L’IMMUNITA’ - Il-Cubo · 2020-03-30 · 1 L’IMMUNITA’ Le macromolecole di cui i vari...

59
1 L’IMMUNITA’ Le macromolecole di cui i vari organismi sono formati hanno, nella maggior parte dei casi, struttura e configurazione strettamente determinate e proprie della specie biologica cui appartengono. Per una data classe di macromolecole, le differenze da specie a specie non dipendono tanto dalla composizione percentuale e dalla natura o dal numero delle molecole elementari che vi sono rappresentate, quanto dalla forma del complesso, dalla posizione che in esso occupano i vari gruppi chimici e dalla loro maggiore o minore vi- cinanza e accessibilità. Questa particolare individualità chimico-fisica delle macromolecole biologiche è la specie-specificità. Quando uno di questi individui macromolecolari viene a trovarsi, per qualsiasi motivo, in un organismo estraneo, questo non lo riconosce come proprio e non lo tollera, ma tende ad eliminarlo attraverso una serie di fattori e di reazioni che costituiscono nel loro insieme i meccanismi immunitari. In definitiva, il risultato finale è l'allontanamento della specie macromolecolare intrusa ed il mantenimento dell'individualità biologica dell'organismo; in altre parole, un risultato difensivo. Tra gli agenti estranei che possono venire a trovarsi all'interno di un organismo, i più frequenti sono gli agenti viventi di malattie infettive. In questo caso, la messa in opera dei meccanismi immunitari ha come risultato finale la guarigione e rappresenta il mezzo di difesa più valido di cui l'organismo dispone per superare le malattie infettive. Per questo si è spesso portati a considerare l'immunità come l'insieme dei meccanismi specifici e aspecifici di difesa contro le malattie infettive. Lo stesso termine di immunità sottolinea questo concetto, in quanto implica meccanismi capaci di rendere gli individui «immuni» dalle malattie. L'immunità, però, è qualcosa di più; essa esprime infatti non tanto l'insieme dei meccanismi di difesa contro i microrganismi, quanto un fenomeno biologico di portata generale, di cui anche i meccanismi antinfettivi fanno parte. Anche per quanto riguarda il termine «difesa» è opportuno fare delle riserve; infatti si incontrano fra le reazioni immunitarie, oltre a processi con risultato indubbiamente utile, anche fenomeni che portano a sofferenza, spesso assai grave, dei tessuti e dell'organismo. I meccanismi su cui poggia l'immunità possono essere aspecifici o specifici. Nel primo caso si tratta per lo più di sostanze o di processi genericamente rivolti verso agenti estranei, indipendenti entro ampi limiti dalla loro natura. Nel secondo caso, invece, si tratta di reazioni elettivamente rivolte verso un tipo macromolecolare determinato, e solo verso di quello. I meccanismi dell’immunità aspecifica (o naturale o innata) sono quasi sempre già presenti all'atto della nascita, anche se possono talvolta potenziarsi in seguito al ripetuto contatto con l'agente. Possono essere rappresentati da meccanismi basati sull'attività delle cellule, come la fagocitosi (fattori cellulari), oppure da sostanze presenti nei liquidi del corpo e specialmente nel sangue, aventi la proprietà di agire in qualche modo sui microrganismi, uccidendoli o rendendoli più facilmente fagocitabili (fattori umorali). Gran parte di questi fattori coincidono con i fattori coinvolti nel processo infiammatorio e sono stati descritti in dettaglio nel capitolo corrispondente. I meccanismi dell’immunità specifica (o acquisita o adattativa) presuppongono invece il contatto con la macromolecola estranea nel periodo della maturità immunologica, cioè in un momento della vita in cui l'organismo abbia acquisito la capacità di reagire. Le macromolecole estranee capaci di evocare la reazione specifica sono dette antigeni; la risposta dell'organismo consiste nella produzione di fattori umorali e cellulari capaci di reagire specificamente con quel particolare antigene promuovendone l’eliminazione; questo avviene per lo più reclutando, dirigendo e potenziando i fattori dell’immunità innata. I fattori umorali dell’immunità specifica sono gli anticorpi, prodotti dai linfociti B e presenti nei liquidi dell'organismo, specialmente nel plasma, ma anche nelle secrezioni mucose. I fattori cellulari dell’immunità specifica sono i linfociti T; essi sono normalmente localizzati (insieme al linfociti B) in tessuti addetti specificamente allo sviluppo e organizzazione della risposta immunitaria, detti organi linfatici secondari (linfonodi, milza, tessuto linfatico associato alle mucose), e sono richiamati nella sede di infezione dopo essere stati attivati nel corso della risposta immunitaria. Fra l'entrata in gioco dei fattori aspecifici e di quelli specifici esistono differenze di ordine cronologico e filogenetico. Per quanto riguarda la cronologia degli eventi, i fattori aspecifici iniziano la loro azione prima di quelli specifici ed operano in modo da limitare l’infezione nelle sue fasi iniziali e rendere possibile il successivo intervento dei fattori specifici. Vari fattori umorali dell'immunità naturale, come il lisozima e varie opsonine (come il complemento o le pentraxine), agiscono sui microrganismi, modificandone la struttura e la vitalità e favorendone il riconoscimento da parte dei fagociti. La successiva fagocitosi determina non solo l’uccisione ed eliminazione del microrganismo, ma anche la “semplificazione” dei suoi componenti antigenici rendendo possibile l’attivazione di opportuni linfociti T, detti linfociti T helper, i quali hanno la capacità di organizzare la risposta immunitaria specifica, la quale è per lo più volta a rendere più efficiente l’eliminazione delle particelle estranee da parte degli stessi meccanismi dell’immunità aspecifica. La risposta immunitaria specifica ha la proprietà di conservare la memoria del microrganismo incontrato, acquisendo la capacità di rispondere una seconda volta allo stesso microrganismo con una rapidità ed efficienza decisamente maggiore. La memoria è invece assente nella immunità aspecifica. Per quanto riguarda la filogenesi, è sicuro che i meccanismi di difesa aspecifica si sono sviluppati prima dei meccanismi specifici. Questi ultimi sono pienamente sviluppati solo nei vertebrati, mentre la fagocitosi è presente anche in organismi unicellulari, come le Amebe. Come vedremo in seguito con maggiori particolari, la capacità di produrre fattori dell’immunità specifica si è sviluppata nella filogenesi in coincidenza con la comparsa di organi linfoidi e con la maturazione di elementi cellulari caratteristici, i linfociti. Tra le specie biologiche esistenti, questa evoluzione è evidente nelle Lamprede (Petromyzon marinus), mentre manca ancora del tutto nei Missinoidi (Eptatretus stouti). La piena maturazione è raggiunta soltanto nei vertebrati superiori, per i quali i meccanismi immunitari finiscono per rappresentare il maggior presidio difensivo (vedere l'Approfondimento). FATTORI ASPECIFICI DELL'IMMUNITA’ Si tratta di fattori presenti negli organismi indipendentemente da precedenti sollecitazioni e fanno quindi parte dell'immunità naturale o innata. Come già accennato, i fattori dell’immunità aspecifica svolgono però una parte importante anche nell’immunità specifica, agendo sia nella fase di induzione della risposta immunitaria specifica sia nella sua fase effettrice, ovvero nella fase in cui la risposta immunitaria specifica provvede alla eliminazione dei microrganismi estranei. In effetti si osserva che l’attività di molti fattori dell’immunità aspecifica aumenta nel corso dello sviluppo della risposta immune specifica. La delimitazione del campo di azione dei fattori dell’immunità aspecifica si trova non nella particolare natura dell'agente riconosciuto, ma piuttosto in un complesso di caratteristiche fisiche o chimico-fisiche condivise per lo più con altri agenti. La

Transcript of L’IMMUNITA’ - Il-Cubo · 2020-03-30 · 1 L’IMMUNITA’ Le macromolecole di cui i vari...

Page 1: L’IMMUNITA’ - Il-Cubo · 2020-03-30 · 1 L’IMMUNITA’ Le macromolecole di cui i vari organismi sono formati hanno, nella maggior parte dei casi, struttura e configurazione

1

L’IMMUNITA’

Le macromolecole di cui i vari organismi sono formati hanno, nella maggior parte dei casi, struttura e configurazione strettamente

determinate e proprie della specie biologica cui appartengono. Per una data classe di macromolecole, le differenze da specie a specie non dipendono tanto dalla composizione percentuale e dalla natura o dal numero delle molecole elementari che vi sono rappresentate, quanto dalla forma del complesso, dalla posizione che in esso occupano i vari gruppi chimici e dalla loro maggiore o minore vi-cinanza e accessibilità. Questa particolare individualità chimico-fisica delle macromolecole biologiche è la specie-specificità. Quando uno di questi individui macromolecolari viene a trovarsi, per qualsiasi motivo, in un organismo estraneo, questo non lo riconosce come proprio e non lo tollera, ma tende ad eliminarlo attraverso una serie di fattori e di reazioni che costituiscono nel loro insieme i meccanismi immunitari. In definitiva, il risultato finale è l'allontanamento della specie macromolecolare intrusa ed il mantenimento dell'individualità biologica dell'organismo; in altre parole, un risultato difensivo.

Tra gli agenti estranei che possono venire a trovarsi all'interno di un organismo, i più frequenti sono gli agenti viventi di malattie infettive. In questo caso, la messa in opera dei meccanismi immunitari ha come risultato finale la guarigione e rappresenta il mezzo di difesa più valido di cui l'organismo dispone per superare le malattie infettive. Per questo si è spesso portati a considerare l'immunità come l'insieme dei meccanismi specifici e aspecifici di difesa contro le malattie infettive. Lo stesso termine di immunità sottolinea questo concetto, in quanto implica meccanismi capaci di rendere gli individui «immuni» dalle malattie. L'immunità, però, è qualcosa di più; essa esprime infatti non tanto l'insieme dei meccanismi di difesa contro i microrganismi, quanto un fenomeno biologico di portata generale, di cui anche i meccanismi antinfettivi fanno parte. Anche per quanto riguarda il termine «difesa» è opportuno fare delle riserve; infatti si incontrano fra le reazioni immunitarie, oltre a processi con risultato indubbiamente utile, anche fenomeni che portano a sofferenza, spesso assai grave, dei tessuti e dell'organismo.

I meccanismi su cui poggia l'immunità possono essere aspecifici o specifici. Nel primo caso si tratta per lo più di sostanze o di processi genericamente rivolti verso agenti estranei, indipendenti entro ampi limiti dalla loro natura. Nel secondo caso, invece, si tratta di reazioni elettivamente rivolte verso un tipo macromolecolare determinato, e solo verso di quello.

I meccanismi dell’immunità aspecifica (o naturale o innata) sono quasi sempre già presenti all'atto della nascita, anche se possono talvolta potenziarsi in seguito al ripetuto contatto con l'agente. Possono essere rappresentati da meccanismi basati sull'attività delle cellule, come la fagocitosi (fattori cellulari), oppure da sostanze presenti nei liquidi del corpo e specialmente nel sangue, aventi la proprietà di agire in qualche modo sui microrganismi, uccidendoli o rendendoli più facilmente fagocitabili (fattori umorali). Gran parte di questi fattori coincidono con i fattori coinvolti nel processo infiammatorio e sono stati descritti in dettaglio nel capitolo corrispondente.

I meccanismi dell’immunità specifica (o acquisita o adattativa) presuppongono invece il contatto con la macromolecola estranea nel periodo della maturità immunologica, cioè in un momento della vita in cui l'organismo abbia acquisito la capacità di reagire. Le macromolecole estranee capaci di evocare la reazione specifica sono dette antigeni; la risposta dell'organismo consiste nella produzione di fattori umorali e cellulari capaci di reagire specificamente con quel particolare antigene promuovendone l’eliminazione; questo avviene per lo più reclutando, dirigendo e potenziando i fattori dell’immunità innata. I fattori umorali dell’immunità specifica sono gli anticorpi, prodotti dai linfociti B e presenti nei liquidi dell'organismo, specialmente nel plasma, ma anche nelle secrezioni mucose. I fattori cellulari dell’immunità specifica sono i linfociti T; essi sono normalmente localizzati (insieme al linfociti B) in tessuti addetti specificamente allo sviluppo e organizzazione della risposta immunitaria, detti organi linfatici secondari (linfonodi, milza, tessuto linfatico associato alle mucose), e sono richiamati nella sede di infezione dopo essere stati attivati nel corso della risposta immunitaria.

Fra l'entrata in gioco dei fattori aspecifici e di quelli specifici esistono differenze di ordine cronologico e filogenetico. Per quanto riguarda la cronologia degli eventi, i fattori aspecifici iniziano la loro azione prima di quelli specifici ed operano in

modo da limitare l’infezione nelle sue fasi iniziali e rendere possibile il successivo intervento dei fattori specifici. Vari fattori umorali dell'immunità naturale, come il lisozima e varie opsonine (come il complemento o le pentraxine), agiscono sui microrganismi, modificandone la struttura e la vitalità e favorendone il riconoscimento da parte dei fagociti. La successiva fagocitosi determina non solo l’uccisione ed eliminazione del microrganismo, ma anche la “semplificazione” dei suoi componenti antigenici rendendo possibile l’attivazione di opportuni linfociti T, detti linfociti T helper, i quali hanno la capacità di organizzare la risposta immunitaria specifica, la quale è per lo più volta a rendere più efficiente l’eliminazione delle particelle estranee da parte degli stessi meccanismi dell’immunità aspecifica. La risposta immunitaria specifica ha la proprietà di conservare la memoria del microrganismo incontrato, acquisendo la capacità di rispondere una seconda volta allo stesso microrganismo con una rapidità ed efficienza decisamente maggiore. La memoria è invece assente nella immunità aspecifica.

Per quanto riguarda la filogenesi, è sicuro che i meccanismi di difesa aspecifica si sono sviluppati prima dei meccanismi specifici. Questi ultimi sono pienamente sviluppati solo nei vertebrati, mentre la fagocitosi è presente anche in organismi unicellulari, come le Amebe. Come vedremo in seguito con maggiori particolari, la capacità di produrre fattori dell’immunità specifica si è sviluppata nella filogenesi in coincidenza con la comparsa di organi linfoidi e con la maturazione di elementi cellulari caratteristici, i linfociti. Tra le specie biologiche esistenti, questa evoluzione è evidente nelle Lamprede (Petromyzon marinus), mentre manca ancora del tutto nei Missinoidi (Eptatretus stouti). La piena maturazione è raggiunta soltanto nei vertebrati superiori, per i quali i meccanismi immunitari finiscono per rappresentare il maggior presidio difensivo (vedere l'Approfondimento).

FATTORI ASPECIFICI DELL'IMMUNITA’

Si tratta di fattori presenti negli organismi indipendentemente da precedenti sollecitazioni e fanno quindi parte dell'immunità naturale o innata. Come già accennato, i fattori dell’immunità aspecifica svolgono però una parte importante anche nell’immunità specifica, agendo sia nella fase di induzione della risposta immunitaria specifica sia nella sua fase effettrice, ovvero nella fase in cui la risposta immunitaria specifica provvede alla eliminazione dei microrganismi estranei. In effetti si osserva che l’attività di molti fattori dell’immunità aspecifica aumenta nel corso dello sviluppo della risposta immune specifica.

La delimitazione del campo di azione dei fattori dell’immunità aspecifica si trova non nella particolare natura dell'agente riconosciuto, ma piuttosto in un complesso di caratteristiche fisiche o chimico-fisiche condivise per lo più con altri agenti. La

Page 2: L’IMMUNITA’ - Il-Cubo · 2020-03-30 · 1 L’IMMUNITA’ Le macromolecole di cui i vari organismi sono formati hanno, nella maggior parte dei casi, struttura e configurazione

2

fagocitosi, per esempio, opera su particelle solide, la cui possibilità di essere inglobate dalla cellula dipende dalle dimensioni, oltre che dalla presenza di molecole riconosciute da particolari recettori di superficie del fagocita. Certe sostanze antibatteriche trovano la loro delimitazione di azione nella natura chimica di sostanze presenti nei microrganismi: per esempio, il lisozima digerisce un polisaccaride posto alla loro superficie.

I fattori aspecifici dell’immunità comprendono le difese di barriera e i fattori che intervengono dopo che i microrganismi sono riusciti ad invadere i tessuti dell’organismo. Anche se questi ultimi operano in genere in modo sinergico, dal punto di vista didattico è opportuno distinguere quelli legati alla funzione di cellule o di tessuti (fattori cellulari), da quelli che, disciolti nei liquidi organici, operano grazie alla loro struttura chimica (fattori umorali).

Difese di barriera

Le prime difese aspecifiche messe in campo contro gli agenti infettivi sono le difese di barriera, ovvero difese di tipo anatomico che costituiscono un involucro intorno al corpo e impediscono meccanicamente l'ingresso dei microrganismi patogeni.

Lo strato corneo della cute offre una difesa estremamente efficace contro l’invasione da parte dei microrganismi e la difesa è resa più efficace dalle secrezioni sebacee, che sviluppano sulla cute un pH acido ostile per la maggior parte dei microrganismi.

Le mucose, prive di strato corneo, offrono una difesa di barriera di per sé meno efficace, ma la difesa è qui potenziata dal muco elaborato dalle ghiandole mucipare. Il muco protegge le cellule sottostanti dal contatto con particelle estranee (ivi inclusi batteri e virus) che vi restano invischiate e sono facilmente espulse per via meccanica (movimento delle ciglia dell’epitelio bronchiale, tosse, movimento peristaltico dell’intestino ecc). Inoltre il muco contiene sostanze con azione battericida o batteriostatica, come il lisozima, un enzima idrolitico capace di scindere lo strato peptidoglicanico della parete batterica, la lattoferrina, che lega il ferro sottraendolo ai batteri, e peptidi come le β-defensine 1 e 2 (HBD-1 e -2), la catelicidina LL-37, i peptidi neutrofilici (HNP), l’inibitore

leucoproteinasico secretorio (SLP-1), le proteine surfattanti A e D (SP-A, SP-D) appartenenti alla famiglia delle collectine e i peptidi

anionici. Nello stomaco il pH acido prodotto dalle ghiandole secernenti HCl crea una condizione sfavorevole per la vita dei microrganismi

Meccanismi cellulari.

Il meccanismo cellulare più importante nella difesa dai microrganismi che hanno superato le difese di barriera è la fagocitosi, cioè il meccanismo per cui alcune categorie di cellule sono capaci di inglobare e di digerire, in tutto o in parte, particelle estranee viventi o no.

La fagocitosi è una proprietà potenziale di tutte le cellule, ma raggiunge valori quantitativi e significato diversi a seconda del tipo cellulare e del grado evolutivo. Gli organismi unicellulari sono capaci di inglobare particelle solide e liquide (in tal caso si preferisce parlare di pinocitosi) di notevoli dimensioni, talvolta di poco inferiori al loro diametro; per essi la fagocitosi e la pinocitosi non sono soltanto meccanismi di difesa, ma anche vie di alimentazione. Negli organismi superiori si verifica invece una progressiva selezione di funzioni fra i vari tipi cellulari, per cui la capacità di inglobare particelle di grandi e medie dimensioni resta limitata solo ad alcune categorie di cellule, che appunto per questo sono dette fagociti; le altre restano occasionalmente capaci di inglobare minuscole particelle solide e liquide, ma per esse la fagocitosi ha praticamente perduto di importanza come mezzo di difesa, e anche come mezzo di nutrizione non rappresenta certamente il più importante in condizioni normali. In condizioni patologiche, però, questa proprietà può esaltarsi. Le cellule epiteliali del parenchima epatico, per esempio, sono capaci di pinocitare goccioline di albumina plasmatica, e tale proprietà va aumentando in condizioni di ipossia, quando la pressione intravasale aumenta; analogamente, le cellule tubulari del rene sono capaci di pinocitare goccioline contenenti proteine plasmatiche o emoglobina. A questa evoluzione della fagocitosi in senso filogenetico, fa riscontro un analogo fenomeno nel corso dello sviluppo embrionale; le prime cellule che prendono origine dalla divisione dello zigote sono abbastanza simili, dal punto di vista funzionale, a quelle degli esseri viventi costituiti da poche cellule; per esse la fagocitosi riveste il doppio significato di mezzo di nutrizione e di difesa. Con la successiva differenziazione dei tessuti o degli organi si assiste alla selezione delle funzioni, per cui la proprietà di fagocitare oggetti di dimensioni relativamente cospicue resta appannaggio di poche cellule. Questa proprietà può essere ripresa nell'adulto, quando un processo patologico qualsiasi (ad esempio rigenerazione o iperplasia) provochi un ritorno a condizioni di tipo embrionale.

Nei riguardi della capacità di fagocitosi, le cellule degli organismi superiori possono quindi dividersi in due tipi fondamentali: le cellule in cui la fagocitosi ha il doppio significato di mezzo di nutrizione e di difesa, e le cellule in cui persiste soltanto quale mezzo sussidiario di alimentazione. Al primo gruppo appartengono i fagociti veri e propri, al secondo tutte le altre cellule dell'organismo.

I fagociti veri non sono elementi uniformi dal punto di vista morfologico; si tratta, al contrario, di una serie di tipi cellulari diversi, che hanno in comune la funzione fagocitaria. Anche sotto questo aspetto, però, esistono differenze fra un tipo e l'altro. La principale è quella che venne sottolineata già nel secolo scorso da Metchnikoff. Egli distinse i fagociti in due gruppi, a seconda della grandezza delle particelle fagocitabili, i microfagi e i macrofagi. I microfagi sono i granulociti del sangue e possono inglobare microrganismi o particelle non viventi di piccole dimensioni. I macrofagi derivano dai monociti del sangue e comprendono cellule capaci di inglobare particelle di maggiori dimensioni e anche cellule intere (globuli rossi, protozoi, globuli bianchi). I granulociti sono normalmente nel circolo sanguigno, ma sono reclutati rapidamente nei tessuti nel corso dell’infiammazione. Hanno vita breve (24-48 ore) e non intervengono nel processo di elaborazione e di semplificazione degli antigeni, indispensabile per la successiva attivazione dell’immunità specifica. I macrofagi, invece, possiedono, oltre che la funzione antibatterica, anche quella non meno importante di preparare, o per meglio dire, «estrarre» i determinanti antigenici dalle strutture complesse e di presentarli ai linfociti T, innescando così la risposta immunitaria specifica (“processazione” e “presentazione” dell’antigene). In questo ruolo i macrofagi si comportano da cellule presentanti l’antigene (APC), un ruolo che è condiviso con altri tipi cellulari specializzati in altri tipi di endocitosi, ovvero le cellule dendritiche e i linfociti B, di cui si parlerà nella sezione dedicata alla presentazione dell’antigene. Il significato di emergenza dei granulociti è sottolineato anche dalla parte che essi svolgono nei processi infiammatori acuti. In quelli cronici, invece, sono soprattutto i macrofagi ad avere importanza.

Il sistema dei macrofagi è molto eterogeneo dal punto di vista morfologico; Aschoff gli dette il nome di sistema

reticolo-endoteliale (S.R.E.), o reticolo-istiocitario. Gli elementi che a esso appartengono sono accomunati dalla capacità di inglobare grandi quantità di materiale fagocitabile e sono per questo detti anche cellule accumulatrici. Al sistema appartengono i monociti del

Page 3: L’IMMUNITA’ - Il-Cubo · 2020-03-30 · 1 L’IMMUNITA’ Le macromolecole di cui i vari organismi sono formati hanno, nella maggior parte dei casi, struttura e configurazione

3

sangue e i macrofagi dei tessuti. I monociti sono i precursori dei macrofagi; sono rilasciati dal midollo osseo, rimangono nel circolo sanguigno per circa 8 ore e quindi migrano nei tessuti, dove si differenziano nei diversi tipi di macrofagi tessutali. Questi comprendono sia elementi mobili, capaci di migrare con movimenti ameboidi, come i macrofagi delle sierose, sia elementi fissi o stabili, i quali esercitano funzioni specializzate nei diversi tessuti, come gli istiociti dei connettivi, i macrofagi dei sinusoidi della milza o del fegato (questi ultimi detti cellule di Kupffer), le cellule mesangiali del rene, quelle microgliali del sistema nervoso centrale, gli osteoclasti del tessuto osseo. I macrofagi sono normalmente in stato di quiescenza, tuttavia si attivano nel momento in cui entrano in contatto con l’oggetto da fagocitare. Vari mediatori della risposta infiammatoria e immunitaria (in primo luogo varie citochine) sono poi in grado di potenziare notevolmente questo stato di attivazione, incrementando tutte le attività funzionali di queste cellule (fagocitosi, attività antimicrobica e citotossica, processazione e presentazione dell’antigene). Inoltre i macrofagi attivati producono e secernono grandi quantità di fattori solubili (come le citochine) capaci di modulare la risposta infiammatoria e immunitaria.

La fagocitosi.

Come già descritto nel capitolo sull’Infiammazione, nella fagocitosi si può distinguere una fase di avvicinamento del fagocita all'oggetto, una di adesione, una di inglobamento e infine una di digestione. A questa può seguire una fase di segregazione delle parti indigeribili ed eventualmente una di espulsione all'esterno dei resti. Sostanzialmente il meccanismo della fagocitosi e quello della pinocitosi sono identici; cambia solo la natura dell'oggetto, solido nel primo caso, liquido nel secondo. Le prime fasi sono dette anche endocitosi, mentre exocitosi è l'espulsione dei resti. I processi di assorbimento, di segregazione e di espulsione sono anche detti processi citotici.

Oltre alla fago- ed alla pinocitosi, bisogna considerare fra i processi citotici anche la citopempsi o diacinesi o transcitosi, cioè

l'attraversamento del corpo cellulare senza digestione. Questa presuppone la fusione dei fagosomi e dei pinosomi coi lisosomi e la conseguente formazione di fago- o di pinolisosomi. Ciò che distingue la citopempsi dagli altri processi è proprio la mancanza di questa fusione, che rende possibile l'espulsione all'esterno della cellula dei materiali inalterati. La citopempsi costituisce un meccanismo di trasporto intracellulare per molte sostanze.

a) La fase di avvicinamento della cellula fagocitante interessa prevalentemente i fagociti mobili, per i quali è possibile la cosiddetta fagocitosi di migrazione; non interessa invece i fagociti fissi, che attendono in situ le particelle da fagocitare e sono quindi capaci soltanto di fagocitosi di contatto. Il meccanismo dell'avvicinamento è determinato da attrazione chemiotattica; se ne è già parlato nel capitolo dell'infiammazione, i movimenti che intervengono dipendono dalla contrazione dei microfilamenti, che contengono actina. Esiste una sindrome patologica, detta sindrome del leucocita pigro, in cui esiste ridotta resistenza alle malattie infettive per ridotta polimerizzabilità dell'actina, che provoca minore risposta migratoria.

b) La seconda fase della fagocitosi, quella dell'adesione, interessa tutti i fagociti. Essa avviene attraverso l’interazione di recettori posti sui leucociti con ligandi situati sull'oggetto da fagocitare. Il fagocita possiede recettori detti scavenger receptor capaci di riconoscere direttamente determinate molecole espresse da microrganismi estranei oppure di riconoscere opsonine, ovvero molecole endogene solubili capaci di fissarsi sulle particelle da fagocitare segnalando la loro presenza ai fagociti.

Esempi di recettori che riconoscono direttamente i patogeni sono i cosiddetti “recettori di riconoscimento di spettro” (“pattern-

recognition receptors” o PPR) i quali riconoscono spettri molecolari associati ai patogeni (pathogen-associated molecular-patterns o PAMP). Questi sono gruppi di molecole espresse dai patogeni e sono riconosciuti come estranei da tutti gli animali. Esempi di queste molecole sono il lipopolisaccaride (LPS) dei batteri Gram-, gli acidi lipoteicoici e peptidoglicani dei batteri Gram+, i mannani dei funghi. I recettori per le PAMP comprendono molecole come CD14, che è un recettore per LPS, e i recettori della famiglia Toll (Toll-

like receptors o TLR), che comprendono nell’uomo almeno 6 molecole diverse che riconoscono LPS, lipoproteine, acidi lipoteicoici e peptidoglicani, oltre che molecole endogene marcatori di stress cellulare come le proteine da shock termico (“heat shock proteins” o hsp). Altri PPR sono invece dedicati al riconoscimento di molecole espresse sulle cellule apoptotiche, che devono essere fagocitate prima di perdere la loro integrità somatica; l’insieme di queste molecole costituisce il cosiddetto spettro molecolare associato alle

cellule apoptotiche (apoptotic-cell-associated molecular pattern, o ACAMP). Esempi di recettori che riconoscono opsonine sono CR1, CR3, CR4 o il recettore del C3a/C4a, che sono recettori per varie

componenti del complemento, un sistema di proteine sieriche che si attiva a cascata e si deposita sulla superficie del microrganismo estraneo. Altri esempi sono i recettori per il frammento Fc delle IgG (FcγR-I), per la MBP (proteina legante il mannoso), per la PCR (proteina C reattiva) e per la SAP (proteina amiloide serica), tutte molecole sieriche che si legano alle superfici batteriche e possono attivare la fagocitosi sia direttamente, interagendo col loro recettore macrofagico, sia indirettamente inducendo l’attivazione del complemento.

c) All'adesione segue l'inglobamento delle particelle nel fagocita. Questo avviene grazie alla capacità di emettere pseudopodi, cioè espansioni della parte periferica del citoplasma. Mediante metodi microcinematografici è stato osservato che la parte periferica di queste cellule è eccezionalmente mobile; da essa partono espansioni che cambiano continuamente forma e posizione e costituiscono talvolta vere e proprie membrane ondulanti, simili a quelle di certi protozoi. In quelle espansioni, che per le cellule mobili rappresentano anche il normale mezzo di locomozione, restano invischiate le particelle fagocitabili. La saldatura delle espansioni al di là delle particelle completa l'inglobamento.

d) Per effetto dell'inglobamento, il materiale fagocitabile viene a trovarsi all'interno del fagocita; esso non viene però ancora a contatto col citoplasma, ma ne resta separato da una membrana, che non è altro che una porzione della membrana plasmatica esterna, rimasta incarcerata nel citoplasma all'atto della saldatura delle sue espansioni alle spalle della particella. I vacuoli che si sono formati in questo modo vengono detti fagosomi o pinosomi, a seconda dello stato (solido o liquido) del materiale inglobato. Il processo prosegue con la fusione dei lisosomi coi vacuoli e la formazione dei fagolisosomi, nel cui interno le idrolasi acide provvedono alla digestione del materiale inglobato. Mentre i macrofagi sembrano possedere un unico tipo di lisosomi, i granulociti possiedono almeno due tipi di granulazioni, indicate come A e B. I granuli A, o primari, o azzurrofili (si colorano con l'azur II), contengono la maggior parte delle idrolasi acide e si possono quindi considerare come il vero equivalente dei lisosomi; contengono inoltre proteasi neutre, un terzo del lisozima totale del granulocita, la mieloperossidasi e una NADPH ossidasi. Derivano dalla faccia interna, concava, delle cisterne dell'apparato del Golgi; la loro membrana ha composizione simile a quella dei granuli B (l'una e l'altra sono membrane

Page 4: L’IMMUNITA’ - Il-Cubo · 2020-03-30 · 1 L’IMMUNITA’ Le macromolecole di cui i vari organismi sono formati hanno, nella maggior parte dei casi, struttura e configurazione

4

unitarie), ma è più ricca di colesterolo e meno ricca di fosfolipidi. I granuli B o secondari o specifici, contengono la fosfatasi alcalina (che sembra legata alla membrana), due terzi del lisozima totale, nonché la lattoferrina, capace di legare il Ferro ed la proteina

legante la vit. B12, le quali agiscono sottraendo ai batteri queste sostanze fondamentali per la loro crescita. Entrambi i tipi di granuli contengono inoltre le defensine, un gruppo di peptidi basici di 29-35 aminoacidi dotati di potente azione antimicrobica e citotossica legata alla capacità di produrre canali permeabili agli ioni nelle membrane cellulari. Le defensine sono accomunate dalla presenza di cinque residui di cisteina conservati che formano tre legami disolfuro intramolecolari, che fanno assumere alla molecola una forma circolare.

L'accostamento dei granuli al fagosoma e la fusione sembrano regolati da un meccanismo operante attraverso il sistema AMP ciclico-tubulina. Quest'ultima è il maggior costituente proteico dei microtubuli e dei microfilamenti che interverrebbero nel meccanismo dell'accostamento. La colchicina e la citocalasina B, due sostanze che bloccano il traffico intracellulare dei lisosomi,

bloccano anche la fusione; nello stesso modo agiscono il cortisone, le catecolamine, il glucagone e alcune prostaglandine, tutte sostanze che fanno aumentare il tasso intracellulare di AMP ciclico attraverso l'attivazione o la sintesi dell'adenilciclasi, e anche la teofillina, che raggiunge lo stesso risultato bloccando la sua demolizione operata dalla fosfodiesterasi. L'AMP ciclico, d'altra parte, previene la polimerizzazione della tubulina attraverso la fosforilazione della sua subunità b. Al contrario, un elevato livello intracellulare di cGMP favorisce la fusione e l'estrusione di enzimi lisosomali all'esterno delle cellule.

La fusione coinvolge più precocemente i granuli B di quelli A. Ciò fa sì che i batteri eventualmente fagocitati si trovino dapprima esposti all'azione di proteine cationiche, lisozima e lattoferrina, provviste di azione batteriostatica e battericida. Il successivo arrivo del contenuto dei granuli A apporta nel fagolisosoma sia altre sostanze battericide, che possono completare l'opera dei granuli B, sia le idrolasi, che provvedono alla digestione dei corpi batterici morti. I granuli A, inoltre, portano nel fagolisosoma un altro efficientissimo meccanismo battericida, cioè quello basato sul sistema NADPH ossidasi-mieloperossidasi, descritto in dettaglio nel capitolo sull’Infiammazione. Attraverso l'ossidazione del NADPH si genera H2O2, sostanza di per sè battericida; la mieloperossidasi, poi, scinde H2O2 in H2O e O atomico, ad azione fortemente ossidante e battericida. In presenza di ioni Cl-, il sistema catalizza la clorazione delle proteine, comprese quelle batteriche. E’ forse questo il principale meccanismo dell'azione battericida. L'importanza di questo sistema è dimostrata dal fatto che nella deficienza congenita di mieloperossidasi (una malattia genetica) si realizza una diminuita resistenza alle infezioni; ancor minore è la difesa nella malattia granulomatosa cronica, in cui la mieloperossidasi esiste, ma è bloccata la produzione di H2O2 attraverso la NADPH ossidasi; in tal caso, il blocco delle difese è più grave che nella deficienza di mieloperossidasi, in quanto in quest'ultima condizione esiste pur sempre H2O2, provvista di azione battericida.

Sul piano morfologico, l'avvenuta fusione è documentata dalla degranulazione del fagocita; se questo compie, quando non ha più granuli, altri atti fagocitari, il materiale introdotto resta indigerito; se si tratta di batteri, questi possono restare in vita, e persino moltiplicarsi, dentro i fagosomi.

La digestione dei materiali fagocitati è preceduta da una diminuzione del pH dentro i granuli legata all’azione di pompaggio dal citoplasma verso i fagolisosomi di ioni H+, per azione di una pompa protonica di membrana ATP-dipendente. L'abbassamento del pH favorisce l'azione delle idrolasi acide.

La fagocitosi si associa con brusche modificazioni del consumo di O2 e di glucoso, che sono state definite «burst respiratorio», o «incendio respiratorio», giacché si scatenano immediatamente al semplice contatto della superficie cellulare con l'oggetto della fagocitosi, o in coincidenza con la fissazione dell'agente chemotattico sul recettore specifico di membrana. Come conseguenza, si formano vari metaboliti intermedi reattivi dell’ossigeno (reactive oxygen intermediates, ROI) e metaboliti intermedi reattivi

dell’azoto (reactive nitrogen intermediates, RNI). I ROI comprendono H2O2 e vari radicali liberi dell'ossigeno, come l'anione superossido O2

-●, il radicale idrossilico OH●, il singoletto O1

2 e l’anione ipoclorito ClO-. Il sistema enzimatico che interviene nella formazione dell'anione superossido è la NADPH ossidasi. L'anione superossido viene poi in gran parte trasformato in H202 dalla superossido-dismutasi. Da notare che una parte non indifferente dell'H202, dell'anione superossido e anche degli altri radicali liberi può essere riversato dai fagociti all’esterno, ove può contribuire all'azione lesiva. Infatti le sostanze antiossidanti, che catturano i radicali liberi, svolgono azione antiinfiammatoria.

I RNI comprendono l’ossido nitrico NO●, il biossido di azoto NO2, l’acido nitroso HNO2, la monocloramina NH2Cl. La formazione degli RNI dipende dall’azione dell’enzima ossido-nitrico sintetasi (NOS), che ossida la L-arginina formando citrullina e NO. L’NO non ha di per sé una efficace azione antimicrobica, ma combinandosi con l’anione superossido produce sostanze più potenti, i perossinitriti.

Per quello che riguarda la funzione digestiva, si ammette che esista qualche differenza fra macrofagi e granulociti. Ai primi si attribuisce, infatti, importanza per l’elaborazione e la semplificazione dei determinanti antigenici, che verranno usati per l’attivazione dei linfociti T. Torneremo in seguito su questo punto. In ogni caso, la velocità di demolizione dei vari componenti proteici nei macrofagi non è uguale per tutte le proteine; quelle contenenti molti aminoacidi basici (per esempio, il lisozima) vengono degradate più lentamente; la semivita dell'albumina umana nei macrofagi peritoneali del coniglio è di circa 6 ore, mentre quella del lisozima dell'uovo è di circa 11 ore. Le proteine possono essere degradate interamente fino agli aminoacidi; questi ultimi possono passare attraverso la membrana dei fagolisosomi, diffondendo all'esterno, mentre già i tripeptidi non possono uscire e i dipeptidi escono soltanto se hanno piccola massa molecolare. I fosfolipidi di E. Coli vengono degradati incompletamente dai granulociti. I lisosomi dei macrofagi non contengono proteine basiche, né proteasi neutre o altri fattori diversi dalle idrolasi acide.

Il materiale contenuto nei granuli A e B possono anche essere rilasciati nello spazio extracellulare in seguito al rigurgito durante la fagocitosi, che si realizza quando i lisososmi si fondono col fagosoma quando esso è ancora aperto all’esterno; oppure in seguito alla endocitosi inversa che si realizza quando il materiale da fagocitare è troppo grande per il fagocita; oppure in seguito alla morte del fagocita. In questo modo le proteine basiche, oltre che un'azione antibatterica, hanno influenza sulla permeabilità capillare, che si esercita sia direttamente (alcune di esse hanno attività proteasica), sia indirettamente, attraverso la liberazione di istamina dai mastociti (o mastcellule), che vengono da esse degranulate.

