L’annus mirabilis di Einstein e Schlieffen! · movimento della Passione secondo Matteo di Johann...

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Anno X - n.6 Maggio 2014 Periodico di informazione e discussione dell’IIS «Luigi di Savoia» Internet: www.itisavoia.ch.it e-mail: [email protected] [email protected] (continua a pag.5) L’annus mirabilis di Einstein e... Schlieffen! Qualche giorno fa, ritornando a casa da scuola, ascol- tavo in macchina il primo movimento della Passione secondo Matteo di Johann Sebastian Bach. Un ascol- to, lo confesso, distratto, come capita spesso quan- do si sente musica dall’au- toradio. Nonostante la distrazione (nell’ascolto, non nella guida, beninte- so) ad un certo punto sono stato come folgorato dal- le parole del coro: «Seht! Wohin? Wohin?». «Guar- date! Dove? Dove?», già, dove? «Auf unsre Schuld», «alla nostra colpa». Una persona molto arguta dis- se che, in Italia, si parte dal presupposto che la colpa è sempre degli altri, mentre negli USA, l’assunto di fon- do è che la colpa è sempre dell’individuo. In Germania come sarà? Al 50%? Battute a parte, i toni lamento- si del coro, mi hanno fatto ripensare alla famigerata Schuldfrage, la domanda sulla colpa, anzi, per essere teutonicamente precisi, alla Kriegsschuldfrage, ossia alla questione sulla responsabilità per l’inizio della guerra. Ovviamente mi riferisco alla prima guerra mondiale, ché, per la seconda, c’è poco da questiona- re. Tra l’altro, siamo vicini al centenario dell’inizio di questo tremendo conflitto e non sarebbe male indaga- re i perché ed i percome di una tragedia in cui tutti (o quasi) si sono tuffati a capofitto, con un ottimismo, a posteriori, inspiegabile. Capisco che a qualcuno di voi starà già venendo da ridere: ma dove vuole andare a parare questo, che, a parte qualche parolone altisonan- te in una lingua straniera, fino ad adesso non ha detto niente? Allora, permettetemi solo un’ultima citazione in una lingua straniera e poi vengo al sodo. Dice Ora- zio: «quid rides? Mutato no- mine, de te fabula narratur». «Che ti ridi? Sotto un altro nome, la storiella parla di te». Di me? Sì, di te, anzi, di noi. Perché alcune delle più grosse tragedie del XX seco- lo sono scaturite non solo da una guerra iniziata male e fi- nita peggio ma anche dal non aver compreso perché quella guerra è stata quello che è stata. Il nazismo non è stato solo il figlio della volontà di rivalsa per una guerra persa ma è stato anche il figlio del non aver compreso (o non aver voluto comprendere) il perché della sconfitta e della successiva crisi. Noi rischia- mo di trovarci in una situazione simile. Non voglio dire che i tedeschi stanno, per la terza volta, dando vita ad un progetto di egemonia che rischia di portare al disastro la Germania (e con lei i suoi riottosi e ves- sati “alleati” europei). Sarebbe una spiegazione sem- plicistica, e fondamentalmente errata, sia di quello che è successo prima, sia di ciò che sta succedendo adesso. Voglio, però, invitare a riflettere sul fatto che, quando si è in un momento di crisi, è vitale cercare di avere una comprensione concettuale razionale della situa- zione prima di agire. Certo, sarebbe opportuno avere una comprensione concettuale razionale del mondo che ci circonda anche nei momenti non di crisi, ma

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A n n o X - n . 6Maggio 2014

Periodico di informazione e discussione dell’IIS «Luigi di Savoia»

Internet: www.itisavoia.ch.ite-mail: [email protected]

[email protected]

(continua a pag.5)

L’annus mirabilis diEinstein e... Schlieffen!

Qualche giorno fa, ritornando a casa da scuola, ascol-tavo in macchina il primo movimento della Passione secondo Matteo di Johann Sebastian Bach. Un ascol-to, lo confesso, distratto, come capita spesso quan-do si sente musica dall’au-toradio. Nonostante la distrazione (nell’ascolto, non nella guida, beninte-so) ad un certo punto sono stato come folgorato dal-le parole del coro: «Seht! Wohin? Wohin?». «Guar-date! Dove? Dove?», già, dove? «Auf unsre Schuld», «alla nostra colpa». Una persona molto arguta dis-se che, in Italia, si parte dal presupposto che la colpa è sempre degli altri, mentre negli USA, l’assunto di fon-do è che la colpa è sempre dell’individuo. In Germania come sarà? Al 50%? Battute a parte, i toni lamento-si del coro, mi hanno fatto ripensare alla famigerata Schuldfrage, la domanda sulla colpa, anzi, per essere teutonicamente precisi, alla Kriegsschuldfrage, ossia alla questione sulla responsabilità per l’inizio della guerra. Ovviamente mi riferisco alla prima guerra mondiale, ché, per la seconda, c’è poco da questiona-re. Tra l’altro, siamo vicini al centenario dell’inizio di questo tremendo conflitto e non sarebbe male indaga-re i perché ed i percome di una tragedia in cui tutti (o quasi) si sono tuffati a capofitto, con un ottimismo, a posteriori, inspiegabile. Capisco che a qualcuno di voi

starà già venendo da ridere: ma dove vuole andare a parare questo, che, a parte qualche parolone altisonan-te in una lingua straniera, fino ad adesso non ha detto niente? Allora, permettetemi solo un’ultima citazione in una lingua straniera e poi vengo al sodo. Dice Ora-

zio: «quid rides? Mutato no-mine, de te fabula narratur». «Che ti ridi? Sotto un altro nome, la storiella parla di te». Di me? Sì, di te, anzi, di noi. Perché alcune delle più grosse tragedie del XX seco-lo sono scaturite non solo da una guerra iniziata male e fi-nita peggio ma anche dal non aver compreso perché quella guerra è stata quello che è stata. Il nazismo non è stato solo il figlio della volontà di rivalsa per una guerra persa ma è stato anche il figlio del non aver compreso (o non aver voluto comprendere) il perché della sconfitta e della successiva crisi. Noi rischia-

mo di trovarci in una situazione simile. Non voglio dire che i tedeschi stanno, per la terza volta, dando vita ad un progetto di egemonia che rischia di portare al disastro la Germania (e con lei i suoi riottosi e ves-sati “alleati” europei). Sarebbe una spiegazione sem-plicistica, e fondamentalmente errata, sia di quello che è successo prima, sia di ciò che sta succedendo adesso. Voglio, però, invitare a riflettere sul fatto che, quando si è in un momento di crisi, è vitale cercare di avere una comprensione concettuale razionale della situa-zione prima di agire. Certo, sarebbe opportuno avere una comprensione concettuale razionale del mondo che ci circonda anche nei momenti non di crisi, ma

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Fondamenta(a cura di M.R.)

«Una grande sfida che ci aspetta al termine di questo millennio è quella di saper compiere il passaggio, tanto necessario quanto urgente, dal fenomeno al fondamento»

(Lettera enciclica Fides et ratio, n. 83)

In questa rubrica pubblicheremo articoli che ci aiuteranno a rintracciare le fondamenta del sapere e – con ciò – della nostra cultura occidentale, utilizzando il contributo di scienziati, filosofi, teologi, artisti, letterati sui temi più ‘caldi’ della discussione culturale odierna.

L’ineludibile nesso tra verità e certezzaPaolo Musso

(seconda parte*)

In realtà, per quanto sia innegabile che verità e certezza

vanno accuratamente distinte, e che la loro confusione

spesso è alla base di errori che portano al discredito di en-

trambe, nondimeno esse non possono venir completamente

separate, giacché il rifiuto dell’una porta inevitabilmente al

rifiuto, o quantomeno alla svuotamento, anche dell’altra.

