «ricetta» e in alcuni commenti a questa ricetta. Tutte colgono qualcosa di importante e di generale nel meccanismo delle argomentazioni. Nessuna, come vedremo, è inossidabile e a prova di bomba. Prese nel loro complesso, però, ci danno un identikit abbastanza fedele dei meccanismi psicologici della persuasione basata su argomentazioni razionali. 6.1. Prima forma: la roccia sotto il pelo dell'acqua. Possiamo pensare a questa situazione come al guado di un fiume. Partiamo dalla nostra sponda, cioè da quanto già sappiamo e già crediamo vero, e raggiungiamo la sponda opposta, cioè la conclusione, mettendo prima il piede sulla premessa, poi su una solida roccia, invisibile, ma che sappiamo essere rassicurantemente posta subito sotto il pelo dell'acqua. Con due balzi siamo sull'altra sponda. La premessa, abbinata a un fatto cui si fa implicitamente appello e che abbiamo forti ragioni di ritenere vero, porta alla conclusione. Eccone un esempio attualissimo: Premessa: Il marxismo non ha mai voluto riconoscere come genuini l'odio etnico e il fanatismo religioso, riconducendoli sempre a sovrastrutture artificiose della lotta tra ricchi e poveri, sfruttatori e sfruttati. Conclusione: Il marxismo non ha niente da dire sulle tragedie della ex Iugoslavia, del Ruanda e dell'Algeria. Il passaggio intermedio, implicito, ma essenziale, è che queste tragedie sono proprio causate dall'odio etnico e dal fanatismo religioso. Un dato di fatto, purtroppo, ormai sotto gli occhi di tutti. Due passaggi, uno esplicito, uno implicito, e raggiungiamo senza incertezze la conclusione. In questo stile di argomentazione si fa appello, appunto, a un passaggio implicito, a una roccia sotto il pelo dell'acqua. Ma questa non può essere una roccia qualsiasi. La persuasività del ragionamento viene meno se l'interlocutore non sa che esiste, o non sa dove è situata. E' poco persuasivo concludere che la Rover ha motori affidabili, sapendo che la Honda ha motori affidabili, se non si sa che alcuni motori della Rover sono di provenienza Honda. (Al momento di andare in stampa, dovrei integrare Honda con BMW, ma poco importa ai nostri fini.) All'opposto, si può

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costruire un'argomentazione illusoriamente persuasiva, quando si suppone che l'interlocutore dia per scontato qualcosa che noi sappiamo, invece, non essere vero. Crede ci sia la roccia, ma la roccia non c'è. Premessa: La città di New York è nello Stato di New York. Conclusione: La città di Washington è nello Stato di Washington. Invece no, Washington non è nello Stato di Washington, ma nel Distretto di Columbia. Lo Stato di Washington esiste, ma è assai lontano geograficamente dalla omonima città. Qui si costruisce un sofisma basandosi su un presupposto, in astratto, assai plausibile, ma di fatto falso: Che ogni grande città americana sia nello Stato che porta lo stesso nome. Il tipo di stratagemma è antico e ben noto. Se noi crediamo vero qualcosa che non lo è, e un malintenzionato lo sa, gli sarà facile persuaderci a credere anche tante altre falsità. Talvolta, la premessa stessa ci indica che non è vero qualcosa che davamo, invece, per scontato, e ci suggerisce implicitamente di far tesoro di questo per passare alla conclusione. Piuttosto persuasiva, per esempio, è l'argomentazione seguente: Premessa: New York non è la capitale dello Stato di New York. Conclusione: Los Angeles non è la capitale della California. Il ragionamentino funziona (infatti, la capitale della California è Sacramento). La premessa basta a suggerirci implicitamente un'idea più generale, da cui discende la conclusione, e cioè che la città più grande e famosa di uno Stato non è necessariamente la sua capitale. Un problema interessante, in questo comunissimo schema di ragionamento, è che la roccia sotto il pelo dell'acqua non può essere né la premessa stessa (e questo è piuttosto banale), né una lieve variante della premessa, né la formula che rappresenta il ragionamento stesso, cioè: «Se è vera la premessa, allora è vera la conclusione». Forse anche questo ci pare ovvio, ma esaminiamo la differenza tra i due casi seguenti. Premessa: Marte è un pianeta del sistema solare. Conclusione: Marte ruota intorno al Sole. Persuasivo, certo, ma assai banale. Essere un pianeta del sistema solare significa, appunto, nuotare intorno al Sole. A poco serve un'argomentazione quando basta una definizione. Il caso seguente è già diverso. Premessa: Su Marte non c'è clorofilla. Conclusione: Su Marte non c'è vegetazione. Può non essere molto esaltante, ma è certo persuasivo, e non ci sentiamo di bollarlo come perfettamente banale. Ragionamenti come questo sono assai utili, per esempio, nei laboratori di ricerca, nei tribunali, nelle diagnosi, nel riparare motori e nel decidere sugli investimenti. Vorremmo poter tracciare una differenza di principio tra questi due ultimi casi. Nel secondo, ciò che resta implicito e che ci consente di passare dalla premessa alla conclusione è la considerazione seguente: la clorofilla è contenuta nelle piante e ne rivela la presenza. Il passaggio dalla premessa alla conclusione, quindi, avviene questa volta non sulla base di una definizione, ma di qualcosa che è appena un capello meglio di una definizione. Il ragionamento stesso, nel suo complesso, assomiglia maledettamente proprio alla premessa implicita sulla base

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della quale lo troviamo convincente. Eppure si ha la netta impressione che ci dica qualcosa di pertinente e di non perfettamente ovvio. Come stabilire una differenza di principio? Purtroppo, decidere una volta per tutte, in astratto, quand'è che un ragionamento «assomiglia» ad un altro, e quanto gli assomiglia, è un compito molto arduo. Per adesso non esiste una teoria generale della similarità psicologica tra le argomentazioni. La differenza tra il primo e il secondo esempio è ben reale, dal punto di vista psicologico, ma non la si può «misurare» con un metro obiettivo. Questo non toglie che si possa distillare qualche regola aurea per usare correttamente questa forma di ragionamento e per renderlo persuasivo. Le regole sono, in buona approssimazione, le seguenti: Basarsi su un fatto, o una teoria, o un'opinione, che sono veri, implicitamente condivisi da noi e dall'interlocutore, e pertinenti. Partire da una premessa vera, la quale, combinata con quel fatto (quella teoria, quell'opinione), conduce ineluttabilmente alla conclusione. Privilegiare premesse alle quali l'interlocutore può non aver mai esplicitamente pensato, soprattutto premesse che sono tali da rimettere in discussione qualche opinione apparentemente ovvia e ben consolidata. Privilegiare, per il passaggio alla conclusione, qualche fatto (o teoria, o opinione) implicito, che può emergere facilmente, ma che intuiamo non essere immediatamente presente all'attenzione del nostro interlocutore. Costruire l'argomentazione in modo che sia naturale, irresistibile, ma anche informativa. Esaminiamo alcuni esempi buoni, da imitare, e alcuni esempi ingannevoli, da smascherare. Ecco quelli buoni: (1) Premessa: New York è quasi esattamente alla stessa latitudine di Napoli. Conclusione: Il rigore del clima invernale non dipende solo dalla latitudine. Qui ci si «appoggia» sulla considerazione che New York ha inverni notoriamente molto freddi, mentre a Napoli molti si gloriano di non possedere nemmeno il soprabito. La premessa, vera e pertinente, ma piuttosto inaspettata, conduce molto persuasivamente alla conclusione. (2) Premessa: I gatti a tre colori sono sempre ed esclusivamente femmine. Conclusione: Esiste un - fattore genetico particolare che determina le macchie a tripla colorazione. La componente sottintesa è che il sesso è geneticamente determinato e che (fatto forse meno ovvio) un tratto ereditario sempre e invariabilmente abbinato a uno solo dei due sessi è portato su un cromosoma sessuale. La conclusione è persuasiva e informativa. Infatti, la genetista inglese Mary Lyons ha mostrato che si tratta di un fenomeno assai interessante, chiamato «mosaicismo cellulare», possibile solo nelle femmine perché solo loro possiedono due cromosomi X (invece di un X e un Y come i maschi), e ciascuno di questi è alternativamente attivo, determinando colorazioni diverse in punti diversi del corpo. (3) Premessa: Quando c'è alta marea in un punto della Terra, c'è anche alta marea nel punto che si trova agli antipodi di questo. Conclusione: La marea non è semplicemente l'effetto dell'attrazione della Luna che «succhia» in alto le acque per gravitazione.

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La conclusione, mi consta, suona sorprendente a molti. Ma diventa inevitabile quando si accetta la premessa. Le maree sono, infatti, uno di quei fenomeni quotidiani sui quali la maggioranza dei soggetti ingenui ha intuizioni errate. Si tratta, grosso modo, di «pulsazioni» ritmiche delle masse d'acqua, nelle quali interviene in modo determinante, oltre all'attrazione della Luna, quella del Sole e l'inerzia della massa d'acqua interessata. Infatti, a poche decine di miglia di distanza, il dislivello tra alta e bassa marea può triplicare o sestuplicare. Inoltre, in certe zone ci sono due cicli di basse e di alte maree nelle 24 ore, mentre in altre zone ce n'è uno solo. (4) Premessa: La velocità di spostamento di un elettrone in un circuito elettrico è di qualche metro all'ora. Conclusione: La corrente elettrica non consiste letteralmente in un flusso di elettroni tra due poli. Tutti sanno che la corrente si instaura istantaneamente quando si aziona un interruttore. E tutti credono di sapere che la corrente consiste in un flusso «migratorio» di cariche negative (elettroni) verso il polo positivo. La premessa, sorprendente, rende inevitabile la conclusione, pure sorprendente. In effetti, la fisica dello stato solido ci insegna che la corrente elettrica consiste in una propagazione velocissima (pari alla velocità della luce) di una perturbazione del campo cristallino globale del conduttore. L'immagine del «flusso» di cariche è solo un'utile metafora, buona solo al livello dell'elettrotecnica elementare. Vediamo adesso le cattive argomentazioni, prendendo casi reali e ben documentabili: (1) Premessa: Il fosforo è implicato attivamente nei processi cerebrali della memoria. Conclusione: Fa bene alla memoria mangiare pesce e prendere ricostituenti ricchi di fosforo. Il fulcro sottinteso di questo ragionamento, che ha persuaso generazioni di medici di famiglia e di genitori, e ha prodotto infinite nausee nei malcapitati ragazzini costretti a ingerire olio di fegato di merluzzo e altre costose schifezze farmaceutiche, è il seguente: se si ingerisce fosforo attraverso gli alimenti, questo finisce nel nostro cervello. Come è stato, invece, mostrato, il fosforo assunto per via orale non (sottolineo, non) raggiunge i centri cerebrali. Inoltre, è impossibile che il cervello di una persona normale, normalmente nutrita (o anche leggermente sotto-nutrita) possa mai avere carenze di fosforo. La forza di questa argomentazione è stata talmente persuasiva che ha resistito a ogni confutazione. Cerchiamo di essere più guardinghi in futuro. (2) Premessa: Quando si sparge del DDT nell'atmosfera, o sulle piante, esso si deposita nei tessuti animali fino al terzo ciclo (cioè nei tessuti di animali che mangiano animali, i quali, a loro volta, mangiano animali che mangiano piante cosparse con il DDT). Conclusione: Bisogna bandire l'uso del DDT (e tanto peggio per le conseguenze). Il ponte, ovvio per molti, tra la premessa e la conclusione è che avere del DDT accumulato in tracce nei tessuti fa male. In realtà, a tutt'oggi, non è stato mai dimostrato che il DDT faccia male all'uomo, o agli animali di cui ci nutriamo. Invece, la risorgenza della malaria e di altre malattie veicolate dagli insetti, che ha fatto seguito al bando del DDT, ha causato danni assai più ingenti, sia umani che economici. 6.2. Seconda forma: salire più su, per poi scendere giù. Un'argomentazione può essere assai persuasiva se parte da premesse tra loro abbastanza diverse e rappresentative da indurci, prima a generalizzare, e poi ad accettare la conclusione come un caso

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particolare. Si tratta, per dirla in termini tecnici, di un'induzione effettuata come deduzione «all'inverso». Vediamone subito un esempio elementare: Premessa 1: Le strade di Roma erano deserte durante la finale di Coppa del Mondo. Premessa 2: Le strade di Cinisello Balsamo erano deserte durante la finale di Coppa del Mondo. Conclusione: Le strade di Catania erano deserte durante la finale di Coppa del Mondo. Questo ci sembra molto persuasivo, perché prima si desume che le strade di tutte le città e le cittadine d'Italia erano deserte durante la finale di Coppa del Mondo, e poi se ne trae la conclusione nel caso particolare di Catania. Assai meno persuasiva sarebbe stata l'argomentazione seguente: Premessa 1: Le strade di Roma erano deserte durante la finale di Coppa del Lazio. Premessa 2: Le strade di Viterbo erano deserte durante la finale di Coppa del Lazio. Conclusione: Le strade di Catania erano deserte durante la finale di Coppa del Lazio. Qui l'argomentazione non persuade più, perché non si risale a un raggruppamento abbastanza generale, dal quale poi passare, per deduzione, alla conclusione. Il nocciolo di questo tipo di ragionamenti è costituito dalla omogeneità dei raggruppamenti che mentalmente e istantaneamente formiamo, a partire dalle premesse. Il segreto è quello di fornire un ventaglio di premesse che sia abbastanza ampio da apparire rappresentativo dell'insieme più largo (tutte le città d'Italia, tutte le città del Lazio), e poi di presentare una conclusione che porti su un altro membro proprio dell'insieme (Catania lo è per il primo caso, ma non per il secondo). Se i raggruppamenti sono genuinamente compatti e omogenei, ci viene spontaneo supporre che i loro membri abbiano molte proprietà in comune, tra le quali quella di cui si parla nella conclusione. Su questo si basa la forza di persuasione di questi ragionamenti. Eccone un altro esempio: Premessa 1: Per certi modelli di motociclette, la Ducati produce meno unità di quante sono le richieste. Premessa 2: Per certi modelli di motociclette, la Harley Davidson produce meno unità di quante sono le richieste. Conclusione: Per certi modelli di motociclette, la BMW preferisce perdere commesse che rischiare un eccesso di stoccaggio. L'argomentazione non fa una grinza, e in effetti mi consta che le cose stiano proprio così. L'insieme che mentalmente formiamo, sulla base delle premesse, è quello dei produttori non-giapponesi di motociclette, cui ovviamente appartiene anche la BMW. Nella conclusione si va appena un passo oltre le premesse, e si risale alla più presumibile causa dell'eccesso di domanda. Questo tipo di argomentazione ha i suoi limiti, segnati dalle nostre intuizioni e dal patrimonio delle nostre conoscenze correnti. Non solo i raggruppamenti ci devono apparire subito evidenti, ma le connessioni tra le proprietà di cui si parla ci devono apparire naturali, dirette, ineluttabili. Poco persuasivo sarebbe il ragionamento seguente: Premessa 1: Lo stagno è molto malleabile. Premessa 2: Il rame è molto malleabile. Conclusione: L'oro è un ottimo conduttore di elettricità. Non sembra nemmeno un'argomentazione, sembra una lista di affermazioni slegate. Eppure, da un punto di vista puramente formale, tutto è in regola. Le due premesse ci invitano a risalire ai metalli

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in genere. Dalla proprietà di essere malleabile è molto plausibile passare a quella di essere buon conduttore dell'elettricità (questo ce lo avevano insegnato a scuola). I metalli possiedono ambedue queste proprietà (tra molte altre), e l'oro è un metallo. Quindi... Ma nessuno troverebbe persuasiva questa argomentazione, pur sapendo tutto questo. Un'argomentazione di questo genere, per funzionare, deve mantenersi entro un orizzonte psicologicamente limpido. La fisica, la chimica o le altre scienze non possono supplire a una carenza di plausibilità psicologica. Occorre che noi vediamo subito, con l'occhio della mente, i rapporti tra gli esempi usati, e tra le proprietà menzionate. A poco serve che, in qualche altro angolo della mente, si sia in possesso delle conoscenze necessarie e sufficienti a garantire, in astratto, la conclusione. Premesse e conclusione devono «appartenersi» l'un l'altra, in un senso non scientifico, ma psicologico. Addirittura, poco importa a volte che la nostra conoscenza scientifica di ciò di cui si parla sia minima, o inesistente. Come abbiamo appena visto, un'argomentazione può apparirci poco persuasiva anche se la conclusione ci suona plausibile per altri motivi, e anche se capiamo su quali nessi obiettivi tra proprietà si basano i suoi passaggi. Al contrario, ci può apparire perfettamente persuasiva un'argomentazione di questo tipo, anche se fa intervenire proprietà di cui sappiamo poco o niente: Premessa 1: Il cervello del babbuino contiene serotonina. Premessa 2: Il cervello della cavalletta contiene serotonina. Conclusione: Il cervello della giraffa contiene serotonina. Poco o niente sappiamo di cosa sia la serotonina, ma questo ragionamento ci suona ugualmente molto persuasivo. Infatti, dal babbuino e dalla cavalletta, risaliamo inevitabilmente a tutti gli animali (nessuna altra classe più «specializzata» di esseri viventi li contiene entrambi). E da questi alla giraffa, che è, appunto, un animale. U argomentazione ci appare psicologicamente del tutto persuasiva, anche se ignoriamo cosa sia esattamente la serotonina. Una volta di più, risulta molto difficile trattare in generale e in modo obiettivo, formale, i fattori che conferiscono a un'argomentazione con questa forma una speciale trasparenza psicologica. Tutti noi, bambini compresi, abbiamo idee molto chiare, e sostanzialmente giuste, sulle relazioni di similarità e di dissimilarità tra gli animali, sia per le singole specie che per i più vasti raggruppamenti zoologici (felini, mammiferi, insetti, pesci ecc.). Ci è già più arduo intuire correttamente le relazioni di similarità per gli artefatti, anche i più comuni (bicicletta, aeroplano, ferro da stiro, caffettiera, ecc.). Nel mondo degli oggetti fisici in genere, sembra esistere una sorta di organizzazione innata delle nostre intuizioni spontanee sui rapporti naturali di causa ed effetto, chiamata «fisica ingenua». Per ora non si può dire molto di più che sia veramente generale. Le relazioni tra oggetti del vasto mondo che meritano di ricevere la palma di «psicologicamente pertinenti» non sono catturate da nessuna formula, da nessuna teoria. Per fortuna, sono abbastanza condivise dai nostri interlocutori da risultarci spesso assai ovvie. Le regolette auree che si possono distillare sono le seguenti: Scegliere le premesse in modo che siano abbastanza eterogenee tra loro da apparire scelte quasi a caso, a mo' di campioni, ma anche abbastanza omogenee da suggerire un particolare raggruppamento, e uno solo, che le accomuna tutte. Scegliere le proprietà menzionate nelle premesse in modo che suonino del tutto naturali, rispetto al raggruppamento in questione, e psicologicamente pertinenti a quelle menzionate nella conclusione. Offrire una conclusione che porti su un ulteriore autentico membro del raggruppamento, ma uno al, quale non si sarebbe pensato d'istinto.

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e Usare, nella conclusione, la stessa proprietà usata nelle premesse, o una che si colleghi a questa in modo psicologicamente evidente. Costruire l'intera argomentazione in modo che sia informativa, in modo che rivela qualcosa fino ad ora rimasto assai poco evidente. Se mi è consentito accostare il sacro al profano, certo la più nota, e la più poetica, di queste argomentazioni la troviamo nel Vangelo, dove Gesù dice: Guardate gli uccelli che vivono in libertà: essi non seminano, non mietono e non mettono il raccolto nei granai... eppure il Padre vostro che è in cielo li nutre! Ebbene, voi, non siete forse molto più importanti di loro? [...] Anche per i vestiti, perché vi preoccupate tanto? Guardate come crescono i fiori dei campi: non lavorano, non si fanno vestiti... eppure vi assicuro che nemmeno Salomone, con tutta la sua ricchezza, ha mai avuto un vestito così bello! Ma se Dio veste così l'erba, che oggi è fresca nel campo e domani è buttata nel fuoco, a maggior ragione non darà un vestito a voi? Gente di poca fede! Un'argomentazione, questa, che ha persuaso le moltitudini per duemila anni, e continua a persuadere molti ancora oggi, a dispetto di innumerevoli, tragici esempi del contrario. 6.3. Terza forma: le sorprese si compensano La verità della premessa (o delle premesse, se ce n'è più di una) crea in noi sorpresa, e ci invita ad accettare la conclusione, che sarebbe sorprendente senza le premesse. Ecco un esempio banale: Premessa: Gavi Ligure non è in Liguria. Conclusione: Il Gavi de' Gavi è un vino bianco piemontese. Superata la doccia fredda della premessa, non si ha più alcuna difficoltà ad accettare la conclusione. Infatti, questo ragionamentino è talmente persuasivo da essere irresistibile. Irresistibile, data la premessa. Quanto vasto è l'orizzonte di possibilità aperto da una premessa, di per sé, sbalorditiva? Quanto sono io in grado di far accettare come vero un fatto normalmente ritenuto implausibile? Quanti altri fatti, che sono conseguenza di questo, posso ugualmente far accettare come veri? Nella scienza questa situazione si presenta continuamente e gli scienziati, perfino i protagonisti stessi di una scoperta, impiegano a volte anni prima di calibrarne tutte le conseguenze. Continuano a credere vere cose che proprio la loro scoperta ha reso implausibili. Poi, d'un tratto, si battono la fronte con il palmo della mano e esclamano: «Ma certo, ma certo, come non averci pensato prima?!». La conoscenza umana è così fatta. Non percorre automaticamente tutti gli anelli di una catena, pur conoscendoli tutti e pur sapendoli tutti solidi, in astratto. Soprattutto le conoscenze nuove e inaspettate generano questa forma di temporanea miopia. Ora si sa che è vero qualcosa che prima non si riteneva vero. Un altro angolo della mente sa che, se questo è vero, allora è vero anche quest'altro. Eppure non si arriva alla inevitabile conclusione. I filosofi di professione dicono, in termini austeri, che l'insieme delle conoscenze umane, anche quelle di un singolo individuo, non è «chiuso sotto implicazione». Una manifestazione, molto terra terra, di questo fatto è data dalla semplice distrazione. lo so perfettamente che il compleanno di Maria è il 5 ottobre. Se, in qualunque momento, mi chiedete «Quand'è il compleanno di Maria?», senza un attimo di esitazione io vi rispondo: «Il 5 ottobre».

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Passano i mesi e i giorni. Arriva il 5 ottobre. Io so che oggi è il 5 ottobre, perché ho comprato il giornale e ho ben visto la data che porta, perché ho firmato delle lettere di affari che portano questa data ben visibile. Eppure mi scordo che oggi è il compleanno di Maria. Disattenzione, certo. Ma il fenomeno è più profondo e più generale, si produce anche quando ci mettiamo tutta la nostra attenzione. Albert Einstein una volta formulò un'obiezione, che sulle prime sembrava micidiale, alla teoria dei quanti. Dopo qualche giorno, un suo illustre interlocutore poté dimostrargli che quella obiezione cadeva, proprio in virtù della teoria della relatività ristretta formulata dallo stesso Einstein. Anche i giganti del pensiero possono faticare a vedere tutte le conseguenze delle loro scoperte. In generale, questo è il problema della cosiddetta plausibilità condizionale: quanto è plausibile che sia vero questo, sapendo che è vero quest'altro? In particolare, sapendo vero qualcosa di sorprendente, di eccezionale, quanto è probabile che ne segua qualcos'altro di sorprendente? Quanto è probabile, invece, che si ristabilisca il normale ordine delle cose? La plausibilità condizionale è un processo psicologico, non logico. Per questo, la logica pura e il calcolo delle probabilità non ci sono di grande aiuto. Premessa: Siamo in luglio e ha piovuto per sedici giorni di seguito. Conclusione: Domani non pioverà. Quanto ci persuade? Non sarebbe più persuasivo concludere che anche domani pioverà? La nostra incertezza qui è dovuta al fatto che la pioggia del giorno prima non è causa della pioggia del giorno dopo. Si tratta solo di un indice, un segnale. La causa sono fattori atmosferici più globali e di più lunga durata. t stato comunque calcolato che, in media, sulla Terra, in qualsiasi stagione, c'è una probabilità di circa il 60 per cento di azzeccare la risposta corretta alla domanda «Che tempo farà domani?» rispondendo semplicemente «Lo stesso che fa oggi». In noi tutti, però, gioca un'intuizione statistica poco giustificabile, ma prepotente: una sorta di regola di compensazione. Sapendo che, di norma, a luglio piove poco, siamo portati a supporre che si ristabilirà l'equilibrio e che la pioggia cesserà. In altri casi, invece, il fatto eccezionale ci incita ad aspettarci altri fatti eccezionali. Premessa: Giorgio è capace di bere sette caffè nella giornata e di dormire tranquillamente tutta la notte. Conclusione: Giorgio è capace di bere otto caffè nella giornata e di dormire tranquillamente tutta la notte. La chiave della persuasività, in questo tipo di argomentazioni, è la cosiddetta «monotonicità»: non è ragionevole aspettarsi che in Giorgio scatti di colpo l'insonnia proprio all'ottava tazzina di caffè. Avremo occasione presto di ritornare sulla nozione di monotonicità. I tre ingredienti essenziali di questa forma di argomentazione sono i seguenti: (1) Una premessa, vera, ma inaspettata; (2) Un passaggio obbligato, implicito, ma irresistibile, attraverso qualcosa che spiega come è possibile che si sia verificato quanto afferma la premessa; (3) Una conclusione che discende molto plausibilmente da (1) e (2). Il grande filosofo americano Charles Sanders Peirce, uno dei padri del pragmatismo, propose il seguente schema di ragionamento, di portata molto, molto generale. Si è osservato, senza ombra di dubbio, un certo fatto, chiamiamolo E Questo fatto F è sbalorditivo. Ma, se supponiamo sia vero S (che può essere un altro fatto più generale, o un principio, o una teoria, o una causa), allora F non è più sbalorditivo, anzi è una naturale conseguenza di S (la lettera S suggerisce l'idea di spiegazione).

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E ragionevole, quindi, supporre che S sia vero. Chiediamoci quanto ci persuade questa formula generale di Peirce. Non è difficile trovare esempi che la rendono persuasiva. Nella scienza si procede spesso proprio in questo modo. Tanto per citare un caso famoso, Ernest Rutherford, bombardando con particelle alfa un sottilissimo foglietto d'oro, constatò che la maggior parte di queste particelle minutissime lo attraversavano come se niente fosse, ma un'infima minoranza (circa una su mille) venivano violentemente rimbalzate indietro. Quanto questa osservazione fosse sbalorditiva lo si capisce dal suo celebre commento: «Era come aver sparato con un cannone su un foglio di carta e aver visto alcuni proiettili rimbalzare indietro». Supponendo che l'atomo non fosse uniformemente pieno, ma che tutta la sua massa fosse concentrata in una regione piccolissima e densissima, il nucleo atomico, questa osservazione non era più sbalorditiva. Diventava, anzi, inevitabile che la maggior parte delle particelle passasse attraverso il vuoto degli atomi indisturbata, mentre quelle rare particelle che per caso andavano a urtare contro il nucleo rimbalzassero violentemente indietro. L'ipotesi dell'esistenza di un nucleo atomico venne così avanzata per la prima volta. Ciò che questa ipotesi aveva, e ha ancora, di sbalorditivo è che la materia è in massima parte fatta di vuoto. Per riscontrare quanto frequente e quanto persuasivo sia questo tipo di ragionamento non c'è nemmeno bisogno di scomodare i grandi scienziati. In un celebre racconto di Arthur Conan Doyle, Sherlock Holmes appura che il cane da guardia non aveva abbaiato quando l'assassino era entrato. Il fatto era molto sorprendente. Se, però, si ipotizzava che l'«intruso» altri non fosse che il padrone di casa, diventava naturale che il cane non avesse abbaiato. Holmes, quindi, si fissa su questa ipotesi e finisce per trovare altri indizi che la confermano. Peirce ha certo individuato un tipo di ragionamento che funziona. Bisogna, però, esser prudenti nell'innalzare il ragionamento di Peirce a principio universale, nel dichiararlo sempre e comunque persuasivo. Per esempio, l'ipotesi che spiega il fatto potrebbe essere ancora più sbalorditiva del fatto stesso. E fin qui, magari, non c'è gran male, se essa spiega anche altri fatti che risultano di primo acchito sbalorditivi, oppure se aiuta a prevedere molti fatti nuovi, alcuni sbalorditivi e altri no. Se, invece, spiega solo quel fatto e risulta ancora più sbalorditiva del fatto stesso, non ci si guadagna proprio niente. Qualche anno fa, un mio conoscente italiano, raffinato e cosmopolita, si era unito a una spedizione nelle Filippine di medici, antropologi e semplici curiosi facoltosi, il cui intento era controllare di persona la fondatezza di certe mirabolanti notizie su interventi chirurgici effettuati, si diceva, a mani nude. Erano circolati racconti, fotografie e anche qualche filmato, di stregoni locali che estraevano cisti, tumori e perfino proiettili e altri oggetti metallici, dal corpo dei loro pazienti, aprendone e presto richiudendone il corpo con le sole mani, e senza alcuna perdita di sangue. Equipes assai più agguerrite e più serie rivelarono poi che si trattava di abili frodi, perpetrate con grande maestria illusionistica da questi santoni. Ma il mio conoscente era incline alle filosofie orientali, parteggiava intensamente per i critici della scienza e della medicina «ortodosse», e gli parve di aver constatato che queste mirabolanti operazioni a mani nude erano una realtà. Durante una cena, ci raccontò quanto aveva visto (o aveva creduto di vedere). Di fronte al fiero scetticismo di alcuni di noi, con l'aria di chi espone un impeccabile teorema, spiegò che queste operazioni incruente a mani nude non erano affatto sorprendenti. «Vedete, loro non operano direttamente sul corpo biologico, ma intervengono sul corpo astrale.» «Ah, affascinante!» esclamò rapita una signora. Per fortuna la conversazione passò ad altro. Ignoro quale coacervo di credenze e di dottrine lo inducesse a ritenere che le operazioni incruente a mani nude discendessero del tutto «naturalmente» da un intervento su qualcosa chiamato corpo astrale. Preferii non approfondire. Per molti di noi, certo, la sua «spiegazione» appare ancora più implausibile del fatto che pretende di spiegare. La tassa sulla nostra credulità sarebbe innalzata, non diminuita. Lo schema alla Peirce si sgretola quando ci si imbatte in casi come questo.

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A dispetto di lunghi e ingegnosi tentativi, effettuati da logici, filosofi della scienza e scienziati, per tracciare una demarcazione obiettiva, puramente formale, universale, tra ipotesi genuinamente scientifiche, come quella del nucleo atomico, e ipotesi cervellotiche, come quella del corpo astrale, si è dovuto constatare che la demarcazione non può essere tracciata sulla sola base della forma. Essa è assai netta, per tutte le persone educate alla scienza, ma deve pur sempre fare appello a un complesso retroterra di conoscenze, a un certo stile di indagine, a precisi criteri di rigore teorico e sperimentale. Non si può distinguere tra la scienza e la superstizione sulla sola base della forma delle ipotesi. In altre parole, è impossibile consacrare l'ipotesi del nucleo atomico come scientifica (magari errata, ma pur sempre scientifica) e bollare, invece, l'ipotesi del corpo astrale come insensata, prestando attenzione solo alla forma del discorso. Né serve a gran cosa far valere, come quei filosofi, logici e scienziati hanno tentato, che un'ipotesi come quella del nucleo atomico è basata su osservazioni sperimentali, mentre l'idea di un corpo astrale è basata sul nulla. Quel signore aveva ben «osservato» dei fatti apparentemente incredibili, e aveva ben formulato un'ipotesi che, a suo dire, li spiegava molto semplicemente e molto elegantemente. Non sempre, in questo tipo di argomentazione, le sorprese si compensano. Né ci sono sostituti alla mancanza di una vera cultura scientifica. Ci sono, però, delle regole auree anche per questa forma di argomentazione. Regole che possono, se applicate a dovere, perlomeno limitare i danni: Partire da una o più premesse che siano sorprendenti per buoni motivi, cioè che rivelino qualcosa di inaspettato secondo l'opinione comune, ma, a guardarci meglio, compatibile con più approfondite conoscenze tecnico-scientifiche. Fare appello a una spiegazione, pure inaspettata, ma robusta, semplice e inevitabile, tale, inoltre, da suggerire subito molte altre conseguenze, oltre alla conclusione che si vuole raggiungere. Scegliere una conclusione che deriva in linea diretta dalle premesse e dalla spiegazione, senza far appello ad altre ipotesi o spiegazioni. Delineare agli occhi dell'interlocutore un itinerario psicologicamente naturale e obbligato. Non creare mai più di una sorpresa alla volta. Nel caso di Rutherford e del nucleo atomico tutte queste regole sono state osservate. Riesce difficile immaginare un'altra spiegazione che desse conto altrettanto bene, altrettanto semplicemente e altrettanto naturalmente, dei fenomeni osservati. Ammessa l'esistenza del nucleo atomico, la conclusione seguiva senza fare appello ad altre ipotesi aggiuntive, senza invocare altre spiegazioni sbalorditive. Vediamo ora, invece, un esempio storicamente ben documentato, molto istruttivo, di un ragionamento che, formulato quasi letteralmente come io ora lo trascrivo, ha tratto in inganno gli immunologi per oltre mezzo secolo (circa dal 1900 al 1950): Premessa: Gli organismi sono capaci di fabbricare anticorpi molto specifici anche contro sostanze artificiali, mai esistite prima in natura. Conclusione: Queste molecole esterne (antigeni) servono da calco, o stampo, all'organismo per la formazione di anticorpi specifici. La persuasività di questa argomentazione era tutta basata sulla concezione che, in natura, non c'è niente di inutile. Per citare la reazione di un illustre biochimico degli anni Trenta (l'ungherese Felix Haurowitz), era «inconcepibile» che un organismo (diciamo un coniglio, o un topo, o un essere umano) si portasse dentro da sempre, cioè fino dalle origini della specie, complesse molecole il cui unico «scopo» fosse quello di legarsi con sostanze artificiali, mai prima esistite in natura. Questa storia è lunga e complessa e non è il caso di addentrarcisi troppo. Basterà dire che, dalla metà degli anni Cinquanta ad oggi, si sono accumulate molte prove indubitabili contro l'idea che gli

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organismi fabbrichino anticorpi a partire da calchi o stampi forniti dall'esterno. Tutti i tipi di anticorpi sono presenti nell'organismo senza alcun intervento esterno, per effetto di una cascata di ricombinazioni programmate nei loro geni. Il contatto con le sostanze estranee all'organismo - comprese quelle artificiali, mai prima esistite in natura - si limita ad aumentare il numero di quegli anticorpi specifici, tra tutti quelli esistenti, che per caso sono capaci di combinarsi chimicamente con tali sostanze. L'incontro con queste sostanze ne aumenta il numero, ma non h «crea» dal nulla. Inoltre, quasi più nessuno oggi, tra gli scienziati, pensa che in natura si produca solo ciò che è utile all'organismo. La panoplia di anticorpi diversi (chiamata il «repertorio») che sono comunque e spontaneamente presenti in un organismo superiore (per esempio un essere umano), è dell'ordine di qualche miliardo di tipi diversi. Con tante forme diverse di anticorpi, è inevitabile che esista già, per qualsiasi molecola che si introduce dall'esterno, almeno un tipo di anticorpo capace, per puro caso, di «riconoscerla». Metto riconoscerla tra virgolette, perché le due molecole non si erano mai «incontrate» prima. Questa immensa varietà di forme anticorpali ha un'importante funzione, utilissima all'organismo: quella di difenderlo dalle infezioni. Non ha alcun senso, però, supporre che ogni singolo tipo di anticorpo esista «per» servire a qualcosa. Oggi possiamo benissimo pensare che gli anticorpi capaci di riconoscere una strampalata molecola artificiale, creata per la prima volta il mese scorso dai chimici in un laboratorio, siano stati presenti nel sistema immunitario della nostra specie fino dalle origini dell'uomo, senza uno scopo particolare. L'immensità del repertorio di anticorpi ha, se vogliamo ancora parlare così, una sua «ragione», ma i singoli tipi di anticorpi in quanto tali, singolarmente presi, no. Per mezzo secolo, tutti i biologi hanno trovato persuasiva un'argomentazione che portava a credere vero l'opposto di quanto si crede vero oggi. Non c'era un vizio dì forma. Non si può certo dire che fosse un sofisma. L'argomentazione era sbagliata per ragioni di contenuto, non di forma. Sbagliati erano i presupposti «ovvi» che sorreggevano quell'argomentazione. Il panorama concettuale della biologia è radicalmente cambiato, a partire dai primi anni Cinquanta. La premessa resta vera: gli organismi, in effetti, fabbricano anticorpi specifici anche contro sostanze artificiali, mai prima esistite in natura. Ma non si crede più all'economia della natura, e si è capito che è biologicamente impossibile che una molecola esterna «detti» all'apparato immunitario la forma di un anticorpo. Le conseguenze che oggi se ne traggono sono, quindi, assai diverse. Ecco cosa diventa oggi l'argomentazione, esposta nella stessa forma: Premessa: Gli organismi sono capaci di fabbricare anticorpi molto specifici anche contro sostanze artificiali, mai esistite in natura. Conclusione: Il repertorio di forme molecolari spontaneamente presenti nel sistema immunitario di un organismo è veramente immenso. (Esiste sempre almeno una di queste forme per qualsiasi sostanza possibile.) La conclusione è talmente sbalorditiva che tutti gli immunologi l'hanno ritenuta «inconcepibile» per mezzo secolo. Eppure, se è vera (come lo è), la stranezza della premessa sparisce. Il fatto descritto nella premessa viene oggi naturalmente e direttamente spiegato proprio a partire dalla vastità del repertorio degli anticorpi. Come dicevo, può sembrare strano usare il termine «riconoscere» per un «incontro» tra partner che non si erano mai visti prima. Non starò qui, per motivi di spazio, e di legittima impazienza del lettore, a costruire un'argomentazione che può dissipare anche questa apparente stranezza. La spiegazione si trova nei buoni manuali di immunologia. Accennerò solo, in sintesi, al fatto che suona un po' così: Premessa 1: Una certa serratura viene aperta solo da una chiave, tra miliardi di altre chiavi presenti. Premessa 2: Quella chiave non è stata fabbricata per aprire quella serratura. (Anzi, la serratura non esisteva nemmeno, quando la chiave venne fabbricata.)