Oltre che attraverso le proteine basiche, i granuli dei polimorfonucleati agiscono sulla permeabilità anche in altro modo; essi contengono infatti piccole quantità di istamina; inoltre, contengono chininogenasi capaci di liberare chinine dai precursori plasmatici. Anche le idrolasi, acide e neutre, possono agire sulla permeabilità capillare favorendo la digestione di eventuali sostanze cementanti.

Page 5: L’IMMUNITA’ - Il-Cubo · 2020-03-30 · 1 L’IMMUNITA’ Le macromolecole di cui i vari organismi sono formati hanno, nella maggior parte dei casi, struttura e configurazione

5

Le idrolasi, poi, hanno azione diffusoria; esse, infatti, digeriscono la sostanza fondamentale e altre strutture connettivali, favorendo la estensione del processo. Già si è detto dell'importanza dei granuli nel promuovere la produzione di sostanze ad azione leucotassica.

I granuli dei polimorfonucleati contengono sostanze capaci di influenzare la coagulazione del sangue. Si tratta sia di fattori anticoagulanti, capaci di bloccare l'attivazione della protrombina, sia di fattori procoagulanti, capaci di convertire il fibrinogeno in fibrina, sia di fattori ad azione coagulolitica, che attivano il plasminogeno a plasmina.

Meccanismi umorali.

Si è già visto come una netta distinzione fra meccanismi immunitari cellulari e umorali non sia sempre possibile; a parte il fatto che i fattori presenti nel plasma vi sono giunti dalle cellule che li hanno elaborati, le stesse cellule dotate di attività fagocitaria devono una parte della loro azione a sostanze che si ritrovano anche nel plasma. La distinzione ha quindi senso prevalentemente didattico. Daremo comunque una descrizione dei principali fattori aspecifici dell'immunità contenuti nel plasma. Si tratta, in sostanza, di fattori rivolti verso microrganismi o virus che entrano in gioco nella difesa contro le infezioni. Dalla loro presenza dipende il potere

battericida del sangue, dapprima scoperto da Lister nel 1880. Nuttal, che fu uno dei primi ad interessarsi del fenomeno, dimostrò che l'azione battericida porta ad una rapida lisi dei corpi batterici. Mentre in un primo tempo l'azione litica fu attribuita alla presenza nel plasma di un solo fattore termolabile, chiamato da Buchner «alessina», fu ben presto chiaro che il potere battericida dipende dalla simultanea presenza di un numero non piccolo di fattori, diversi fra loro sia per le caratteristiche chimiche e fisiche, sia per il loro bersaglio. Mentre alcuni di essi mostrano una particolare elettività di azione verso i microrganismi gram-negativi, altri sono più attivi sui gram-positivi, ma non si tratta di elettività assoluta.

Tra i fattori con azione prevalente sui gram-positivi, sono da ricordare il lisozima, le beta-lisine, le proteine cationiche. Tra quelli attivi soprattutto sui gram-negativi spicca il sistema del complemento, un complesso sistema di proteine sieriche attivate a cascata sia per opera degli anticorpi sia per vie indipendenti da questi ultimi. Poiché il complemento è un importante meccanismo attraverso cui gli anticorpi esercitano la loro azione di eliminazione delle sostanze estranee, esso verrà trattato successivamente. Come visto precedentemente, il siero contiene inoltre altre sostanze capaci di agire come opsonine nel riconoscimento di batteri sia gram-positivi sia gram-negativi o di permettere il riconoscimento delle cellule apoptotiche.

Il lisozima, scoperto da Fleming nel 1922, è una proteina basica dotata di azione enzimatica, con peso molecolare di circa 15 kDa. E’ contenuta in molti tessuti e in tutti i liquidi organici, ad eccezione delle orine e del sudore. Anche il liquor cefalo-rachidiano ne contiene normalmente quantità molto piccole, che possono aumentare in condizioni patologiche. I granuli dei neutrofili contengono una quantità non indifferente dell'enzima, di cui costituiscono il serbatoio. Tra i liquidi organici, quello più ricco di lisozima è rappresentato dalle lacrime; la saliva e il latte gli debbono parte importante della loro attività antisettica. Forti quantità di lisozima sono contenute nell'albume dell'uovo. Il contenuto degli organi varia in rapporto con la quantità di leucociti presenti; ne sono ricchi il midollo osseo e la milza, meno il rene ed i polmoni. Forti quantità, indipendenti dal numero dei leucociti presenti, ne contiene la cartilagine. L'azione litica è dovuta alla capacità che ha l'enzima di scindere i complessi mucopeptidici situati nella parete di vari microrganismi. La differente sensibilità al lisozima dei vari ceppi batterici si può spiegare con lievi differenze nella struttura dei polisaccaridi della parete, o col loro mascheramento da parte di altre sostanze. E’ da notare, però, che il lisozima non esercita la sua azione antibatterica soltanto in quanto fattore enzimatico, ma anche per la sua natura di proteina basica. Probabilmente si spiega su questa base l'azione antivirale.

Le beta-lisine sono sostanze antimicrobiche termostabili contenute nel siero di sangue coagulato, ma non nel plasma; ciò dimostra che esse si originano nel corso della coagulazione, durante la quale si verifica la aggregazione delle piastrine e sono infatti anche dette proteine cationiche piastiniche. Le beta-lisine vennero descritte all'inizio di questo secolo da Petterson, il quale ne dimostò l'azione litica su germi gram-positivi.

Le opsonine sono sostanze capaci di favorire la fagocitosi. Il nome deriva dal greco οψονευω = preparo il cibo. La presenza nel siero di fattori capaci di favorire la fagocitosi era già nota a Metchnikoff, il quale credeva che agissero stimolando l'attività vitale dei fagociti; per questo li chiamò stimoline. Ben presto, però, fu chiaro che queste sostanze non agiscono sul soggetto, ma sull'oggetto della fagocitosi, che viene reso più facilmente aggredibile. Il nome opsonina fu coniato da Wright e Douglas per sottolineare questo concetto. Gli Autori dimostrarono l'azione delle opsonine sul substrato grazie ad un semplice esperimento; osservarono infatti che, se globuli bianchi lavati (e quindi privati di ogni residuo di siero) vengono messi a contatto con microrganismi, la fagocitosi è scarsa o nulla; in presenza di siero, invece, è rapida ed efficiente e lo stesso accade anche in assenza di siero, purché i microrganismi siano stati prima preincubati con esso per un certo tempo. La preincubazione in siero dei fagociti non ha invece alcun effetto.

Oggi sono state identificate numerose opsonine, il cui ruolo è quello di “marcare” i microrganismi estranei in modo da renderli più facilmente riconoscibili da parte dei fagociti. Come si vedrà successivamente, gli anticorpi funzionano da opsonine in quanto gli anticorpi legati al microrganismo sono riconosciuti dagli FcγR espressi dai macrofagi. Similmente anche il sistema del complemento, attivato per vie dipendenti o indipendenti dagli anticorpi, “marca” i microrganismi estranei e permette il loro riconoscimento da parte dei recettori del complemento espressi dai fagociti. Come accennato parlando della fagocitosi, altre opsonine per i microrganismi estranei sono le pentraxine proteina C reattiva (PCR) e proteina amiloide serica (SAP), la proteina legante il mannoso (MBP),. La produzione di queste proteine da parte del fegato è potentemente aumentata nel corso dei processi infiammatori, per cui il loro livello sierico (soprattutto quello della PCR) è comunemente utilizzato come marcatore di processo infiammatorio in atto. Viceversa trombospondina, annessina V e β2-glicoproteina I (anche nota come apolipoproteina H) si legano a fosfolipidi espressi da cellule apoptotiche.

La difesa aspecifica antivirale. L'interferone.

Molti dei fattori aspecifici descritti hanno anche azione anti-virale; tra i più noti, il lisozima e il complemento. Il fattore aspecifico anti-virale più importante è peraltro costituito dagli interferoni.

Dicesi interferenza virale il fenomeno per cui una cellula infettata da un virus non consente la replicazione di altri virus successivamente infettanti. Vi sono vari tipi di interferenza, come quello dovuto alla competizione per i recettori di membrana, quello in rapporto con la competizione di enzimi virali reciproci, e con la produzione di particelle virali incomplete (particelle interferenti difettive). Il più importante, però, è quello legato al sistema degli interferoni (IFN). Esistono tre tipi principali di interferone, prodotti

Page 6: L’IMMUNITA’ - Il-Cubo · 2020-03-30 · 1 L’IMMUNITA’ Le macromolecole di cui i vari organismi sono formati hanno, nella maggior parte dei casi, struttura e configurazione

6

rispettivamente dalle cellule epiteliali e dai fibroblasti (interferone beta), da linfociti B, cellule NK («natural killer») e da monociti (interferone alfa) e da linfociti T sensibilizzati (interferone gamma).

Tutte e tre queste proteine, una volte liberate dalle cellule, sono capaci di rendere resistenti alla infezione virale le altre cellule con cui vengano a contatto, in virtù della produzione di altre proteine neoformate sotto il loro stimolo, che bloccano in varie fasi la replicazione virale.

Gli anticorpi naturali.

Le sostanze finora descritte quali fattori dell'immunità naturale sono relativamente aspecifiche. Uno dei problemi più dibattuti è se, accanto a queste, siano “naturalmente” presenti nel sangue anche sostanze dotate di specificità, capaci, cioè, di agire soltanto su determinati microrganismi, come gli anticorpi dell'immunità acquisita. In realtà, in soggetti nei quali non sia stato possibile dimostrare precedenti episodi di infezione da particolari agenti microbici, è stata spesso osservata la presenza nel siero di anticorpi specificamente rivolti verso quei determinati microrganismi; sono stati chiamati anticorpi naturali. La maggior parte appartengono alla classe delle IgM, anche se ne esistono alcuni di classe IgG o IgA. Tipici sono gli anticorpi contro i gruppi sanguigni A e B.

L'ammettere la presenza di questi anticorpi indipendentemente da una precedente sollecitazione antigenica, urta contro il pilastro fondamentale dell'immunologia, che sancisce non solo la specificità di risposta nella formazione degli anticorpi, ma anche la necessità di una specifica stimolazione (o sensibilizzazione). In realtà il fatto che non si sia potuto dimostrare il contatto con l'antigene non vuol dire che esso non ci sia stato. Negli animali neonati una certa quantità degli anticorpi deriva dalla madre, o attraverso la placenta o col latte. La mucosa intestinale è infatti permeabile, nei primissimi tempi dopo la nascita, alle immunoglobuline del latte materno. Successivamente il neonato viene gradualmente in contatto con la flora batterica dell’ambiente, compresa quella intestinale, e questo contatto sarebbe sufficiente per indurre la produzione dei cosiddetti anticorpi naturali. L’utilizzo dei cosiddetti animali «germfree», tenuti fin dalla nascita in ambienti sterili e nutriti con alimenti pure sterili sembra confermare questo modello. In questi animali, in cui la flora intestinale non si sviluppa e le varie parti del corpo restano completamente sterili, la produzione di anticorpi naturali è decisamente ridotta. E’ possibile ipotizzare che i bassi livelli comunque prodotti da questi animali derivino da microrganismi morti o da altre sostanze comunque presenti nel cibo.

Ruolo dei fattori aspecifici nell'immunità acquisita.

Molti dei fattori aspecifici dell'immunità naturale aumentano di attività o di concentrazione nel corso di processi immunitari specifici e vengono quindi ad assumere importanza non indifferente anche come meccanismi acquisiti di immunità. Ciò vale sia per i fattori cellulari cia per quelli umorali.

I trattamenti immunizzanti sono capaci di far aumentare l'attività fagocitaria. Ciò dipende da due ordini di fattori, cioè dall'iperplasia del sistema macrofagico che si produce dopo l'induzione della risposta immunitaria, e dall'aumento di fattori umorali ad azione leucotattica od opsonizzante.

Se si inocula un antigene corpuscolato in un animale, questo viene rapidamente sottratto al sangue dalle cellule del sistema macrofagico. La scomparsa dell'antigene corpuscolato è detta «clearance» per quel determinato antigene. Nelle prime ore dopo l'introduzione, il sistema macrofagico è incapace di svolgere nuovi atti fagocitari, tanto più se la quantità di antigene inoculata era stata elevata. Si stabilisce cioè una fase di depressione dell'attività fagocitaria, dovuta soprattutto al fatto che le cellule reticolo-endoteliali sono sature di materiale non ancora digerito. Questa prima fase corrisponde ad una maggiore suscettibilità verso agenti infettivi eventualmente introdotti successivamente. In seguito l'attività fagocitaria non solo si ripristina, ma risulta addirittura esaltata. Se il trattamento con l'antigene viene ripetuto molte volte, la capacità fagocitaria va aumentando progressivamente; al tempo stesso si osserva un aumento di volume del fegato, della milza e degli altri organi in cui esiste abbondante tessuto reticolo-istiocitario. Il fenomeno è chiaramente in rapporto con l’aumento di numero dei macrofagi.

E’ interessante segnalare che tale tipo di maggiore difesa è del tutto aspecifico e viene rivolto quindi non soltanto verso microrganismi diversi, ma addirittura verso particelle di carbone colloidale. Il trattamento prolungato di topi con BCG (un ceppo di Micobatterio tubercolare attenuato) determina infatti aumento della captazione del carbone colloidale e aumentata resistenza verso la infezione da Salmonella enteritidis.

I macrofagi che hanno aumentato in via aspecifica la loro attività fagocitaria in seguito al trattamento con sostanze varie sono detti attivati. L’attivazione dei macrofagi è inizialmente legata alla stimolazione dei recettori coinvolti nel riconoscimento della sostanza da fagocitare e quindi alla produzione di citochine stimolanti (IL-1, TNF-α) da parte dei macrofagi stessi. Successivamente l’innesco dell’immunità specifica determina la produzione da parte dei linfociti T di altre citochine (IFN-γ) in grado di potenziare enormemente l’attività fagocitica e citotossica del macrofago, nonché la sua capacità di presentare l’antigene.

Questa proprietà di stimolazione aspecifica del sistema macrofagico da parte degli antigeni è sfruttata quando si fa ricorso ai cosiddetti adiuvanti per aumentare l'efficacia dei trattamenti immunizzanti. Tra gli adiuvanti, il più usato è quello di Freund, che consiste in una sospensione di BCG in un'emulsione di olio e acqua (adiuvante completo), oppure anche, più semplicemente, di una emulsione di olio e acqua soltanto, senza BCG (adiuvante incompleto).

FATTORI SPECIFICI DELL'IMMUNITA’

E’ nozione comune che gli individui che hanno superato certe malattie non se ne riammalano una seconda volta, neanche in corso di epidemie. La capacità di non riammalarsene degli individui che avevano superato la peste era considerata già così assoluta fin dall'epoca rinascimentale, che essi venivano usati nell'assistenza degli ammalati. La stessa pratica cinese della variolizzazione, cioè dell'inoculazione in soggetti sani di materiali di pustola provenienti da convalescenti di forme lievi di vaiolo, aveva chiaramente lo scopo di far superare ai soggetti una malattia leggera, in modo da renderli definitivamente insensibili. Il termine «immunità» venne usato dapprima proprio per definire questa situazione di insensibilità acquisita di fronte ad agenti patogeni.

La situazione, che veniva dapprima ritenuta un aspetto particolare della patologia delle malattie infettive, non è che un caso di un processo biologico generale, per cui gli organismi superiori, venuti a contatto con molecole eterogenee di sufficiente grandezza introdottesi nel loro ambiente interno, elaborano verso di esse fattori capaci di neutralizzarle. Alla base di questi fattori c’è una enorme varietà di recettori, ciascuno in grado di riconoscere specificamente una determinata molecola estranea, la quale è detta

Page 7: L’IMMUNITA’ - Il-Cubo · 2020-03-30 · 1 L’IMMUNITA’ Le macromolecole di cui i vari organismi sono formati hanno, nella maggior parte dei casi, struttura e configurazione

7

antigene. Questi recettori per l’antigene sono prodotti dai linfociti e comprendono i recettori per l’antigene dei linfociti B, o anticorpi, e i recettori per l’antigene dei linfociti T, o T cell receptors (TCR).

E’ stato calcolato che i linfociti B nel loro insieme possono produrre oltre 1010 anticorpi diversi, in grado di riconoscere antigeni diversi; similmente anche i linfociti T possono produrre oltre 1010 TCR diversi, in grado di riconoscere antigeni diversi. Ciascun linfocita B (e la sua progenie) può produrre un solo anticorpo, specifico per un solo determinato antigene, e ciascun linfocita T (e la sua progenie) può produrre un solo TCR, specifico per un solo determinato antigene.

Nel corso della risposta immunitaria contro un determinato microrganismo vengono reclutati, nella enorme varietà di linfociti B e T, solo quelli che esprimono anticorpi e TCR in grado di legarsi a molecole (antigeni) costituenti di quel determinato microrganismo. Questi linfociti sono indotti a proliferare, producendo una progenie di cellule figlie (detta nel suo insieme clone) tutte in grado di riconoscere lo stesso antigene, e a differenziare in cellule, dette cellule effettrici, in grado di provvedere alla eliminazione di quel determinato antigene e quindi anche del microrganismo che lo esprime. Si dice che l’antigene ha prodotto una “selezione clonale” dei linfociti specifici. Al termine della risposta immunitaria una quota di questi linfociti B e T permane nell’organismo come clone espanso di linfociti memoria, i quali garantiranno una risposta immunitaria più rapida ed efficiente in caso di un successivo incontro con lo stesso antigene. Questa risposta contrasterà lo sviluppo della malattia causata dal microrganismo portatore di quell’antigene determinando la resistenza completa (la malattia non si sviluppa affatto) o parziale (la malattia si sviluppa in forme lievi) alla malattia. In tutte le sue fasi (fase di induzione, fase effettrice e fase di memoria) la risposta è assolutamente specifica, ovvero è indirizzata esclusivamente a quel determinato microrganismo (riconosciuto da quei determinati linfociti esprimenti quei determinati recettori per l’antigene) e non a un altro. La fase di induzione avviene rigorosamente in organi specializzati, detti organi linfatici secondari.

Viceversa la fase effettrice avviene nel tessuto in cui si è localizzato l’antigene. Specificità del riconoscimento, selezione clonale dei linfociti specifici e acquisizione di memoria sono le tre caratteristiche

fondamentali che distinguono la risposta immunitaria specifica (o acquisita) da quella aspecifica (o innata). I fagociti infatti sono tutti uguali nella loro capacità di riconoscere i vari microrganismi (ovvero non li riconoscono specificamente e non ne sono selezionati clonalmente) e non “imparano” a riconoscere con maggior efficienza un microrganismo grazie a esperienze di riconoscimento passate. Pur nelle loro somiglianze, il sistema degli anticorpi e quello dei TCR presentano notevoli differenze a livello degli antigeni riconosciuti e dei meccanismi del loro riconoscimento ed eliminazione. Queste differenze fanno sì che i due sistemi siano ampiamente complementari e collaborino in modo stretto tra di loro (oltre che col sistema innato) per garantire un’efficiente eliminazione del microrganismo invasore.

La risposta immunitaria specifica è alla base anche della protezione nei confronti delle infezioni assicurata dalle pratiche di vaccinazione e di immunizzazione passiva, nonché del fenomeno del rigetto dei trapianti. Inoltre essa è alla base di malattie causate dallo sviluppo di risposte immunitarie eccessive o inappropriate, come le ipersensibilità e le malattie autoimmuni, o da una insufficiente risposta dovuta a difetti congeniti o acquisiti del sistema immunitario, dette immunodeficienze.

Organi linfatici secondari Gli organi linfatici secondari sono organi specializzati nell’attivazione e organizzazione della risposta immunitaria specifica. Sono

i linfonodi, la milza e il tessuto linfatico associato alle mucose o MALT. I linfonodi sono organizzati in sistema a rete, il sistema linfatico, e funzionano da filtro per gli antigeni captati dalla linfa nei

tessuti. I vasi linfatici si aprono beanti nei tessuti e raccolgono il liquido interstiziale che costituisce la linfa; questa arriva ai linfonodi loco-regionali (ad esempio quelli ascellari nel casi della linfa che giunge dagli arti superiori), attraverso il vaso linfatico afferente che si inserisce nella capsula fibrosa del linfonodo e riversa la linfa nel seno marginale. Da qui la linfa filtra attraverso il linfonodo attraversando la regione corticale (contenete ammassi organizzati di linfociti B detti follicoli linfatici) e la regione paracorticale (ricca di linfociti T) giunge alla regione midollare, dalla quale esce attraverso il linfatico efferente. Da qui la linfa passa a stazioni linfonodali superiori e giunge infine fino al sangue venoso. In stato di quiescenza i follicoli linfatici sono costituiti da un gran numero di piccoli linfociti B quiescenti e da cellule dalla aspetto ramificato dette cellule follicolari dendritiche: si parla allora di follicoli

primari. Nel corso della risposta immunitaria si forma il follicolo secondario, contenente un gran numero di grandi linfociti B in attiva proliferazione detti centrociti e centroblasti, concentrati nella parte centrale del follicolo detta centro germinativo. Come si vedrà in seguito, il centro germinativo è la sede in cui vengono generati i linfociti B responsabili della memoria immunologica.

La milza invece funziona da filtro per gli antigeni presenti nel sangue. La milza è formata dalla polpa rossa, ricca di macrofagi che funziona da filtro per i globuli rossi danneggiati, e la polpa bianca, che funziona da organo linfatico secondario. La polpa bianca i organizza in manicotti periarteriolari, che comprendono una arteriosa centrale, circondata da un fitto ammasso di linfociti organizzati in due strati: lo strato centrale è ricco di linfociti T, mentre quello periferico è ricco di linfociti B organizzati in tipici follicoli linfatici, come nei linfonodi.

Il MALT è presente a livello di tutte le mucose, tuttavia mentre spesso è costituito da un infiltrato di linfociti poco organizzato, in alcune strutture assume un aspetto altamente organizzato che ricorda quello di linfonodi e milza; questo accade nelle tonsille, nelle placche di Peyer, e nell’appendice. Il MALT funziona da filtro per gli antigeni che sono captati nel lume della mucosa da parte di cellule specializzate dell’epitelio dette cellule M.

Antigenicità e immunogenicità.

Sono antigeni tutte le molecole che possono essere riconosciute specificamente da un anticorpo o da un TCR. I linfociti B riconoscono gli antigeni nella loro forma nativa, mentre i linfociti T li riconoscono solo dopo che una cellula presentante l’antigene (APC) li ha semplificati (processati) ed esposti (presentati) su una molecola MHC.

L’antigenicità è una condizione necessaria, ma non sufficiente per l’induzione effettiva di una risposta immunitaria, ovvero non tutti gli antigeni sono effettivamente immunogeni. Questa caratteristica della risposta immunitaria è estremamente importante in quanto permette al sistema immunitario di non rispondere a tutti gli antigeni con cui viene in contatto, ma solo a quelli potenzialmente pericolosi. La risposta immunitaria è un processo complesso e costoso dal punto di vista energetico. Inoltre essa attiva una serie di potentissimi sistemi di difesa che sono causa di danno tessutale. E’ pertanto evidente che questo sistema deve essere attivato esclusivamente quando sia effettivamente necessario, ovvero quando l’antigene rappresenti un vero pericolo per l’organismo. Un caso

Page 8: L’IMMUNITA’ - Il-Cubo · 2020-03-30 · 1 L’IMMUNITA’ Le macromolecole di cui i vari organismi sono formati hanno, nella maggior parte dei casi, struttura e configurazione

8

eclatante in cui l’antigene non deve essere immunogenico è rappresentato dagli autoantigeni. Molte molecole autologhe (o self) dell’organismo sono antigeniche, ma non inducono una risposta immunitaria in quanto i linfociti, nel corso della loro maturazione negli organi linfatici primari (ovvero midollo osseo per i linfociti B e timo per i linfociti T), “imparano” a non rispondere contro di esse: si dice che l’organismo si è reso tollerante nei confronti del self. In alcuni casi questa tolleranza viene rotta e si sviluppa una malattia autoimmune. Altri antigeni, pur essendo non self, non sono pericolosi per l’organismo in quanto non sono né tossici né invasivi. Anche in questo caso la risposta immunitaria sarebbe inutile e potrebbe addirittura essere dannosa, come accade ad esempio nelle risposte allergiche (o di ipersensibilità), in cui la risposta immunitaria ad antigeni non self innocui (ad esempio i pollini) produce una esagerata reazione di difesa che è causa di malattia.

L’immunogenicità di un antigene dipende sia da caratteristiche intrinseche dell’antigene, sia da caratteristiche estrinseche, dipendenti dal contesto in cui viene in contatto col sistema immunitario.

Le caratteristiche intrinseche più importanti che rendono un antigene effettivamente immunogeno sono la distanza filogenetica tra l’antigene e l’organismo immunizzato, le dimensioni e la complessità chimica dell’antigene, e la sua suscettibilità alla presentazione

da parte delle cellule presentanti l’antigene. Gli elementi estrinseci che condizionano la risposta immunitaria sono la dose, la via di

somministrazione, lo sviluppo di danno tessutale e il substrato genetico dell’individuo immunizzato. Caratteristiche intrinseche

1) Distanza filogenetica. Si è accennato che nel corso della loro maturazione negli organi linfatici primari, i linfociti “imparano” a discriminare gli antigeni self da quelli non self, in modo da rispondere solo a quelli non self. Questo processo di “educazione” implica che antigeni non self che si sono modificati poco o nulla nel corso dell’evoluzione sono poco immunogenici in quanto sono molto simili ad antigeni self che il sistema immunitario ha imparato a tollerare. Quanto più elevata sarà la distanza filogenetica tra l’organismo produttore dell’antigene non self e l’organismo che viene in contatto con esso, tanto maggiore sarà la possibilità che quell’antigene sia diverso da molecole self ad esso simili. Pertanto le proteine del siero di uomo saranno molto meno immunogeniche per un altro uomo delle proteine sieriche del cavallo o della capra.

2) Dimensioni. La migliore immunogenicità è in genere mostrata da molecole di circa 100 kDa. La massa molecolare minima per una buona immunogenicità è 10 kDa; sostanze con massa molecolare compresa fra 5 kDa e 10 kDa danno risposta scarsa e incostante, mentre al di sotto di 3-5 kDa non si ha in genere alcuna risposta. In realtà questa regola non è assoluta e in certi casi si può osservare una risposta anche ad antigeni di peso inferiore a 1 kDa. E’ possibile che il ruolo della massa molecolare dipenda dalla sua influenza sulla diffusibilità della molecola (che deve poter permanere nel tessuto per periodi e a concentrazioni sufficienti ad attivare i linfociti) e sulla efficienza di captazione ed elaborazione da parte dei macrofagi ed altre cellule presentanti l’antigene.

3) Struttura chimica. La complessità strutturale favorisce l’immunogenicità. Infatti omopolimeri sintetici (ad esempio polimeri di un solo aminoacido o zucchero) sono dotati di scarsa immunogenicità, mentre macrocomplessi di molte molecole diverse sono ottimi immunogeni (ad esempio un microrganismo intero). Questa caratteristica è legata al fatto che i singoli linfociti B e T non riconoscono la molecola antigenica (o il microrganismo antigenico) nel suo complesso, ma riconoscono singole parti di essa dette determinanti

antigenici o epitopi. Pertanto una stessa molecola di antigene potrà essere riconosciuta da linfociti diversi i cui recettori per l’antigene riconoscono epitopi diversi della stessa molecola. Quanto maggiore sarà il numero di epitopi diversi espressi da un antigene, tanto maggiore sarà il numero di cloni linfocitari diversi che sarà reclutato dall’antigene e l’intensità della risposta. Inoltre il riconoscimento

dell’antigene da parte dei linfociti B (ma non dei linfociti T) presuppone una struttura rigida e non facilmente modificabile in quanto avviene non tanto sulla base della struttura primaria, quanto su quella della forma e della disposizione nello spazio, in posizione rigida e fissa, dei determinanti antigenici. Ne consegue che molecole eccessivamente plastiche come la gelatina, ricca di residui di glicina, sono riconosciute con difficoltà e sono pessimi immunogeni.

4) Suscettibilità alla presentazione. Si è detto in precedenza che la risposta immunitaria specifica umorale e cellulare sono intimamente legate e che si influenzano a vicenda. Infatti i linfociti T (specie quelli T helper) aiutano e indirizzano l’attivazione dei linfociti B, i quali a loro volta, funzionano da cellule presentanti l’antigene per i linfociti T (vedi le sezioni successive). E’ pertanto evidente che antigeni che possono essere processati e presentati ai linfociti T saranno immunogeni migliori di antigeni privi di queste caratteristiche, che dovranno fare a meno di questa importante collaborazione tra linfociti B e T. Poiché la processazione e presentazione dell’antigene riguarda prevalentemente le proteine, questo spiega perché gli antigeni con una componente proteica sono in genere immunogeni migliori di quelli che ne sono privi. Inoltre i polimeri di D-aminoacidi (che non possono essere degradati dagli enzimi coinvolti nella processazione dell’antigene) sono pessimi immunogeni rispetto ai corrispondenti polimeri costituiti da L-aminoacidi.

Un classico esempio di antigeni privi di capacità immunogena (detti anche antigeni incompleti) è quello degli apteni. Questi sono un classico modello di antigeni semplici che sono stati in passato ampiamente utilizzati per studiare la risposta anticorpale; pioniere di questi studi è stato Karl Landsteiner negli anni ’20 e ’30. Gli apteni sono piccole molecole organiche che sono capaci di provocare la formazione degli anticorpi solo se legati a un supporto più grande di natura proteica, che viene detto carrier o vettore. L’immunizzazione di un animale col complesso aptene-carrier induce la formazione di anticorpi contro l’aptene, contro il carrier e contro nuovi epitopi creati dall’unione delle due molecole. Poiché la coniugazione chimica fa in modo che molte molecole dell’aptene siano legate a una singola molecola carrier, la risposta è tuttavia prevalentemente diretta verso l’aptene, che agisce così da antigene

immunodominante. In ogni caso, gli apteni sono i depositari della specificità, in quanto sono capaci di combinarsi con gli anticorpi, una volta che questi si siano formati anche in assenza di proteina vettrice. Da quanto sopra detto risulta evidente che l’aptene non è immunogeno perché ha basso peso molecolare, ha una modesta complessità chimica e non è processato e presentato dalle cellule presentanti l’antigene ai linfociti T; la formazione del complesso col carrier ovvia a tutti questi difetti. Il sistema aptene-carrier è una delle vie attraverso cui possono essere ottenuti nell’animale anticorpi contro piccole molecole organiche non immunogeniche (ad esempio gli ormoni corticosteroidei) che possono essere poi utilizzati per allestire saggi per il dosaggio di questi ormoni; Ad esempio il semplice test di gravidanza che si può comprare in farmacia utilizza anticorpi di questo tipo per rilevare la gonadotropina corionica (HCG) nelle urine delle donne gravide. La risposta a complessi aptene-carrier ha anche una rilevanza clinica. Infatti molte risposte allergiche ai farmaci sono mediate da una risposta anticorpale contro complessi tra il farmaco (che agisce da aptene) e proteine endogene (che agiscono da carrier) (vedere la sezione sulla ipersensibilità di II tipo).

Page 9: L’IMMUNITA’ - Il-Cubo · 2020-03-30 · 1 L’IMMUNITA’ Le macromolecole di cui i vari organismi sono formati hanno, nella maggior parte dei casi, struttura e configurazione

9

Caratteristiche estrinseche

1) Dose. Per ogni antigene esiste una dose ottimale che induce una risposta massimale; dosi inferiori o superiori possono indurre risposte più modeste o addirittura non indurre nessuna risposta. L’assenza di risposta può essere semplicemente legata al fatto che lo stimolo non è sufficiente a raggiungere la soglia di innesco della risposta; in questo caso la somministrazione successiva di una dose maggiore sarà in grado di indurre la risposta. In altri casi l’assenza di risposta può essere legata all’attivazione di meccanismi capaci di bloccare l’innesco della risposta; si parla allora di induzione di tolleranza nei confronti di quell’antigene. La tolleranza permane per tempi variabili dopo la sua induzione e la somministrazione dell’antigene anche a dosi ottimali, dopo l’induzione della tolleranza, non sarà più in grado di indurre nessuna risposta. La tolleranza può essere indotta da basse dosi di antigene, ma soprattutto da dosi troppo elevate. Come si vedrà in seguito, la tolleranza può essere legata a tre fenomeni: a) l’induzione di morte dei linfociti che riconoscono l’antigene (delezione clonale), b) la induzione di un loro stato di “paralisi” temporanea detta anergia, c) l’attivazione di linfociti “regolatori” capaci di sopprimere attivamente i linfociti coinvolti nella risposta.

2) Via di somministrazione. Le vie di somministrazione più utilizzate per immunizzare l’animale per scopi sperimentali sono quelle parenterali, ovvero la via sottocutanea, intramuscolare, intraperitoneale e intravenosa; altre vie che possono essere utilizzate sono quelle mucosali: ad esempio nell’uomo alcuni vaccini vengono efficacemente somministrati per via orale. La via di somministrazione condiziona il distretto anatomico interessato dalla risposta: ad esempio l’immunizzazione per via mucosale favorisce lo stabilirsi di difese efficaci nel proteggere la mucosa, mentre la via endovenosa determina un prevalente coinvolgimento del tessuto linfoide splenico. La via di somministrazione può anche completamente sovvertire il risultato della immunizzazione; ad esempio la somministrazione per via orale o per via endovenosa è spesso utilizzata per indurre tolleranza, anziché una risposta attiva.

3) Substrato genetico dell’individuo immunizzato. Nelle stesse condizioni, individui differenti possono rispondere in modo diverso ad una immunizzazione. Questo fenomeno determina la diversa suscettibilità individuale alle infezioni e ai vaccini. Il fenomeno può essere legato a molti fattori, ma uno dei più conosciuti è il diverso spettro di molecole del complesso maggiore di istocompatibilità (MHC) presentato dai diversi individui, il quale (come si vedrà meglio in seguito) condiziona l’efficacia con cui i vari antigeni sono presentati ai linfociti T dalle cellule presentanti l’antigene.

4) Sviluppo di danno tessutale. Il sistema immunitario specifico risponde con massima efficienza agli stimoli che producono danno tessutale e infiammazione. Questo fenomeno si spiega con l’effetto che il processo infiammatorio ha sulle cellule presentanti l’antigene, la cui attività viene potenziata in modo drammatico dalle citochine prodotte nel corso del processo infiammatorio. Da un punto di vista finalistico, questa caratteristica permette al sistema immunitario di concentrarsi sulla risposta ad agenti “pericolosi” (ovvero quelli che danneggiano i tessuti), riducendo l’attenzione nei confronti di quelli che non producono danno. Questo da un lato riduce l’energia spesa dal sistema immunitario, dall’altro riduce il rischio, insito in ogni risposta immune, che la risposta stessa sia causa di danno tessutale ed eventualmente di malattia.

Nelle pratiche di immunizzazione l’immunogenicità degli antigeni viene in genere aumentata mescolando l’antigene con sostanze dette adiuvanti. In generale l’adiuvante ha due effetti principali: da un lato prolunga la persistenza dell’antigene nel tessuto e quindi il tempo di interazione con sistema immunitario, dall’altro stimola le cellule infiammatorie potenziando la loro capacità di innescare la risposta. Un tipico esempio di adiuvante utilizzato nella immunizzazione di animali è l’adiuvante di Freund, in cui una soluzione acquosa di antigene viene emulsionata con l’olio minerale monooleato di mannite. L’antigene viene così circondato da piccole gocce d’olio e viene rilasciato lentamente nel tessuto. Contemporaneamente l’olio minerale produce danno tessutale e funziona da stimolo infiammatorio, che richiama macrofagi e cellule dendritiche e potenzia la loro attività endocitica e la loro capacità di presentare l’antigene e di attivare i linfociti T. L’adiuvante così composto è detto adiuvante incompleto, per distinguerlo dall’adiuvante completo

di Freund, che contiene anche micobatteri uccisi al calore, i quali potenziano enormemente l’attività proinfiammatoria dell’adiuvante. Specificità.

Il secondo caposaldo della definizione di antigene è quello della specificità della risposta. Ciascun linfocita risponde a un solo antigene utilizzando il proprio recettore specifico. La specificità di reazione è in rapporto con la presenza sull'antigene di gruppi capaci di definirlo: sono i determinanti antigenici o epitopi. Il numero e la qualità degli epitopi sono propri di ogni antigene, così pure la posizione ed i rapporti reciproci degli eventuali costituenti. Sono essenzialmente questi fattori, cioè numero, natura chimica e posizione reciproca dei costituenti degli epitopi a garantire il riconoscimento da parte dei linfociti e la specificità della risposta.

Nel caso degli anticorpi gli epitopi sono in genere localizzati sulla superficie dell’antigene e sono facilmente accessibili agli anticorpi in soluzione acquosa. Diversa è la situazione per gli epitopi riconosciuti dai TCR dei linfociti T. In questo caso l’antigene non è riconosciuto nel suo stato nativo, ma deve essere processato e presentato da una cellula presentante l’antigene. Degli epitopi riconosciuti dai linfociti T si dirà approfonditamente nella sezione dedicata a queste cellule.

Epitopi riconosciuti dagli anticorpi

Il numero degli epitopi esposti sulla superficie di un antigene è detto valenza dell'antigene; esso indica anche il numero di molecole di anticorpo che possono legarsi con ogni molecola di quell'antigene. Accanto a molecole che possiedono 5-6 epitopi, ne esistono altre molto più complesse, con centinaia di epitopi. Gli epitopi corrispondono a particolari gruppi chimici dell’antigene. Nelle proteine corrispondono spesso a sequenze di pochi (7-8) residui di aminoacidi; nel caso dei carboidrati batterici corrispondono a sequenze di pochi residui glucidici. Gli epitopi sono detti lineari quando sono formati da residui in sequenza nella struttura primaria della macromolecola, conformazionali quando sono formati da residui distanti tra loro nella struttura primaria, che vengono però a trovarsi vicini nella struttura secondaria, terziaria o quaternaria. Come si vedrà in seguito gli epitopi dei linfociti B possono essere sia lineari sia sequenziali, quelli dei linfociti T sono sempre lineari.