Che non possa darsi certezza senza verità è così ovvio che

non vale la pena discuterne. Che non possa darsi verità sen-

za certezza è invece meno ovvio, ma tuttavia altrettanto in-

dubitabile. Infatti, come dice ancora Marconi, «una ragione

per cui possediamo il concetto di verità è precisamente per-

ché ci serve a distinguere tra il modo in cui le cose stanno

e il modo in cui pensiamo che stiano, magari con ottime

ragioni»11. Ma ciò implica che ritenere vera una qualsiasi

nostra credenza significa qualcosa di più che semplicemen-

te «avere delle ottime ragioni» per ritenerla tale: e questo

«qualcosa di più» cos’altro potrebbe essere se non, appunto,

la certezza che le cose stanno davvero così?

Del resto, se così non fosse, si finirebbe inevitabilmente

per ricadere nella posizione di Popper, che, come abbiamo

visto, non negava affatto (anzi!) che in se stesse le nostre

affermazioni siano tutte o vere o false, ma negava che noi si

possa mai saperlo. Ma in questo modo la nozione di verità,

pur non venendo di per sé negata, diventa tuttavia inapplica-

bile e perciò, ultimamente, vuota, con tutte le conseguenze,

tanto inevitabili quanto devastanti per la scienza, che ciò im-

plica, come abbiamo visto prima. E la «prova del nove» che

il rifiuto della possibilità di raggiungere la certezza implichi

necessariamente la ricaduta nel popperismo e quindi nel re-

lativismo ce la dà proprio Marconi, quando, alla fine del suo

pur ammirevole saggio, finisce per affermare: «Sia chiaro:

non sto sostenendo, contro Quine, Popper e il senso comune

di oggi, che alcune nostre conoscenze sono “assolutamente

fondate” [...].

Sto semplicemente traendo le conseguenze di quello che

sembra essere il nostro uso comune di conoscere e sapere.

Chi sostiene la posizione alternativa, secondo cui non si può

parlare di conoscenza in assenza di “certezza oggettiva”,

vorrebbe vietarci di dire che sappiamo che Torino è in Italia

e Parigi è in Francia: dovremmo dire che avanziamo la con-

gettura che sia così»12. Ma è proprio questa affermazione di

Marconi che non sembra affatto corrispondere al nostro uso

comune di conoscere e sapere.

Infatti quando noi affermiamo di sapere che Torino è in Italia

e Parigi è in Francia intendiamo proprio dire che abbiamo

la certezza oggettiva che le cose stanno così. E non solo in-

tendiamo dirlo, ma questo è esattamente ciò che pensiamo:

tant’è vero che se qualcuno cercasse seriamente di persua-

derci del contrario non tenteremmo di produrre argomenti

razionali in difesa del nostro punto di vista, ma ci preoccu-

peremmo piuttosto della sua salute mentale e, se insistesse

eccessivamente, chiameremmo il Pronto Soccorso per farlo

ricoverare. E credo che nessuno voglia negare che questa

sarebbe l’unica cosa razionale da fare.

Il necessarIo coraggIo della certezza

Se dunque il rifiuto della certezza è razionalmente insosteni-

bile, perché è oggi così diffuso?

Credo che il motivo sia da ricercare in una molto diffusa

«drammatizzazione della certezza», del tutto analoga a

quella «drammatizzazione della verità»13 giustamente de-

nunciata da Marconi (salvo poi non riconoscere lo stesso

meccanismo all’opera a proposito della certezza): vale a

dire che in genere, discutendo del problema, si considerano

solo le «certezze difficili», a proposito delle quali è più faci-

le sbagliarsi e quindi è effettivamente lecito dubitare che si-

ano tali. Ma, proprio come nota ancora giustamente Marco-

ni a proposito della verità14, il quadro cambia radicalmente

se si considerano tutte le credenze che consideriamo certe,

la maggior parte delle quali sono invece «certezze facili»,

cioè per nulla affatto problematiche e accettate da tutti senza

discussioni (il che non significa che lo siano sempre state:

molte all’inizio non lo erano e lo sono diventate solo quando

si è raggiunto un livello sufficiente di evidenza).

Che il dibattito epistemologico tenda a concentrarsi sulle

prime è comprensibile, anzi, in certo senso addirittura tauto-

logico, perché sulle questioni che ormai consideriamo asso-

date che dibattito potrebbe mai darsi?

Tuttavia questo «effetto di selezione» non può essere spin-

to fino al punto di farci dimenticare che tali questioni che

consideriamo assodate (ovvero certe) non solo esistono, ma

sono la stragrande maggioranza.

Non solo, ma esse, ben lungi dall’alimentare l’intolleranza

(che nasce invece dalla pretesa di imporre le proprie certez-

ze, che è tutto un altro problema), sono altresì necessarie

perché possa esserci un dialogo fruttuoso. Infatti senza un

numero sufficientemente ampio di certezze condivise non

ci sarebbe nulla su cui basare un qualsiasi ragionamento,

compreso il ragionamento scientifico, e non solo in astratto,

ma in forme assai concrete: come dice sempre il mio ami-

co Lucio Rossi, fisico del CERN, chi mai si sognerebbe di

spendere alcuni miliardi di euro per costruire una macchina

come LHC se, accanto ovviamente a molti dubbi e domande

aperte, non vi fosse anche un gran numero di solide certezze

relative al suo funzionamento, alla ricerca che deve svolgere

e ai risultati che può produrre?

Dunque, contro « Quine, Popper e il senso comune di oggi»,

e contro chiunque altro voglia negarlo, occorre avere il co-

raggio di affermare che raggiungere la certezza è possibile,

che di fatto molto spesso vi riusciamo realmente e che la

stragrande maggioranza delle cose che riteniamo certe lo

sono davvero.

Certo non è facile, di fronte allo scetticismo oggi imperan-

te e, soprattutto, all’aggressiva intolleranza con cui spesso

viene sostenuto: e per questo ho parlato di coraggio. Ma

nondimeno si tratta di un coraggio necessario: perché rinun-

ciare all’idea di certezza significa rinunciare anche a quelle

di verità e di conoscenza e, di conseguenza, di educazione.

Come infatti, non a caso, ormai da tempo sta accadendo.

Paolo Musso(Docente di Filosofia della Scienza presso l’Università

dell’Insubria di Varese – Corso di laurea in Scienze della Comunicazione)

* La prima parte dell’articolo è stata pubblicata sul precedente nu-mero de Il Savoiardo.11 D. Marconi, Per la verità. Relativismo e filosofia, Einaudi, Torino, 2007, p. 151.

13 D. Marconi, Per la verità. Relativismo e filosofia, cit., p. 34.14 D. Marconi, Per la verità. Relativismo e filosofia, cit., p. 152-153.

12 D. Marconi, Per la verità. Relativismo e filosofia, cit., p. 39.

Willard Van Orman Quine (1908 – 2000) è stato un filosofo e logico statunitense.

Lucio Rossi è Capo del “Magnets, Cryostats and Su-perconductors Group” al CERN di Ginevra.

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Fides et RatioLa fede e la ragione sono come le due ali con le quali

lo spirito umano s’innalza verso la contemplazione della

verità

Questa rubrica vuole disegnare la traiettoria che la

fede e la ragione compiono nel cammino di ricerca della

verità, quel cammino che sempre ha portato gli uomini

di tutti i tempi alla scoperta del proprio volto umano.

Utilizzeremo alcuni testi del beato Giovanni Paolo II che

ci sembrano particolarmente significativi al riguardo.

a cura di M.R.

(GIOVANNI PAOLO IIUdienza generale del 23 novembre 1983)

La redenzione e l’uomo

1. «Quello che voi adorate senza conoscere io ve lo annunzio» (At 17, 23).

L’annuncio esplicito della Redenzione operata da Cristo, che Paolo ha l’ardire di fare nell’Areopago di Atene, nella città in cui per tradizione più sofisticato era il dibattito filosofico e dottrinale, è tra i documenti più significativi della catechesi primitiva.