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Conclusione: Chiave e serratura per caso si riconoscono l'una l'altra, pur senza essere mai venute a contatto prima. 6.4. Quarta forma: quando c'è una causa c'è un'argomentazione. La premessa (o le premesse), combinandosi con un meccanismo di causa ed effetto che si ritiene valido e pertinente, porta alla conclusione. Premessa: Si era formata una lastra di ghiaccio sul marciapiede. Conclusione: Un pedone è stato ricoverato al pronto soccorso. Rispetto alla prima forma, quella della roccia sotto il pelo dell'acqua, qui ci siamo specializzati. La roccia non è di natura qualsiasi, ma è una relazione di causa e effetto. Parrebbe, almeno a prima vista, che si tratti di una buona, solida relazione. Non dicevano forse gli antichi che sapere è sapere attraverso le cause? Adesso, forti dei nostri schemi casuali, possiamo perfino omettere, lasciare sottintesi, molti passaggi. La premessa può portare alla conclusione lasciando sotto il pelo dell'acqua non più una, ma molte rocce. Inutile rendere esplicito lo scivolone del povero pedone, inutile menzionare la sua caduta, i danni provocati da questa, l'accorrere degli astanti, la chiamata dell'ambulanza. Quando una catena solida di cause e effetti si snoda regolare di fronte alla nostra immaginazione, i passaggi intermedi possono essere omessi. Il guaio è che ci sono dei limiti. Una volta di più questi sono psicologici, non fisici. Assai meno persuasiva è l'argomentazione seguente: Premessa: Un fronte freddo è passato sulla città. Conclusione: I parenti sono andati a visitare un ricoverato al pronto soccorso. Qui l'argomentazione non funziona, perché si sono saltati troppi passaggi. Magari, sotto il profilo della catena obiettiva di cause ed effetti, là fuori nel vasto mondo, la premessa rende molto probabile la conclusione, ma il nesso ci sfugge totalmente dal punto di vista psicologico. Infatti, avevamo stabilito che il nesso causale doveva essere pertinente. Invece, dal fronte freddo alla visita al pronto soccorso, la pertinenza si è persa per strada più di una volta. Anche qui, purtroppo, siamo nella situazione già incontrata prima. Non esiste una teoria formale della pertinenza (v. par. 7.4). Non è possibile esaminare la forma «pura» di due frasi e decidere, su una base logica, o comunque indipendente dal loro contenuto, se sono o no tra di loro pertinenti. Conta molto quello che istintivamente sappiamo, o crediamo di sapere, su ciò che le persone di norma valutano pertinente. Tra la lastra di ghiaccio e il ricovero al pronto soccorso c'è una pertinenza chiarissima, che forse ci è stata anche inculcata dalle mamme, le nonne e le tate fin da quando eravamo bambini.- Lo schema causale è universale e ovvio a tutti. Gli scienziati cognitivi, negli ultimi anni, hanno tracciato una prima complessa mappa delle conoscenze di causa e effetto note a tutti, bambini compresi. Si tratta delle nostre conoscenze ingenue sui meccanismi causali elementari del mondo. Le scienze ne hanno sconfessati molti, e ne hanno ridimensionati molti altri, ma per noi comuni mortali si tratta di intuizioni molto solide e molto persuasive. Si tratta di una conoscenza fallibile, ma che ha forti componenti innate. Qualsiasi ragazzino (ma nessun fisico) troverà persuasivo un ragionamento come il seguente: Premessa 1: Un'automobilina ruota vorticosamente intorno a un pilastro, trattenuta da una cordicella. Premessa 2: Si spezza improvvisamente la cordicella. Conclusione: L'automobilina continuerà in un moto curvilineo, almeno per qualche secondo.

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Occorre un certo sforzo, e aver seguito un corso di fisica elementare, per sconfessare questa intuizione e capire che l'automobilina partirà, invece, subito «per la tangente», sempre e comunque con una traiettoria rettilinea. Altri schemi causali, frutto dell'esperienza e della sperimentazione, possono essere arcinoti a un gruppo di persone, ma ignoti ad altri gruppi. Un'argomentazione di questo tipo può, a volte, risultare molto persuasiva solo per certi esperti. Tutti troveranno persuasiva questa: Premessa: Un'improvvisa raffica di vento ha spazzato il mare, fino ad allora calmo, in una domenica d'agosto. Conclusione: Molte imbarcazioni si sono trovate in difficoltà. Solo gli esperti di vela, invece, troveranno persuasiva la seguente: Premessa: L'equipaggio aveva dimenticato di togliere la trattenuta di boma. Conclusione: La randa si è squarciata sotto la forte raffica improvvisa. E' utile chiedersi quanto si riesce a «distanziare» la premessa dalla conclusione, pur mantenendo la pertinenza psicologica, e quindi la persuasività dell'argomentazione. Questo, in generale, dipende da un patrimonio di conoscenze comuni, sottintese. La catena di nessi causali può a volte allungarsi molto. Tra interlocutori che sanno perfettamente di cosa si parla, e di chi si parla, può essere perfettamente persuasiva anche l'argomentazione seguente: Premessa: C'era sciopero dei benzinai. Conclusione: Il loro matrimonio andò a rotoli. Ci sono varie storie personali possibili, e singolari nessi di causa ed effetto, che possono rendere persuasiva questa argomentazione, se offerta da un particolare interlocutore ad un altro interlocutore particolare. Certo, detta così, non suona persuasiva né a voi, né a me. Questa non è un'argomentazione persuasiva in generale. La pertinenza dei nessi causali è sempre legata ad un certo contesto, ma se questo contesto è implicitamente noto a tutti, allora l'argomentazione è persuasiva per tutti. Sarà opportuno, al di fuori di ambienti specialistici, mantenersi entro questi contesti ovvii. I guai non finiscono qui. Per rendercene conto prendiamo sempre, da ora in poi, nessi causali accessibili a chiunque, e rispettiamo sempre i canoni di una pertinenza per tutti ovvia. Vediamo come, per questa quarta forma, un'argomentazione persuasiva possa squagliarsi come neve al sole se appena allontaniamo tra di loro la premessa e la conclusione di un solo anello causale pertinente. Forma «corta» (assai persuasiva): Premessa: Muore il re. Conclusione: Si svolgerà un funerale di Stato. Forma «lunga» (per niente persuasiva - a dir poco): Premessa 1: Esplode il sistema solare. Premessa 2: Tutti muoiono. Premessa 3: Muore il re. Conclusione: Si svolgerà un funerale di Stato. Questo esempio, ad arte scelto perché suoni ridicolo, e quindi perfettamente ovvio, non deve trarci in inganno. Sarebbe impossibile formalizzare le reti causali che tutti noi abbiamo in testa, in modo

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da rendere obiettiva la differenza tra la forma «corta» e la forma «lunga» dell'argomentazione. Si tratterebbe, nientemeno, di esaminare sotto un profilo logico, formale, o comunque indipendente dai contenuti, tutti i nessi causali che devono «reggere bene», nel contesto globale delle nostre conoscenze, affinché «reggano bene» certi altri nessi causali più specifici. Questo è uno di quei problemi che si sanno essere insolubili (lo incontreremo di nuovo in altre vesti come frame problem o dilemma del robot - v. par. 7. 4). Questa forma di argomentazione, quindi, è molto importante, molto usata, di norma efficace, ma è impossibile costruirne una giustificazione genuinamente, indiscutibilmente «universale». 6.5. Quinta forma: da novantanove concludere cento Questa forma di argomentazione è antichissima e ben studiata da secoli. Si tratta della cosiddetta induzione: da un certo numero di esempi positivi (le premesse), si passa a un ulteriore esempio, che si indovina essere anch'esso positivo (la conclusione). Il segreto qui consiste nello scegliere le premesse in modo che formino un ventaglio abbastanza ampio da consentire una buona copertura, e poi nello scegliere una conclusione che resti naturalmente «coperta» tra le pieghe del ventaglio, o che allarghi un po' il ventaglio, in modo plausibile. Rispetto alla seconda forma, vista sopra, qui non è indispensabile «salire» prima a una classe generale, e poi ridiscendere alla conclusione per deduzione. Qui, per così dire, si «spara» alla conclusione direttamente dalle premesse. Vedremo meglio tra un momento che talvolta la forza di un'induzione particolare è maggiore di quella di qualsiasi deduzione fatta a partire da raggruppamenti più generali, o da principi generali. Ma procediamo passo passo. Ecco subito un esempio classico di induzione, fatto a partire da una sola premessa: Premessa: Le volpi hanno un organo chiamato omento. Conclusione: I cani hanno un organo chiamato omento. Per niente persuasivo, invece è il seguente: Premessa: Le volpi hanno un organo chiamato omento. Conclusione: I pesci rossi hanno un organo chiamato omento. In esempi come questi, sui quali si pronunciano con convinzione anche i ragazzini di cinque o sei anni, conta una scala di similarità naturale. Tanto più simili sono tra loro le classi di animali di cui si parla nelle premesse e nella conclusione, tanto più persuasiva è l'argomentazione. Persuasiva è questa: Premessa: Le mosche hanno bisogno di tracce di magnesio per poter deporre le uova. Conclusione: Le api hanno bisogno di tracce di magnesio per poter deporre le uova. Mentre non è molto persuasiva quest'altra: Premessa: Le mosche hanno bisogno di tracce di magnesio per poter deporre le uova. Conclusione: I salmoni hanno bisogno di tracce di magnesio per poter deporre le uova. Quando si tratta di animali, tutti abbiamo, grazie a madre natura, delle intuizioni molto sicure, e in genere giuste, sulle similarità e le dissimilarità. Innumerevoli esempi come quelli appena indicati servono agli psicologi cognitivi proprio per calibrare queste nostre intuizioni. Vale la pena, infatti, di sottolineare che le argomentazioni qui sopra riportate a mo' di esempio sondano le nostre intuizioni di similarità tra volpi e cani, tra volpi e pesci rossi, tra mosche e vespe,

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e così via. Il magnesio e l'omento c'entrano davvero poco. Vedremo tra un momento come si complica il quadro quando diventa anche importante fare attenzione alle proprietà specifiche di cui si parla. Possiamo ora passare a induzioni su gruppi di altro genere, gruppi definiti «socialmente» e non da madre natura. Sempre conservando i criteri formali di questo tipo di induzione puntuale, possiamo prendere esempi, persuasivi, come il seguente: Premessa: Negli Stati Uniti, i bravi meccanici di auto guadagnano molto bene rispetto ad altri lavoratori manuali, Conclusione: Negli Stati Uniti, i bravi elettrauto guadagnano molto bene rispetto ad altri lavoratori manuali. E non persuasivi, come questo: Premessa: Negli Stati Uniti, i laureati in psicologia diventano ottimi venditori. Conclusione: Negli Stati Uniti, i laureati in chimica diventano ottimi venditori. Interessanti meccanismi psicologici vengono mobilitati da argomentazioni come queste. La forza persuasiva di questi ragionamenti, cioè la forza dell'induzione, a volte, è più intensa per un caso particolare che non per l'intera classe formata dalle premesse e dalla conclusione. Quale classe generale di laureati è tale che comprende i laureati in psicologia negli Stati Uniti, ma non i laureati in chimica, sempre negli Stati Uniti? Forse non ci sarebbe troppo difficile dirlo. Eppure non c'è un'argomentazione riguardante queste classi più generali in quanto tali, che ci suoni più persuasiva di questi esempi puntuali. Anzi, è a partire da opinioni sparse su singole proprietà come queste che costruiamo le nostre categorie più generali. Vediamone un altro esempio, piuttosto persuasivo: Premessa: Gli allevatori di bestiame devono per legge rifornirsi regolarmente di partite di vaccino antirabbico. Conclusione: Gli zoologi devono per legge rifornirsi regolarmente di partite di vaccino antirabbico. E un altro, invece, assai poco persuasivo: Premessa: Gli allevatori di bestiame cercano di limitare gli incroci tra le diverse razze. Conclusione: Gli zoologi cercano di limitare gli incroci tra le diverse razze. I gruppi, o categorie professionali, di cui si parla in ambedue questi esempi sono gli stessi, ma le proprietà su cui poggiano, rispettivamente, queste due argomentazioni sono diverse. Ci sentiamo abbastanza sicuri delle nostre ragioni per accettare la prima, ma non la seconda. Saremmo, però, in grave difficoltà se ci venisse chiesto di giustificare queste nostre (corrette) intuizioni sulla base di norme generali che riguardano gli allevatori in genere e gli zoologi in genere. Siamo più sicuri del nostro giudizio su questi casi particolari che non su un giudizio «a monte» di questo, che ha a che fare con gli allevatori e gli zoologi. Vediamo ora un caso che coinvolge delle classi naturali, ma in cui è importante (a differenza dell'omento e del magnesio) fare attenzione alle proprietà di cui si parla: Premessa 1: Le tigri discriminano molto bene tra il giallo e il verde. Premessa 2: I leoni discriminano molto bene tra il giallo e il verde. Conclusione: I gatti siamesi discriminano molto bene tra il giallo e il verde. Questo ci sembra molto plausibile. E' un'induzione «felina» che siamo naturalmente portati a fare.

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Assai diverso è il caso seguente: Premessa 1: Le tigri danno spettacolo in tutti i grandi circhi. Premessa 2: I leoni danno spettacolo in tutti i grandi circhi. Conclusione: I gatti siamesi danno spettacolo in tutti i grandi circhi. Di nuovo, le categorie naturali sono le stesse nei due esempi, ma la persuasività dell'argomentazione è radicalmente, visibilmente, diversa. Come il lettore già ben sapeva, i raggruppamenti, le categorie, sia naturali (leoni, salmoni, insetti) che sociali (chimici, meccanici d'auto, venditori) possono essere molto simili per certi aspetti e molto dissimili per altri aspetti. La forza di un'induzione dipende dalla forza delle similarità tra i raggruppamenti, sotto certi aspetti. Quando ci imbattiamo in un'argomentazione che fa leva su queste similarità, riconosciamo subito se funziona o no. Eppure ci sarebbe difficile spesso descrivere in astratto e in generale quali raggruppamenti sono simili, e sotto quali aspetti. Ci fidiamo più delle nostre intuizioni sul particolare che non di quelle sul generale. Come ho già sottolineato, le nostre induzioni particolari sono spesso la base delle nostre induzioni più generali. Spesso, nella vita quotidiana, siamo chiamati, almeno implicitamente, a pronunciarci sulla plausibilità di conclusioni che abbracciano sia categorie leggermente diverse, che proprietà leggermente diverse. Premessa: I bambini con quoziente di intelligenza molto alto spesso riescono male a scuola. Conclusione: I geni spesso male si adattano a una vita normale. Premessa: Molti maestri di sci hanno un secondo lavoro. Conclusione: Molti bagnini studiano nel loro tempo libero. Ci sarebbe difficile generalizzare, spiegare quale tipo di ragionamento comune abbiamo seguito in ambedue questi esempi. Con un po' di sforzo, probabilmente, ci riusciremmo. Il punto centrale è che, guardando quello che siamo riusciti a elaborare, non ci persuaderà certo più di quanto ci persuada ciascuno di questi casi particolari. Il filosofo Ludwig Wittgenstein aveva sottolineato, molti anni orsono, l'importanza di questo fatto per una teoria della certezza. Il particolare, a volte, persuade più del generale, anche se quel particolare è un caso particolare di quel generale. L'induzione quotidiana si basa, quindi, su un «ibrido» di similarità tra classi e tra aspetti, o proprietà, di queste classi. Nonostante questo, ci sentiremmo di dare delle regole generali, formali, indipendenti dal contenuto. Una regola aurea sarebbe di coprire, con le premesse, il campo più vasto possibile entro la classe prescelta. Per vedere concretamente come questa regola aurea funziona, confrontiamo le seguenti due argomentazioni: Premessa 1: Marte ha una rotazione bifasica. Premessa 2: Venere ha una rotazione bifasica. Premessa 3: La Terra ha una rotazione bifasica. Conclusione: Giove ha una rotazione bifasica. Ampliando l'ombrello delle premesse, ne aggiungiamo ora una quarta: Premessa 1: Marte ha una rotazione bifasica. Premessa 2: Venere ha una rotazione bifasica. Premessa 3: La Terra ha una rotazione bifasica.

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Premessa 4: Saturno ha una rotazione bifasica. Conclusione: Giove ha una rotazione bifasica. Adesso ci sentiamo più sicuri nell'accettare la conclusione. L'induzione si è rafforzata. La seconda argomentazione è più persuasiva della prima. Possiamo veramente elevare questo a regola generale, universale, indipendente dal contenuto? L'esempio seguente è una doccia fredda: Premessa 1: Il pugile Rossi della squadra toscana è un peso piuma. Premessa 2: Il pugile Bianchi della squadra toscana è un peso gallo. Premessa 3: Il pugile Bini della squadra toscana è un peso piuma. Conclusione: Il prossimo pugile della squadra toscana che peseremo non sarà un peso medio. Aggiungiamo ora un'ulteriore premessa, che amplia l'ombrello ed è, formalmente, un'altra «conferma»: Premessa1: Il pugile Rossi della squadra toscana è un peso piuma. Premessa 2: Il pugile Bianchi della squadra toscana è un peso gallo. Premessa 3: Il pugile Bini della squadra toscana è un peso piuma. Premessa 4: Il pugile Listri della squadra toscana è un peso massimo. Conclusione: Il prossimo pugile della squadra toscana che peseremo non sarà un peso medio. La nuova premessa, inutile dire, toglie ogni forza all'argomentazione, che pure era, senza questa, assai persuasiva. A poco serve far presente che l'ombrello è ora più largo, e che, presa a sé stante, anche la nuova premessa è un caso positivo di conferma. Tutti intuiamo che proprio «l'apertura» dell'ombrello distrugge la forza dell'argomentazione. Se prima avevamo ragione di ritenere che il peso dei pugili fosse sempre al di sotto di una certa soglia, e che la conclusione fosse, per questo, plausibile, adesso abbiamo ragione di ritenere l'opposto. Forse apparirà poco naturale una conclusione che porta su una «finestra» (i pesi medi) e non su una singola soglia. Se la nostra conclusione fosse stata che il peso dei pugili di quella squadra era genericamente basso, la nuova premessa, in effetti, avrebbe falsificato l'ipotesi. Possiamo facilmente trovare altri casi, che non contemplano finestre. Prendiamo i casi seguenti: Premessa 1: Il primo treno della mattina è arrivato con 20 minuti di ritardo. Premessa 2: Il secondo treno della mattina è arrivato con 15 minuti di ritardo. Premessa 3: Il terzo treno della mattina è arrivato con 25 minuti di ritardo. Conclusione: Il prossimo treno non arriverà in orario. Premessa 1: Il primo treno della mattina è arrivato con 20 minuti di ritardo. Premessa 2: Il secondo treno della mattina è arrivato con 15 minuti di ritardo. Premessa 3: Il terzo treno della mattina è arrivato con 25 minuti di ritardo. Premessa 4: Il quarto treno della mattina è arrivato con 20 minuti di anticipo. Conclusione: Il prossimo treno non arriverà in orario. Molti saranno d'accordo che questa seconda argomentazione è meno persuasiva della prima, a dispetto di un ulteriore caso di «conferma». Qui, invece di una «finestra», si ha come conseguenza un'affermazione «puntuale», che la maggiore apertura dell'ombrello rende meno, non più, plausibile. Il fenomeno, intatto in essenza, lo si ritrova anche in esempi di natura molto diversa da quelli appena visti.

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Premessa1: Il cane ha una sua moralità primitiva. Premessa 2: Il gatto ha una sua moralità primitiva. Conclusione: Gli animali in contatto con l'uomo sviluppano una loro moralità primitiva. E ora confrontiamo questa argomentazione con la seguente: Premessa1: Il cane ha una sua moralità primitiva. Premessa 2: Il gatto ha una sua moralità primitiva. Premessa 3: Il pidocchio ha una sua moralità primitiva. Conclusione: Gli animali in contatto con l'uomo sviluppano una loro moralità primitiva. Di nuovo, abbiamo ampliato l'ombrello, e abbiamo aggiunto un'ulteriore premessa (supponiamo) vera, ma l'argomentazione ha perso tutta la sua plausibilità. Tutti capiamo benissimo il perché, ma sarebbe difficilissimo formalizzare le nostre ragioni e stabilire una regola universale di tipo formale. Sarebbe temerario, tuttavia, abbandonare del tutto come implausibile il criterio che dice: un'ipotesi è tanto più corroborata quanto più numerose sono le sue conferme e quanto più vasto è l'ambito che queste conferme coprono. Il problema è che non si può rendere tale criterio obiettivo, automatico, puramente formale. In termini austeri, si dice che la chiave di volta di queste differenze è basata su considerazioni intuitive di «additività», di «proiettibilità», di «omogeneità» e di «monotonicità». A dispetto di questi termini ostici, l'intuizione è chiara e forte: Una chiatta che può portare due elefanti può, a maggior ragione, portarne uno. Ma un carrello che scorre bene su quattro ruote non scorre meglio su tre ruote. Così come dieci uomini che possono sollevare ciascuno trenta chili arrivano insieme a sollevarne trecento, ma dieci uomini che possono ciascuno correre a venti chilometri all'ora non possono insieme correre a duecento chilometri all'ora. Ecco, in parole povere, la differenza tra le proprietà additive (il peso, il volume) e quelle non additive (scorrere bene su quattro ruote o su tre, correre da soli o correre in gruppo a una certa velocità). I matematici hanno potuto dimostrare, con grave disappunto di chi costruisce modelli formali del ragionamento per poi applicarli ai sistemi esperti, che non esistono criteri universali, obiettivi, indipendenti dalle nostre particolari conoscenze, per discriminare tra grandezze additive e grandezze non additive. Qualsiasi regola generale rischierebbe di essere subito sbugiardata da un contro-esempio, come quelli del carrello e dei corridori «uniti». Pur tenendo ben presenti questi limiti, suggeriamo alcune regolette auree per l'induzione, ben radicate nel nostro ordinario, ovvio, in-formalizzabile, buon senso: Scegliere le premesse in modo che offrano una sufficiente e solida copertura e che sfruttino le nostre buone intuizioni di similarità. Scegliere le proprietà su cui porta l'argomentazione in modo che siano congrue con la copertura delle premesse e della conclusione. (Qui entrano le considerazioni di additività, di monotonicità, e altre, sulle quali è impossibile essere più rigorosi in generale.) Scegliere la conclusione in modo che «prolunghi» bene la copertura delle premesse e sfrutti la natura intuitiva delle caratteristiche su cui questa e quelle portano. 6.6. Sesta forma: concludere in nome della legge

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Poche forme di argomentazione sono state considerate altrettanto persuasive di questa, e sono anche state altrettanto ingegnosamente criticate (soprattutto dal grande filosofo americano Nelson Coodman). Dalla premessa (o dalle premesse, se ce n'è più di una) si passa alla conclusione perché si tratta di casi particolari di una legge generale, a noi ben nota, o facilmente intuibile. Vengono subito in mente, come è naturale e giusto, le leggi scientifiche e le proprietà chimiche, fisiche o biologiche collegate da queste leggi: Premessa: Una sbarretta di acciaio galleggia nel mercurio. Conclusione: Una sbarretta di alluminio galleggia nel mercurio. Similmente troviamo persuasivo l'esempio seguente: Premessa: Il cervello del topo contiene molti milioni di neuroni. Conclusione: Il cervello del babbuino contiene molti milioni di neuroni. Ma non occorre far appello alla scienza e alle proprietà naturali dei corpi per costruire il caso seguente: Premessa: Il quarto di dollaro che ho in tasca ha un'aquila scolpita su una delle due facce. Conclusione: Il quarto di dollaro che tu hai in tasca avrà un'aquila scolpita su una delle due facce. Quello che sappiamo di come vanno le cose nel mondo basta a garantirci la conclusione, data la premessa. Questo genere di relazioni, governate da leggi o da norme generali, ci rende abbastanza baldanzosi da costruire casi ipotetici, e da offrire argomentazioni persuasive basate su questi: Premessa1: Questa sbarretta non galleggia nel mercurio. Premessa 2: Se fosse di alluminio galleggerebbe nel mercurio. Conclusione: Questa sbarretta non è d'alluminio. Il ragionamento ci persuade. Scagli la prima pietra chi non si è servito di ragionamenti di questo tipo nei più vari frangenti della vita. Un medico non potrebbe fare una diagnosi, un detective non potrebbe scoprire i colpevoli, un meccanico non potrebbe riparare un motore, senza servirsi di questo tipo di argomentazioni. Magari spesso le raccontiamo silenziosamente a noi stessi, per convincerci della giustezza di una conclusione, o di una decisione. In gergo filosofico si chiamano «controfattuali», perché partono da qualcosa di immaginato, che è contrario a quanto si vede, si osserva, si constata, e poi concludono qualcosa di molto persuasivo, che si applica veridicamente alla realtà. La caricatura di questo tipo di argomentazioni è ben nota: «Se mia nonna avesse le ruote ... », oppure, «Se a Paraggi ci stesse lu mère ... ». Ma non si potrebbe fare scienza, tecnologia, giurisprudenza, e nemmeno vivere una relazione amorosa, se non fossimo capaci di trarre conclusioni giuste da ragionamenti di questo tipo. Che differenza obiettiva, formale, logica, c'è tra il caso della sbarretta non di alluminio e quello della nonna con le ruote? Per tagliar corto in questa storia molto lunga e complicata, diciamo che la differenza sta tutta nell'esistenza di quella famosa legge. Quando esiste una legge universale, o un principio molto forte e generale, che connette la nostra supposizione con le sue ipotetiche conseguenze, la conclusione del ragionamento è valida, il controfattuale è persuasivo. La scienza ce lo insegna.

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Ogni giorno, nei laboratori di ricerca si usano ragionamenti su controfattuali: «La traccia sulla lastra mostra una traiettoria curva. Se la particella fosse stata priva di carica elettrica, la sua traccia sarebbe stata rettilinea, quindi la particella ha una carica elettrica». «Se il fattore che abbiamo isolato fosse una proteina, avremmo ottenuto una colorazione gialla a contatto con questo reagente. Siccome non si produce alcuna colorazione, il nostro fattore non può essere una proteina.» E così via. Nelle scienze si ha il notevole vantaggio che le relazioni, per esempio, tra traiettorie e cariche elettriche, o tra tipi di sostanze e colorazioni con reagenti, sono genuinamente universali. Questa invariabilità e questa universalità raramente si riproducono nelle relazioni tra gli oggetti della vita quotidiana. Un vecchio proverbio dice che nessuna catena è più forte del suo anello più debole. Lo stesso può dirsi di un'argomentazione, o di un ragionamento. Eccone una prova, resa famosa da Nelson Goodman: Premessa: Tutte le monete nella mia tasca destra sono d'argento. Conclusione: Se questo gettone della SIP fosse nella mia tasca destra sarebbe d'argento. Fa sorridere. Perché? Beh, è chiaro che non esiste una «legge», o un «principio» che dice che tutti gli oggetti nella mia tasca destra sono per forza d'argento, e tantomeno che diventano d'argento quando ci vengono messi. Non ci voleva un grande filosofo per scoprire tali banalità. Quello che Coodman ha sottolineato è, invece, molto più importante, e molto più imbarazzante. Se noi guardiamo la forma della premessa e, di nuovo, la forma del nostro ragionamento, non possiamo accorgerci che non si tratta di una vera legge. Espressioni come «Tutti gli elettroni hanno carica negativa» e «Tutte le monete nella mia tasca destra sono d'argento» hanno la stessa identica «forma logica». La differenza, capitale, e a tutti perfettamente ovvia, non risiede in qualcosa di logico, in qualcosa di formale, ma in qualcosa di sostanziale. Tra una vera legge, una di quelle che consentono di ragionare per ipotesi e controfattuali, e una semplice, stupida, contingente descrizione, come quella delle monete nella mia tasca, la differenza non sta nella forma. In altre parole, la sola sintassi della frase, la sola sua «forma logica», non consentono di tracciare una demarcazione. E perché dovrebbero? si chiederà forse il lettore. Ritorneremo tra un attimo su questo problema, parlando più in generale delle relazioni tra logica e argomentazione scientifica. Per adesso basti dire che dovrebbero, che sarebbe molto meglio se questo avvenisse, perché, o ci si può basare su qualcosa come la forma (per esempio sul fatto che una legge, tipicamente, parla di «tutti» i corpi di una certa natura), oppure ci si deve basare su ciò che noi contingentemente sappiamo, di volta in volta. La differenza, tanto capitale, tra una vera legge universale e una semplice descrizione di un singolo fatto svanisce. 0 meglio, si appoggia sulle nostre conoscenze contingenti, mutevoli, colpo su colpo. Ma queste non possono più, a loro volta, «appoggiarsi» alla certezza data da ragionamenti rigorosi e da leggi universali. Ciò che rende un ragionamento rigoroso, ciò che caratterizza una legge universale, si basa a sua volta su quanto noi contingentemente sappiamo. La forza della logica ci ha abbandonato. Ci ritroviamo senza una vera «garanzia» della correttezza dei ragionamenti. Non esiste più una garanzia deduttiva. Si procede da qualcosa che è un po' più generale a qualcosa che è un po' meno generale. Certo, questo non corrisponde alle esigenze di «certezza indubitabile» cui potevamo ambire, soprattutto nelle scienze esatte. Se i criteri fossero stati davvero esprimibili in termini puramente logici, matematici, o comunque formali, necessari, indipendenti dai contenuti e dalle contingenze, allora saremmo stati a cavallo. Sarebbe stato possibile applicare un crivello universale, un test perfettamente automatico, per filtrare il grano dal loglio, per distinguere con certezza, una volta per tutte, i ragionamenti validi da quelli invalidi. Dobbiamo, invece, accontentarci di una batteria di crivelli, con fori di varia grandezza, tra i quali dobbiamo saper scegliere di volta in volta. Dobbiamo accontentarci di quello che ci è umanamente possibile sapere con sufficiente certezza. Le forme di ragionamento per controfattuali che si

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basano su leggi, principi e norme di sufficiente affidabilità devono sembrarci sufficientemente persuasive. Lasciando i dettagli ai teorici professionali del ragionamento scientifico, distilliamo, come al solito, alcune regolette auree. Scegliamo casi ipotetici di cui controlliamo, e di cui il nostro interlocutore controlla, tutte le varianti più plausibili (è difficile poter controllare tutte le varianti possibili). Limitiamoci a casi ipotetici che sono in tutto simili ai casi reali corrispondenti, salvo per un particolare. Concentriamoci su quel particolare e facciamo appello a un principio, una legge, una norma, una regolarità, che diamo per certa, e che si applica senza dubbio sia al caso reale, che a quel caso ipotetico. Costruiamo una conclusione che sia sicura ma, al tempo stesso, non ovvia. La nostra argomentazione complessiva deve essere, come sempre, informativa. 6.7. Settima forma: tu non pensavi ch'ío Ioico fossi In sostanza, abbiamo visto che non tutto ciò che è logico è anche persuasivo. Ora vedremo qualcosa di ancora più sorprendente: in certi casi, non tutto ciò che discende logicamente da premesse vere è vero a sua volta. Quando, nei primi decenni di questo secolo, gli scienziati e i filosofi si chiesero che cosa avessero di speciale le scienze esatte, rispetto ad altre forme di conoscenza umana, e soprattutto cosa avesse loro consentito di accumulare trionfi su trionfi, ebbero un'interessante intuizione. Il «segreto» della fisica, della chimica, della fisiologia e delle tecnologie basate su queste (la biologia di base allora non aveva ancora raggiunto uno stadio di sviluppo comparabile a quello odierno) era il seguente: Basarsi su fatti obiettivamente osservabili e ragionare, a partire da questi, sulla base della pura logica. Molti scienziati non troppo agguerriti in materia filosofica ancora oggi, magari implicitamente, credono che questo sia davvero il «segreto» del metodo scientifico: credere solo a ciò che si può riproducibilmente misurare, e alle sue inevitabili conseguenze logiche. Il di più viene dal Maligno. Il precetto, distillato dai logici e dai filosofi della scienza alla metà degli anni Trenta (i cosiddetti «neo-positivisti logici») era, ridotto all'osso, il seguente: Se si hanno buone ragioni di credere vero un certo fatto, o una certa ipotesi, allora si devono avere buone ragioni di credere vere anche, e solamente, tutte le sue conseguenze logiche. Quello che soprattutto conta qui sono il «solamente» e il «tutte». Una variante particolarmente importante del precetto era la seguente: Una teoria scientifica deve implicare logicamente tutte le proprie conseguenze sperimentali. In parole più semplici, una teoria e gli esperimenti che la convalidano devono essere perfettamente compatibili tra di loro al livello della pura logica. La logica, soprattutto grazie ai brillanti lavori di pionieri come il tedesco Gottlob Frege, l'italiano Giuseppe Peano e l'inglese Bertrand Russell, aveva sviluppato un vero e proprio calcolo delle conseguenze. Il calcolo era davvero tale, cioè si erano escogitate formule universali che consentivano di passare, con carta e matita, senza fallo e senza incertezze, da un'affermazione qualsiasi a tutte e solo le sue conseguenze logiche. Questo calcolo aveva l'enorme fascino di essere assolutamente obiettivo. Non faceva leva né su opinioni preconcette, né su contenuti particolari. Un ragionamento basato su questo calcolo, e su dati sperimentali inoppugnabili, avrebbe dovuto persuadere anche un marziano, un angelo, un calcolatore, oltre a qualsiasi essere umano diligente e

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razionale. In particolare, si pensava, avrebbe dovuto persuadere ogni avversario scientifico, e anche ogni avversario non scientifico. I moderni equivalenti del cardinale Bellarmino (quello che costrinse Galileo ad abiurare le proprie teorie) avrebbero dovuto deporre ogni loro potere sull'altare di cristallo della logica pura. Banditi i preconcetti, le ideologie, le superstizioni e altre patetiche fragilità dello spirito umano, tutti avrebbero potuto calcolare obiettivamente le stesse conseguenze vere, e così escludere, di comune accordo, tutte le falsità. Un paradiso! I neo-positivisti logici propugnavano ragionamenti che fossero una combinazione stringente di fatti e di conseguenze logiche, cioè, in concreto, argomentazioni di questo tipo: Premessa: La temperatura è la misura dell'agitazione delle molecole. Conclusione: Quando non c'è affatto agitazione delle molecole, la temperatura è lo zero assoluto. Premessa 1: Nessun ente fisico può viaggiare a una velocità superiore alla velocità della luce. Premessa 2: Due treni che corrono l'uno incontro all'altro, lungo uno stesso binario rettilineo, ciascuno alla velocità di 100 chilometri all'ora rispetto alla Terra, si avvicinano con una velocità di 200 chilometri all'ora. Conclusione: Quando ci si avvicina alla velocità della luce le velocità non si sommano più. Conclusione sbalorditiva, eppure corretta e inevitabile, date le premesse. Infatti, nella teoria della relatività ristretta, la somma delle velocità porta un fattore di correzione che diventa tanto più importante quanto più cresce la velocità relativa. Negli anni Trenta le scienze esatte erano già piene di simili ragionamenti, e lo sarebbero diventate ancor di più nei decenni successivi. L'amalgama di rigore sperimentale e di logica raziocinativa implacabile dà buoni frutti. L'intuizione di base dei neo-positivisti logici resta importante e potente. Purtuttavia, il loro paradiso venne presto ridimensionato da alcuni paradossi. Si scoprì che esistono non solo ragionamenti perfettamente persuasivi che non hanno, alla base, alcuna formula logica (come molti di quelli visti nelle pagine precedenti), ma anche ragionamenti squisitamente logici che portano, però, a conclusioni obiettivamente inaccettabili. Uno dei primi, e dei più famosi, è il cosiddetto paradosso di Jean Nicod, dal nome del logico francese che lo escogitò già all'inizio degli anni Trenta. Ci occorre un minimo di «cucina» logica, per capire di che cosa si tratta. Seguiamo alla lettera la ricetta dei neo-positivisti logici: Si prende un fatto ben certo, o una ben consolidata legge scientifica, e se ne calcolano le conseguenze logiche. Se io ho buoni motivi per ritenere vero quel fatto, quella legge, allora devo ritenere vere anche tutte le sue conseguenze logiche. Ebbene, in logica esistono delle forti, ineliminabili equivalenze. Certe formule, e lo si dimostra con teoremi, sono «logicamente» equivalenti a certe altre. Cioè, è logicamente impossibile che una sia vera e l'altra no, e viceversa. Vediamone una in particolare, quella su cui si basa il paradosso di Nicod, e supponiamo pure di essere «al buio»: «Al buio tutti i gatti sono bigi» è logicamente equivalente alla seguente frase, un po' barocca: «Per ogni X, se X è un gatto, allora X è bigio». Questa formuletta è, a sua volta, in tutto e per tutto perfettamente equivalente, dal punto di vista strettamente logico, alla seguente: «Per ogni X, se X non è bigio, allora X non è un gatto». Nicod usò la frase «Tutti corvi sono neri», ma fa lo stesso. Qualunque esempio va bene, dato che si tratta di un paradosso di portata molto, molto generale. La traduzione di una frase ordinaria come «Al buio tutti i gatti sono bigi» nel linguaggio astratto della logica fa intervenire, come abbiamo appena visto, un «condizionale», cioè un «Se..., allora ... ». Ritorneremo ampiamente su questo punto anche nel seguito (v. par. 7. 2), perché i condizionali

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sono una delle forme di argomentazione più diffuse, ma anche, come vedremo, più confuse. Il paradosso di Nicod è tutto basato su questa traduzione logica di un «universale» in un «condizionale». La forma tipica di una legge scientifica è proprio del tipo «Tutti gli x sono y», «Ogni x è un y», «Qualsiasi x è un y» e simili. («Tutti gli elettroni hanno spin magnetico»; «Due corpi qualsiasi si attraggono con una forza inversamente proporzionale al quadrato della distanza»; «Per ogni forza c'è una forza uguale e contraria», e cosi via.) In logica esiste il cosiddetto «quantificatore universale» (il simbolo V), che traduce l'idea di «tutti», «qualsiasi», «ogni», ma è troppo forte per essere usato da solo. Detto molto intuitivamente, se si intende che x si riferisca ai gatti (o agli elettroni, o alle forze), non possiamo usare l'espressione Vx per dire «tutti i gatti» (o «tutti gli elettroni», o «ogni forza»), perché in logica questo significa che tutto, cioè ogni cosa che esiste, esisterà o è esistita, è un gatto (o un elettrone, o una forza). H modo corretto di tradurre il significato corrente di «tutti i gatti» nel linguaggio della logica è quello di abbinare il simbolo del quantificatore universale V con il simbolo del condizionale, scrivendo una formula che si legge, appunto, «Per ogni x, se x è un gatto, allora ... ». Adesso tutto torna, adesso abbiamo veramente tradotto la nostra legge scientifica in una formula logica. E il paradosso di Nicod è già pronto a scattare. Per motivi sui quali ritorneremo nel seguito, in logica, affermare che «se p, allora q», equivale ad affermare «se non q, allora non p». Non è un errore di stampa, non ho scritto «se non p, allora non q», come tutti noi intenderemmo: q precede p in questa formula. In logica le affermazioni equivalenti sono queste due qui. E da qui proviene il paradosso. Dato che si sta parlando di scienza, forse ci conviene non usare esempi con gatti e corvi, ma con qualcosa che ci avvicini, appunto, alla scienza. Prendiamo: «Tutti gli elettroni possiedono uno spin magnetico». Grazie alla nostra trasformazione di «cucina» logica, si deve prendere atto che questa ipotesi è logicamente equivalente alla seguente: «Tutto ciò che non ha uno spin magnetico non è un elettrone». A orecchio queste due espressioni ci suonano assai diverse, ma logicamente sono perfettamente equivalenti. Concretamente non lo sono affatto. Il paradosso diventa evidente quando si conclude, come dovremmo, che ogni esperimento, o osservazione, che conferma la prima ipotesi conferma anche la seconda, logicamente equivalente. E viceversa. Questo, con buona pace dei neo-positivisti logici, è molto, molto strano. Il mio portacenere non ha spin magnetico, e non è un elettrone. Lo stesso vale per una palla da football, mia nonna, la Ferrari 308 e il cane di Pippo. Vale, appunto, per tutto ciò che esiste al mondo, che non ha spin magnetico e non è un elettrone. Un modo davvero curioso di «verificare» l'ipotesi che tutti gli elettroni hanno uno spin magnetico. Eppure la logica impone questa strana equivalenza tra le osservazioni pertinenti a quell'ipotesi. Qualsiasi fisico, e qualsiasi persona di buon senso, suggerisce di verificare l'ipotesi osservando altri elettroni, oltre a quelli già osservati, altre particelle che hanno uno spin magnetico (per esempio i protoni) e ancora altre particelle molto simili all'elettrone, che hanno, o non hanno, uno spin magnetico. La verifica di un'ipotesi scientifica di portata universale (nella quale appare la parola «tutti») la si fa osservando altri esemplari di quel gruppo, ancora non osservati, e esemplari di gruppi molto simili a questo. Ci appare pazzesco cercare di confermare, o di confutare, l'ipotesi che tutti gli elettroni hanno uno spin magnetico gironzolando con un sensibilissimo magnetometro attorno a mia nonna, a una Ferrari 308 e al cane di Pippo. La logica pura ci ha portato davvero fuori pista. Alcuni filosofi di ispirazione neo-positivista hanno fatto presente, poco convincentemente a mio avviso, che anche osservare corpi privi di spin magnetico, e constatare che non sono elettroni, ci dice pur sempre qualcosa di pertinente, anche se assai poco, sull'ipotesi che tutti gli elettroni hanno uno spin magnetico. A dispetto di queste deboli difese, il paradosso di Nicod resta uno scoglio formidabile. La sola combinazione di osservazioni e di logica pura può portare a degli assurdi. Il precetto impartito da quei logici e da quei filosofi va seriamente ridimensionato.