Informazioni cruciali sull’importanza degli epitopi ai fini della immunogenicità e della specificità sono state ottenute introducendo nelle molecole determinanti noti, oppure usando antigeni sintetici. Grazie a queste ricerche, si è definito il concetto di aptene,

proposto da Landsteiner come depositario della specificità della reazione immunitaria. Sulla base delle ricerche di Landsteiner è stato possibile definire meglio le caratteristiche della specificità. Questa è determinata da vari fattori e cioè:

Page 10: L’IMMUNITA’ - Il-Cubo · 2020-03-30 · 1 L’IMMUNITA’ Le macromolecole di cui i vari organismi sono formati hanno, nella maggior parte dei casi, struttura e configurazione

10

1) dalla natura chimica dell’aptene. La sua struttura è riconosciuta con tanta sensibilità che si possono differenziare, mediante anticorpi specifici, non solo molecole di struttura lontana (per esempio, un acido benzoico da un glucide), ma anche di struttura assai simile. Si possono distinguere mediante anticorpi specifici anche le posizioni che uno stesso sostituente può assumere in una molecola complessa, o addirittura la configurazione sterica della molecola. Un animale immunizzato con un vettore coniugato con acido o-amino-benzoico dà anticorpi che non reagiscono né con lo stesso vettore coniugato con acido m-amino-benzoico né con quello coniugato con acido p-amino-benzoico. Analogamente, gli anticorpi possono distinguere fra acido maleico ed acido fumarico, che sono isomeri cis-trans, o fra glucoso e galattoso, che sono epimeri differenti per la posizione dell’ossidrile sul carbonio 4, o fra forme alfa e beta del glucoso;

2) dalla polarità dell’aptene. Se l’aptene legato al vettore è di natura polare, viene riconosciuto con tanta maggiore efficienza quanto più grande è la sua carica. L'acido p-aminofenilarsonico, che ha due cariche negative in corrispondenza del gruppo arsonico, è un determinante più attivo dell'acido p-aminobenzensulfonico o dell'acido p-aminobenzoico, che possiedono una sola carica negativa. Anche le cariche positive sono efficienti nel determinare la specificità. Se i sostituenti sono scarsamente polari o addirittura non polari, come, per esempio, un nitrogruppo, un atomo di alogeno, un gruppo alchilico o alcossilico, la specificità è molto meno marcata e sono possibili reazioni crociate. In altre parole, un anticorpo preparato contro una proteina coniugata con p-nitroanilina dà il massimo della reazione con questa sostanza, ma è capace di reagire, sia pure a titolo minore, anche con la p-toluidina, con la p-anisidina, con la p-cloroanilina, con la p-bromoanilina e con la p-iodoanilina, in cui, al posto del nitrogruppo, esistono rispettivamente un metile, un metossile, un atomo di cloro, di bromo o di iodio. Le reazioni crociate (o cross-reazioni) indicano quindi somiglianza di struttura degli antigeni; di esse occorre tenere conto nella diagnosi delle malattie infettive, in quanto molti agenti microbici sono capaci di evocare la formazione di anticorpi che reagiscono con componenti del microrganismo, ma danno anche cross-reazioni con altri microrganismi o addiritture con molecole self (vedere la sezione sulle malattie autoimmuni). Non è infrequente, nel corso del tifo, trovare reazioni crociate nei riguardi del paratifo A o del para-tifo B;

3) dall'orientamento fisico dell’aptene. Si possono infatti ottenere anticorpi diversi contro una stessa molecola a seconda se questa sia attaccata al vettore attraverso un suo estremo o attraverso l'altro.

4) dalle dimensioni dell’aptene. Quanto maggiore è la sua dimensione, tanto minore è la specificità. Anche in questo caso diventano possibili le cross-reazioni.

Una tra le cross-reazioni più importanti è quella messa in evidenza nel 1911 da Forsmann, il quale osservò che il siero di conigli inoculati con omogenati di rene di cavia contiene anticorpi capaci di lisare, in presenza di complemento, le emazie di montone. Un'estensione delle ricerche di Forsmann portò ad indicare che il fenomeno è abbastanza diffuso in natura e che in varie altre strutture biologiche sono contenute frazioni antigeni uguali a quelle del rene di cavia, capaci di evocare la formazione di anticorpi emolitici anti-montone. Il fenomeno è dovuto all'esistenza negli organi di varie specie animali (uomo, gatto, cane, topo, criceto, cavia, pecora, capra, cavallo, tacchino, pollo, rospo, tartaruga, carpa ed anguilla) e in alcune specie batteriche (Pneumococco, B. anthracis, Cl

welchii) di un antigene comune, che viene detto antigene eterofilo di Forsmann. Nell'uomo,è presente soltanto nei possessori dell’antigene di gruppo sanguigno A (gruppi sanguigni A e AB). L'antigene di Forsmann è incompleto, ed è veicolato da proteine di volta in volta diverse, cui conferisce la specificità di reazione. Chimicamente è stato identificato con un glicosfingolipide (cerebroside), probabilmente derivato dal globoside dei globuli rossi, formato da ceramide (N-acil-sfingosina) legata con una molecola di galattoso e una di acetilgalattosamina; non mancano segnalazioni di una struttura leggermente diversa, che varierebbe a seconda della specie.

Esistono anche altri antigeni eterofili. Uno di questi è l'antigene somatico del Proteus OX 19, che è contenuto anche nella Rickettsia prowazeki ed è responsabile della comparsa nel siero degli ammalati di tifo esantematico, determinato appunto dalla Rickettsia, di anticorpi capaci di agglutinare il Proteus. Questa reazione è usata nella sierodiagnosi del tifo esantematico. Un'altra reazione sierologica di importanza diagnostica, che potrebbe dipendere da antigeni eterofili, è quella di Paul-Bunnel. Consiste nell'agglutinazione delle emazie di montone da parte del siero di ammalati di mononucleosi infettiva.

GLI ANTICORPI.

L'anticorpo è una proteina solubile che, prodottasi in un organismo in seguito all'introduzione di un antigene, è capace di reagire specificamente con esso. Questa definizione implica due concetti fondamentali: e cioè quello della necessità della stimolazione

antigenica e quello della specificità dell'anticorpo nei riguardi dell'antigene. A proposito del primo concetto, si è già visto che la presenza nel plasma degli anticorpi naturali sembrerebbe a prima vista costituirne la limitazione; però si interpretano oggi gli anticorpi naturali come anticorpi prodottisi in seguito ad una stimolazione antigenica inapparente. Riguardo al concetto della specificità, si è già detto che una limitazione è costituita dalle reazioni crociate.

Gli anticorpi sono prodotti dai linfociti B. Il linfocita B inattivo produce gli anticorpi come recettori di membrana, ma quando esso viene attivato dall’antigene, differenzia in plasmacellula, che produce gli anticorpi in forma solubile e li immette nel plasma, ove svolgono la loro funzione. Gli anticorpi, insieme con le molecole del complesso maggiore di istocompatibilità (major

histocompatibility complex o MHC) ed al recettore per l'antigene (TCR) dei linfociti T, costituiscono le tre classi di molecole usate dal sistema immunitario per riconoscere specificamente gli antigeni.

CLASSI O ISOTIPI ANTICORPALI

Gli anticorpi solubili sono proteine, e in particolare γ-globuline; per questo vengono chiamati anche immunoglobuline (Ig). L’iniziale analisi delle caratteristiche chimico-fisiche degli anticorpi ha messo in luce una notevole eterogeneità. Mentre nell'uomo

e nel coniglio la maggior parte degli anticorpi ha massa molecolare di 150 kDa circa, e soltanto una piccola quota ha peso superiore, per lo più secondo multipli di 150 kDa fino a 900 kDa, in altre specie, e in particolare nel cavallo, nel bue e nel maiale, prevalgono gli anticorpi di massa maggiore (900 kDa). In generale, gli anticorpi di massa molecolare elevata (macroglobuline) prevalgono nelle specie inferiori di Vertebrati, mentre quelle di massa piccola (150 kDa) prevalgono nelle specie superiori. Le macroglobuline rappresenterebbero quindi una forma ancestrale di anticorpi, dalla quale si sarebbero successivamente evolute, nel corso della filogenesi, le forme più piccole. Le macroglobuline hanno una costante di sedimentazione di 19 S (cioè di 19 unità Svedberg), mentre le molecole di peso intorno a 150 kDa hanno una costante di 7 S.

Page 11: L’IMMUNITA’ - Il-Cubo · 2020-03-30 · 1 L’IMMUNITA’ Le macromolecole di cui i vari organismi sono formati hanno, nella maggior parte dei casi, struttura e configurazione

11

Data l’eterogeneità chimico-fisica, si è preferito classificare gli anticorpi in base alle loro caratteristiche antigeniche. Infatti in quanto proteine, gli anticorpi sono infatti a loro volta antigeni, e quindi capaci di evocare la formazione di specifici anticorpi (anti-immunoglobline), se inoculati in animali di altra specie. Cimentando gli anticorpi con i sieri anti-immunoglobuline si sono separati per ogni specie biologica varie categorie di molecole antigenicamente distinte che vengono dette classi o isotipi anticorpali.

Nell'uomo ne sono state distinte cinque, che vengono indicate con la sigla Ig (Immunoglobulina), seguita da un indice di volta in volta diverso, cioè IgG, IgA, IgM, IgD, IgE.

La classe IgG, diffusa in tutti i Vertebrati superiori, costituisce da sola il 70-80% delle immunoglobuline totali del siero umano (10-17 mg/ml). Il peso molecolare è 150 kDa, la costante di sedimentazione 7 S. Come la maggior parte delle altre immunoglobuline, le IgG contengono una parte glicidica, che costituisce dall'1,5% al 3% del peso. Le IgG sono state subfrazionate, dal punto di vista antigenico, in quattro sottoclassi, dette rispettivamente IgG1, IgG2, IgG3 e IgG4. Tutte e quattro le sottoclassi sono presenti contemporaneamente nel siero normale. La migrazione elettroforetica delle IgG porta a localizzarle nelle frazioni globuliniche più lente (γ2). Le IgG sono le uniche immunoglobuline che superano la barriera placentare.

La classe IgA costituisce dal 10 al 20% delle immunoglobuline totali (circa 3,5 mg/ml). E' piuttosto eterogenea, in quanto comprende sia molecole del peso di 150 kDa con costante 7 S, sia polimeri (dimeri, trimeri e tetrameri) con peso molecolare maggiore e costante di sedimentazione variabile da 7 a 17 S. Questi polimeri vengono facilmente scissi nei singoli componenti, senza perdita delle proprietà antigeniche, per semplice trattamento con mercaptoetanolo; ciò prova che l'aggregazione avviene sulla base della formazione di ponti disolfuro fra le varie unità molecolari. Dal punto di vista della migrazione elettroforetica, le IgA migrano con le frazioni globuliniche gamma veloci (γ1) ed in parte con le β. Le IgA sono state subfrazionate, dal punto di vista antigenico, in due sottoclassi, dette rispettivamente IgA1 e IgA2. Tra le altre caratteristiche appare fondamentale quella di passare facilmente nelle secrezioni mucose e nel latte. Alle IgA viene attribuita importanza nella prevenzione delle infezioni a livello delle mucose. Le IgA sono in gran parte sintetizzate da plasmacellule situate nel tessuto linfatico associato alle mucose (MALT). Nei secreti le IgA non compaiono quasi mai come unità 7 S, ma piuttosto come polimeri; prevalgono i dimeri, che differiscono da quelli del siero perché contengono un frammento in più, acquisito nelle cellule epiteliali all'atto della secrezione e detto componente secretoria. Questa avrebbe la funzione di proteggere l'anticorpo dall'azione di enzimi proteolitici presenti nel muco, oppure di favorire la loro secrezione. Ha una massa molecolare di circa 70 kDa. Anche le IgA sono glicoproteine; contengono infatti circa il 10% di glicidi.

La classe IgM è considerata la più antica dal punto di vista filogenetico, in quanto è presente anche in specie animali inferiori, come negli Elasmobranchi. Nell'uomo la costante di sedimentazione delle IgM è 19 S e il peso è intorno a 900 kDa. Per azione del mercaptoetanolo vengono scisse in 5 subunità 7 S, di peso molecolare leggermente superiore alle corrispondenti IgG. Contengono una elevata percentuale di glicidi (circa il 10%) e costituiscono da sole dal 5 al 10% delle immunoglobuline totali del siero (circa 1,5 mg/ml). All'elettroforesi migrano tra le gamma veloci (γl) e le β2. Nell'organismo sono contenute principalmente nel sangue, ma passano anche in piccole quantità nei secreti.

La classe IgD è presente in tracce nel siero di soggetti normali (circa 30 µg/ml). Questa classe è stata inizialmente individuata in un paziente affetto da mieloma multiplo, le cui plasmacellule neoplastiche producevano IgD. Dal punto di vista della massa molecolare, le IgD sono monomeri del peso di circa 150 kDa, con costante di sedimentazione 8 S e mobilità elettroforetica tipo γ1.

La classe IgE è anch'essa presente nel siero normale in bassa concentrazione (0,3 µg/ml). La massa molecolare è di circa 190 kDa, con costante di sedimentazione di 8S. La sigla E deriva dal fatto che fra le immunoglobuline di questa classe sono compresi gli anticorpi contro l'antigene E, contenuto negli estratti del polline di alcune Compositae del genere Ambrosia (Ragweed in inglese). Questo polline è responsabile di sensibilizzazioni allergiche di tipo atopico e gli anticorpi che compaiono nel siero dei soggetti sensibilizzati sono di tipo reaginico e sono responsabili delle manifestazioni atopiche. La concentrazione nel siero dei soggetti normali è, come si è detto, estremamente piccola, ma aumenta in condizioni di sensibilizzazione allergica.

STRUTTURA DEGLI ANTICORPI. Le ricerche degli anni Sessanta del XX secolo sono riuscite a far luce sulla struttura delle immunoglobuline. Il merito di avere

trovato la via giusta per questo tipo di indagine spetta soprattutto a Edelman, il quale sottopose le IgG a trattamento con mercaptoetanolo in presenza di urea 6-8 M; in tal modo le molecole delle IgG si scindevano in 4 frammenti polipeptidici, a due a due uguali. L'azione del mercaptoetanolo consisteva nella riduzione di ponti disolfuro che legavano fra loro i frammenti. Dei due tipi di frammenti, che hanno massa molecolare diversa, vengono detti L quelli più leggeri (L da light = leggero) ed H quelli pesanti (H da heavy = pesante). Il peso delle frazioni H è di circa 50 kDa, quello delle L è di circa 25 kDa. Ogni molecola IgG contiene quindi 2 subunità H e due subunità L, il che porta la massa molecolare a circa 150 kDa.

Porter dimostrò invece che la digestione parziale delle Ig con papaina produce due frammenti identici detti frammenti Fab

(fragment, antigen-binding), i quali mantengono la capacità di legare l’antigene, ma non di precipitarlo (vedere l’Approfondimento), e uno, detto frammento Fc (fragment, crystallizable) in quanto tende a cristallizzare alle basse temperature, che non lega l’antigene. Contemporaneamente Nisonoff dimostrò che la digestione parziale con pepsina genera un unico frammento capace di legare l’antigene e di precipitarlo, detto frammento F(ab’)2.

Questi studi hanno permesso di elaborare un modello strutturale degli anticorpi che è stato successivamente confermato da studi cristallografici. Ciascun anticorpo è costituito da due catene H identiche e due catene L identiche. Le catene L occupano una posizione periferica, parallela alla porzione NH2-terminale delle catene pesanti; ciascuna L è unita alla propria H da un ponte disolfuro e, d'altra parte, le due H, che occupano una posizione centrale, sono unite fra loro da altri ponti disolfuro. L'associazione fra le catene L e quelle H è garantita, oltre che da questi legami covalenti, anche da interazioni non covalenti idrofobiche. La figura formata dall’associazione di queste catene ricorda quella di una Y in cui ciascun “braccio” della Y corrisponde a un frammento Fab ed è formato da una intera catena L e dalla porzione NH2-terminale della catena H, mentre la “gamba” della Y corrisponde al frammento Fc ed è formata dalle porzioni COOH-terminali delle catene H. In questo modello la zona della molecola capace di legare l'antigene (sito combinatorio dell’anticorpo) è posta all’estremità di ciascun frammento Fab ed è formata dalle estremità NH2-terminali di una catena H e di una catena L. Ogni Ig ha quindi due siti combinatori identici e si dice che è bivalente in quanto può legare due antigeni identici. La maggior parte del sito combinatorio è in genere legato alla catena H, ma alla sua formazione partecipa anche la L. Il frammento F(ab’)2 deriva da una digestione proteolitica che degrada l’anticorpo al di sotto del legame disolfuro che unisce le catene

Page 12: L’IMMUNITA’ - Il-Cubo · 2020-03-30 · 1 L’IMMUNITA’ Le macromolecole di cui i vari organismi sono formati hanno, nella maggior parte dei casi, struttura e configurazione

12

pesanti. Esso contiene quindi due siti combinatori per l’antigene, come la Ig completa. il che spiega la sua capacità di precipitare e agglutinare l’antigene.

Per ogni classe di anticorpi esistono due tipi di catene L, dette κ e λ,, differenziabili in base alle caratteristiche antigeniche e codificate da geni differenti, localizzati nell’uomo rispettivamente sul cromosoma 2 e sul 22. Ogni molecola Ig contiene catene L dello stesso tipo, cioè due κ oppure due λ. A seconda della presenza di catene leggere κ o λ, le Ig sono anche definite «di tipo κ», o «di tipo λ». Nell'insieme delle Ig di ogni classe, il rapporto fra le κ e le λ è di circa 2:1 nell’uomo. In condizioni di stimolazione antigenica, il rapporto può modificarsi. Le proteine di Bence-Jones, rilasciate in grandi quantità nelle urine dai pazienti con mieloma multiplo (una neoplasia plasmacellulare), non sono che catene L che non sono state montate su catene H, in genere per una loro eccessiva produzione da parte della plasmacellula neoplastica.

Le catene H sono differenti nelle varie classi immunoglobuliniche e le caratterizzano; da esse dipendono le diverse proprietà chimico-fisiche e funzionali della molecola; vengono indicate, per ogni classe, con le corrispondenti lettere greche; α1 e α2 sono le catene H delle IgA1 e IgA2; δ quelle delle IgD; γl, γ2, γ3 e γ4 quelle delle IgG1, IgG2, IgG3 e IgG4; ε quelle delle IgE; µ quelle delle IgM. Le differenze tra le diverse classi e sottoclassi riguardano la sequenza aminoacidica di queste catene H e ciascuna è codificata da un gene diverso, tutti localizzati in una stessa regione del cromosoma 14.

L'isolamento dei vari frammenti delle Ig ha permesso ricerche sulla loro struttura primaria, cioè sulla loro sequenza aminoacidica. Questi studi sono stati eseguiti su Ig sieriche di pazienti affetti da mieloma multiplo, nei quali le plasmacellule neoplastiche producono enormi quantità di Ig identiche. Questo fatto forniva una facile fonte di materiale omogeneo da sottoporre ad analisi. Si è così dimostrato che sia le catene H sia quella L sono formate da una parte costante (o regione C) carbossi-terminale, identica per tutte le catene di una certo tipo (ovvero κ, λ, µ, δ, ε, α1, α2, γ1, γ2, γ3, e γ4), e una parte variabile (o regione V) amino-terminale, differente per ciascun anticorpo. Inoltre in ciascuna regione V si potevano identificare regioni particolarmente soggette a variazioni dette regioni ipervariabili e regioni più conservate, dette regioni cornice. Le regioni ipervariabili formano il sito di legame per l’antigene e sono dette CDR (complementarity determining regions). Le regioni V di ciascuna catena H e L comprendono tre CDR dette CDR1, CDR2 e CDR3.

La regione V delle catene H e L è costituita dai primi circa 110 aminoacidi amino-terminali di queste catene. Questa sequenza si ripiega in un modo caratteristico a formare una struttura stabilizzata da ponti disolfuro intracatena, detta dominio immunoglobulinico, nel quale le tre CDR formano anse che protrudono all’estremo NH2-terminale della molecola formando il sito combinatorio. Le regioni cornice invece formano l’impalcatura che permette alle CDR di assumere la loro posizione.

Anche la regione C delle catene L e H si organizza in domini immunoglobulinici formati da circa 110 aminoacidi. In questo caso la sequenza aminoacidica non varia all’interno di ciascun tipo di catena (κ, λ, µ, δ, ε, γ1, γ2, γ3, γ4, α1, α2); le catene L contengono un dominio costante, mentre le catene H ne contengono tre o quattro.

Riassumendo quindi, le catene L sono formate da un dominio immunoglobulinico variabile (detto VL) e uno costante (detto CL), mentre le catene H sono formate da un dominio immunoglobulinico variabile (detto VH) e 3-4 domini immunoglobulinici costanti (detti CH1, CH2, CH3 ed eventualmente CH4). In particolare, le catene γ, δ e α hanno tre domini CH, mentre le catene µ ed ε ne hanno quattro. Nelle IgG, IgD e IgA i domini CH1 e CH2 sono separati da una sequenza aminoacidica estremamente flessibile, detta regione

cerniera o hinge region, la quale permette ai frammenti Fab di muoversi con ampia libertà rispetto al frammento Fc, in modo da legare l’antigene con massima efficacia. Nelle IgM e IgE il ruolo di regione cerniera è svolto, con efficacia molto minore, dal dominio CH2.

Le catene H delle immunoglobuline solubili terminano con una sequenza carbossi-terminale ricca di aminoacidi polari idrofili. Viceversa le immunoglobuline di membrana, espresse sulla superficie dei linfociti B, hanno una sequenza carbossi-terminale diversa, costituita da 26 aminoacidi idrofobici che formano la porzione transmembrana della molecola, e pochi altri residui che si affondano nel citoplasma. Tutte le Ig di membrana sono costituite da una singola molecola anticorpale (formata da 2 catene H e 2 catene L), bivalente nella sua capacità di legare l’antigene. Viceversa nel caso delle Ig secrete, IgG, IgD e IgE mantengono questa struttura monomerica, mentre IgM e IgA polimerizzano, le IgM in pentameri, le IgA in dimeri, trimeri e tetrameri. Poiché la polimerizzazione avviene all’interno della plasmacellula, essa coinvolge unità anticorpali tra loro identiche. Pertanto le IgM solubili hanno valenza 10 (ovvero possono legare 10 molecole di antigene), mentre le IgA hanno valenza 4, 6 o 8. Queste valenze sono in realtà teoriche, in quanto una parte dei siti combinatori risultano difficilmente accessibili per l’antigene nella molecola multimerica. La polimerizazione di IgA e IgM è favorita da una sequenza all'estremità carbossi-terminale della molecola, denominata sequenza di coda, presente nelle IgA e IgM solubili. Le IgA e le IgM multimeriche contengono inoltre un'altra catena di 15 kDa, detta catena J (junctional), o catena giunzionale, che si lega alla sequenza di coda per mezzo di ponti di solfuro.

La struttura del dominio immunoglobulinico non è esclusivo delle Ig, ma si ritrova in un grande numero di recettori di membrana coinvolti direttamente nel riconoscimento dell’antigene (come TCR e molecole MHC) o anche solo nelle interazioni tra cellule immunitarie. Questi recettori appartengono tutti alla superfamiglia delle immunogobuline e probabilmente derivano da un gene ancestrale codificante il singolo dominio di circa 110 aminoacidi.

REAZIONE ANTIGENE-ANTICORPO.

Quando gli anticorpi vengono messi in contatto con gli antigeni corrispondenti, si verifica una reazione bimolecolare reversibile

fra una molecola dell'antigene e una dell'anticorpo, che formano complesso stabile antigene-anticorpo. Questa reazione avviene con velocità elevata, che rende spesso problematico lo studio delle sue caratteristiche. E’ stato calcolato che l'unione degli anticorpi con apteni solubili specifici avviene in pochi millesimi di secondo. La temperatura e la concentrazione salina influenzano decisamente la velocità della reazione, che varia anche, da caso a caso, con la natura degli antigeni e degli anticorpi. I sali influiscono modificando le cariche elettrostatiche delle superfici delle molecole reagenti e anche permettendo lo svelamento di gruppi reattivi; quando la concentrazione salina è troppo elevata, possono intervenire fenomeni di denaturazione, che ostacolano la reazione, deformando le molecole e mascherando i siti reattivi.

Lo studio delle variazioni dell'energia libera durante la reazione fra antigene ed anticorpo ha dimostrato che i legami che si formano fra i due tipi di molecole sono deboli e coinvolgono un insieme di interazioni elettrostatiche coulombiane, di legami bipolari,

Page 13: L’IMMUNITA’ - Il-Cubo · 2020-03-30 · 1 L’IMMUNITA’ Le macromolecole di cui i vari organismi sono formati hanno, nella maggior parte dei casi, struttura e configurazione

13

di forze di Van der Waals e di ponti di idrogeno. Tutte queste forze cooperano nella fissazione dell'antigene con l'anticorpo, creando sul sito combinatorio dell’anticorpo e sull’epitopo dell’antigene due superfici complementari che vengono ad adattarsi l’una all’altra con un sistema del tipo chiave-lucchetto. Il meccanismo è pertanto simile a quello che regola l’interazione tra enzima e substrato. Questo modello è stato ampiamente confermato da numerosi studi cristallografici eseguiti su complessi antigene-anticorpo.

Il grado di complementarietà dei due interattori e la somma delle forze che intervengono determinano l’affinità di un dato anticorpo per un dato antigene. L’affinità è una caratteristica propria del singolo sito combinatorio per l’antigene. La forza con cui un dato anticorpo lega l’antigene dipende oltre che dall’affinità anche dalla valenza dell’anticorpo. E’ infatti intuitivo che l’anticorpo legherà l’antigene tanto meglio quanti più siti di legame possiede. L’insieme della valenza dell’anticorpo e della sua affinità per l’antigene determina l’avidità con cui quell’anticorpo legherà quell’antigene.

Un secondo stadio dell'interazione fra antigene e anticorpo consiste nella formazione di voluminosi aggregati tra complessi antigene-anticorpo detti immunocomplessi. La possibilità di formazione di aggregati dipende dalla multivalenza dell'antigene e dell'anticorpo, per cui una stessa molecola può legarsi con più molecole dell'altro componente della reazione. La percentuale relativa dei due ingredienti nel prodotto finale dipende dalla loro concentrazione relativa. L’aspetto degli immunocomplessi cambia a seconda delle caratteristiche dell'antigene e in particolare del fatto se esso è solubile o corpuscolato. Nel primo caso si possono avere fenomeni di precipitazione (si parla anche di precipitine); nel secondo fenomeni di agglutinazione (si parla anche di agglutinine). La reazione può poi essere modificata dalla presenza del complemento, che viene captato dai complessi immuni. Nel caso di antigeni corpuscolati (globuli rossi, batteri), la captazione del complemento provoca la lisi (nel caso dei globuli rossi si parla di emolisine). La costituzione degli immunocomplessi varia a seconda della composizione del mezzo e della proporzione relativa dei due reagenti.

Lo studio delle quantità relative di antigene e di anticorpo che entrano in gioco nella formazione di un precipitato immune fu intrapreso su basi stechiometriche da Heidelberger e Kendall, i quali usarono come antigene il polisaccaride capsulare dello pneumococco III, che non contiene azoto; aggiungendo proporzioni variabili di questo ad una quantità prefissata di anticorpo specifico, si formava il precipitato, nel quale la quantità di azoto presente derivava interamente dall'anticorpo. Nella curva si distinguono tre zone: una di ascesa, in cui l'aumento della quantità dell'antigene provoca un aumento della quantità di precipitato, una zona di stato o di equivalenza in cui l'aumento dell'antigene non provoca la formazione di una maggiore quantità di precipitato e infine una zona discendente in cui, in modo apparentemente paradossale, l'aggiunta di grandi quantità dell'antigene fa diminuire progressivamente la quantità del precipitato. La zona di ascesa è detta anche pre-zona e corrisponde alla condizione di eccesso di anticorpo; quella di equivalenza corrisponde alle concentrazioni ideali per la formazione di un buon precipitato; quella di discesa, o di inibizione, o post-zona, corrisponde a un eccesso di antigene. L'interpretazione del fenomeno è possibile sulla base della teoria del

reticolo, che tiene conto della multivalenza degli antigeni e degli anticorpi. In eccesso di anticorpo, ogni molecola di antigene può fissarne diverse di anticorpo; ne risulta un reticolo in cui le molecole dell'antigene occupano una posizione centrale, mentre quelle dell'anticorpo restano alla periferia; tutte le valenze dell'antigene sono sature, mentre una sola di quelle dell'anticorpo è occupata. Con quantità maggiori di antigene, verranno progressivamente a saturarsi le valenze libere delle varie molecole di anticorpo fino a che si arriverà alla zona di equivalenza. Con grandi quantità di antigene, in eccesso rispetto all'anticorpo, non tutte le valenze dell'antigene vengono saturate, mentre vengono bloccate tutte quelle degli anticorpi. Ne risulta un reticolo in cui le molecole dell'antigene restano alla periferia. Quando l'eccesso dell'antigene è notevole, non si forma neanche il reticolo (e quindi il precipitato), perché ogni valenza dell'anticorpo viene saturata da una molecola di antigene; si formano allora immunocomplessi solubili.

FUNZIONI EFFETTRICI DEGLI ANTICORPI

Il legame dell’anticorpo all’antigene può avere di per sé un effetto diretto di inibizione dell’attività dell’antigene; questo effetto è detto neutralizzazione. Altre azioni degli anticorpi sono invece indiretti e sono legati alla capacità dell’anticorpo di “segnalare” la presenza dell’antigene a sistemi cellulari e umorali capaci poi di eliminarlo. Questi sistemi possono funzionare anche in assenza dell’anticorpo, ma il riconoscimento di un anticorpo legato al suo antigene potenzia enormemente la loro sensibilità ed efficacia. Le attività degli anticorpi che sfruttano sistemi effettori di tipo cellulare sono l’opsonizzazione, l’attività citotossica cellulo-mediata

anticorpo-dipendente e la degranulazione dei mastociti. L’attività che sfrutta sistemi effettori umorali è l’attivazione del

complemento. Queste attività effettrici sono utilizzate in modo differente dalle diverse classi anticorpali e dipendono dalla presenza di specifici siti attivi a livello del frammento Fc.

1) Neutralizzazione

L’attività neutralizzante di un anticorpo dipende prevalentemente dall’epitopo che l’anticorpo riconosce sull’antigene. Se l’epitopo è localizzato su un sito importante per la funzione dell’antigene, questa funzione potrà essere inibita o neutralizzata. Un classico esempio possono essere gli anticorpi neutralizzanti contro i virus. I virus infettano la cellula bersaglio grazie al legame specifico tra un recettore esposto sulla supeficie del virus e un suo ligando espresso sulla superficie della cellula bersaglio. Questa interazione determina l’adsorbimento del virus sulla superficie della cellula bersaglio e precede l’ingresso del virus nella cellula. Gli anticorpi che legano il recettore espresso dal virus a livello di epitopi localizzati nel sito di interazione col ligando cellulare impediscono l’interazione con la cellula bersaglio e neutralizzano l’infettività virale. Lo stesso discorso vale per le esotossine, costituite da una subunità recettoriale, responsabile del legame della tossina alle cellule bersaglio, e una subunità tossica.

Un secondo aspetto dell’attività neutralizzante è quello dovuto alla capacità dell’anticorpo di formare immunocomplessi, in quanto l’aggregazione delle particelle virali riduce il numero delle particelle infettanti. Questo secondo aspetto dipende dalla valenza dell’antigene e dell’anticorpo ed è pertanto più efficace per gli anticorpi multimerici, come le IgA e le IgM.

2) Attività effettrici dipendenti da cellule

Queste attività dipendono dall’espressione, da parte delle cellule coinvolte, di recettori di membrana, detti FcR (Fc receptors) in grado di legare il frammento Fc di specifiche classi anticorpali. I recettori coinvolti sono tre recettori per le IgG (FcγR-I o CD64: Fcγ-R-II o CD32; Fcγ-R-III o CD16) e due recettori per le IgE (FcεR-I e FcεR-II o CD23). Con l’eccezione di FcεR-I, che è un recettore ad alta affinità, tutti gli altri FcR hanno una bassa affinità per le corrispondenti Ig, il che impedisce che essi vengano occupati “a caso” dagli anticorpi solubili presenti nel siero e nei tessuti. Viceversa essi legano efficientemente solo gli anticorpi che sono legati ad una

Page 14: L’IMMUNITA’ - Il-Cubo · 2020-03-30 · 1 L’IMMUNITA’ Le macromolecole di cui i vari organismi sono formati hanno, nella maggior parte dei casi, struttura e configurazione

14

particella antigenica, il che permette di dirigere selettivamente verso l’antigene legato le cellule che esprimono questi recettori. Il selettivo riconoscimento degli anticorpi complessati con l’antigene è dovuto a due meccanismi. 1) Le particelle antigenicamente complesse e multivalenti (come un batterio) legano contemporaneamente molti anticorpi che possono interagire contemporaneamente con molti FcR di una cellula effettrice: la somma di tutte queste interazioni deboli produce una interazione complessiva sufficientemente stabile per lo sviluppo dell’attività effettrice della cellula. 2) In seguito al legame con l’antigene, il frammento Fc dell’anticorpo subisce una modificazione conformazionale che aumenta la sua affinità per l’FcR.

a) Opsonizzazione. Con il termine di opsonizzazione si indica il rivestimento di materiale estraneo da parte di molecole endogene che favoriscono il suo riconoscimento da parte dei fagociti. Tra le molecole coinvolte nella opsonizzazione vi sono anche gli anticorpi e precisamente le IgG. I macrofagi e i neutrofili esprimono sulla membrana plasmatica l’FCγR-I, che riconosce le IgG adsorbite su antigeni corpuscolati. L’interazione di molti FcγR con le Ig adsorbite su una singola particella antigenica induce l’aggregazione di numerose molecole di FcγR sulla superficie del fagocita e la conseguente trasmissione di un segnale di attivazione che induce la fagocitosi della particella antigenica. Una forma di opsonizzazione è anche quella esercitata dalle IgE per gli eosinofili, i quali esprimono l’FcεR-II. Anche in questo caso l’aggregazione del recettore trasmette un segnale che induce la fagocitosi oppure la degranulazione.

b) Attività citotossica cellulo-mediata anticorpo dipendente (ADCC). L’attività ADCC è uno dei meccanismi utilizzati dalle cellule NK per riconoscere le loro cellule bersaglio, ovvero cellule infettate da virus o cellule tumorali. Le cellule NK infatti esprimono sulla membrana l’FcγR-III, che permette alla cellula NK di riconoscere le IgG adsorbite sulle cellule bersaglio. Come nel caso dell’opsonizzazione l’aggregazione del FcγR trasmette un segnale di attivazione, che attiva contro la cellula bersaglio i meccanismi citotossici della cellula NK.

c) Degranulazione dei mastociti. I mastociti esprimono l’FcεR-I che, come accennato in precedenza, è un FcR ad alta affinità. Questo significa che questo recettore è in grado di legare le IgE anche in assenza dell’antigene. In questo modo i mastociti vengono “armati” dalle IgE. Quando un mastocita “armato” entra in contatto con l’antigene, questo si lega alle IgE adsorbite sul mastocita inducendo l’aggregazione dell’FcR e la trasmissione di un segnale di attivazione che porta alla rapida degranulazione del mastocita, con liberazione immediata delle sostante proinfiammatorie contenute nei granuli (prevalentemente istamina), e all’attivazione della sintesi di altre sostanze proinfiammatorie, come i leucotrieni e varie citochine, che verranno rilasciati più tardivamente. Questa risposta rappresenta il principale meccanisimo di danno tessutale nella allergia di tipo I.

3) Attivazione del complemento

Il sistema del complemento costituisce uno dei più importanti fattori nell'immunità. Interviene in due gruppi fondamentali di reazioni: cioè 1) nelle reazioni battericide aspecifiche, specialmente a carico dei gram-negativi; 2) nelle reazioni immunologiche specifiche legate al riconoscimento dell’antigene da parte di IgM e IgG.

La dimostrazione della presenza nel sangue defibrinato di cane e di coniglio di un fattore batteriolitico attivo sui germi gram-negativi, inattivabile per riscaldamento a 5°C per 30-60 minuti, si deve a Nuttal; Buchner ripeté gli esperimenti sul siero e poté escludere che il fattore termolabile, che egli chiamò alessina (dal greco αλεξω) = difendo), fosse legato alle cellule del sangue. Ricerche successive dimostrarono che il complemento è una proprietà generale di tutti i sieri delle specie animali superiori. L'intervento del complemento nei fenomeni citologici di natura immunitaria fu dimostrato da Bordet, il quale trovò che, se si iniettano globuli rossi di coniglio nella cavia, il siero di questa diviene capace di emolizzare i globuli rossi di coniglio, ma la capacità emolitica viene distrutta dal riscaldamento a 56°C per 30 minuti e reintegrata dall'aggiunta del siero fresco di una cavia non trattata prima coi globuli rossi di coniglio. Ehrlich e Morgenroth, che confermarono queste osservazioni, definirono complemento il fattore (o i fattori) aspecifico presente nel siero normale, capace di completare l'azione emolitica dei sieri immuni.

Mentre in un primo tempo si ritenne che si trattasse di una sostanza unica, ricerche ulteriori hanno dimostrato che in realtà il complemento risulta di vari componenti. La prima osservazione in questo senso fu fatta da Ferrata, il quale notò che se si sottopone a dialisi il siero di cavia, la sua attività complementare scompare. Al tempo stesso si forma un precipitato; né il precipitato, né il sopranatante sono di per sé attivi, ma l'attività ricompare riunendo le due frazioni, dopo avere opportunamente solubilizzato il precipitato. Questi esperimenti dimostravano quindi che il complemento consisteva di almeno due frazioni, una precipitabile per dialisi e l'altra no. Vari lavori successivi identificarono numerosi componenti del complemento; sono tutte proteine: alcune vengono indicate con un sistema numerato da C1 a C9, altre sono indicate con lettere (fattore B e fattore D). Questi fattori sono molto abbondanti nel siero (rappresentano circa il 5% in peso delle globuline sieriche) e circolano normalmente in forma inattiva. Molti componenti hanno attività proteasica e il sistema si attiva con un meccanismo proteolitico a cascata che ricorda la cascata coagulativa. I frammenti derivati dall’attivazione sono indicati con le lettere “a” e “b”. Generalmente la lettera “a” indica il frammento più grande, che si lega al bersaglio, mentre il frammento “b”, più piccolo, viene rilasciato nel mezzo. L’unica eccezione è il C2 in cui il frammento C2a è quello grande che si lega, mentre il C2b viene rilasciato. I vari fattori si aggregano in complessi multimolecolari. Alcuni di questi hanno attività enzimatica serino-proteasica e vengono indicati con un tratto sopra al simbolo che li contraddistingue.

Si conoscono due vie principali di attivazione della cascata: la via classica e la via alternativa. Entrambe convergono su una via comune che parte dall’attivazione del C5 e porta alla formazione di un complesso multimolecolare detto complesso di attacco alla

membrana o MAC, capace di danneggiare le membrane cellulari. Recentemente è stata descritta una terza via detta via lectinica, in quanto è attivata da lectine, ovvero proteine che legano carboidrati.