La spontanea religiosità degli ateniesi è colta da Paolo come un’inconsapevole profezia del vero Dio in cui «…viviamo, ci muoviamo ed esistiamo» (At 17, 28). Analogamente, la sete di sapere degli ateniesi è vista da lui come il germoglio naturale su cui può essere innestato il messaggio di verità e di giustizia, che la morte, la Resurrezione e la parusia di Cristo introducono nel mondo.

Si evidenzia in tal modo l’affermazione cara alla grande tradizione cristiana, secondo cui l’avvenimento della Redenzione risulta conveniente e ragionevole per l’uomo, che si mantiene aperto alle imprevedibili iniziative di Dio. Esiste una sintonia profonda tra l’uomo e Cristo, il Redentore. Veramente, il Dio vivo è vicino all’uomo e l’uomo, senza conoscerlo, lo attende, come colui che gli svelerà il senso pieno di sé. Il Concilio Vaticano II ha riproposto con vigore questo convincimento della fede e della dottrina ecclesiale quando, nel prezioso paragrafo 22 della Gaudium et spes, afferma: «In realtà solamente nel mistero del Verbo incarnato trova vera luce il mistero dell’uomo… Cristo… svela anche pienamente l’uomo all’uomo…».

2. L’episodio raccontato dagli Atti ci mostra, nell’attesa degli ateniesi, quella di tutti i gentili. Lo stesso libro degli Atti (At 2; 3; 7; 13; ecc.) documenta nei discorsi di Pietro, di Stefano, di Paolo l’attesa paradigmatica e misteriosamente cieca di Israele, il popolo eletto preparato da lungo tempo all’avvenimento del Redentore, ma incapace di riconoscerlo quand’Egli viene.

La storia umana è attraversata da questa attesa, che negli uomini più consapevoli diventa grido, domanda, invocazione. L’uomo, creato in Cristo e per Cristo, solo in Lui può attingere la sua verità e la sua pienezza. Ecco svelato il senso della ricerca di

salvezza, che soggiace ad ogni esperienza umana. Ecco spiegato quell’anelito di infinito che, al di fuori della misericordiosa iniziativa di Dio in Cristo rimarrebbe frustrato.

L’attesa di Cristo fa parte del mistero di Cristo. Se è vero che l’uomo da solo, nonostante la sua buona volontà, non può ottenere salvezza, colui che affronta con serietà e con vigilanza la sua esperienza umana scopre alla fine dentro di sé l’urgenza di un incontro che Cristo colma meravigliosamente. Colui che ha posto nel cuore dell’uomo l’anelito alla Redenzione, ha preso altresì l’iniziativa di soddisfarlo.

Le parole «per noi uomini e per la nostra salvezza», con cui il «Credo» ci presenta il significato della Redenzione di Cristo, assumono, alla luce del mistero dell’incarnazione, una concretezza veramente risolutiva: «Con l’incarnazione il Figlio si è unito in certo modo ad ogni uomo» (Cost. Gaudium et spes, 22).

3. La Tradizione cristiana chiama mistero soprannaturale l’iniziativa di Cristo, che entra nella storia per redimerla e per indicare all’uomo la strada del ritorno all’intimità originale con Dio. Tale iniziativa è mistero anche perché impensabile come tale da parte dell’uomo, in quanto del tutto gratuita, frutto della libera iniziativa di Dio. E tuttavia tale mistero possiede la sorprendente capacità di cogliere l’uomo alla radice, di rispondere alle sue aspirazioni di infinito, di colmare la sete di essere, di bene, di vero e di bello che lo agita. In una parola è la risposta affascinante e concreta, non prevedibile né tanto meno esigibile, eppure presagita dall’inquietudine di ogni esperienza umana seria.

La Redenzione di Cristo è quindi ragionevole e convincente, perché possiede contemporaneamente le due caratteristiche dell’assoluta gratuità e della sorprendente rispondenza all’intima natura dell’uomo.

Come agli Apostoli lungo le rive del «Mar di Galilea», o a quanti si sono imbattuti in Lui — dalla samaritana a Nicodemo, dall’adultera a Zaccheo, dal cieco nato al centurione romano — così Cristo si fa incontro ad ogni uomo e alla storia umana. E come per le persone che compaiono nei Vangeli, così per l’uomo di ogni tempo, che ha il coraggio di accoglierlo con fede e di seguirlo, l’incontro con Cristo rappresenta l’occasione veramente decisiva della vita, il tesoro nascosto che non ammette di essere barattato con nulla.

«Signore da chi andremo?» (Gv 6, 68). Veramente non esiste altro «recapito» valido, al quale rivolgersi per ottenere le «parole di vita eterna» (ibid.) che, sole, possono appagare il bruciante anelito del cuore umano.

nei momenti di crisi questo non è un semplice lusso da intellettuali, è una questione di vita o di morte. Com-prensione concettuale razionale non significa, poi, ab-bracciare acriticamente l’ultima teoria complottista di moda in rete, né cercare la spiegazioncina semplifica-ta nota a tutti (e probabilmente sbagliata), giusto per poter dire, a mo’ di scolaro svogliato, ma io i compiti li ho fatti! E qui devo aggiungere che le persone più a rischio non sono coloro che sono consapevoli di non sapere, ma noialtri che crediamo di sapere. Facciamo un esempio. Stavamo parlando dell’inizio della prima guerra mondiale, e quando si parla di 1914 a tutti vie-ne in mente il famigerato piano Schlieffen, la “ricetta”, scritta nel 1905 dall’allora capo di stato maggiore Al-fred von Schlieffen, per una rapida vittoria contro la Francia. Ingrediente principale di questa ricetta, l’ag-giramento dell’ala sinistra dello schieramento nemico, passando attraverso il neutrale Belgio, aggiramento che avrebbe dovuto condurre ad accerchiamento stra-tegico dell’esercito francese ed ad una risolutiva bat-taglia di annientamento. La vulgata vuole che questo fosse il piano che, nell’agosto del 1914, l’allora capo di stato maggiore tedesco Helmut von Moltke (nipote dell’omonimo Moltke, vincitore delle guerre del 1866 e 1870), si apprestasse a seguire ma, per incapacità e presunzione, non fosse stato in grado di portare a ter-mine. Tutto chiaro tutto noto. Be’, tenetevi forte, allo-ra, perché sto per farvi una rivelazione epocale: il pia-no Schlieffen... non esiste! Certo, esiste un Denkschrift (potremmo tradurre il termine con nota, memoran-dum) datato dicembre 1905 che contiene la descrizio-ne di un’ipotetica operazione contro la Francia e segue la falsariga di quanto sopra esposto, ma tale memoria non aveva il fine di costituire il piano d’azione ufficia-le dell’esercito tedesco in caso di guerra (non avrebbe potuto esserlo, non fosse altro per il fatto che prevede-va l’utilizzo di un numero di unità superiore a quelle realmente esistenti) bensì era una sorta di pamphlet politico che aveva il fine di spingere per aumentare la percentuale di giovani che venivano, coscritti ogni anno (la Francia, all’epoca, pur avendo una popola-zione inferiore, riusciva a tenere in piedi un esercito numericamente paragonabile a quello tedesco perché chiamava alle armi, ogni anno, circa l’80% dei giovani abili alla leva, contro il 50% della Germania). D’altro canto, il piano di operazioni tedesco per il 1914 non avrebbe potuto essere una copia carbone degli appun-ti di Schlieffen del 1905, anche per il semplice fatto che, ogni anno, lo stato maggiore aggiornava e mo-dificava sia le disposizioni per la mobilitazione sia i piani di contingenza per la guerra. Ci sarebbe ancora molto da dire, ma non è questo il momento ed il luogo

(segue da pag. 1) per farlo. Mi sembra importante, però, notare come la demolizione del “mito” del piano Schlieffen non è saltata fuori da qualche sito complottista o da qualche libro verità scritto dal giornalista di turno, ma è stato il frutto della ricerca accademica normale: i giornalisti o i sitarelli, continueranno a ripetere la vulgata, per avere un quadro più preciso di come stanno le cose, bisogna andare a leggersi i libri di storici di mestiere come Zuber o Strachan.