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Vediamo un altro paradosso, di più recente conio. Sempre seguendo il precetto di rispettare tutte e solo le conseguenze logiche, troveremo persuasiva la seguente argomentazione: Premessa: Su venti palline che ho estratto a caso, bendato, da quest'urna, venti erano nere. Conclusione: Tutte le palline in quest'urna sono dello stesso colore. E' importante ora constatare che troveremo ancor più persuasiva l'argomentazione seguente: Premessa 1: Su venti palline che ho estratto a caso, bendato, da quest'urna, venti erano nere. Premessa 2: Su altre dieci palline che ho estratto a caso, bendato, da quest'urna, dieci erano nere. Conclusione: Tutte le palline in quest'urna sono dello stesso colore. La ragione è talmente intuitiva che non varrebbe la pena di scomodare la logica. Facciamolo, però, perché ci aspetta una sorpresa. Dunque, nel gergo della logica, diremo che, se un'ipotesi resta suffragata da una osservazione (le venti palline), e la stessa ipotesi resta suffragata anche da un'altra osservazione, indipendente dalla prima (altre dieci palline, diverse dalle prime), allora resta ancor più suffragata dall'accostamento delle due osservazioni. Questo accostamento, in logica si chiama «congiunzione». In gergo: la congiunzione di verifiche sperimentali indipendenti, ciascuna logicamente compatibile con una stessa ipotesi, è ancora logicamente compatibile con tale ipotesi. Anzi, rafforza la probabilità che l'ipotesi sia vera. E adesso viene la smentita clamorosa. Confrontiamo le seguenti due argomentazioni, separate e indipendenti, e poi «congiungiamole» logicamente in una terza: Prima argomentazione: Premessa: Su venti palline che ho estratto a caso, bendato, da quest'urna, venti erano gialle. Conclusione: Tutte le palline in quest'urna sono dello stesso colore. Seconda argomentazione: Premessa: Su venti palline che ho estratto a caso, bendato, da quest'urna, venti erano verdi. Conclusione: Tutte le palline in quest'urna sono dello stesso colore. Congiunzione logica (delle due precedenti): Premessa1: Su venti palline che ho estratto a caso, bendato, da quest'urna, venti erano gialle. Premessa 2: Su venti palline che ho estratto a caso, bendato, da quest'urna, venti erano verdi. Conclusione: Tutte le palline in quest'urna sono dello stesso colore. Il risultato è poco meno che comico. Si noti bene, non si precisa quale è il colore delle palline, altrimenti la compatibilità logica tra osservazioni e ipotesi salterebbe. Si ipotizza solo che tutte le palline siano dello stesso colore, senza precisarlo. Il risultato della «congiunzione» logica è catastrofico. Eppure non esiste un modo obiettivo, puramente logico, per fare una distinzione tra il caso visto sopra, nel quale effettivamente la congiunzione delle osservazioni rafforzava ulteriormente l'ipotesi, e questo qui. La smaccata differenza la vediamo subito, a occhio (è il caso di dirlo), ma non si conti sulla logica per spiegarla. La logica è potentissima proprio perché non «guarda in faccia» ai contenuti, calcola solo forme e relazioni tra forme. Quando tutto ciò che conta è di natura formale ' è regina. Quando la differenza sta nei contenuti (come nel caso delle palline e dei loro colori), la logica si rivela impotente.

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Il paradiso dei neo-positivisti logici era, in fondo, un paradiso artificiale. Quasi nessuno, da molti anni a questa parte, crede più alle tesi originali del neo-positivismo logico. Esse sono state emendate, addolcite, contestualizzate fino quasi a diventare irriconoscibili. Il posto della logica pura nelle argomentazioni scientifiche è molto importante, ma sempre da condividere, spalla a spalla, con quello delle conoscenze specifiche, con delle intuizioni raffinate, con un linguaggio altamente tecnico. Tra la vera scienza e le scimmiottatuare della scienza esiste una differenza netta e abbastanza obiettiva. Il problema è che non si può «misurare» questa differenza solo su un'analisi della forma logica delle loro ipotesi. Il ruolo della logica pura, anzi delle logiche pure (per esempio la logica induttiva, la logica epistemica, la logica quantistica, la logica non monotonica, e altre ancora), è molto specifico. Queste discipline formali sono utilissime, ma non bastano. Per questo motivo, rimane di vitale importanza poter esplorare, come abbiamo fatto noi, le forme psicologicamente persuasive delle argomentazioni. Il paradiso dei neo-positivisti logici si è suddiviso in una serie di piccoli e ameni valloncelli, sparsi qua e là. 6.8. Uno sguardo d'insieme: né con loro, né senza di loro La suddivisione in sette forme, con le nostre sette corde della persuasione, non è da prendere proprio alla lettera. Ciascuna ha una sua illustre storia e rappresenta una forma di argomentazione piuttosto ben identificabile. Avrebbero potuto, senza grande sforzo, diventare nove o dieci, o ridursi a cinque o sei. Bastava renderle più generiche, o all'opposto specializzarle ulteriormente. Un fatto, però, è importante, e va sottolineato: non c'è una forma universale di argomentazione psicologicamente persuasiva. Ce n'è più di una, comunque le si cataloghino e comunque le si descrivano. Non sono né una, né centinaia. Si tratta di qualche decina di forme ben distinguibili, e di una decina di tipi di argomentazioni. Gli esperti di sillogismi - sui quali ci siamo già soffermati - da Aristotele in poi, hanno individuato una sessantina di forme diverse. Ai non addetti ai lavori, però, molte di queste sottili differenze sfuggono. Siamo portati, nella vita quotidiana, a considerare «il» sillogismo come una forma di argomentazione. Tutti capiscono d'intuito, però, la differenza tra le forme che abbiamo appena incontrato. Ciascuna corrisponde a una particolare teoria dell'argomentazione e ciascuna ha una sua speciale forza di persuasione. Ciascuna coglie una componente importante della persuasione. Infatti, ci è facile inventare subito molti esempi genuinamente persuasivi, e ricordarci di esempi già incontrati in precedenza. Considerando ciascuna forma in astratto, ci appare chiaro che essa rappresenta qualcosa di profondo, di costante e di molto generale, che accomuna tanti singoli esempi con contenuti diversi. Il fatto che non si possa prendere nessuna di queste «forme» come assoluta è dimostrato dai contro-esempi, che pure ci vengono subito in mente, o che almeno riconosciamo come problematici quando ci vengono presentati. Questo catalogo essenziale delle forme di argomentazione psicologicamente persuasive è tale che non si può né fare senza di esse, né fidarci ciecamente di esse. La persuasione è finemente intessuta con la razionalità e con tante cose che sappiamo d'istinto. Nessuno, almeno per ora, possiede una teoria completa e generale di come tutto ciò si combina. Ci sono solo alcuni puntelli sparsi e alcune strutture abbastanza solide che si possono costruire intorno a questi. Ne abbiamo visti sette. Tutto intorno a ciascuno di loro esistono, come abbiamo constatato, anche delle zone d'ombra. Vale la pena di continuare a esplorare il vasto territorio tra un puntello e l'altro. Per esempio, il territorio del linguaggio ordinario e delle argomentazioni costruite su questo. capitolo 7... «Se..., allora... »

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e il «ferro di cavallo» dei logici Abbiamo visto che la forza persuasiva di un'argomentazione può a volte essere spiegata in base a delle forme elementari, più semplici, e alla loro corretta combinazione, così come il processo psicologico che sta alla base di un certo ragionamento può essere a volte scomposto in meccanismi mentali elementari. Questo modo di procedere deve pur fermarsi a un certo punto. Anche in matematica e in logica si arriva a degli enunciati che sono di per sé talmente evidenti che niente altro di ancora più semplice e più evidente può «giustificarli». Sono piuttosto essi (gli assiomi) che in ultima analisi «fondano» tutto il resto. Non sapremmo proprio cosa dire a uno che, posto di fronte a un assioma incontrovertibile, sinceramente e irremovibilmente dichiarasse di non poterlo accettare. Non sapremmo su cosa far leva, a che santo votarci. Nel mondo del ragionamento e delle argomentazioni c'è un «atomo» elementare, un nocciolo di tutti i noccioli. Si tratta del cosiddetto modus ponens, ben identificato dai logici fin dall'antichità, e in tempi più recenti studiato anche dai linguisti e dagli psicologi sotto nuovi punti di vista, sia teorici che sperimentali. La forza persuasiva intrinseca di questo modellino di argomentazione è tale che un organismo, o un calcolatore, incapace di utilizzarlo ci apparirebbe privo di una genuina intelligenza. Per lunga tradizione, la formuletta che lo esprime è la seguente: Se p, allora q. p dunque: q L'esempietto standard è del seguente tenore: Se si mettono due monete da 500 lire nella macchinetta, allora si ottiene una lattina di Coca Cola. Metto due monete da 500 lire nella macchinetta. Dunque: Ottengo una lattina di Coca Cola. L'esistenza quotidiana sarebbe impossibile se non si capisse d'intuito il valore di un ragionamentino (i tecnici direbbero una «inferenza») di questo tipo. Nel linguaggio comune, il più delle volte, la formuletta viene impastata con espressioni che non contengono esplicitamente un «se..., allora ... ». Intanto perché «allora» viene quasi sempre omesso, e poi perché la «logica» della situazione stessa si incarica di trasmettere implicitamente la sequenza del modus ponens. Il bambino dice alla mamma: «Ho una gran sete». La mamma, senza staccare gli occhi dalla rivista, con tono di sopportazione: «C'è della Coca Cola in frigorifero». Il bambino va in cucina e si serve. Questa è una variante terra terra, che potremmo battezzare Modus ponens domesticus. Ci serve solo per toccare con mano quanto difficile sarebbe condurre una vita normale accanto a una creatura che fosse costitutivamente incapace di capire la forza onnipresente di questo atomo di ragionamento. 7.1. Dimmi il mio nome, prima dell'alba Ascendiamo ora al trono di un imperatore. Va in scena Turandot, di Giacomo Puccini:

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L'ignoto straniero ha già risolto tutti e tre i formidabili enigmi posti dalla crudele Turandot. Sarebbe bastato che sbagliasse la risposta anche a uno solo dei tre e sarebbe stato decapitato. Egli ha salva la vita e si è conquistato la mano di Turandot. Per lei, invece, tutto sembra perduto. A niente servono le sue strazianti suppliche al padre imperatore, il quale le ricorda che «P sacro il giuramento». Ma il principe Calaf non vuole averla contro la sua volontà, solo per decreto. Intende darle un'altra chance, dimostrarsi generoso a costo della vita. «Dimmi il mio nome prima dell'alba e all'alba io morirò.» Lo straniero è ancora, malgrado tutto, nelle mani di Turandot. Se Turandot scoprirà il suo nome prima dell'alba, potrà ancora farlo decapitare. La tragedia corre ineluttabile verso il passo successivo, logico, crudele. Prima dell'alba, appunto, Turandot tortura a morte la «candida Liù», la schiava che quel nome ben lo sa, e può rivelarlo. Liù non parla, il nome non viene rivelato. Calaf non muore, anzi, conquista finalmente il cuore della «principessa di ghiaccio», che è rimasta turbata e intenerita proprio dal sacrificio volontario della povera Liù, dettato solo dal suo amore per Calaf. Ecco un modus ponens imperiale. Per amore di pedanteria potremmo anche tradurre la tragedia di Turandot nella formuletta cara ai logici. Sarà: p = «Turandot scopre il nome dello straniero prima dell'alba.» q = «Lo straniero viene decapitato.» Se p, allora q. Non p Dunque Non q. Il logico avrebbe già sfoderato la pistola, o almeno la matita rossa e blu, e ci avrebbe dato una solenne bocciatura. Infatti, questa è una fedele traduzione del dramma della principessa in simboli logici, ma il ragionamento non è logicamente valido. Lo è umanamente, linguisticamente, psicologicamente e pragmaticamente, ma non logicamente. «Se p, allora q», in logica, non porta a concludere «Se non p, allora non q». Come abbiamo già visto parlando del paradosso di Nicod, curiosamente, la conseguenza strettamente logica di «Se p, allora q» è l'inverso di come noi comunemente la intendiamo, cioè: «Se non q, allora non p» (v. par. 6. 7). Detta in linguaggio ordinario, questa formula suona molto, molto strana. «Se all'alba lo straniero non muore, allora Turandot non scopre il suo nome prima dell'alba.» Quasi che si potesse andare indietro nel tempo! Infatti, le formule condizionali («se,... allora ... ») nel linguaggio comune, perfino quello dei principi e degli imperatori, spesso lasciano intendere un «prima» e un «dopo» (v. par. 8. 6). La conseguenza logicamente impeccabile di una premessa corretta risulta non solo scorretta, ma impossibile, inconcepibile. La successione nel tempo viene invertita, con effetti inaccettabili. Il condizionale dei logici, infatti, non è quello della vita comune. Il loro simbolo non traduce veramente il «se..., allora ... » delle nostre lingue quotidiane. Merita vederci più chiaro. 7.2. Il condizionale Ho parlato, metaforicamente, del modus ponens come di un atomo di argomentazione, ma avrei piuttosto dovuto usare l'immagine di una molecola, perché abbiamo visto che è a sua volta composto di parti. Soprattutto del cosiddetto «condizionale», il famigerato «se..., allora ... ». Conviene studiare più da vicino questo robusto, onnipresente e sfaccettato «connettore» di espressioni. Per tutti noi, nella vita ordinaria (e quindi anche nella finzione romanzesca e operistica), dalla sfida di Calaf:

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«Se scoprirai il mio nome prima dell'alba, allora all'alba morirò», deriva «Se non scoprirai il mio nome prima dell'alba, allora all'alba non morirò». Non occorre niente altro, oltre alla coraggiosa dichiarazione dell'ignoto straniero, per capire che così stanno le cose. Le regole del linguaggio e le normali regole dell'esistenza ci garantiscono che questa è l'interpretazione corretta della sua sfida a Turandot, e alla sorte. Prima Turandot scopre (se ci riesce) il nome dello straniero, poi lo straniero, alias il principe Calaf, viene messo a morte. Diremmo che questo è «logico». Ma, nella logica pura, una successione temporale come questa non esiste. Per capire le ragioni dei logici puri dobbiamo innanzitutto pensare alla formuletta «Se p, allora q» come valida in eterno, e come valida in modo necessario, ineluttabile, qualsiasi cosa succeda, in «ogni mondo possibile» (come i logici amano dire). L'idea di base è la seguente: prendiamo la formuletta «Se p, allora q» come un tutto e vediamo quando il tutto è vero, o falso, a seconda se sono, separatamente, veri o falsi p e q. Ne viene una tabellina, riportata in tutti i testi di logica elementare. E' la cosiddetta tavola di verità del condizionale (o almeno della versione logicamente più «pulita» del condizionale). Antecedente (p) Conseguente (q) Condizionale (D) (come un «tutto») (1) Vero Vero Vero (2) Vero Falso Falso (3) Falso Vero Vero (4) Falso Falso Vero Questo corrisponde a un significato particolare del condizionale: l'antecedente è condizione sufficiente, ma non necessaria, a che si realizzi quanto dice il conseguente. In (1) tutto fila liscio: la condizione è realizzata, e la conseguenza anche, quindi il condizionale è vero. In (2) la condizione si rivela, invece, non sufficiente, quindi il «tutto» crolla: il condizionale è falso. I casi (3) e (4) vanno interpretati tenendo ben presente che la condizione descritta nell'antecedente è solo sufficiente, ma non necessaria. Ambedue sono una conferma di questo fatto. In particolare, ci preme aver adesso convalidato il caso (4), cioè aver stabilito che il «tutto» vale (è ancora vero) quando l'antecedente non è realizzato, né lo è il conseguente. In altre interpretazioni del condizionale, quando l'antecedente è falso, il tutto «svanisce». cioè non si applica più il condizionale. Esistono anche casi reali nei quali ci sentiamo di pensarla proprio in questo modo. «Se avremo un maschio, lo chiameremo Simone» non consente di dire niente nel caso che nasca una femmina, o nel caso la coppia non abbia figli. La coppia avrà detto la verità se effettivamente nasce un maschio e lo chiamano Simone. Avrà detto una falsità se nasce maschio e non lo chiamano Simone. Se, invece, nasce una femmina, o non hanno figli, non avranno detto né una verità, né una falsità. Tralasciamo qui il problema della sincerità delle loro intenzioni nel momento in cui lo dicono. Teniamoci alla verità di fatto. Pare ragionevole, per esempio, se c'è stata una scommessa, rifondere la posta in gioco e annullare la scommessa. Quando p è falsa, il tutto (cioè il condizionale in quanto tale) resta indeterminato. La tabellina dei valori di verità, in qualunque interpretazione, garantisce che esiste un'equivalenza perfetta tra il «se p, allora q» dei logici, e il «se non q, allora non p» sempre dei logici. Intuitivamente, questa equivalenza ci può sembrare meno strana quando si considera la situazione in cui «non q» è vera (e quindi q è falsa) e «non p» è falsa (e quindi p è vera), lasciandoci tra le mani una formula «se non q, allora non p» falsa come un tutto. Proprio come la formula equivalente «se p, allora q» quando, appunto, p è vera e q falsa. t interessante osservare che ci

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serviamo spontaneamente di questa formula «inversa» e al negativo, quando vogliamo essere spiritosi, o paradossali: «Se tu sei un poeta, io sono il re d'Italia.» «Se questa è filosofia, il libro Cuore è la Critica della Ragion Pura.» Qui prendiamo per buono il «tutto», cioè diamo il condizionale come valido. Essendo ovvio che la conseguenza è falsa (io non sono il re d'Italia, il libro Cuore non è la Critica della Ragion Pura), ne segue la negazione dell'antecedente, che è quello che ci interessava. Appunto, «se non q, allora non p». Il «se..., allora ... » delle lingue ordinarie non coincide con il «se p, allora q» dei logici, cioè con il loro simbolo ] (il ferro di cavallo), o con il loro simbolo ^ che designano il condizionale. Il guaio è che non possiamo nemmeno dire che il nostro «se..., allora ... » non abbia niente a che fare con questo «connettore» della logica pura. Il divorzio totale e irreparabile tra linguaggio e logica su questo punto avrebbe conseguenze troppo gravi. Vediamo prima perché devono essere diversi, e poi perché non devono esserlo troppo. 7.3. Il «se... allora ... » della lingua comune La differenza tra il «se..., allora ... » del ragionamento comune e il condizionale dei logici viene messa bene in evidenza da varie situazioni paradossali di «traduzione» dell'uno nell'altro. Sono situazioni nelle quali un ragionamento logicamente valido, basato sul condizionale, ci porta a un'argomentazione poco persuasiva, e situazioni inverse, nelle quali un'argomentazione perfettamente persuasiva si traduce in un ragionamento logicamente non valido. Innanzitutto, prima ancora di vedere alcuni esempi, va sottolineato che il significato di «se..., allora ... » viene spesso reso da espressioni che non contengono il «se» esplicitamente, e meno che mai l'«allora». Formulazioni comunissime sono del tipo: Dagli la mancia e ti farà entrare. Metti benzina supera altrimenti il motore batte in testa. Che ci si provi, gli spacco la faccia. Per semplicità, non faremo qui differenza tra il «se..., allora ... » in pompa magna, e il significato di «condizionale» implicitamente, e efficacemente, attribuito a espressioni come queste. Le considereremo solo varianti stilistiche. Abbiamo appena visto, con il caso di Turandot, che il condizionale ordinario (e anche quello imperiale) ha il senso di un prima e di un dopo. Per questo, invertire le due parti, negandole ambedue, come fanno i logici, porterebbe a espressioni inaccettabili e, al limite, assurde. Se fai il bagno in acqua fredda durante la digestione, ti viene una congestione va benissimo, ma è incomprensibile il suo «equivalente» logico Se non ti viene una congestione, allora non fai il bagno in acqua fredda durante la digestione. Il significato, per noi chiarissimo, di un prima e di un dopo non consente di applicare a casi come questi l'inversione con negazione tanto cara ai logici. Infatti, noi viviamo in un mondo nel quale il tempo scorre sempre dal prima al dopo, mentre nel mondo astratto della logica potrebbe anche darsi il contrario, o potrebbe non esistere affatto il tempo. Questo è già un motivo capitale di «divorzio» tra il condizionale della logica e quello del ragionamento comune. Vediamo altre importanti sfaccettature del condizionale comune, del tutto estranee a quello della logica.

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a) Conseguenze automatiche di un atto volontario: Tira la coda al cane e ti morderà. Se prendi la medicina, guarirai prima. Risparmia oggi e sarai contento domani. b) Un rapporto di causa e effetto: Se non piove entro tre giorni, il grano non crescerà. Per ottenere la colorazione si deve aggiungere il reagente. Tanto va la gatta al lardo, che ci lascia lo zampino. c) Una supposizione, un tirare a indovinare, una mera probabilità: Se alle 5 non torna, il suo principale lo ha trattenuto. Se la febbre diminuisce, l'infezione risulta sotto controllo. Se i cecchini non spareranno, è segno che i serbi rispettano l'armistizio. Se lo ha detto, avrà le sue buone ragioni. d) Una definizione, o un modo di preparazione: Se vi accordate per non abbassare i prezzi, create, di fatto, un monopolio. Se nello schema si scambiano ordinatamente corrente e tensione, nodi e rami, resistenze e condensatori, si ottiene il cosiddetto circuito duale. Se a una soluzione sovrasatura si aggiunge un cristallo ben formato di quella stessa sostanza si introduce un germe di cristallizzazione. e) Un'opportunità, uno spiraglio favorevole (senza alcun significato di genuino «condizionale»): Se vuoi un passaggio in macchina, Gianni parte tra cinque minuti. (E' ovvio che Gianni parte comunque tra cinque minuti.) Se cerchi un bravo professore di latino, lui è il migliore. Se ti vuoi fare un uovo, qui c'è una padella. f) Un paradosso, usato retoricamente per dare enfasi: Se le corna sue fosser bandiera, sarebbe sempre festa nazionale. Questa breve lista non esaurisce tutte le sfaccettature dell'uso quotidiano dei condizionali, ma basta a suggerire la loro ubiquità e la loro sottigliezza di significati e di usi. Il «ferro di cavallo» sdraiato dei logici è troppo stretto per abbracciarle tutte. Inoltre, nell'uso corrente, si presuppone che le due parti di un condizionale abbiano tra di loro quel famoso, essenziale, in-formalizzabile rapporto di pertinenza (v. il paragrafo seguente). Una pertinenza che deve essere psicologicamente, o pragmaticamente, evidente. Intuitivamente questo ci è chiarissimo, e lo si è visto anche sperimentalmente: condizionali poco naturali, strampalati, o magari solo troppo astratti, vengono da noi male memorizzati, e ci costa sforzo ragionarci sopra. Ci risulta difficile immaginare i vari casi possibili, per esempio le varianti nelle conclusioni che corrispondono a varianti nelle premesse. Condizionali come questi sarebbero impeccabili dal punto di vista logico: Se mia zia porta un vestito rosa, allora la massa del neutrino è inferiore a quella del neutrone. Se 5 è minore di 2, allora la luna è fatta di formaggio. Se il cane abbaia entro un'ora, allora Saturno ha più di sei lune. Si mette un soggetto in gravi difficoltà se gli si presenta una lunga lista di condizionali «impertinenti» come questi, gli si chiede di memorizzarli e poi di trarre, dopo qualche minuto, le logiche conseguenze di «Mia zia porta un vestito marrone», e «La luna è fatta di silicio».

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Sono già di un certo aiuto storielline come la seguente: Degli scienziati atomici stanno facendo esperimenti in gran segreto e devono comunicare a dei colleghi i loro risultati sulla massa del neutrino. Si servono della zia di uno di loro per trasmettere messaggi in codice. Se, alla mensa dell'istituto, la zia porta un vestito rosa, questo significa che, dai loro ultimissimi esperimenti, la massa del neutrino risulta inferiore alla massa del neutrone. Una scempiaggine, ma tanto ci basta a creare una relazione di «pertinenza» tra le due metà di un condizionale, a farcelo memorizzare, e a consentirci di immaginare le conseguenze «logiche» delle possibili varianti (Se mia zia porta un vestito marrone ... ). Senza un minimo di pertinenza, non si «condizionalizza», o almeno, non si ricordano i condizionali e non si ragiona sulla base di questi. Studi recenti, anche su bambini piccoli, hanno dimostrato quanto importante è il vincolo di pertinenza per il nostro uso corretto dei condizionali. La relazione di pertinenza non è una relazione definibile per mezzo della logica. Sarebbe molto bello se lo fosse (questo lo abbiamo già visto - par. 6. 4), ma non lo è. Eppure nel ragionamento quotidiano, e in quello scientifico, il rapporto di pertinenza è vitale. I condizionali che usiamo nella vita, ordinaria utilizzano in genere rapporti di pertinenza perfettamente ovvi, o bastano da soli a indicare in cosa consiste questa pertinenza. Viene naturale, a questo punto, chiedersi se non si può dire qualcosa di generale e di interessante sulla pertinenza stessa. D'accordo, la logica pura non può aiutarci, ma possono aiutarci la linguistica, la psicologia, e le scienze cognitive. Almeno fino a un certo punto. 7.4. La pertinenza Alla domanda «Vuole un caffè?» viene risposto: «Mi terrebbe sveglio». Questo vale come un sì, o come un no? In un caso, chi così risponde è uno in camicia da notte, con pantofole e papalina, che si accinge a coricarsi. Nell'altro, uno che deve guidare per tutta la notte. Interpretare correttamente una risposta come questa, alla luce di una certa situazione, di certi sottintesi e delle loro ovvie implicazioni, è cosa che ci viene talmente facile e spontanea da non renderci conto di quanto sia, invece, sbalorditiva. Solo quando si cerca di costruire, che so io, un robot-maggiordomo, o di programmare un calcolatore-segretaria (i quali dovrebbero agire e interagire con noi sulla base di una conversazione in linguaggio ordinario), ci si rende conto di quanto miracolosa sia la competenza umana per cogliere ogni sorta di relazioni di pertinenza. Siamo talmente abituati a interpretare delle domande come negazioni («Ma sei matto?»), o come degli ordini («Può spedire questo fax?»), delle negazioni come delle ingiunzioni («Non dirmi che non ti sei ancora lavato i denti»), delle affermazioni come dei dinieghi («Ci mancherebbe solo questo!»), e così via, che non ci accorgiamo più della stranezza di questi fatti. Dobbiamo essere proprio forzati a riflettere su queste banali interazioni tra normali esseri umani, per esempio quando si scopre che non sempre tutto fila liscio. I soggetti autistici sono capaci di reagire alla domanda «Puoi passarmi il sale?» con un sincero «Si, posso», e nessun gesto concreto. Prendere alla lettera queste espressioni è da sempre fonte di scherzi e di gags (pensiamo a Totò, con le sue divertenti reazioni a frasi fatte, come: «A chi lo dice?!» «Ma non mi dica!»). Il quadro normalmente usato per dar conto di questi fenomeni è che esiste un «contesto» a tutti arcinoto, esistono delle convenzioni tra i parlanti, pure arcinote, e un'espressione che viene interpretata correttamente in questo contesto, sulla base di queste convenzioni. Gli stranieri, i bambini, i calcolatori e i pazienti affetti da deficit cognitivi si trovano spesso a mal partito, proprio perché qualcosa si frappone tra loro, le espressioni in questione, e il «contesto» che consente di interpretarle. Il problema è stabilire in cosa consiste esattamente questo «contesto», e come interagiscono, nella nostra mente, contesto, espressione, e interpretazione. Torniamo all'innocente esempio del caffè e dello star svegli. Supponiamo si voglia programmare opportunamente un calcolatore a comandare la caffettiera, o insegnare le buone maniere a uno straniero, nel cui Paese non esistono né caffè, né automobili. Alcuni spezzoni della nostra

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conoscenza del mondo sono senz'altro molto pertinenti, per esempio che addormentarsi al volante può provocare gravi incidenti, che chi va a letto desidera dormire, che Marsiglia è molto lontana da Bordeaux (supponendo che l'interlocutore debba guidare fino a Bordeaux e che il caffè sia stato offerto a Marsiglia). Altri non lo sono affatto. Per esempio che la bomba atomica è fatta di plutonio, che l'America fu scoperta nel 1492, che Reagan è stato il presidente degli Stati Uniti, che Aberdeen è molto lontana da Calcutta. Il problema grave è che ci è impossibile circoscrivere una volta per tutte, e in generale, tutti e solo gli spezzoni di conoscenza del mondo che sono pertinenti a una situazione, quale che sia. Questo è, una volta ancora, il frame problem che ci ritorna tra i piedi (v. p. 110). Magari ci siamo riusciti per il caso del caffè e dello stare svegli, ma un minuto dopo si verifica lo scambio seguente: «Le posso, allora, offrire un bourbon?» cui viene risposto: «Mi farebbe dimenticare». Di nuovo, questo significa sì, o no? Tocca ricominciare tutto da capo. Insomma, fare solo appello a un «contesto» e a delle «convenzioni tacite» significa dichiarare la nostra impotenza a risolvere il problema. Il frame problem è, appunto, insolubile nel caso generale. Un barlume di luce ha cominciato a filtrare quando si è fatto presente che, molto spesso, la pertinenza del contesto viene scelta dalla frase stessa. Sulla immensa rete di conoscenze e di rapporti di dipendenza che esiste nel solaio della nostra mente, la frase che abbiamo appena udito proietta un ristretto fascio di luce. Il nostro interlocutore vuole sempre e comunque che noi si interpreti quella frase con il minor lavorio mentale possibile, e in modo da arrivare alle conclusioni che hanno per noi la massima informatività. Sembra poca cosa, eppure questo è capitale. Né il contesto da solo, né la frase da sola consentono di arrivare alla conclusione cui il nostro interlocutore vuole che noi arriviamo, e cui sa che possiamo arrivare. Quella frase, più il contesto pertinente a quella frase, sotto i taciti e sacri vincoli di minima «elucubrazione» e di massima «informatività», ci consentono di arrivare alla conclusione. La natura umana è così fatta: questa «regola di pertinenza» ce la portiamo dentro tacitamente. Ogni interlocutore sa che noi possiamo, dalla combinazione della frase e del contesto pertinente, arrivare alla conclusione. E sa che la frase facilita l'individuazione del contesto pertinente, nel mare magnum di tutto ciò che in generale sappiamo, crediamo, desideriamo, supponiamo. Lo sa, perché l'ha scelta a bella posta. L'ha scelta pertinentemente e intende che noi la si capisca pertinentemente. Noi sappiamo che lui così la intende, e lui sa che noi sappiamo che lui così la intende. Il tutto, naturalmente, senza nemmeno rendercene conto, zitti zitti, «int'a panza», come direbbero a Napoli. Ma la frase, quella, viene proprio detta. E da questa si «decolla». Torniamo a Turandot. Separiamo la parte pertinente del «contesto» a lei noto, un attimo prima che Calaf lanci la sua sfida. Entro questo contesto, Turandot non può certo arrivare alla conclusione «Lo tengo ancora in mio potere». Anzi, tutto indica il contrario. Prendiamo ora la frase di Calaf, isolata: «Dimmi il mio nome prima dell'alba e all'alba morirò». Se non si conosce la storia, significa poco. Da sola, scritta su un foglio di carta e messa in una bottiglia lasciata alla deriva, non permette certo a un lettore ignaro di concludere che Calaf ha dato a Turandot un'ultima chance. In isolamento dal suo contesto, quella frase significa solo che esiste una persona X tale che se un'altra persona Y, diversa da X, dice a X il suo nome prima dell'alba (una certa alba), allora X morirà in quell'alba. Punto e basta. Nella vita reale, e nella finzione artistica, le cose vanno diversamente. Calaf vuole che Turandot capisca, e l'autore del libretto dell'opera vuole che tutti noi capiamo, che Turandot capisce che le viene concessa un'ultima, folle, generosa, possibilità di sfuggire a una sorte che lei trova orribile: andare sposa a quello straniero. Il

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contesto pertinente, evocato efficacemente da quella frase, e la frase, insieme portano alla conclusione. Ridotta all'essenziale, questa è la recente «teoria della pertinenza» costruita dall'antropologo francese Dan Sperber e dalla linguista inglese Deirdre Wilson (in parte su uno spunto antecedente del filosofo americano Paul Crice), e proficuamente applicata dal linguista inglese Neil Smith alla comprensione dei condizionali nella lingua ordinaria. Non è certo una teoria sconvolgente, non la si metterebbe alla stessa stregua della relatività, della teoria dei quanti, o della scoperta del codice genetico. Questi autori sarebbero i primi a convenirne. Ci ha tolto comunque da un bell'impiccio. Ha eliminato un serio paradosso della comunicazione e dell'argomentazione, il paradosso, che già abbiamo intravisto, ma che vale la pena di mettere meglio a fuoco: Primo corno del dilemma: La corretta interpretazione di frasi come «Mi terrebbe sveglio», «Mi aiuterebbe a dimenticare», o di condizionali come «Dimmi il mio nome prima dell'alba ... », è determinata dal contesto in generale. In questo caso, si ha un rimando all'infinito, perché il contesto «in generale» non può essere circoscritto, né in teoria, né in pratica. Tutt'al più, si può circoscrivere, di volta in volta, a lume di naso, faticosamente, il contesto di una sola frase (o un piccolissimo gruppo di frasi analoghe). Secondo corno: L'alternativa è che l'interpretazione venga determinata dal contenuto intrinseco della frase stessa, e dalla forma (logica) «pura» dell'argomentazione, o da una combinazione fortemente e universalmente regolamentata tra contenuto intrinseco e forma pura. In tal caso, anche colui che trova in mare la bottiglia con il messaggio deve poter arrivare alla conclusione «minima»: «A qualcuno è stata data un'ultima chance, se scopre un certo nome prima di una certa alba». Chiaramente, questa conclusione è inaccessibile a chi non possiede informazioni sul contesto pertinente. Capire il significato letterale delle parti della frase, e della frase nel suo complesso (compito già tutt'altro che banale) non basta a far raggiungere questa conclusione. La teoria della pertinenza di Sperber e Wilson consente di uscire da questo paradosso. Non perché si limita a dire «ci vuole un po' dell'uno e un po' dell'altro» (giusto, ma perfettamente banale), ma proprio perché ci suggerisce come farlo. I vincoli di minima elucubrazione e di massima informatività consentono di «tagliare» corto nella catena, potenzialmente infinita, di implicazioni e di presupposizioni. Vediamolo sommariamente, sul caso già incontrato. Riprendiamo il nostro esempio: «Vuole un caffè?» (Notiamo che ci sono svariate formule equivalenti: «Le posso fare un caffè?» «Che ne direbbe di un bel caffè?» e così via). La risposta esplicita è: «Non mi farebbe dormire». Ebbene, costruiamo alcuni anelli, a monte, della catena di presupposizioni, e, a valle, di implicazioni. Grosso modo, a monte, la catena di implicazioni pertinenti potrebbe assomigliare a questa (il simbolo # indica un passettino di ascesa verso presupposizioni più generali, sempre tra quelle - si badi bene - pertinenti): «Non mi farebbe dormire» # «Io so che tu sai che devo guidare fino a Bordeaux» # «lo so che tu sai che Bordeaux è molto lontana» # «Per arrivare a Bordeaux occorre guidare tutta la notte» # «Guidare assonnati è possibile causa di incidenti» # «Gli incidenti d'auto sono probabile causa di danni materiali, di ferite e perfino di morte» # «In genere le persone cercano di evitare in ogni modo un incidente d'auto» # «In genere le persone cercano attivamente eventi piacevoli e sfuggono attivamente eventi spiacevoli» # # #... e presto si arriva, per passi successivi, a una sorta di teoria generale sulla natura umana e su come cavarsela nel mondo.