L’attivazione del complemento porta allo sviluppo di varie funzioni tra cui: 1) lisi della cellula bersaglio, 2) opsonizzazione, 3) rilascio di fattori solubili con azione proinfiammatoria, 4) insolubilizzazione degli immunocomplessi

a) La via classica e la via comune

La via classica viene attivata dall’interazione tra l’antigene e anticorpi IgG e, soprattutto, IgM. Il primo fattore coinvolto è il C1, una grossa globulina con costante di sedimentazione di 18-19 S. Il C1 è un complesso multimolecolare stabilizzato da Ca2+, formato da C1q, due molecole di C1r e due di C1s (C1q2r2s). A sua volta il C1q è formato da 18 catene polipeptidiche organizzate in 6 triplette di tre catene dette A, B, e C, le quali formano una struttura a tripla elica simile a quella del collagene, terminante con una testa globulare. La testa globulare del C1q ha la capacità di fissarsi al frammento Fc delle IgG e delle IgM. Per poter formare un

Page 15: L’IMMUNITA’ - Il-Cubo · 2020-03-30 · 1 L’IMMUNITA’ Le macromolecole di cui i vari organismi sono formati hanno, nella maggior parte dei casi, struttura e configurazione

15

complesso stabile con le Ig, ciascuna molecola di C1q deve legarsi contemporaneamente a due frammenti Fc. Questo si ottiene per le IgG solo se due molecole di IgG si legano sufficientemente vicine tra loro sulla superficie della cellula bersaglio. Nel caso delle IgM questa contiguità è garantita dalla struttura pentamerica della molecola. Le IgM solubli non legate all’antigene assumono una struttura planare in cui il sito di legame col C1q non è accessibile; questo impedisce che il complemento venga attivato dalle IgM libere. Quando invece le IgM si legano al bersaglio, esse vanno incontro a una modificazione conformazionale assumendo una forma “a pinza” nella quale il sito di legame col C1q viene rivelato; il legame del C1q innesca quindi l’attivazione del complemento per la via classica.

Il legame del C1q alle Ig induce una modificazione conformazionale del proenzima C1r, che viene attivato a C1r . Il C1r scinde il C1s attivandolo a C1s, che a sua volta agisce su C4 e C2. Il C4 è una proteina formata da tre catene: α, β e γ. C1s scinde un piccolo frammento della catena α, detto C4a, che viene rilasciato nel mezzo e ha attività proinfiammataria (è una anafilotossina). Il frammento grande C4b espone un sito fortemente reattivo, che determina il legame di C4b sulla superficie del bersaglio in prossimità di C1. C4b lega quindi il proenzima C2, che diviene substrato di C1s e viene attivato con rilascio nel mezzo di C2b. Il frammento C2a rimane invece legato a C4b formando il complesso enzimatico attivo C4b2a detto anche C3-convertasi. Questa agisce sul C3, che viene scisso in C3b e nella anafilotossina C3a. La C3-convertasi è estremamente attiva e produce centinaia di molecole di C3b. Anche il C3b espone un sito altamente reattivo che determina il suo legame al bersaglio. Una parte di molecole di C3b si lega al complesso C4b2a, formando C4b2a3b, che ha una potente attività C5 convertasica e scinde il C5 nella anafilotossina C5a e nel C5b. Quest’ultimo espone un sito altamente reattivo che determina il suo legame sulla superficie del bersaglio. La fissazione del C5b rappresenta l’evento di innesco della sequenza terminale di reazioni che porta alla progressiva polimerizzazione sul bersaglio del complesso di attacco alla membrana o MAC. Questa polimerizzazione non dipende da processi proteolitici. Il C5b legato al bersaglio espone un sito di legame per il C6 formando il complesso C5b6 che lega quindi il C7. Il complesso C5b67 espone quindi una regione idrofobica che determina il suo inserimento nel doppio strato fosfolipidico della membrana della cellula bersaglio. Nel caso in cui la reazione non sia avvenuta su una cellula bersaglio, ma su un immunocomplesso, il C5b67 non trova una membrana su cui legarsi e viene rilasciato. Questo C5b67 libero potrà legarsi a cellule vicine “spettatori innocenti” della reazione immunitaria, causando il danno tessutale tipico delle patologia da immunocomplessi. Il complesso C5b67 legato alla membrana lega quindi C8, che aumenta l’idrofobicità del complesso determinando un suo ulteriore sprofondamento nella membrana del bersaglio e la formazione di un piccolo poro di 10 Å di diametro. Infine la formazione di C5b678 determina la polimerizzazione di 10-17 molecole di C9 con formazione del complesso C5b6789 che forma un poro di circa 100 Å di diametro che determina la lisi della cellula.

b) La via alternativa

La via alternativa è indipendente dalla reazione antigene-anticorpo ed è attivata direttamente dalla superficie di batteri (sia gram positivi che gram negativi), lieviti e virus. La via parte dal C3, il quale subisce normalmente una lenta idrolisi spontanea che porta alla formazione di C3a e C3b. Il C3b così formato può legarsi alla superficie di cellule batteriche e di virus, ma anche a cellule dell’ospite. Tuttavia le membrane cellulari dei mammiferi contengono una grande quantità di acido sialico che inattiva rapidamente il C3b e gli impedisce di attivare la cascata. Viceversa batteri, lieviti e virus hanno spesso bassi livelli di acido sialico, per cui il C3b che si fissa a queste superfici rimane molto più attivo. Questo C3b lega un altro fattore detto fattore B, il quale diventa substrato di una proteasi sierica detta fattore D, che lo scinde nel piccolo frammento Ba, che viene rilasciato nel mezzo, e nel grande frammento Bb che rimane legato a formare la C3 convertasi C3bBb. L’attività di quest’ultima è notevolmente potenziata da un altro fattore sierico detto properdina che si stabilizza il C3bBb e determina la produzione di un gran numero di molecole di C3b che si fissano sul bersaglio. Una parte del C3b si lega al complesso C3bBb formando la C5 convertasi C3bBb3b, che genera grandi quantità di C5a e C5b; quest’ultimo si lega al bersaglio e avvia la sequenza terminale con la formazione del MAC.

c) La via lectinica

Anche la via lectinica, come quella alternativa, non dipende dagli anticorpi, ma è innescata direttamente da componenti della superficie batterica e precisamente da residui di mannoso presenti su glicoproteine o carboidrati. A questi residui di mannoso si lega una proteina di fase acuta sierica, detta lectina legante il mannoso (mannose-binding lectin, o MBL). La MBL fissata al bersaglio viene quindi legata dalla serino proteasi associata alla MBL (MBL-associated serine protease, o MASP), la quale, agisce sul C4 e sul C2 attivandoli. Si viene così a formare la C3 convertasi, C4b2a, che continua la reazione secondo lo schema della via classica.

d) Funzioni del complemento

La formazione di pori attraverso la polimerizzazione del MAC e la conseguente lisi del bersaglio è solo uno dei meccanismi attraverso cui il complemento elimina il bersaglio. Altre importanti funzioni sono la produzione di fattori proinfiammatori, l’attività opsonizzante, l’insolubilizzazione degli immunocomplessi e la neutralizzazione virale; inoltre il complemento contribuisce all’attivazione dei linfociti B.

-Produzione di fattori proinfiammatori. Come si è visto, nel corso della cascata complementare si producono tre fattori, C3a, C4a, C5a, dotati di potente attività proinfiammatoria e chiamati nel loro insieme anafilotossine. Il termine è improprio in quanto, come si vedrà in seguito, questi fattori non sono coinvolti nella reazione anafilattica. Il nome è derivato dalla osservazione che essi sono capaci di indurre la degranulazione di basofili e mastociti e mimano perciò l’effetto che nella reazione anafilattica è indotto dalla interazione dell’allergene con le IgE adsorbite sul mastocita. Il rilascio di istamina da parte dei mastociti produce vasodilatazione, aumento della permeabilità vasale e contrazione della muscolatura liscia. C3a e C5a hanno anche azione chemotattica su monocito/macrofagi e neutrofili e inducono la degranulazione degli eosinofili. Il C5a potenzia anche l’attività dei macrofagi stimolando l’espressione del recettore del complemento CR1. L’attività delle anafilotossine è inibita da una proteasi sierica detta carbossipeptidasi-N, che scinde un residuo di arginina dall’estremo carbossi-terminale di queste molecole, inattivandole.

-Opsonizzazione. Un’altra importante funzione del complemento è l’opsonizzazione ed è legata alla presenza sulla superficie dei fagociti di recettori specifici per alcuni fattori complementari adesi al bersaglio. I recettori cellulari per il complemento sono quattro, CR1, CR2, CR3 e CR4, e tutti riconoscono prevalentemente il C3b adeso al bersaglio oppure suoi prodotti di degradazione parziale (ad es. il iC3b) operata da inibitori fisiologici come il fattore I. Il CR1 riconosce anche il C4b. CR1, CR3 e CR4 sono espressi da macrofagi e neutrofili e favoriscono la fagocitosi del bersaglio. Essi sono espressi però anche da altri tipi cellulari, come le cellule NK e alcuni linfociti T. Il CR2 è invece espresso prevalentemente dai linfociti B ed è coinvolto nella regolazione dell’attivazione di queste cellule.

Page 16: L’IMMUNITA’ - Il-Cubo · 2020-03-30 · 1 L’IMMUNITA’ Le macromolecole di cui i vari organismi sono formati hanno, nella maggior parte dei casi, struttura e configurazione

16

-Insolubilizzazione degli immunocomplessi. Il CR1 è anche espresso dai globuli rossi e su queste cellule svolge l’importante funzione di legare gli immunocomplessi circolanti. Questi sono complessi tra anticorpi e antigeni solubili e hanno la capacità di fissare il complemento. L’immunocomplesso circolante è un’entità piuttosto pericolosa in quanto tende a depositarsi nei tessuti, dove induce dannose risposte infiammatorie conseguenti all’attivazione del complemento. Ad esempio, la deposizione di immunocomplessi nel rene è causa di glomerulonefrite cronica, una malattia che può provocare insufficienza renale (vedere le reazioni di ipersensibilità di tipo III). Grazie al CR1, i globuli rossi sono in grado di legare (e insolubilizzare) sulla loro superficie una grossa quantità di immunocomplessi impedendo loro di depositarsi nei tessuti. Durante il transito nella milza e nel fegato i macrofagi, abbondanti in questi organi, rimuovono gli immunocomplessi dalla superficie dei globuli rossi, li fagocitano e li distruggono. L’importanza di questa attività del complemento è dimostrata dal fatto che in varie carenze congenite di fattori del complemento l’insolubilizzazione degli immunocomplessi è insufficiente e questi danno facilmente danni tessutali (soprattutto glomerulonefrite cronica).

-Neutralizzazione virale. Il complemento che si fissa sulla superficie dei virus in seguito all’attivazione della via classica, alternativa o lectinica forma uno spesso strato che può essere visualizzato al microscopio elettronico. Questo rivestimento inibisce la infettività virale impedendo l’adesione dei virus alle cellule bersaglio.

-Modulazione dell’attivazione dei linfociti B. Come si vedrà meglio in seguito, sui linfociti B il CR2 (CD21) fa parte di un complesso multimolecolare formato anche da CD19 e TAPA-1 (CD81), che funziona da corecettore per il recettore dell’antigene (la Ig di membrana). Infatti il legame di CD21 ai prodotti di degradazione del C3b fissati all’antigene legato alla Ig di membrana determina la trasmissione di un potente segnale di costimolazione attraverso il CD19. CD21 è anche il recettore cellulare per il virus di Epstein-Barr (EBV).

e) Regolazione del sistema del complemento

Come abbiamo visto, il complemento è un sistema molto potente che non solo può portare di per sé al danneggiamento delle cellule bersaglio, ma può anche stimolare la risposta infiammatoria e potenziare l’azione dei fagociti. E’ quindi evidente che questo sistema debba essere posto sotto il controllo di complessi sistemi di regolazione. Esistono due tipi di regolatori dell’attivazione del complemento: fattori solubili presenti nel siero e fattori cellulari espressi sulla superficie delle cellule dell’organismo. Questi ultimi proteggono selettivamente le cellule che li esprimono e sono in genere specifici per il complemento della propria specie. Per questo sono anche detti fattori di restrizione omologhi. L’azione di questi fattori spiega perché il complemento di coniglio è molto più attivo di quello umano contro le cellule umane. Un fattore chiave nel controllo dell’attivazione complementare è la serino proteasi sierica detta fattore I. Questo scinde il C3b legato al bersaglio in un frammento iC3b che rimane legato e nel frammento solubile C3f. Il iC3b viene quindi scisso ulteriormente dal fattore I nel frammento C3dg che rimane legato e nel fattore C3c che viene rilasciato. Il fattore I agisce anche sul C4b. In questo modo il fattore I agisce sia sulle primissime fasi dell’attivazione (sul C4b) sia sulla principale reazione di amplificazione del sistema (ovvero sul C3b). L’azione del fattore I non annulla però l’effetto dell’attivazione del complemento in quanto i prodotti di degradazione iC3b e C3dg, pur non essendo in grado di proseguire la cascata complementare, mantegono in parte l’attività opsonizzante. Il fattore I può utilizzare come cofattori sia altri fattori sierici, come il fattore H e la proteina legante il C4b (C4b binding protein, o C4bBP), sia molecole espresse sulla membrana cellulare come il CR1 (CD35) e la la proteina cofattore di membrana (membrane cofactor protein o MCP o CD46). Viceversa il fattore accelerante il decadimento

(decaying accelerating factor, o DAF o CD55) accelera la dissociazione delle C3 convertasi (C2b4a e C3bBb) Altre molecole regolatrici agiscono a livelli diversi della cascata. Il C1-inibitore (C1Inh) è una proteina sierica che agisce

precocemente sulla cascata inducendo la dissociazione di C1r2s2 da C1q e inibendone l’attività proteasica. Viceversa il fattore di

restrizione omologo (homologous restriction factor, HRF) e l’inibitore di membrana della lisi reattiva (membrane inhibitor of

reactive lysis o MIRL o CD59) sono molecole di membrana che agiscono al livello terminale della cascata impedendo la polimerizzazione del C9 sul C5b678. La proteina serica proteina S si lega al C5b67 solubile e previene in suo legame alle cellule “spettatori innocenti”.

4) Distribuzione tessutale degli anticorpi

Le classi anticorpali differiscono anche per la loro distribuzione tessutale, che dipende in parte dalle dimensioni dell’anticorpo, che ne condiziona la capacità di uscire dai vasi, in parte dalla capacità di interagire con specifici recettori, che ne permettono il trasporto attivo in determinati tessuti. Le IgM sono molecole pentameriche molto grandi ed esercitano la loro azione prevalentemente in circolo, in quanto riescono a superare l’endotelio vascolare solo con difficoltà e in condizioni di notevole aumento della permeabilità capillare (conseguente a reazioni infiammatorie). Le IgG, viceversa, sono molto più piccole e tendono a distribuirsi con facilità in tutti gli spazi extracellulari. Inoltre le IgG sono l’unica classe anticorpale che supera la barriera placentare grazie a un processo di trasporto attivo e sono quindi l’unico mezzo che ha la madre per trasferire la propria immunità specifica al feto. Gli anticorpi materni permangono nel neonato per circa 6 mesi e hanno un ruolo importante nella sua difesa dalle infezioni in questo primo periodo della vita. Le IgE sono prodotte in piccole quantità e sono rapidamente fissate dagli FcεR dei mastociti, particolarmente abbondanti nei tessuti superficiali (cute e mucose). Infine le IgA sono abbondanti nel siero, ma soprattutto sono caratterizzate dall’essere la classe di Ig trasportata in modo preferenziale nelle secrezioni mucose. Il trasporto è mediato da un recettore, detto recettore poli-Ig, situato sul lato basale della membrana delle cellule epiteliali delle mucose. Le IgA polimeriche si legano al recettore poli-Ig, il quale viene endocitato e trasportato con un meccanismo di transcitosi alla membrana situata verso la superficie della mucosa. Il recettore viene quindi scisso da proteasi e rilasciato nel lume insieme alla IgA. Il recettore poli-Ig costituisce ora la cosiddetta componente secretoria della IgA secreta e contribuisce a proteggere la Ig dall’azione delle proteasi di cui sono ricche le secrezioni mucose. Il recettore poli-Ig è anche in grado di trasportare, con minor efficienza, l’altra classe di Ig polimeriche, ovvero le IgM, che rappresentano così il circa 10% delle Ig delle secrezioni mucose.

PRODUZIONE DEGLI ANTICORPI. Uno dei principali problemi che l'Immunologia ha dovuto storicamente affrontare è quello del meccanismo di generazione della

variabilità del repertorio anticorpale, ovvero il meccanismo attraverso cui cellule mai venute prima in contatto con un determinato antigene cominciano a produrre proteine atte a combinarsi con esso specificamente. Le teorie principali che sono state elaborate

Page 17: L’IMMUNITA’ - Il-Cubo · 2020-03-30 · 1 L’IMMUNITA’ Le macromolecole di cui i vari organismi sono formati hanno, nella maggior parte dei casi, struttura e configurazione

17

appartengono a due gruppi: quelle istruttive e quelle selettive. Per le prime l'antigene, venendo a contatto con le cellule immunocompetenti, guiderebbe la formazione degli anticorpi funzionando come uno stampo sul quale gli strumenti proteino-sintetici della cellula adatterebbero le molecole dell'anticorpo, che risulterebbero in tal modo complementari rispetto a quelle dell'antigene. Queste teorie presuppongono una continua permanenza dell'antigene o di sue frazioni o di un suo “stampo” nelle cellule immunocompetenti. Le teorie selettive, invece, suppongono la preesistenza nell'organismo, prima di qualsiasi sollecitazione antigenica, di cellule atte a produrre quei determinati anticorpi; l'antigene non farebbe che sceglierle, stimolandone la proliferazione. I due tipi di teorie sono descritte in dettaglio nell’apposito Approfondimento.

La teoria più corretta è risultata essere quella selettiva, anche se, come vedremo in seguito, la teoria istruttiva ha una sua validità nel processo di maturazione d’affinità dell’anticorpo, che segue il primo riconoscimento dell’antigene. Come si è già detto, gli anticorpi rilasciati in forma solubile dalle plasmacellule sono inizialmente espressi dai linfociti B come recettori di membrana. I linfociti B maturano nel midollo osseo in un processo che vede come elemento centrale l’esposizione in membrana di una Ig dotata di una specificità antigenica unica, caratteristica di quel particolare linfocita. Questa maturazione è del tutto indipendente dall’antigene e la specificità antigenica dell’anticorpo espresso è del tutto casuale. Le cellule così maturate sono rilasciate dal midollo osseo e ricircolano continuamente negli organi linfatici secondari alla ricerca dell’antigene per cui sono specifici. Sulla base della variabilità di sequenza delle catene H e L delle Ig è stato calcolato che il sistema dei linfociti B può produrre oltre 1010 specificità anticorpali differenti, ciascuna prodotta da un diverso linfocita B. Quando un linfocita B incontra il suo antigene, lo lega tramite il suo anticorpo di membrana. L’anticorpo trasmette quindi alla cellula un segnale di attivazione, mediato prevalentemente da specifiche tirosino cinasi, e induce la proliferazione cellulare, con generazione di migliaia di cellule figlie esprimenti lo stesso anticorpo della cellula madre. Una parte di queste cellule differenzia a plasmacellule e produce gli anticorpi solubili, mentre un’altra parte differenzia a cellule memoria, che saranno responsabili della memoria immunologica per quell’antigene.

1) Maturazione midollare antigene-indipendente dei linfociti B - Generazione del repertorio anticorpale

La presenza di oltre 1010 anticorpi con specificità antigenica diversa, e quindi sequenza aminoacidica diversa a livello delle regioni variabili rendeva difficile spiegare come si potesse generare questa diversità. Non era infatti possibile proporre che ciascuna cellula contenesse oltre 1010 geni differenti, specifici per ciascuna possibile Ig e che la maturazione midollare dei linfociti B consistesse solo nell’attivare casualmente uno di questi geni (è stato oggi calcolato che il menoma umano contiene in tutto circa 50.000 geni). Il problema è stato risolto da Tonegawa e Hozumi, i quali osservarono che le regioni geniche che codificano per le catene H e L delle Ig vanno incontro a un processo di riarrangiamento nel corso della maturazione midollare del linfocita B. Questo riarrangiamento porta alla costruzione di un nuovo gene che non esisteva nella cellula germinale e che è diverso per ogni linfocita B che matura nel midollo osseo.

Le catene pesanti sono codificate da una famiglia multigenica localizzata nell’uomo nel cromosoma 14. Questa famiglia è composta da numerosi segmenti genici, i quali non sono in grado di codificare per nessun prodotto utile quando sono nella loro conformazione germinale, propria di tutte le cellule dell’organismo eccetto i linfociti B. Questi segmenti genici sono suddivisi in tre gruppi, detti V (Variable), D (Diversity) e J (Junctional) posti in sequenza nel locus genico delle catene H. Nell’uomo sono presenti circa 51 segmenti V diversi, 27 segmenti D e 6 segmenti J. Il principale sforzo differenziativo svolto dalla cellula staminale del midollo osseo che decide di differenziare a linfocita B consiste nel riarrangiare questi segmenti genici in modo da produrre la giunzione tra uno qualsiasi dei segmenti V, con uno qualsiasi dei segmenti D e uno di quelli J, attraverso un processo irreversibile di “taglia e cuci” del DNA. Viene così prodotta una nuova sequenza genica, detta VDJ, che codificherà per la porzione variabile della catena H. Un ruolo centrale nel processo di riarrangiamento è svolto dai prodotti dei geni RAG1 e RAG2, senza i quali il riarrangiamento non può avvenire. Il riarrangiamento è un processo casuale e “antigene-indipendente”, ovvero il linfocita B non è istruito in nessun modo sulla specificità antigenica che dovrà produrre. L’obiettivo del riarrangiamento è solo quello di produrre un riarrangiamento “produttivo”, ovvero in grado di codificare un dominio variabile completo. La variabilità del segmento VDJ (e quindi del dominio V) è assicurata non solo dalla scelta casuale di una particolare combinazione VDJ, ma anche dal fatto che il processo di giunzione è impreciso, ovvero la giunzione tra un segmento e l’altro è mediata da brevi sequenze nucleotidiche generate casualmente (non esistenti nel DNA germinale) attraverso due distinti meccanismi, che inseriscono rispettivamente nucleotidi addizionali detti P e N.

-nucleotidi P: quando RAG-1 e RAG-2 tagliano il DNA a livello delle regioni da unire si forma un legame fosfodiesterico tra i due filamenti che costituiscono ciascun moncone con formazione di una struttura “a forcina”, che viene successivamente aperta dall’enzima Artemis in un sito diverso rispetto alla sua ansa; questo porta al trasferimento di nucleotidi da un filamento a quello opposto.

-nucleotidi N: questi rappresentano il principale meccanismo di variabilità e derivano dall’aggiunta casuale di nucleotidi alle estremità dei segmenti genici da “ricucire” da parte di un enzima detto transferasi desossinucleotidil terminale (TdT), una DNA polimerasi capace di allungare un frammento di DNA in assenza di un filamento stampo.

Il processo del riarrangiamento è molto complesso e molti precursori dei linfociti B producono un riarrangiamento abortivo, incapace di codificare un segmento V completo e quindi definito “non produttivo”. Ciascun precursore dei linfociti B (o cellula pro-B) ha a disposizione due alleli (quello paterno e quello materno) per riuscire a produrre un riarrangiamento produttivo. Agendo su un allele, unisce prima un segmento D con uno J (riarrangiamento DJ) e quindi un segmento V col nuovo segmento DJ (riarrangiamento VDJ). In caso di fallimento passa al secondo allele. All’estremo 3’ terminale della VDJ è localizzato il segmento genico che codifica la porzione costante della catena µ (la catena pesante delle IgM). Pertanto nel momento in cui riesce a riarrangiare una VDJ, il precursore B (che si chiama ora linfocita pre-B) comincia subito a produrre grandi quantità della catena pesante, che rimane per lo più nel citoplasma. Una piccola quantità di catena pesante è però anche montata sulla membrana cellulare, in associazione con un complesso molecolare che funziona da surrogato della catena leggera, formato da un dimero delle proteine V-preB e λ5. Questo recettore provvisorio interagisce con un ligando non ancora noto e trasduce un segnale al linfocita pre-B che blocca il riarrangiamento della catena pesante e innesca quello della catena leggera. Questo processo fa sì che il linfocita pre-B non possa riarrangiare due alleli della catena pesante nel caso in cui abbia successo col primo allele e possa perciò produrre una sola catena pesante. Questo processo è detto esclusione allelica.

Page 18: L’IMMUNITA’ - Il-Cubo · 2020-03-30 · 1 L’IMMUNITA’ Le macromolecole di cui i vari organismi sono formati hanno, nella maggior parte dei casi, struttura e configurazione

18

La cellula pre-B comincia ora a riarrangiare la catena leggera. Come si è già detto, esistono due tipi di catene leggere, quelle κ e quelle λ, che sono codificate da geni differenti localizzati rispettivamente sul cromosoma 2 e sul 22. Anche questi geni sono organizzati in una famiglia di segmenti genici e non sono funzionali, ma devono essere “costruiti” attraverso un processo di riarrangiamento genico che coinvolge segmenti V (40 per la κ e 30 per la λ) e segmenti J (5 per la κ e 4 per la λ), mentre mancano i segmenti D. Il segmento VJ codificherà il dominio variabile della catena leggera, mentre il dominio costante è codificato dal segmento genico costante, rispettivamente κ e λ, localizzati all’estremo 3’ terminale del VJ. Dovendo procedere a un solo riarrangiamento (VJ), la costruzione del nuovo gene per la catena leggera è più semplice di quello per la catena pesante. Inoltre il riarrangiamento delle catene leggere, che coinvolge RAG1 e RAG2, non prevede l’inserimento delle basi N da parte della TdT. La cellula pre-B ha a disposizione 4 alleli su cui tentare di ottenere un riarrangiamento produttivo, due per la catena κ e due per quella λ. Anche in questo caso vale il fenomeno dell’esclusione allelica e il linfocita B può produrre una sola catena leggera, o κ o λ. La minor complessità del riarrangiamento e il maggior numero di alleli a disposizione fa sì che la maggior parte delle cellule pre-B riescano a completare il riarrangiamento dei geni per le Ig. Le cellule che non riescono a produrre un riarrangiamento produttivo dei geni delle catene H e L sono eliminati nel midollo osseo per apoptosi; infatti l’espressione in membrana della Ig induce la trasmissione di un segnale di sopravvivenza che blocca un programma di apoptosi attivato “di default” nei linfociti B in corso di maturazione.

Le cellule che hanno riarrangiato produttivamente i geni per H e L esprimono in superficie il recettore completo per l’antigene, che sarà una IgM di membrana. Queste cellule sono dette linfociti B immaturi e devono andare incontro a un ultimo processo di maturazione, le selezione negativa dei linfociti autoreattivi. Infatti, come si è detto, il processo di riarrangiamento è del tutto casuale e non esclude che la Ig generata possa essere specifica per antigeni self, ovvero che sia autoreattiva. Il linfocita B immaturo è programmato in modo da rispondere a un riconoscimento dell’antigene con l’innesco della propria morte per apoptosi, anziché con la proliferazione e differenziazione tipiche del linfocita B maturo. Questo processo avviene ancora nel midollo osseo, per cui qualsiasi antigene sia qui presente (normalmente antigeni self), indurrà la delezione clonale dei linfociti corrispondenti e dal midollo potranno uscire come linfociti B maturi solo le cellule specifiche per antigeni non self. Questa è la base della tolleranza al self e della capacità di discriminazione tra self e non self dei linfociti B.

Il completamento della maturazione del linfocita B è segnato dalla espressione in membrana non solo di IgM, ma anche di IgD, dotate di specificità per lo stesso antigene. Questo è reso possibile dal fatto che il segmento genico che codifica la porzione costante della catena δ (delle IgD) si trova immediatamente all’estremo 3’ terminale del segmento che codifica µ. Attraverso processi di splicing alternativo dell’RNA sarà quindi possibile che la VDJ venga montata a fianco di µ oppure di δ, portando alla sintesi di una IgM o di una IgD (lo splicing è un processo che si verifica nella trasformazione dell’RNA eterogeneo nucleare, che contiene esoni e introni, a mRNA che contiene solo esoni; lo splicing alternativo permette anche di scegliere di volta in volta quali esoni inserire i un dato mRNA).

Le Ig di superficie (o di membrana) sono diverse da quelle secrete nella loro regione COOH- terminale. Esse infatti terminano con una sequenza derivata da due esoni che codificano la porzione transmembrana e intracitoplasmatica della molecola, che è assente nelle Ig secrete, che invece contengono una sequenza fortemente idrofilica che ne favorisce la solubilità. La scelta di quali esoni inserire avviene attraverso il processo dello splicing alternativo. La porzione intacitoplsmatica delle Ig di superficie è troppo breve per permettere un ruolo diretto nella trasmissione del segnale di attivazione; questa fuinzione è delegata a due molecole transmembrana, dette Igα e Igβ, che si associano alla Ig e sono responsabili della trasmissione del segnale di attivazione. Il complesso della Ig con questi trasduttori del segnale è detto recettore del linfocita B (B cell receptor, o BCR). Si vedrà in seguito che una situazione analoga si verifica anche per il TCR, che utilizza il complesso multimolecolare del CD3 per tradurre il suo segnale di attivazione. Come si è visto nella sezione sul complemento, il segnale trasmesso da Igα/Igβ può essere potenziato dal corecettore costituto dal recettore del complemento CR2, da TAPA-1 e da CD19. Anche in questo caso esiste un parallelismo col TCR, che utilizza come corecettori le molecole CD4 (i linfociti T helper) o CD8 (i linfociti T citotossici).

Il linfocita maturo vergine che si produce esce dal midollo osseo, passa nel sangue e ricircola continuamente negli organi linfatici secondari (linfonodi milza e tessuto linfatico associato alle mucose) alla ricerca del proprio antigene.

2- Maturazione periferica antigene-dipendente

Quando il linfocita vergine (cioè che non ha mai incontrato l’antigene) incontra l’antigene negli organi linfatici secondari, si attiva, cioè prolifera producendo una progenie di cellule figlie con la stessa specificità antigenica, la quali quindi differenziano a plasmacellule e a linfociti B memoria.

Le plasmacellule sono cellule differenziate in modo terminale, che sopravvivono poche settimane e quindi muoiono per apoptosi. La loro caratteristica principale è quella di produrre grandi quantità di Ig non più come recettori di membrana, ma come anticorpi solubili. Come detto Come detto questo processo è possibile grazie allo splicing alternativo degli esoni che codificano la parte COOH-terminale della catena pesante, che al posto degli esoni che codificano la la porzione transmembrana e intracitoplasmatica inserice quello che codifica la porzione COOH-terminale delle Ig solubili.

I linfociti B memoria sono cellule che sono andate incontro a un processo di maturazione volto a migliorare l’anticorpo prodotto da quel clone cellulare. Il miglioramento avviene sia a livello della capacità dell’anticorpo di legare l’antigene sia a livello dell’affinamento delle sue capacità effettrici, volte al reclutamento dei sistemi più opportuni per l’eliminazione di quell’antigene. Entrambi i processi avvengono a livello dei follicoli secondari dei tessuti linfatici secondari.

Il miglioramento della capacità di legame dell’antigene è detto maturazione d’affinità dell’anticorpo e si produce a livello dei centroblasti e centrociti del centro germinativo dei follicoli secondari. Quest’ultimo contiene delle cellule specializzate, dette cellule

follicolari dendritiche (follicular dendritic cells, FDC), le quali sono diverse dalle cellule dendritiche con funzione di cellule presentanti l’antigene per i linfociti T. Le FDC sono cellule dotate di lunghi dendriti ricchi di FcR che legano abbondanti quantità di antigene nella forma di immunocomplessi. Nel centro germinativo i linfociti B (detti ora centroblasti e centrociti) innescano un processo di ipermutazione somatica che inserisce mutazioni puntiformi, nel corso delle successive divisioni cellulari, nel segmento genico che codifica le regioni variabili delle catene H e L. Ne consegue che le cellule figlie esprimono una Ig leggermente modificata a livello della regione di legame per l’antigene. Questa Ig viene poi direttamente “provata” sull’antigene disponibile sulla superficie

Page 19: L’IMMUNITA’ - Il-Cubo · 2020-03-30 · 1 L’IMMUNITA’ Le macromolecole di cui i vari organismi sono formati hanno, nella maggior parte dei casi, struttura e configurazione

19

delle FDC. I linfociti che esprimono Ig dotate di maggiore affinità per l’antigene ricevono un potente stimolo proliferativo e hanno il sopravvento sui linfociti che esprimono Ig con bassa affinità, che muoiono così per apoptosi nel centro germinativo stesso. Questo processo aumenta la sua selettività man mano che la concentrazione dell’antigene si riduce, inducendo la produzione di anticorpi con affinità sempre più elevata per l’antigene. L’ipermutazione somatica coinvolge la deaminazione di residui di citosina a uracile per opera dell’enzima AID (Activation-Induced Cytidine Deaminase).I residui di uracile sono quindi rimossi dall’enzima di riparo UNG (uracil-DNA glycosylase) e sostituiti con altri nucleotidi da DNA polimerasi “imprecise” che inseriscono così la mutazione.

Nelle prime fasi della prima risposta ad un antigene, detta risposta primaria, le plasmacellule derivate dai linfociti B vergini producono esclusivamente IgM, ovvero l’isotipo standard espresso dai linfociti vergini (i linfociti vergini esprimono anche IgD, ma queste funzionano esclusivamente come recettori di membrana e sono prodotti in forma solubile solo in piccolissime quantità). In fasi più avanzate della risposta primaria vengono invece generate plasmacellule che producono classi anticorpali diverse dalle IgM, pur mantenendo la stessa specificità antigenica, ovvero la stessa regione variabile codificata dalla stessa VDJ. La produzione di queste classi è ancora più evidente nel corso di un secondo incontro con l’antigene, ovvero nel corso della risposta secondaria. Il processo che porta a cambiare la classe di Ig prodotta è detto scambio di classe, o switch isotipico; esso avviene nei follicoli linfatici secondari grazie a un processo di riarrangiamento genico che sposta la VDJ dalla sua posizione nativa, prossima ai segmenti µ e δ, a una nuova posizione, prossima al segmento genico che codifica la porzione costante della nuova catena pesante scelta. Questo è reso possibile dal fatto che i segmenti genici che codificano le regioni costanti delle catene pesanti delle varie classi anticorpali sono tutti localizzati in serie all’estremo 3’ terminale del segmento genico di δ. Poichè questo processo di “taglia e cuci” è seguito dalla eliminazione dei segmenti genici intercalari, il processo è irreversibile, ovvero un linfocita che ha prodotto lo switch isotipico non può tornare a produrre IgM in quanto perde il segmento genico per µ. Viceversa un linfocita può procedere oltre nel riarrangiamento scegliendo segmenti genici localizzati sempre più all’estremo 3’ del cromosoma e perdendo ogni volta i segmenti genici intercalari. Il processo di taglio che rende possibile lo switch isotipico coinvolge gli enzimi UNG e AID, coinvolti anche nell’ipermutazione somatica.

3-Memoria Immunologica Umorale

La presenza in circolo di anticorpi specifici per un certo patogeno conferisce una immunità protettiva nei confronti di quel patogeno, il quale verrà inattivato senza poter indurre malattia. La memoria immunologica nei confronti del patogeno è invece il fenomeno per cui la risposta secondaria ad un antigene è molto più rapida ed efficace di quella primaria. Infatti la risposta secondaria ha una fase di latenza inferiore, induce la produzione di livelli anticorpali superiori, nonché di anticorpi diversi dalle IgM e dotati di un’affinità maggiore per l’antigene. Questo miglioramento della risposta secondaria è assicurato dai seguenti eventi che si verificano nella risposta primaria:

-espansione clonale dei linfociti B specifici per quell’antigene -switch isotipico con produzione di linfociti B memoria già in grado di produrre la classe Ig dotata delle funzioni effettrici ottimali

per l’eliminazione di quell’antigene -maturazione di affinità con ottimizzazione per quel particolare antigene del sito combinatorio dell’anticorpo. Secondo alcuni autori un ruolo determinante nella memoria immunologica sarebbe anche svolto dalla persistenza dell’antigene per

lunghi periodi sulla superficie delle cellule follicolari dendritiche dei centri germinativi. 4-Cinetica della risposta anticorpale

Dopo l'iniezione dell'antigene, occorre sempre un certo tempo prima che gli anticorpi facciano la loro comparsa nel siero. La comparsa dei primi anticorpi (risposta primaria) segna evidentemente l'avvenuta maturazione delle cellule immunocompetenti. I primi che compaiono in circolo sono sempre di tipo IgM. Il loro aumento nel siero segue dapprima un andamento esponenziale; in seguito si ha una fase di «plateau » nella produzione di IgM, che dura alcuni giorni; alla fine le IgM cominciano a diminuire, fino quasi a sparire del tutto. Durante la fase di plateau e di caduta si assiste alla comparsa in circolo di altri isotipi anticorpali, per lo più IgG. Anche l'aumento delle IgG segue una prima fase esponenziale e giunge successivamente a un plateau; in mancanza di una seconda iniezione dell'antigene, anche le IgG cominciano a diminuire. In definitiva, la risposta primaria consiste, per quanto riguarda il tipo e la quantità degli anticorpi circolanti, di cinque fasi: 1) la fase di latenza; 2) la fase esponenziale della produzione di IgM; 3) la fase non esponenziale della produzione di IgM; 4) la fase esponenziale della produzione di IgG; 5) la fase non esponenziale della produzione di IgG. La terza e la quarta fase sono accavallate. Alla quinta segue il periodo della memoria immunologica, cioè uno stato contrassegnato dalla presenza in circolo di un basso livello di anticorpi circolanti o addirittura dalla loro assenza; il ricordo della sensibilizzazione con quell'antigene resta però consegnato ai linfociti memoria.

Se durante il periodo di memoria immunologica si inocula una seconda volta lo stesso antigene, il soggetto risponde, dopo una fase di latenza più breve, con un aumento della produzione di IgG, che avviene anche in questo caso in due periodi, uno esponenziale e l'altro non esponenziale. Nella risposta secondaria la produzione di IgM è limitata in quanto, grazie alla maturazione d’affinità, le IgG dei linfociti B memoria riconoscono l’antigene meglio delle IgM delle cellule vergini e sono attivati preferenzialmente. La produzione anticorpale nella risposta secondaria raggiunge livelli più elevati che in quella primaria e questi permangono in circolo per periodi più lunghi. La presenza in circolo di questi anticorpi costituisce l’immunità protettiva, che è in grado di prevenire l’infezione nel caso di un nuovo incontro dell’antigene. L’immunità protettiva condiziona l’attivazione del sistema immunitario nel caso di reincontro dell’antigene, in quanto questo può venire rapidamente eliminato dagli anticorpi circolanti. La conseguenza del fenomeno è duplice, perché porta da una parte alla diminuzione dell'antigene circolante e quindi ad una riduzione dell'intensità dello stimolo, dall'altra a una diminuzione della concentrazione dell'anticorpo nel siero, così da ridurre le difese immediatamente disponibili. Sul piano pratico, a questo processo corrisponde la diminuzione delle difese immunitarie per un patogeno, la quale segue immediatamente la inoculazione di antigeni di quel patogeno; di ciò si tiene conto in tempo di epidemie, in cui la vaccinazione può portare ad una fase di maggiore recettività all'infezione. Per lo stesso motivo si tende a non vaccinare i neonati nei primi sei mesi di vita, in quanto da un lato l’immunità protettiva prodotta dalle IgG materne passate dalla madre al feto attraverso la placenta ostacolerebbe una adeguata immunizzazione del neonato, dall’altro il vaccino porterebbe a un più rapido consumo degli anticorpi materni.