In realtà, io volevo parlare di un altro articolo del 1905 in cui si dà per scontato ci siano scritte alcune cose ed, invece, ce ne sono scritte altre. L’autore è sempre un tedesco famoso ma non è un ufficiale prussiano, bensì un feroce antimilitarista: Albert Einstein. Quante vol-te avete sentito nominare l’equazione E=mc2? Molte volte, immagino. Sicuramente più delle volte in cui avete sentito nominare il piano Schlieffen. Tutti co-noscono questa equazione, se chiedete ad un vostro amico che cosa essa significhi vi dirà, senza paura di sbagliare, che l’energia di un corpo è uguale alla sua massa per la velocità della luce al quadrato. Voi potre-ste ribattere: sicuro? E allora un fotone, che ha massa nulla, dovrebbe avere sempre energia nulla. Ma sap-piamo che così non è. A questo punto il vostro amico, con un sorrisino, vi risponderà: ma la massa del fo-tone non è nulla, o meglio, lo è la sua massa a riposo mo, ma la massa di un corpo varia con la sua velocità, secondo la formula m = mo/(1-v2/c2)½ questo è an-che il motivo per cui i fotoni “sentono” l’effetto della gravità! A parte il fatto che non è vero che questo è il motivo per cui la luce subisce l’effetto della gravi-tà, potreste silenziare definitivamente l’amico citando una frase che Einstein stesso scrisse a Lincoln Barnett (editore della rivista Life ed autore di un volume di-vulgativo sulla relatività) nel 1948: «Non è opportuno introdurre il concetto di massa [relativistica] m=mo/(1-v2/c2)½ per un corpo in movimento, concetto per

(continua a pag. 13)

Il “piano Schlieffen”

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Il raccontoSinetta era per tutti la custode della via dove abitavo, ma anche dell’intero quartiere Santa Maria. Alta,

splendente, con un che di aristocratico nei lineamenti che ti faceva pensare fosse nata dall’amore segreto fra un gentiluomo e una delle donne della nostra terra di-pinte da Michetti, aveva sposato un bell’uomo del po-polo, titolare di un negozio di fiori, che se l’era portata a Pescara, ragazzina fresca come una prugna e dalla bocca di rosa. Ma il matrimonio era naufragato nel giro di pochi anni, perché lui da subito aveva alzato le mani e s’era perso dietro il demone delle carte; s’era giocato tutto, negozio e casa, e aveva imboccato una strada che dritta non era, eppure lei non si lamentava e lo difendeva davanti al loro bambino dicendogli che papà non era cattivo e non era vero che la picchiava, solo qualche spintone, a volte, quasi per gioco… Ma il suo, di padre, alto come la statua di un santo, forte come il David di Michelangelo e che tutte le lavandaie si mangiavano con gli occhi quando al rientro dal la-voro di carpentiere si fermava alla fonte del Tricalle per sciacquarsi via il sudore del giorno, se l’era andata a riprendere, quella povera figlia che soffriva e non di-ceva niente, perché tanto le notizie brutte circolano subito e a Chieti lo sapevano tutti che non aveva nean-che da mangiare per sé, figuriamoci per il bambino… Il marito non s’era azzardato a dire una parola di fron-te a quel pezzo di sacramento del suocero e l’aveva la-sciata andare, e così Sinetta era tornata a vivere come se fosse una ragazza, sola col suo Enzino, nella casetta vicino al Mattatoio, di fronte a suo padre e a sua ma-dre. Il matrimonio andato in malora non l’aveva pro-strata, no, non era tornata con la coda fra le gambe e la testa abbassata. Sinetta camminava fiera e gli occhi ti guardavano fisso, sempre ridenti; era energia allo stato puro e ti chiedevi come fosse possibile che tanta

vita fosse in una vita sola. S’alzava la mattina al canto del gallo, andava a far erba in campagna quando era stagione, poi entrava in servizio a casa del padrino e della madrina. Portava i capelli raccolti in una croc-chia o in una lunga treccia che poi arrotolava e chiu-deva in un cerchio perfetto dietro la testa - una sola volta li ho visti sciolti ed erano una cascata di miele d’acacia - odorava sempre di pane fresco, e non sapeva che farsene del tempo libero. Aveva una forza straor-dinaria, era capace di smontare stanze intere pur di dare la caccia alla polvere e si capiva che lavorare le dava una grande soddisfazione, le piaceva farlo con tutti i santi crismi. Se l’incontravi ti diceva che stava andando dai padroni, o che tornava a casa sua a cuci-re trapunte di lana, e di trapunte ne riusciva a fare per

settimana due o anche tre se lavorava di lena; le cuci-va tutte a mano con dei bellissimi disegni geometrici sopra, perché le sarebbe piaciuto dipingere, ma sicco-me non erano quelli i tempi per fare solo quello che piace, si sfogava perlomeno così, con ago e filo in mano… Aveva altro per la testa lei, che perdere tem-po; dal marito non aveva voluto nemmeno una lira, e doveva tirar su da sola il figlio Enzino, un monello di strada sempre affamato come un branco di lupac-chiotti e che era il capobanda di tutti noi bambini del palazzo e di quelli vicini… D’inverno se nevicava - e le nevicate di allora me le ricordo anche oggi, belle da morire per noi piccoli con tutta quella neve accovac-ciata sui tetti della città, ma che bloccava le strade per giorni ed erano guai per i grandi - Sinetta si prendeva la briga di spalare davanti le case e i cortili per qualche regalia e la vedevi bardata come una bambola russa, con un fazzolettone in testa e gli alti stivali di gomma sotto la tormenta di fiocchi che diventavano spilli per il vento gelato ad usare il badile come un uomo di fa-tica e ogni colpo era dato con forza, quasi con furia, a voler dire: questo è per i pantaloni nuovi di Enzino, questo è per la lana delle trapunte e quest’ancora per comprare la carne... Aveva sempre qualcosa da fare, Sinetta, e per noi bambini era una maga che stava sempre sveglia, perché se non lavorava a servizio o cu-civa, andava a far iniezioni alle persone malate e la si vedeva spesso girare con un recipiente pieno di roba da mangiare, brodo di gallina caldo per l’anziana che

viveva da sola ed aveva la tosse, oppure vassoi con dol-ci, ferratelle imbottite di sanguinaccio o pasta fatta in casa e ci si chiedeva tutti “ma quando le fa queste cose?” e la risposta sussurrata era che non dormiva… Sinetta non si interessava per nulla a ciò che capitava nel mondo, non aveva la tv, la notizia dell’uomo sulla luna non le fece per esempio alcun effetto, non sapeva cos’era Rischiatutto, non capiva di politica, né badava più di tanto ai pettegolezzi o alle beghe di quartiere, ma era sempre allegra ed irradiava una simpatia che spingeva la gente a confidarsi con lei, anche se si dava per scontato che avrebbe risposto con i soliti luoghi comuni. Pure, anche se non aveva studiato, sapeva leggere e scrivere poco, a modo suo applicava la filo-