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Passano le ore in simili elucubrazioni, e si continua a chiedersi se fare o non fare questo benedetto caffè. Il nostro interlocutore, essere umano tra esseri umani, intende che questa catena immane venga «tagliata» non appena si arriva a una presupposizione che «basta» a far decidere sul caffè. Più o meno (con uno o due anelli di incertezza) la si taglia all'altezza del «Guidare assonnati è possibile causa di incidenti». Tutto il resto lo sappiamo, fa parte del nostro contesto generale, e il nostro interlocutore sa che noi sappiamo, e che noi sappiamo che lui sa che noi sappiamo. Ma, da quell'anello in su, il resto della catena non è più pertinenti. Resta tranquillamente in un sottofondo amorfo. Il presupposto tacito che è massimamente informativo è quello della guida priva di sonnolenza. E lì dobbiamo fermarci. Diamo anche uno sguardo «a valle», alle implicazioni, limitandoci sempre e solo a quelle, in astratto, pertinenti. Usiamo la solita freccetta, che ora procede nell'altro senso, dalla risposta alle sue implicazioni, e non verso i presupposti. «Mi terrebbe sveglio» # «Gli occhi non mi si chiuderebbero» # «La pressione del sangue resterebbe a valori normali» # «La temperatura del corpo si manterrebbe a valori normali» # «Il segnale biochimico dal tronco cerebrale sarebbe ... » # # #... e via così, verso una fenomenologia raffinata dello stato di veglia e dello stato di sonno, che per un neurofisiologo esperto potrebbe anche coprire l'equivalente di un intero volume. Di nuovo, passano le ore, e non si sa che pesci prendere. Non si riesce a decidere né di fare il caffè, né di lasciar perdere. Se così fosse, saremmo intrappolati in una ennesima versione del frame -problem, o dilemma del robot. Il contesto è troppo vasto, la catena di conseguenze è troppo lunga e ramificata. Siamo paralizzati. Ma sappiamo che non è così. Le persone, vivaddio, non sono dei robot, e non cadono mai in questo tipo di paralizzante dilemma. Magari fraintendono, magari mettono del veleno nel caffè, magari sperano in segreto che l'interlocutore si rompa il collo in un incidente d'auto, ma... agiscono! In questa catena, astrattamente, utopisticamente, aperta di fronte agli occhi del nostro interlocutore, solo il primo passo, forse, al massimo, il secondo, è massimamente informativo. Infatti, suonerebbe come una beffa, una bravata, una battuta spiritosa, insomma come innaturale, rispondere, alla gentile offerta di un caffè, con «La pressione del sangue resterebbe a valori normali». 0, peggio ancora, con una descrizione dettagliata in termini di biochimica neuronale. Questo anche in una conversazione tra neurochimici di mestiere. Sarebbe un'ammiccante battuta di spirito, non una normale risposta. Spiritosaggini a parte, il picco di massima informatività, e di minima incitazione alle elucubrazioni, è prestissimo raggiunto. Di norma, senza bisogno di dirlo, ci si mantiene sempre su questo picco, e presupponiamo che i nostri interlocutori facciano altrettanto. Pur attraverso i mutevolissimi casi della vita, malgrado le diversità tra le culture e tra le persone, la comunicazione avviene efficacemente. I picchi di massima pertinenza sono sempre a portata di mano. E' in virtù del principio di massima pertinenza, appunto, che una domanda può significare un no. L'altro giorno, tra due biologi, ho sentito il seguente scambio: Perché non te la compri, la casa? Me li dai tu i soldi? La risposta è essa stessa una domanda (retorica, appunto), che basta a mettere a fuoco la pertinentissima considerazione che non ci si aspetta affatto che il collega dia davvero i soldi per

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comprare una casa. Dando questa domanda come risposta si afferma implicitamente (ma chiaramente) di non averli. Quindi, è fuori questione che si possa comprare una casa. Gli esempi potrebbero moltiplicarsi. Quello che conta è l'idea centrale della teoria della pertinenza e il modo in cui risolve i due corni del problema. Abbiamo intravisto un po' di universalità, un barlume di vera teoria nell'immenso bazar delle espressioni e degli usi linguistici. Ritorniamo ora ai nostri condizionali e al modus ponens. 7.5. Altri problemi quotidiani con il «ferro di cavallo» Il nonno dichiara al nipotino: Se domani piove, non andiamo a passeggio. L'indomani piove e, in più, tira vento. Giustamente, il nipotino conclude che (a maggior ragione) non andrà a passeggio con il nonno. In logica, tanto per continuare a dare la croce addosso ai logici, dovrebbe sempre valere il principio seguente: Se p, allora q p&r dunque q Infatti l'espressione «p & r» (la «congiunzione» di p e r) è tale che è vera se, e solo se, sono vere sia p che r. Quindi, se è vera la congiunzione, per forza è vera p, e quindi il modus ponens deve funzionare. Si deve poter concludere q. (Lasciamo da parte il caso speciale, e «aberrante» in cui r sia, per l'appunto, uguale a «non p», oppure a «non q».) Un altro banale caso, che conferma questo principio: Se davvero insiste per rimborsarmi la benzina del viaggio, mi offendo. Insiste per rimborsarmi la benzina, e il consumo delle gomme. Quindi (a maggior ragione): Mi offendo. Ma prendiamo il seguente esempio (dovuto a Neil Smith), che invece lo sconfessa: Se viene papà Montecchi, la festa sarà un successone. Viene papà Montecchi e viene papà Capuleti. Chi si sentirebbe di «concludere» che la festa sarà un successone? In logica, inutile dirlo, non c'è posto per le inimicizie tribali, né per i molteplici fattori che fanno di una festa un successone. Ma nella vita ordinaria sì. Un ulteriore motivo per distinguere bene tra il condizionale ordinario e il «ferro di cavallo» sdraiato. Vi sono altre conseguenze catastrofiche delle leggi logiche in materia di condizionali, quando queste vengono applicate alle argomentazioni quotidiane. Nessuno troverebbe persuasivo il seguente ragionamento, pur logicamente impeccabile: Premessa: Se sia la chiave principale che quella del pannello sono inserite, allora il motore si avvia. Quindi:

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O quando la chiave principale è inserita il motore si avvia, o quando la chiave sul pannello è inserita il motore si avvia. Nessuno resta persuaso, e a buon diritto, da un'argomentazione di questo tipo, in barba al fatto che è logicamente «impeccabile». Il segreto è che anche la «o» dei logici è differente dalle nostre «o... oppure» della lingua comune. Del tutto persuasiva, invece, è l'argomentazione seguente, a dispetto del fatto che è «invalida» sotto il profilo strettamente logico: La cena verrà servita in sala, oppure, se il tempo è bello, in terrazza. Quindi: La cena verrà servita o in sala, o in terrazza. Le cose si complicano ulteriormente quando si ragiona sulla base di controfattuali (v. par. 6. 6). Poco persuasivo è, per esempio, il passaggio da un condizionale a un controfattuale che si basa su questo (l'esempio, ben noto, è dovuto a E. Adams): Se Oswald non ha ucciso Kennedy, certo qualcun altro lo ha fatto. Se Oswald non avesse ucciso Kennedy, certo qualcun altro lo avrebbe fatto. La seconda considerazione non «discende» dalla prima come conseguenza. La prima è certamente vera, mentre si può molto discutere sulla seconda. Assai problematici, per il logico puro, sono anche casi di condizionali come questi: Se di baci si può morire, allora uccidimi pure. Crollasse il mondo, voglio Turandot. Se io ti darò un consiglio, tu lo seguirai? Vediamo adesso come si può spiegare un buon numero di queste situazioni in base alla teoria della pertinenza. 7.6. Il «ferro di cavallo» e la pertinenza La differenza tra affermare semplicemente il conseguente («Ti farà entrare») e usare il condizionale («Se gli dai una mancia, ti farà entrare») sta tutta nel sottolineare il potere di quella mancia, e nel lasciar intendere chiaramente che, se la mancia non viene data, non si entra. Questo è, appunto, il motivo che ci spinge a usare un «se..., allora ... » nel discorso comune. Partiamo sempre dal presupposto seguente: Il nostro interlocutore deve avere le sue buone ragioni per dirci quanto ci dice, e conta sul fatto che queste ragioni noi possiamo facilmente indovinarle. Tra queste ragioni c'è quella di essere massimamente pertinente in quello che dice. Tutti capiamo cosa vuol dire: «Se piove, facciamo lo stesso la gita». La gita, è ovvio, sarà fatta anche se non piove. Per questo c'è quel «lo stesso». Perché, allora, non si dice semplicemente «Faremo la gita», senza altro commento, o condizione? t ben noto che, normalmente, la pioggia scoraggia le attività all'aperto, e l'interlocutore vuole fornirci l'informazione che, a dispetto di quanto noi probabilmente ci aspettavamo, lui intende fare la gita comunque, anche in caso di pioggia. Riesce ad essere più pertinente dicendoci questo, che non affermando semplicemente «Faremo la gita», proprio perché questa affermazione, da sola, invita alla naturale domanda «Anche se piove?».

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Analoghi presupposti di pertinenza spiegano molti dei casi anomali già incontrati, quelli sui quali il logico aveva poco da dirci. Per esempio i «finti» condizionali, quelli nei quali il conseguente è vero comunque, indipendentemente dall'antecedente. Se vuoi un passaggio, Gianni parte tra cinque minuti. Se vuoi un buon professore di latino, lui è il migliore. Se vuoi farti un uovo, la padella è in alto nella credenza. In tutti questi casi, chi parla vuole essenzialmente segnalare la disponibilità di qualcosa. L'interlocutore viene informato di un'opportunità che sussiste comunque, ma che diventa interessante (leggi pertinente) se, e solo se, si hanno certe necessità, o intenzioni. Date queste necessità, queste intenzioni, l'opportunità diventa particolarmente vantaggiosa, perché a portata di mano. Diventa pertinente segnalare che quella opportunità esiste, e che esiste comunque, solo se esiste anche quel bisogno, quel desiderio, quella intenzione del destinatario. Il contesto pertinente che consente di trarre la conseguenza utile è ovvio: si preferisce approfittare di un passaggio in macchina, piuttosto che camminare a lungo, o usare mezzi pubblici; si preferisce ottenere l'aiuto del miglior esperto disponibile, specialmente quando questi è un amico, e così via. Il condizionale viene usato pertinentemente proprio per significare il vantaggio di questa opportunità, date certe condizioni. Un altro caso nel quale il principio di massima pertinenza spiega il modo in cui noi interpretiamo i condizionali, anche quando la logica pura non ci assiste, è quello delle congiunzioni. Se viene papà Montecchi, la festa sarà un successone. Se viene papà Montecchi e viene papà Capuleti, la festa sarà un disastro. Viene papà Montecchi e viene papà Capuleti. Questo implica logicamente: Viene papà Montecchi. Il logico, a questo punto, ci intimerebbe di trarre la conclusione impossibile, assurda, contraddittoria: La festa sarà un successone e la festa sarà un disastro. Noi tutti, invece, traiamo la conclusione «ovvia» che la festa sarà un disastro. Come mai? La considerazione centrale qui, di natura non logica, ma cognitiva, è che una congiunzione è più informativa di ciascuno dei termini che congiunge, presi a sé stanti. Sarebbe stupido e irresponsabile dire solo «Viene papà Montecchi», quando si sa che viene anche papà Capuleti. In logica, se è vero «p e q» (come un tutto), allora sono necessariamente anche vere, separatamente, p e q. Ma questo non vale nel parlare comune. Quando si sa che è vera una congiunzione, per il principio di pertinenza, la si deve dire tutta. Un giudice potrebbe, giustamente, accusarci di reticenza, o perfino di falsa testimonianza, se noi dichiarassimo sotto giuramento, dopo la carneficina avvenuta alla festa, «C'erano i Montecchi», omettendo di dire che c'erano anche i Capuleti. Quindi, quando vale la premessa congiunta «Viene papà Montecchi e viene papà Capuleti» decade implicitamente, ma obbligatoriamente, la premessa isolata «Viene papà Montecchi». Questo, da solo, infatti, lascia intendere «Ma non anche papà Capuleti». E questa sarebbe una falsità, se è vero «Viene papà Montecchi e viene papà Capuleti». La congiunzione, intrinsecamente più informativa, vince su ciascuno dei «congiunti» presi da soli. Li batte entrambi in pertinenza. Ne concludiamo, dunque, che la festa sarà un disastro. La contraddizione suggerita dal logico puro non si verifica più. Il principio di pertinenza ci spiega bene come noi interpretiamo questo tipo di condizionali con congiunzioni.

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Possiamo risparmiarci di riprendere qui, ad uno ad uno, tutti i casi di condizionali già incontrati e di spiegare in dettaglio come il principio di pertinenza ne spiega il funzionamento. Ci basta averne capito lo spirito. Quello che conta è che il «condizionale» dei logici, cioè proprio il «ferro di cavallo» sdraiato, con la sua tabellina super-classica, combinato con il principio di pertinenza, basta a spiegare come si ragiona per condizionali nella vita ordinaria. Il significato del «se..., allora ... », e di tutte le espressioni che valgono come un «se..., allora ... », è proprio quello dato dalla tabellina logica, ma le relazioni di pertinenza tra l'antecedente e il conseguente, e le relazioni di pertinenza tra questi e un certo contesto, non rientrano nel dominio della logica, bensì in quello delle scienze cognitive, e in particolare della pragmatica di stampo cognitivo, di cui Sperber, Wilson, Smith e pochi altri sono i fondatori. Il principio di pertinenza è proprio la «legge» pragmatica che governa tutti questi casi. Pragmatica, ma, si noti, anche universale e accessibile a tutti senza bisogno di «apprendimento». Una felice conseguenza di questa teoria dei condizionali è che essa copre, senza scossoni e senza fratture, anche i condizionali controfattuali. A volte può essere piuttosto complicato ricostruire il contesto pertinente di un controfattuale, ma con un certo sforzo ci si riesce, e nella maggior parte dei casi, la forza del ragionamento viene adeguatamente spiegata. Riprendiamo il caso di Oswald e Kennedy. Se Oswald non ha ucciso Kennedy, qualcun altro lo ha fatto. Qui il contesto pertinente è talmente immediato e talmente incontrovertibile, che la conclusione è inevitabile. Kennedy è stato ucciso, quindi qualcuno lo ha ucciso, quindi se non è stato Oswald, qualcun altro lo ha fatto. Vediamo il controfattuale: Se Oswald non avesse ucciso Kennedy, qualcun altro lo avrebbe fatto. Per noi tutti è ovvio che esistono (almeno) due ipotesi pertinenti, tali che, ammesse queste, ne segue inevitabilmente la conclusione: (1) C'era un (o almeno un) complotto per uccidere Kennedy; (2) Né la CIA, né l'FBI, né alcun altro apparato di protezione avrebbero potuto impedire l'assassinio di Kennedy. Non tutti saranno d'accordo nel credere ambedue queste ipotesi, e quindi non tutti accetteranno la validità di questo controfattuale (mentre tutti devono accettare la validità del condizionale «fattuale» visto sopra). Tutti, però, capiscono cosa vuol dire, e capiscono sotto quali ipotesi è valido. Tutti capiscono che, concesso (1) e (2), ne segue inesorabilmente che, se Oswald non avesse ucciso Kennedy, qualcun altro lo avrebbe fatto. Il principio di pertinenza spiega come noi capiamo questo controfattuale, sia che lo si dia per buono, sia che lo si consideri un'elucubrazione perversa, priva di qualsiasi fondamento. 7.7. Uno sguardo d'insieme: tra la logica e l'espediente Un logico e filosofo americano di chiara fama mi ha recentemente confidato che, a suo parere, nessuno ha ancora trovato una teoria veramente soddisfacente dei condizionali. Questo a dispetto di importanti progressi sul fronte della logica dovuti soprattutto a David Lewis e Robert Stalnaker, sul fronte della linguistica a Angelika Kratzer e Neil Smith, su quello della psicologia a Peter Wason e Philip N. johnson-Laird, e su quello della pragmatica a Paul Grice, Dan Sperber e Deirdre Wilson (cito qui solo i nomi più noti). I problemi sui controfattuali sollevati da Nelson Goodman fino dalla metà degli anni Cinquanta (v. par. 6.6) sono stati alleviati e circoscritti, ma restano ancora in gran parte irrisolti. Eppure tutti noi adoperiamo ogni giorno, senza batter ciglio, un'enorme varietà di ragionamenti ed argomenti costruiti sui condizionali e sui controfattuali. Parrebbe quasi che la logica spontanea del «se..., allora ... » travalichi le regole formali e gli schemi astratti, impastata com'è di conoscenze contingenti, allusioni, tacite presupposizioni, espedienti retorici. Nonostante costituisca un mattone essenziale del ragionamento e nonostante sia una delle

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forme di argomentazione più studiate da secoli, il modus ponens racchiude, quindi, un componente ancora in parte misterioso. Un singolo risultato appare oramai ben consolidato: il «se..., allora ... » del discorso comune non è la stessa cosa del «ferro di cavallo» dei logici, ma non è nemmeno qualcosa di radicalmente diverso. Componendo in modo sistematico e creativo la tabellina vista sopra, cioè la parte logico-formale, con una ragionevole teoria della pertinenza, si arriva a render conto di moltissimi usi del condizionale, e a connetterlo con una certa continuità con i ragionamenti per controfattuali. Esiste, quindi, almeno un primo inizio di una teoria della persuasione basata sul «se..., allora... ». Ci resta ora da innestare questa teoria su una migliore comprensione di altri interessanti aspetti delle argomentazioni basate sul linguaggio comune. capitolo 8... La persuasiva levità del linguaggio... Un professore di logica a Oxford entra in un grande magazzino e, avviatosi verso la scala mobile, vede con stupore la scritta «Dog must be carried». Dopo un attimo di esitazione, corre ad acchiappare il primo cane su cui riesce a mettere le mani, e se lo porta compuntamente in braccio su per la scala mobile. Infatti, da logico, ben sa che quella scritta ammette la seguente interpretazione: «t obbligatorio portare cani in braccio». Le nostre lingue sono strumenti molto raffinati e possono essere manipolate per ottenere effetti diversi, a partire da differenze apparentemente sottili. Chi ha apposto quella scritta non è certo un logico, e ovviamente intendeva che la si interpretasse in quest'altro modo: «Se avete un cane e volete usare la scala mobile, allora dovete portarlo in braccio». La ragione, facile da indovinare, è che il cane rischia altrimenti di farsi del male. Ci voleva proprio un logico per fraintendere un messaggio così ovvio. A sua discolpa dobbiamo, però, prendere atto che non è affatto ovvio come noi ricaviamo dalla sintassi di una frase come quella il senso di un «se..., allora ... ». Il centro di raccolta donazioni dell'Esercito della Salvezza a Cambridge, Massachusetts, ha un comodo sportellone, accessibile dalla strada, senza nemmeno scendere dalla macchina. Dice: «Non si accettano offerte in denaro». Sarebbe insensato interpretarla troppo alla lettera e supporre che quella caritatevole organizzazione non intenda ricevere mai, per nessun canale, offerte in denaro. Semplicemente, tutti capiamo che vanno elargite in altro modo, e non depositandole in quello sportellone dal facile accesso. Scritte di questo genere fanno giustamente appello alla nostra comprensione delle cose del mondo, hanno (come si dice in termini dotti) una componente pragmatica implicita. Si direbbe che il significato di scritte come queste sia soprattutto dettato dalle convenzioni sociali e dalle regole della convivenza quotidiana. E si direbbe una cosa giusta. Quello che non è giusto, però, è concludere che sono solo queste convenzioni e queste regole a dettare il significato. Come il logico di Oxford sottolinea, a modo suo, esiste anche una componente di significato intrinseco, conta anche quello che la scritta letteralmente dice. C'è una parte di «stretto» significato, e una parte di «uso» di quel significato. Di norma, questi due pezzi del rompicapo si incastrano egregiamente tra di loro. La gente, infatti, sa comporre scritte che altra gente riesce subito a capire. t assai interessante studiare anche alcuni esempi in cui l'incastro non si produce. Questi ci porteranno dritto dritto al cuore di alcuni fenomeni logici, linguistici e pragmatici piuttosto complessi, che l'arte della persuasione deve saper utilizzare in modo corretto ed efficace. Limitiamoci qui a

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esplorare le particelle più elementari del linguaggio: articoli, aggettivi, congiunzioni. Lasciamo ai dotti trattati l'analisi delle figure retoriche complicate. Vedremo che già queste semplici particelle contengono abbastanza «struttura» da darci il mal di testa. Torniamo un attimo sul «se..., allora ... » e applichiamolo ai verbi che ci parlano della mente. 8.1. Un blocco mentale Continuando a dare la croce addosso ai ferri (di cavallo) dei logici di mestiere, constatiamo che un altro loro inviolabile principio non si applica a certi tipici ragionamenti della vita quotidiana. Esso ci dice, in essenza, che la verità si trasmette attraverso le «catene» di conseguenze logiche. Se p implica q, e q implica r, allora io, affermando p, affermo anche r. Abbiamo già visto (par. 6.4) che non si può allontanare troppo, dal punto di vista psicologico, una premessa dalle sue ultime conseguenze, e che è impossibile misurare la plausibilità psicologica con il metro della logica pura. Comunque, non è difficile trovare casi in cui questa «catena di trasmissione» si applica pari pari anche al ragionamento ordinario. Una barca che stringe bene il vento è avvantaggiata in questa regata. Una barca avvantaggiata in questa regata può battere Stars and Stripes. Il Kookaburra stringe bene il vento, quindi può battere Stars and Stripes. Non fa una piega. Occorre, comunque, che la catena di conseguenze logiche ci sia esplicitamente nota, e che lo sia al nostro interlocutore. Questa è una considerazione capitale per noi, mentre il logico puro presta attenzione solo a ciò che è obiettivamente vero e a ciò che è obiettivamente falso. Per noi, invece, affermare o negare, credere o non credere, essere veraci o mentitori, coinvolge pesantemente quello che si sa, e che si sa che altri sanno. Il caso paradigmatico in cui la catena delle conseguenze si blocca è quello dei cosiddetti «verbi psichici», cioè verbi che fanno riferimento a stati mentali e a contenuti mentali. Qualcosa va storto quando si usano verbi come «ritenere», «credere», «supporre», «concludere». La insopportabile leggerezza di tali termini mentali ci gioca alcuni brutti scherzi. (Nella Conclusione, parlando del dilemma di Wotan, vedremo quanti bei guai combinano certe inferenze basate sul verbo «volere».) Rossi pensa che Bianchi sia una persona molto per bene. Bianchi è il suo vicino di casa. Quindi Rossi pensa che il suo vicino di casa sia una persona molto per bene. Di nuovo, non fa una grinza. Ma prendiamo il caso seguente: Rossi pensa che Bianchi sia una persona molto per bene. Bianchi è (all'insaputa di Rossi) un pericoloso terrorista. Finge di condurre una vita normale e il suo vero nome non è Bianchi. Certo non possiamo dedurre, da tutto questo, che Rossi pensa che un pericoloso terrorista è una persona molto per bene. La catena si inceppa sulla beata ignoranza di Rossi. Fin quando trattiamo, invece, di fatti obiettivi, di proprietà obiettivamente verificabili, la catena va avanti. Bianchi è un pericoloso terrorista. Bianchi pesa ottantacinque chili. Non c'è barba di cavillo che possa bloccare la catena che ci porta ineluttabilmente alla conclusione: il pericoloso terrorista pesa ottantacinque chili. Le cose cambiano, come abbiamo visto, quando si parla non di fatti obiettivi, ma di quello che passa per la testa delle persone, di qualità percepite e giudicate da altri esseri umani. Verbi, appunto, come credere, ritenere, supporre, concludere, bloccano la catena. Rossi può benissimo reputare Bianchi una persona molto per bene e allo stesso tempo reputare i terroristi la feccia della terra. Non si contraddice, semplicemente perché ignora che Bianchi è un terrorista. Si contraddirebbe, ovviamente, se lo sapesse e continuasse a ritenerlo una persona molto per bene. Ci sono anche casi intermedi, i più interessanti, nei quali non sappiamo bene cosa concludere. Stringere la mano è un atto perfettamente obiettivo, un gesto che può esser filmato e fotografato.

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Rossi ha stretto la mano di Bianchi. Bianchi è un pericoloso terrorista. Dovrei ineluttabilmente concludere, come per gli ottantacinque chili, che Rossi ha stretto la mano di un pericoloso terrorista. Sono riluttante, però, a trarre questa conclusione, perché nel linguaggio comune stringere la mano è non solo un gesto obiettivo, filmabile e fotografabile, ma anche un atto con una componente volontaria. Significa dare la propria amicizia, salutare cordialmente. Non ci sentiamo di «concludere» senza esitazione che Rossi ha stretto la mano di un pericoloso terrorista. Ben capiamo come in un'aula di tribunale, sotto le mani di un procuratore scaltro e spietato, ci potremmo trovare in grave imbarazzo (come si vede nei telefilm): «Risponda semplicemente con un sì o con un no: Bianchi strinse la mano di questo pericoloso terrorista?». Oltre all'innocente atto di stringere la mano, rappresentano casi-limite anche finanziare, accogliere, dare ricetto. A metà obiettivi e fattuali, a metà psicologici. Una vicenda giudiziaria può ben rendere drammatiche queste sottili ambiguità. L'imbarazzo nel portare fino alle estreme conseguenze una catena di deduzioni in casi nei quali esiste questa componente psicologica, anzi morale, di gesti come stringere la mano non affiora solo sotto l'effetto di procuratori cinici e spietati. Molto probabilmente, quando i giornali pubblicassero a lettere cubitali che è stato arrestato il pericoloso terrorista che si faceva chiamare Bianchi, il povero Rossi stesso avrebbe un moto di sgomento. Si direbbe con orrore, di fronte allo specchio: Ho stretto la mano di un pericoloso terrorista! E' ben conscio che non lo sapeva, che credeva semplicemente di stringere la mano del suo cortese e premuroso vicino, ma non può impedirsi di avere questa reazione di sgomento. Solo in una piccola percentuale, ma una percentuale diversa da zero, si sente colpevole come se avesse fatto quel gesto sapendo che Bianchi era un pericoloso terrorista. Occorre molta prudenza e molto discernimento per percorrere, un anello dopo l'altro, una catena di ingerenze che portano su stati d'animo e verbi con contenuto psicologico. Si possono ad arte, al limite dell'onestà, costruire argomentazioni che suonano persuasive abusando delle speciali proprietà di verbi come quelli appena visti, e di espressioni al limite tra lo psicologico e l'obiettivo. Le linee di demarcazione tra sintassi, semantica, logica, pragmatica e uso delle argomentazioni si fanno sinuose. Può avere facile gioco, qui, chi sostiene che queste linee non esistono affatto. Rischia di persuaderci che (come molti ancora oggi amano dire) la sintassi è ancella della pragmatica. Vale la pena di soffermarsi un attimo su questo punto. 8.2. Contra pragmaticos C'è chi sostiene che il significato delle espressioni linguistiche e l'uso che ne facciamo siano sempre intimamente e inestricabilmente compenetrati. Chiamerò questi i «pragmatisti». Il pomo della discordia tra me e loro sta nelle parole «sempre» e «inestricabilmente». Per dare più vigore a questa tesi, sulla scia del filosofo Ludwig Wittgenstein, i pragmatisti affermano che l'uso è il significato. Il filosofo americano John Searle ha avuto buon gioco a ridurre questa tesi all'assurdo. Immagina un ufficiale americano che, durante la seconda guerra mondiale, si è perso sulla linea del fronte. Supponendo che i tedeschi non sparino a vista su uno dei loro, e che gridare una frase in tedesco basti a farsi riconoscere come uno dei loro, fruga nella memoria per farsi venire in mente una frase in tedesco. Tutto quello che riesce a ricordarsi è un verso studiato a scuola: «Kennst du das Land wo die Zitronen blúhen?» (un verso di Coethe sull'Italia che significa: «Conosci tu la terra dove fioriscono i limoni?»). Progetta, alla prima avvisaglia di una pattuglia tedesca, di gridare forte e chiaro questo verso. Supponiamo che lo faccia davvero. L'uso di questa frase sarà quello di dire «sono uno dei vostri, non sparate», ma la frase non significa «sono uno dei vostri, non sparate», significa: «Conosci tu la terra dove fioriscono i limoni?». Sarebbe pazzesco sostenere il contrario. E se i pragmatisti ritorcessero che l'uso a cui fanno appello, quello che si identifica con il significato, deve scaturire entro un'intera comunità omogenea di parlanti, non in un isolato e sventurato individuo sperduto sul fronte, allora potremmo benissimo immaginare che vi siano, non

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uno, ma mille ufficiali americani sperduti e che tutti sappiano solo quel verso e che tutti progettino di usarlo in quel modo. Forse che questo basterebbe a trasformare il significato di quel verso di Coethe in «sono uno dei vostri, non sparate»? Certo che no. Il significato, normalmente, si intreccia con Fuso, ma non può essere identificato con l'uso. Si può (e, se si è linguisti, psicologi, filosofi del linguaggio, si deve) separare il grano dal loglio, separare il significato dall'uso. Il caso ipotetico dell'ufficiale sperduto rende molto vivida la differenza. Non so quanto questo argomentino possa averci persuaso, ma ricordiamoci anche del logico di Oxford e della sua bizzarra ricerca di un cane. In inglese, indipendentemente dall'uso che se ne fa, la frase «Dogs must be carried» ammette l'interpretazione datagli da quel singolare professore. Mentre non l'ammetterebbe la frase «Se avete con voi un cane, e desiderate salire con questo cane ai piani superiori servendovi di questa scala mobile, allora dovete prenderlo in braccio» (lo dico in italiano per semplicità). Si fa appello al buon senso dei clienti (logici esclusi) per interpretare proprio così la scritta. Il suo significato letterale ammette anche questa lettura, è compatibile con questo uso, ma niente di più. Un ferro da stiro usato come martello resta un ferro da stiro. La scritta «Dogs must be carried» è intrinsecamente ambigua tra il significato scelto dal logico (si devono portare cani in braccio) e quello scelto dalla schiacciante maggioranza degli altri clienti (se avete un cane..., allora ... ). La sua traduzione in italiano «I cani devono essere portati in braccio» potrebbe avere effetti ancora più imbarazzanti su quel professore. Forse lo indurrebbe a cercare di portarsi in braccio tutti i cani di Oxford. Né il parlante dell'inglese può farci qualcosa sul fatto che quella scritta deve dire dogs e non the dogs, né quello dell'italiano sul fatto che in italiano si dice «i cani» e non «cani». «Cani devono essere portati in braccio» suona orrendo. Per approfondire l'arte della persuasione dobbiamo prima essere noi stessi persuasi che ci sono fatti linguistici al di là del controllo di qualsiasi parlante. Questi fatti rendono certe espressioni compatibili con certi usi, e i parlanti di una lingua sfruttano ogni giorno questi fatti senza rendersene nemmeno conto. Tutti noi ci serviamo di certe espressioni per i nostri scopi, ne inventiamo di nuove, ma non abbiamo il potere di creare, e nemmeno di cambiare, questi fatti. Ci sono limiti ben precisi a quanto l'uso può plasmare un significato. Per persuadercene conviene partire da fatti della nostra lingua di cui non siamo consapevoli, ma che pur capiamo istantaneamente, senza sforzo e senza incertezza. 8.3. Tutti, uno, nessuno Il più basilare, il più innocente, e forse anche il più affilato strumento linguistico per calibrare la forza di un'espressione, e quindi di un'intera argomentazione, è l'uso di quelle vitali particelle del linguaggio che sono dette «quantificatori», cioè termini come «tutti», «alcuni», «nessuno», «ogni», «quasi tutti» e altre consimili. A queste vanno, per buone ragioni, associati gli articoli determinativi (i, il, lo ecc.), gli indeterminativi (un, uno ecc.) e, curiosamente, la loro possibile assenza. Infatti, la presenza, o l'assenza, di un articolo ha spesso la funzione di «quantificare» qualcosa nella frase. «Sono cani mordaci» significa che quei cani di cui si parla sono mordaci, ma che ci sono nel mondo altri cani, oltre a questi, pure mordaci, e altri ancora, non mordaci, che non sono questi. «Sono i cani mordaci» significa, invece, che quelli di cui si parla sono tutti i cani mordaci di un certo insieme. «I cani sono mordaci» può, a seconda del contesto sottinteso, significare che tutti i cani in questione sono mordaci (a Oxford, per esempio), ma anche che tutti i cani esistenti, esistiti e che esisteranno al mondo, nessuno escluso, sono mordaci. Torna, quindi, che l'articolo, e la sua assenza, vengano considerati dei quantificatori. t facile vedere, in forma pura, su casi semplici, il decisivo contributo di queste particelle del linguaggio al significato e alla forza di un'argomentazione. Se vi dico: «Distinte signore sono state viste truffare i supermercati con falsi bollini-premio» lascio intendere che non tutte le distinte signore lo fanno, e che non lo fanno solo le distinte signore. Anzi, lascio in sospeso, in quello che ho detto, il giudizio che perfino distinte signore si abbassano a questi mezzucci truffaldini. Vi

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invito a concludere: figuriamoci le mogli degli impiegatini! Poveri supermercati, e poveri noi. Che tempi! L'espressione «distinte signore», senza alcun articolo, copre alcuni individui nella categoria, non meglio identificati, ma rappresentativi. Leggermente diverso sarebbe stato dire: «Alcune distinte signore sono state viste truffare i supermercati con falsi bollini-premio». Lascio ora intendere che non sono molte, e forse non sono nemmeno tanto rappresentative. Il messaggio si affievolisce. t più un giudizio sulla decadenza dell'alta borghesia che non sulla decadenza della nostra società nel suo insieme. Posso, però, rafforzare sia questo giudizio che il pessimismo generalizzato, se dico «Le più distinte signore sono state viste truffare i supermercati con falsi bollini-premio». Qui lascio intendere che molte (al limite tutte) lo fanno, e che questo ci invita a disperare sulla moralità dei nostri tempi. Il gioco tra i generici e gli specifici, le cui mosse sono spesso dettate dai soli articoli, è molto sottile. «La teoria sembra strampalata allo studente» può riferirsi a una teoria particolare e a uno studente particolare, o a una teoria particolare e agli studenti in genere, ma anche alle teorie in genere e agli studenti in genere. «Sulle prime, la teoria sembra sempre strampalata allo studente» rafforza questa interpretazione, diciamo, universale. t sinonimo di «Sulle prime una teoria suona sempre strampalata a uno studente». I linguisti hanno notato che queste alternanze tra generico e specifico presentano interessanti rompicapi. «La parabola è una sezione particolare del cono» ammette la stessa interpretazione di «Una parabola è una sezione particolare di un cono», ma le cose cambiano nel caso seguente: Euclide definì la parabola come la sezione di un piano parallelo al lato del cono. Siamo nel regno delle definizioni universali, valide per ogni parabola, in ogni tempo. Lo restiamo dicendo: Euclide descrisse molto accuratamente una parabola come la sezione di un piano parallelo al lato del cono. C'è, invece, una netta differenza tra: Euclide descrisse molto accuratamente la parabola. e Euclide descrisse molto accuratamente una parabola. Nel secondo caso, siamo più portati a capire che ne descrisse una in particolare. Infatti, l'alternanza tra «il», «la» e «un», «una», per indicare l'esemplare caratteristico, generico, di una classe, non sempre funziona. «La parabola è una curva quadratica» rende la stessa idea di «Una parabola è una curva quadratica», ma «Il dinosauro scomparve a causa di una glaciazione» non rende la stessa idea di «Un dinosauro scomparve a causa di una glaciazione». Qui si ha un chiaro contrasto tra il generico e lo specifico. Una conseguenza importante di questa alternanza è che, con i generici, ma non con gli specifici, si possono costruire espressioni che vengono naturalmente interpretate come un «se..., allora ... ». «Non accetto una scusa tardiva» implica che, se la scusa fosse stata fatta tempestivamente, allora forse l'avrei accettata. «Non accetto la scusa tardiva» non implica nulla. Non c'è un'interpretazione del tipo «se..., allora ... ». Non accetto «quella» cosa lì. Punto e basta. I generici accompagnati da un aggettivo (lo abbiamo intravisto parlando del paradosso di Nicod: «Tutti i gatti sono bigi» - par. 6. 7) ammettono logicamente, tacitamente, i presupposti tipici di un «condizionale». «Non mi piace un cane marrone» lascia aperta la porta a un tentativo con cani di altri colori. I quantificatori, se ben usati, possiedono forti poteri argomentativi. Nella categoria dei quantificatori rientrano, ovviamente, i numeri stessi. «Tre tozzi di pan secco in tre strette tasche stanno», lascia in sospeso tra l'idea che in ciascuna singola tasca, delle tre, ci stia uno e un solo tozzo di pan secco, e quella che tutti e tre i tozzi di pan secco stiano, insieme, alternativamente, in una stessa tasca, tra tre possibili. Niente esclude, se non la nostra pigrizia di immaginazione, che possano stare due tozzi in una tasca e uno in un'altra, alternativamente, nelle tre tasche disponibili. Pensandoci meglio, può anche essere che si parli di ben nove tozzi di pan

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secco, tre per tre tasche. Perdendo un po' la rara qualità sonora della frase, possiamo restringere queste possibili interpretazioni. «I tre tozzi di pan secco nelle tre strette tasche stanno», esclude possano essere nove, e rafforza leggermente, solo leggermente, l'idea che i tre restino insieme, ora in una tasca, ora nell'altra. Invece, «Nelle tre strette tasche stanno tre tozzi di pan secco» rafforza l'idea che si tratti di una misura della capacità delle tasche. Magari nessun tozzo di pan secco, di fatto, è mai veramente entrato in nessuna delle tre tasche. L'idea qui è che le tasche sono, sì, strette, ma capaci. Talvolta sono «piccole» differenze come queste che possono venir ad arte sfruttate in un'argomentazione. Quello che si lascia sottinteso, ma chiaramente suggerito, dà una particolare forza al discorso. Il potere dei sottintesi è enorme, e ben noto. 8.4. Sotto i sottintesi: Al Capone e McCarthy Esempi lampanti di come espressioni superficialmente identiche possano avere presupposti molto diversi sono le seguenti (inizialmente suggerite da Noam Chomsky fino dalla metà degli anni Cinquanta): Gli ho chiesto cosa leggere. Gli ho detto cosa leggere. Nella prima, si sottintende che chi legge sono io, mentre nella seconda si sottintende che chi legge è lui. Infatti queste due frasi dall'aria tanto simile possiedono due strutture soggiacenti molto diverse. Altri esempi classici di ingannevole similarità superficiale, ma di forte differenza soggiacente, sono quelli che legano tra di loro nomi e pronomi. Gianni ama suo padre. Suo padre ama Gianni. Nel primo caso, «suo» e «Gianni» vanno bene insieme, si legano bene, potendosi riferire alla stessa persona («Gianni»). Nel secondo, invece, quel «suo» non può riferirsi a Gianni. Innumerevoli altri esempi di espressioni correnti che tutti noi comprendiamo senza incertezza, ma che la teoria linguistica ha faticato non poco a sviscerare, confermano ogni momento quanto sottile sia il gioco dei presupposti. Ci sono anche episodi in cui questo gioco dei presupposti diventa una forma di arte. Il famoso gangster Al Capone, subito dopo il crollo della Borsa a Wall Street, nel 1929, convocò una conferenza stampa e dichiarò solennemente: «Non sono responsabile di questo disastro». La sua smargiassata, di dubbio gusto, ma certo efficace, si basava tutta su un presupposto implicito: Chi nega di essere responsabile di qualcosa presuppone nell'interlocutore la credenza che si possa ritenerlo responsabile. Su questo effetto di bravata confidava Al Capone. Il senatore americano Joseph McCarthy, quello della «caccia alle streghe» (da cui ha preso nome il maccartismo, v. par. 10. 7), nemico dichiarato dei professori e della cultura in genere, si era assegnato, negli anni Cinquanta, la sacra missione di liberare gli Stati Uniti dal comunismo. Il 9 febbraio 1950, nella cittadina di Wheeling (West Virginia), ospite del club femminile del Partito repubblicano, tenne un'orazione che doveva fare storia. Un quotidiano locale fu il primo a riportare questo gioiello di persuasione-manipolazione maccartista, che venne poi diffuso dalla Associated Press, riverberando su tutti gli organi di stampa degli Stati Uniti: Non ho abbastanza tempo qui per nominare ad uno ad uno tutti i membri del Dipartimento di Stato che sono stati individuati come appartenenti al Partito comunista e componenti di un circolo di spie. Ho qui, nelle mie mani, una lista di 205 individui ben noti al segretario di Stato [che era allora

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Dean Acheson] come membri del Partito comunista e che, ciò nonostante, sono tuttora al loro posto di lavoro e stanno attivamente plasmando la politica del Dipartimento di Stato. Questa sua affermazione creò uno scompiglio, e venne accolta con diffusa, e assai giustificata, incredulità. Perfino il presidente Truman denunciò pubblicamente McCarthy come «inquinatore della verità» ( mishandler of the truth ). Qualche giorno dopo, a Denver, nel Colorado, gli infami 205 vennero descritti, più moderatamente, come «Soggetti a rischio». Qualche giorno dopo ancora, a Salt Lake City, nello Utah, il senatore fece un grosso sconto: i 205 divennero «solo» 57, ma «membri tesserati» del Partito comunista. Poi questi 57 tesserati divennero 81 «coinvolti». Si noti: ho scritto «i» 205, «questi» 57, e non avrei potuto fare altrimenti. Nessuno poté fare altrimenti. A una conferenza stampa, un cronista, disgustato, beffardamente lo rimbeccò: «Insomma, senatore, sia preciso. Ci dica una volta per tutte quanti sono, esattamente, i comunisti al Dipartimento di Stato». Il sottosegretario di Stato J.E. Peurifroy intimò perentoriamente a McCarthy di «nominarli» a uno a uno. Così facendo, continuò a cadere, come quasi tutti, proprio nella trappola tesa dal cinico e paranoico senatore. McCarthy non fece mai un solo nome preciso, ma era comunque gongolante. Come prese poi a confidare, gloriandosene, ai suoi più stretti collaboratori: «Vedete, tutti discutono su "quanti" comunisti ci sono nel Dipartimento di Stato, e vogliono sapere 'chi" sono. Non si chiedono più "se" ce ne sono». Questi sono due esempi famosi, tratti dalla storia recente, sulla forza delle presupposizioni automatiche. Riportare una dichiarazione di non responsabilità lascia intendere che rientri nei poteri del dichiarante causare quella sciagura. Chiedere, e chiedersi, quanti comunisti ci sono, e chi sono, costringe a dare per scontato che ce ne sono. McCarthy era sufficientemente abile, e sufficientemente disonesto, da non usare l'aggettivo «presunti comunisti», anzi, per l'esattezza «presunti da me, Joseph McCarthy». Usò, senza ulteriori qualifiche, il termine comunisti, addirittura rinforzato da «spie». E poi ci appiccicò un numero sufficientemente grande e sufficientemente preciso (non «alcuni», non «molti», nemmeno «un centinaio», ma 205), in modo da lasciar supporre che sapesse esattamente quello che diceva. In anni più recenti, gli psicologi cognitivi hanno ben sviscerato quello che si chiama l'effetto di ancoraggio. Se io vi fornisco un numero preciso, e piuttosto alto, vi costringo, senza che nemmeno ve ne rendiate conto, a restare «ancorati» a questo numero. Anche se siamo scettici, come era doveroso esserlo nel caso di McCarthy, possiamo diminuire quel numero, dimezzarlo, ridurlo a un decimo, o anche meno, ma non ci viene fatto di azzerarlo puramente e semplicemente. Ci risulta difficile dubitare che ci siano comunisti nel Dipartimento di Stato, quando ci viene detto che ce ne sono 205. Pur increduli, ci troviamo a discutere quanti ce ne sono, accettando il tacito, ma possente, presupposto, appunto, che ce ne sono. La sintassi dei quantificatori ci obbliga a parlare «dei» 205 (o «i» 57, o «questi» 81). Ecco due esempi reali e ben documentati del forte potere persuasivo dei sottintesi creati dai quantificatori. 8.5. Il potere degli aggettivi Seguiamo adesso la logica dei presupposti creata dagli aggettivi. Non c'è dubbio che un cane marrone è un cane, e un'auto giapponese è un'auto. Normalmente, un nome corredato di un aggettivo rimane il nome che è. pur acquistando una qualche qualifica speciale, o ricevendo un'enfasi speciale su qualche suo aspetto. La conseguenza è che l'aggettivo restringe il campo di applicazione del nome, presupponendo che si tratti pur sempre di ciò di cui il nome parla. Un cane marrone appartiene a un insieme necessariamente più ristretto di quello di tutti i cani, così come un'auto giapponese appartiene a un insieme necessariamente più ristretto di quello di tutte le auto. Con l'uso dell'aggettivo, per una di quelle magie quotidiane del linguaggio, si riesce a presentare al nostro ascoltatore-lettore non uno, ma ben tre insiemi: Quello globale (tutti i cani, tutte le auto),

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quello scelto in speciale considerazione (i cani marroni, le auto giapponesi), e, per una sorta di effetto d'ombra, l'insieme che resta (il cosiddetto «complemento», cioè i cani non marroni, le auto non giapponesi). Infatti, se dico che le auto giapponesi sono di alta qualità, e che molti cani marroni sono cani da caccia, implicitamente io dico anche qualcosa sulle auto di altra provenienza, sui cani di altro colore. Tanto è vero che si riesce facilmente ad usare «in positivo» un aggettivo per lasciar intendere qualcosa di negativo sul resto. «Mi piacciono le opere ben eseguite» dice qualcosa anche sulle opere non ben eseguite. Lascio intendere che quelle, invece, non mi piacciono. Non ho detto che mi piacciono solo le opere ben eseguite, ma ho detto qualcosa di molto vicino. Una volta di più, ho costruito un'espressione che si lascia intendere così: se un'opera è ben eseguita, allora mi piace. E nel linguaggio corrente, a dispetto della logica pura (come abbiamo visto), tutti intendiamo che, se un'opera non è ben eseguita, allora non mi piace. Gli aggettivi consentono, quindi, di dire qualcosa su tre insiemi diversi in un solo colpo. Facciamo tesoro di questa riflessione. L'ombra portata può allargarsi ulteriormente, fino a coprire insiemi ancora più vasti. Una grande farfalla bianca è bianca come lo sono tutte le cose bianche, ma non è certo un oggetto grande in assoluto. Tutti capiamo che è grande per essere una farfalla. Avrà, che so io, un'apertura alare di cinque centimetri. Non è certo grande come lo è un elefante, o un ippopotamo. t bianca come lo sono gli animali bianchi, come una pecora, un cigno e un orso polare. Non essendo, però, un animale grande, il metro di misura resta implicitamente fissato entro l'insieme delle farfalle, il quale a sua volta rimane nella frangia piccola degli animali in genere. Questo è un caso semplice in cui si constata che espressioni come «una grande farfalla bianca» introducono anche un insieme di livello più generale: quello di tutti gli animali. Analogamente, un carbone chiaro può ben essere un oggetto, in assoluto, assai scuro. E' solo chiaro «in quanto carbone». I linguisti si occupano di questi casi per meglio capire le gherminelle nascoste negli anfratti delle lingue, ed è così che hanno potuto mettere in evidenza, per esempio, come certi usi degli aggettivi sottintendono proprio il nostro famigerato «se..., allora ... », e come diversi ordini di nomi e aggettivi creano presupposti diversi. Possiamo subito vedere come questi fatti si ripercuotono sulle nostre esistenze quotidiane. «Un onesto deputato socialista» non è la stessa cosa di «Un deputato socialista onesto». C'è anche una certa differenza tra «Mario è un bravo avvocato», e «Mario è un avvocato bravo». Si tratta, certo, di sfumature, inezie, lievi accentuazioni, ma tutt'altro che insignificanti. Se si considera la differenza tra «Schultz è un nazista presunto» e «Schultz è un presunto nazista», subito avvertiamo una forza diversa. Nel primo caso è più facile negare che lo sia. t quasi come se si sottintendesse «solo» presunto. Nel secondo, è quasi come se si sottintendesse «almeno» presunto. I presupposti sono diversi e lo si avverte. Una combinazione di due aggettivi crea spesso effetti complessi e interessanti. Una potente auto tedesca è innanzitutto tedesca, e in seconda istanza potente. Nell'insieme di tutte le auto io ho prima selezionato quelle tedesche, poi, tra queste, ne ho selezionata una potente. Uno dei due presupposti è sempre più forte dell'altro. Costa meno sforzo, per così dire, contestare uno che non l'altro. Una brava pianista bionda è una persona che è innanzitutto pianista, in seconda istanza brava e in terza bionda. Invece, una bionda pianista brava è sempre innanzitutto una pianista, ma ora in seconda istanza bionda e in terza istanza brava. t un po' come gli strati di una cipolla, li togliamo via uno dopo l'altro. Dato che niente suggerisce che le buone pianiste siano più frequenti tra le bionde che tra le brune, né che le bionde siano più frequenti tra le pianiste capaci che tra quelle incapaci, i due aggettivi non si condizionano l'un l'altro ulteriormente. Le cose cambiano, però, se io parlo di una brava pianista bambina, di una bambina brava pianista e di una brava bambina pianista. Oltre allo sfogliar strati di cipolla, adesso l'ordine tra nome e aggettivi crea dei condizionamenti interessanti, come già visto nel caso della grande farfalla bianca. Si crea una base di riferimento, entro un'altra base di riferimento più generale.