Page 20: L’IMMUNITA’ - Il-Cubo · 2020-03-30 · 1 L’IMMUNITA’ Le macromolecole di cui i vari organismi sono formati hanno, nella maggior parte dei casi, struttura e configurazione

20

4-Linfociti B1 e B2

La risposta anticorpale qui descritta è quella prodotta dalla maggior parte dei linfociti B, che sono anche detti linfociti B2. E’ stata anche identificata una popolazione diversa di linfociti B, detti linfociti B1, i quali compaiono prima dei linfociti B2 nel corso dello sviluppo fetale e si localizzano nelle cavità sierose anziché negli organi linfatici secondari. I linfociti B1 sono caratterizzati dalla espressione di IgM senza IgD e spesso (ma non sempre) dalla espressione dell’antogene di membrana CD5, normalmente espresso dai linfociti T. Spesso riconoscono antigeni polisaccaridici, producono IgM a bassa affinità e bassa specificità e la loro risposta è poco soggetta a switch isotipico e maturazione di affinità e produce pertanto bassi livelli di memoria immunologica. Uno degli elementi più interessanti di questa particolare popolazione di linfociti B è che da esse prende origine la leucemia linfatica cronica a cellule B, una neoplasia dei linfociti B piuttosto frequente.

I LINFOCITI T Il sistema dei linfociti T presenta notevoli analogie con quello dei linfociti B: a) il TCR appartiene alla superfamiglia delle Ig e

comprende una regione variabile e una costante; b) il repertorio dei TCR è vasto quanto quello delle Ig e questa grande variabilità è raggiunta attraverso la costruzione dei segmenti genici codificanti la parte variabile del recettore mediante processi di riarrangiamento genico del tutto simili a quelli degli anticorpi; c) lo sviluppo della tolleranza al self e l’attivazione della risposta all’antigene è ottenuta grazie a processi di selezione e delezione clonale. La peculiarità più vistosa del sistema T risiede nel tipo di antigeni riconosciuti e nella complessità del sistema di riconoscimento. Infatti i linfociti T riconoscono, con alcune eccezioni, esclusivamente antigeni proteici; inoltre questi non sono riconosciuti nella loro forma nativa, ma devono essere modificati (“processati”) da cellule specializzate, le cellule presentanti l’antigene (APC), e da queste “presentati” ai linfociti T all’interno di appositi “vassoi” rappresentati dalle molecole del complesso maggiore di istocompatibilità (MHC). Dal punto di vista funzionale esistono due tipi di linfociti T: i T citotossici (CTL) e i T helper (TH). I CTL sono capaci di uccidere cellule bersaglio (prevalentemente cellule infettate da virus e cellule tumorali) e sono detti CD8+ perché esprimono la molecola di membrana CD8. I TH producono citochine che favoriscono l’attivazione di linfociti B, linfociti Tc e macrofagi e sono detti CD4+ perché esprimono la molecola di membrana CD4. In realtà questa classificazione non ha valore assoluto dal momento che esistono anche piccole popolazioni di linfociti CD8+ con funzione helper e di linfociti CD4+ con funzione citotossica.

MOLECOLE MHC

Le molecole MHC sono espresse sulla superficie di tutte le cellule nucleate e sono state inizialmente identificate come le responsabili del rigetto dei trapianti. Questi studi hanno messo in evidenza la principale peculiarità di questo sistema, ovvero il fatto che sia multigenico (ovvero comprende una famiglia di proteine codificate da geni diversi) e altamente polimorfico (cioè ciascun gene presenta numerosi possibili alleli). Queste caratteristiche fanno sì che l’insieme di molecole MHC espresso sia caratteristico per ciascun individuo di una specie e che sia estremamente improbabile che due individui esprimano lo stesso insieme di molecole MHC. Già negli anni ’70 ci si rese poi conto che le molecole MHC erano anche intimamente connesse con la risposta “normale” dei linfociti T, in quanto i linfociti T di un individuo potevano riconoscere l’antigene solo in presenza di altre cellule esprimenti un sistema MHC uguale, almeno in parte, con quello dell’organismo di origine dei linfociti T. Successivamente si è scoperto che il ruolo del sistema MHC è quello di legare piccoli peptidi antigenici e di “presentarli” ai linfociti T. Esistono due tipi di molecole MHC, quelle di classe I e quelle di classe II. Nell’uomo il sistema MHC è stato chiamato HLA (da Human Leukocyte Antigens) e comprende 3 molecole di classe I (HLA-A, -B e -C) e tre molecole di classe II (HLA-DR, -DP e -DQ). Tutte queste molecole sono altamente polimorfiche e la probabilità che due individui presentino lo stesso assetto complessivo è molto basso. I geni che codificano queste molecole sono localizzati in stretta prossimità sul cromosoma 6 umano e la frequenza di ricombinazione in questa regione è bassissima. Pertanto i sei geni sono per lo più ereditati in blocco da ciascun genitore, un blocco dal padre e uno, per lo più con alleli diversi, dalla madre. Ogni blocco costituisce un aplotipo. Le molecole MHC di classe I sono formate dall’associazione di una catena α polimorfica, codificata da un gene del sistema MHC, con una catena invariante, detta β2-microglobulina, codificata da un gene esterno alla regione MHC. La catena α è una molecola transmembrana con tre domini extracellulari detti α1, α2 e α3. Il dominio α1 e α2 si organizzano a formare una tasca che guarda verso l’esterno, formata da un pavimento di nastri β antiparalleli e due pareti ad α elica. Questo solco ha la funzione di accogliere il peptide antigenico. Il dominio α3 è di tipo immunglobulinico, si continua con la regione transmembrana e funziona da “spaziatore”. La β2-microbglobulina è totalmente extracellulare e si associa lateralmente al dominio α3 funzionando da “stampella” per la molecola; essa è necessaria affinchè la molecola MHC-I possa assumere la sua conformazione funzionale. Le molecole HLA-A, -B e -C sono caratterizzate da diverse catena α, codificate da 3 geni contigui sul cromosoma 6. La tasca per l’antigene delle molecole MHC di classe I è piuttosto chiusa e può accogliere peptidi piuttosto piccoli, di 8-9 amino acidi. Nel suo insieme è stata paragonata a un voulvant il cui ripieno è il peptide. Le molecole di classe II raggiungono una conformazione simile a quella di classe I, ma in modo diverso. Sono formate da due catene, α e β, entrambe trasmembrana e codificate da geni contenuti nella regione dell’HLA. Entrambe le catene comprendono due domini extracellulari, α1-α2 e β1-β2. I domini α1 e β1 si associano a formare una tasca per il peptide, sempre formata da un pavimento di nastri β antiparalleli e due pareti ad α elica (una per ogni catena). I domini α2 e β2 sono di tipo immunoglobulinico, si continuano col tratto transmembrana e servono da “spaziatori”. La tasca che si forma è parzialmente aperta alle estremità e può accogliere peptidi abbastanza lunghi, di 12-18 aminoacidi, che possono protrudere agli estremi della tasca. L’insieme è stato paragonato a un hot-dog in cui il peptide è il wurstel. Le molecole HLA-DP, -DQ e -DR sono costituite da diverse catena α e diverse catene β, codificate da geni diversi localizzati in prossimità reciproca nel cromosoma 6. Le due regioni che accolgono i geni per le molecole MHC di classe I e di classe II sono separate da una regione genica che accoglie geni, detti di classe III, i quali non codificano molecole MHC, ma altre molecole coinvolte nella risposta immunitaria (tra cui TNFα, TNFβ e fattori del complemento) e altri geni il cui legame con l’immunità è meno chiaro. Le regioni geniche per la classe I e per la classe II contengono anche geni che codificano per molecole MHC non classiche, la cui funzione spesso non è del tutto nota. Alcune di esse non sembrano essere capaci di presentare l’antigene, ma sembrano avere un ruolo in altre fasi della risposta immunitaria.

Page 21: L’IMMUNITA’ - Il-Cubo · 2020-03-30 · 1 L’IMMUNITA’ Le macromolecole di cui i vari organismi sono formati hanno, nella maggior parte dei casi, struttura e configurazione

21

I geni che codificano tutte le catene α di MHC di classe I e gran parte di quelli che codificano per le catene α e β di MHC di classe II sono molto polimorfici. Questo fa sì che esistano elevate probabilità che ciascun individuo erediti alleli diversi per ciascun gene da ciascun genitore e che esprima perciò 6 molecole MCH di classe I diverse (3 paterne e 3 materne); il discorso è invece più complesso per le molecole MHC di classe II, in quanto nel caso in cui entrambe le catene siano polimorfiche le catene α e β ereditate dal padre e dalla madre possono associarsi in modo crociato creando combinazioni che non erano presenti nei genitori (α paterna/β materna e viceversa). L’analisi di sequenza dei diversi alleli di ciascun gene HLA ha dimostrato che essi differiscono per posizioni aminoacidiche localizzate prevalentemente a livello della tasca per il peptide. Queste variazioni modificano la capacità della tasca di legare peptidi, per cui il prodotto dei diversi alleli sono in grado di accogliere peptidi diversi. Analisi di sequenza dei peptidi estratti da varie molecole MHC hanno dimostrato inoltre che una data molecola può accogliere peptidi con sequenze aminoadiche parzialmente diverse, ma accomunate da alcuni “motivi” di sequenza a livello delle posizioni aminoacidiche più importanti nel legame del peptide alla tasca. Molecole MHC diverse accolgono set di peptidi diversi caratterizzati da motivi diversi. E’ pertanto chiaro il vantaggio offerto dalla poligenia e polimorfismo delle molecole MHC, che permette che ogni individuo esprima molte molecole diverse capaci di “presentare” peptidi diversi. Le molecole MHC di classe I sono espresse da tutte le cellule nucleate, mentre le MHC di classe II sono espresse prevalentemente dalle cellule che svolgono la funzione di cellule presentanti l’antigene (APC) professioniste, ovvero i macrofagi, le cellule dendritiche e i linfociti B. In realtà anche cellule APC non professioniste possono però esprimere molecole MHC di classe II in condizioni particolari, come ad esempio in un tessuto ricco di citochine infiammatorie.

PRESENTAZIONE DELL’ANTIGENE

I due tipi di molecole MHC hanno la funzione di “presentare” peptidi di diversa origine a due diverse sottopopolazioni di linfociti T: le molecole MHC di classe I presentano peptidi derivanti da proteine citosoliche ai linfociti T citotossici CD8+, mentre le molecole MHC di classe II presentano peptidi derivati da proteine endocitate ai linfociti T helper CD4+. -Via citosolica

La via citosolica di presentazione dell’antigene riguarda le proteine presenti nel citosol che vengono degradate per opera di una struttura apposita detta proteasoma. Il processo inizia con il legame alla proteina da degradare della proteina ubiquitina che segnala al proteasoma le proteine che devono essere degradate. Il proteasoma è una struttura cilindrica multiproteica, che denatura la proteina e la degrada in peptidi. Questa stuttura è normalmente addetta al ricambio delle proteine cellulari. Il sistema immunitario può modificare il proteasoma inserendo due subunità dette LMP2 e LMP7, che rendono il proteasoma particolarmente efficace nella produzione di peptidi adatti alla presentazione su molecole MHC di classe I. I peptidi sono poi trasportati dal citosol all’interno del reticolo endoplasmatico rugoso (RER) per opera di un apposito trasportatore ATP-dipendente detto TAP (trasportatore associato alla presentazione dell’antigene) formato dalle proteine TAP1 e TAP2. Sia LMP2 e LMP7, sia TAP1 e TAP2 sono codificate da geni contenuti nella regione genica dell’MHC di classe II. Nel RER i peptidi incontrano molecole MHC di classe I neosintetizzate e si legano alla loro tasca per il peptide. Il legame del peptide è favorito da molecole dette chaperonine, che includono calnessina,

calreticolina e tapasina. Il ruolo di queste molecole è quello di promuovere l’associazione della catena α delle molecole MHC di classe I con la β2-microglobulina, trattenere le molecole MHC di classe I nel RER fino alla sua associazione col peptide e favorire l’associazione col peptide stesso. Il legame del peptide induce il rilascio delle molecole MHC di classe I che verrà quindi trasportata sulla superficie cellulare. La via citosolica di processazione e presentazione dell’antigene permette a ogni cellula di esporre in superficie un campionamento delle proteine prodotte dalla cellula. In situazioni normali i peptidi presentati sono tutti self e non inducono una risposta immunitaria. La risposta è indotta solo nel momento in cui una cellula comincia a produrre proteine non self, il che può avvenire caratteristicamente nelle cellule infettate da virus e in quelle tumorali, che producono rispettivamente le proteine virali e le proteine “self modificate” responsabili della trasformazione neoplastica (ovvero i prodotti degli oncogeni). Le cellule che producono queste proteine sono quindi riconosciute e uccise dai linfociti CD8+. -Via endocitica

La via endocitica riguarda proteine extracellulari che vengono assunte con un meccanismo di endocitosi. Gli antigeni endocitati e processati sono quindi presentati sulla superficie cellulare all’interno di molecole MHC di classe II. Questa via riguarda principalmente le APC “professioniste” ovvero le cellule che hanno tra i loro compiti “istituzionali” quello della presentazione dell’antigene e dell’innesco della risposta immunitaria. Sono oggi noti tre tipi di APC professioniste: i macrofagi, le cellule dendritiche e i linfociti B. I macrofagi e le cellule dendritiche sono normali costituenti di tutti i tessuti, ma possono lasciare il tessuto per raggiungere gli organi linfatici secondari regionali. Viceversa i linfociti B ricircolano continuamente negli organi linfatici secondari. La funzione di APC è l’unica funzione oggi nota per le cellule dendritiche. Ciascun tipo di APC è specializzato in un particolare tipo di endocitosi: i macrofagi nella fagocitosi, le cellule dendritiche nella micropinocitosi e i linfociti B nella endocitosi

mediata da recettore, prevalentemente mediata dalle Ig di superficie; questo significa che i linfociti B sono specializzati nella presentazione dell’antigene per cui sono specifici o di antigeni ad esso associati. I linfociti B possono presentare anche altri antigeni, assunti utilizzando gli FcγR e i recettori per il complemento, ma con un’efficienza migliaia di volte inferiore. Il materiale endocitato dalle APC viene degradato attraverso il sistema lisosomale passando attraverso compartimenti ad acidità gradualmente crescente, dove hanno azione le idrolasi acide lisosmali, le quali idrolizzano il materiale endocitato. In particolare le proteine vengono scisse in peptidi di 13-18 aminoacidi che possono legare le molecole MHC di classe II. Queste ultime sono prodotte nel RER insieme alle molecole MHC di classe I, ma mentre queste ultime rimangono bloccate nel RER fino al momento in cui accolgono il peptide antigenico, le molecole MHC di classe II lasciano subito il RER per il complesso di Golgi e il compartimento endocitico. Le catene MHC di classe II neosintetizzate sono complessate con una catena non polimorfica, detta catena invariante, la quale blocca la tasca per l’antigene e impedisce che i peptidi della via citosolica trasportati nel RER da TAP si leghino alle molecole MHC di classe II. La catena invariante, inoltre, favorisce l’associazione delle catene α e β e guida le molecole MHC di classe II nel loro trasporto verso il compartimento endocitico. I complessi del MHC di classe II più la catena invariante sono trasportati al sistema

Page 22: L’IMMUNITA’ - Il-Cubo · 2020-03-30 · 1 L’IMMUNITA’ Le macromolecole di cui i vari organismi sono formati hanno, nella maggior parte dei casi, struttura e configurazione

22

degli endosomi, dove il pH man mano decrescente attiva gli enzimi proteolitici che degradano progressivamente la catena invariante. Un corto peptide della catena invariante, detto CLIP, rimane legato alla tasca del peptide e viene rimosso da HLA-DM, una molecola MHC di classe II non classica, che aiuta il caricamento, nella molecola di classe II classica, del peptide antigenico prodotto negli endosomi. Il complesso del MHC di classe II più il peptide è quindi trasportato sulla superficie cellulare e presentato ai linfociti CD4+. -Cross-presentazione dell’antigene. La via endocitica e quella citosolica non sono del tutto reciprocamente impermeabili ed è possibile che, con bassa efficienza, antigeni endocitati siano presentati su MHC di classe I e, viceversa, antigeni citosolici siano presentati su MHC di classe II. Questo processo viene denominato cross-presentazione dell’antigene ed è particolarmente efficiente nelle cellule dendritiche. La cross-presentazione dell’antigene è particolarmente importante per attivare la risposta T citotossica anti-virale in quanto permette alle cellule dendritiche di caricare su MHC di classe I i peptidi derivati da antigeni virali endocitati. -Via glicolipidica

Recentemente è stata descritta l’esistenza di una terza via di presentazione dell’antigene, dedicata alla presentazione di antigeni non peptidici. Questa via riguarderebbe la presentazione di antigeni lipidici e glicolipidici (ad esempio l’acido micolico del Mycobacterium tubercolosis o il lipoarabinosomannano del Mycobacterium leprae) ai linfociti T da parte di una famiglia di molecole denominate CD1. Sono note 5 molecole CD1, dette CD1a-e, le quali sono espresse dalle APC, si associano a molecole di β2-microglobulina e presentano notevoli omologie con le molecole MHC di classe I, pur essendo codificate da geni localizzati in un diverso cromosoma. La via che porta alla processazione e presentazione di questi antigeni non è ancora nota, ma è stato osservato che i linfociti T che riconoscono questi antigeni con restrizione CD1 sono linfociti CD4+ che esprimono molecole di superficie proprie delle cellule NK e sono perciò detti linfociti NKT. Caratteristica di queste cellule è l’espressione di TCR con una variabilità molto limitata e la capacità di produrre grandi quantità di citochine in seguito ad attivazione. E’ stato proposto che esse svolgano un potente ruolo di modulazione della risposta immunitaria. La scoperta di questa via ha rotto uno dei dogmi dell’immunologia moderna, ovvero quello del riconoscimento esclusivo da parte dei linfociti T di antigeni proteici processati e presentati da molecole MHC classiche. Come si vedrà in seguito questo dogma è stato anche rotto dalla scoperta che alcuni particolari tipi di linfociti T che possono riconoscere determinati antigeni in forma nativa, ovvero senza la necessità che vengano processati dalle APC.

STRUTTURA DEL TCR

Il TCR è un eterodimero formato da due catene di tipo immunoglobulinico. Esistono due tipi di TCR, i dimeri delle catene α e β (TCRαβ) e i dimeri delle catene γ e δ (TCRγδ). La maggior parte dei linfociti T circolanti e presenti negli organi linfatici secondari hanno un recettore αβ, per cui quando si parla genericamente di linfociti T ci si riferisce in genere a queste cellule, che comprendono i classici linfociti CTL e TH, mentre quando ci si riferisce ai linfociti T con recettore γδ, si parla espressamente di linfociti Tγδ. Le catene α, β, γ e δ sono tutte catene transmembrana di tipo immunoglobulinico, la cui porzione extracellulare è formata da un dominio variabile, NH2-terminale e distale rispetto alla membrana, e un dominio costante, che si continua col tratto transmembrana e con quello intracitoplasmatico COOH-terminale. La struttura dei TCR ricorda da vicino quella del frammento Fab degli anticorpi, formato dalla catena leggera (dominio variabile VL e costante CL) e da due domini della catena pesante (dominio variabile VH e costante C1H). Nel TCR manca la regione cerniera, che nelle Ig congiunge il frammento Fab a quello Fc, per cui la molecola manca della flessibilità propria delle Ig. Ciascun linfocita T esprime un particolare recettore per l’antigene, la cui specificità è data dalla combinazione delle regioni variabili delle due catene αβ o γδ, le quali formano il sito combinatorio per l’antigene, come nelle Ig. Come nel caso delle Ig, le regioni variabili delle catene del TCR comprendono le regioni ipervariabili CDR1, CDR2 e CDR3 e le meno variabili regioni cornicie. L’antigene riconosciuto da un linfocita T è formato dal complesso del peptide antigenico con una particolare molecola MHC; pertanto la specificità del riconoscimento riguarda sia il peptide non self (ovvero un certo linfocita T riconosce solo quel particolare peptide) sia la molecola MHC (ovvero il riconoscimento avviene solo se quel peptide è presentato da una particolare variante polimorfica di una determinata molecola MHC). Questa selettività è legata al fatto che le CDR3 del TCR legano direttamente il peptide, mentre le CDR1 e CDR2 legano le regioni polimorfiche delle α eliche della molecola MHC che formano i bordi del solco per l’antigene. Questa caratteristica del riconoscimento rende ragione del fatto che i linfociti T di un soggetto funzionano solo con cellule APC dello stesso soggetto, oppure di un soggetto diverso che esprima però le stesse molecole MHC. Pertanto mentre è possibile il trasferimento di Ig da un soggetto ad un altro, non è possibile il trasferimento di linfociti T, se non tra gemelli monozigoti o animali singenici. Sulla membrana il TCR è espresso in associazione con un complesso molecolare detto CD3 e formato dalle catene CD3γ, CD3δ, CD3ε e da un omodimero di catene CD3ζ. Il complesso CD3 ha un ruolo cruciale nella trasduzione del segnale del TCR, che ha una coda intracitoplasmatica troppo piccola per trasdurre segnali, e nel trasporto del TCR dal complesso di Golgi alla membrana cellulare.

MATURAZIONE TIMICA DEI LINFOCITI T

Anche i linfociti T, come quelli B, esprimono un repertorio estremamente vasto di TCR diversi, calcolato in un ordine di grandezza teorico di oltre 1015 sia per i linfociti Tαβ sia per i Tγδ. Come per i linfociti B, questa enorme variabilità è il risultato di processi di riarrangiamento genico che avvengono nei precursori dei linfociti T nel timo, l’organo linfatico primario dei linfociti T. Nelle prime fasi della vita embrionale il timo consiste soprattutto di cellule epitelio-reticolari, grossi elementi di origine ectodermica provvisti di tonofibrille; in seguito, a queste cellule si aggiungono i timociti. Dopo la nascita, il timo consta di una parte corticale e di una midollare. Nella midollare prevalgono quantitativamente le cellule epitelio-reticolari, fra le quali sono interposti pochi timociti; nella corticale i rapporti fra i due tipi cellulari sono opposti, e prevalgono i timociti, fra i quali esistono poche cellule epitelio-reticolari.

La cellula staminale emopoietica programmata (“commissionata”) per diventare linfocita T lascia il midollo osseo e raggiunge il timo tramite il sangue, sfruttando appositi recettori di homing. Superata la caspula timica, il precursore si trova nella parte più esterna della corticale timica dove comincia la sua maturazione. Questa consiste in una prima fase che porta il precursore a riarrangiare i geni per le catene α e β oppure γ e δ. Quindi i timociti αβ vanno incontro a una successiva fase maturativa che porta alla selezione (ovvero alla sopravvivenza) solo dei timociti che esprimono TCR che sono in grado di riconoscere peptidi presentati dalle molecole MHC self, ma che non sono autoreattivi, ovvero che non riconoscono peptidi self. Questo processo di educazione timica passa attraverso due

Page 23: L’IMMUNITA’ - Il-Cubo · 2020-03-30 · 1 L’IMMUNITA’ Le macromolecole di cui i vari organismi sono formati hanno, nella maggior parte dei casi, struttura e configurazione

23

fasi, dette selezione timica positiva e selezione timica negativa. Nel corso di questa maturazione il timocita si sposta verso la midollare del timo, da dove il linfocita T maturo passa nel sangue e ricircola negli organi linfatici secondari.

Il riarrangiamento dei geni per il TCR avviene attraverso un processo del tutto simile a quello dei geni per le Ig e coinvolge i prodotti dei geni RAG1 e RAG2. In questo stadio i timociti non esprimono né CD4 né CD8 e sono perciò detti timociti doppi negativi.

Il gene per β e γ si trovano sul cromosoma 7, mentre i geni per α e δ di trovano nello stesso segmento del cromosoma 14. I geni per β e δ sono organizzati in modo simile ai geni per la catena pesante delle Ig, compredendo segmenti V (57 per β; 3 per δ), segmenti D (2 per β; 3 per δ) e segmenti J (13 per β; 3 per δ). Il loro riarrangiamento porta prima alla formazione di una giunzione DJ e quindi di quella VDJ, con coinvolgimento della TdT e inserimento delle basi N. In alcuni casi il riarrangiamento può anche inserire più di un segmento D tra V e J. Questo riarrangiamento precede il riarrangiamento rispettivamente delle catene α e γ, i cui geni sono organizzati in modo simile alle catene leggere, comprendendo solo segmenti V (50 per α e 14 per γ) e J (70 per α e 5 per γ). Anche nel caso di α e γ la TdT inserisce mutazioni N (a differenza di quanto avviene per le catene leggere delle Ig il cui riarrangiamento manca delle mutazioni N). I segmenti VDJ e VJ codificano il dominio V delle rispettive catene e sono trascritti insieme al segmento genico che codifica il dominio costante localizzato al loro estremo 3’ terminale. L’intero locus genico della catena δ è contenuto all’interno del locus della catena α e precisamente tra la regione che accoglie i segmenti V e quella dei segmenti J. Pertanto il riarrangiamento della catena α porta alla completa delezione del locus di δ, il che impedisce che una cellula possa riarrangiare contemporaneamente un recettore αβ e uno γδ.

Come nel caso delle Ig, il riarrangiamento di β è seguito dalla sintesi della proteina che viene montata sulla membrana in associazione di una catena invariante, denominata catena X, che funziona da “surrogato” della catena α. L’esposizione di questo recettore immaturo trasmette un segnale che innesca il riarrangiamento del gene della catena α. I timociti sono programmati a morire per apoptosi e riescono a sopravvivere solo se il TCR montato in superficie trasmette un segnale di sopravvivenza alla cellula. Pertanto tutti i timociti che non riescono a riarrangiare in modo produttivo il TCRαβ o γδ, muoiono per apoptosi nel timo.

I timociti che riarrangiano α e β esprimono in membrana il TCRαβ associato al complesso CD3. Contemporaneamente esprimono anche i due corecettori CD4 e CD8 e vengono perciò detti timociti doppi positivi. Questi vanno ora incontro al processo di educazione timica, che ha lo scopo di selezionare solo i linfociti T “utilizzabili” (ovvero quelli il cui TCR “si adatta” alle molecole MHC self) purchè non siano “autoreattivi” (ovvero purché non siano attivati da peptidi self).

In una prima fase vengono selezionati positivamente i timociti il cui TCR si adatta alle molecole MHC self (selezione positiva). In questa fase i timociti sono programmati per l’apoptosi e sopravvivono solo quelli che legano le molecole MHC autologhe e ricevono dal TCR un segnale di sopravvivenza. In questo processo sembrano avere un ruolo importante le cellule epiteliali timiche della corticale del timo, che esprimono molecole MHC sia di classe I sia di classe II.

Nella fase successiva (selezione negativa) vengono invece eliminati per apoptosi i timociti autoreattivi, ovvero quelli che riconoscono con eccessiva affinità i peptidi self (presentati dalle molecole MHC self). Le cellule epiteliali timiche della corticale timica utilizzano fattori trascrizionali, come AIRE, per esprimere ectopicamente un ampio spettro di proteine specifiche di altri tessuti, come ad esempio l’insulina, e indurre così la selezione negativa dei timociti potenzialmente autoreattivi. Un ruolo nella selezione negativa è anche svolto nella midollare del timo da parte delle stesse APC che il linfocita T incontrerà in periferia, ovvero le cellule dendritiche e i macrofagi, che “importano” nel timo autoantigeni catturati in periferia. Nel corso di questo processo di educazione i timociti che riconoscono molecole MHC di classe II perdono il CD8, mentre quelli che riconoscono molecole MHC di classe I perdono il CD4 e diventano timociti singoli positivi rispettivamente CD4+ e CD8+. Questi escono dal timo, come linfociti T maturi vergini, attraverso i vasi della midollare timica e cominciano a ricircolare negli organi linfatici secondari in cerca dell’antigene.

Le cellule epiteliali timiche sono anche coinvolte nella maturazione timica di un particolare tipo di linfociti, detti T regolatori (o Treg) naturali, a partire dai timociti che riconoscono autoantigeni con un’affinità non sufficiente a indurre la selezione negativa. Il riconoscimento (con una affinità intermedia) di questi autantigeni induce nel timocita l’attivazione del fattore trascrizionale FoxP3, necessario per la differenziazione in Treg. Il Treg è quindi una cellula debolmente autoreattiva, la cui attività funzionale consiste nell’inibire in periferia l’attivazione di linfociti autoreattivi sfuggiti alla selezione negativa negli organi immunitari primari. I Treg collaborano con altri fattori periferici nel mantenimento della tolleranza periferica agli autoantigeni.

Il processo di maturazione timico dei linfociti Tγδ è meno noto, come meno chiara è la funzione di queste cellule nei tessuti. Apparentemente la funzione del timo è meno cruciale per la maturazione di questi linfociti, come dimostrato dal fatto che un certo numero di linfociti Tγδ sono presenti anche nei topi nudi, che sono portatori di una alterazione genetica che impedisce la formazione del timo.

Molti dati sulla funzione del timo vengono dallo studio delle conseguenze della timectomia. Questa ha risultati differenti a seconda del momento in cui viene praticata e anche della specie biologica. Esistono specie, tra cui l'uomo, in cui la maturazione del sistema immunitario è già abbastanza buona alla nascita, e altre che nascono invece immunologicamente immature. Nelle prime l'ablazione del timo non dà risultati molto diversi se viene praticata subito dopo la nascita, oppure nella vita adulta; nelle seconde, le differenze sono invece sostanziali. Tra le specie immunologicamente immature alla nascita, le più studiate sono il topo, la cavia, ed il coniglio. Nel topo, la timectomia alla nascita porta alla mancata maturazione degli organi linfatici periferici, con conseguente diminuzione del numero di linfociti circolanti. La milza ed i linfonodi restano di tipo embrionale e non si forma intorno ai follicoli il mantello linfocitario. Questa parte, che si sviluppa chiaramente sotto l'influenza del timo, viene detta parte timo-dipendente del tessuto linfatico. Dal punto di vista funzionale il topo presenta un grave stato di immunodeficienza sia cellulo-mediata sia anticorpale (vedere la sezione sulle Immunodeficienze congenite).

La timectomia negli animali adulti, o comunque dopo il raggiungimento della maturità immunologica, non produce conseguenze così gravi. Il numero dei linfociti nel sangue periferico, nel dotto toracico, nel midollo osseo e nei tessuti linfatici diminuisce, ma non viene gravemente compromessa né la risposta cellulo-mediata né quella anticorpale. La capacità di produrre anticorpi viene compromessa, in questi animali, soltanto se vengono esposti, dopo la timectomia, ad irradiazione totale del corpo; in questo caso la ripresa delle funzioni immunologiche è lenta e quantitativamente scarsa, il che suggerisce che anche nell'adulto il timo interviene nel favorire il ristabilimento dell'apparato immunopoietico, dopo che questo sia stato danneggiato o distrutto. L'impianto di frammenti di timo, oppure l'inoculazione di cellule dei linfonodi o della milza degli animali adulti in animali timectomizzati alla nascita, o anche

Page 24: L’IMMUNITA’ - Il-Cubo · 2020-03-30 · 1 L’IMMUNITA’ Le macromolecole di cui i vari organismi sono formati hanno, nella maggior parte dei casi, struttura e configurazione

24

nella vita adulta, fa recuperare a questi una normale efficienza immunologica, grazie all'attività moltiplicativa nel nuovo ospite delle cellule o dei tessuti innestati. Nei topi timectomizzati alla nascita vengono tollerati anche trapianti allogenici di timo, mentre in quelli timectomizzati nella vita adulta occorre timo dello stesso ceppo (singenico). Nell’uomo il timo raggiunge il massimo sviluppo nella pubertà per poi andare incontro a una rapida progressiva atrofia.

SISTEMI EFFETTORI DELLA RISPOSTA CELLULARE

I linfociti T vergini maturi si attivano negli organi linfatici secondari quando incontrano il peptide per cui sono specifici presentato sulle opportune molecole MHC dalle APC professioniste. L’attivazione induce la proliferazione cellulare, con produzione di una progenie (clone) di cellule figlie che esprimono lo stesso TCR, e la loro differenziazione in linfociti “effettori”, ovvero cellule capaci di svolgere attivamente una determinata funzione. In linea di massima, i linfociti T CD8+ attivati esercitano una funzione citotossica e sono detti CTL (cytotoxic T lymphocyte), mentre i linfociti T CD4+ attivati producono grandi quantità di citochine e sono detti TH (T helper). Le citochine prodotte dai TH svolgono un ruolo cruciale nella regolazione della risposta immunitaria, che viene indirizzata verso le funzioni effettrici più adatte all’eliminazione del patogeno. Il solo legame dell’antigene non è però sufficiente per indurre questo processo di attivazione, proliferazione e differenziamento. Infatti secondo la teoria del secondo segnale per attivarsi il linfocita deve anche ricevere un segnale costimolatorio che può essere trasmesso solo dalle APC professioniste. Il recettore linfocitario meglio noto che è in grado di tradurre questo secondo segnale è il CD28, il quale lega due ligandi espressi dalle APC professioniste attivate, detti B7-1 (CD80) e B7-2 (CD86). L’espressione di questi ligandi è una caratteristica chiave di queste cellule, insieme alla espressione di molecole MHC di classe II e alle efficaci doti di endocitosi. In mancanza del segnale costimolatorio, la stimolazione del TCR non solo non induce l’attivazione del linfocita, ma ne può addirittura indurre l’inattivazione, nella forma di uno stato di “paralisi” temporanea (detta anergia) oppure addirittura con l’innesco della sua apoptosi. Questo processo ha lo scopo di impedire l’attivazione dei linfociti T da parte di cellule “non professioniste” e che l’attivazione possa avvenire in un contesto microambientale improprio. Pertanto l’attivazione può avvenire solo in presenza di APC professioniste che siano state attivate da un processo infiammatorio in atto, che induce l’espressione sulle APC di molecole MHC di classe II e di molecole costimolatorie . In assenza di questo contesto l’inattivazione dei linfociti antigene specifici induce uno stato di iporeattività del sistema immunitario verso quell’antigene; questo stato è detto tolleranza periferica per quell’antigene.

1- Citochine Le citochine sono piccole molecole proteiche secrete da vari tipi cellulari e coinvolte nelle comunicazioni tra cellula e cellula.

Diverse cellule producono citochine differenti, ma una stessa citochina può essere prodotta da più tipi cellulari. L’azione delle citochine può essere autocrina, paracrina o endocrina. L’azione autocrina si ha quando la citochina esercita la sua azione sulla stessa cellula da cui è stata secreta; ad esempio la IL-2 è prodotta da linfociti CTL e TH1 ed esercita la sua azione proliferativa su queste stesse cellule. L’azione paracrina si ha quando la citochina esercita la sua azione su cellule vicine; ad esempio IFN-γ prodotto dai TH1 potenzia l’attività dei macrofagi presenti nello stesso microambiente. L’azione endocrina si ha quando la citochina viene rilasciata nel sangue ed esercita la sua azione su un organo distante; ad esempio la IL-6 induce il fegato a produrre fattori umorali dell’infiammazione, detti proteine di fase acuta (vedere Capitolo sull’infiammazione)

L’azione delle citochine è caratterizzata dalla pleiotropia, ridondanza, sinergia e antagonismo. La pleiotropia indica che una stessa citochina può avere azioni diverse su cellule diverse; ad esempio IFN-γ induce la differenziazione dei TH1, inibisce la differenziazione dei TH2, potenzia l’azione dei macrofagi e delle cellule NK, stimola l’espressione di MHC e molecole costimolatorie da parte delle APC. La ridondanza indica che una stessa azione può essere esercitata da più di una citochina; ad esempio l’attivazione dei macrofagi può essere indotta da IFN-γ, TNF-α, LT (TNF-β) e IL-1. La sinergia indica che due citochine possono potenziarsi l’un l’altra in una certa azione; ad esempio l’azione congiunta di IL-4 e IL-5 è estremamente efficiente nell’indurre lo switch isotipico a IgE dei linfociti B. L’antagonismo indica che due citochine esercitano azioni opposte; ad esempio, IL-4 induce lo switch isotipico a IgE, che è invece inibito da IFN-γ.

Le citochine coinvolte nella risposta immunitaria sono in genere inducibili e agiscono su recettori che sono inducibili a loro volta. Pertanto una citochina è in genere prodotta da un certo tipo cellulare in un certo stato funzionale e agisce su un certo tipo cellulare in un certo stato funzionale che esprime il recettore adeguato. I recettori citochinici appartengono a quattro famiglie principali: 1) I recettori di classe I (che comprende la famiglia dei recettori della IL-2); 2) i recettori di classe II (che comprende i recettori degli IFN e IL-10); 3) i recettori della famiglia del TNF; i recettori della superfamiglia delle Ig (tra cui il recettore di IL-1); 4) i recettori per le chemochine.

Le chemochine sono un’ampia famiglia di citochine ad attività chemotattica che interagiscono con recettori che interagiscono con proteine G. Sulla base della sequenza aminoacidica si i distinguono due gruppi principali di chemochine: le CC chemochine e le CXC chemochine. A queste si aggiungono due altre famiglie molto più piccole: le C chemochine e le CX3C chemochine. Un nomenclatura recente indica le diverse chemochine con le sigle CCL, CXCL, CX3CL, XCL (in cui L sta per “ligando”) seguite da un numero progressivo corrispondente a una certa chemochina. I recettori chemochinici sono indicati con le sigle CCR, CXCR, CX3CR, XCR (in cui R sta per “recettore”) seguite da un numero progressivo corrispondente a un certo recettore chemochinico (non c’è corrispondenza tra il numero del ligando e quello del recettore).