Sinetta

sofia dei Grandi del passato e se mio padre le chiedeva di dargli una mano per qualcosa, lei con una risata solare gli rispondeva che gli avrebbe dato anche un piede… A chi le chiedeva perché non si facesse un nuovo fidanzato - la volevano in molti e faceva gola la sua carne fresca e dura come il marmo e quel sorriso che quando s’apriva nel viso sembrava giocare con le sue orecchie minute e delicate e illuminarla tutta -, ri-spondeva sempre che è solo soltanto chi si sente solo e lei non lo era, perché aveva il suo Enzino. Enzino era l’amore suo e guai a chi glielo toccava, quel figlio che non aveva voglia di studiare e dopo la terza media aveva deciso di lavorare arrangiandosi un po’ qua e un po’ là; una testa matta e un cuore d’oro che sapeva co-struire casette di legno alla Robinson Crusoe sopra gli alberi e sembrava, bello d’aspetto tale e quale sua ma-dre com’era, davvero il barone rampante del nostro quartiere a ridosso delle campagne. A Enzino noi bambini volevamo bene, perché aveva il senso della giustizia e quando al Generale di nobile blasone (che abitava nella nostra stessa strada come un cardo se ne sta in mezzo a un campo di papaveri) aveva chiesto di darci qualche pesca di tutte quelle che stavano in cas-settine di legno impilate fuori della porta di casa sua e quello l’aveva insultato chiamandolo figlio di serva e pure puttana, lui l’aveva sbalanzate in aria e fatte roto-lare per tutta la discesa della via e la mamma l’aveva rimproverato, ma noi sapevamo che era giusto così… Sinetta l’aveva educato al rispetto degli altri e al rispet-to di sé, ma anche alla libertà, e quando il figlio se ne volle andare in Spagna a fare lo stesso lavoro che face-va qui, di caricare e scaricare animali da macello al mattatoio, non gli disse di no. “Va’, ti tengo attaccato con il cuore…” gli aveva detto, ed Enzino era partito, ma poi era tornato perché dalla madre non sapeva starci lontano. Sinetta credeva nel Padreterno, nella Madonna e in tutti i Santi e ci teneva che lui fosse buo-no; lo aveva mandato, bambino, da Don Alberto a fare il chierichetto e a frequentare gli scouts e per gratitu-dine puliva in cambio tutta la chiesa e i pavimenti splendevano come se ci battesse sempre il sole. Solo una volta s’era arrabbiata: quando il ragazzino aveva tirato un sasso con una fionda al prete destinato a di-ventare il vescovo della città di Pescara dopo che, mentre celebrava la messa, gli aveva suonato il campa-nellino direttamente sulla testa a mo’ di rimprovero per essersi distratto… Ma le altre volte non se la pren-deva: amava Enzino per come era, sia che si portasse al guinzaglio la gallina che aveva educato come un cane, sia che si accovacciasse - già adulto - per terra a chiedere l’elemosina come un barbone, con la radio accesa a tutto volume e il pastore abruzzese a fargli compagnia, davanti la chiesa di San Domenico (ma fuori dall’orario delle messe, perché al Padreterno ci credeva anche lui) e anzi gli infilava pure cento lire dentro il cappello teso - le lasciava ai poveri, figuria-

moci se non le lasciava a suo figlio!; e quando Enzino s’era messo a fare il funambolo da una finestra all’altra di due palazzi di fronte lungo il Corso Marrucino, e tutti stavano col naso in su a guardarlo e dicevano in coro di avvisare la mamma - che corresse per carità e gli dicesse di scendere giù! - di fronte ai carabinieri che si presentarono alla porta non si scompose per nulla e disse “State tranquilli, deve scendere per forza; per cena torna sempre a casa” e offrì perfino un liquo-re alla genziana che aveva fatto con le sue mani. La generosità di Sinetta d’altra parte era cosa nota e ne parlano ancora quelli che si sono fatti grandi e anche importanti - il notaio, l’avvocato, il comandante dei vigili e il primario - e non hanno voluto dimenticare l’infanzia in cui si è tutti uguali e si ride allo stesso modo. Sinetta ha accompagnato la vita di tante perso-ne amiche del figlio con cene straordinarie nella sua casa linda e profumata di sapone scodellando, sempre di buonumore, su tavole enormi pasta e ceci o pasta e fagioli e una trippa da far parlare i morti; ha accompa-gnato la madrina ed il padrino accudendo la loro casa e proteggendo le confidenze di chi le ha voluto bene come fosse una figlia, ha risposto al telefono, cucinato, tenuto in custodia soldi e innaffiato i gerani sul balco-ne - grassi e felici perché era lei a curarsi di loro; ha regalato a noi bambini scappellotti e carezze con le sue lunghe, bellissime mani rovinate dal troppo lavoro e parole buone e sagge a tante persone malate di solitu-dine e di problemi; ha curato, massaggiato e alleviato i dolori di persone anziane, ha perdonato il marito e gli è stata fedele malgrado il divorzio - forse il primo del-la città - perché ci si sposa solo una volta e davanti a Dio; ha lavorato, ramazzato furiosamente per strada e dentro casa; Sinetta avresti detto che si sarebbe intri-stita e afflosciata come un girasole senz’acqua se non avesse potuto rendersi utile agli altri, come se la sua ragione d’essere fosse solo quella lì, di aiutare il pros-simo, perché era buona come il pane… E non si è fer-mata mai, Sinetta, con una dolce rassegnazione alla vita e una naturale fierezza, perfino l’ultimo giorno quando è scesa per sbaglio dal treno che la riportava a casa dopo una visita al fratello in Val d’Aosta. Intontita dal sonno, svegliata di soprassalto, ha confuso di notte una sosta con l’arrivo alla stazione. È scesa di fretta, ha cominciato a camminare in mezzo alle rotaie, con gli occhi ancora pieni di semplici sogni e nel cuore - ne sono sicura - il suo Enzino e le mille cose tutte ancora da fare. Non ha visto il treno che arrivava dalla dire-zione opposta e gli è andata incontro contenta, come una sposa pronta a farsi portare lontano…

Lucia Vaccarella

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La voce liberadella scuola

rubrica sindacale a cura di Andrea Leonzio

LA RIFORMA DELLA SCUOLA:IL DRAMMA DI UNA GENERAZIONE

La qualità del sistema di istruzione è una condi-zione essenziale per la crescita e lo sviluppo del

nostro Paese.L’educazione ha un ruolo fondamentale per la mobili-tà sociale degli individui. Anche se è difficile stabilire nessi di causalità fra crescita e quantità dell’istruzione, è indubbio che senza un sistema educativo di qualità non è possibile generare crescita e innovazione per il paese.In Italia la spesa per la scuola primaria e secondaria costituisce circa il 3,4% del PIL, a fronte di una media OCSE del 4%. Tuttavia, la posizione degli studenti italiani in tutte le rilevazioni internazionali (PISA, TIMMS, PIRLS) è in media tra le peggiori di quelle delle economie dei paesi occidentali sviluppati. Un altro aspetto preoccu-pante di questi risultati sono le persistenti differenze regionali. Nella scuola è oramai sempre più in discussione la figura del docente che “trasmette il suo sapere” solo attraverso la lezione dalla cattedra; emergono invece interpretazioni diverse del ruolo del formatore: l’ac-compagnatore dei processi di apprendimento anche collaborativi, l’analista dei bisogni formativi, il proget-tista dei percorsi.È importante dunque elaborare, finanziare e attuare un programma di formazione continua degli inse-gnanti anche riducendo le ore di impegno frontale, che permetta loro di stare al passo con l’innovazione pedagogica e disciplinare e con le esigenze e le inno-vazioni della scuola, per conoscere ed approfondire sia i contenuti sia il modo di trasmetterli.I sistemi scolastici eccellenti appartengono a paesi che valorizzano l’istruzione. Gli insegnanti devono essere selezionati in base a competenze e capacità che vanno poi riconosciute an-che sotto il profilo retributivo. I docenti italiani perce-