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Seguiamo la logica degli aggettivi fino al suo punto di rottura. Un cane marrone, come dicevamo, è un cane, ma non altrettanto vale per un finto Stradivari, una pistola giocattolo, un presunto comunista (con buona pace del senatore McCarthy). Qui l'aggettivo blocca il meccanismo normale di presupposizione. 0 almeno dovrebbe. Un finto Stradivari non è uno Stradivari, un presunto colpevole non è (o comunque può non essere) un colpevole. L'arte della persuasione consiste spesso nel navigare sapientemente tra questi presupposti, presentandoci dei presunti colpevoli come se fossero dei cani marroni, escogitando espressioni che innescano nella nostra mente il riflesso normale, quello di presupporre come vero qualcosa che, invece, dovrebbe essere messo in discussione fin dall'inizio. Lo abbiamo visto nel caso di McCarthy. Nelle lingue, questo gioco di incastri è di vitale importanza. I logici puri hanno armi affilate per rendere perfettamente trasparenti queste implicazioni e queste presupposizioni, ma non sempre le loro formule cristalline rendono perfettamente conto di ciò che avviene nelle nostre teste quando parliamo e ascoltiamo. 8.6. La congiunzione, ovvero, modi di accostare La congiunzione «e» sembra semplicemente mettere accanto. Però, il potere di accostamento della particella «e» nell'espressione «Ho visto un film e un documentario» non è lo stesso che ha nell'espressione «Ho mangiato pane e salame». Mentre si esclude che il film e il documentario siano stati proiettati simultaneamente sullo schermo, capiamo benissimo, invece, che ogni singolo boccone conteneva insieme sia pane che salame. Un primo ministro francese, qualche anno fa, suscitò un putiferio quando condannò un sanguinoso attentato a una sinagoga di Parigi dicendo che erano rimasti uccisi «degli ebrei e delle persone innocenti». La comunità israelita (ma non solo questa) protestò vigorosamente. Forse che gli ebrei non sono persone innocenti? Rimpianse, certo, di non aver detto: «degli ebrei e altre persone innocenti». Un effetto perfettamente simmetrico lo ha ottenuto il linguista americano George Lakoff, quando ha recentemente pubblicato un libro dal titolo Women, fire and dangerous things. Nell'introduzione, si dilunga sul tranello in cui molti cadono, interpretando il titolo come «le donne, il fuoco e altre cose pericolose». Il titolo, invece, non dice questo. Il tranello da lui teso ad arte gli dà l'occasione di dilungarsi sulle interazioni tra sintassi, semantica, memoria e pregiudizi culturale e sociali. Restai piuttosto scettico sull'efficacia di questa sua gherminella, forse perché Lakoff è campione di un'impostazione pesantemente pragmatica della linguistica che non condivido affatto. Ho dovuto presto ricredermi (sul titolo, si badi bene, non sul contenuto del libro). Ho sentito veramente più volte varie persone, in perfetta buona fede, citare quel titolo proprio come anticipato dall'autore: Women, fire and other dangerous things. Una collega linguista (una donna, si noti) trovò strana la mia divertita reazione, insistendo che quello era proprio il titolo. Dovetti andare a prendere il libro e mostrarglielo, per persuaderla. Spaventa un po' il sospetto che, se uno avesse detto a voce, in una conversazione, «le donne, il fuoco e cose pericolose», e per caso diventasse cruciale in un processo ricostruire cosa esattamente aveva detto, più di un testimone giurerebbe e spergiurerebbe, in perfetta buona fede, di avergli sentito dire «le donne, il fuoco e altre cose pericolose». Infatti, negli ultimi anni, si è sviluppata tutta una branca della psicologia cognitiva applicata ai meccanismi delle testimonianze processuali, nella quale si sono messi in luce svariati meccanismi perversi di questo tipo. Perversi, però universali, inconsapevoli e quindi «innocenti». Ritorneremo sul tema della persuasione perversa (cap. 9). L'effetto ottenuto da Lakoff è interessante. La congiunzione «e», in quanto tale, astrattamente può accostare due cose qualsiasi, il grande con il piccolo, il nobile con l'ignobile. E interessante, però, che l'accostamento crea talvolta un'opposizione (come in «degli ebrei e delle persone innocenti»), talvolta un'aura di sottintesa comunanza. Restando sempre in tema, una scritta nei vecchi saloons

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del Far West diceva «Beware of pickpockets and loose women» (attenti ai borseggiatori e alle donne vaganti - leggi, di malaffare). Un vecchio tango argentino è ancora più spietatamente machista: descrive una balera come frequentata da «mujeres y malandrinos». La «semplice» congiunzione è spesso tutt'altro che innocente. Ha, infatti, curiose sfumature di significato, ben al di là della sua traduzione strettamente logica. Oscilla tra il semplice accostamento, l'accostamento con combinazione, l'accostamento per contrasto (come ben, apprese quel primo ministro) e la successione del prima e del dopo. t chiaro come intenda procedere chi dichiara: «Ora vado a casa e guardo la partita in televisione». Una coppia di fresca formazione fece sorridere gli amici quando, dopo un copioso pranzo, si congedò dal gruppo, lasciandosi sfuggire: «Ora andiamo a fare una siesta, e a dormire». Una volta udii una malevola comare correggere una sua amica. Questa aveva detto, riferendosi alla figlia di una comune conoscente: «Si è sposata e ha avuto un bambino». «No» rettifica, ammiccando, l'altra «ha avuto un bambino e si è sposata.» 8.7. Come mentire dicendo il vero Il candidato ha scritto nel suo compito di esame: «Alcuni triangoli sono tali che la somma dei loro angoli interni è pari a un angolo piatto». L'esaminatore è sbalordito. «Allora me ne disegni uno nel quale la somma degli angoli interni non è uguale ad un angolo piatto.» Tutti i triangoli sono tali che la somma dei loro angoli interni è pari a un angolo piatto. Il candidato ha preso un grosso svarione e viene, diremmo giustamente, bocciato. Ma il fenomeno è curioso, da un punto di vista logico. Infatti, se è vero che tutti i triangoli hanno una certa proprietà, allora deve essere vero, ineluttabilmente, anche che alcuni di essi hanno quella proprietà. L'inverso non vale, ovviamente. Da «alcuni» non si può, in generale, passare a «tutti», ma da «tutti» si può sempre passare ad «alcuni». Tutti implica logicamente alcuni, come esige la logica pura. Ciò che è vero di tutti i membri di un insieme, deve per forza essere anche vero di alcuni tra questi. Lo studente viene bocciato, in sostanza, per aver affermato una conseguenza logica ineluttabile di un fatto che si sa essere vero universalmente. Un altro professore legge in un compito di esame di storia: «Napoleone è morto dopo il 1700». Giù una bocciatura, esattamente per la stessa ragione. Eppure il 1821 viene dopo il 1700. Anche questo immaginario studente viene bocciato per aver affermato qualcosa che, logicamente, è una conseguenza inesorabilmente vera di qualcosa che il professore riconosce essere vero (che Napoleone è morto il 5 maggio 1821). Tutti intuiamo cosa sta succedendo. Una volta di più, tra le leggi della logica e le nostre presupposizioni del parlare comune c'è un conflitto. Nel parlare comune, quando si dice «alcuni» si lascia intendere che non si vuole dire «tutti», e quando si dice «dopo il 1700» non si lascia certo intendere che si vuole dire oltre un secolo dopo. Un giudice può ben incriminare per reticenza, o perfino per falsa testimonianza, il teste che affermasse sotto giuramento di aver visto rientrare a casa l'imputato «dopo le nove della mattina», quando si può dimostrare che rientrò alle undici di sera, e che il teste lo sa benissimo. Così come può incriminare il teste che afferma di aver accertato un ammanco di cassa di «oltre un milione», quando si sa per certo che l'ammanco era di due miliardi e mezzo, e che il teste ne era perfettamente a conoscenza. Eppure le undici di sera sono «dopo le nove di mattina», così come due miliardi e mezzo sono «più di un milione». Nel linguaggio ordinario, ma non nella logica pura, un'affermazione dimostrabilmente vera, conseguenza di un'altra affermazione, pure vera, può essere falsa. 0 comunque avere lo stesso ruolo di una falsità. Può comportare una condanna per falsa testimonianza, una bocciatura in un esame, un licenziamento. Qui, in effetti, siamo in pieno territorio della pragmatica, al di fuori di quello della logica e perfino di quello della sintassi e della semantica. Ma ci sono, anche in questo territorio, dei principi universali, validi per tutti, in tutte le lingue, in tutte le situazioni, senza che nessuno ce li abbia mai insegnati. Gli usi del linguaggio ordinario contemplano quel famoso principio sottinteso di massima informatività. Per effetto delle regole tacite della pertinenza, si

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presuppone che si sia sempre massimamente informativi. Se si dice «quasi tutti», non si vuole lasciare intendere «tutti». Né si può dire «oltre venti» per dire «mille». Questa è un'altra regola che tutti sappiamo d'istinto. In gergo tecnico, queste relazioni si chiamano «implicature scalari», in quanto sussistono, appunto, una scala (nell'ordine, si procede cosi: tutti, la maggior parte, alcuni, solo uno, nessuno) e delle implicazioni sottintese, diverse a seconda di quale «gradino» della scala noi usiamo. «Dopo le nove della mattina» significa un'ora imprecisata tra le nove e le dieci, forse tra le nove e le undici, forse perfino tra le nove e mezzogiorno, ma non certo le undici di sera. Dicendo «oltre un milione» si lascia intendere, e si sa di lasciare intendere, una cifra imprecisata tra uno e due milioni, forse tra uno e tre milioni, forse perfino tra uno e dieci milioni, ma non certo due miliardi e mezzo. Per come vanno le cose nel mondo, e per come noi tutti usiamo il linguaggio, a dispetto della logica pura, quei professori, quel giudice, hanno ragione di agire come agiscono. Sarebbe sleale, truffaldino e possibile causa di gravi responsabilità, dire, per esempio, a uno straniero che non sa nulla di Trieste, che quella città ha «più di mille abitanti», o a un ragazzino poco cosciente del valore monetario degli oggetti, che il capolavoro di Giotto esposto in quel museo costa «più di dieci milioni». Ambedue queste affermazioni sono «vere» in senso assoluto, ma false alla luce delle regole della pertinenza. Ben conoscono, implicitamente almeno, le «implicature scalari» quei venditori che sbandierano negli annunci una cifra bassa preceduta dal fatidico: «A partire da ... ». Nel vendere automobili, imbarcazioni, vacanze o appartamenti, questa formula è astutamente molto usata. Si gioca proprio sull'ambiguità tra la verità letterale e il principio tacito di massima pertinenza. Si dice «a partire da» una cifra bassa, ma si lascia imprecisato «fino a» quale altra cifra può arrivare il prezzo reale, lasciando sornionamente intendere che la cifra reale non sarà mai «troppo» superiore a quella di base. Qualche anno fa, vagamente attratto dal prezzo di base, reclamizzato a tutta pagina su un quotidiano, e non poi così elevato, di una marca di auto tedesche di lusso, andai ad informarne. Ebbene risultò che quasi tutto era un extra, dal bracciolo del guidatore al contagiri, dalla quinta marcia ai vetri elettrici, dall'iniezione elettronica ai fari antinebbia. «Ebbene», dissi, «in tal caso mi interesserebbe, semmai, il modello base, quello senza nessun extra, proprio nessuno.» La risposta fu che, in pratica, non esisteva. Bisognava ordinarlo apposta e aspettare un tempo imprecisato. Naturalmente, erano disponibili subito modelli carichi di extra, che quasi raddoppiavano il prezzo base, tanto reclamizzato. Ne fui indispettito e feci presente al venditore che trovavo disonesto far stampare quel tipo di réclame. Mi rispose, candidamente, che risultava molto efficace. Non erano così rari i visitatori che finivano per acquistare i modelli carichi di extra. Ripensai a questa mia ingenuità quando cominciai ad interessarne ai rapporti tra persuasione e contrattazione (v. cap. 4). 8.8. Uno sguardo d'insieme: retorica versus emoglobina I trattati di retorica si dilungano su complesse e intricate costruzioni linguistiche, con nomi terrificanti (litote, endiadi, catacresi, ipallage, ossimoro, e così via). Le elencano e ne danno esempi, in genere tratti dai virtuosismi dei Grandi Autori. Perché una certa architettura linguistica inneschi in noi un certo effetto (meraviglia, ironia, scetticismo, sdegno ecc.) non viene mai spiegato. Lo si mostra, ma non lo si spiega. Da tutto ciò che abbiamo appena visto, parlando non di complesse architetture, ma di mattoni, travi e architravi, si intuisce quanto sia già difficile spiegare gli effetti linguistici più elementari. L'effetto creato dall'ordine degli aggettivi e dei nomi, per esempio, fa intervenire concetti linguistici di grande astrattezza e principi sintattici che spazientirebbero il lettore non «addetto ai lavori» dopo mezza pagina. Come mai, allora, funzionano in noi? La ragione è semplice. Non dobbiamo pensare ai trattati sulla retorica, ma piuttosto ai trattati sulla digestione, o sulla respirazione. Il lettore (spero)

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digerisce benissimo ogni sorta di cibi, pur senza sapere un'acca delle lipasi, delle pancreasi e della curva di Micaelis-Menten (la chiave di volta delle reazioni enzimatiche). E certamente respira benissimo, ignorando la struttura tetramerica dell'emoglobina, la teoria delle transizioni allosteriche e l'effetto Bohr. Anche mezza pagina di un trattato che spiegasse queste nozioni lo (o la) annoierebbe mortalmente (a meno, ovviamente, che non sia medico, fisiologo o biochimico). La nostra comprensione del linguaggio è, insomma, «tacita», cioè avviene senza che ci rendiamo conto di come avviene. Nelle parole del linguista Noam Chomsky: «E qualcosa che ci succede, non qualcosa che noi facciamo». In questo senso, è come la digestione e la respirazione. Anche le costruzioni sintattiche più elementari, nel suscitare in noi certi effetti di comprensione e di persuasione, agiscono sempre attraverso meccanismi complessi, universali, inconsapevoli e di immancabile effetto. Una frase apparentemente semplice può arrivare a mobilitare «riflessi» mentali che possono solo venir pienamente spiegati sulla base di teorie di grande astrattezza. Per rendercene conto, pensiamo a una frase come «La moglie di Gianni avrebbe potuto essere la sua migliore amica». Questo può voler dire due cose: (1) Gianni avrebbe potuto sposare una donna che era, al momento della decisione di Gianni di sposarsi, la sua migliore amica, ma questo non è avvenuto; oppure: (2) La moglie di Gianni avrebbe potuto essere per lui il migliore degli amici, ma questo non è avvenuto. Basta poco per trasformare la nostra frase in una simile, ma non ambigua, cioè una che significhi solo (1), ma non (2), oppure una che significhi (2), ma non (1). Come mostrato recentemente dal linguista e logico americano James Higginbotham, una spiegazione completa e soddisfacente, in dettaglio, di come queste costruzioni riescano a convogliare nella nostra mente l'uno o l'altro di questi significati (sia nel caso ambiguo che nei casi non ambigui), richiede di sparare insieme con le batterie della teoria più avanzata della sintassi e con i cannoni della logica modale più raffinata. Anche intuitivamente, ben si capisce che, in un caso, si «fissa» con uno spillo mentale «la sua migliore amica» nel mondo reale, e si esplorano con il pensiero vari mondi possibili, in ciascuno dei quali «la moglie di Gianni» è una persona diversa, mentre nell'altro si fissa con uno spillo «la moglie di Gianni», e si esplorano mondi possibili nei quali varia «la sua migliore amica». «Avrebbe potuto essere» significa che in questa sorta di «missione impossibile» del nostro pensiero, scopriamo veramente un mondo nel quale queste due figure sono la stessa persona, ma questo mondo non è quello della realtà, e oramai non c'è più niente da fare. Questo, si badi bene, così come l'ho appena detto, non è la spiegazione di come noi tutti, inconsapevolmente, facciamo lavorare la testa per capire quella frase. E' solo una sintesi brutale e molto approssimata. La spiegazione vera, presupponendo che uno già abbia grande familiarità con la teoria sintattica avanzata e con la logica modale, riempirebbe una ventina di dense pagine molto tecniche. E questo non è affatto eccezionale. Si tratta di un esempio tra tanti. Torna, quindi, che i classici trattati sulla retorica semplicemente dessero per scontato tutto questo, senza nemmeno rendersene conto, e si limitassero ad allestire, in vetrine apposite, un piccolo museo di effetti retorici globali, dando loro solo certe etichette raffinate. La differenza tra quei trattati e le scienze cognitive odierne è un po' quella che intercorre tra quei plastici del polmone intero esibiti nei gabinetti scientifici delle scuole e il modello computerizzato di una singola molecola di emoglobina, con le distanze esatte e i precisi angoli di legame tra migliaia di atomi. Si respira benissimo senza aver mai visto né l'uno, né l'altro. Ma, in caso di insufficienza respiratoria, sarà consigliabile consultare un fisiologo qualificato, per il quale la molecola di emoglobina non ha alcun mistero. capitolo 9... La persuasione perversa... La lingua inglese è ricca di verbi che descrivono tipi molto specifici di moto

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(spin, swirl, tumble, wobble, coil, curl ecc.). In italiano occorrono perifrasi intere per tradurli. Tanto è vero che a volte li adottiamo tali e quali, come quando in fisica si parla dello spin di un elettrone. A metà strada tra uno di questi verbi tradizionalissimi e il nuovo gergo dell'informatica c'è il termine toggle. Si preme un tasto, e questo resta in una posizione abbassata, attivando qualcosa. Lo si preme di nuovo e ritorna nella posizione iniziale, disattivando quello che aveva attivato. E così via. Ecco in che cosa consiste un toggle. I personal computer possiedono spesso un toggle che inverte il colore del fondo con quello del testo. Premo, e ho caratteri bianchi su fondo nero. Premo di nuovo, e tomo ad avere caratteri neri su fondo bianco. Ebbene, questa idea del Toggle è per noi vitale nell'accostarci ai processi di persuasione perversa. 9.1. Toggle, toggle Immaginiamoci di avere una serie di tasti a toggle, e di azionarli uno dopo l'altro per invertire le classiche componenti della persuasione. Facciamolo e vediamo cosa succede. Per semplicità indicherò con T (per toggle) questa azione di inversione, e con E il suo effetto, illustrato da un caso specifico. Il segno $ dovrebbe dare l'idea del tasto da schiacciare. T $ Il contrasto tra detto e non detto. E: Un Lord inglese si trovò obbligato, per doveri familiari e di casta, a raccomandare un parente, che detestava, per un alto incarico. La sua lettera di raccomandazione fu questa: «Lo tengo in grande stima perché è persona di assoluta puntualità e ha, inoltre, una bellissima calligrafia». T $ La comprensione del messaggio. E: Un professore di matematica dell'università di Firenze, illustre studioso di geometria proiettiva, volle spiegare a una studentessa di liceo, figlia del suo portiere, il raffinato concetto di «punto all'infinito». Nel piano della geometria proiettiva (più astratto del semplice piano, quello ordinario, contemplato dalla geometria euclidea) tutte le rette parallele che hanno in comune una certa direzione hanno in comune un «punto all'infinito». Ogni direzione ha un «suo» punto all'infinito, tanto che le infinite direzioni possibili nel piano individuano un «cerchio all'infinito». Al liceo, naturalmente, queste cose non si insegnano, tanto è vero che la definizione di rette parallele dice «non si incontrano mai». Fiera di questa lezione, appresa da un importante professore, la ragazza scrisse in un compito: «Due rette si dicono parallele quando non si incontrano mai al liceo, mentre invece si incontrano all'università». T $ Rapporto tra argomentazione addotta ed effetto sul destinatario. E: Una strip della brava disegnatrice francese Claire Brétecher, le cui spassosissime vignette sul settimanale di sinistra «Le Nouvel Observateur» avevano sempre come bersaglio proprio i tic e i manierismi del suo pubblico, cioè della sinistra intellettuale degli anni post-sessantotto. Si vede una giovane mamma che accudisce, disfatta, un pupetto frignante. Suona il campanello, ed entra l'amica. Elegantissima, snobissima, esagitata. «Come sei fortunata» esordisce «a potertene stare tranquillamente a casa con il tuo delizioso bambino! Proprio fortunata!» E infilza una serie di racconti dei «supplizi» della vita mondana che a lei, invece, tocca subire. Il cocktail dall'editore di grido (una barba, figurati), l'inaugurazione della mostra d'arte con tutte le star del momento (una bolgia, davvero), gli alti e bassi dei suoi week-end esotici con i suoi numerosi spasimanti. Sospira di nuovo: «Beata te!». Poi saluta freneticamente e sparisce da dove era entrata. La mammina guarda il fantolino sempre frignante, guarda la pattumiera... E ce lo scaraventa dentro.

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T $ Affermazione e negazione. E: Lo psicologo Philip Johnson-Laird si trovò, qualche anno fa, a dover scrivere, per il prestigioso settimanale scientifico «Nature», la recensione di un libro che reputava disastroso. Sentendosi molto, molto cattivo, ci inserì la seguente frase: «Questo libro colma una necessarissima lacuna ( fills a much-needed gap ) nella produzione scientifica del settore». Negli ambienti accademici, questa raffinata e perfida formula poi fece scalpore, ma mi dice Phil che sulle prime, a freddo, molti colleghi lo rimproverarono, persuasi che avesse detto... un gran bene di quel libraccio. (Era comprensibilmente stupefatto: «Un gran bene!? Ma leggete quello che ho scritto! "Una lacuna necessarissima!».) T $ Obiettivi e motivazioni. E: Lo slogan, molto persuasivo, escogitato dalla Città di Milano proprio nei giorni in cui scrivo queste righe (Natale 1994). «A Natale siate avari, pigri, egoisti.» «Girate con i mezzi pubblici.» (Si potrebbe, senza molto sforzo, connettere questo toggle pubblicitario a un toggle politico, immenso: la nuova coscienza politica dell'Italia, smaniosa di «ribaltoni», spregiudicata, cinica ed egoista.) T $ Argomento e identità del destinatario. E: Nella scena finale del classico film di Marcel Pagnol La femme du boulanger (la moglie del fornaio), l'attempato fornaio, sant'uomo, accoglie amorevolmente la giovane moglie che era scappata con un bellimbusto, spezzandogli il cuore e rendendolo ridicolo di fronte all'intero villaggio. Non una parola di rimprovero, non una recriminazione. Riappare anche la gatta Pomponnette, dileguatasi per giorni. Il fornaio tiene a Pomponnette uno straziante e nobilissimo discorso, dando voce ai sentimenti del gatto Pomponet, abbandonato, umiliato, ma ora di nuovo felice e deciso a tutto dimenticare. La moglie del fornaio scoppia in un pianto dirotto e giura di non andarsene mai più. (Qui il toggle più che «invertire», crea un effetto obliquo.) T $ Soggetto e predicato. E: Il presidente John Fitzgerald Kennedy, nel suo discorso di inaugurazione: «Non chiedete che cosa questo Paese può fare per voi, ma piuttosto cosa voi potete fare per questo Paese». Qualche mese dopo, per giustificare la sua ardita apertura di dialogo con il blocco dell'est: «Non dobbiamo mai negoziare per paura, ma non dobbiamo mai aver paura di negoziare». Un toggle sintattico analogo viene usato da un movimento di recente formazione, che si oppone agli interventi chirurgici mutilanti nella cura del cancro: «Non si tratta di aggiungere anni alla nostra vita, ma piuttosto di aggiungere vita ai nostri anni». Aristotele, nel suo trattato sulla retorica, racconta il seguente episodio: Ificrate, allorché si voleva costringere alle liturgie suo figlio che era ancora troppo giovane di età, per il fatto che era grande, disse che se si considerano uomini i ragazzi grandi, si dovrà decretare che sono bambini gli uomini piccoli. 9.2. Un po' di teoria Qualsiasi teoria della persuasione dovrebbe poter spiegare come mai, a dispetto di «inversioni» come queste, il processo di persuasione (o comunque un processo di persuasione) ha successo. In qualche caso agiscono in noi quelli che in un mio precedente libro ho chiamato i «tunnel della mente», ovvero le illusioni cognitive. L'errore sistematico sul titolo del libro di Lakoff (v. par. 8. 6) (che diventa Women, fire and other dangerous things), così come il quiproquo sulla frase di Johnson-Laird («colmare una necessarissima lacuna» interpretato come un... complimento!) si

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spiegano in termini di un inconscio cognitivo che agisce a nostra insaputa. I nostri riflessi linguistici sono potenti e del tutto inconsapevoli. A volte ci giocano strani tiri. Un altro caso ben noto, analogo a quello della frase di Johnson-Laird, è l'espressione inglese «No eye injury is too trivial to ignore», che tutti, proprio tutti, interpretano come un possibile buon slogan pubblicitario per un ambulatorio oculistico. Istintivamente, di riflesso, la si legge infatti così: «Non bisogna mai trascurare una lesione oculare, per quanto insignificante essa possa sembrarci». Invece, se meglio analizzata, vuoi dire esattamente l'opposto: «Bisogna sempre trascurare una lieve lesione oculare». Troppe negazioni confondono. Infatti, too... to... è una formula di negazione, come in too good to be true troppo buono per essere vero. Ma ha effetto negativo anche l'aggettivo trivial. E due negazioni, come ben noto, valgono un'affermazione. Con effetto negativo c'è poi il verbo ignore, quindi, con il no iniziale si hanno ben quattro negazioni. La frase complessiva, anche se noi non lo vediamo, in realtà, vuol dire l'opposto di quello che a noi sembra. (Per inciso: Chi ancora sostiene che il significato è l'uso - v. par. 8. 2 - dovrebbe ben riflettere a casi come questo!) La nostra macchina automatica di interpretazione delle frasi procede sempre a testa bassa, incurante delle eccessive sottigliezze logiche, e prende talvolta dei solenni svarioni. Torniamo al caso di Johnson-Laird. Colmare una lacuna è, in sé, un fatto positivo. L'aggettivo «necessarissima», che dovrebbe invertire l'effetto e trasformarlo in un giudizio negativo, viene automaticamente associato al fatto di averla colmata, non alla lacuna stessa. Fills a much-needed gap (colma una necessarissima lacuna) viene mentalmente invertito, anzi pervertito, dandoci: «colma una lacuna, compiendo così un'azione di cui si aveva grande bisogno». E il giudizio viene interpretato come una lode al libro. Questo, e il titolo del libro di Lakoff, sono due esempi tra i più chiari e noti di effetti di persuasione perversa dovuti ai nostri «riflessi» linguistici sotterranei. Sottili effetti linguistici, in questo caso non proprio perversi, sono anche alla base dell'efficacia argomentativa (e estetica) delle formule alla Kennedy, nelle quali si invertono soggetto e predicato. Tali effetti sono stati recentemente sviscerati dal linguista italiano Andrea Moro. Detto molto semplicemente, in una frase come «La causa della rivolta furono le foto del muro di Berlino» si mette in risalto la forte asimmetria che esiste tra le due posizioni «la causa della rivolta» e «le foto del muro di Berlino». Parrebbe che venissero semplicemente rese «identiche» dalla frase, come in una formula matematica del tipo A=B. Ma la lingua non è la matematica, e le cose non stanno così. t interessante, e strano, infatti, che il soggetto al singolare «la causa» regga il verbo al plurale «furono», cioè che il verbo si accordi con «le foto», non con il soggetto. Tutti avvertiamo, senza rendercene conto, che c'è una sorta di inversione, come se il vero soggetto della frase fosse «le foto». Invertendo esplicitamente queste posizioni, una di seguito all'altra, come nelle frasi alla Kennedy, si rende vivo e pregnante il rapporto asimmetrico tra di loro. L'effetto estetico che ne consegue rafforza il concetto che si vuole esprimere, e colpisce l'immaginazione, oltre a colpire il nostro orecchio. Scendendo terra terra, ricordo lo spietato slogan che circolava anni fa a detrimento dei poveri boy-scout: «Sono dei bambini vestiti da cretini, guidati da un cretino vestito da bambino». Ebbene, tanto bastò a dissuadermi per sempre dal divenire «lupetto». In altri casi, come quello della spossata mammina della Brétecher, si assiste a un fenomeno di inversione ben descritto dal cosiddetto «modello di Simmel-Boudon»: un'argomentazione valida può ben essere la fonte di una credenza infondata (nel nostro caso, di una conclusione perversa), se l'interlocutore la combina con dei presupposti strani o perversi. La frustrazione della mammina è il presupposto «perverso» che traduce per lei in fantastiche opportunità di vita sociale le «frustrazioni» dell'amica. (La intera serie di vignette settimanali della Brétecher si intitolava, appunto, Les frustrés.)

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Anche il Lord inglese, si presume, contava molto sui presupposti dei suoi interlocutori affinché la sua «raccomandazione» venisse tacitamente invertita e presa per quello che era: una perversa caricatura di una «vera» raccomandazione. capitolo 10... Persuasione (e spersuasione) di massa... Ci siamo fin qui sempre mantenuti entro l'ambito della persuasione individuale. Tutto quanto abbiamo visto si applica ai processi psichici che la persuasione innesca nella mente del singolo. Ma un libro come questo, pur fedele all'impostazione «individualista» delle scienze cognitive attuali, non poteva chiudere senza almeno un cenno alla persuasione di massa. In fondo, lo studio scientifico a carattere sperimentale della persuasione (v. anche Appendice 1) registrò una svolta proprio negli anni intorno alla seconda guerra mondiale quando gli psicologi americani vennero investiti dal loro governo con il formidabile compito di spiegare il successo dei meccanismi di consenso messi in atto dai regimi totalitari. Forse il Giappone poteva ancora essere considerato un «continente» psicologico a sé stante, ma altrettanto non si poteva certo dire dell'Europa, luogo di origine della maggioranza degli americani, dove quasi tutti avevano qualche parente prossimo. La stabilità interna del nazifascismo, a un estremo, e dello stalinismo, all'altro, malgrado i terribili apparati repressivi messi in atto, non poteva essere spiegata solo con il terrore poliziesco. Era ovvio che moltitudini intere di gente comune, di «gente come noi», avevano volontariamente dato fiducia a quei regimi. Come era potuto avvenire questo? Lo si chiese innanzitutto ai politologi, ma anche agli psicologi. Nel dopoguerra, con l'insorgere della guerra fredda, il fascino esercitato dal comunismo si stava allargando a macchia d'olio e gli Stati Uniti, attraverso opportuni organi di propaganda e di informazione, ritennero indispensabile lanciare una capillare contro-offensiva culturale. Si mise in piedi una rete di fondazioni, riviste, case editrici, borse di studio, sovvenzioni a istituzioni e a singoli individui per cercare di contrastare l'ascendente intellettuale, allora fortissimo, della cultura di area marxista. La parte avversa, naturalmente, fece la stessa cosa. Il fronte culturale della guerra fredda mobilitò le armi di una persuasione contro quelle di un'altra persuasione, dando anche vita, per la prima volta nella storia, a un esercizio molto particolare: le campagne di spersuasione di massa, ben esemplificate da ciò che venne poi chiamato dis-informazione e contro-informazione. C'era anche di più, in quanto si dettero facciate culturali di comodo anche a operazioni con carattere decisamente spionistico. Ambedue le parti utilizzarono una buona dose di persuasione genuinamente perversa (v. cap. 9). In quegli anni, spesso, non si andava troppo per il sottile, prezzolando in segreto uomini e testate, talvolta perfino quelli ufficialmente schierati nel campo opposto. Giornalisti, scrittori, studiosi, opinion makers venivano assoldati per osservare e riferire, ma anche per pubblicare di tanto in tanto, dall'alto di un'autorità insospettabile, alcuni precisi interventi ad hoc, seguendo la logica politica, talvolta molto contorta, del momento. Tutto questo già allora lo si sospettava, ma i nomi e i cognomi sono poi emersi pubblicamente solo con la fine della guerra fredda. Non stupisce che, in tale clima, anche la psicologia accademica sia stata mobilitata, attraverso la creazione di istituti e cattedre di psicologia delle masse, psicologia della propaganda, psicologia della persuasione e del cambiamento di atteggiamenti. Alcuni risultati furono interessanti (v. Appendice 1), ma, una volta di più, noi qui ci inoltreremo in questo difficile territorio a modo nostro.