2-Linfociti TH e il sistema delle citochine

a) I linfociti TH

I linfociti TH sono linfociti Tαβ CD4+ e riconoscono l’antigene presentato da molecole MHC di classe II. Il CD4 svolge il ruolo di corecettore per il TCR di queste cellule, legando regioni monomorfiche delle molecole MHC di classe II e potenziando il segnale di attivazione trasmesso dal TCR attraverso il complesso del CD3. Dopo aver incontrato l’antigene presentato dalle APC negli organi linfatici secondari e aver ricevuto il segnale costimolatorio da parte del CD28, il linfocita TH si attiva, prolifera e differenzia in cellula produttrice di citochine. Sulla base delle citochine prodotte si distinguono due tipi di linfociti TH effettori, i linfociti TH1 e TH2. I linfociti TH1 sono caratterizzati dalla produzione delle citochine IL-2, IFN-γ e LT, che favoriscono la differenziazione dei CTL e

Page 25: L’IMMUNITA’ - Il-Cubo · 2020-03-30 · 1 L’IMMUNITA’ Le macromolecole di cui i vari organismi sono formati hanno, nella maggior parte dei casi, struttura e configurazione

25

potenziano l’attività delle cellule NK e dei macrofagi; la loro differenziazione è legata all’attività del fattore trascrizionale Tbet. I linfociti TH2 sono caratterizzati dalla produzione delle citochine IL-4, IL-5, IL-6, che favoriscono l’attivazione, proliferazione e differenziazione dei linfociti B; la loro differenziazione è legata all’attività dei fattori trascrizionali MAF e GATA3. Ne consegue che i linfociti TH1 funzionano prevalentemente da “helper” per i macrofagi e la risposta cellulo-mediata e sono quindi linfociti T

proinfiammatori, mentre i TH2 funzionano da “helper” per i linfociti B. Altri tipi di linfociti TH identificati più recentemente sono i linfociti TH17 e TH9. I TH17 sono caratterizzati dalla produzione di

IL-17 (o meglio interleuchine 17, visto che si tratta di una famiglia che include più componenti) e svolgono la loro funzione sostenendo l’attività dei neutrofili; la loro differenziazione è legata all’attività del fattore trascrizionale RORγT. I TH9 sono caratterizzati dalla produzione di IL-9 e svolgono la loro funzione sostenendo l’attività degli eosinofili; la loro differenziazione è legata all’attività del fattore trascrizionale PU.1.

Vari dati indicano che ciascun linfocita TH non è predestinato a diventare TH1, TH2, TH17 o TH9, ma decide verso quale effettore differenziare sulla base del contesto in cui viene attivato. Il principale fattore che influenza questa differenziazione è rappresentato dal microambiente citochinico. Per quanto riguarda le citochine, è stato dimostrato che elevati livelli di IL-4, prodotta dagli stessi TH2 o da altre cellule come i mastociti, favoriscono la differenziazione verso TH2 e inibiscono quella verso TH1. Viceversa elevati livelli di IFN-γ, prodotti dai TH1 stessi o dai CTL o da cellule NK, favoriscono la differenziazione verso TH1 e inibiscono quella verso TH2. Un ruolo centrale nella differenziazione a TH1 sarebbe svolto dalla IL-12 prodotta dai macrofagi, che stimola la produzione di IFN-γ da parte di CTL, NK e TH1. IL-4 e IFN-γ svolgono anche un’influenza opposta sullo switch isotipico dei linfociti B, in quanto l’IFNγ favorisce lo switch verso le IgG2a e blocca quello verso le IgG1 e le IgE, indotto invece da IL-4. La differenziazione TH17 richiede l’azione di TGFß e IL-1 e è rafforzato da IL-23 che sostiene la proliferazione dei TH17. La differenziazione TH9 richiede l’azione di TGFß e IL-4.

I linfociti TH attivati esercitano prevalentemente la loro azione su cellule che presentano in superficie l’antigene specifico associato alle molecole MHC di classe II. In modo simile al CTL il linfocita TH si lega al bersaglio tramite il TCR e varie molecole di adesione e si polarizza riversando su di esso le proprie citochine responsabili dell’attività “helper”. In questa interazione hanno un ruolo importante anche interazioni tra molecole di membrana delle due cellule formanti il coniugato. Queste molecole trasmettono segnali capaci di influenzare il comportamento delle due cellule.

Nel caso dell’interazione tra linfociti TH2 e linfociti B è stata sottolineata l’importanza dell’interazione tra il recettore CD40L del linfocita T e il CD40 del linfocita B. Questa interazione è fondamentale nell’innesco del processo di switch isotipico nel linfocita B, come è dimostrato dalla sindrome iper-IgM, una immunodeficienza congenita caratterizzata dalla totale mancanza di switch isotipico (e di isotipi anticorpali diversi dalle IgM) e dovuta a mutazioni a carico del CD40L, che ne alterano la capacità di interagire col CD40.

La polarizzazione TH1/TH2/TH17/TH9 della risposta dei TH è in realtà una estremizzazione di ciò che avviene nella realtà ed è probabile che la risposta del TH sia molto più raffinata potendo produrre forme differenziative intermedie tra questi due cellulari. Inoltre, sia nell’uomo che nel topo, sono stati descritti altri tipi differenziativi di TH, caratterizzati dalla produzione di citochine diverse.

Un altro tipo di linfociti TH sono i linfociti TH follicolari (TFH). Sebbene sia in corso una discussione sulla loro reale esistenza come sottotipo TH definito, un numero sempre maggiore di osservazioni sottolinea la possibile importanza di queste cellule. I TFH sono cellule presenti nei follicoli linfatici secondari intorno al centro germinativo e avrebbero un ruolo chiave nel controllare l’attivazione dei linfociti B e la loro maturazione antigene-dipendente. I TFH esprimono elevati livelli di del recettore chemochinico CXCR5 e del recettore costimolatorio ICOS, appartenente alla famiglia di CD28. Differenziano in presenza di IL-21 e producono essi stessi IL-21. Il loro programma differenziativo è legato all’azione del fattore trascrizionale Bcl6. I TFH avrebbero un ruolo importante per controllare la differenziazione di linfociti B memoria, che passa attraverso l’ipermutazione somatica mirata ad aumentare l’affinità dell’anticorpi per l’antigene. Poiché questo processo è casuale, c’è il rischio che esso possa generare anche linfociti B il cui anticorpo riconosce autoantigeni. Questo rischio è minimizzato dal fatto che i linfociti B che sono andati incontro a maturazione d’affinità devono interagire con un TFH che riconosce lo stesso antigene prima di poter completare la loro maturazione a linfocita B memoria, altrimenti vanno incontro a apoptosi. I linfociti che hanno operato una corretta maturazione di affinità endocitano l’antigene (presente nel centro germinativo sulle cellule follicolari dendritiche) tramite il proprio anticorpi di membrana e lo presentano su molecole MHC di classe II ai linfociti TFH specifici per quello stesso antigene, ricevendone il segnale di sopravvivenza. Se viceversa il linfocita B ha cambiato la propria specificità antigenica ed è diventato autoreattivo, non ci sarà corrispondenza tra l’antigene riconosciuto (e presentato) dal linfocita B e dal THF per cui non potrà verificarsi l’interazione tra le due cellule e la trasmissione del relativo segnale di sopravvivenza al linfocita B.

Un tipo particolare di linfociti TH sono i linfociti NKT, i quali sono linfociti Tαβ CD4+ che esprimono molecole di superficie tipiche delle cellule NK. Queste cellule sono caratterizzate dall’espressione di un TCR dotato di modesta variabilità e dal riconoscimento dei antigeni glicolipidici presentati su molecole CD1. Sono dotate di attività citotossica, ma anche della capacità di produrre grandi quantità di citochine tra cui IL-4 e IFNγ. Il loro esatto ruolo non è noto.

3-Linfociti regolatori

I linfociti regolatori sono vari tipi di linfociti che hanno l’azione di sopprimere la risposta immunitaria contribuendo a impedire la risposta a antigeni self (tolleranza periferica) e a spegnere la risposta immunitaria dopo la sua attivazione. I più noti sono i linfociti T regolatori con fenotipo T helper (Treg), che esprimono CD4 e il TCRαß. Si distinguono Treg naturali e Treg indotti. Lo sviluppo dei Treg è favorito dall’enzima IDO (indeoleamina 2,3, deossigenasi), prodotto dalle cellule dendritiche, che catalizza la degradazione del triptofano in chinurenina.

I Treg naturali (nTreg) nascono come tali dal timo in seguito all’interazione del timocita con le cellule epiteliali timiche. Queste esprimono un’ampia varietà di proteine self grazie all’azione del fattore trascrizionale AIRE e le presentano ai timociti. I timociti che riconoscono questi autoantigeni con alta affinità muoiono per apoptosi in quanto autoreattivi (selezione negativa), ma i timociti che li riconoscono con affinità intermedia ricevono un segnale che induce l’espressione del fattore trascrizionale FoxP3 che guida la loro differenziazione verso nTreg. I linfociti nTreg passano quindi in periferia e sopprimono l’attivazione di risposte autoreattive. Mutazioni di FoxP3 impediscono la differenziazione dei nTreg e causano lo sviluppo di quadri autoimmuni precoci e multipli. I

Page 26: L’IMMUNITA’ - Il-Cubo · 2020-03-30 · 1 L’IMMUNITA’ Le macromolecole di cui i vari organismi sono formati hanno, nella maggior parte dei casi, struttura e configurazione

26

linfociti nTreg sono riconoscibili dal fenotipo CD4+CD25+FoxP3+ (CD25 è una catena del recettore per IL-2) e svolgono la loro funzione con un meccanismo non ben precisato dipendente dal contatto diretto cellula-cellula. Inoltre secernono IL-10 e TGFß, che sono citochine immunosoppressorie. Un’altra molecola che contribuisce all’azione dei iTreg sarebbe CTLA-4, ma il meccanismo di azione di CLTA-4 nei linfociti iTreg non è ancora stato chiarito.

I linfociti Treg indotti (iTreg) derivano dalla differenziazione di nomali linfociti TH effettori che si trasformano in iTreg nella fase finale della loro vita. La loro funzione inibitoria è prevalentemente dovuta alla produzione di IL-10 e TGFß. Una simile azione inibitoria è stata anche riconosciuta ai linfociti B che possono diventare linfociti B regolatori. Il ruolo degli iTreg sarebbe quello di contribuire allo spegnimento della risposta immunitaria contro antigeni non self.

Una funzione regolatoria è stata anche attribuita ai vari tipi di linfociti citotossici (CTL, NK, Tγδ), i quali possono produrre IL-10 e TGFß, ma possono anche uccidere cellule immunitarie attivate (riconoscendole in un modo non ancora chiarito) tramite il sistema della perforina.

4-Citotossicità cellulo-mediata

La citotossicità cellulo-mediata coinvolge tre tipi di cellule specializzate nel riconoscimento di bersagli diversi: i linfociti CTL (con fenotipo TCRαβ+ CD8+), che riconoscono antigeni virali e tumorali presentati su molecole MHC di classe I; le cellule NK, prive di TCR, ma dotate di recettori in grado di identificare una ridotta espressione di molecole MHC di classe I da parte di cellule infettate da virus e cellule tumorali che tentano di eludere il riconoscimento da parte dei CTL; i linfociti Tγδ, che riconoscono antigeni di vario tipo anche indipendentemente dalla presentazione sulle molecole MHC.

a) I linfociti CTL I linfociti T citotossici sono per lo più linfociti Tαβ CD8+. Il CD8 è una molecola transmembrana che si lega al dominio α3 non polimorfico di tutte le molecole MHC di classe I e funziona da corecettore per il TCR. Quando un TCR si lega al complesso peptide/MHC di classe I (domini α1 e α2) di una APC, il CD8 gli si affianca legandosi al dominio α3 della stessa molecola MHC e potenzia il segnale di attivazione trasmesso dal TCR attraverso il CD3. I linfociti T citotossici quiescenti ricircolano continuamente nel sangue e negli organi linfatici secondari in cerca dell’antigene. Quando lo incontrano (presentato da APC professioniste, ad esempio cellule dendritiche infettate da virus oppure cellule dendritiche che cross-presentano su MHC di classe I il materiale virale endocitato), i linfociti T citotossici ricevono il doppio segnale di attivazione tramite il TCR e il CD28e vengono indotti a proliferare, producendo una progenie (clone) di cellule figlie che esprimono lo stesso TCR, e differenziare a linfociti citotossici effettori, detti CTL (cytotoxic T lymphocyte). Questi sono cellule più grandi, ricche di granuli litici che saranno utilizzati per uccidere le cellule bersaglio. La proliferazione e differenziazione dei CTL dipende dalla citochina IL-2, prodotta in piccola quantità dai CTL stessi, ma soprattutto dai linfociti TH, che svolgono un ruolo importante nell’amplificare la risposta dei CTL. I CTL lasciano poi gli organi linfatici secondari e attraverso la linfa giungono nel sangue e quindi nei tessuti dove si trova il patogeno per cui sono specifici (per lo più un virus). Nel tessuto riconoscono le cellule infettate dal virus, che esprimono molecole MHC di classe I caricate con i peptidi virali. I CTL si legano alle cellule bersaglio tramite il TCR; successivamente il legame è stabilizzato da molecole di adesione di tipo integrinico, che sono rese più adesive dal segnale di riconoscimento trasmesso dal TCR (ad esempio l’integrina LFA-1 si lega alle molecole ICAM del bersaglio). Questo segnale non richiede l’intervento del CD28 e non induce la proliferazione cellulare, ma lo scatenamento dei meccanismi citotossici della cellula sul bersaglio. In questo processo viene indotta la ”polarizzazione” del CTL, con trasporto dei granuli litici verso l’interfaccia col bersaglio e liberazione del contenuto nello spazio tra le due cellule. I granuli contengono perforina e granzimi. La perforina è una proteina con un elevato livello di omologia con il C9 del complemento e, come questo, è capace di polimerizzare sulla membrana della cellula bersaglio formando un poro; attraverso questo passano i granzimi, che sono enzimi capaci di attivare il sistema delle caspasi e indurre l’apoptosi della cellula bersaglio. Il CTL possiede altri due meccanismi per indurre l’apoptosi del bersaglio: la secrezione della citochina linfotossina (LT, detta anche TNFβ) e l’espressione in membrana del recettore FasL. Sia la LT sia il FasL si legano a recettori proapoptotici espressi sulla membrana del bersaglio (rispettivamente TNF-receptor e Fas) e ne inducono l’apoptosi. Mentre il sistema della perforina è specifico delle cellule citotossiche professioniste (CTL e NK), la LT e il FasL sono utilizzati anche da altre cellule dotate di capacità citotossiche, come i linfociti TH1 e i macrofagi. Il ruolo cruciale del sistema della perforina è dimostrato dalla immunodeficienza manifestata dai topi resi deficienti per la perforina e dai pazienti affetti dalla linfoistocitosi emofagocitica, legata a mutazioni nel gene della perforina.

b) Le cellule NK

Le cellule NK sono linfociti non-T e non-B che non esprimono né Ig né TCR, maturano nel midollo osseo e fanno parte dell’immunità aspecifica o innata. Sono caratterizzate dalla capacità di uccidere le cellule bersaglio, in genere cellule infettate da virus o tumorali, senza bisogno di una fase di “sensibilizzazione”, ovvero senza avere mai visto il bersaglio in precedenza, e senza acquisire memoria. A differenza del CTL, la cellula NK è polireattiva, ovvero può contemporaneamente riconoscere cellule infettate da virus diversi e varie cellule tumorali. Infatti la cellula NK non riconosce un particolare antigene virale o tumorale, ma riconosce la ridotta espressione di molecole MHC di classe I da parte di queste cellule, che stanno cercando di sottrarsi al riconoscimento da parte dei CTL. Il riconoscimento è legato all’azione di particolari recettori di membrana detti KIR (killer inhibitory receptors), i quali si legano alle molecole MHC di classe I delle cellule normali e trasmettono alla cellula NK un segnale inibitorio che impedisce l’uccisione del bersaglio. Se le la cellula bersaglio non esprime MHC di classe I, i KIR non trasmettono il segnale inibitorio e la cellula NK attiva il meccanismo di uccisione del bersaglio utilizzando vari recettori attivatori, detti NCR (natural cytotoxicity receptors) o anche KAR

(Killer activatory receptors) che legano vari tipi di molecole sulle cellule bersaglio tra cui spiccano varie molecole di stress cellulare. Esistono vari KIR diversi, capaci di riconoscere molecole MHC di classe I diverse ed espressi da sottopopolazioni diverse di cellule NK. I meccanismi di uccisione del bersaglio della cellula NK sono gli stessi utilizzati dal CTL: perforina/granzimi, LT e FasL. Come visto nella sezione dedicata alle funzioni degli anticorpi, la cellula NK può anche sviluppare un’attività di citotossicità cellulo-mediata anticorpo dipendente (ADCC) riconoscendo IgG legate alla superficie della cellula bersaglio, utilizzando il recettore FcγR-III (CD16).

Page 27: L’IMMUNITA’ - Il-Cubo · 2020-03-30 · 1 L’IMMUNITA’ Le macromolecole di cui i vari organismi sono formati hanno, nella maggior parte dei casi, struttura e configurazione

27

L’attività citotossica delle cellule NK è potenziata da citochine come la IL-2; le cellule NK così attivate sono anche dette LAK

(lymphokine-activated killer cells) c) I linfociti Tγδ

I linfociti Tγδ rappresentano una piccola frazione dei linfociti T circolanti nel sangue e negli organi linfatici secondari (circa il 5% nell’uomo). Possono esprimere CD8 oppure essere CD4/CD8 negativi. Viceversa essi sono una componente importante di una particolare popolazione di linfociti T localizzati all’interno degli epiteli, soprattutto epidermide e intestino, denominati linfociti

intaepiteliali (IEL). Nel topo i linfociti Tγδ rappresentano oltre il 90% degli IEL, mentre nell’uomo gli IEL sono in pari numero Tγδ e Tαβ. La funzione dei linfociti Tγδ è prevalentemente citotossica. Vari dati indicano che i linfociti Tγδ possono riconoscere antigeni in forma nativa (come fanno gli anticorpi), indipendentemente dalla processazione e presentazione da parte delle APC. In effetti sono stati descritti linfociti Tγδ che riconoscono direttamente una proteina del virus herpes simplex o l’estratto micobatterico detto PPD (derivato proteico purificato). Altri Tγδ riconoscono substrati fosforilati, come l’isopentilpirofosfato micobatterico. Nel topo è stato osservato che i linfociti Tγδ tendono ad esprimere un repertorio di TCR poco variabile e specifico per ciascun tessuto. Poiché il PPD micobatterico ha omologie con una serie di proteine espresse dalle cellule sotto stress, dette proteine di shock termico (HSP, heat

shock protein), è stato anche proposto che i linfociti Tγδ avrebbero la funzione principale di uccidere le cellule danneggiate nei tessuti epiteliali “di barriera”, funzionando nella risposta immediata all’agente invasore in sinergia con i classici meccanismi dell’imunità innata.

5-Memoria Immunitaria Cellulare

Come nel caso della risposta umorale, anche per i linfociti T la fase effettrice della risposta immunitaria è seguita da una fase di

memoria grazie alla quale la risposta secondaria all’antigene è molto più rapida ed efficace di quella primaria. Anche nel caso dei linfociti T alla base della memoria sta l’espansione clonale di una popolazione di linfociti T memoria che è in grado di rispondere all’antigene più efficacemente di quelli vergini. Tuttavia, nel caso dei linfociti B le basi molecolari della memoria sono ormai note e sono legate allo switch isotipico e alla maturazione d’affinità degli anticorpi, che migliorano la qualità intrinseca degli anticorpi per quell’antigene. Viceversa, nel caso dei linfociti T i meccanismi che rendono più efficace la cellula memoria sono ancora poco definiti e non sembrano coinvolgere modificazioni intrinseche del TCR, in quanto questo non va incontro né a switch isotipico né a maturazione d’affinità. In effetti è opinione comune che una eventuale maturazione d’affinità del TCR avrebbe poche probabilità di essere vantaggiosa per il linfocita T, vista la complessità del riconoscimento dell’antigene da parte del TCR. Inoltre essa comporterebbe il rischio della possibile autoreattività del nuovo TCR, che sarebbe più pericoloso rispetto a una Ig autoreattiva dal momento che i linfociti T sono il vero “motore” della risposta immunitaria. Infatti è estremamente improbabile che un linfocita B autoreattivo attivi una risposta efficace in assenza di un corrispondente linfocita TH autoreattivo. Viceversa un linfocita TH autoreattivo può essere sufficiente per innescare una risposta autoimmuni cellulo-mediata. Nonostante la mancanza della maturazione d’affinità del TCR, studi in vitro dimostrano che il linfocita T memoria risponde comunque con maggior facilità di quello vergine all’antigene, rispondendo a dosi inferiori di quest’ultimo e richiedendo una minor quantità di segnali costimolatori. L’opinione oggi più diffusa è che la maggior efficienza dei linfociti T memoria risieda nella migliore organizzazione del complesso sistema delle molecole che cooperano col TCR nella trasduzione del segnale di attivazione. Questo sistema coinvolge oltre al complesso TCR/CD3 anche altre molecole di membrana (CD4/CD8, CD45, CD2, CD28 e altre) nonché molecole intracellulari (tirosino cinasi, molecole adattatrici, fosfolipasi e altre) la cui cooperazione è più efficiente nelle cellule memoria che in quelle vergini. Pertanto nei linfociti T si verificherebbe una sorta di “maturazione di affinità” non tanto del recettore per l’antigene, ma piuttosto della cellula nel suo insieme.

5-Superantigeni

I superantigeni sono un tipo particolare di antigeni che sono riconosciuti dai linfociti T in associazione a molecole MHC di classe II, ma senza essere stati endocitati e processati dalle APC. In sostanza essi sono molecole (prodotte da batteri e virus) che sono capaci di legarsi da un lato alla regione variabile della catena β di alcuni TCR, dall’altro ad alcune molecole MHC di classe II al di fuori del solco per l’antigene. Ad esempio la enterotossina stafilococcica SEB si lega da un lato a tutti i TCR che utilizzano i frammenti genici Vβ3, Vβ12, Vβ14, Vβ15, Vβ17 o Vβ20 (indipendentemente dalla restante parte della regione variabile, comprese le regioni ipervaribili), dall’altro alle molecole MHC di classe II. Similmente la tossina della sindrome da shock tossico TSST-1, prodotta dallo stafilococco aureo, lega i TCR che utilizzano Vβ2 e le molecole MHC di classe II. Pertanto ciascun superantigene è riconosciuto ed è in grado di attivare un numero di linfociti T enormemente superiore rispetto a un antigene normale, agendo in sostanza come un attivatore policlonale dei linfociti T. Non è chiaro se la presenza dei superantigeni si spieghi con l’adattamento del sistema immunitario a rispondere ad antigeni molto rappresentati tra i patogeni oppure se sia un sistema di immunoelusione, evoluto dai patogeni per sviare la risposta immunitaria specifica da bersagli più cruciali. Appare tuttavia chiaro che l’avvelenamento da cibo indotto dalle enterotossine stafilococciche e lo shock tossico indotto da TSST-1 sono strettamente legate alla produzione incontrollata di citochine indotte dalla massiva attivazione di linfociti T a livello gastroenterico indotto da questi superantigeni.

LA RISPOSTA IMMUNITARIA SPECIFICA

a) Risposta innata

Il superamento delle difese di barriera da parte di un antigene è seguito dalla messa i opera dei meccanismi immunitari volti alla sua eliminazione. Inizialmente viene attivato il sistema dell’immunità innata, primariamente il sistema dei macrofagi. Il livello di attivazione di questo sistema dipenderà in gran parte dal livello di danno tessutale e di infiammazione indotto dall’antigene. Gli antigeni che producono elevati livelli di danno e che sono ben riconosciuti dai “recettori di riconoscimento di spettro” dei macrofagi inducono una potente attivazione di queste cellule, con produzione di citochine e derivati dell’acido arachidonico, capaci da un lato di

Page 28: L’IMMUNITA’ - Il-Cubo · 2020-03-30 · 1 L’IMMUNITA’ Le macromolecole di cui i vari organismi sono formati hanno, nella maggior parte dei casi, struttura e configurazione

28

attivare altri macrofagi e cellule dendritiche tessutali, dall’altro di agire sulle cellule endoteliali dei vasi in modo da richiamare dal sangue granulociti e fattori umorali coinvolti nella reazione infiammatoria acuta, come il complemento, il sistema delle chinine, il sistema della coagulazione e le proteine di fase acuta. Questa fase può essere più o meno predominante a seconda del livello di attivazione dei macrofagi ed è favorito dall’intervento dei mastociti.

b) Attivazione della risposta specifica I macrofagi e le cellule dendritiche aumentano i livelli di espressione delle molecole MHC e delle molecole costimolatorie, come

il B7, lasciano il tessuto e raggiungono i linfonodi loco-regionali attraverso la linfa, dove attivano i linfociti T che sono indotti a proliferare e a differenziare a CTL, TH1 o TH2. In questa fase, l’attivazione dei TH ha un ruolo cruciale per la successiva organizzazione della risposta, in quanto la prevalente differenziazione verso i TH1 favorisce lo sviluppo di una risposta cellulo-mediata, mentre la differenziazione verso i TH2 favorisce lo sviluppo di una risposta anticorpale. Infatti la linfa veicola nei linfonodi anche campioni di antigeni in forma nativa, che sono riconosciuti dai linfociti B, i quali si attivano, proliferano e differenziano a plasmacellule secernenti anticorpi e a cellule memoria. In questo processo ha un ruolo cruciale l’interazione diretta del linfocita B con i linfociti TH che sono specifici per antigeni presentati dallo stesso linfocita B. Infatti il legame dell’antigene alle Ig di superficie del linfocita B non trasmette solo un segnale di attivazione al linfocita B, ma induce anche l’endocitosi dell’antigene, la cui componente proteica viene quindi processata e presentata su molecole MHC di classe II. I linfociti TH specifici per questi peptidi si legano al linfocita B e influenzano la sua attivazione e differenziazione mediante interazioni tra molecole di superficie delle due cellule (ad esempio CD40L dei TH e CD40 dei linfociti B) e mediante la produzione di citochine. In questo modo il TH favorisce l’attivazione del linfocita B e ne condiziona la differenziazione verso una plasmacellula o una cellula memoria e lo switch isotipico verso l’una o l’altra classe di Ig.

Questa interazione tra linfociti B e linfociti TH avviene nelle risposte immunitarie classiche, che sono anche dette timo dipendenti (TD) per sottolineare il ruolo cruciale svolto dai linfociti TH. Le risposte ad alcuni antigeni particolari sono invece dette timo

indipendenti (TI) in quanto non richiedono l’intervento dei TH. Queste sono indotte in genere da antigeni particolari, caratterizzati dalla capacità di legare non solo le Ig di superficie, ma anche molecole corecettoriali in grado di potenziare enormemente l’attivazione del linfocita B (antigeni TI di tipo 1). Altri antigeni TI (detti di tipo 2) sono caratterizzati dalla presenza di epitopi ripetuti numerose volte sulla particella antigenica. Ne sono esempi proteine polimeriche, come la flagellina batterica, e polisaccaridi della parete batterica. Questa caratteristica fa sì che questi antigeni possano ingaggiare contemporaneamente numerose Ig sulla superficie dei linfociti B specifici per questi epitopi e possano trasmettere così un segnale di attivazione estremamente potente che non richiede l’attività helper dei linfociti TH. In totale assenza di risposta TH le risposte timo indipendenti non producono switch isotipico né maturazione di affinità.

La fase di attivazione della risposta negli organi linfatici secondari corrisponde alla fase di latenza della risposta immunitaria.

b) Fase effettrice della risposta specifica

Gli anticorpi secreti dalle plasmacellule e i linfociti T attivati vengono riversati nel sangue e raggiungono la sede di infezione dove rendono estremamente più efficiente l’eliminazione dell’agente invasore. Gli anticorpi agiscono principalmente sugli antigeni extracellulari neutralizzandoli e favorendo la loro eliminazione grazie alla opsonizzazione e all’attivazione del complemento. I CTL agiscono principalmente sulle cellule infettate da virus, inducendo la loro morte per apoptosi, coadiuvati dalle cellule NK che uccidono le cellule che cercano di sottrarsi al riconoscimento da parte dei CTL riducendo l’espressione di MHC di classe I. I linfociti TH1 agiscono principalmente sui macrofagi potenziando la loro capacità di uccidere i microrganismi fagocitati. L’intervento dei linfociti CTL e TH1 determina un cambiamento del tipo di infiltrato cellulare nel tessuto sede della risposta, con sviluppo di un quadro di infiammazione cronica in cui prevalgono i linfociti e i macrofagi.

c) Spegnimento della risposta specifica

L’eliminazione dell’antigene determina una riduzione dell’attivazione cellulare con calo dei livelli locali di citochine importanti per mantenere in vita i linfociti, come ad esempio la IL-2 per i linfociti T. Il venir meno di questi fattori trofici determina la morte per apoptosi di gran parte dei linfociti effettori generati nel corso della risposta. Questo evento è fondamentale per impedire che i successivi cicli di attivazione immunitaria determinino un progressivo accumulo nell’organismo dei linfociti espansi. Questo processo non sarebbe garantito solo dall’esaurimento dell’antigene, ma sembra che coinvolga anche sistemi di spegnimento attivo della risposta, indipendenti dal calo dei fattori trofici. Il sistema meglio conosciuto è quello del Fas/FasL. Dopo alcuni giorni dalla loro attivazione, i linfociti effettori rendono attivo sulla loro superficie l’interruttore di apoptosi Fas, di cui si è già parlato a proposito della citotossicità cellulo-mediata. L’interazione di Fas con FasL espresso da altre cellule immunitarie o da cellule dei tessuti induce la morte per apoptosi del linfocita effettore. Altri sistemi di spegnimento attivo della risposta sono quello di CTLA-4 e PD-1. CTLA-4 è un recettore della stessa famiglia di CD28 e lega gli stessi ligandi di quest’ultimo (B7-1 e B7-2). A differenza di CD28, però, CTLA-4 è espresso solo vari giorni dopo l’attivazione del linfocita T e trasmette un segnale negativo che “spegne” il linfocita attivato. Un’azione simile ha anche PD-1 che è espresso dai linfociti T attivati e ne induce la morte in seguito alla interazione col suo ligando (PD-1L), appartenente anch’esso alla famiglia B7. L’importanza di questi meccanismi di spegnimento della risposta immunitaria è dimostrata dalla sindrome autoimmune linfoproliferativa (ALPS), una malattia ereditaria dovuta a mutazioni che inattivano Fas e caratterizzata dal progressivo accumulo di linfociti non neoplastici negli organi linfatici secondari e dallo sviluppo di malattie autoimmuni. Lo sviluppo di malattie autoimmuni suggerisce che lo spegnimento attivo della risposta immunitaria possa anche essere importante per mantenere la tolleranza al self, come sarà meglio trattato nella sezione dedicata alle malattie autoimmuni. Similmente, anche la carenza di CTLA-4 causa lo sviluppo di gravi quadri autoimmuni plurimi sia nell’uomo che nel topo.

d) Memoria immunologica

La morte dei linfociti effettori espansi durante la risposta immunitaria non riguarda tutti i linfociti, ma risparmia una certa percentuale di cellule che diventano linfociti memoria; questi saranno responsabili della migliore efficienza della risposta secondaria. Poiché il numero totale dei linfociti dell’organismo è costante nel corso della vita, il progressivo accumulo delle popolazioni di

Page 29: L’IMMUNITA’ - Il-Cubo · 2020-03-30 · 1 L’IMMUNITA’ Le macromolecole di cui i vari organismi sono formati hanno, nella maggior parte dei casi, struttura e configurazione

29

linfociti memoria viene “pagato” nel corso della vita con un progressivo calo dei linfociti vergini, legato ad una ridotta attività degli organi linfatici primari, particolarmente a livello del timo. Ne consegue che l’anziano ha una ridotta capacità rispetto al giovane di rispondere ad antigeni nuovi.

IMMUNOELUSIONE I microrganismi patogeni sviluppano vari meccanismi per sfuggire alla risposta immunitaria. Questi possono essere distinti in

alcuni principali, quali la variabilità dell’assetto antigenico, la mimetizzazione nell’ospite, la resistenza ai meccanismi effettori e la modulazione della risposta immunitaria. Alcuni microrganismi sono anche capaci di volgere a proprio vantaggio l’attivazione della risposta immunitaria. Di seguito sono riportati alcuni esempi.

a) Variabilità dell’assetto antigenico

-Alcuni microrganismi possono esistere in diverse forme antigeniche stabili (ceppi) che inducono una risposta immunitaria che non crossreagisce con gli altri ceppi (pneumococco, poliovirus, HPV) -Alcuni microrganismi presentano una rapida variabilità genetica (per deriva o commutazione antigenica) dovuta a frequenti mutazioni che colpiscono epitopi chiave per la risposta immunitaria (influenza, HIV); i nuovi epitopi generati dalle mutazioni non sono riconosciuti dalla memoria immunologica generata nei confronti dei vecchi epitopi. -Alcuni microrganismi sono dotati di un programma genetico che permette loro di modificare l’assetto antigenico utilizzando varianti diverse di geni che codificano per un antigene chiave per la risposta immunitaria. Ad esempio il tripanosoma possiede molte varianti del gene della proteina VSG e cambia la variante utilizzata quando questa è stata riconosciuta dalla risposta immunitaria.

b) Mimetizzazione nell’ospite

-Alcuni virus entrano in latenza dopo essersi integrati nel genoma dell’ospite; in questa fase producono pochissimi antigeni. -Molti virus inibiscono l’espressione delle molecole MHC di classe I da parte delle cellule infettate, il che ostacola il riconoscimento da parte dei CTL. Alcuni inducono anche l’espressione di molecole MHC di classe I non canoniche che inibiscono le NK (che altrimenti riconoscerebbero la ridotta espressione di MHC di classe I. -Toxoplasma gondii produce una membrana che lo isola da sistema immunitario. -Plasmodium malariae i “nasconde” dei globuli rossi -Alcuni stafilococchi producono una coagulasi che ricopre il batterio di fibrina.

c) Resistenza dei meccanismi effettori

- Lo Streptococcus piogenes produce la proteina M che inibisce la fagocitosi. I Micobatteri sono resistenti alla uccisione dopo la loro fagocitosi - Vari virus producono proteine (ad es simil a FLIP e alle IAP) che bloccano l’apoptosi delle cellule infettate, bloccando quindi il principale meccanismo di azione di CTL e NK. - La Neisseria gonorrhoeae produce una proteasi che distrugge le IgA - Il virus vaccinico produce un inibitore del C4b. Il virus Herpes simplex produce un inibitore del C3b. Lo Pseudomonas produce una elastasi che inibisce C3a e C5a. Alcuni Gram- producono il lipide A che inibisce la lisi.

d) Modulazione della risposta immunitaria verso sistemi effettori meno dannosi per il patogeno.

-Nelle fasi finali dell’infezione da HIV la risposta è spinta verso TH2 e non riesce più a sostenere una efficace risposta antivirale. -EBV produce BCFR-1, che ha un’azione simile a IL-10 -Stafilococchi, streptococchi e vari virus producono superantigeni che possono funzionare come “falsi bersagli” per la risposta immunitaria

a) Utilizzo a proprio vantaggio della risposta immunitaria

-EBV infetta e attiva i linfociti B che così possono produrre elevate quantità di particelle virali -HTLV-I e HIV infettano e attivano rispettivamente i linfociti B e T che così possono produrre elevate quantità di particelle virali -Il virus del tumore mammario murino (MMTV) arriva nell’intestino del cucciolo tramite il latte materno e infetta i linfociti B del MALT inducendo l’espressione di un superantigene che determina l’attivazione dei linfociti T che favoriscono l’attivazione dei linfociti B infettati. I linfociti T infettati attivati lasciano il MALT e migrano nella ghiandola mammaria dove producono elevate quantità di virus che infetta l’epitelio mammario.

VACCINAZIONE.

L’immunizzazione con antigeni induce una risposta che è detta immunità attiva, in quanto implica la diretta partecipazione dell'organismo a un meccanismo di difesa. Se l'antigene era un microrganismo patogeno, la risposta immunitaria è uno degli elementi più importanti di guarigione. La risposta immunitaria, però, non è determinata dalla malattia in sé, ma soltanto dal contatto con gli antigeni. Ne consegue che un contatto con antigeni derivati da un microrganismo può evocare una risposta immunitaria in grado di proteggere dalla malattia, anche al di fuori della vitalità e della infettività del materiale usato per l’immunizzazione. Questo principio è sfruttato nella pratica della vaccinazione, che consiste nel trattare individui sani con antigeni di malattie infettive, allo scopo di indurre in essi uno stato di immunità e di renderli quindi incapaci di ammalarsi successivamente di quella malattia.

La pratica moderna della vaccinazione ha avuto inizio alla fine del '700, quando il medico inglese Jenner la introdusse come mezzo adatto a prevenire il vaiolo umano, che allora mieteva molte vittime in spaventose epidemie diffuse in tutto il mondo. La vaccinazione di Jenner consisteva nell'inoculazione in soggetti sani di materiale prelevato dalle pustole di vitelli ammalati di vaiolo vaccino. Questa tecnica partiva dalla constatazione che coloro i quali erano venuti a contatto con vitelli affetti da vaiolo vaccino, e se ne erano infettati, mostravano una malattia blanda, che presto guariva lasciando gli individui del tutto e definitivamente immuni anche nei confronti del vaiolo umano. La vaccinazione aveva il suo precedente nella pratica della variolizzazione, diffusa da secoli in Cina;

Page 30: L’IMMUNITA’ - Il-Cubo · 2020-03-30 · 1 L’IMMUNITA’ Le macromolecole di cui i vari organismi sono formati hanno, nella maggior parte dei casi, struttura e configurazione

30

consisteva nell'infettare soggetti sani con materiale prelevato da pustole di casi di vaiolo umano con decorso clinico benigno. La pratica dava buoni risultati, anche se non era del tutto sicura. Oggi si sa che gli agenti del vaiolo umano e di quello vaccino sono due virus diversi, fra loro strettamente correlati. L'infezione col virus del vaiolo vaccino dà nell'uomo un'infezione blanda, che ha la proprietà di proteggere verso una successiva infezione col virus umano. Grazie alla tecnica della vaccinazione, il vaiolo è stato ormai ufficialmente eradicato.

Dopo il vaccino antivaioloso, sono stati ottenuti molti altri preparati, capaci di proteggere da malattie infettive. Sono stati chiamati tutti, per estensione, vaccini. La pratica delle vaccinazioni, insieme con l'uso terapeutico degli antibiotici, ha valso a ridurre enormemente la mortalità per malattie infettive.

Per vaccino si intende qualsiasi sostanza, contenente gli antigeni specifici di agenti di malattie infettive, che sia capace di indurre nei soggetti trattati una immunità attiva, proteggendoli da successive infezioni. Nella definizione sono compresi due concetti fondamentali, cioè la presenza nel materiale usato di antigeni specifici e la loro efficacia profilattica.

Esistono vari tipi di vaccini, a seconda della natura del materiale che viene utilizzato per indurre l'immunità attiva e la prevenzione della malattia. Un primo grande gruppo di vaccini è quello costituito da microrganismi interi. Questi possono essere uccisi, oppure attenuati, ovvero viventi, ma sottoposti a procedimenti che abbiano ridotto la loro capacità di indurre malattia grave.