piscono circa il 60% del salario medio di un laureato, contro una media dei paesi OCSE di circa l’85%; per attirare all’insegnamento le eccellenze del paese, e non far vedere l’insegnamento come un lavoro di ripiego, bisogna garantire una progressione salariale adeguata.In Italia, nonostante il complesso, contraddittorio e costoso meccanismo delle SSIS prima, dei TFA poi, il reclutamento viene ancora svolto tramite concorsi, esami che non sono in grado di valutare le potenziali-tà pedagogiche dei candidati.L’INVALSI si è dimostrato uno strumento qualificato per la valutazione del sistema scolastico e il migliora-mento della qualità dell’istruzione. Anche se le prove INVALSI non possono essere l’unico criterio di valu-tazione della qualità di una scuola e dei suoi insegnan-ti, devono comunque costituirne un elemento impor-tante. Occorre sottolineare che persistono forti elementi di criticità nella formulazione e nelle modalità di som-ministrazione delle prove.Esiste il rischio che i test standardizzati incentivino l’appiattimento dell’istruzione sul nozionismo, sulla capacità meccanica di risolvere i problemi piuttosto che sulla capacità critica di analizzare il contenuto di un problema e sulla ricerca creativa della soluzione. Questa è una obiezione che riguarda la qualità del test, non la legittimità della valutazione. Nello specifico occorre tuttavia sottolineare che l’A-bruzzo si colloca tra gli ultimi posti nella classifica nazionale soprattutto in matematica, dove la nostra regione registra una media di 197 rispetto alla media di 200 del dato nazionale, collocandosi al terz’ultimo posto a livello nazionale.L’autonomia scolastica, sancita dalle modifiche alla Costituzione apportate nello scorso decennio, è stata vista principalmente come un modo per contrastare la crisi e le rigidità dell’apparato burocratico centraliz-zato, per fornire alle scuole la flessibilità necessaria a rispondere alle esigenze educative più innovative. L’autonomia serve non tanto, o non solo, perché un sistema centralizzato è incapace di innovare, ma so-prattutto perché gli studenti hanno esigenze diverse, e questa diversità di esigenze va soddisfatta con un’of-

ferta scolastica diversificata, per permettere a genitori e studenti una possibilità di scelta fra percorsi educa-tivi diversi.Parallelamente alle dichiarazioni che vogliono valo-rizzare l’autonomia, l’apparato ministeriale continua a produrre “indicazioni nazionali” che dimostrano un’ottica dirigistica che va radicalmente combattuta. Non è fondamentale sapere in quale anno l’insegnante di italiano debba spiegare Gabriele d’Annunzio, o che si specifichi in quale momento l’insegnante di educa-zione fisica spieghi la tecnica della corsa ad ostacoli.È invece importante che da queste nozioni e pratiche derivi una reale crescita e maturazione, che tenga con-to dello studente e non del “pro-gramma da svolgere”, che può es-sere diverso da scuola a scuola per permettere una maggiore scelta da parte di genitori e studenti.L’autonomia serve anche a rispar-miare sui costi amministrativi di gestione del sistema-scuola. Un documento sindacale ha con-tabilizzato, per l’anno 2012, una produzione amministrativa di 512 documenti da parte del MIUR, alla quale si aggiungono istruzioni e circolari “da parte delle Direzioni Regionali, degli Ambiti Territoria-li, per non parlare dei ̀ competenti’ assessorati comunali, provinciali e regionali”. Un diluvio di carte con conseguenti riunioni collegiali che si riversano sulle scuole, trasmesse oggi per via telematica, ma pur sempre quotidianamente puntual-mente protocollate e stampate dall’assistente ammini-strativo addetto e smistate dal dirigente scolastico o da chi per lui.Questi sono centri di spesa inutile e anzi dannosa che sicuramente vanno rivisti e ridotti al minimo indi-spensabile.Il Ministero deve essere radicalmente trasformato nell’ambito di una più generale sburocratizzazione: vanno eliminati i decreti interministeriali, o comun-que definiti in tempi rapidi con una predisposizione congiunta (senza controlli gerarchici o comunicazioni a distanza). Il Ministero deve divenire struttura tecnica di suppor-to e sostegno alle innovazioni. Occorre decentralizzare le decisioni praticamente su tutti gli aspetti della formazione scolastica: orari, obiettivi e strategie, programmi, criteri di valutazio-ne e di comunicazione dei risultati dell’apprendimen-

to alle famiglie. A livello centrale andrebbero definiti solo obiettivi formativi minimi che le scuole devono tassativamente rispettare, pena il “commissariamen-to” della scuola con la sostituzione dei suoi organi di governo partendo dal dirigente. Gli organi collegiali, per garantire l’autonomia scola-stica devono essere ristrutturati con una efficace ed efficiente suddivisione per dipartimenti tematici per quanto riguarda il collegio dei docenti affinchè acqui-siscano un reale potere di programmazione, di spesa, di controllo, inclusa la supervisione e valutazione del dirigente scolastico e dei docenti, con possibilità di valutazione sul suo operato e su quello dei docenti, da

cui far dipendere le progressioni di carriera e le incentivazioni sala-riali. I dirigenti, se sono realmente tali, devono poter essere rimossi dal loro incarico.Gli esami di stato devono essere disegnati in modo da indurre alle scuole incentivi appropriati a rea-lizzare l’autonomia formativa au-spicata.È impensabile che una scuola pos-sa sperimentare percorsi formativi originali se poi gli studenti vengo-no sempre testati in base a proce-dure centralistiche. Se non si vo-gliono vanificare i timidi sforzi di cambiamento introdotti dalle re-centi riforme, dovrebbe essere sta-

bilito in tempi brevi che la conclusione del percorso formativo si incentri su tre prove: una prova scritta che verifichi la capacità del candidato di comunicare, presentare idee, ragionare su un testo; una prova spe-cifica, disegnata dall’istituto in base alle materie e ai programmi che ne definiscono le peculiarità; un test standardizzato disegnato dall’INVALSI che verifichi le competenze trasversali sui contenuti comuni.Il ruolo del valore legale del diploma era originaria-mente quello di certificare un livello di competenza minima necessario all’esercizio di una professione o all’accesso ad un livello scolastico superiore. Così com’è, tutta la procedura degli esami di stato risul-ta praticamente inutile e fuorviante: tutti gli ordini professionali richiedono ulteriori requisiti e prove di ammissione per l’ammissione agli albi; molti corsi universitari con numero chiuso richiedono il supera-mento di prove specifiche per l’iscrizione. Inoltre, le disparità fra scuole nella valutazione degli esami di stato contribuiscono a renderne i risultati poco infor-mativi rispetto alle esigenze del mercato del lavoro.

1110

LONDRA 18/24 MARZO 2014 STAGE LINGUISTICO“These guys were great students and great ambassadors fot ITS

Luigi Di Savoia College in Chieti, Italy. With young people like these Italy has a great future!

Thank you Chieti group for being such great TSA students and hope to see you next time!” Thanks, Giustino, for being

such a great student.Steve

Bellissima esperienza che mi ha reso più autonomoGiuseppe D’Orazio

Lezio-ni e visite

molto coin-volgenti

Francesco Perilli

Un’esperienza importante da ripetereCarlo Benedetti

1312

il quale non può essere data alcuna definizione chia-ra. È meglio non introdurre alcun concetto di massa oltre quello di ‘massa a riposo’ mo». Come, l’autore della famosa equazione la sconfessa? E perché poi? No, tranquilli, non si tratta di una palinodia simile a quella relativa alla costante cosmologica. Invero, nei famosi articoli del 1905, Einstein non scrive da nessu-na parte E=mc2. C’è da dire che il concetto di “massa relativistica”, per quanto mal definito, è di frequente uso nei libri divulgativi (ammetto di averlo utilizza-to anch’io in passato) ma è praticamente assente nella letteratura accademica specialistica. A chi fosse curio-so di saperne di più, suggerisco di cercare in rete uno dei tanti articoli del fisico russo Lev Okun’, sulla que-stione della inconsistenza scientifica del concetto di massa relativistica. Quello che mi premeva, anche qui, sottolineare è come la sopravvivenza di luoghi comu-ni, apparentemente corretti ma sostanzialmente erra-ti, o incompleti o fuorvianti, sia dovuta più alla non-curanza di divulgatori e al ripetersi di ragionamenti un tanto al chilo che ad una effettiva impasse della ricerca di punta. Questo non significa che la ricerca ed il mondo accademico non sbagliano mai o hanno già una risposta per tutto (penso non sia necessario fare esempi) ma significa che quando si affronta un qualunque problema non banale sarebbe il caso di in-formarsi su ciò che è effettivamente assodato, a livello di letteratura scientifica di base, e ciò che costituisce, invece, ancora motivo di discussione e ricerca. Questo vale per la fisica, ma anche per la storia o l’economia e, in generale, per tutto ciò che serve a “fare il punto”, per usare un’espressione marinaresca, quando ci si è persi.