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10.1. Una scala per le moltitudini Una scala atta a misurare la forza persuasiva di un'argomentazione, una credenza, un'idea, o un'ideologia, sulle moltitudini, potrebbe basarsi su semplici dati demografici, combinandoli con la durata. Si potrebbe, per esempio, calcolare il numero di persone persuase e poi moltiplicare questo numero per la durata media nel tempo. Su questa semplicissima scala, il grado sommo sarebbe occupato senza alcun dubbio dalle grandi religioni, che hanno stabilmente persuaso milioni di persone, una generazione dopo l'altra, per molti secoli. Le ideologie politiche verrebbero subito dopo, un po' più in basso, in quanto riescono anch'esse a convincere milioni di persone, ma in genere solo per alcuni anni, tutt'al più alcuni decenni. Una misura assai più interessante si ottiene, però, combinando una scala demografico-temporale di questo tipo con la nostra scala di Mohs del primo capitolo. 'E molto più interessante, infatti, valutare complessivamente non solo quante persone sono state persuase, e per quanto tempo, ma anche a fare (o a non fare) che cosa. Il grado risulterà ora tanto più elevato quanto più sgradevole, ingrato, o addirittura doloroso, è ciò che le moltitudini dei convinti hanno liberamente accettato di fare (o quanto più piacevole sarebbe stato ciò a cui, invece, hanno liberamente rinunciato). Vogliamo veder primeggiare, su questa scala complessa della persuasione di massa, quell'idea che riesce a persuadere delle moltitudini a compiere quotidianamente, per lunghi periodi, intensi sacrifici, o azioni contrarie ai più elementari e naturali desideri. Parallelamente a questa dimensione di piacevolezza e spiacevolezza (che in gergo psicologico si chiamerebbe «edonica»), sarà importante anche misurare il grado di impervietà delle credenze che compongono l'ideologia in questione, cioè valutare quante persone sono state persuase, per quanto tempo, a credere in qualcosa di cui pur avrebbero dovuto registrare chiarissime, elementari, ripetute, incontrovertibili smentite. Non interessa qui veramente dare dei numeri esatti, ci basterà l'idea di fondo. Intuitivamente almeno, non ci sono dubbi che un'idea, o un'ideologia, che registri un alto valore in questa scala merita la palma della persuasione di massa. Sotto questa ottica, com'è giusto, le ideologie politiche «battono» (se così posso esprimermi) le grandi religioni. E questo è certamente un omaggio alle religioni. (Lascio qui da parte, per ragioni di spazio, di continua e caotica evoluzione, e di mia incompetenza in materia, il caso, pur oggi ben vivo alla nostra attenzione, degli integralismi religiosi che si fondono intimamente con un potere politico.) Almeno in Occidente, le religioni trasformano la vita quotidiana dei fedeli, ma quasi mai in modo troppo radicale, né, per loro stessa natura, fanno mai violenza alle nozioni del diritto naturale delle genti. Entro una stessa comunità geografica o etnica, le differenze comportamentali manifeste tra il credente e il non credente sono, in genere, minime. L'austero ascetismo di certi ordini monastici, la clausura, il voto di povertà e il voto di castità riguardano solo una infima minoranza di fedeli. Per la stragrande maggioranza, pur con differenze molto profonde nell'intimo delle coscienze individuali, la vita quotidiana si svolge normalmente. Al livello delle azioni quotidiane, è arduo riconoscere il fedele dall'ateo. Oltre alle pratiche del culto, che occupano, anche nei più pii, una piccola parte della giornata, le differenze riguardano periodiche astensioni da certi cibi, o la regolamentazione della sessualità. Si tratta, appunto, di differenze quanto mai discrete. Di regola, per sapere se uno è credente o meno, occorre chiedere esplicitamente, o aspettare che questi lo dichiari. Le vicende di Don Camillo e Peppone, immortalate da Giovanni Guareschi, mostrano quanto fossero profondamente simili, per abitudini, valori e comportamenti civici, il parroco e il sindaco comunista di una cittadina della bassa padana negli anni Cinquanta, a dispetto dello steccato religioso che li divideva. E' per noi decisivo, nella nostra scala della persuasione di massa, anche il fatto che le religioni non siano mai aperte a verifiche dirette, e quindi men che meno a smentite dirette. Né il fedele, né

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l'ateo, ricevono mai dalla realtà circostante segnali chiari, ripetuti, incontrovertibili. A differenza dei leader politici, quasi mai le autorità religiose si avventurano a fare previsioni specifiche a breve scadenza. Cercano piuttosto di trovare delicate conferme di carattere intimo, e di natura molto indiretta, facendo talvolta tesoro, cum grano salis, dell'eccezionale, del rarissimo, del miracoloso. L'intera vita del fedele, essendo centrata su certezze che riguardano il trascendente, l'ultraterreno, il non-parvente, si svolge senza che questi si imbatta né in conferme, né in smentite obiettive. Questo è nella natura stessa della religione. Si potrebbe sostenere che, al giorno d'oggi, richieda minor forza persuasiva suscitare una conversione religiosa che non far accettare la promessa di una riduzione del debito pubblico, quando tutti sanno che la spesa pubblica ha continuato ad aumentare negli anni precedenti, sotto lo stesso sistema, con la stessa politica. Infatti, a queste promesse dei capi politici la gente sta cominciando a credere sempre meno. Abramo Lincoln disse giustamente che si può arrivare a ingannare tutti per un po' di tempo, o alcuni per sempre, ma non tutti per sempre. Nella nostra scala, come adesso diremo, sono le ideologie totalitarie a segnare decisamente il punteggio massimo. Sono riuscite a imporsi all'opinione di intere nazioni, per lunghi decenni, costringendo a sacrifici quotidiani enormi, a dispetto di chiarissime e ripetute dimostrazioni che le loro argomentazioni e le loro previsioni erano radicalmente errate. Dobbiamo rallegrarci che alla fine siano poi crollate, ma si deve anche tener presente che hanno «tenuto», contro ogni ragione e ogni evidenza, per molti decenni. Conviene esaminare più da vicino un caso parossistico, sul quale sono state pubblicate assai di recente delle nuove, sconvolgenti testimonianze del tutto fidedigne. Sulla base di queste testimonianze, parrebbe proprio che il grado massimo nella nostra scala, nell'intero arco della storia mondiale, sia stato raggiunto dal presidente del Partito comunista cinese, Mao Zedong (o, come si scriveva un tempo, Mao Tze Tung). 10. 2. Mao super-persuasore In termini di numero di persone, possiamo ben approssimarci con la cifra (immane sotto ogni punto di vista) di seicento milioni. In termini di tempo, tra il 1949, anno dell'insediamento definitivo della Repubblica Popolare, e la morte di Mao (1976) corrono quasi trent'anni, un lasso di tempo molto lungo nella scala della vita umana. La combinazione bruta di persone e di tempo, quindi, è già da capogiro. Ma la misura diventa veramente astronomica quando si combinano queste cifre con la radicalità e l'intensità dei sacrifici che le politiche di Mao hanno imposto a questa sterminata popolazione. t l'intensità «edonica» negativa del maoismo che, moltiplicata per il numero di persone e per gli anni della sua durata, ci fa toccare la vetta. Basterà, in questa sede, soffermarsi su pochi dati salienti. Nessun regime politico era mai arrivato, per esempio, a proibire per legge di cucinare e consumare cibi nella propria abitazione, costringendo tutti indistintamente per anni a consumare i pasti sempre e solo nelle mense collettive. Né ha precedenti la costrizione di accudire per mesi e mesi un numero sterminato di fornaci sempre accese, gettandovi dentro ogni sorta di ferraglia, compresi gli utensili di uso comune, per ottenere metallo fuso inutilizzabile, di pessima qualità. Questo è quanto Mao impose alla Cina durante la collettivizzazione rapida. Il fine era, chissà perché, raddoppiare in un solo anno (tra il 1958 e il 1959) la produzione bruta (è proprio il caso di dirlo) di acciaio. Le fornaci restarono accese notte e giorno, nei cortili dei casamenti, nelle aie delle comuni, negli androni delle fabbriche, nei cortili delle scuole e degli ospedali. Perfino i chirurghi erano forzati a interrompere ogni tanto le operazioni per accudire la fornace dell'ospedale. Questi calderoni inutili furono incessantemente alimentati con combustibile improvvisato, comportando un disboscamento senza limiti, inghiottendo non solo migliaia di ettari di foreste, ma spesso anche mobili, porte e suppellettili, insostituibili e per molto tempo insostituiti.

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I sacrifici imposti dal regime maoista arrivarono a colpire perfino i rapporti sessuali tra marito e moglie, costringendo le coppie a vivere separate, salvo per la notte del sabato. Il di più rappresentava un grave crimine, chiamato «mettere il privato al di sopra della marcia verso il comunismo». Questo mentre Mao si portava a letto quasi ogni sera una fanciulla nuova, di età sempre minore man mano che lui invecchiava. Ultra-settantenne, arrivò a farsi simultaneamente «accudire» anche da cinque occasionali concubine nella stessa notte. La vera tragedia venne con la carestia del 1959-62, la peggiore della storia di questo pianeta, direttamente causata dalla politica di Mao. Una stima di minima parla di trenta, una stima di massima di quarantacinque milioni di morti. Altri milioni di sopravvissuti mostravano visibilmente i sintomi di edema da carenza nutritiva. Eppure, ufficialmente, si inneggiava ai trionfi della campagna del «Grande Balzo in Avanti», dichiarando sulla carta rendimenti agricoli doppi o tripli del massimo teoricamente concepibile per ogni pezzo di terra. Le assurdità delle dichiarazioni ufficiali trovavano ogni istante delle smentite, sotto gli occhi di tutti, in ogni parte del Paese, ma per la stragrande maggioranza dei cinesi, Mao restava ancora il Grande Timoniere, infallibile di fatto e di diritto. Dopo qualche anno, a partire dal giugno 1966, la cosiddetta Grande Rivoluzione Culturale Proletaria, personalmente istigata da Mao e capitanata da sua moglie Jiang Qing, che trovò anche qui da noi (non scordiamocelo) ferventi propugnatori e imitatori, distrusse sistematicamente non solo la massima parte del patrimonio librario, artistico e architettonico di quella antichissima civiltà, ma perfino la maggior parte delle catene di produzione, delle fabbriche, degli ospedali, delle scuole, delle università. Per oltre tre anni, in Cina regnò il caos e la violenza delle bande adolescenziali (le famigerate Guardie Rosse, direttamente sottoposte agli ordini di Mao, di Jiang Qing e di Lin Piao). Per tre anni nessun bambino cinese andò a scuola. 0, comunque, se ci andò, non fu per imparare. Interminabili giornate di insulti e di percosse agli ex insegnanti (molti dei quali finirono per suicidarsi) e il salmodiare martellante delle citazioni di Mao presero il posto dell'istruzione, ad ogni grado e livello. Il pensiero di Mao divenne l'unica forma di cultura e di intrattenimento consentiti. Irradiato da altoparlanti, trasmesso via radio, stampato sui giornali, cantato in coro, mimato, sceneggiato, tradotto in sciarade e indovinelli, il pensiero di Mao pareva fisicamente aleggiare su tutta la Cina. Perfino questa barbarie culturale impallidisce, su una scala di valori umani, di fronte alle moltitudini di vittime delle Guardie Rosse, di fronte alle sofferenze, alle torture, alle deportazioni, ai suicidi e alle esecuzioni sommarie di chi veniva arbitrariamente bollato come «controrivoluzionario». Quando Mao dichiarò che esisteva ancora, nonostante tutto, un 15 per cento di reazionari e nemici del popolo, ogni comune, ogni fabbrica, ogni reggimento, ogni scuola si senti in obbligo di denunciare e inviare nel gulag cinese, appunto, una quota del 15 per cento dei propri membri. Molto spesso i denuncianti sapevano benissimo di sacrificare degli innocenti, ma bisognava pur rispettare la «quota» indicata da Mao. Essendo la nostra una scala della persuasione, ci interessa qui non tanto quello che passava nella testa delle vittime, del resto facilmente intuibile, ma piuttosto quello che passava nelle teste delle moltitudini dei loro persecutori. Ci interessa la «forza» persuasiva del pensiero di Mao. Capire questa forza significherebbe trovare la chiave del pensiero politico più persuasivo che il nostro pianeta abbia mai visto (e, speriamo, mai vedrà). 10. 3. L'ultimo imperatore I contenuti del pensiero politico di Mao, come alcuni di noi ben ricordano, erano molto miseri. Gli aforismi di Mao, contenuti nel celeberrimo «libretto rosso», erano soprattutto una sequela di luoghi comuni e di metafore. In alcuni si stenta a riconoscere non solo una parvenza di argomentazione, ma perfino delle proposizioni di senso compiuto, insomma qualcosa di cui si potesse dire che era vero, o che era falso. Ecco alcune perle dal «libretto rosso»:

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Tutto ciò che è reazionario è identico: se non si colpisce, è impossibile farlo cadere. E' come quando si spazza: là dove non passa la scopa, la polvere non se ne va mai da sola. La rivoluzione non è un pranzo di gala; non è un'opera letteraria, un disegno, un ricamo; non la si può fare con altrettanta eleganza, tranquillità, delicatezza, o con altrettanta dolcezza, gentilezza, cortesia, riguardo e magnanimità. La rivoluzione... è un'insurrezione, un atto di violenza con il quale una classe ne rovescia un'altra. Suonando il piano, tutte e dieci le dita sono in movimento; non è possibile muovere solo alcune dita e le altre no. Ma se le dieci dita toccano i tasti contemporaneamente, non si avrà melodia. Per ottenere della buona musica, le dieci dita devono muoversi in modo ritmico e coordinato. Un comitato di Partito deve prendere saldamente in mano il suo compito centrale e, contemporaneamente, intorno al compito centrale, sviluppare il lavoro in altri campi. Attualmente dobbiamo occuparci di molti campi... Ovunque ci sia un problema bisogna metterci mano; questo è un metodo nel quale dobbiamo divenire maestri. Alcuni suonano bene il piano, altri male, e le melodie che essi ne traggono sono ben diverse. I compagni dei comitati di Partito devono imparare a «suonare il pianoforte» bene. Per acquistare delle conoscenze, bisogna partecipare alla pratica che trasforma la realtà. Per conoscere il gusto di una pera, bisogna trasformarla mangiandola... Per conoscere la teoria e i metodi della rivoluzione, bisogna prendere parte alla rivoluzione. Tutte le vere conoscenze provengono dall'esperienza diretta. La forza persuasiva non è, quindi, da cercare in quello che Mao diceva, ma nel fatto che fosse lui a dirlo. La vera chiave era il suo immenso ascendente personale. Il medico di Mao, Li Zhisui, racconta che stringere seppur fugacemente la mano di Mao rappresentava per un contadino, un operaio, un modesto funzionario di partito, l'evento culminante della vita. Per settimane intere, la mano che aveva stretto quella del Grande Timoniere non veniva lavata. Familiari, amici e conoscenti si accalcavano a toccarla, stabilendo così un magico flusso con il capo carismatico. Un semplice frutto (per esempio un mango) ricevuto in dono da Mao in persona, o anche attraverso intermediari, veniva di norma bollito in un grande calderone e decine di persone poi facevano ressa per bere un sorso di quel liquido portentoso. Oppure veniva posto su un altare, di fronte al quale sfilavano inchinandosi ogni giorno decine, o centinaia, di persone. Ogni anno, per la rituale sfilata del Primo maggio sulla piazza Tienanmen, centinaia di migliaia di studenti, operai, contadini e funzionari intraprendevano interminabili e disagevoli viaggi, e passavano poi la notte in bivacco sulla piazza, nella speranza di vedere Mao da lontano, per un istante. Poco stupisce che quasi nessuna, tra le centinaia e centinaia di ingenue fanciulle invitate ad «accostarsi» a Mao, abbia rifiutato tale sommo onore. La sua forza di persuasione, quindi, è da cercare interamente nel suo carisma, in un culto della personalità che forse non ha precedenti nella storia, e che riesce a far impallidire perfino quello riservato a Stalin. Ma il carisma personale di Mao non è una vera spiegazione. Va a sua volta, in qualche modo, spiegato. La Cina era da secoli avvezza a venerare un imperatore, e non c'è dubbio che Mao divenne, a tutti gli effetti, l'ultimo imperatore della Cina. Lui stesso, sempre secondo la testimonianza di Li Zhisui, in privato, godeva nell'immedesimarsi in questo ruolo, certo assai poco «rivoluzionario». Passava intere giornate a leggere la storia degli antichi imperatori cinesi, sviluppando una speciale simpatia per i più feroci e i più sanguinari. Nella mentalità collettiva pre-esisteva, quindi, questo ruolo, questa nicchia, che Mao semplicemente (se così si può dire) e scientemente riempì.

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A questa sacralità di puro ruolo si aggiunse il carisma che appartiene da sempre, e ovunque, al condottiero militare vittorioso, in particolare a un liberatore della nazione, e in questo caso a un capo ex ribelle venuto su dal popolo (anche se, in effetti, Mao era figlio di proprietari agricoli abbienti). Le vicende della Lunga Marcia e la sanguinosa, eroica guerriglia combattuta dai comunisti contro l'esercito nazionalista del Kuomintang erano diventate leggenda, conferendo a Mao e ai suoi luogotenenti un'aura di invincibilità. Ma c'era anche una parte di giustificazione obiettiva. All'inizio, cioè fino alle follie del Grande Balzo in Avanti del '58-60, il regime comunista venne salutato dalla maggioranza della popolazione come una benefica, sostanziale, reale liberazione da un antico giogo feudale. Per la prima volta a memoria d'uomo, la gente trattava quotidianamente con un'amministrazione efficiente, equa, non corrotta e non corrompibile. Il tipico funzionario comunista medio e medio-alto, in quegli anni, era integerrimo, capace di totale abnegazione, colto, competente e insieme modesto e umano. Le condizioni della donna cinese, rimaste fino ad allora tra le più abiette che si arrivi a immaginare, migliorarono drasticamente e improvvisamente. Il nuovo regime finì per persuadere genuinamente, razionalmente, anche i più scettici. Intere regioni, alcune delle quali grandi e popolose come mezza Europa, erano state terrorizzate, sfruttate e frodate per decenni dai signori della guerra, poi dagli invasori giapponesi, poi dalle armate nazionaliste di Chiang Kai-shek. Nei primi anni Cinquanta, grazie al comunismo, intere popolazioni conobbero infine prosperità, giustizia, e con queste ritrovarono anche dignità e fiducia nell'avvenire. Infatti, il grande disegno millenaristico del marxismo-leninismo aveva, nella sua prima versione cinese, ancora una forte carica illuminista, promuoveva un profondo rispetto per la scienza e la tecnologia e prometteva di saper armonizzare i nuovi valori rivoluzionari con il meglio della cultura tradizionale. Entro questo quadro iniziale decisamente positivo, la personalità di Mao pareva riunire in una impressionante sintesi superiore molti attributi che sono di norma tra loro incompatibili: grande statista, ma anche uomo del popolo, alto stratega militare, ma anche filosofo, profondo conoscitore della storia, ma anche innovatone e propugnatore della modernità. I capi di Stato occidentali e gli eminenti intellettuali che si recavano a fargli visita ne rimanevano sinceramente conquistati. Solo il Primo ministro dell'India, Iawaharlal Nehru, rimase comprensibilmente scosso quando Mao gli confidò, in segreto, nel 1954, che non temeva la bomba atomica, in quanto dieci o perfino venti di milioni di morti (sic) sarebbero stati poca cosa per una grande nazione con seicento milioni di abitanti. Un passaggio del «libretto rosso» ci conferma questa folle e criminale idea di Mao: La bomba atomica è una tigre di carta di cui i reazionari USA si servono per spaventare la gente. Sembra terribile ma in realtà non lo è. Naturalmente la bomba atomica è un'arma di eccidio di massa, ma l'esito di una guerra è deciso dal popolo, non da una o due armi di nuovo tipo. Lo shock di Nehru non venne mai reso pubblico, mentre invece circolarono ampiamente sulla stampa internazionale le impressioni, tutto sommato ammirate, di opinion leaders come Edgar Snow e André Malraux, e perfino quelle dei nemici «naturali» di Mao, come il maresciallo Montgomery, il presidente dell'Indonesia Sukarno, il generale De Gaulle, e più tardi Henry Kissinger e il presidente Nixon (per non citare che questi). Snow così ce lo descrive nel 1961: Mao è calmo, deciso nei movimenti, pronto a cogliere qualsiasi sfumatura in un commento, e nei suoi occhi c'è, se non proprio uno scintillio, un ammiccare canzonatorio; egli ha una risata contagiosa, e apprezza moltissimo un commento spiritoso. Ha anche un temperamento incandescente. E così nel 1971, ben dopo gli scempi della Grande Rivoluzione Culturale Proletaria:

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Si susseguivano senza interruzione statue e busti, alcuni di grandi proporzioni, del personaggio che era in piedi accanto a me, dirigente e iniziatore di quella seconda liberazione - o liberazione culturale - che mirava a restituire alla rivoluzione la sua purezza e far partecipare le masse, in una misura mai vista prima, alla sua direzione. Tutti questi fattori, alcuni specifici alla Cina, altri comuni all'ideologia marxista-leninista in ogni Paese, si integrarono in una combinazione inedita, conferendo a Mao e al suo regime una carica persuasiva irresistibile. Perfino i testimoni-accusatori di oggi confessano che per loro, ancora adolescenti o giovanissimi, era impensabile che Mao potesse avere torto, che potesse essere il Primo e più diretto responsabile degli orrori cui assistevano quotidianamente. Non facevano alcuna fatica a credere ciecamente agli organi ufficiali di stampa, attribuendo la colpa ai «sabotatori» di una destra residua, alla collusione degli elementi «retrivi e controrivoluzionari» con le potenze imperialiste, alla corruzione degli elementi «borghesi» e di alcuni funzionari intermedi del partito. In particolare, avrebbe dovuto far riflettere il fatto che la grande carestia del '59-62 fosse avvenuta in anni dal clima eccezionalmente favorevole, quando la produzione agricola avrebbe potuto essere di un'abbondanza senza precedenti. La maggior parte dei raccolti venne, però, lasciata marcire nei campi, in quanto sessanta milioni di validi contadini erano stati indiscriminatamente mobilitati per alimentare le famigerate fornaci. Di poco aiuto furono le decine di migliaia di ingegneri, medici, professori e scrittori, strappati ai loro posti di lavoro e forzatamente inviati nelle campagne per esservi «rieducati». Le vere cause della grande carestia erano, quindi, sotto gli occhi di tutti. Erano esclusivamente politiche, e la responsabilità personale di Mao schiacciante. Eppure quasi tutti erano stati persuasi dalla propaganda ufficiale che si fossero riversate sulla Cina immani «catastrofi naturali». Ha veramente dell'incredibile che in ogni regione si fosse riusciti a persuadere la gente che il clima era stato catastrofico in tutte le altre regioni della Cina. 10.4. La forza dell'ideologia pura Abbiamo già visto alcuni meccanismi di «persuasione» messi in atto dalla propaganda staliniana (par. 1. 2), ma per meglio capire la forza intrinseca dell'ideologia marxista-leninista nella versione maoista, al di là dell'ascendente personale di Mao, conviene soffermarsi un attimo su quei tratti che esercitarono un forte fascino anche qui da noi, in Occidente. E' interessante, infatti, ricordare gli argomenti usati da quegli ingenui, per lo più allora giovanissimi, che il maoismo conquistò in Italia, in Francia, in Germania, in Olanda e perfino nelle università degli Stati Uniti, proprio durante la Rivoluzione Culturale, cioè quando avrebbe già dovuto essere manifesto che si trattava di una feroce e insensata dittatura. Disillusi dallo stalinismo e dalla tetra pesantezza degli apparati partitici comunisti dell'Europa dell'Est, quei nostri giovani inneggiavano al contatto diretto di Mao con le masse, alla freschezza e alla spontaneità del movimento delle Guardie Rosse (loro coetanee), alla rivolta giovanile contro i privilegi accademici, al carattere festoso e coreografico delle grandi manifestazioni politiche cinesi. Colpirono particolarmente la loro immaginazione i famosi onnipresenti manifesti murali, i tazebao, ammirati come sintesi di genuina arte popolare, espressione «fresca e spontanea» di possenti intuizioni politiche, innovazione geniale nella comunicazione di massa. Si attribuiva a quei manifesti improvvisati una grande creatività grafica, da contrapporsi ai volgari cartelloni pubblicitari del «capitalismo moribondo» (l'espressione, letterale, era di Herbert Marcuse - la terza M della sacra trilogia di allora: Marx, Mao, Marcuse). La diffusa rivolta morale contro la politica americana in Vietnam contribuì molto ad attrarre simpatie alla Cina di Mao, alleato del Nord. Pochi furono coloro, soprattutto tra i giovani, che seppero, o vollero, riconoscere la pur basilare differenza tra l'opporsi, come era giusto, a quella guerra e a quella politica americana, e il far propri i valori dell'altra parte. Le componenti speciali dell'intossicazione maoista furono, oltre alla militanza pacifista, i tratti tipicamente adolescenziali, folklorici e festaioli della Rivoluzione Culturale vista dalla rive gauche, e una certa estetica,

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insieme sobria e raffinata, esotica, ma anche facilmente importabile. Il tutto avvolto attorno al solito «nocciolo duro» dell'ideologia redentrice e messianica marxista-leninista. Il film di Godard La chinoise, esoterico, stilizzato e intellettualmente molto snob, non assomigliava in niente ai film di propaganda staliniana degli anni Trenta. Stilizzazione, coreografia, giovanilismo e design furono i tratti specifici salienti della persuasione maoista in Occidente. Mi è stato detto che un noto semiologo francese, di simpatie maoiste, membro di una delegazione in visita a Pechino durante gli anni della Grande Rivoluzione Culturale Proletaria, fosse rimasto molto colpito da una serie di piccoli manifesti murali variopinti dalla squisita grafica. Entusiasmato, chiese all'interprete di tradurne il contenuto, intendendo trascriverlo esattamente sul suo taccuino. L'interprete fece lo gnorri, dicendo sbrigativamente che si trattava di proclami politici, ma non c'era tempo per tradurli esattamente, perché c'erano ancora tante cose da vedere e bisognava continuare la visita. Solo dopo insistenti richieste, infine, risultò che si trattava... di una sequela di condanne a morte già eseguite. Resta ancora oggi misterioso, ammettiamolo pure, come tanti intellettuali abbiano potuto prendere uno svarione tanto colossale. Possiamo forse concedere ai maoisti nostrani il beneficio dell'ignoranza. A dispetto dello stupido slogan di quegli anni «La Cina è vicina», si trattava di un continente remoto, misterioso, imperscrutabile, «diverso», avarissimo di notizie, soprattutto di notizie attendibili. La cruda, tragica verità è emersa solo dopo. Ma, anche concedendo questo, deve lasciarci perplessi il misto di ingenuità, arroganza, utopismo e volontà di illudersi che ha persuaso tanti occidentali a professarsi maoisti. La fede maoista nostrana, in anni di pace e di benessere, appare ancora più inquietante della fede nello stalinismo, che era in parte giustificabile con la militanza nella resistenza al nazi-fascismo, la guerra, la miseria del dopoguerra, e (non scordiamoci neanche questo) le ingiustizie sociali, ben reali ed esecrabili, dei vecchi regimi conservatori. Anche se lo stalinismo, come attestato da tante commoventi testimonianze di transfughi e di disillusi, può trovare attenuanti storiche degne di considerazione, queste vengono meno per il maoismo nostrano. Che ci siano stati davvero tra noi dei maoisti pare dimostrare che, in materia di ingenuità politica, davvero tutto è possibile. Le tragiche vicende della Cina di Mao dovrebbero rappresentare per tutti noi un solenne monito contro le illusioni della politica. Forse non ci sono limiti a quanto immani possono essere le sciagure causate da una linea politica, senza che i capi propugnatori riconsiderino alle fondamenta le loro decisioni e la loro ideologia. Quando oggi sento dire in giro, a proposito dei nostri governanti: «Ma non si rendono conto che ... ?», «Ma fin dove vogliono farci arrivare?», ripenso al maoismo. Le smentite fattuali non significano niente, se non si è pronti a vederle come tali. La persuasione di massa può a volte essere immune da ogni smentita fattuale e da ogni critica razionale. Tale immunità, oggi lo sappiamo, ha prevalso in Cina, in seicento milioni di persone, per interi decenni. Questo caso di persuasione di massa, talmente immane da sfidare l'immaginazione, può consentirci di riflettere meglio sulla persuasione di massa in situazioni meno drammatiche, nelle nostre democrazie. 10. 5. La spersuasione di massa Una costante che ricorre nelle testimonianze di chi è infine riuscito a scuotersi individualmente dalla fede nelle ideologie totalitarie, in particolare dallo stalinismo o dal maoismo, è il carattere di improvvisa folgorazione di queste «spersuasioni». Tutti ci raccontano dell'improvvisa caduta di uno spesso velo. Questa subitaneità risulta sbalorditiva, e priva di giustificazione, agli occhi dei protagonisti stessi. Solo dopo la folgorazione, in seguito allo shock subitaneo della spersuasione «finale», tornavano m mente tutte le smentite, le incongruenze, le ingenuità e i rifiuti di capire accumulati in anni e anni. Di colpo, tutti i nodi venivano al pettine, e questi testimoni ci dicono di essersi amaramente battuti il petto per essere stati tanto ciechi tanto a lungo. Il fenomeno presenta, a mio avviso, un enorme interesse anche per lo scienziato cognitivo e per chi studia la psicologia del ragionamento. E' come se le prove contrarie e le argomentazioni in negativo

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fossero state via via archiviate in un ripostiglio della mente, accumulandosi in una sorta di limbo della ragione, né presenti e attive, né del tutto invisibili e inerti. A volte la folgorazione finale e definitiva è stata indotta da un episodio particolarmente traumatico (l'arresto o l'esecuzione di un parente, un maestro, un compagno), ma molto spesso è stata provocata da un qualsiasi insignificante episodio (la classica goccia che fa traboccare il vaso). Queste testimonianze ci dicono che solo dopo questa folgorazione, con il senno di poi, riaffiorava una sequela di indizi, dubbi, premonizioni, accenni di crisi, germogli di spersuasione. Il primo e immediato problema, per chi esce da solo dal bagno di persuasione di massa, è quello di ritornare alla normalità, di ricominciare ad usare il giudizio, i sensi, la ragione, la critica. Lo squarcio nel velo libera un torrente di pensieri e di riconsiderazioni. Si vuole, d'un tratto, tutto rivedere, tutto ri-giudicare, tutto ricostruire in modo critico e, finalmente, disincantato. La fine delle dittature dimostra che, purtroppo, per la maggioranza, la folgorazione viene solo tardivamente, dall'esterno. Di norma occorre una traumatica spersuasione di massa, per scuotersi dal sonno della persuasione di massa. Esiste poi, ben reale, il bisogno sincero di una ricostruzione mentale a posteriori. Si deve pensare, di fronte agli altri, ma soprattutto di fronte a sé stessi, che la rivolta borbottava dentro da tempo. Si tende a retro-datare quanto più possibile la spersuasione. E ci si riesce, spesso in buona fede, perché infine escono dal solaio della mente quei dubbi, quelle reticenze, quelle contro-argomentazioni abortite. Resta misterioso, anche per lo psicologo, come mai queste contro-prove e questi accenni di spersuasione fossero rimasti nel limbo fino a quel momento. Si tende, a cose fatte, a farli uscire da questo limbo assai prima di quanto lo abbiano fatto veramente. A volte solo documenti inoppugnabili possono sbugiardare colui che afferma, magari in buona fede, «lo avevo sempre detto», «non ci avevo mai creduto», «a me non la si faceva». Le scienze cognitive moderne hanno messo in luce questi effetti retroattivi della memoria, soprattutto studiando le testimonianze nelle aule dei tribunali. Molti tendono a sovrapporre, magari in perfetta buona fede, eventi e sensazioni che appartengono a momenti diversi della loro esistenza reale. Il crollo di una dittatura favorisce questi effetti psicologici di retro-datazione. Molti si professano vecchi oppositori solo per opportunismo e per paura, ma molti altri lo fanno sinceramente, dando d'un tratto un'importanza del tutto nuova a mille piccoli dubbi e smentite che erano rimasti sospesi nell'anticamera della loro mente. Milioni di italiani, nella fatidica notte del 25 luglio 1943, con la caduta del fascismo, passarono attraverso questa spersuasione definitiva, in un evento di massa. Quella notte di liberazione (illusoria, perché purtroppo destinata ad essere seguita da un fascismo ancora più bieco e spietato, e dall'occupazione nazista) aveva dato loro il coraggio di esprimere apertamente quello che molti in cuor loro già avvertivano da tempo. In questi casi, come si è poi visto anche alla caduta del muro di Berlino, il subitaneo torrente di gioia, il clima di festa, il bisogno di ballare, sfilare, demolire simboli e statue, bruciare gagliardetti, non scaturisce solo in chi era «spersuaso» da gran tempo, e aspettava solo il momento di esprimerlo liberamente, ma si forma anche in coloro che il velo lo avevano ancora di fronte agli occhi pochi giorni o poche settimane prima. Il crollo di ogni dittatura impone una regia collettiva, atta a facilitare possentemente questa rapida e massiccia campagna di «spersuasione» di massa. t un dato ben consolidato della psicologia classica della persuasione (v. Appendice 1) che un argomento suona tanto più persuasivo quanto più autorevole e «disinteressato» riteniamo essere chi ce lo offre. (E' perfetto l'esempio della pubblicità fatta fare anni fa, negli Stati Uniti, da illustri clinici a sigarette con basso contenuto di nicotina e catrame. L'efficace messaggio era: «Ve lo dicono perfino loro». Sembrano secoli, ma erano solo gli anni Sessanta!) Tanto in politica che in pubblicità (torneremo tra un attimo su questo binomio) i due fattori persuasivi vitali sono, quindi: autorità e disinteresse superiori. Un leader carismatico, infinitamente autorevole e infinitamente «disinteressato» (in quanto conta per lui solo il benessere del popolo), riesce a persuadere le moltitudini anche in presenza di clamorose e immediate smentite di quanto

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afferma. Quando cade, diventa altrettanto vitale distruggere questi suoi attributi nell'immaginazione popolare. I nuovi leader devono di colpo «spersuadere» le masse di tutto ciò di cui erano state persuase. In genere, non si va per il sottile. A poco servono le argomentazioni e le dimostrazioni. Si mette in scena, piuttosto, quello che in inglese si chiama una character assassination (si deve uccidere, soprattutto, la personalità del tiranno). Immancabile è la denuncia pubblica e plateale delle ruberie e delle dissolutezza. Occorre mostrare quanto poco era «disinteressato». L'opera di spersuasione sarà ancora più efficace se si dimostrerà che il tiranno era, non solo ladro e profittatone, ma anche squallido e volgare. I palazzi e le collezioni d'arte dei tiranni d'un tempo suscitano oggi, in fondo, ammirazione. Si riconosce loro una certa grandeur malgrado tutto. Nessuno che è vivo oggi ha sofferto per le loro malefatte, e si può ben essere magnanimi. Invece, le ruberie dei tiranni a noi contemporanei risultano sempre volgari, pacchiane, prive di qualsiasi attenuante. Suscitano odio e disprezzo anche perché sono volgari. E forse è proprio così. I tiranni contemporanei non hanno più un briciolo di grandeur. I corridoi interminabili di armadi di scarpe, vestiti e pellicce di Imelda Marcos, fotografati sui settimanali, potevano al più fare invidia alle commesse dei supermercati, eppure contribuirono potentemente, agli occhi del mondo intero, al crollo di credibilità del regime. Di ben altro valore erano i molti grattacieli e i pacchetti azionari posseduti dai Marcos negli Stati Uniti, e i loro pingui conti in Svizzera, ma quello che è rimasto più memorabile, e quindi più spregevole, sono proprio le foto del guardaroba personale di Imelda. Quando venne deposto il tiranno rumeno Ceausescu, nel 1989, l'operazione fu identica. Vennero esposte allo sdegno del mondo sfilze di abiti e di calzature, con qualche modesta pelliccetta, e perfino dei rasoi elettrici e degli elettrodomestici. I «lussi» mostrati erano di altro calibro che non quelli dei Marcos. Erano poca cosa. Non potevano fare invidia nemmeno alle commesse. Anzi, stringeva il cuore capire quanto misero dovesse essere il livello di vita della popolazione, per presentare quella paccottiglia come una immane ruberia. Il criterio della spersuasione, comunque, era quello di sempre: mostrare al popolo la sibaritica decadenza del conducator. In noi, spettatori esterni, lo sdegno risultava ancora più intenso proprio per lo squallore delle sue ruberie. Questa è, per la comunicazione di massa, una lezione importante: niente è tanto «spersuasivo» quanto la volgarità infine rivelata. In Italia, negli anni recenti, questo effetto-volgarità ha funzionato a meraviglia. I pouf pieni di banconote e i lingotti d'oro in cantina hanno disgustato la gente comune più dei gravissimi errori politici ed economici del passato regime. Si odia chi ruba, certo, ma ancor più si odia chi spende male i soldi rubati. E' stato molto efficace mostrare che eravamo stati governati da ladri volgari, non da ladri gentiluomini. In queste situazioni di crollo di regime, come è stato più volte osservato, è spesso incerta la frontiera tra il legittimo desiderio di giustizia, la volontà di vendetta, e la curiosità morbosa. Il tutto viene egregiamente utilizzato per squalificare retroattivamente la classe politica appena liquidata. La fine rapida, anche quando non violenta, di un regime politico deve inscenare una mostra del profittume, deve servirsi di quest'arma primaria e possente per togliere ogni residua credibilità. un gesto-persuasione molto efficace (v. cap. 3). 10.6. I due grandi «modi» della persuasione di massa Non passa giorno che non si senta dire quanto si assomigliano ormai i due grandi «modi» della persuasione di massa dell'epoca moderna: il politico e il pubblicitario. Ma questo non è un fenomeno solamente italiano, bensì mondiale. Mi consta da fonte attendibile che l'ex partito comunista di un Paese vicino si sia recentemente affidato a una ditta di consulenze pubblicitarie per cercare di recuperare qualcosa della sua «immagine». Da tempo, negli Stati Uniti,

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si scelgono nelle grandi agenzie di pubblicità esperti che vengono poi assunti per indirizzare le campagne elettorali. Il presidente Clinton, appena eletto, sostituì buona parte del team della sua campagna con persone di profilo diverso. Disse che una cosa è governare, altra fare propaganda. La formula magica della comunicazione di massa, in questi anni, è il perception management, cioè inventare e gestire modi sempre nuovi di presentarsi al pubblico. Si agisce su delle rappresentazioni mentali, assai più che sulla realtà. Ciò che conta è come si presenta un prodotto, una marca, un partito, un programma. Per esempio, negli Stati Uniti si è dimostrato che faceva gran differenza chiedere alla gente se approvava, nell'ordine (era l'epoca della guerriglia in Afghanistan), «un intervento americano», «l'invio di soldati americani», «rischiare la vita dei nostri giovani», «rischiare la vita dei nostri figli». Il consenso si restringeva, fino a scomparire, nella sequenza indicata, cioè a seconda di come si presentava alla mente quella che era, a tutti gli effetti, una stessa decisione. Non è proprio vero che i sondaggi di opinione possano far dire quasi qualsiasi cosa a quasi chiunque, ma è pur vero che occorre una robusta reggimentazione metodologica per potersi fidare dei loro risultati. Un punto di contatto molto evidente tra persuasione politica e persuasione pubblicitaria è l'uso degli slogan. I politici hanno sempre usato slogan, alcuni dei quali sono entrati nella storia e sono sopravvissuti al loro tempo. La lista sarebbe lunga. Uno dei più recenti, di folgorante persuasività, è quello usato da Yitzhak Rabin per difendere contro gli integralisti israeliani la difficile e meritoria apertura verso Arafat: «La pace la si fa con i nemici, non con gli amici». Questo slogan di Rabin, pur ammirevole, mi sembra una chiara dimostrazione della somiglianza di stile tra politica e pubblicità. Un fatto interessante è che in ambedue i settori si oscilla sempre più tra quella che potremmo chiamare la persuasione «interna» e, per contrasto, la persuasione «esterna». Esempi della prima si hanno quando una bella e distinta signora fa la pubblicità a un profumo, o un grassoccio buontempone a una marca di salami. Invertire i ruoli, qui, sarebbe catastrofico. In altri casi, invece, è molto più efficace affidarsi all'immagine antitetica, andare a cercare gli antipodi, proprio per rafforzare la forza persuasiva. Una multinazionale del calcolo elettronico, dopo essersi a lungo servita del saltellante Charlot, ci presenta oggi delle suorine olandesi e degli sfaccendati parigini. L'idea, assai efficace, è che perfino queste anime semplici, questi marginali della società moderna, sono affascinati dalla nuova linea di personal computer. La persuasione «interna» agisce per rappresentatività, e per competenza, mentre quella «esterna» agisce per contrasto, e per beata incompetenza. In un caso, si fa sentire la voce di un opinion leader «rappresentativo» (ve lo dice «proprio lei», «proprio lui»), nell'altro si va a raccogliere la testimonianza di un ignaro, un alieno, che diventa, però, qualificante perché remota e disinteressata (ve lo dice «perfino lei», «perfino lui»). In politica, la persuasione «esterna» consiste nel prendere in prestito argomenti, dati e atteggiamenti dell'avversario per utilizzarli ai nostri fini, ribaltandoli ad arte, o magari usandoli tali e quali. Sempre più ci si serve di formule come: «Per loro stessa ammissione», «Come ha concesso perfino ... », «Vorrei sottolineare un punto sul quale anche noi siamo perfettamente d'accordo». Quando non ci sono più coordinate ideologiche fisse, ci si deve per forza situare, gli uni rispetto agli altri, in una nebulosa. Costituisce anche una persuasione «esterna» Sfruttare le divisioni entro la parte avversa. All'epoca dello scandalo Watergate, assai più che gli strali dell'opposizione Democratica, fu definitiva la dichiarazione dell'ultra-conservatore, ma integerrimo, ex candidato presidenziale e decano del partito Repubblicano, Barry Goldwater: «I am pissed off» (una traduzione un po' stemperata è: «Sono assolutamente disgustato»). Nixon avrebbe potuto ben dire: dagli amici mi guardi Iddio, che dai nemici mi guardo io. Un caso-limite di persuasione «esterna», al limite tra il barocco e il «perverso» (v. cap. 9), è quello di un «alieno» che dà un certo messaggio esplicito, ma per veicolare un messaggio sottinteso opposto. Una marca di auto giapponesi si sta facendo attualmente pubblicità con dei mostri

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perversi che dicono: «Non compratela!». Il messaggio implicito è che bisogna proprio essere dei mostri per non comprarla. Un diverso caso-limite è quello di una persuasione genuinamente messa in atto per ottenere un certo fine, che però ottiene il fine opposto. Questo può avvenire in modo del tutto involontario e perfino inconsapevole. 10.7. Un caso esemplare di involontaria spersuasione di massa Esiste un filmato dell'ultima seduta dell'infame Comitato per le Attività Anti-Americane, quello presieduto dal senatore Joseph McCarthy (v. par. 8. 4), che contiene il caso di spersuasione involontaria più genuino e più efficace che mi sia mai stato dato di vedere. Un grande avvocato liberal si era assunto l'impopolare compito di difendere le vittime di McCarthy dall'accusa di essere comunisti. Vedendo questo storico filmato, colpiscono ancora oggi, a tanta distanza di tempo, la signorilità, la compostezza e il rigore argomentativo del grande avvocato (recentemente scomparso), di contro al settarismo e alla sguaiata perversità di McCarthy. La forza persuasiva dell'avvocato, e del suo agguerrito team, era accresciuta dalla sua assoluta insospettabilità. Era un liberal dichiarato, ma non lo si poteva nemmeno remotamente sospettare di simpatie «comuniste». Dopo aver martellato per mesi e mesi le sue vittime con le accuse più arbitrarie e infamanti, il senatore cominciò ad avvertire una perdita di credibilità, a tutto vantaggio della parte avversa. Sentendosi alle corde, McCarthy commise l'errore che doveva portare alla sua fine politica. Sguinzagliò i suoi fedeli scagnozzi per rovistare nella vita privata degli avvocati della difesa. Gli bastava scovare un qualsiasi peccatuccio di gioventù, qualsiasi infedeltà coniugale, perfino una nonna cinese, una cartolina proveniente dall'Unione Sovietica, un atto di dubbia fedeltà alla costituzione americana. Gli scagnozzi, infine, trovarono una «perla». Il più giovane avvocato del team della difesa era stato iscritto, quando era ancora al college, a un'associazione studentesca di vago sapore socialista. Era, insomma, possibile presentarlo al pubblico e ai membri del Comitato come un p (un «rosa», cioè uno con simpatie per la sinistra). McCarthy, durante una seduta del Comitato, quella che doveva diventare anche l'ultima, sfoderò questa sua arma segreta. Mostrò una foto di gruppo dell'associazione studentesca, e una copia della tessera dell'avvocatino, allora studente. Si lanciò direttamente alla giugulare, incalzandolo con un accanimento e una malvagità insolite perfino per lui, creando un visibile imbarazzo negli astanti e tra alcuni membri del Comitato (tutto questo è immortalato nel film). Finita la requisitoria del senatore, il grande avvocato prende infine la parola per difendere il suo giovane associato: «Senatore, sapevamo che Lei è un uomo spregiudicato e malvagio, ma non avrei mai creduto che potesse scendere così in basso. Lei oggi, qui, di fronte a questo Comitato, a questo illustre pubblico, e a milioni di spettatori che ci seguono in diretta, ha creduto opportuno, solo per sostenere i Suoi fini politici, infangare un giovane brillantissimo e specchiato, appena agli inizi di una carriera che tutti avevamo anticipato luminosa e grandemente utile alla Nazione. Ha avuto il coraggio di rinfacciargli, come se fosse un crimine immondo, la partecipazione a un'associazione studentesca cui aveva aderito quando aveva, tengo a sottolinearlo, quindici, dico quindici, anni. Senatore, Lei è una vergogna per il nostro Paese e per la carica che ricopre». Sto riassumendo a memoria (quel filmato l'ho visto ben tre volte, ma l'ultima già risale a molti anni fa). Posso assicurarvi che si trattò di una delle difese più serrate, più commoventi, più dignitose, più persuasive che mai siano state fatte in una sede legale. L'effetto sugli astanti, molti senatori compresi, era testimoniato dalle loro espressioni di imbarazzo e di pena. Ma non fu questo nobile intervento della difesa a segnare il crollo di McCarthy. L'evento culminante si verificò pochi istanti dopo.