I vaccini uccisi sono prodotti uccidendo, per lo più con mezzi chimici che preservano l’antigenicità delle macromolecole, i microrganismi coltivati in vitro o, più raramente, nell’animale. Essi sono in genere molto immunogenici essendo costituiti da microrganismi antigenicamente complessi ed esprimenti molecole in grado di attivare direttamente i macrofagi. Pertanto la loro somministrazione determina in genere una buona risposta immunitaria. Poiché i microrganismi uccisi sono per lo più captati dai macrofagi e presentati su molecole MHC di classe II, essi inducono l’attivazione dei TH (prevalentemente TH2) e dei linfociti B e una conseguente risposta prevalentemente anticorpale. I vaccini uccisi devono essere in genere somministrati in più dosi, in quanto il contatto col sistema immunitario è di breve durata dal momento che il microrganismo ucciso viene eliminato rapidamente dai macrofagi

I vaccini attenuati sono classicamente prodotti facendo crescere per lungo tempo il patogeno in un terreno cui non è abituato. Questa coltura determinerà la selezione di ceppi del patogeno gradualmente adattati al nuovo terreno, i quali risulteranno invece meno adatti a crescere nell’organismo di partenza. Il primo vaccino attenuato fu scoperto casualmente da Pasteur, il quale, isolò il germe responsabile del colera dei polli e riuscì con esso a riprodurre la malattia negli animali. Pasteur si accorse che se le colture del germe erano vecchie di alcune settimane, la malattia che compariva era blanda, permetteva la guarigione ed era seguita da una immunità duratura. Pasteur si dedicò quindi in modo sistematico all’applicazione di questa osservazione e produsse vari vaccini, tra cui quello antirabbico, che consiste di un estratto del sistema nervoso di conigli infettati con un virus attenuato in seguito a passaggio ripetuto su questo animale (virus fisso). Anche il vaccino di Jenner può essere considerato un vaccino attenuato naturale. Più recente è il vaccino antipoliomielitico attenuato di Sabin, costitutito da poliovirus attenuato mediante coltura su cellule di rene di scimmia. Questo vaccino, insieme al corrispondente vaccino anti-polio ucciso di Salk, ha praticamente eradicato la poliomielite. I vaccini attenuati hanno il vantaggio di produrre una infezione blanda simile alla infezione naturale. Da un lato questo permette un contatto prolungato del sistema immunitario con l’antigene, per cui in genere questi vaccini sono efficaci in dose singola; dall’altro lato questi vaccini permettono il reclutamento della risposta immunitaria più adatta per la eliminazione di quel patogeno. Questo è particolarmente cruciale per i virus attenuati, che possono infettare le cellule dendritiche ed essere presentati su molecole MHC di classe I, inducendo una risposta cellulo-mediata oltre che quella anticorpale. Poiché sono costituiti da microrganismi vivi, i vaccini attenuati presentano però il rischio di produrre una malattia conclamata in alcuni soggetti. Questo può verificarsi a causa di uno stato di immunodeficienza del soggetto, che impedisce il controllo dell’infezione prodotta dal patogeno attenuato. Inoltre esiste il rischio che il microrganismo attenuato abbia una reversione alla virulenza nel corso della sua attività infettiva in un soggetto sano. Quest’ultima possibilità è legata al fatto che l’attenuazione è per lo più legata a mutazioni puntiformi che vengono fissate su singoli geni nel corso della procedura di attenuazione e che possono contromutare durante l’uso del vaccino. Per questo motivo si stanno producendo vaccini che vengono attenuati mediante procedure di ingegneria genetica volte ad eliminare del tutto il gene responsabile della virulenza. In questa situazione l’attenuazione risulta molto più stabile e i rischi di reversione sono minimi.

Altri vaccini sono costituiti da molecole purificate del patogeno. Il classico esempio è rappresentato dalle anatossine, cioè esotossine batteriche purificate e private del loro potere tossico, ma ancora capaci di indurre immunità grazie alla persistenza del potere antigenico. Le più note e usate sono le anatossine difterica e tetanica, che classicamente sono detossificate per trattamento chimico. Anche in questo caso si stanno sviluppando vaccini di nuova generazione in cui la detossificazione viene assicurata eliminando mediante ingegneria genetica la parte tossica della tossina. Questo è ad esempio il caso del nuovo vaccino acellulare antipertosse. Il vantaggio di questo tipo di detossificazione è prevalentemente industriale, in quanto elimina i rischi legati alla produzione di grandi quantità di prodotti estremamente pericolosi, come le esotossine attive. Le tecnologie del DNA ricombinante sono anche state utilizzate per produrre vaccini contro patogeni che non potevano essere coltivati in grandi quantità, come il virus dell’epatite B. In questo caso il gene per l’antigene Australia del virus è stato clonato, espresso in lievito e quindi purificato. Come nel caso dei vaccini uccisi, anche quelli costituiti da molecole purificate inducono una risposta prevalentemente anticorpale, in quanto sono endocitati dalle APC e presentati esclusivamente su MHC di classe II. Inoltre l’immunogenicità della molecola purificata deve essere potenziata mediante l’uso di adiuvanti.

Le tecniche dell’ingegneria genetica hanno poi aperto la strada allo studio di vaccini attenuati costituiti da vettori ricombinanti, ovvero vettori virali o batterici (ad esempio il virus vaccinico o la salmonella) in cui sono stati inseriti geni che codificano antigeni di altri microrganismi. Altri vaccini in sperimentazione sono costituiti da “DNA nudo” ovvero un semplice plasmide di espressione eucariote portatore del gene dell’antigene. Il plasmide purificato, iniettato intramuscolo, viene sorprendentemente captato dalle cellule del tessuto ed espresso per lunghi periodi di tempo determinando una risposta che può essere sia anticorpale sia cellulare.

Il livello di protezione assicurato da un vaccino dipende non solo dal suo livello di immunogenicità, ma anche dal tipo di risposta immunitaria che riesce ad indurre e dalla sede della risposta. Ad esempio, se la protezione nei confronti delle esotossine è garantita in modo ottimale da una risposta anticorpale, nel caso dei virus sarà utile ottenere anche una risposta CTL. Quest’ultima sarà più importante per i virus con un lungo periodo di incubazione, come il poliovirus, che per quelli con incubazione molto breve, come quello influenzale. In quest’ultimo caso infatti l’attivazione dei CTL, che richiede alcuni giorni anche in presenza di memoria

Page 31: L’IMMUNITA’ - Il-Cubo · 2020-03-30 · 1 L’IMMUNITA’ Le macromolecole di cui i vari organismi sono formati hanno, nella maggior parte dei casi, struttura e configurazione

31

immunologica, non riesce a impedire lo sviluppo della malattia, ma potrà solo contribuire a una più rapida guarigione. L’importanza della sede della risposta è evidente nel caso dell’infezione da poliovirus, che infetta a livello del tratto gastroenterico. Il vaccino ucciso di Salk viene somministrato per via parenterale e induce una buona risposta di IgG sieriche, che risulta però meno efficace delle IgA secrete a livello della mucosa intestinale indotte dal vaccino attenuato di Sabin, somministrato per via orale. Questa caratteristica si somma alla capacità del vaccino di Sabin, ma non di quello di Salk, di indurre una efficace risposta cellulo-mediata.

Il trasporto passivo dell'immunità. La sieroterapia.

Gli anticorpi solubili possono essere trasportati da un soggetto ad un altro mediante semplici iniezioni. Il ricevente viene quindi fornito di anticorpi specifici che, pur essendo stati prodotti da un altro organismo, mantengono la capacità di reagire con l'antigene. La protezione immunitaria che viene indotta è detto passiva, giacché non implica una reattività propria da parte dell'ospite. La scoperta della possibilità del trasporto passivo spetta a Behring e Kitasato, i quali riuscirono a preparare il siero antidifterico, inoculando in cavalli quantità subliminali di esotossina. Il siero immune veniva poi trasferito nei piccoli ammalati di difterite. Una forma naturale di immunizzazione passiva è quella praticata dalla madre, che trasferisce le proprie IgG al feto attraverso la placenta. Il neonato sarà così protetto nei confronti dei principali patogeni per i primi sei mesi di vita.

Ancora oggi gli antisieri vengono usati nella terapia di varie malattie sostenute da microrganismi che producono esotossine, come la difterite, il tetano, la cancrena gassosa, il botulismo, certe infezioni streptococciche. Sono detti sieri antitossici. Sono sieri antitossici anche gli antiofidici (contro il veleno dei serpenti), gli anti-scorpionici e gli anti-ragno. I sieri più utilizzati, come quello anti-tetanico, sono oggi prodotti da IgG umane, purificate da soggetti vaccinati con il tossoide tetanico. Questi anti-sieri umani presentano il vantaggio di essere scarsamente antigenici e di indurre pertanto una scarsa risposta anti-anti-siero. Viceversa gli anti-sieri eterologhi, prodotti da animali (maiale, cavallo, capra), sono altamente antigenici e presentano il rischio di indurre rezioni di ipersensibilità, come la malattia da siero e lo shock anafilattico che saranno descritte nel paragrafo sulle ipersensibilità.

Un tipo particolare di immunizzazione passiva è quello che utilizza Ig umane totali, purificate da grandi gruppi di donatori. Questo prodotto viene utilizzato per assicurare le difese anticorpali medie della popolazione generale a individui affetti da immunodeficienze di tipo anticorpale, oppure per proteggere da infezioni specifiche soggetti a rischio. Ad esempio possono essere utilizzati per proteggere dalla rosolia donne gravide non immuni che sono state esposte al contagio, per ridurre il rischio di infezione a carico del feto.

L'efficacia della immunizzazione passiva dura soltanto per il tempo in cui restano nel siero gli anticorpi iniettati. Questi sono proteine e vengono catabolizzati abbastanza rapidamente. Nel caso dei sieri eterologhi, raramente lo stato di immunità supera i 15-20 giorni, in quanto le proteine eterologhe inducono una potente risposta immunitaria che elimina gli anticorpi iniettati. La protezione è invece di maggior durata nel caso di antisieri di origine umana. E’ evidente che la sieroterapia rappresenta soltanto un rimedio di emergenza, al quale è da preferirsi, quando possibile, la immunizzazione attiva.

IL DANNO IMMUNOLOGICO

Come si è accennato all'inizio del capitolo gli eventi in rapporto con la produzione degli anticorpi non hanno sempre come conseguenza una difesa, ma possono portare a risultati dannosi e talvolta anche alla morte. Il danno immunologico non ha sempre la stessa patogenesi. Esso si articola infatti in una serie di fenomeni che, pur avendo sempre alla base la reazione fra l'antigene e gli anticorpi o i linfociti T, possono assumere aspetti diversi. Una prima distinzione deve essere fatta fra le malattie autoimmuni e i fenomeni di ipersensibilità. Nei primi le difese immunitarie sono dirette verso antigeni dello stesso organismo (autoantigeni). I fenomeni di ipersensibilità, invece, esprimono una particolare reattività di fronte ad antigeni esterni (eteroantigeni).

La classificazione di Gell e Coombs distingue 4 tipi di ipersensibilità sulla base del loro meccanismo immunopatogenetico. Le reazioni di tipo I sono mediate da IgE; 2) le reazioni di tipo II da IgG o IgM citotossiche; 3) le reazioni di tipo III da immunocomplessi; 4) le reazioni di tipo IV da linfociti TH1 e CTL. A loro volta le malattie autoimmuni possono produrre il danno tessutale con meccanismi immunopatogenetici simili a quelli delle ipersensibilità di II, III e IV tipo. Nessuna malattia autoimmune è invece mediata da IgE.

Fenomeni di ipersensibilità.

Per ipersensibilità immunitaria si intendono tutti i fenomeni patologici in rapporto con l'incontro di antigeni non self con il sistema immunitario specifico. Sinonimo di ipersensibilità è iperreattività o allergia. Esistono due forme fondamentali di danno immunologico in rapporto con l'incontro nell'organismo di antigeni col sistema immunitario: quella in cui il danno è mediato da anticorpi solubili (Ig) e quelli in cui è mediato dalla immunità cellulo-mediata, essenzialmente linfociti TH1 e CTL. Nel primo caso i fenomeni allergici sono trasferibili passivamente col siero da un soggetto all’altro, nel secondo non sono trasferibili col siero, ma solo con i linfociti T (solo però tra animali singenici). Inoltre il danno compare nel primo caso entro pochi minuti o, al massimo, entro poche ore, in quanto gli anticorpi sono già pronti a reagire. Viceversa nel secondo caso il danno richiede 24-72 ore per manifestarsi, ovvero il tempo necessario per l’attivazione e differenziazione a cellule effettrici dei linfociti T coinvolti; in questo caso si parla anche di ipersensibilità ritardata e i linfociti coinvolti sono detti linfociti T dell’ipersensibilità ritardata o TDTH (delayed type

hypersensitivity). In tutte le reazioni di ipersensibilità si distinguono tre stadi: la sensibilizzazione ovvero l’episodio in cui il contatto con l’antigene innesca la risposta immunitari; il periodo di latenza ovvero il periodo necessario per lo sviluppo dei sistemi effettori dell’ipersensibilità; ed infine lo scatenamento della reazione, che avviene ad un successivo incontro con l’antigene. Ipersensibilità di I tipo

Nel 1902 Portier e Richet descrissero per la prima volta un fenomeno che essi chiamarono anafilassi, termine che significa il contrario di protezione (profilassi). Studiando la tossicità per il cane di estratti di un'Attinia (Celenterato Antozoo), questi Autori osservarono

Page 32: L’IMMUNITA’ - Il-Cubo · 2020-03-30 · 1 L’IMMUNITA’ Le macromolecole di cui i vari organismi sono formati hanno, nella maggior parte dei casi, struttura e configurazione

32

che alcuni animali possono morire entro 3-4 giorni, purché la dose di estratto iniettata sia sufficiente. Se dopo qualche settimana si ripete nei sopravvissuti lo stesso trattamento, i cani muoiono invece immediatamente, con una sindrome di collasso cardiocircolatorio accompagnato da diarrea sanguinolenta. Il primo trattamento, quindi, anziché proteggere gli animali, li sensibilizza all'azione dell'estratto. Qualche anno dopo, Theobald Smith osservò un fenomeno simile in cavie trattate con siero antidifterico mescolato con tossina, in modo da dare un miscuglio non tossico. Le cavie resistevano senza sofferenza apparente alla prima inoculazione, ma morivano con un grave quadro di collasso cardiocircolatorio e di asma bronchiale, se l'esperimento veniva ripetuto dopo qualche tempo. Dapprima ci fu incertezza sull'interpretazione, giacché sia Portier e Richet che Smith avevano inoculato sostanze di per sé tossiche. Ben presto però Otto dimostrò che il fenomeno non dipendeva dalla attivazione delle tossine o da una minore resistenza acquisita verso di esse, ma soltanto dal rinnovato contatto con l'antigene. Il fenomeno, infatti, si poteva ottenere nella cavia anche senza tossine, con la semplice reiniezione di un antigene innocuo, come il siero normale di cavallo. Da queste prime osservazioni si è sviluppata la dottrina dell'anafilassi. A seconda dell’estensione dell’interessamento dell’organismo, la reazione anafilattica può essere sistemica (come quelle descritte dai primi autori) o localizzata, detta anche atopia. Nel primo caso rientra lo shock anafilattico e varie manifestazioni ad esso collegate, nel secondo caso rientrano l’asma bronchiale, la rinite allergica (“febbre da fieno”), la dermatite atopica (eczema) e le allergie alimentari.

1-Mediatori dell’anafilassi

In tutti i casi le manifestazioni anafilattiche sono legate alla produzione di IgE (dette anche reagine) contro antigeni non self, detti anche allergeni. Le cellule chiave nelle manifestazioni allergiche sono i mastociti, i quali hanno la capacità di legare sulla membrana le IgE solubili utilizzando il loro recettore ad alta affinità per il frammento Fc delle IgE (FcεR-I). Nella fase di sensibilizzazione il soggetto entra in contatto con l’allergene e sviluppa contro di esso una risposta immunitaria anticorpale con produzione di IgE. Queste IgE vanno a legarsi sugli FcεR-I dei mastociti e li sensibilizzano. Quando il soggetto entra nuovamente in contatto con l’allergene, questo si lega alle IgE adsorbite sui mastociti, il che stimola gli FcεR-I che trasmettono al mastocita un segnale di attivazione attraverso l’attivazione di tirosino chinasi e fosfolipasi C. La prima risposta del mastocita consiste nella degranulazione, con liberazione di istamina, che media la fase immediata (la più evidente) della reazione allergica. L’istamina esercita una azione istantanea sui vasi (vasodilatazione e aumento della permeabilità vascolare), induce la contrazione della muscolatura liscia dei bronchi e dell’intestino e la secrezione delle cellule mucipare delle mucose. La maggior parte di queste azioni si esercita sui recettori H1. Il segnale di attivazione trasmesso dagli FcεR-I determina anche la neosintesi e secrezione da parte dei mastociti di derivati dell’acido arachidonico (prostaglandine e soprattutto leucotrieni) e varie citochine. Questi mediatori sono coinvolti nella fase ritardata della reazione. I leucotrieni corrispondono alle sostenze che un tempo erano chiamate slow reacting substance (SRS) e causano broncocostrizione, aumento della permeabilità vascolare e della secrezione di muco. La prostaglandina D2 causa broncocostrizione e stimola la secrezione mucosa. Tra le varie citochine prodotte di mastociti sembrano avere particolare importanza la IL-4, che favorisce la produzione di IgE da parte dei linfociti B, la differenziazione dei TH verso i TH2 e TH9 e la proliferazione dei mastociti; la IL-5, che richiama e attiva gli eosinofili; la IL-1 e il TNFα, che hanno un’azione proinfiammatoria e possono intervenire nello shock; le chemochine eotassina e RANTES, che esercitano azione chemotattica su eosinofili e neutrofili. Inoltre i mastociti producono il PAF, che esercita azione chemotattica sui leucociti, azione proaggregante sulle piastrine e induce la contrazione del muscolo liscio. 2-Anafilassi sistemica

Le manifestazioni dell’anafilassi sistemica constano di un quadro generale assai simile nelle varie specie animali, lo shock

anafilattico, e di alterazioni localizzate a distretti particolari, variabili a seconda della specie. Gli organi di volta in volta interessati da queste manifestazioni locali sono detti organi di shock. L’anafilassi sistemica si sviluppa se l’organismo viene in contatto con sufficienti quantità di allergene che si distribuisce a livello sistemico. Questo è il caso, nell’uomo, delle reazioni a farmaci somministrati per via parenterale o, più raramente per os, o delle punture di insetti come le api. Nel cane l'organo di shock è il fegato, ed in particolare la muscolatura liscia delle vene sovraepatiche. La contrazione che vi si verifica impedisce il deflusso del sangue dal distretto portale. Il fegato diviene congesto ed aumenta il suo volume. Un'intensa congestione si verifica anche nei distretti a monte; ne conseguono vomito e diarrea sanguinolenta, cioè i segni che Portier e Richet osservarono nei loro animali trattati con estratti di Attinie. Nella cavia l'organo di shock è la muscolatura liscia concentrica dei bronchioli. L'animale va incontro a sintomatologia asmatica con intensa dispnea. La contrazione della muscolatura bronchiale rende infatti difficoltosi sia l'ingresso che l'uscita dell'aria. Poiché però l'inspirazione è un fenomeno attivo, condizionato dalla contrazione di muscoli assai robusti, mentre l'espirazione è prevalentemente un fenomeno passivo, in quanto i muscoli espiratori sono meno efficienti di quelli inspiratori, è maggiore la quota di aria che riesce ad entrare di quella che riesce ad uscire dal polmone. Ne consegue un aumento del contenuto totale di aria nell'organo (enfisema

polmonare). All'autopsia il polmone tende ad espandersi, anziché a collassarsi come normalmente accade. L'aumentata pressione dell'aria negli alveoli comprime i setti interalveolari, al punto da romperli; al tempo stesso, provoca compressione sui capillari, nei quali il sangue non riesce a circolare. Aumenta quindi improvvisamente e fortemente il carico della sezione destra del cuore, che si trova a dover sospingere il sangue contro una forte pressione. L'animale muore per insufficienza cardiaca, ed anche per le conseguenze dell'ipossia, giacché il sangue, non arrivando regolarmente ai polmoni, resta scarsamente ossigenato. Nel coniglio l'organo di shock è un cercine muscolare liscio posto in corrispondenza della base dell'arteria polmonare. La sua contrazione aumenta enormemente il lavoro della sezione destra del cuore, con conseguente insufficienza ventricolare acuta. Al quadro collaborano anche microtrombi di complesso immune, di piastrine e di leucociti, che fanno la loro comparsa nei capillari polmonari. Nel ratto, nel quale lo shock anafilattico ha aspetti meno tipici, è considerato organo di shock l'intestino, la cui motilità aumenta ed in cui compare edema abbastanza intenso. Nell'uomo l'organo di shock è da taluni considerato la cute, giacché frequentemente compaiono lesioni di tipo orticarioide sulla pelle; esiste però anche una sintomatologia asmatica e si può verificare edema della glottide.

Page 33: L’IMMUNITA’ - Il-Cubo · 2020-03-30 · 1 L’IMMUNITA’ Le macromolecole di cui i vari organismi sono formati hanno, nella maggior parte dei casi, struttura e configurazione

33

La comune caratteristica degli organi di shock nelle varie specie animali è costituita dalla natura di muscolo liscio delle strutture sensibili. Il quadro generale comune a tutte le specie è lo shock, cioè una profonda alterazione funzionale del circolo, caratterizzata da diffusa vasodilatazione e da forte aumento della permeabilità capillare. In conseguenza della vasodilatazione si ha diminuzione della pressione. Il maggiore afflusso di sangue ai vasi superficiali, determinato dalla vasodilatazione, porta ad aumentata dispersione calorica e quindi ad ipotermia. Per effetto dell'aumento della permeabilità dei capillari, diminuisce la parte liquida del sangue ed aumenta relativamente quella figurata; ne consegue la inspissatio sanguinis, con aumento della viscosità. Il cuore si trova allora a dover affrontare un sforzo superiore al normale per l'ampliamento del letto circolatorio, la diminuita prestazione della muscolatura delle arterie e l'aumento della viscosità. Queste condizioni, insieme con l'ipossia dei centri nervosi, possono essere responsabili della morte. A carico dei globuli bianchi e delle piastrine si osservano altre alterazioni, che fanno parte del quadro della crisi emoclasica di

Widal. Il numero dei globuli bianchi tende infatti a diminuire nel sangue periferico, giacché essi tendono ad affluire nelle aree ove si trovano i complessi immuni. Diminuisce anche il numero delle piastrine, che restano invischiate nelle zone vascolari ove si formano gli aggregati dell'antigene con l'anticorpo. Per questa diminuzione delle piastrine, ma soprattutto per la comparsa nel sangue di discrete quantità di eparina, che ha azione anticoagulante e viene liberata dai granuli dei mastociti, il tempo di coagulazione aumenta. Il quadro dello shock anafilattico può essere trasferito passivamente da un animale sensibilizzato a uno normale per mezzo del siero: si parla allora di anafilassi passiva. 3-Anafilassi localizzata (atopia)

Il termine atopia fu usato in origine da Coca per definire un insieme di manifestazioni morbose dell'uomo, dipendenti da ipersensibilità verso alcuni antigeni e caratterizzate dalla immediatezza della risposta, che ha sede locale e si manifesta solo in soggetti geneticamente predisposti. Il termine (che deriva dal greco: ατοπος = senza luogo, fuori posto) non venne accettato da tutti, in quanto molti preferirono conservare quello più generico di allergia, o di allergia immediata.

Nel gruppo di manifestazioni atopiche rientrano varie malattie conseguenti alla sensibilizzazione verso antigeni introdotti per inalazione (pollini o altre sostanze), per ingestione o anche per via parenterale. Sono classici esempi del primo tipo l'asma bronchiale

e la rinite allergica primaverile, del secondo le gastroenteriti e le orticarie da sensibilizzazione verso particolari alimenti, del terzo i fenomeni di ipersensibilità verso farmaci e le punture di insetti, che si manifestano soprattutto in forma di reazioni cutanee. Le caratteristiche fondamentali delle manifestazioni atopiche, per quello che riguarda la risposta, sono le seguenti: 1) la risposta è immediata e si manifesta entro pochi minuti dal rinnovato contatto con l'antigene; 2) le lesioni, pur essendo polimorfe e pur potendo colpire di volta in volta organi diversi, si manifestano sempre, in uno stesso soggetto, nello stesso modo ed interessano per lo più un organo determinato (risposta topica); l'organismo può risentire secondariamente, ma non risponde con una reazione generale, come nell'anafilassi; 3) la sensibilizzazione da parte di uno stesso antigene si verifica in soggetti geneticamente predisposti, come dimostrato dall’elevato livello di familiarità di questa malattia. L’organo interessato dalla reazione è in genere quello a livello del quale avviene il contatto tra antigene e mastociti sensibilizzati. Nel caso di allergeni aerei, gli organi interessati sono la mucosa nasale e congiuntivale (rinite e congiuntivite allergica) o la mucosa bronchiale (asma bronchiale). Se l’allergene è contenuto in un alimento si ha una allergia alimentare i cui sintomi possono essere gastrointestinali, vomito e diarrea legati alla contrazione della muscolatura liscia, ma anche cutanei nel caso di piccoli allergeni he vengono assorbiti come tali e vanno ad interagire con mastociti sensibilizzati della cute, con sviluppo di un quadro di orticaria. Questa reazione si può anche osservare in seguito all’assunzione di farmaci per bocca. 4-Elementi che condizionano la risposta allergica di I tipo

Come già detto la risposta allergica di I tipo richiede la presenza di un allergene e di una IgE specifica per l’allergene. Il fatto che la reazione richieda la produzione di IgE indica di per sé che l’allergene debba avere una componente proteica, in quanto lo switch isotipico è necessariamente indotto dalla interazione di un TH (che riconosce antigeni proteici) col linfocita B. La parte proteica dell’allergene è quindi necessaria per l’attivazione del linfocita TH. Questo dovrà essere un linfocita TH2, poiché lo switch a IgE è favorito dalla IL-4, che è prodotta da queste cellule. Nel caso dell’allergia ai farmaci, che in genere non sono di natura proteica, si ammette che il farmaco funzioni da aptene legandosi a proteine self e modificandole. Nel caso dell’atopia, inoltre, l’allergene è in genere molto solubile in acqua, il che permette una sua rapida diffusione attraverso il muco. Inoltre esso è in genere presente nell’ambiente in piccole quantità, il che favorisce la differenziazione del TH verso TH2. Su questa base, uno dei possibili interventi terapeutici è la cosiddetta terapia desensibilizzante specifica, basata sulla iniezione sottocutanea di dosi crescenti dell’allergene, che determinano una risposta IgG contro l’allergene e una inibizione della risposta IgE. E’ probabile che alla base del fenomeno vi sia lo stimolo della differenziazione dei TH verso TH1, che da un lato inibiscono lo switch isotipico a IgE, dall’altro lato favoriscono la produzione di IgG che competono per l’allergene con le IgE. Nelle atopie da inalazione gli antigeni sono spesso rappresentati da pollini di fiori, spore di funghi, granuli di farina, fibre vegetali, o anche da derivati animali, come lana, piume, pelo, forfora, seta, veleno di serpenti (caso delle spitting viper, le vipere che sputano). Si tratta, in questi casi, di mosaici di antigeni, data la complessità delle particelle; quasi sempre, però, la sensibilizzazione è rivolta verso pochi determinanti. Tra i pollini, responsabili delle pollinosi, i più frequentemente in causa in Italia sono quelli dell'erba vetriola dei vecchi muri (Parietaria officinalis), di alcune Graminacee, di alcune Composite. In America è molto spesso in causa il polline delle piante del genere Ambrosia, dette ragweed. Poiché i pollini abbondano in primavera ed in estate, le manifestazioni morbose compaiono soprattutto in questo periodo dell'anno. Molto frequenti sono anche le sensibilizzazioni verso derivati epidermici, come peli, forfora, piume; altre volte la sensibilizzazione è verso polveri di casa, spesso contaminate con le feci di un acaro, del genere Dermatophagoides.

Gli allergeni da ingestione vengono introdotti per via orale. Possono dar luogo a manifestazioni gastroenteriche, più spesso ad orticaria. Tra gli antigeni alimentari più comuni, sono alcuni fattori, contenuti nelle fragole, nelle pesche, nella carne di pesce, in quella di certi molluschi (frutti di mare) e crostacei (granchi, aragosta, gamberi); in altri casi la sensibilizzazione è contratta verso carni di mammiferi (carne di maiale, salumi, ecc.). In altre forme di sensibilizzazione, gli antigeni possono essere sostanze chimiche

Page 34: L’IMMUNITA’ - Il-Cubo · 2020-03-30 · 1 L’IMMUNITA’ Le macromolecole di cui i vari organismi sono formati hanno, nella maggior parte dei casi, struttura e configurazione

34

definite, di natura medicamentosa o no. Fra i farmaci che determinano più spesso manifestazioni di ipersensibilità, sono da ricordare i piramidonici, i sulfamidici, vari antibiotici, ed in particolare le penicilline. Molti studi sono stati condotti per identificare geni responsabili della predisposizione familiare alla atopia. Risultati interessanti sono stati ottenuti in studi volti ad associare particolari alleli di determinati geni con lo sviluppo della malattia. In particolare la ipersensibilità di I tipo è stata associata con determinati alleli dei geni di HLA-DR, di CD14, della catena β del FcεRI e della catena α del recettore di IL-4 (IL-4R). L’associazione con gli alleli HLA-DR2, -DR3 e -DR5 è stata spiegata con la particolare efficienza con cui queste molecole presenterebbero la componente proteica degli allergeni più comuni; quella col polimorfismo del CD14 con l’influenza che potrebbe avere sulla attivazione dei macrofagi e sulla azione di queste cellule sui linfociti T (il CD14 è un importante recettore macrofagico per l’LPS batterico); quella col polimorfismo del FcεR-I con l’effetto che potrebbe avere sull’attivazione dei mastociti da parte di questo recettore; quella col polimorfismo di IL-4R con l’effetto che potrebbe avere sulla differenziazione TH1/TH2 dei TH e sullo switch isotipico dei linfociti B. Una delle caratteristiche più importanti delle reagine è la loro proprietà di sensibilizzare passivamente la cute. Essa fu dapprima dimostrata da Prausnitz e Kustner, che hanno dato il loro nome al fenomeno. Il test di Prausnitz e Kustner consiste nel trasportare, mediante iniezione intradermica di siero, le reagine da un soggetto allergizzato ad uno normale. Dopo 1-2 ore, periodo di tempo necessario per la fissazione sulle cellule, l'iniezione intradermica dell'allergene, eseguita nello stesso punto, provoca lo scatenamento di una tipica reazione pomfoide. Lo stato di sensibilizzazione persiste in situ per circa due settimane.

Ipersensibilità di II tipo

La ipersensibilità di II tipo è mediata da anticorpi IgG e IgM con azione citotossica ed è diretta verso antigeni che si legano ai tessuti. Un esempio è l’anemia emolitica da farmaci, determinata da anticorpi contro farmaci (come alcuni antibiotici) che si legano aspecificamente sulla superficie dei globuli rossi funzionando da apteni. In questa situazione l'anticorpo si lega al farmaco adsorbito ai globuli rossi e induce la fissazione del complemento su questi ultimi. Il globulo rosso funziona pertanto da innocent bystander. Si spiegano così anche fenomeni di distruzione piastrinica, con conseguente porpora trombocitopenica da farmaci, e anche quelli di agranulocitosi. E’ stato stabilito che, perché gli apteni possano riuscire a sensibilizzare l'organismo, è indispensabile il realizzarsi di alcune condizioni, e cioè: 1) devono reagire molto rapidamente con le proteine che formeranno il loro vettore; 2) devono mantenere la antigenicità dopo la coniugazione col vettore proteico; 3) devono venire degradati lentamente, in modo da permettere la sensibilizzazione; 4) devono avere valenza multipla. La distruzione dell’innocent bystander può avvenire direttamente, per lisi indotta dal complemento. In realtà questa evenienza è abbastanza rara in quanto richiede che l’antigene venga adsorbito con elevata densità. Alternativamente la distruzione può avvenire per opera dei macrofagi splenici, che fagocitano gli innocent bystanders attraverso gli FcR e i recettori per il complemento E’ una ipersensibilità di II tipo anche la malattia emolitica del neonato o eritoblastosi fetale, determinata per lo più dalla incompatibilità materno-fetale per l’antigene eritrocitario Rh. Si verifica in bambini Rh+ di madri Rh- portatrici di anticorpi anti-Rh. Normalmente i soggetti Rh- non hanno anticorpi anti-Rh, che non sono anticorpi “naturali” come quelli del sistema AB0. I soggetti Rh- possono però produrre anticorpi anti-Rh in seguito a immunizzazione con eritrociti Rh+. Questa può avvenire per un errore trasfusionale (sangue Rh+ trasfuso in un soggetto Rh-), oppure nella donna nel corso di una gravidanza, soprattutto al momento del parto, quando il distacco della placenta può portare emazie del neonato nel circolo materno. In questa situazione la madre Rh- riconosce come estranei gli antigeni Rh del figlio Rh+, sviluppa entro alcuni giorni una reazione anticorpale e distrugge le emazie del figlio presenti nel suo circolo. Gli anticorpi prodotti in questa risposta sono inizialmente IgM, ma successivamente IgG, in quanto Rh è un antigene proteico e induce una risposta TH che innesca lo switch isotipico. Queste IgG anti-Rh possono produrre la malattia in un feto Rh+ nel corso di una successiva gravidanza. Poiché infatti le IgG superano la barriera placentare, gli anticorpi anti-Rh materni passano nel feto e si legano ai globuli rossi fetali producendo una grave anemia emolitica. Il sistema emopoietico del feto risponde incrementando l’eritropoiesi, tanto che passano in circolo anche cellule immature (eritroblasti), da cui il nome di eritroblastosi fetale. Se il danno è precoce e grave si può avere morte intrauterina, altrimenti il bimbo nasce, ma con una grave forma di anemia e ittero. Per impedire la sensibilizzazione materna, tutte le donne Rh- in attesa di un figlio Rh+ vengono trattate con anticorpi umani anti-Rh subito prima e subito dopo il parto. Questa immunizzazione passiva elimina rapidamente i globuli rossi fetali passati nella madre e impedisce la risposta immunitaria attiva. Gli anticorpi iniettati sono degradati rapidamente e la donna può in seguito affrontare una nuova gravidanza senza essere sensibilizzata. L’eritroblastosi fetale può anche verificarsi per una incompatibilità AB0, nei rari casi in cui siano presenti anticorpi anti-A di isotipo IgG (normalmente sono IgM e pertanto non passano la barriera placentare). In questi casi la malattia si può produrre anche nella prima gravidanza.