Amedeo Matteucci

(segue da pag. 5)L’esperienza a Londra è stata fantastica, è stato bello condividere le proprie emozioni tutti insieme, ma la cosa che porerò sempre con me è la bellezza del centro di Londra, posti da favola, negozi ed etnie diverse.

Caterina Maurizio

D i Londra mi ha colpi-

to molto il fatto che le persone vanno sempre di fretta e i negozi sono tutti in fila uno dopo l’altro e, solitamente, come inse-gna c’è una riproduzione gigante di quello che vendono.

Maria Antonietta Ferrante

Mi ha

dato

l’opportunità di conoscere e apprezzare diverse c

ultu

re e

cost

umi

Francesco Panara

La gentilezza delle persone è stata la cosa che mi è piaciuta di più. Tutta brava gente,

anche se qualche persona è molto particolare.Marianna Roscioli

Lon-dra mi ha colpito

particolarmente per la diver-sità che c’è rispetto all’Italia sia per

quanto riguarda il modo di vivere che il cibo, i negozi, etc. è una città molto movi-

mentata e vivere là sarebbe più interessan-te, anche se preferisco il cibo italiano.

Federica De Petris

1514

Iniziativa di una “scuola di eccellenza”

XVI Edizione

DUA (Didattica Universitaria Anticipata e a distanza)

Gli allievi (delle quinte classi) dell’IIS “Savoia” vanno all’università

Anche in questo anno scolastico il nostro Istituto è sede di una iniziativa svolta in collaborazione con la Fondazione “Comunità Domenico Tardini” Onlus e l’università “Roma Tre” con le modalità specificate nella Convenzione stipulata tra il nostro Istituto e la società “Villa Nazareth Servizi S.r.l.”.

DUA è un progetto scientifico in corso dal 1996 concernente l’anticipo di programmi attinenti a Corsi universitari per studenti delle scuole medie superiori organizzato dalla Fondazione “Comunità Domenico Tardini”. Fortemente voluto dalla prof.ssa Angela Groppelli (foto1), professore ordinario docente di Psicologia scolastica presso l’università “La Sapienza” di Roma e Coordinatore scientifico della DUA, e sostenuto con un contributo economico dal Consiglio Nazionale delle Ricerche (CNR), è stato approvato dal Ministero della

Pubblica Istruzione (MPI) e dal Ministero dell’Università e della Ricerca Scientifica e Tecnologica (MURST). Il Progetto è stato presentato in Congressi nazionali ed internazionali ed apprezzato per il suo contributo innovativo e scientifico.

Il progetto coinvolge sette scuole distribuite in tre regioni (Lazio, Trentino e Abruzzo) e il nostro Istituto è l’unico nella nostra regione a partecipare (unico partner e scuola polo regionale).L’IIS “Savoia” ha aderito al progetto nell’anno scolastico 1997-1998 - quella attuale è quindi la XVI edizione - per iniziativa lungimirante del prof. Franco Casale e con l’appoggio dell’ingegnere e Dottore di ricerca Silvio Petaccia (Coordinatore organizzativo nazionale del Progetto DUA, nonché ex allievo del nostro istituto).

Obiettivo del progetto di ricerca è la verifica di fattibilità riguardante l’impiego di un

metodo di insegnamento a distanza per programmi universitari anticipati dall’ultimo anno della scuola secondaria superiore; infatti i soggetti destinatari sono studenti delle scuole medie superiori. Gli obiettivi di un

tale progetto sono vari:

• consentire a studenti motivati attività preuniversitarie proponendo programmi di base trasversali, presenti quindi in più corsi di laurea;

• consentire a tutti gli studenti interessati un approccio alla didattica universitaria per lo sviluppo di un metodo di studio e di apprendimento che consenta di minimizzare il divario esistente tra le metodologie di insegnamento utilizzate nella scuola superiore e nell’università;

• consentire un orientamento preliminare per una scelta universitaria consapevole che favorisca la diminuzione del numero di abbandoni dall’Università o cambiamenti del corso di laurea.

Gli studenti delle classi quinte del nostro

istituto possono frequentare corsi universitari a distanza per le seguenti discipline: Chimica Generale e Fondamenti di Informatica.Per questo anno scolastico gli allievi iscritti sono stati 42.

I corsi sono fruibili per via telematica, infatti gli strumenti didattici usati sono basati su Internet anche per consentire agli studenti di operare in relativa autonomia nell’organizzazione dei tempi, e lo svolgimento dei programmi avviene attraverso l’interazione via e-mail con il tutor (titolare o collaboratore della cattedra universitaria) integrata da seminari in presenza nell’Istituto e da testi di riferimento (cartacei e su CD-ROM).

Agli allievi L o m b a r d i n i Mario, La Rovere Danilo, M a t a r a z z o Giulio, Farioli Davide e P i e t r a n g e l o Francesco che sono seguiti anche da uno staff di docenti dell’IIS - Sabrina Ferrari (tutor), Massimo Storaci (tutor), Gabriella Scaricaciottoli (tutor), Sergio Tracanna (tutor e coordinatore) - è rilasciata una certificazione finale dell’attività svolta, dopo il superamento di un test a distanza e/o in istituto.

E’ prevista la possibilità di sostenere l’esame della disciplina scelta presso la sede universitaria di riferimento, con il rilascio di un certificato firmato dal professore universitario titolare del programma per l’attribuzione dei relativi Crediti Formativi Universitari (CFU).

È importante ricordare che la Fondazione “Comunità Domenico Tardini” bandisce annualmente un concorso nazionale per un congruo numero di borse di studio

per neodiplomati, meritevoli e con limitate possibilità economiche, e di posti in residenza gratuiti [nelle Residenze universitarie “Villa Nazareth” e “Domenico Tardini” in Roma].

Sono ormai numerosi gli allievi dell’IIS che hanno saputo cogliere l’opportunità offerta dalla “Comunità Tardini”; sempre particolarmente apprezzati dalla prof.ssa Groppelli per le doti umane e il “talento”, sono anche entrati a far parte dello staff DUA nazionale: il dott. Francesco Rulli (Informatica), Matteo Mancini (Informatica) e Federica Trivarelli (Chimica), solo per citare gli ultimi.

A margine delle considerazioni fin qui fatte, mi preme ricordare che tramite il progetto in questione e la sensibilità della prof.ssa Groppelli, il nostro Istituto può disporre di un servizio di assistenza psicologica per gli allievi gestito dalla dott.ssa Marcella Brunetti, psicologa e Dottore di ricerca dell’università “G. d’Annunzio”.

(Track)NdR Ulteriori notizie sul “Progetto DUA” e sulle attività svolte da Villa Nazareth possono essere trovare nel libro “Studenti verso l’università” della prof.ssa Groppelli pubblicato con il contributo del CNR [Edizioni Borla 2005].

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NewsIl giorno 7 aprile 2014 presso il Liceo Scientifico “Leonardo da Vinci” di Pe-scara si è svolta la Fase Regionale delle Olimpiadi di Scienze Naturali 2014 – XII Edizione.Per la sezione Triennio si è classificato in 2a posizione il nostro alunno Fran-cesco Caraceni frequentante la classe V LST B il quale, pertanto, è ammesso alla fase nazionale.