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Il presidente della seduta, anche per placare un po' le acque, batté il martello, dichiarando sospesi i lavori fino al giorno seguente. Il cameraman ebbe, però, l'intelligenza di continuare a filmare e a trasmettere. McCarthy, infatti, era subito uscito da una sorta di stupore attonito e aveva preso di nuovo la parola, come se la seduta fosse stata ancora aperta. Mentre la sala lentamente si svuotava, e mentre gli astanti parlottavano tra di loro a voce bassa, o guardavano increduli la furia crescente del senatore, McCarthy si lanciò in un'interminabile invettiva contro tutto e contro tutti, scagliandosi, con la veemenza del folle oramai senza freni inibitori, contro le spie e i traditori, contro la congiura di cui stava cadendo vittima la Nazione intera, annunciando l'apocalisse atomica, l'annientamento della civiltà per mano del comunismo. La sua paranoia uscì totalmente allo scoperto. Nessuno lo interruppe, o lo zitti, o fece un commento. La sala continuò a svuotarsi, in un imbarazzo quasi insopportabile, mentre milioni di spettatori, grazie all'intelligenza di quell'operatore televisivo, scoprivano infine chi era veramente McCarthy. Nel montaggio del filmato che ho visto alla USIS di Parigi, i titoli di coda passano sullo schermo, mentre, in lontananza, McCarthy prosegue nella sua dissennata invettiva. Non saprei immaginare un episodio di spersuasione di massa più efficace e più involontario di questo. Joseph McCarthy mori di cancro pochi anni dopo, ma la sua carriera politica era stata di fatto troncata da quella trasmissione televisiva. Con quella seduta fini di fatto e per sempre la «caccia alle streghe». capitolo 11... Il Graal della persuasione... Come abbiamo ampiamente visto, non sempre un argomento persuasivo è vero, e non sempre un argomento vero è persuasivo. La plausibilità e la verità prendono talvolta cammini distinti, anche nell'ambito di una persuasione puramente razionale. Adesso, però, è venuta l'ora di esaminare i casi nei quali plausibilità e verità coincidono, anzi coincidono necessariamente. I logici e i matematici sono, da sempre, maestri di questo settore particolare della persuasione. La loro invincibile strategia consiste nello scegliere un numero molto limitato di asserzioni di partenza (gli assiomi) in sé e per sé talmente evidenti che solo un folle potrebbe non riconoscere come veri, per poi costruire passo passo, una sull'altra, delle ferree argomentazioni (i teoremi) nelle quali nessun essere ragionevole potrebbe trovare il benché minimo difetto. La forza della persuasione logico-matematica è, quindi, assoluta. Nella matematica «classica» quando si capisce il significato di un teorema, e se ne segue il percorso dimostrativo, non si può non esserne persuasi. Capire ed essere persuasi sono una cosa sola, vanno insieme per necessità. In questo mondo di enti perfetti, immutabili, chi vi accede per la prima volta, passo passo, faticosamente, ha l'impressione di poter letteralmente vedere qui ed ora qualcosa che è non solo indubitamente vero, ma che lo è sempre stato, e che lo sarebbe anche se nessuno se ne fosse mai reso conto. Per questo si tende ad avere una concezione platonica dell'universo logico-matematico. Non tutti i matematici l'accettano, ma tutti ammettono che la tentazione esiste, ed è molto forte. Come suggerito da Platone, si ha la netta impressione di scoprire un mondo di enti astratti che ha una sua particolare realtà, una sua esistenza superiore alla nostra, indipendente da noi. Si «vedono», con l'occhio della ragione, con un'intuizione diretta e indubitabile, oggetti, proprietà e relazioni in un modo non troppo diverso da come letteralmente si vedono gli oggetti, le proprietà e le relazioni nel mondo reale. Un sogno che ha accompagnato i filosofi, i teologi, gli scienziati sperimentali e perfino certi teorici della politica attraverso i secoli è quello di costruire argomentazioni razionali che abbiano la stessa

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forza di un teorema matematico. Persuadere tutti in modo assoluto, irresistibile, definitivo, della verità di un'argomentazione che riguarda, però, il mondo reale, che ha un enorme impatto sugli scopi e i bisogni dell'uomo. Parlare, insomma, non di figure, numeri, insiemi, spazi astratti, come in matematica, ma di noi e del mondo, con la stessa forza persuasiva di un teorema. Spinoza ci ha provato con l'etica (ordine Geometrico demonstrata), Kant con la metafisica, alcuni autori recentemente, addirittura, con l'evoluzione darwiniana (presentata come una verità di ragione, non solo di fatto). 11. 1. Ciò di cui non si può pensare niente di più perfetto La fortissima spinta interiore verso l'assoluto della persuasione matematica ha portato al tentativo di persuasione più ambizioso che un essere umano abbia mai tentato: dimostrare l'esistenza di Dio. Vari tipi di dimostrazione sono stati tentati, a partire da san Tommaso d'Aquino fino ad alcuni teologi dei giorni nostri. Si è innanzitutto tentato di dimostrare l'esistenza di Dio con argomentazioni di tipo induttivo, cioè partendo da certezze di portata molto più circoscritta, ma indubitabili, per poi ascendere, gradino per gradino, fino a Dio. Per esempio, le celebri «cinque vie» di san Tommaso invitavano ad estrapolare arditamente l'esperienza e i ragionamenti del nostro mondo finito, per concludere razionalmente che Dio esiste. Il più persuasivo di questi argomenti induttivi mi sembra essere ancora oggi quello basato sul principio di causa. Schematicamente, è il seguente: Tutto ha una causa. Queste cause hanno a loro volta una causa, e queste un'altra causa ancora. Non possiamo continuare così all'infinito. Dobbiamo pensare che esista un Ente che non è a sua volta causato da niente altro. Questo Ente è la propria causa, e la causa ultima di tutto ciò che esiste, noi compresi. Se la nozione di origine ci appare più persuasiva, siamo liberi di ripetere questo argomento tale e quale, sostituendo alla parola «causa» la parola «origine». Pescando a piene mani nelle concezioni scientifiche più moderne (come spesso si sente fare), si risale al primo protozoo, da questo si risale all'origine dell'universo, da questa all'origine della materia e da questa all'origine delle forze che l'hanno formata. A questo punto, c'è chi fa presente che non si può andare molto oltre. Si invita l'interlocutore a chiedersi chi, o che cosa, ha originato queste particelle ultime, le forze che agiscono tra di loro, e le leggi che le determinano. L'esistenza di Dio viene allora suggerita (persuasivamente secondo alcuni) all'origine di tutte le origini, dietro le cause ultime della cosmologia. Molti trovano questo argomento dell'esistenza di Dio assai convincente. Analoghi argomenti possono essere costruiti sulla nozione di scopo, o di ragione ultima. Per evitare dei regressi all'infinito nella spiegazione, e dei rimandi all'infinito nelle tendenze, si deve concludere che esiste un punto terminale assoluto, un culmine verso cui tutto tende (il teologo francese Pierre Teilhard de Chardin lo chiamò «punto omega»). Questi argomenti di tipo «induttivo» sono stati largamente usati per secoli, e mi consta lo siano ancora, magari solo a mezza bocca, e magari solo come preludio ad argomenti più solidi, non necessariamente solo razionali. Il credente contempla pur sempre un genuino, sincero «balzo» della fede, che deve poter scavalcare la pura ragione. Raramente chi vuole persuadere un ateo dell'esistenza di Dio si contenta di persuaderlo dell'esistenza di «un» Dio generico. La nozione di Dio come persona non scaturisce certo da argomentazioni pseudo-naturalistiche come queste. Anche Tommaso d'Aquino era ben consapevole del fatto che questo genere di persuasione non può portare oltre la vaga idea di un «principio primo» e di un «fine ultimo».

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Simili argomenti, di tipo induttivo, non reggono, comunque, ad un esame più attento, essenzialmente per due ragioni fondamentali: (1) E' poco plausibile estrapolare dalla nostra esperienza quotidiana e dai nostri criteri ordinari di spiegazione una dimensione infinita e verità assolute, che non sono più quelle della nostra esperienza. L'induzione, infatti, ci porta dritti dritti a un paradosso. Se vogliamo che il nostro ragionamento induttivo abbia forza sufficiente, e poggi su certezze granitiche, dobbiamo ascendere solo fino a (e non oltre) un Ente che appartiene pur sempre, in qualche modo, al mondo per noi conoscibile, e quindi ancora imperfetto e limitato. Se, invece, la nostra ambizione è di raggiungere conclusioni certe su un Ente genuinamente, radicalmente, essenzialmente diverso da tutto quanto noi conosciamo, ci troviamo nella imbarazzante situazione di pretendere di conoscere qualcosa che non possiamo conoscere. (Infatti alcuni teologi hanno sostenuto che noi possiamo sapere con certezza solo ciò che Dio non è.) (2) Ben sappiamo ormai che i nostri criteri intuitivi di spiegazione, basati sulle cause, gli scopi, il tempo, lo spazio, le categorie e le essenze naturali, sono fallibili, e non si applicano nemmeno a tutto il nostro mondo finito, come le scienze moderne hanno ampiamente dimostrato. Di tutt'altro calibro, e di fascino ben superiore, è il cosiddetto argomento ontologico, l'unico che offre una seria promessa di persuasività (come lo stesso Kant aveva riconosciuto). Questo è veramente il Graal della santa persuasione. La ricerca di questo Graal argomentativo copre un arco di mille anni, da sant'Anselmo al logico e matematico Kurt Gódel. Sant'Anselmo d'Aosta, poi divenuto arcivescovo di Canterbury, esattamente mille anni orsono, nel suo Proslogion tentò, infatti, una via immensamente più efficace e più persuasiva, basata sulla necessità logica. Tentò, cioè, un argomento di tipo deduttivo, non induttivo. Cercò qualcosa di simile a un teorema di assoluta, innegabile evidenza. La storia è ben nota e possiamo limitarci a riassumerla nelle sue linee essenziali. Per semplicità ne darò qui una versione più moderna, che risale essenzialmente a Cartesio: Premessa logica: Non si può allo stesso tempo affermare e negare una stessa proposizione. Nessun ente razionale può accettare una simile contraddizione. Obiettivo dell'argomento ontologico: Dimostrare che chi nega l'esistenza di Dio si contraddice logicamente. Schema dell'argomento ontologico: Premessa 1: Dio è l'essere perfettissimo, ciò di cui non si può concepire niente di più perfetto. Premessa 2: Noi possiamo concepire un tale Ente. Premessa 3: L'esistenza è un attributo positivo. (Si considerino due enti A e B, in tutto e per tutto simili, salvo che uno esiste e l'altro no. E' una verità di ragione, ineluttabile, necessaria, che, tra questi due enti, è più positivo quello che esiste.) Premessa 4: L'essere perfettissimo, per necessità logica, deve possedere tutti gli attributi positivi. Conclusione: Dio necessariamente esiste. Sant'Anselmo nella sua versione originale usava il concetto di «grande», non quello di «perfetto», e imperniava tutto sul fatto certo che noi possiamo pensare che Dio esiste. Anche il non credente può comunque pensare, anche solo pensare, supporre, immaginare, che Dio esista. Fa parte delle nostre concrete possibilità intellettive concepire questo Essere perfettissimo. Ma concepirlo come non-esistente conduce necessariamente a una contraddizione logica. Quindi bisogna pensarlo come esistente. Questo è il nucleo dell'argomento ontologico, da sant'Anselmo in poi.

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Una versione moderna, proposta da alcuni teologi cattolici in questi anni, punta tutto sulla «in-inventabilità» dell'essenza divina. L'argomento (a quanto mi è dato capire) è che, se Dio non esistesse, noi non potremmo nemmeno inventarci un Essere con quegli attributi. Ma siccome possiamo immaginarcelo, allora esiste. Già all'epoca di sant'Anselmo le obiezioni non tardarono ad arrivare. Il monaco Gaunilone di Monmoutiers, suo contemporaneo, fece l'esempio di un'isola perfettissima, che chiaramente non esiste, ma che possiamo ben concepire, supporre, immaginare, come esistente. Dobbiamo, allora, in base all'argomento ontologico, concludere che una tale isola deve esistere? Questa di Gaunilone intendeva essere, in termini matematici più moderni, una riduzione all'assurdo. Anche l'argomento ontologico, secondo Gaunilone, porta a delle contraddizioni logiche. Sant'Anselmo stesso fece presente che una tale isola non è l'ente massimo, ciò di cui non si può concepire niente di più grande. Non foss'altro che per il fatto di essere un'isola, essa è finita, limitata, circoscritta, insomma imperfetta. Secondo sant'Anselmo, Gaunilone non aveva affatto dimostrato che, se accettiamo l'argomento ontologico dell'esistenza di Dio, allora dobbiamo anche accettare l'argomento dell'esistenza dell'isola perfettissima. L'argomento ontologico vale solo per l'Essere di cui non si può pensare niente di più grande (cosa che non vale, per definizione, per un'isola) né niente di più perfetto. Solo per questo Ente, non per una qualsiasi finzione del nostro intelletto, vale l'argomento ontologico. Altre obiezioni vennero sollevate nei secoli successivi e il dibattito continuò. In una lettera a Spinoza del novembre 1676, Leibniz accusò Cartesio di aver ereditato da sant'Anselmo un vizio di forma: di aver presupposto nella prova, ma non dimostrato, che il concetto di un essere perfettissimo non sia già di per sé contraddittorio. Se così fosse, naturalmente, la prova ontologica perderebbe ogni forza. Se, cioè, l'idea stessa di comporre tra di loro tutte le perfezioni portasse a una contraddizione (un po' come, da Russell in poi, si è dimostrato che è intrinsecamente contraddittorio il concetto di «insieme di tutti gli insiemi») non si potrebbe concludere niente sull'esistenza di tale ente «impossibile». Leibniz ritenne di esser riuscito per primo a sciogliere questo nodo, dimostrando la compatibilità di tutte le perfezioni, ciascuna considerata come semplice, primitiva, non ulteriormente analizzabile, ma di portata illimitata. L'intersezione di queste singole perfezioni non è contraddittoria. Quindi una versione più raffinata della prova ontologica è salva. (Tra un momento vedremo che anche la prova ontologica di Gódel fa perno su un passaggio molto simile.) In questa sua lettera a Spinoza, infatti, Leibniz sostiene di aver per la prima volta veramente dimostrato che esiste un Ente assolutamente perfetto. L'idea di una dimostrazione deduttiva, interamente logica, e quindi interamente razionale, aveva, per i padri fondatori del moderno razionalismo, come Cartesio, Spinoza e Leibniz, un fascino irresistibile. Non è certo un caso che sarà più tardi proprio un razionalista, forse il più grande di tutti, cioè Immanuel Kant, a portare un colpo decisivo all'argomento ontologico. Lo criticò, ma confessando di esserne rimasto grandemente affascinato. Kant costruì un'obiezione che molti ritengono ancora oggi micidiale. Essenzialmente sostenne che sant'Anselmo aveva usato il verbo «essere» in modo incoerente. Fece valere la differenza di natura logica (poi ulteriormente ampliata da Bertrand Russell agli inizi del Novecento) tra il verbo essere come ciò che lega un nome a un predicato, e il verbo essere come affermazione di esistenza. Grosso modo, una cosa è affermare «L'ippogrifo è un cavallo alato», tutt'altra affermare «C'è l'ippogrifo ed è un cavallo alato». Nel primo caso, possiamo parafrasare così: «Chiamasi ippogrifo un animale (immaginario) assai simile a un cavallo, cui si attribuisce anche la proprietà (o l'attributo) di possedere delle ali». Nel secondo, si afferma l'esistenza di tale creatura, cioè si afferma che un essere umano, in situazioni opportune (per esempio se ha la rara fortuna di incontrarlo), può vederlo, toccarlo, cavalcarlo, filmarlo. Affermare l'esistenza di qualcosa significa dare per vero che questa cosa cade sotto i nostri sensi, che la si può, appunto, vedere, toccare, annusare. Forse è molto difficile in pratica vederla e toccarla, forse è troppo piccola, o troppo

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grande, o troppo rara. Forse ne esiste un solo esemplare, forse esiste solo per un brevissimo istante, forse è esistita nel passato e non ha lasciato traccia, forse esisterà solo nel futuro. Resta, comunque, fermo il fatto che la si può vedere e toccare, in certe situazioni ottimali, o che, almeno, la si sarebbe potuta vedere e toccare, se queste condizioni si fossero realizzate per noi. Kant intendeva dire questo, dicendo che l'esistenza è una proprietà empirica, non logica. Per capire meglio l'idea centrale della mossa di Kant contro l'argomento ontologico conviene riportare un efficace slogan di Russell, che è probabilmente stato il massimo continuatore del razionalismo in questo secolo. Russell afferma che è stata «una sciagura per il genere umano» che i due verbi «essere» siano diventati «omonimi». Tra di noi, alla buona, possiamo pensare che l'omonimia tra i «due» verbi «essere» sarebbe un po' come quella tra «declinare» (ogni responsabilità) e «declinare» (un verbo latino). L'obiezione di Kant a sant'Anselmo è che non c'è barba di argomentazione logica, puramente deduttiva, che possa dimostrare che qualcosa esiste. L'attributo dell'esistenza è indissolubilmente legato ai sensi, a quanto si vede, si tocca, si annusa, o almeno a quanto si potrebbe concretamente vedere, toccare, annusare. Il concetto di un ente, anche di un essere perfettissimo, non può mai implicare l'esistenza, perché l'esistenza non appartiene al mondo dei concetti, ma a quello dell'esperienza. E' impossibile partire da un uso «predicativo» del verbo essere, quello che attribuisce delle proprietà, come la somma perfezione, e concludere con un suo uso «esistenziale». Dall'analisi logica di un concetto si può concludere qualcosa su proprietà di natura concettuale, ma non su una proprietà empirica come l'esistenza. Un modo molto efficace per sintetizzare la critica di Kant a sant'Anselmo consiste nel dire che, per Kant, l'esistenza non è un «predicato», ma piuttosto un «quantificatore» (v. par. 8. 3). Questa sua intuizione doveva poi trovare piena e definitiva giustificazione nella logica moderna. L'argomento ontologico non si è mai veramente riavuto, dopo la critica di Kant, ma vale la pena di sottolineare che Kant lo prese molto sul serio, anzi, disse che era l'unico argomento dell'esistenza di Dio che valesse la pena di confutare. La critica di Kant offre a sua volta il fianco ad alcune critiche, come sempre succede in filosofia. Vediamone sbrigativamente solo due. (1) In matematica e in logica si dimostra continuamente l'esistenza di enti e proprietà che non sono di natura empirica; per esempio, insiemi infiniti e elementi di dimensione zero. In matematica si dimostra anche che qualcosa non esiste, e quindi si arriva a conclusioni di natura esistenziale su enti di cui non si può avere, nemmeno in linea di principio, nemmeno indirettamente, alcuna «esperienza» empirica. Kant, naturalmente, aveva idee molto precise sulla natura degli enti matematici e sulla natura della conoscenza matematica. Diciamo, senza entrare in particolari, che un'obiezione di questo tipo è piuttosto forte e persuasiva, se uno non condivide con Kant tutte le sue concezioni della matematica. (2) Al cuore stesso della nozione kantiana di esistenza come predicato empirico resta un nucleo irrimediabilmente concettuale. «Esiste» non solo ciò che io vedo e tocco, ma anche ciò che altri affermano di aver veduto e toccato, e ai quali io credo. Io credo che Napoleone sia veramente esistito, credo che esiste il monte Everest, e che esista il top quark, ma non li ho mai né visti, né toccati. La nozione di esistenza già si impasta, quindi, di un elemento di credenza, di fiducia nelle testimonianze altrui. Come se non bastasse, l'esistenza di molti «oggetti» (l'altra faccia della Luna, fino a pochi anni orsono, e a tutt'oggi, per esempio, i gravitoni) riposa sull'ipotesi che se uno si trovasse in certe condizioni ideali, allora potrebbe osservarli sperimentalmente. La natura «empirica» dell'esistenza di molti enti, insomma, poggia su un'ipotesi, una congettura, un «controfattuale». Abbiamo visto (par. 6. 6 e 7. 7) che è impossibile su base logica, e talvolta assai difficile anche su altre basi, discriminare tra un ragionamento per controfattuali che è persuasivo e uno che non lo è. Il problema dei controfattuali non è ancora stato veramente risolto (a dispetto di

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notevoli progressi). Affermare che qualcosa esiste, nel caso più generale, implica affermare che lo si potrebbe vedere, toccare, annusare, se certe condizioni fossero realizzate. L'esistenza come proprietà empirica è, quindi, a sua volta legata a un'ipotesi concettuale. Come esistenza e possibilità di esperienza siano tra di loro legate è un problema tutt'altro che semplice. Personalmente, io sono un post-kantiano, e quindi la critica di Kant a sant'Anselmo mi sembra ancora convincente, nonostante queste critiche. Non si tratta, comunque, di argomentazioni da accogliere con una semplice alzata di spalle. In tempi recenti, l'idea stessa di una prova ontologica si è irrobustita grazie alle nuove armi persuasive della cosiddetta logica «modale», che non esisteva all'epoca di Kant. La logica modale è tutta centrata su un calcolo rigoroso delle implicazioni dei concetti «può» e «deve». Torna che questo nuovo calcolo logico sia importante per imbastire una nuova prova ontologica, proprio perché abbiamo incontrato tutti quei «potrebbe» al cuore della nozione stessa di ciò che «esiste». Infatti, come adesso vedremo, proprio la logica modale ha dato nuovo vigore alla prova ontologica, che non è stata, quindi, definitivamente sgominata nemmeno da Kant. 11. 2. Il Dio di Godel Umberto Eco ha fatto persuasivamente valere che gran parte della filosofia moderna era già contenuta in nuce nel pensiero medievale. Le vicende della prova ontologica di Gódel lo confermano, non solo per la perfetta continuità tra il pensiero di questo gigante della logica contemporanea e quello di sant'Anselmo, ma anche per un certo sapore di intrigo, vagamente, solo vagamente, simile a quello de Il nome della rosa. La vicenda è iniziata a Princeton nel 1970 e si è conclusa oltre quindici anni dopo, a Cambridge, Massachusetts, con la pubblicazione della prova ontologica di Gódel in un volume collettivo a cura di Judith Jarvis Thomson (professore di etica e metafisica al Massachusetts Institute of Technology). Pur non registrando delitti misteriosi e santi inquisitori, questa dimostrazione logico-matematica dell'esistenza di Dio escogitata da Kurt Gódel nel 1970 ha faticato non poco a vedere la luce. Con il consenso del curatore testamentario degli scritti inediti di Gódel, il matematico di Princeton John Milnor, e sulla base di appunti presi a caldo dal logico inglese Dana Scott (ex allievo di Gódel, trasferitosi poi anche lui negli Stati Uniti), un giovane logico statunitense, Jordan Howard Sobel, ha infine dato alle stampe il contenuto di due dense paginette, zeppe di formule, un teorema in ventotto passaggi, alla fine del quale Gódel conclude: «Come volevasi dimostrare, necessariamente Dio esiste». li teorema è intitolato proprio Ontologisches Beweis, cioè prova ontologica. E' datato 10 febbraio 1970. Di origine viennese, Kurt Gódel si era trasferito negli Stati Uniti dal 1938 e, come Einstein, era membro del celebre Institute for Advanced Study di Princeton. In quella ridente cittadina del New Jersey si è spento nel 1978, in circostanze che hanno dell'inquietante. Si è, infatti, praticamente lasciato morire di fame, ossessionato dal terrore di poter venire avvelenato. Ne trovarono il corpo, pateticamente raggomitolato in posizione quasi fetale, in un angolo della sua abitazione. Negli ultimi anni della sua vita, peraltro esternamente molto tranquilla, aveva sofferto di gravi crisi depressivi, con episodi prossimi alla psicosi. Gódel è colui che, nell'ormai lontano 1931, all'età di venticinque anni, acquistò celebrità imperitura con uno dei teoremi più importanti e famosi di ogni tempo, noto appunto come teorema di Gódel. Si tratta del teorema detto dell'incompletezza dell'aritmetica. In realtà, i teoremi di Gódel sono più d'uno, fra i quali uno antecedente, dal tono quanto mai positivo, secondo il quale (detto in modo un po' spicciolo) il linguaggio basilare della logica pura (la cosiddetta logica del prim'ordine) risultava essere un sistema deduttivo sufficientemente potente per derivare ogni tipo di verità formale che in concreto ci interessa esprimere. A questo sistema formale, come ha anche dimostrato il logico polacco Alfred Tarski, si può associare la nozione rigorosa di verità che occorre per renderlo efficace. E' a questo aspetto dell'opera di Gódel, un aspetto che potremmo caratterizzare come

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costruttivo (benché anche la summenzionata prova «di incompletezza» sia, a ben guardare, un contributo tutt'altro che distruttivo), che appartiene la sua prova dell'esistenza di Dio. Il suo contributo più famoso, quello che gli ha meritato fama imperitura, è comunque il suo teorema «negativo», quello detto, appunto, «di incompletezza». Minando le fondamenta stesse, non solo della grandiosa costruzione dei Principia Mathematica di Russell e Whitehead, ma, in un certo senso, di qualsiasi scienza formale deduttiva, con quel teorema, Gódel dimostrò che non si può mai, proprio mai, per necessità, dimostrare la coerenza e la completezza di un sistema logico e matematico di notevole potenza esaminandolo solo dall'interno. Le fondamenta di un complesso sistema logico o matematico possono essere garantite per via puramente dimostrativa solo dall'esterno, escogitando un sistema ancora più potente e più generale. La più efficace metafora per spiegare che cosa significa questo teorema di Gódel è, a mio avviso, apparsa nel settembre 1994, sotto la penna di un logico e filosofo italiano di fama internazionale, Piergiorgio Odifreddi, modestamente acquattata in una nota a piè di pagina di una sua recensione-stroncatura. La riporto testualmente, perché meglio non si potrebbe dire (questa «nota» ci fornisce anche un'efficace immagine del platonismo in matematica): Una metafora del teorema di Gódel, che ne accoglie l'essenza, è la seguente. Un romanzo ci fa conoscere una realtà possibile, i cui aspetti espliciti si possono leggere direttamente nel testo, ed i cui aspetti impliciti si possono dedurre mediante analisi ed esegesi di esso. Nessun testo descrive una realtà sufficientemente complessa in modo completo: ad esempio, i Promessi sposi non determinano quanti bambini abbiano avuto Renzo e Lucia («ne vennero poi col tempo non so quant'altri, dell'uno e dell'altro sesso»). Se il romanzo descrive una realtà possibile ma fantastica, non ha senso chiedersi se i fatti da esso lasciati indecisi siano veri o falsi; nell'esempio: quanti bambini abbiano avuto Renzo e Lucia. Se invece il romanzo descrive una realtà di fatto, allora si può dire che gli aspetti non determinati dal romanzo sono comunque determinati dalla realtà, e ci saranno quindi fatti veri non descritti (né esplicitamente, né implicitamente) dal romanzo. Romanzi, aspetti espliciti e impliciti, e critica letteraria corrispondono a sistemi matematici, assiomi e teoremi, e dimostrazioni. Il teorema di Gódel dice che nessun sistema matematico può descrivere una realtà matematica possibile e sufficientemente complessa in modo completo. Se si crede che i sistemi matematici descrivano una realtà di fatto (una posizione detta platonismo), allora ci saranno formule vere che non sono teoremi. Alla rinascita della popolarità di Gódel tra le nuove generazioni ha anche molto contribuito il best seller di Douglas Richard Hofstaedter, intitolato Godel, Escher, Bach. Gódel, almeno per una parte della sua esistenza, ha nutrito una forte propensione per il platonismo matematico, cioè, come abbiamo appena visto, per un'interpretazione dei numeri, degli insiemi, delle proprietà astratte e delle verità logiche come entità ben reali, oggettive, seppure esistenti in una realtà distinta e superiore, più alta e più durevole della realtà contingente del nostro mondo ordinario. Non consta che Gódel fosse religioso nel senso usuale, ma pare desse molta importanza al problema dell'esistenza di Dio. Pare anche, stando al suo biografo Hao Wang, che fosse convinto che il Dio della sua teoria, l'ente massimo e perfettissimo del quale era persuaso aver dimostrato la necessaria esistenza il 10 febbraio del 1970, fosse proprio il Dio delle religioni. Come dice Sobel, il Dio del teorema era per Gódel «degno oggetto di adorazione», non solo una sorta di astratta entità, una forma vuota, priva di effetti morali e senza conseguenze per l'esistenza umana. L'espressione G (dal tedesco Gott) nelle formule di Gódel denota proprio l'essere unico, assoluto, perfettissimo, oggetto di adorazione, fonte di ogni virtù. Il Dio di cui Gódel dimostra (o crede di aver dimostrato) l'esistenza necessaria si collega per filiazione diretta al Dio di sant'Anselmo, di san Tommaso, di Cartesio, di Spinoza, di Leibniz, di Kant. Concepire Dio come non esistente significa, per Godel da Princeton, così come per sant'Anselmo da Canterbury, cadere in una

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contraddizione logica e, quindi, aderire a una tesi evidentemente falsa, inaccettabile per la ragione umana. Diversi sono solo gli strumenti delle loro rispettive argomentazioni, diversa è la padronanza che Gódel ha degli strumenti della logica matematica moderna, in parte forgiati da lui stesso, ben più potenti di quelli a disposizione di Anselmo. Questi strumenti si chiamano logica modale, teoria dei quantificatori, logica del secondo ordine, logica dell'identità, teoria generale della prova. Il suo ex allievo Scott ha aggiunto alle due paginette di Gódel altre cinque paginette di appunti e di commenti, frutto delle loro conversazioni a Princeton. Gli elementi della prova possono essere così sintetizzati. 11. 3. La prova passaggio per passaggio La prova logico-matematica dell'esistenza di Dio consiste di ventotto passaggi scritti in formule della logica simbolica, con alcuni laconici commenti di Gódel in tedesco. L'esplicitazione della prova e la sua ricostruzione si devono a Scott e Sobel. In linguaggio ordinario, in modo inevitabilmente approssimato, possiamo ricostruire questa elegante dimostrazione come segue: Innanzitutto si introduce il concetto di «proprietà positiva». Gódel precisa che «positivo va inteso in senso morale e estetico»; precisa anche che una proprietà positiva è tale «indipendentemente dalla struttura accidentale del mondo». In altre parole, una proprietà, o una qualità, è positiva (nel senso di Gódel) in modo intrinseco ed assoluto, non relativamente a un certo punto di vista o a certi scopi. 1) Data una proprietà qualsiasi, o questa è positiva, oppure la sua assenza è positiva (ma non è logicamente possibile che la proprietà e la sua assenza siano ambedue positive); 2) Ogni proprietà che fa parte di una proprietà positiva è essa stessa positiva; 3) Ogni proprietà positiva può trovarsi materializzata in qualche ente (Gódel dice «ogni proprietà positiva è possibile»); 4) Un ente è di natura divina se possiede tutte le proprietà positive; 5) Il possedere tutte le proprietà positive è a sua volta una proprietà positiva; (i punti 4 e 5, ricordiamolo, riprendono le riflessioni centrali della prova originale di sant'Anselmo); 6) Quindi l'esistenza di Dio è possibile (conseguenza dei punti 3 e 5); 7) Se una proprietà è positiva, ne segue dalla sua stessa definizione che essa lo è necessariamente («indipendentemente dalla struttura accidentale del mondo»); 8) L'essenza di un'entità è una proprietà onnicomprensiva, cioè una proprietà che comporta logicamente tutte le altre proprietà; 9) Un ente di natura divina, se esiste, non solo possiede tutte le proprietà positive, ma possiede solo proprietà positive; 10) Se un ente è di natura divina, allora questa sua natura divina è un'essenza; 11) Un ente esiste necessariamente se, e solo se, per ogni sua essenza è necessario che esista qualche cosa che possiede quell'essenza; (in altre parole, una cosa è dotata di esistenza necessaria se è necessario che esista qualcosa che possiede proprio quella sua essenza, e questo - di conseguenza - vale per ogni proprietà che fa parte della sua essenza); 12) Ma ogni cosa (ogni ente) possiede un'essenza unica; quindi 13) Una cosa (un ente) esiste necessariamente se, e solo se, è necessario che esista esattamente una cosa (un ente) che possiede quell'essenza; (in altre parole, si dimostra logicamente l'unicità di Dio, se Dio esiste); 14) Inesistenza necessaria è una proprietà positiva; 15) Se Dio esiste, Egli possiede tutte le proprietà positive; quindi 16) Se l'esistenza di Dio è possibile, allora Dio esiste necessariamente.