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La specializzazione di Informatica nel corrente anno scolastico ha ottenuto nuovamente successi nelle gare proposte a livello regionale e a livello nazionale nell’ambito delle Olimpiadi di Informatica e nella Gara Nazionale di Programmazione delle Macchine di Turing.Gli studenti, Francesco Colasante, Matteo Lizzi, Mattia Nicolella ed Alessandro Madonna, rispettivamente della classi 3A e 4A della specializzazione Informatica e Telecomunicazioni, hanno partecipato, ben figurando, alla XVIII edizione della Gara Nazionale di Programmazione delle Macchine di Turing.Alla competizione hanno partecipato 25 squadre provenienti in maggior misura dal Veneto e dalla Toscana.A tutti i partecipanti è stato consegnato un attestato di partecipazione.In particolare un plauso va agli alunni Mattia Nicolella e Alessandro Madonna che, classificandosiall’ottavo posto, si sono inseriti nell’albo d’oro della manifestazione. La nostra scuola vanta, a riguardo, una tradizione gloriosa: su 9 partecipazioni (dal 2006 al 2014) per ben 7 volte si è inserita nell’albo d’oro.L’albo d’oro è consultabile sul sito del Dipartimento d’Informatica dell’Università di Pisa.Per quanto concerne le Olimpiadi Nazionali di Informatica istituite dal Ministero della Pubblica Istruzione in collaborazione con l’AICA (associazione italiana per l’informatica e il calcolo automatico) gli studenti Caniglia Mario della terza B, Cicalini Alessio della quarta A, Breda Gianluca, Di Michele Jacopo della quarta C della specializzazione Informatica e Telecomunicazione, dopo aver superato brillantemente la selezione d’istituto, hanno partecipato alla selezione regionale tenutasi a Pescara presso l’IIS “A.Volta” classificandosi tra i primi 10.Un particolare plauso va all’allievo Caniglia Mario che si è classificato al sesto posto nella graduatoria regionale con il punteggio 24/50.

France sco Baracca, il cavallino rampantee l’IIS Luigi di Savoia

Vi siete mai chiesti perché sulle auto sportive della Ferrari c’è un cavallino rampante? Da dove viene questo stemma?Per rispondere a questa domanda dobbiamo fare un salto indietro nel tempo, precisamente nel 1923. In quell’an-no un giovane pilota di nome Enzo Ferrari vinceva la corsa del 1 circuito di Savio, che si correva Ravenna. Lì conobbe i genitori del famoso aviatore italiano Francesco Baracca, il conte Enrico Baracca e la contessa Pao-lina. I due vollero regalare il cavallino rampante, che era lo stemma che il loro figlio faceva dipingere sui suoi aerei. La madre disse a Enzo Ferrari: “Ferrari, metta sulle sue macchine il cavallino rampante del mio figliolo, le porterà fortuna”. Cosi Enzo Ferrari entrò in possesso del cavallino che dal 1932 fino ad oggi mise in evidenza sulle sue macchine.Ma parliamo adesso di Francesco Baracca e facciamo un altro passo indietro nel tempo fino ad arrivare alla prima guerra mondiale, la cosi detta Grande Guerra. L’aviazione italiana aveva un grande aviatore, il più te-muto, di nome Francesco Baracca che durante la sua carriera ha collezionato numerosi abbattimenti. Come accennato prima l’insegna personale di Baracca, che faceva dipingere sui suoi aerei, era il cavallino rampante, sul cui colore esistono ancora oggi dei dubbi. Alcuni dicono che il cavallino originariamente era rosso perché Baracca lo aveva preso dallo stemma del II Reggimento “Piemonte Reale Cavalleria” di cui l’asso romagnolo faceva parte. Già vi posso dire che questa è una prima ipotesi sul dove Baracca a sua volta Baracca prese il Cavallino rampante. Ma c’è una seconda ipotesi. L’aviatore italiano il 25 novembre 1916 abbatte il suo quinto aereo, precisamente un “Albatros B II” tedesco. Il pilota di questo aereo aveva come emblema un cavallino ram-pante che è anche il simbolo della città di Stoccarda. Secondo il rituale bellico-cavalleresco del tempo, la quinta vittima consentiva al pilota di assumere la qualifica di asso e per ricordare l’avvenimento si rubava lo stemma del pilota nemico abbattuto. Su questo episodio esiste una testimonianza di Ferry Porsche, fondatore della casa

automobilistica tedesca che ha come stemma il caval-lino rampante: “Non sono solo i cugini di Maranello ad avere un cavallino rampante sul cofano, anzi per la precisione si tratta di una giumenta, perche’ e’ tratto dal simbolo della citta’ di Stoccarda, il cui nome signi-fica “giardino delle giumente”. Anche la Ferrari usa il cavallino di Stoccarda come marchio e per questo mo-tivo: il Cav. Ferrari aveva un amico che era stato pilota di caccia nella prima guerra mondiale; in un duello aereo aveva abbattuto un pilota tedesco, il cui velivolo portava sul fianco il simbolo della citta’ di Stoccarda.L’italiano prese questo stemma come trofeo e quan-do Ferrari fondo’ la sua scuderia, gli propose di usarlo come marchio.Ferrari accetto’ e cosi’ lo stemma della citta’ di Stoccar-da appare per ben due volte come marchio di un’auto-mobile.”La terza ipotesi sulla provenienza del cavallino ram-pante è molto interessante ma, a mio parere, un po’ improbabile e sa un po’ troppo di leggenda. Comun-que è questa. Durante la Grande Guerra l’ITIS Luigi di Savoia produceva pezzi di ricambio per gli areopla-ni e qualcuno in passato ha affermato che il cavallino rampante sia uscito dalla nostra scuola. Può anche es-sere vero ma bisognerebbe che qualcuno andasse ad indagare per cercare delle prove tra i vecchi archivi, documenti e fotografie dell’epoca. Certo che una cosa del genere però aumenterebbe il prestigio della nostra scuola.

Nicola Mariani

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1918

Sudoku TesseraCompletate la griglia in modo tale che ogni riga, colonna e tessera conten-gano tutte le cifre da 1 a 9.

Sudoku KillerCompletate la griglia in modo tale che ogni riga, colonna e riquadro con-tengano tutte le cifre da 1 a 9. Tenete in conside-razione che le cifre da in-serire in ciascun settore tratteggiato devono dare come somma il numero indicato nel settore stes-so, in alto a sinistra, senza ripetersi.

Mondo Sudoku

TredokuIl tredoku è simile al sudoku. I numeri da 1 a 9 devono apparire solo una volta in ogni sottogriglia 3x3 e in ogni riga di 9 caselle.Ma poiché il tredoku è in uno spazio tridimensionale, le righe di 9 casel-le possono essere dritte o piegate. Per aiutarvi ad individuare sottogri-glie e righe lo schema è stato ombreggiato con colore diverso.

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Nome e logo del giornale sono stati ideati daglistudenti Giulio Molinari e Andrea Di Nicolantonio

(IV Inf A a.s. 2004-2005)

Il SAVOIArdoAnno X n°6 - Maggio 2014

Direttore Edoardo Palazzo

Coordinamento editoriale Sergio Tracanna

Redazione Rina Di Crescenzo Ernesto Madonna Gabriella Scaricaciottoli Sergio Tracanna Lucia Vaccarella Concetta Lopo Maurizio Roccioletti

Collaboratori esterni Amedeo Matteucci Giacomo Pisani

Grafica, impaginazione elettronica e foto Gabriella Scaricaciottoli Jacopo Centofanti Maurizio Roccioletti Silveri Mattia Iezzi Matteo

Tiratura 150 copie a colori 300 copie in bianco e nero

egChiuso in redazione il 31 maggio 2014Stampato presso l’IIS «Luigi di Savoia»

egVersione online del giornale in formato pdf

http://www.itisavoia.ch.it

Le SOLUZIONiSudoku Killer

Sudoku Tessera

Tredoku