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(Questa è una conclusione capitale per la prova: equivale a dire che l'esistenza di Dio - si ricordi di un Dio unico, in virtù della 13 - è o necessaria, o impossibile) ma, in virtù della 6), risulta che l'esistenza dì Dio è possibile, quindi, combinando la 6) con la 16), se ne deduce logicamente che, come volevasi dimostrare, 17) Dio necessariamente esiste. 11.4. Quanto ci deve persuadere la prova di Godel? La critica che Sobel ora muove a Gódel ricorda da vicino, e non a caso, quella dell'isola perfettissima mossa da Gaunilone. Gaunilone confutava Anselmo con un'analogia, ma oggi sappiamo far di meglio. Sobel adotta, infatti, una diversa strategia. Ammettiamo che Gódel abbia ragione e che Dio necessariamente esista. Dalla sua stessa dimostrazione seguono allora, inevitabilmente, due paradossali conseguenze: 1) Tutto ciò che esiste, per esempio il taglietto sul mio mento fattomi stamattina mentre mi radevo, esiste necessariamente; 2) Ogni verità, per esempio che il treno oggi è arrivato in perfetto orario, è necessariamente vera. I due ingegnosi teoremi di Sobel, che accompagnano e integrano il suo lavoro filologico sulla prova ontologica di Gódel, hanno lo scopo di dimostrare che non c'è modo di evitare queste due imbarazzanti conseguenze. Se Gódel ha ragione, allora l'esistenza del mio taglietto ha la stessa dignità (in gergo si dice lo stesso statuto ontologico) dell'esistenza necessaria, poniamo, dei numeri dispari; e la verità che il treno è arrivato oggi in perfetto orario (o qualunque altra verità contingente) assume la dignità di una verità logica. Siccome questo è inaccettabile, si deve abbandonare la conclusione di Gódel, cioè negare che Dio necessariamente esiste. Sobel si affretta a precisare, come fece anche Kant, che la confutazione della prova ontologica ammette benissimo che si possa credere all'esistenza di Dio su altre basi. A noi qui preme, però, sottolineare un problema più generale e importante: potrebbe una prova di questo tipo convincerci razionalmente dell'esistenza di Dio? Le Chiese, in particolare quella cattolica, hanno sempre visto con un certo sospetto le dimostrazioni razionali dell'esistenza di Dio, siano esse induttive, come le cinque vie di san Tommaso, siano esse deduttive, come la prova ontologica di sant'Anselmo (e ora di Gódel). Però non mi sembra che, in Occidente, il problema dell'esistenza di Dio abbia mai potuto veramente prescindere da ogni prova, o argomentazione, razionale. Poco stupisce che gli sviluppi recenti delle logiche formali e della logica cosiddetta modale (indispensabile per trattare rigorosamente, come ha fatto Gódel, i concetti di possibilità e di necessità) ripropongano il problema di una dimostrazione razionale dell'esistenza di Dio. Chi, come me, non è credente, per motivi integralmente razionali, non credo sarà rimasto persuaso da questa prova di Gódel, a dispetto della grande raffinatezza argomentativa. E' esteticamente appagante, come metodo di argomentazione rigorosa, il suo geniale abbinamento di una dimostrazione che l'esistenza di Dio è possibile, con una dimostrazione che l'esistenza di Dio è o impossibile, o necessaria, per poi concludere, del tutto logicamente, che essendo (per quanto visto) l'esistenza di Dio possibile, essa è necessaria. Ammirati e intrigati certo, ma persuasi probabilmente no. Si potrebbe parafrasare quello che lo «scettico» Hume disse del vescovo Berkeley: «Gli argomenti [suoi] non ammettono la minima confutazione, ma non suscitano la minima convinzione». Di altra natura mi sembra dover essere, infatti, la convinzione del credente che Dio esiste. Si fa più perno sulla fede che non sulla pura ragione e si crede in una persona divina, non in una forma astratta la cui esistenza necessaria possa essere dimostrata a colpi di logica, un po' come si potrebbe dimostrare, che so io, l'esistenza necessaria di un numero primo talmente grande che dopo di questo non ci possono essere altri numeri primi ancora più grandi. Non essendo teologo, non so se sia considerata idolatria adorare una pura forma platonica. Certamente le celebrazioni religiose, per esempio il Natale e la Pasqua, non cantano le lodi di una forma astratta, ma di una persona con connotati riconoscibilmente molto umani, seppur idealizzati. Con questo suo teorema, Gódel

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affermava di aver dimostrato la necessaria esistenza di un Essere perfettissimo degno di adorazione. Mi chiedo se un teologo approverebbe l'adorazione di un Ente scaturito dalla pura logica. A suo modo, comunque, la prova di Gódel ha anch'essa un suo significato altamente religioso. Se io fossi teologo, non potrei nemmeno restare del tutto insensibile. Ma torniamo al nostro interrogativo. Avrebbe potuto persuaderci una simile dimostrazione, se fosse stata perfettamente coerente? Quando venne pubblicata questa prova di Gódel, sinceramente e personalmente me lo chiesi, da nazionalista neo-kantiano. Avrebbe una prova logica come quella di Gódel potuto convincermi dell'esistenza di Dio? Dapprima mi sono trovato a pensare che non avrebbe mai potuto convincermi. La lezione di Kant mi è troppo congeniale: l'esistenza è un dato empirico e non si può dimostrare logicamente una verità di fatto. Ma qui ho avuto, sempre da buon razionalista, un sussulto. Kant, come chiunque altro (anche se meno di ogni altro) avrebbe anche potuto sbagliare. Abbiamo appena visto alcune serie critiche a Kant sulla natura empirica dell'esistenza. E se, dico se, davvero si potesse produrre una prova logica dell'esistenza di Dio? Dovrei dichiararmi persuaso? In tal caso, dovrei razionalmente essere pronto ad accettarla, proprio in quanto nazionalista. Devo essere pronto ad accettare l'esistenza di tutto (e solo) ciò che mi viene razionalmente e persuasivamente argomentato, compresa l'esistenza di un Ente perfettissimo. Perfino l'esistenza di un Ente che sia degno oggetto della nostra adorazione. Però, sempre razionalmente, non mi aspetto che si possa dimostrare logicamente, inoppugnabilmente, definitivamente, l'esistenza di Dio. Soprattutto l'esistenza di un Dio-Persona. Certo, non lo posso escludere del tutto, ma non lo ritengo probabile. La razionalità consiste anche in una ragionevole fiducia nelle nostre stime di probabilità e di improbabilità. Fino a dimostrazione contraria, appunto, mi sembra razionale basarmi su questa stima. Del resto, i credenti la vera persuasione l'hanno sempre cercata, e continuano a cercarla, dentro di loro, nel loro intimo, non nella logica pura. La prova ontologica dell'esistenza di Dio resta il tentativo più ambizioso di persuasione razionale che mai sia stato tentato da un essere umano. E' normale che ci abbia accompagnato per quasi mille anni, e che ancora se ne cerchino nuove varianti. E' veramente la sagra del santo Graal della persuasione. Forse non ci dice molto su Dio, ma certo ci dice molto su di noi. Simbolizza una incondizionata fiducia nel potere della persuasione razionale. Come questo libro ha cercato di dimostrare, la realtà non corrisponde a questo ideale, ma l'ideale evidentemente esiste in noi, ed è ben vivo. conclusione... Conclusione: Il dilemma di Wotan Un contrasto ben noto nelle teorie della persuasione è quello tra credenze indifendibili e azioni inesplicabili. Per immedesimarci meglio in questo contrasto torniamo a teatro. In questa conclusione, mi sono preso lo sfizio di sconfinare nella mitologia germanica, ma spero sarà chiaro che il succo della storia vale indipendentemente dalle vicende mitologiche di cui ora parleremo. Anche noi, come gran parte del pubblico italiano della lirica nei decenni a cavallo tra Ottocento e Novecento, metteremo Wagner, con cui concludiamo, «contro» Verdi, con cui abbiamo iniziato. Come creerei io l'Altro che non fosse più me, e che da sé stesso compisse quanto solamente io voglio?

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... L'Altro che io auspico, e che latita: dunque da sé deve questo Libero crearsi, ché io unicamente riesco ad asservire dei servi. Avevamo raggiunto il grado massimo, il diamante della persuasione, ne La traviata. Adesso siamo all'estremo opposto, al grado zero nella scala della persuasione, alla nebulosa di Wotan. Infatti, a Wotan, re degli dei, occorre un intervento ancora più lieve della persuasione. Più lieve perfino di un suggerimento. Il suo volere non può in alcun modo trasmettersi all'Altro, al totalmente Libero. L'Altro (das Andre), che a insaputa di Wotan già sta sviluppandosi nel ventre di Sieglinde e che si chiamerà Sigfrido, deve volere ciò che Wotan vuole, ma lo deve volere da sé stesso. Altrimenti, non sarebbe né veramente libero, né veramente Altro, cioè altro da Wotan. Non potrebbe, allora, compiere l'atto di salvezza che Wotan auspica: recuperare l'anello del Nibelungo e riconquistare agli dei il potere sul mondo. I loro due voleri devono coincidere, senza influenze e senza interferenze. Saremmo tentati di dire che devono «semplicemente» coincidere, ma non c'è niente di semplice in questa vicenda. Ripercorriamone alcuni capisaldi: Wotan è obbligato all'osservanza dei Patti, di cui è il supremo garante, e che sono tutti incisi sull'asta della sua lancia. Per l'osservanza dei Patti ha dato in pegno il suo occhio sinistro. Si è imposto, cioè, di farsi cieco in parte (il diritto e la giustizia sono sempre associati a una cecità, che significa imparzialità). L'anello è stato dato da Wotan ai giganti Fafner e Fasolt, in pagamento per la costruzione del Walhalla, la sua sontuosa reggia. Se l'anello cadesse nelle mani di Alberico il Nibelungo, condottiero delle armate delle tenebre, sarebbe la fine di Wotan e di tutti gli dei. Urge riconquistarlo, ma chi lo possiede ne detiene il diritto, e Wotan è il garante di ogni diritto. Non può essere Wotan stesso a riconquistare l'anello. Né può essere lui la causa, sia pure indiretta, di un'azione che porti alla riconquista. Uno «più libero di lui», Altro, deve liberamente volere la riconquista dell'anello, e così conseguirla senza compromettere l'autorità di Wotan, scongiurando la caduta degli dei. Il dilemma di Wotan sta nel dover lasciare la volontà di Altro perfettamente libera, pur portandolo ad esistere, cioè creandolo, in modo che Altro voglia per moto proprio, con assoluta determinazione, compiere l'azione che Wotan auspica. Nemmeno al re degli dei è consentito, però, volere la libertà di un altro, e crearlo libero, pur creando entro la sua volontà anche un contenuto, una determinazione verso un preciso obiettivo. Questa è una contraddizione concettuale, ancor prima di essere una limitazione dei poteri di Wotan. La lievità assoluta del «metodo», imposta a Wotan dalla sua assoluta osservanza dei Patti, è incompatibile con il fine. Con chi il patto io strinsi incontrarmi certo non devo; impotente il coraggio mio sarebbe al suo cospetto: tali sono i legami che ora me legano. Le norme che Signore mi fecero, son quelle che servitore mi fanno. Un dilemma offre sempre due volti contrapposti. Questo dell'impotenza di Wotan è il primo. Ecco il secondo:

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Solo Uno potrebbe quant'io non posso: un eroe al di sopra di ogni mio soccorso; uno alieno alla mia deità, libero dai miei favori, inconsapevole, non influenzato, per necessità sua propria, con armi da sé forgiate, il gesto compisse che a me è precluso, senza che la mia ispirazione lo ispirasse, Uno che ugualmente a me volesse solo il mio volere! Ma questo eroe, tanto desiderato, si rivela impossibile anche nel nome (nemico amichevole - freundliches Feind). Nemmeno Wotan sa dove trovarlo, come crearlo. Siamo veramente al cospetto di un disegno che è troppo lieve per potersi concretizzare. Wotan non può nemmeno persuaderlo, può solo sperare che Altro, il suo eroe (cioè Sigfrido), compia un volere che è anche il suo. Infatti, quando non è consentito nemmeno tentare con la persuasione, o il suggerimento, resta solo la speranza passiva. Così sarebbe nella vita reale. Wotan sembra presumere, pur senza averne certezza, che una replica fedelissima di sé, un clone, un Altro identico, possieda per sue vie indipendenti un volere libero e privo di influenze, eppure con gli stessi contenuti del suo. Il dilemma di Wotan si lascia cogliere da un sillogismo, affine a quelli che abbiamo già incontrati (v. cap. 5), ma di un genere molto più fragile: Wotan vuole che Sigfrido voglia quello che Wotan vuole. Wotan vuole che Sigfrido conquisti l'anello. Dunque: Sigfrido vuole conquistare l'anello. Ma è presto verificato quanto tenue sia questa logica, quando si applica a verbi come volere, pensare, credere (v. par. 8. 1). Infatti, non abbiamo dubbi sul ragionamento seguente, perfettamente persuasivo perché imbastito su un verbo fattuale (come toccare, vedere, pesare ecc.): Sigfrido vede quello che vede Wotan. Wotan vede l'anello. Dunque: Sigfrido vede l'anello. Restiamo, invece, giustamente perplessi di fronte al seguente, applicato a Wotan e al suo «doppio»: Sigfrido crede tutto quello che crede Wotan. Wotan crede di essere vincolato ai Patti. Dunque: Sigfrido crede di essere vincolato ai Patti. Ma la conclusione qui potrebbe anche essere assai diversa: «Sigfrido crede che Wotan sia vincolato ai Patti.» Non sapremmo quale sia quella giusta, e ci corre un mondo tra le due.

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Se introduciamo un verbo come «volere», addirittura applicato, a sua volta, a un altro volere (o al volere di Sigfrido), l'esito è, a dir poco, incerto. Vedremo tra un momento perché il sillogismo di Wotan è inefficace. Eppure, come abbiamo appena constatato, la sola «azione» possibile per Wotan è credere nella validità del suo sillogismo. Nel dramma musicale Die Walkure (Wagner ci teneva molto a dire che le sue non erano opere, ma drammi musicali) la vicenda percorre opzioni diverse, e una soluzione al dilemma di Wotan viene, seppur confusamente, più per istinto che per ragionamento, tentata da Brunilde. Ripercorriamo ancora, solo per un momento, le linee maestre del dramma: Wotan comanda alla sua figliola prediletta, la valchiria Brunilde, di lasciare che Siegmund muoia in battaglia per mano del perfido Hunding. Siegmund è l'amatissimo figlio «naturale» di Wotan e di una donna di questa terra, ed è quindi mortale. Era, forse, lui stesso un buon candidato per incarnare l'Altro, ma ha sedotto la sua propria gemella Sieglinde e l'ha rapita al legittimo marito Hunding, che lei non amava e che l'aveva ottenuta con la forza. Ha consumato, quindi, un doppio oltraggio ai Patti di cui Wotan è garante supremo, e in specie al patto nuziale, di cui Fricka, moglie di Wotan, è garante particolare. Quello di Siegmund e Sieglinde è un adulterio aggravato dall'abuso dell'ospitalità offerta da Hunding a Siegmund, dalla fuga di Siegmund e Sieglinde e dalla natura incestuosa della loro unione. Wotan cerca di persuadere Fricka a mostrarsi indulgente con gli amanti-gemelli, ma Fricka è irremovibile. Siegmund deve morire per mano di Hunding. A Wotan non resta altro che dare il tremendo ordine a Brunilde (lasciare che Hunding uccida Siegmund), sacrificando il figlio tanto amato alla vendetta di un bruto. Brunilde obbedisce solo a metà, sentendosi votata a eseguire sempre e comunque il volere di Wotan, sentendosi lei stessa il volere di Wotan, e credendo di intuire quello che Wotan vuole veramente, al di là dei suoi obblighi. Mette in salvo Sieglinde, che porta in grembo Sigfrido. Sarà questo figlio dell'amore incestuoso a riconquistare l'anello. Sigfrido, come testimoniano il dramma musicale omonimo (terzo del ciclo wagneriano), e poi il quarto e ultimo della tetralogia (La caduta degli dei - Gotterdammerung ) non è veramente, pienamente l'Altro, il «nemico amichevole» tanto auspicato da Wotan. E' pur sempre, però, quanto di più vicino a questa figura astratta, a questo «ente» di desiderio, si possa andare. Sigfrido può spezzare i Patti che legano Wotan, può riconquistare l'anello e farlo suo, ma è ignaro del potere dell'anello. Questo fa si che il disegno di Wotan non sia portato a compimento. Sigfrido verrà ammaliato da un filtro, si lascerà ingenuamente invischiare nelle trame di potere e di vendetta intessute dal nemico Nibelungo e verrà ucciso a tradimento da Hagen, figlio di Alberico, capo dei Nibelunghi. L'anello non cadrà nelle mani del Nibelungo, ma non sarà nemmeno dato a Wotan. Ritornerà dove era stato originato, nelle profondità del fiume. Verrà restituito da Brunilde alle fanciulle del Reno, le sue custodi di sempre, alle quali Alberico lo aveva sottratto. Wotan e tutti gli dei del Walhalla, privati ormai della speranza di riconquistare l'anello, vengono inghiottiti dal nulla. Si consuma, appunto, «la caduta degli dei». Il dilemma di Wotan non era solubile, né dagli uomini, né dagli dei. Sigfrido è troppo libero per volere ciò che vuole Wotan. Vuole un oggetto, ma non quell'oggetto «secondo la descrizione» di Wotan (come si direbbe oggi nella filosofia della mente). Diciamo, più semplicemente, che non lo vuole secondo le intenzioni di Wotan. Vuole solo un monile luccicante, un trastullo, non l'anello in quanto «potere sul mondo», in quanto oggetto salvifico per gli dei. Il sillogismo di Wotan ha una conclusione simile a quella da lui sperata, ma non esattamente quella sperata. Si tratta di due oggetti diversi: l'anello inteso da Wotan e da lui voluto, non è lo «stesso» anello inteso da Sigfrido e da lui voluto. Sigfrido è abbastanza libero da voler riconquistare l'anello, o meglio quello che l'anello è «per lui», ma il suo volere non è identico a quello di Wotan, identico al punto di voler riconquistare l'anello in quanto oggetto del volere di Wotan. Sigfrido riconquista l'anello,

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uccidendo il drago che lo custodisce, ma si tratta solo di una bravata, senza un disegno, senza un'intenzione. Senza, cioè, l'intenzione che sia la stessa di quella di Wotan. Le due volontà sono solo simili, ma non sono la stessa. Quindi, nemmeno l'anello è lo «stesso» anello. L'uso dissennato che Sigfrido ne fa dimostra questa differenza. L'anello presente nella volontà di Sigfrido non ha alcun potere, perché Sigfrido ne ignora i poteri, e non rappresenta più la salvezza degli dei. Per effetto del dilemma di Wotan, nessuno può informare Sigfrido, a rischio di togliere comunque all'anello ogni potere salvifico. Quando è impossibile, non solo influenzare, ma anche indirizzare, indurre, persuadere, perfino suggerire, la libera volontà di un altro (sia pure di Altro, il clone di Wotan), questa prende altri contenuti, altri cammini, anche stolti, anche autodistruttivi. I più piccoli disguidi vengono lasciati accumularsi e seguire il loro corso, senza possibili correttivi, portando alla immane rovina. La caduta degli dei è l'impossibilità di risolvere il dilemma di Wotan. La non-azione di Wotan, la sua fiducia in un sillogismo che è solo un sofisma, non può mutare il corso degli eventi. Applicando solo un foglietto di filosofia della mente a questa notissima vicenda, possiamo vederne un risvolto nuovo e per noi pertinente. Gli oggetti del volere sono gli stessi solo se vengono voluti sotto lo stesso profilo mentale. Il sillogismo di Wotan reca in sé una contraddizione letale. Come abbiamo già visto (par. 8. 1) esiste una «opacità» dei verbi psicologici (come credere, ritenere e, appunto, volere) che blocca le inferenze. Volere che un altro voglia qualcosa che noi vogliamo risente di questa opacità. (E' un termine tecnico della filosofia moderna, ma lo si capisce bene anche d'intuito.) Dobbiamo supporre che ci sia solo, per così dire, una omonimia, non un'identità, tra l'anello che compare nelle premesse del sillogismo di Wotan e quello che compare nella (da lui tanto auspicata) conclusione. Si tratta, in fondo, di un sofisma come quello del cane e della costellazione. (Il cane è una costellazione, il cane abbaia, ma è insensato dedurne che la costellazione abbaia. I due termini «cane» hanno solo lo stesso suono, ma sono cose diverse. E cosi i due anelli.) Come i logici ci insegnano, anche una sola contraddizione insanabile determina il crollo di un intero sistema che la contiene. Il sistema come un tutto è condannato, anche se ci occorre gran tempo per capirlo. Sarebbe intimamente condannato anche se non ci accorgessimo mai che esiste quella contraddizione. Ciò di cui si parla, o almeno ciò che a noi qui più interessa vederci, è come un intero mondo può dissolversi a causa di un paradosso. Il bavaglio che Wotan si è condannato a portare gli impedisce di mettere in guardia Sigfrido. Non può inflettere in alcun modo quanto avviene. Ma, chi sa come andranno le cose non può limitarsi solo a sperare. La conoscenza certa grida di agire. Ma Wotan non può agire, pur sapendo. Gli dei della mitologia wagneriana, come del resto gli dei di ogni mitologia, hanno un curioso rapporto con il destino (che nel ciclo wagneriano le tre Norne intrecciano in una corda). Come ci insegna Omero, gli dei vedono il tempo come il presbite vede il mondo: tanto meglio quanto più lontano. Wotan sa prevedere la propria caduta e saprebbe come scongiurarla, ma è cieco, anche con l'occhio che gli resta, su quanto succederà nella prossima ora. Questa è la vera, profonda contraddizione che condanna gli dei. Se l'idea del «destino» non ci piace, poco male, sostituiamola con l'idea di necessità. Sia che si tratti della necessità «naturale» (le forze della natura e la nostra biologia), o della necessità «psicologica» (il cosiddetto inconscio individuale, fatto di volontà sommerse, nodi affettivi inestricabili, paure e angosce di cui ignoriamo quasi sempre le cause e talvolta perfino l'esistenza). C'è anche chi crede in una necessità «storica». Io non sono tra questi, ma è innegabile che esistono fattori collettivi potenti che condizionano la libertà e possono modificare la volontà. Esiste, infine, ciò di cui Wotan è sommo garante: la necessità, intimamente vincolante, dei patti e degli imperativi morali. Necessità, volontà e libertà si intrecciano finemente, come la corda delle Norne.

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E' stato detto che la libertà altro non è che la conoscenza della necessità. Ma ci si era scordati di aggiungere che la libertà ha il passo della prossima ora, e di quella dopo, e di quella dopo ancora, mentre la necessità ha un passo molto più lungo. La presbiopia degli dei è anche la nostra. Ciò che fallisce, ciò che va in rovina, non sono quasi mai i progetti, i piani, i Patti, in quanto tali. Ciò che li manda in rovina sono le mille imperfezioni cumulative del tempo breve. La salvezza quasi sempre ci sfugge, come per Wotan, per una sequela di piccoli disguidi, per la stortura di tanti piccoli passi. Il futuro non obbedisce al destino, o a «un» destino, comunque lo si chiami. Obbedisce Piuttosto a questo cumulo di piccoli disguidi che possono avere conseguenze immense. La levità della persuasione può farci uscire dal dilemma di Wotan, dalla nebulosa della sola speranza passiva' La persuasione, seppur lieve, è molto spesso efficace. E basata sulla libertà. Ma è più di una semplice speranza, ed è più di un suggerimento. Può bastarci per agire insieme, con razionalità, aiutandoci l'un l'altro, di ora in ora, contrastando ad uno ad uno questi piccoli disguidi, con lo stesso loro piccolo passo. L'unico che possiamo mantenere. appendice... 1 Storia e non-storia della persuasione Persuasione e arte della retorica Sulla persuasione, o piuttosto, sulla cosiddetta «teoria» della persuasione, sia di quella manifesta che di quella «occulta», pareva che quasi tutto fosse stato già scritto. Non stupisce che esista una storia lunga e illustre di trattati sulla persuasione, l'argomentazione, l'influenza, la propaganda, la manipolazione delle opinioni, la ricerca del consenso. A mio avviso, era stato scritto quasi tutto, meno l'essenziale. Spiegherò qui, in sintesi, perché, tutto sommato, non ho trovato questa storia molto illuminante. Cominciamo con i Sofisti, sostenitori della persuasione come un fine in sé, per i quali il vero coincideva addirittura con il persuasivo. (Una tesi che, curiosamente, ha trovato adepti in questi ultimi anni nel settore - pensate del metodo scientifico.) Tutto quanto abbiamo visto nei capitoli precedenti è, di fatto, una chiarissima confutazione di questa tesi. Platone, nel Gorgia, si preoccupava, invece, di innestare saldamente l'arte della retorica sull'etica, preoccupato che i virtuosismi dell'oratore possano riuscire a presentare come bene ciò che è male, e viceversa. Aristotele, avvicinandosi più a noi, scinde la forma dal contenuto, considerando l'arte della retorica, e quindi della persuasione, in sé né morale né immorale. Verità e persuasività non vengono confuse, a differenza di quanto sostenevano i Sofisti, e Aristotele propende a considerare l'atto di persuasione come un fenomeno di ordine naturale, una sorta di moto della psiche. E' chiaro dunque che la retorica è utile e che la sua funzione non è il persuadere, ma il vedere i mezzi del persuadere che vi sono intorno a ciascun argomento, come avviene pure nelle altre arti: infatti non è proprio della medicina il render sani, ma far procedere nella guarigione sino al punto che è possibile curare bene anche quelli che non possono più riacquistare la salute. Perfeziona, anche, una classificazione delle argomentazioni e delle figure retoriche, quindi degli schemi principali della persuasione, che ci accompagna ancora oggi. Non c'è trattato sulla persuasione, da Aristotele in poi, che non offra una qualche classificazione degli argomenti, delle forme, delle componenti e dei modi. Della scoperta, da parte di Aristotele, di quello che abbiamo chiamato il concetto centrale della persuasione, abbiamo già parlato (par. 4. 1).

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Oratori e esperti di giurisprudenza, come Cicerone e Quintiliano, elaborarono trattati di retorica che ebbero enorme influenza per molti secoli. Con il diffondersi del Cristianesimo, alcuni teologi, predicatori e confessori si concentrarono sul modo di diffondere la fede, quindi sulle tecniche per persuadere e convertire, facendo spesso tesoro delle trattazioni sulla retorica degli autori pagani. Consapevolmente o inconsapevolmente, rafforzarono l'idea che le forme efficaci della persuasione possono essere separate dal loro contenuto. (La sola vera gemma della persuasione di tutto questo periodo è la prova ontologica dell'esistenza di Dio - v. cap. 11) Alcuni problemi tipici che si incontrano in questi antichi trattati sono vivi (e, mi sembra, irrisolti) ancora oggi: se presentare subito, in apertura, l'argomentazione più forte, o se invece lasciarla alla fine, dopo aver presentato varie argomentazioni meno forti, ma tutte convergenti; se far più leva sulla ragione o sui sentimenti, sulla immaginazione o sulla dimostrazione, sulle metafore o sulla concretezza. Inutile dire che nessuno è mai veramente riuscito a fornire ricette definitive e che, per ogni strategia persuasiva, si può subito pensare a una strategia contraria e di uguale effetto. Pullulano gli esempi storici e letterari. Si sottolinea, per esempio, che Shakespeare, per bocca di Antonio, nella sua celebre orazione funebre, lascia alla fine il pezzo più forte: il testamento di Cesare a favore del popolo romano. Lo lascia alla fine, perché prima ha ben preparato l'uditorio a dargli l'interpretazione che a lui più preme: la designazione implicita del successore. Poco ci interessa qui elencare i dotti nomi di queste tecniche (ad esempio, l'argomentazione detta nestorica è quella che raggruppa all'inizio e alla fine i pezzi più forti, proprio come Nestore manteneva nel suo esercito, in battaglia, le truppe meno sicure al centro della compagine). A noi, spettatori di innumerevoli film centrati sui dibattiti processuali, il meccanismo della persuasione a suspense è arcinoto. E' persuasivamente irresistibile lasciare proprio alla fine il colpo di scena, il testimone inaspettato e decisivo, la prova mantenuta segreta fino all'ultimo, ben preparando in anticipo, implicitamente, l'uditorio a riceverla. La nuova retorica Le regole auree contenute nei trattati dell'antichità riaffiorano e si perfezionano nei secoli dal 1500 al 1700, durante i quali si innesca un movimento in tre fasi: 1 - Rinascita della retorica tradizionale; 2 - Rivolta contro la retorica tradizionale; 3 - Movimento per una nuova retorica (che culmina in The arte of retorique di Thomas Wilson, del 1553). Il razionalismo, soprattutto in Cartesio, e nel De Dignitate et Augmentis Scientiarum di Francesco Bacone, fornisce contenuti e finalità nuove all'arte della persuasione. Inizia quella ricerca, sulla quale ci siamo anche noi ampiamente soffermati (par. 6. 7), di cosa rende persuasivo un ragionamento scientifico. Paradigmatico è il giudizio di Bacone: Il dovere e compito della retorica è quello di applicare la ragione all'immaginazione per meglio far agire la volontà. Un autore inglese della fine del Seicento, B. Lamy, nel suo Art of speaking, insiste su un punto centrale: Per persuadere abbiamo necessità di un unico argomento, purché sia solido e forte, l'eloquenza di cui tanto si parla, consiste nel chiarirlo e renderlo evidente. L'Ottocento inglese vede intensificarsi l'esigenza del parlar chiaro, del parlar semplice, rivalutando il linguaggio comune, la logica intuitiva e la compenetrazione tra ragione, immaginazione e sentimento. R. Whateley pubblica nel 1828 un importante compendio, dal titolo Elements of Rhetoric.

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A dispetto di indubbia ingegnosità, grande erudizione e acume analitico, questi trattati spesso mi fanno pensare a una vecchia gag dell'attore Peter Ustinov. Prima del gran premio di Formula Uno, si chiama l'esperto degli esperti di macchine da corsa. Dopo aver tutto esaminato, il guru della meccanica sentenzia: «Quello che veramente conta è migliorare il motore, il telaio, le gomme e il pilota». E se ne va. L'influente trattato dell'argomentazione Saltando a piè pari oltre un secolo, prima di passare al contributo della psicologia scientifica applicata alla persuasione, che è il quadro dal quale, volenti o nolenti, noi stessi qui abbiamo dovuto prendere le mosse, è doveroso almeno menzionare il vasto e influente Trattato dell'argomentazione: La nuova retorica del logico Chaim Perelman e della psicologa sociale Lucie Olbrechts-Tyteca, inizialmente pubblicato in francese nel 1958 e poi tradotto in molte lingue (la versione italiana, in due volumi, è della Einaudi, 1966). Esso intende segnare una rottura rispetto a una concezione della ragione e del ragionamento, nata con Descartes, che ha improntato di sé la filosofia occidentale degli ultimi tre secoli. In sostanza, si combatte la tesi che nelle relazioni umane di ogni giorno, al di fuori della «torre d'avorio» delle scienze e della filosofia, il discorso persuasivo faccia leva soprattutto sull'irrazionale, sulla suggestione, sull'ascendente personale. L'intero trattato esplora sistematicamente i presupposti e le strutture ricorrenti degli argomenti più svariati, dall'analogia e la metafora alle argomentazioni ad hominem, dall'ironia alle tautologie, dal ridicolo all'argomento di autorità, spaziando dall'antichità ai moderni, dalla filosofia alla scienza, dalla giurisprudenza alla letteratura. Potremmo, un po' brutalmente, ricapitolare la tesi di questo trattato dell'argomentazione parafrasando l'Amleto di Shakespeare: se la persuasione nella vita reale è davvero basata sull'irrazionale, in questa follia c'è del metodo. In anni nei quali si ritenevano troppo «aridi» il «logicismo» e lo «psicologismo», e si applaudiva sempre chi spostava i problemi sulla genesi storica, sul divenire «dinamico», sul «fare» e sulla tecnica, questo trattato conobbe grande popolarità accademica. Ricordo anni nei quali non si poteva, per così dire, frequentare i salotti letterari buoni senza averlo letto e digerito. Sarà forse perché mi sento troppo neo-cartesiano, ma confesso che, pur condividendo in gran parte (come abbiamo visto) la tesi di fondo del trattato, a dispetto del suo alto livello filosofico, della ricchezza di dati e dell'immensa erudizione, non ci ho trovato le chiavi che più mi premevano. Si resta pur sempre in una torre d'avorio, tra i grandi Autori. Della persuasione nella vita quotidiana non ce n'è nemmeno la traccia. Il nostro approccio qui è stato diverso. Abbiamo dovuto anche sporcarci le mani, scendere nei mercati, studiare le argomentazioni improvvisate, parlare con i manager, esplorare direttamente la psiche della gente ordinaria. Questo ci induce a dire qualcosa, seppur con delle riserve, sul filone anglosassone della psicologia sperimentale e del training alla comunicazione. La psicologia della persuasione La vera novità del nostro secolo, in materia di teorie sulla persuasione, è costituita dalla irresistibile ascesa della psicologia sperimentale, e dalla compenetrazione, di stampo soprattutto statunitense, tra manipolazioni in laboratorio, studio della propaganda politica e tecniche di marketing. Dagli anni Trenta in poi, nel mondo anglosassone, si cerca soprattutto di insegnare agli uomini di affari come essere più persuasivi, e ai futuri politici come meglio parlare in pubblico. Già nel 1915 James A. Winans aveva pubblicato un manuale intitolato, sintomaticamente, Public Speaking, che manifestamente risente dell'influenza delle teorie dell'attenzione del grande psicologo americano William James. L'approccio di Winans consisteva nell'applicare alla situazione del discorso in pubblico il «principio di fondo della persuasione»: «ciò che trattiene l'attenzione determina

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l'azione». Una delle asserzioni principali di quest'opera è che «la persuasione è il procedimento che serve per indurre gli altri a prestare una benevola, favorevole ed unanime attenzione a delle affermazioni». Ciò equivale a servirsi dell'attenzione per definire la persuasione; più esattamente l'attenzione costituirebbe il fine ultimo della persuasione. Le definizioni si moltiplicano e il dibattito prosegue nutrito negli ambienti della psicologia pura ed applicata, fino agli anni della seconda guerra mondiale, quando l'urgenza di capire le armi psicologiche usate dalla propaganda nei sistemi totalitari imprime una svolta a molte di queste ricerche, rimaste fino ad allora puramente accademiche (v. par. 10. 1). E' proprio in questi anni infatti che presso l'università di Yale, Carl Hovland, professore di psicologia, e i suoi collaboratori si preoccupano di influenzare il morale dei soldati e di cambiare l'atteggiamento della popolazione civile nei confronti dello sforzo bellico. Dopo la guerra, Hovland e parecchi studenti mettono a punto un approccio al «cambiamento di atteggiamento» che sarà conosciuto poi come Yale Communication and Attitude Change Program. Da allora fino agli anni Sessanta, l'approccio psicologico di stampo americano alla persuasione sarà, inevitabilmente, soprattutto pragmatico e di ispirazione comportamentista. Per quanto possa oggi sembrarci strano, si applicheranno proprio alla persuasione, il più intimamente e irriducibilmente mentale dei processi, i criteri di una psicologia che aborriva tutto ciò che fa riferimento alla mente, alla volontà, alle convinzioni, ai desideri e alle credenze. L'arte retorica lascia il posto ai meccanismi, ai riflessi e alle associazioni, la teoria lascia il posto a una tediosissima sperimentazione, che riscopre le cose più ovvie, seppur riccamente corredate di grafici, controlli statistici, termini complicati, scale numeriche di indici di gradimento. Legioni di studenti universitari americani vengono, su pagamento di modesti compensi monetari, o su garanzia di riconoscimento della loro collaborazione ai fini degli esami in psicologia, sottoposti a tediosi esercizi di persuasione. L'illusione di poter lasciar fuori la mente in quanto tale è fornita da una sequela di abbinamenti statistici tra «situazioni» sperimentalmente ben definite e «risposte» misurabili (magari su una scala numerica del tutto arbitraria). Tipicamente si leggono, in questi testi, «definizioni» del seguente tenore: «La persuasione è l'atto di manipolare dei simboli in modo da produrre dei cambiamenti nel comportamento valutativo (o di accettazione/rifiuto) di coloro che interpretano simboli». Non si vede bene come mai, in base a questa definizione, non conti come rapporto di «persuasione» anche ogni analisi degli indici di Borsa, o il dialogo silenzioso tra il pilota che rientra sulla portaerei e il segnalatore sulla tolda di atterraggio. Ma questo è il difetto inevitabile di tutte le definizioni. Questa l'ho riportata a mo' di esempio, perché si vede bene come, in questo genere di psicologia, parlare di «atto di manipolazione» e di «comportamento valutativo» è accettabile, mentre non lo sarebbe stato (chissà perché) parlare di rappresentazioni mentali, credenze, processi di ragionamento, cambiamenti di opinioni. Molte delle definizioni di questa manualistica restano puramente erudite e non reggono a un esame più attento. Del tutto infruttuoso mi sembra, per esempio, il tentativo ripetuto di tracciare una distinzione tra persuadere e convincere. Facendo violenza alla lingua comune, si è cercato di sostenere che la convinzione fa appello alla ragione, mentre la persuasione è un appello alle emozioni. Poco convincente è anche la tripartizione tradizionale tra ethos (persuasione che scaturisce dalla forza morale o dal carattere dell'oratore), logos (persuasione che deriva dalla logica dell'argomentazione), e pathos (persuasione che fa appello all'emotività). Nella vita ordinaria, queste componenti si trovano quasi sempre mescolate e l'unica sulla quale si possa dire, oggi, qualcosa di interessante e nuovo è quella del logos, come abbiamo visto. Al fine di capire la persuasione, è anche largamente irrilevante il dibattito, che ha infuriato negli ambienti della psicologia americana dei primi decenni del secolo, se la mente sia suddivisa in facoltà separate, o se sia «tutt'una». Nelle scienze cognitive si propende attualmente per una concezione «modulare» della mente, che io sottoscrivo, ma non mi pare che questo incida molto sullo studio della persuasione. Anche se la mente è modulare, in un processo di persuasione si devono sempre mobilitare molti «moduli». Quello che risulta interessante, come si è visto (par. 4. 3), è la recente scoperta di tendenze interne quasi automatiche, come l'effetto dotazione e l'inerzia

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dello status quo. Queste fanno parte non più della psicologia in senso tradizionale, ma delle scienze cognitive. Solo in anni più recenti si è fatta strada, infatti, anche una psicologia di stampo francamente cognitivo, nella quale non si ha più paura di invocare la mente, i suoi contenuti, i suoi meccanismi, i suoi cambiamenti. Egregi esponenti di questa corrente sono Leon Festinger e William McGuire. E' del primo, infatti, la teoria della dissonanza cognitiva (1957) che si focalizza sulle relazioni sociali, la conoscenza delle persone, degli eventi, degli oggetti. Comunque Festinger circoscrive il suo punto focale fino ad includere non più di due tipi di relazioni pertinenti: quelle dissonanti e quelle consone. Queste sono le sue parole: «Due elementi sono in relazione dissonante se, considerando questi due soli, è l'opposto di un elemento che si conforma all'altro». Per esempio, se una persona già indebitata comprasse una macchina, risulterebbe una relazione dissonante tra i due elementi cognitivi «comprare una macchina» e «avere debiti». Il declino della teoria della dissonanza cognitiva è probabilmente dovuto al suo eccessivo semplicismo. Ogni ricerca che prende le mosse da una prospettiva di dissonanza cognitiva aggiunge nuove variabili tali da adattarsi ai requisiti necessari all'impostazione di Festinger. Affine all'approccio in termini di dissonanza è la cosiddetta teoria dell'inoculazione di McGuire (di cui abbiamo parlato nel par. 4. 2). Facendo affidamento sulla metafora dell'immunizzazione contro la possibilità di un futuro disagio, McGuire ipotizza che coloro che vengono persuasi possono essere immunizzati contro la possibilità di imbattersi in argomenti contrari in un futuro. McGuire, Tannenbaum e Norris hanno dimostrato, all'inizio degli anni Sessanta, che la forma più efficiente di immunizzazione consiste nel combinare messaggi di sostegno e messaggi di confutazione, piuttosto che caricare coloro che vogliamo persuadere, semplicemente, con argomenti a supporto. McGuire interviene alcuni anni più tardi (1969) anche sui processi di cambiamento dell'atteggiamento, infittendo la ormai folta schiera di coloro che sostengono che la persuasione non è un processo unitario, introducendo la nozione di yielding (cedere il passo, farsi da parte): fondamentalmente, una persuasione riuscita innescherebbe una riorganizzazione cognitiva, che può o meno essere direttamente rispecchiata nel comportamento. In questo libro, noi ci siamo posti, senza esitazioni, senza scuse e senza remore, in un ambito cognitivo e mentalista. Occorre comunque mettere in guardia il lettore anche contro tanta parte della letteratura psicologica sulla persuasione, compresa, spesso, quella di ispirazione cognitiva. Con rare eccezioni, la storia delle ricerche sperimentali sulla persuasione è un deserto di banalità. Con gran tedio, in una vastissima produzione specializzata, si possono trovare annunciate e commentate «scoperte» del seguente tenore (già fatte, come abbiamo visto, da Aristotele): un'argomentazione risulta tanto più persuasiva quanto più autorevole è la persona che la offre (pardon, dovrei dire la «fonte»), quanto più le conclusioni sono in armonia (pardon, dovrei dire «consonanti») con le opinioni e i valori già consolidati in chi la riceve, e quanto più le conseguenze pratiche portano in direzioni verso le quali il destinatario già si sentiva attratto. Si riscopre, appunto, la ruota. E' ben vero quanto afferma il mio amico Jerry Fodor, insigne filosofo e scienziato cognitivo: ci vogliono proprio certi studiosi per riuscire ad ottenere una metamorfosi contro natura, cioè far ridiventare bruco una farfalla. In questo caso, la farfalla è il meraviglioso, versicolore, improvvisato processo della persuasione, mentre il bruco è fatto di scale Thurston a undici valori, di scomposizioni delle motivazioni, analisi degli atteggiamenti in termini di «polarità», differenziali semantici, dimensioni di potenziamento, «potenziali conativi» e altre squisitezza. Siccome questo era un libro sulla farfalla, non sui bruchi, la nostra storia è stata di tutt'altro tenore. _