Ipersensibilità di III tipo

L’ipersensibilità di III tipo è prodotta da IgM e IgG specifiche per antigeni solubili. Gli anticorpi formano con questi antigeni immunocomplessi solubili che fissano il complemento. Se la formazione degli immunocomplessi avviene in circolo, essi si legano al recettore del complemento CR1 espresso sui globuli rossi e sono poi rimossi dai macrofagi splenici. Se la quantità degli immunocomplessi supera la capacità tampone dei globuli rossi, essi si possono depositare in vari tessuti (come le pareti dei vasi, la membrana sinoviale della articolazione, la membrana basale dei glomeruli renali) e indurre una reazione infiammatoria locale. Questa è promossa dall’attivazione del complemento con produzione di anafilotossine (C3a, C4a, C5a), che inducono la degranulazione lovale dei mastociti e il richiamo di cellule infiammatorie, soprattutto neutrofili e, in minor misura, macrofagi. Il danno tessutale è legato al rilascio del contenuto dei granuli litici da parte di queste cellule. A seconda della sede di formazione degli immunocomplessi, si distinguono reazioni di III tipo localizzate e sistemiche. a) Reazioni localizzate Nel 1903 Arthus descrisse un fenomeno che venne dapprima definito anafilassi locale. Poiché la sua interpretazione non è inquadrabile come anafilassi vera e propria, si preferisce chiamarlo fenomeno di Arthus. Arthus stava studiando, nel coniglio, la produzione di sieri immuni contro il siero di cavallo, iniettato per via sottocutanea; egli osservò che se il siero di cavallo veniva inoculato, anziché una volta sola, per vari giorni consecutivi, si producevano nella sede dell'iniezione modificazioni che divenivano ogni giorno più intense. Mentre le prime iniezioni non erano seguite da alcuna reazione locale, dopo 4-5 giorni si poteva osservare che

Page 35: L’IMMUNITA’ - Il-Cubo · 2020-03-30 · 1 L’IMMUNITA’ Le macromolecole di cui i vari organismi sono formati hanno, nella maggior parte dei casi, struttura e configurazione

35

il liquido iniettato non veniva riassorbito e provocava edema; continuando ancora nelle iniezioni, nell'area iniettata comparivano disturbi più gravi, fino alla necrosi emorragica e all'ulcerazione. Il tempo intercorrente fra la iniezione dell'antigene e la comparsa dell'effetto è maggiore (da pochi minuti a qualche ora) di quello necessario per la liberazione di istamina, che entra in gioco nell’allergia immediata (di tipo I); per questo alcuni Autori chiamano il fenomeno di Arthus allergia differita. Il fenomeno di Arthus, pur verificandosi più intensamente nel coniglio, esiste in quasi tutte le specie animali capaci di produrre anticorpi precipitanti, e anche nell'uomo. E’ evocato soprattutto da antigeni solubili. Come nell'anafilassi, la sensibilizzazione si può ottenere anche passivamente, trasferendo il siero di un soggetto sensibilizzato in un animale normale, mediante iniezione endovenosa. In questo caso, lo scatenamento si ottiene dopo un'iniezione sottocutanea singola dell'antigene, praticata una ventina di minuti dopo l'inoculazione del siero. La sensibilizzazione passiva può essere ottenuta anche inoculando per via endovenosa l'antigene e per via sottocutanea l'anticorpo. Dal punto di vista morfologico, la lesione tipica è la necrosi emorragica. Essa dipende sia dalla alterazione degli endoteli capillari, in corrispondenza dei quali si deposita un precipitato eosinofilo amorfo, sia dall'arrivo di grandi quantità di granulociti neutrofili, che finiscono per obliterare i vasellini. All'occlusione cooperano anche ammassi di piastrine e fibrina. I fenomeni emorragici conseguono alla rottura di pareti vasali. Mediante metodi di immunofluorescenza, è stato possibile dimostrare che la sostanza eosinofila che si accumula nelle pareti dei vasi non è altro che complesso immune. La precipitazione del complesso immune attira i granulociti, sui quali le frazioni C3a e C5a del complemento esercitano attrazione chemiotattica; i granulociti fagocitano allora grandi quantità del complesso immune. In un secondo tempo, quando la parete delle cellule endoteliali è alterata, alla formazione del precipitato contribuisce anche la fibrina. Come detto in precedenza, la necrosi non dipende esclusivamente dall'ischemia, ma risulta anche dalla liberazione dai granulociti neutrofili di sostanze capaci di digerire la parete dei vasi e le zone contigue. Queste sostanze non sono altro che gli enzimi lisosomali, i quali si liberano in grande quantità dalle cellule che fagocitano i complessi immuni. Tra gli enzimi lisosomali dei granulociti, i più attivi sembrano essere quelli proteolitici . E' stato dimostrato che le catepsine sono capaci di digerire la membrana basale in vitro e che lo stesso effetto è esercitato da una particolare categoria di proteasi con optimum di azione a pH neutro; contenute nei granuli dei granulociti neutrofili; queste proteasi si liberano durante la fagocitosi di complessi immuni. Alla liberazione delle proteasi spetterebbe la parte preminente nella digestione delle pareti vasali. La lesione dei granuli potrebbe facilitare anche la coagulazione intravasale della fibrina. L’uscita delle idrolasi dai granulociti può avvenire con tre meccanismi: 1) la morte delle cellule, che però ha, nel fenomeno di Arthus, importanza marginale; 2) il rigurgito, che si verifica quando la fusione dei lisosomi col fagosoma avviene prima che la membrana citoplasmatica si sia richiusa alle spalle di quest'ultimo; in tal caso gli enzimi possono uscire all'esterno attraverso la bocca dell'invaginazione rimasta aperta; 3) l'endocitosi inversa (o fagocitosi frustrata): in tal caso i lisosomi si avvicinano alla membrana plasmatica, sulla quale si sono depositati i complessi immuni, così velocemente da non concedere tempo alla formazione dei fagosomi; i lisosomi finirebbero quindi per fondersi con la membrana e per versare i loro enzimi all'esterno. Riassumendo, le differenze principali fra anafilassi e fenomeno di Arthus sono le seguenti: 1) nell'anafilassi la parte prevalente del danno iniziale è determinata dall'istamina; nel fenomeno di Arthus dipende soprattutto dalle idrolasi acide dei granulociti; 2) nell'anafilassi il complesso immune si forma alla superficie delle cellule e coinvolge le IgE; nel fenomeno di Arthus si forma invece in corrispondenza delle pareti vasali e coinvolge IgG e IgM; 3) il fenomeno di Arthus richiede molte ore per manifestarsi, mentre l'anafilassi è immediata. Il fenomeno di Arthus si può verificare nell’uomo in seguito alla iniezione di richiamo di un vaccino (ad esempio quello anti-tetanico), quando il soggetto abbia ancora un elevato titolo di anticorpi contro l’antigene vaccinale. Reazioni di III tipo localizzate possono ssere anche prodotte da punture di insetti in soggetti sensibilizzati. In questo caso la reazione di tipo III può seguire (dopo 5-6 oer) quella immediata di tipo I. Le due reazioni si distiguono in quanto quella di tipo I ha una prevalente componente edematosa, mentra in quella di tipo III prevale l’infiltrato cellulare. Sono dovute a reazioni di tipo III anche alcune malattie polmonari, ormai estremamente rare, dovute alla inalazione di spore fungine, batteri o antigeni fecali essiccati cui il paziente era esposto per ragioni professionali (il polmone del contadino, la malattia

dell’allevatore di piccioni). b) Reazioni sistemiche

Il prototipo della reazione di tipo III sistemica è la malattia da siero. Quando, alla fine del secolo scorso ed all'inizio di quello attuale, cominciò ad entrare nell'uso il siero antidifterico, si osservò che esso non era sempre innocuo e che spesso dava luogo a disturbi di una certa gravità. Una parte di essi si manifestava in soggetti già precedentemente inoculati con lo stesso siero eterologo e consisteva nello shock anafilattico. Altri disturbi comparivano invece in una parte dei soggetti mai trattati prima. Si manifestavano in genere 8-10 giorni dopo l'inoculazione e consistevano in febbre, dolori articolari, versamenti nelle cavità sierose ed articolari, orticaria, asma bronchiale, talvolta edema della glottide, disturbi renali. Questo quadro complesso venne definito malattia da siero, o anche malattia

da siero da prima iniezione. Quando non insorgono complicazioni immediate, soprattutto in rapporto con l'edema della glottide che può determinare la morte per soffocazione, la sintomatologia diminuisce di intensità e si estingue in 20-30 giorni. Tentativi di riprodurre sperimentalmente la malattia negli animali ebbero successo nel coniglio, nel quale il quadro è evocabile sia con iniezione di siero di cavallo sia con albumina eterologa. Sia nell'uomo che nel coniglio la lesione istopatologica più evidente è a carico dell'intima delle arteriole, specialmente nei glomeruli renali. Qui si assiste alla comparsa di un materiale debolmente eosinofilo e ialino in corrispondenza della membrana basale, sul suo versante epiteliale; le cellule endoteliali sono rigonfie, le anse ne risultano spesso occluse. Si osserva anche un certo aumento dei fagociti, che resta però contenuto in limiti modesti. Un maggiore aumento dei fagociti si trova invece nelle arteriole di altri distretti, e specialmente nella cute, nei polmoni, nei bronchi, nelle coronarie, nelle articolazioni. Si ha anche aumento di volume dei linfonodi e della milza. E’ oggi chiaro che la malattia da siero è dovuta alla contemporanea presenza nell'organismo di anticorpi, che cominciano a formarsi per effetto della stimolazione antigenica, e degli antigeni, non ancora eliminati completamente. Ciò risulta chiaramente dalle ricerche parallele sulla eliminazione degli antigeni dal circolo (clearance) e la produzione degli anticorpi. Danno la malattia da siero soltanto gli antigeni che si eliminano lentamente; il fatto che nell'uomo la malattia si verifica soltanto in una percentuale limitata di soggetti, si

Page 36: L’IMMUNITA’ - Il-Cubo · 2020-03-30 · 1 L’IMMUNITA’ Le macromolecole di cui i vari organismi sono formati hanno, nella maggior parte dei casi, struttura e configurazione

36

può spiegare appunto col fatto che negli individui sensibili esiste un ritardo, rispetto alla media, della clearance degli antigeni sierici. Lo studio del destino degli antigeni sierici marcati con radioisotopi ha permesso di stabilire che la curva della loro eliminazione è bifasica; nelle prime 24 ore scompare dal sangue il 50% circa degli antigeni (fase di diluizione), che si distribuiscono negli spazi extravascolari; in seguito si ha un lento declino, che varia a seconda delle caratteristiche dell'antigene ed anche di quelle dell'ospite (fase metabolica). Nel coniglio le γ-globuline eterologhe scompaiono del tutto prima del nono giorno, mentre le albumine persistono sino al quattordicesimo. La curva di eliminazione delle proteine omologhe è meno rapida, probabilmente perché, nel caso di quelle eterologhe, alla eliminazione fisiologica si sovrappone un elemento nuovo, e cioè la produzione degli anticorpi che allontana le proteine del siero con altro meccanismo (fase immune). Intorno al decimo giorno, comunque, esistono ancora antigeni in circolo, in un periodo in cui è ormai attiva la produzione di anticorpi. Ciò provoca la formazione di complessi immuni. All'inizio, la quantità di antigene presente in circolo è superiore a quella degli anticorpi che si vanno via via formando; i complessi sono allora del tipo in eccesso di antigene, in cui non si ha formazione di reticolo e quindi di precipitato; i complessi restano solubili. In seguito, via via che aumentano gli anticorpi, il tipo di immunocomplesso tende a variare composizione, giacché vi aumenta la quota anticorpale. Si può allora formare il reticolo, e quindi il precipitato. Questo tende a localizzarsi nelle pareti dei capillari. Oggi la malattia da siero è molto più rara di un tempo, in quanto gli antisieri più usati (ad esempio quello anti-tetanico) sono oggi di origine umana (sono omologhi) e sono quindi poco immunogenici. Possono però dare malattia da siero vaccinazioni come quella antitetanica, quando nelle reazioni di richiamo si usa una dose elevata di antigene. Il maggior rilievo clinico delle reazioni di III tipo sistemiche è legato al fatto che esse sono coinvolte nello sviluppo delle glomerulonefriti, malattie molto gravi e frequenti. Nei glomeruli di pazienti con glomerulonefrite è molto frequente il reperto di precipitati di immunoglobuline di varie classi. Tra le altre, è frequente il reperto di IgA. Nella glomerulonefrite post-streptococcica, antigeni streptococcici liberati dalla sede di infezione (ad esempio una tonsillite o un ascesso dentario) formano immunocomplessi circolanti che vanno a depositarsi nel rene. La deposizione cronica di questi immunocomplessi e il conseguente danno renale protratto possono portare a un grave quadro di insufficienza renale, che può richiedere il ricorso alla dialisi e al trapianto.

Ipersensibilità di IV tipo o ipersensibilità ritardata.

Le classiche manifestazioni dell'allergia ritardata sono l'ipersensibilità verso antigeni batterici (di cui l'espressione più nota è il fenomeno di Koch), e l'allergia da contatto. Utilizzano un meccanismo di questo tipo anche le reazioni di rigetto verso i trapianti, di cui si parlerà in seguito. La caratteristica fondamentale delle reazioni di allergia ritardata è la lentezza della comparsa, dopo il contatto con l'antigene. Le lesioni, che sono sempre circoscritte alla zona di contatto con l'antigene, compaiono tra le 12 e le 72 ore dopo l'iniezione scatenante. Dal punto di vista istopatologico, sono caratterizzate dalla presenza di un intenso infiltrato infiammatorio ricco di macrofagi e linfociti, e necrosi emorragica. Altro elemento caratteristico è che le reazioni non si trasmettono passivamente da un soggetto all'altro col siero, ma soltanto con linfociti T, che sono gli effettori di queste reazioni. Questi linfociti T sono anche detti linfociti TDTH, ma non sono altro che linfociti TH1 e CTL. La reazione è un processo infiammatorio cronico causato da antigeni difficilmente eliminabili. Questi causano l’attivazione di linfociti TH1, che secernono imponenti quantità delle citochine proinfiammatorie IFN-γ, TNF-β (LT) e IL-2, le quali attivano i macrofagi tessutali e inducono il richiamo di monociti dal sangue. Si produce così un infiltrato cellulare ricco di linfociti T e macrofagi, che è tipico di questo tipo di reazione e può organizzarsi a formare un granuloma. Il quadro delle lesioni che avvengono nell'allergia ritardata è abbastanza simile in tutti i casi, con lievi varianti specifiche. Come già detto, la lesione unitaria è costituita dalla necrosi emorragica, presente anche nel fenomeno di Arthus. Mentre in quest'ultimo la lesione conseguiva all'arrivo massiccio di granulociti neutrofili e di altri fagociti, nel caso delle lesioni dell'allergia ritardata l'elemento quantitativamente dominante è costituito da linfociti e macrofagi; questi infiltrano ed intasano i vasi, ma si ritrovano anche al di fuori, disposti a manicotto intorno alle venule o sparsi nel connettivo. In una fase ulteriore, si osserva necrosi delle pareti vasali ed infine l'arrivo di granulociti neutrofili. Il meccanismo della morte dei tessuti è duplice; essa dipende infatti sia dell'ischemia che si verifica per l'occlusione dei vasi, anche legata all’attivazione della coagulazione, sia dalla azione dei CTL e delle citochine citotossiche prodotte dai TH1 e dai macrofagi (TNF-α e β). a) Allergia batterica.

In ordine di tempo, la prima manifestazione di allergia ritardata descritta è stata la reazione verso la reinoculazione di M. tubercolare in animali ammalati di tubercolosi, cioè il fenomeno di Koch. Koch osservò che se una cavia viene inoculata una prima volta per via sottocutanea con una coltura di Micobatteri viventi, non presenta alcuna reazione immediata; dopo una decina di giorni appare nel luogo dell'iniezione un nodulo infiammatorio, che in genere si ulcera; le linfoghiandole satelliti si tumefanno e la malattia si estende ad altre parti del corpo, specialmente ai polmoni. Alla fine la cavia muore di tubercolosi, per lo più entro due mesi. Se la cavia già infetta viene inoculata una seconda volta per via sottocutanea con Micobatteri, 30-40 giorni dopo la prima iniezione, si forma nella zona, dopo 24-48 ore, una lesione necrotico-emorragica che si ulcera rapidamente. L'ulcerazione resta superficiale e tende alla guarigione, a differenza da quanto accade dopo la prima inoculazione. Il fenomeno avviene nello stesso identico modo, anche se i Micobatteri tubercolari inoculati la seconda volta sono morti, o se, al posto dei Micobatteri, si usano nuove sostanze da essi estratte, oppure accumulatesi nel terreno di coltura. Queste sostanze, opportunamente purificate, costituiscono la tubercolina. La frazione attiva della tubercolina è stata identificata con un antigene proteico, detto PPD (purified protein derivative). Dopo un primo tentativo di Koch di usare la tubercolina come vaccino, che ebbe tragiche conseguenze, in quanto causò la rivivescenza di vecchie lesioni e la morte di molti dei vaccinati, si scoprì che essa poteva essere usata con vantaggio per la diagnosi di tubercolosi. L'inoculazione della sostanza, che può essere fatta per varie vie, dà luogo infatti alla tipica reazione soltanto nei soggetti con tubercolosi in atto, mentre non ha conseguenza alcuna nei soggetti normali, e neanche in quelli in cui la reattività immunitaria sia depressa dallo scadente stato generale, oppure da malattie virali in atto o appena superate. Nei soggetti tubercolosi, inoltre, la varia intensità della reazione costituiva un criterio importante per la valutazione della gravità della malattia. Se la reazione era violenta, si diceva che il soggetto era iperergico; se era attenuata, si parlava di ipoergia; se mancava del tutto, di anergia. Von Pirquet distingueva l'anergia positiva, in cui la mancanza della reazione dipendeva dal fatto che il soggetto non era ammalato, da quella negativa, in cui la mancanza di risposta dipendeva dalla scarsa reattività. Come si è accennato, molte malattie virali inducono anergia verso la tubercolina; lo stesso risultato

Page 37: L’IMMUNITA’ - Il-Cubo · 2020-03-30 · 1 L’IMMUNITA’ Le macromolecole di cui i vari organismi sono formati hanno, nella maggior parte dei casi, struttura e configurazione

37

può essere determinato dalla presenza di un tumore. A seconda della tecnica di esecuzione, si distinguono varie reazioni tubercoliniche. Se la tubercolina è applicata sulla congiuntiva, si parla di oftalmoreazione; se è iniettata per via intradermica, di intradermoreazione di Mantoux; se è applicata su una scarificazione, praticata sulla cute, di cutireazione di von Pirquet; se viene applicata sulla cute integra, e lasciata in situ per mezzo di un cerotto, si parla di percutireazione di Moro, o anche di cerotto-reazione.

In questo ultimo caso la tubercolina viene assorbita attraverso la cute, mantenuta dalla presenza del cerotto. L'introduzione della tubercolina in un soggetto tubercoloso non determina soltanto una reazione locale nel punto dell'inoculazione. Se è introdotta in grandi quantità, oppure se è inoculata per una via che consenta un migliore assorbimento (endovenosa, intraperitoneale), la tubercolina può determinare anche reazione di focolaio, cioè un aggravamento delle lesioni tubercolari preesistenti. Questo fu il motivo dell'esito infausto dei tentativi di vaccinazione di Koch, cui si è sopra accennato. Se la dose è molto elevata, si può determinare anche una reazione di Koch generale, con febbre, sudorazione profusa, e talvolta morte in condizioni di collasso cardiocircolatorio. Sia la reazione generale che quella di focolaio compaiono alcune ore dopo il trattamento. Reazioni tipiche di allergia ritardata si verificano anche nel corso di altre malattie infettive, e hanno ricevuto applicazione diagnostica. Nella lebbra si verifica la reazione alla lepromina, che è un estratto di tessuti umani lebbrosi; l'ipersensibilità alla lepromina è trasferibile mediante cellule linfoidi. Spesso risulta positiva anche la reazione alla marianina, che è un estratto di Mycobacterium

marianum, un microrganismo strettamente correlato col Mycobacterium leprae, ma, a differenza di questo, facilmente coltivabile (il nome marianum si riferisce a Suor Marie Thérèse, una religiosa francese che per prima isolò il microrganismo). Nella maltese è positiva la reazione alla melitina, o brucellina, che è un filtrato di coltura di Brucella melitensis. Nella sifilide è positiva la reazione alla luetina, cioè ad antigeni treponemici; nell'istoplasmosi è positiva la reazione all'istoplasmina, che è un estratto di Histoplasma capsulatum. In ogni caso lo stato di sensibilizzazione allergica ha grande importanza nel decorso delle malattie infettive ad andamento cronico o subcronico, e anche nel condizionare la morfologia dei granulomi, che ne sono l'espressione elementare. b) Allergia da contatto.

Sono manifestazioni di allergia ritardata anche le dermatiti prodotte da allergeni applicati direttamente sulla cute (allergie da

contatto). Si verificano spesso in seguito al contatto con tensioattivi, vernici, oli, solventi, coloranti e anche metalli come Cr e Ni, presenti in oggetti a contatto della cute (per lo più oggetti cromati o in accaio). La lesione caratteristica è l'eczema, che si presenta in varie forme (vescicoloso, bolloso, madidans, secco), a seconda delle condizioni locali della cute e delle possibilità di evaporazione del liquido. Il meccanismo è quello tipico della ipersensibilità ritardata, con attivazione di linfociti T e richiamo di macrofagi. Gli antigeni verso cui si rivolge la reazione si comportano da apteni e sono caratterizzati da una elevata capacità di legarsi a proteine self modificandole. I linfociti T riconoscono queste proteine modificate e sviluppano una risposta rigorosamente localizzata nella sede del contatto. Poiché la reazione può svilupparsi anche 72 ore dopo il contatto con l’antigene, non è sempre facile riconoscere quale sia stato l’agente scatenante. La reazione viene meno con la rimozione dell’antigene. Le allergie da contatto possono appartenere al gruppo delle malattie professionali, perché varie sostanze sensibilizzanti possono essere incontrate nel corso di attività professionali (dermatiti delle lavandaie e delle massaie causate da detersivi, dei conciatori e dei fotografi causate dagli agenti chimici usati nella lavorazione delle pelli e delle pellicole fotografica, dei parrucchieri causate dalle tinture per capelli, del personale sanitario causate dal lattice dei guanti o dalle polveri usate come lubrificanti dei guanti). c) Morbo celiaco

Il morbo celiaco è una reazione di ipersensibilità ritardata che si sviluppa a livello intestinale contro la gliadina, che è la principale proteina del glutine. La malattie ha una frequenza in progressiva crescita, anche grazie al miglioramento degli strumenti diagnostici, e si manifesta solitamente in età infantile, anche se sono in continua crescita gli esordi nell’adulto. I soggetti affetti sviluppano un intenso infiltrato infiammatorio a carico dell’intestino in seguito all’assunzione di glutine, anche di minime quantità. La reazione infiammatoria provoca una progressiva compromissione funzionale dell’intestino con sviluppo di quadri di malassorbimento di varia gravità. La malattia si accompagna alla produzione di anticorpi anti-gliadina, che possono essere dosati nel siero. Inoltre si producono anche auto-anticorpi contro molecole self presenti nel tessuto intestinale, ovvero anticorpi anti-endomisio e anti-transglutaminasi, il che ha indotto alcuni autori a proporre che la malattia abbia una componente autoimmune. In realtà la sospensione dell’assunzione di glutine determina un esaurimento completo del danno intestinale e la scomparsa sia degli anticorpi anti-gliadina sia degli autoanticorpi, il che si contrappone nettamente all’ipotesi autoimmune. AUTOIMMUNITA’

I primi periodi dell'Immunologia furono dominati dal concetto che l'organismo non potesse reagire contro antigeni facenti parte dei propri tessuti. Ehrlich concretò questo punto di vista nel principio dell'horror autotoxicus, quasi che i sistemi immunologici avessero “orrore” dei propri antigeni. Queste idee sono state rivedute in seguito alla identificazione di malattie chiaramente in rapporto con la produzione di anticorpi verso propri antigeni (autoanticorpi). La prima di queste malattie fu l'emoglobinuria parossistica a frigore,

caratterizzata da emolisi intravasale, con conseguente eliminazione urinaria di emoglobina; Donath e Landsteiner dimostrarono fin dal 1904 che questa malattia dipende dalla produzione di emolisine (ovvero anticorpi emolitici) rivolte verso i propri globuli rossi. Queste prime ricerche suscitarono l'attenzione degli studiosi sul problema di varie altre anemie emolitiche ad eziologia sconosciuta, ed in particolare sull'anemia emolitica acquisita. La dimostrazione definitiva dell'origine autoimmune di questa malattia venne data nel 1938 da Dameshek e Schwartz. In seguito sono stati portati dati a favore dell'origine autoimmune di numerose altre malattie. Inizialmente l’attenzione fu tutta rivolta agli autoanticorpi, successivamente, con la scoperta dei linfociti T, si osservò che molte malattie autoimmuni erano principalmente sostenute da linfociti TDTH, ovvero TH1 e CTL. Nei paragrafi seguenti si descriveranno le principali malattie autoimmuni e quindi ciò che è oggi noto sui meccanismi coinvolti nella rottura della tolleranza al self alla base del loro sviluppo.

Malattie autoimmuni.

Le malattie autoimmuni sono una gruppo di malattie molto ampio ed è stato calcolato che esse colpiscano ben il 5-7% della popolazione umana Una classificazione abbastanza seguita delle malattie autoimmuni è basata sul grado di localizzazione del danno

Page 38: L’IMMUNITA’ - Il-Cubo · 2020-03-30 · 1 L’IMMUNITA’ Le macromolecole di cui i vari organismi sono formati hanno, nella maggior parte dei casi, struttura e configurazione

38

tessutale e le distingue in malattie autoimmuni organo-specifiche e sistemiche. Nelle malattie organo-specifiche il danno è strettamente localizzato ad un particolare organo, come ad esempio accade nella tiroidite di Hashimoto, nel morbo di Graves-

Basedow o nel diabete mellito insulino-dipendente. Nelle malattie sistemiche il danno è invece diffuso a più organi in quanto l’aggressione riguarda un tessuto diffuso in più organi; i prototipi sono il lupus eritematoso sistemico, l’artrite reumatoide, la dermatomiosite, la sclerodermia (o sclerosi progressiva), la poliarterite nodosa o il morbo di Sjögren. Un’altro tipo di classificazione si basa invece sul meccanismo patogenetico principale del danno autoimmune e distingue le malattie autoimmuni in quelle mediate da anticorpi (o da un meccanismo di ipersensibilità di tipo II), quelle mediate da immunocomplessi (o da un meccanismo di ipersensibilità di tipo III) e quelle mediate da linfociti TH1 e CTL (o da un meccanismo di ipersensibilità di tipo IV). Va sottolineato che la classificazione patogenetica spesso non è del tutto univoca in quanto in molte malattie autoimmuni si osserva la coesistenza di risposte anticorpali e cellulo-mediate e a volte non è del tutto chiaro il peso relativo dei due sistemi effettori. Ad esempio, in quasi tutte le malattie autoimmuni si riesce ad identificare la presenza di autoanticorpi specifici per il tessuto aggredito e a questi si dava nel passato una grande importanza patogenetica. In realtà ci si sta rendendo conto in un numero sempre crescente di malattie che questi autoanticorpi hanno un ruolo patogenetico limitato e sono probabilmente una conseguenza, piuttosto che la causa, del danno autoimmune, legata al rilascio di autoantigeni da parte del tessuto bersaglio dell’attacco autoimmuni e del fenomeno dell’epitope spreading di cui si parlerà in seguito. Questi auto-anticorpi sono pertanto spesso utilizzati come utili marcatori dell’evoluzione del danno autoimmune. Nel complesso, il modo più sicuro per identificare se una malattia autoimmune è essenzialmente mediata da cellule o da anticorpi consiste nell’effettuare esperimenti di trasferimento passivo in modelli animali. Questi esperimenti hanno permesso di evidenziare che malattie come il diabete mellito insulino dipendente e la sclerosi multipla sono trasmesse da un animale a un altro solo trasferendo i linfociti T, mentre altre come il lupus eritematoso sistemico e l’anemia emolitica sono trasmesse solo trasferendo anticorpi. Un ruolo importante nelle malattie autoimmuni è svolto anche dai linfociti TH17. Questo ruolo sembra essere trasversale visto la loro azione è stata chiamata in causa sia in malattie autoimmuni mediate da anticorpi sia in malattie autoimmuni mediate da cellule. Poiché la classificazione immunopatologica è in continua evoluzione man mano che progredisce la conoscenza dei meccanismi alla base di queste malattie, si descriveranno nei paragrafi seguenti le principali malattie autoimmuni utilizzando la classificazione classica basata sul grado di diffusione danno tessutale.

Malattie autoimmuni organo-specifiche

Una tipica rappresentante di questo gruppo di malattie autoimmuni è l'anemia emolitica acquisita, la cui natura autoimmune fu stabilita da Donath e Landsteiner. Compare in soggetti adulti, non ha distribuzione familiare, non è ereditaria; è caratterizzata dalla presenza di crisi emolitiche, che dipendono dalla comparsa in circolo di autoanticorpi antiemazie. I globuli rossi, prima della crisi, hanno caratteristiche normali e sopravvivono per un tempo normale, se trasportati in un soggetto non ammalato. Ciò dimostra che la causa dell'emolisi sta proprio nella presenza degli autoanticorpi, e non in un difetto intrinseco dei globuli rossi. Le emazie presentano un test di Coombs positivo (ovvero reazione di agglutinazione positiva in seguito a incubazione dei globuli rossi del paziente con un antisiero anti-Ig umane), il che dimostra la presenza alla loro superficie di anticorpi adsorbiti. Una parte queste anemie è idiopatica o

primaria, ovvero non se ne conosce la causa scatenante; un'altra parte (25-50%) è invece secondaria ad un'altra malattia (mononucleosi infettiva, polmonite atipica primaria, altre malattie virali, leucemie linfatiche). Gli anticorpi presenti sono per lo più di due tipi; vengono detti rispettivamente anticorpi caldi e anticorpi freddi. I primi sono IgG e reagiscono con l'antigene a 37°C; i secondi sono IgM e hanno l'optimum di reazione a 4-10° C, non reagiscono oltre i 32°C e sono quindi inattivi alla temperatura del corpo. Ne esistono di vario tipo e possono essere completi o incompleti, capaci cioè di fissarsi all'antigene, ma non di agglutinarlo o di lisarlo. Una parte degli autoanticorpi freddi è diretta verso uno speciale antigene presente nelle emazie di quasi tutti gli uomini dopo il secondo anno di vita, l'antigene I; pochi soggetti (detti “i”) ne sono sprovvisti. Un'altra parte degli autoanticorpi freddi è rivolta verso un altro antigene, detto H. Gli anticorpi caldi, che sono adsorbiti sulla superficie delle emazie alla temperatura del corpo, sono incompleti, non fissano il complemento e sono rivolti verso antigeni del sistema Rh. Poiché gli anticorpi caldi sono incompleti e quelli freddi non agiscono a 37°C, l'emolisi in vivo non può spiegarsi con la loro azione diretta. Si ammette invece che il loro adsorbimento sulla superficie delle emazie ne faciliti la fagocitosi da parte di macrofagi, soprattutto a livello della milza. L'emolisi da autoanticorpi caldi è quindi detta extravascolare. Alle anemie emolitiche autoimmuni si associa infatti un'aumentata produzione di bilirubina a reazione indiretta, che avviene appunto nei macrofagi. Gli anticorpi freddi (crioemolisine) non agiscono alla temperatura del corpo e necessitano, per poter determinare l'emolisi, dell'abbassamento della temperatura, nelle zone soggette, al di sotto di 32° C. Se questa temperatura viene raggiunta, l'emolisi avviene direttamente nell'interno dei vasi (emolisi intravascolare). L'emoglobina che si libera viene in parte fissata da apposite proteine plasmatiche, le aptoglobine; l'eccesso passa nelle orine (emoglobinuria), giacché la sua massa molecolare è inferiore al limite di 70 kDa, al di sopra del quale le proteine plasmatiche vengono trattenute nel glomerulo. Una forma tipica di anemia emolitica da freddo è l’emoglobinuria parossistica a frigore. La causa determinante la crisi è la bassa temperatura esterna ed il segno più evidente l'emoglobinuria. A bassa temperatura avviene l'unione dell'antigene con l'anticorpo e la fissazione del complemento; la lisi comincia quando la temperatura torna ad aumentare. Spesso l'esposizione al freddo degli arti è seguita dalla comparsa di cianosi dolorosa con spasmo arterioso: si parla allora di fenomeno di Raynaud; si ritiene che dipenda dalla formazione nei vasi di coacervati di globuli rossi, agglutinati per effetto della fissazione di crioagglutinine sulle emazie. La presenza dell'intoppo provocherebbe le contrazioni spastiche delle pareti delle arterie, che aggravano l'ischemia. A lungo andare, si possono manifestare fenomeni necrotici, specialmente nelle parti distali. La porpora trombocitopenica idiopatica è caratterizzata dalla diminuzione del numero delle piastrine, che scendono al di sotto di 40.000 per mmc (contro le 300.000 circa del normale) e dalla sindrome emorragica che ne consegue. Ne esiste una forma acuta, in genere benigna, ed una cronica, con frequenti recidive di crisi piastrinolitiche. La piastrinolisi è determinata da autoanticorpi che facilitano la fagocitosi delle piastrine da parte dei macrofagi splenici. Il sangue di trombocitopenici, trasfuso in soggetti normali, provoca trombocitopenia. Porpore trombocitopeniche secondarie si possono osservare anche nel corso di leucemie o di linfomi, dopo malattie virali, o anche nel lupus eritematoso sistemico.

Page 39: L’IMMUNITA’ - Il-Cubo · 2020-03-30 · 1 L’IMMUNITA’ Le macromolecole di cui i vari organismi sono formati hanno, nella maggior parte dei casi, struttura e configurazione

39

Un altro tipo di anemia autoimmune è l'anemia perniciosa caratterizzata da gastrite atrofica che causa la scomparsa delle ghiandole del fondo dello stomaco e la conseguente mancata elaborazione della mucoproteina che costituisce il fattore intrinseco di Castle e condiziona l'assorbimento della vitamina B12. La carenza di questa vitamina è responsabile dello sviluppo di una classica anemia macrocitica (vedere Capitolo sulla alimentazione). Nei pazienti con anemia perniciosa sono presenti sia anticorpi rivolti verso le cellule delomorfe dello stomaco (che producono l'HCl), sia anticorpi rivolti verso il fattore intrinseco (anticorpi bloccanti), capaci di prevenire l'unione con la vitamina B12, sia anticorpi rivolti verso il complesso formato dal fattore intrinseco e dalla vitamina B12 (anticorpi combinatori). Più recentemente è stata anche descritta presenza di linfociti T contro le cellule parietali gastriche che sarebbero i principali responsabili della gastrite e della conseguente anemia. La miastenia grave è un’altra malattia autoimmune caratterizzata dalla produzione di anticorpi bloccanti, in questo caso diretti contro il recettore per l’acetilcolina coinvolto nella trasmissione dell’impulso nervoso a livello della placca neuromuscolare. Questo anticorpo impedisce l’interazione del recettore con l’aceticolina e alla lunga porta anche alla distruzione della placca. Ne consegue che la trasmissione dell’impulso neuromuscolare è inibita e il soggetto affetto sviluppa una progressiva debolezza muscolare, con ptosi palpebrale, diplopia, disturbi nell'articolazione delle parole e nella masticazione, disfagia, disturbi respiratori, fino alla morte. La debolezza muscolare si manifesta dapprima in occasione di sforzi, e diviene poi sempre più conclamata. Istologicamente, il muscolo è atrofico; vi esistono spesso accumuli di cellule linfoidi. Più recentemente è stata anche descritta la presenza di linfociti TH1 specifici contro la placca neuromuscolare ed è stato proposto che questi possano svolgere un ruolo di danno diretto sulla placca. Nel 20% circa dei casi la malattia si associa a un tumore delle cellule epiteliali timiche (timoma). La malattia è diffusa specialmente nel sesso femminile; una forma transitoria si trova anche nei figli di madri miasteniche, limitatamente alle prime sei settimane di vita: sarebbe dovuta al passaggio transplacentare degli autoanticorpi dalla madre al feto; la guarigione coinciderebbe con la fisiologica distruzione degli anticorpi materni. Il morbo di Graves-Basedow è una malattia autoimmune tiroidea, con un meccanismo speculare rispetto a quella della miastenia grave, in quanto è anch’essa sostenuta da anticorpi anti-recettore, ma questi sono dotati di azione agonista nei confronti del recettore per il TSH. Questi anticorpi pertanto mimano l’azione tirostimolante del TSH. Normalmente l’azione del TSH è controllata da un meccanismo di feedback negativo per cui elevati livelli di ormoni tiroidei inibiscono la produzione ipofisaria di TSH, che di conseguenza riduce la sua azione di stimolo sulla tiroide. Nel morbo di Graves-Basedow gli anticorpi anti-TSH stimolano la produzione di ormoni tiroidei, i quali inducono una riduzione dei livelli di TSH, ma nulla possono sulla produzione degli autoanticorpi da parte delle plasmacellule autoimmuni. Questi continuano quindi la loro azione di stimolo producendo un quadro di ipertiroidismo. Un’altra frequente malattia autoimmune tiroidea è la tiroidite di Hashimoto, che colpisce soprattutto donne nel periodo della maturità sessuale; si manifesta con gozzo diffuso, duro, dapprima asintomatico, poi con segni sempre più evidenti di ipofunzione. Istologicamente la tiroide è infiltrata da cellule linfoidi, spesso organizzate in follicoli, mentre il parenchima ghiandolare si fa atrofico; talvolta si osserva la comparsa di grosse cellule eosinofile (cellule di Hurtle). Sono stati descritti vari tipi di autoantigeni, tra cui la tireoglobulina, la perossidasi tiroidea (TPO) ed un antigene detto CA2 (o colloid antigen 2), che forse è sito nella colloide. La malattia sarebbe sostenuta sia da autoanticorpi sia da linfociti TDTH, che prevalgono nell’infiltrato infiammatorio. Il diabete mellito insulino-dipendente (IDDM) è una malattia autoimmune che colpisce selettivamente le cellule β del pancreas, responsabili della secrezione di insulina. La distruzione di queste cellule produce un calo dei livelli di insulina e la conseguente iperglicemia. E’ anche detto diabete giovanile in quanto compare in genere in età pediatirca, il che lo distingue dal diabete insulino indipendente, in genere non autoimmune, che colpisce prevalentemente in età adulta. La malattia è sostenuta da linfociti T (TH1 e CTL) specifici per antigeni delle cellule β. Lo sviluppo del diabete è preceduto da una situazione di pre-diabete caratterizzato istologicamente dalla invasione delle isole pancreatiche da parte di un infiltrato infiammatorio cronico ricco di linfociti T e macrofagi (insulite). Questa fase è seguita dalla distruzione delle cellule β e dalla conseguente comparsa di diabete. La malattia è anche caratterizzata dalla comparsa di elevati livelli di autoanticorpi, che non sembra abbiano un ruolo patogenetico. La risposta autoimmune è rivolta contro vari autoantigeni, tra cui sono stati identificati insulina e proinsulina, glutammato decarbossilasi (GAD), tirosino fosfatasi (IA-2), fogrina (IA-2β), carbossipeptidasi H, heat shock protein 60, ICA69. La sclerosi multipla o sclerosi a placche è una malattia autoimmune che colpisce elettivamente le guaine mieliniche del sistema nervoso centrale, formate dagli oligodendrociti. La malattia risparmia invece le guaine mieliniche dei nervi periferici, che sono invece formate dalle cellule di Schwann, e sono aggredite in un’altra malattia autoimmune, detta sindrome di Guillain-Barrè. La sclerosi multipla è caratterizzata da una risposta TH1 e CTL contro vari antigeni della mielina, i più noti dei quali sono la proteina mielinica

basica (MBP) e la proteina proteolipidica (PLP). Questi linfociti sono responsabili della formazione di placche infiammatorie (da cui il nome di sclerosi a placche) a livello della sostanza bianca del sistema nervoso centrale, ricche di linfociti T, macrofagi e microglia. La placca esita nella formazione di una cicatrice (da cui il nome di sclerosi multipla) che compromette la trasmissione locale dell’impulso nervoso. La malattia esordisce in genere nella 2a-3a decade di vita e ha in genere un andamento ciclico, detto “intermittente-remittente”, caratterizzato da fasi di acuzie con esacerbazione dei sintomi neurologici, seguite da fasi di remissione con parziale “restitutio ad integrum”. Nel corso delle ricadute si formano le placche infiammatorie che si trasformano in cicatrici nella fase di remissione. Il graduale accumulo di placche determina un progressivo danno neurologico sia motorio sia sensoriale che porta gradualmente a gravi livelli di disabilità. La sindrome di Goodpasture è causata da autoanticorpi specifici contro antigeni delle membrane basali dei glomeruli renali e degli alveoli polmonari. Questi anticorpi attivano il complemento e innesco una risposta infiammatoria locale con danno renale progressivo ed emorragie polmonari anche letali.

Page 40: L’IMMUNITA’ - Il-Cubo · 2020-03-30 · 1 L’IMMUNITA’ Le macromolecole di cui i vari organismi sono formati hanno, nella maggior parte dei casi, struttura e configurazione

40

La colite ulcerosa è una malattia cronica, caratterizzata da infiammazione del colon e del retto, con andamento alternante fra aggravamento e remissioni e da diarrea sanguinolenta. L'intestino colpito è emorragico e ulcerato; la sottomucosa è ricca di infiltrati linfoplasmocitari, ricchi di linfociti TDTH, nonché di granulociti, in rapporto con la sovrapposizione di infezioni batteriche. In una certa percentuale di casi, il plasma contiene anticorpi anticolon. Non è chiaro se sia una vera malattia autoimmune o se sia una reazione di ipersensibilità simile al morbo celiaco, che si svilupperebbe però contro antigeni non noti presenti negli alimenti o nella flora batterica intestinale. Malattie autoimmuni sistemiche.

La caratteristica principale di queste malattie è il fatto che in esse gli anticorpi sono rivolti verso antigeni molto diffusi nell'organismo, in modo che ne vengono compromessi interi sistemi organici, anziché un organo solo. Le più note sono le cosiddette collagenopatie,

nome quanto mai improprio, anche se abbastanza diffuso. La caratteristica comune di queste malattie è la presenza nel connettivo, fra i fasci di fibre collagene, di materiale eosinofilo, omogeneo, denso, interpretabile come sostanza fibrinoide. Questa degenerazione fibrinoide non esprime una reazione immune rivolta verso gli antigeni propri del collageno e può essere presente anche in situazioni non autoimmuni. Un altro elemento comune alle varie malattie autoimmuni sistemiche è la tendenza alla familiarità. E’ frequente, infatti, trovare la stessa malattia autoimmune sistemica, o anche forme diverse dello stesso gruppo di malattie, in soggetti appartenenti alla stessa famiglia. Il lupus eritematoso sistemico, che colpisce specialmente le donne (come del resto anche le altre malattie autoimmuni sistemiche), è caratterizzato dalla presenza sulla cute, specialmente nel volto, ai due lati del naso, di un eritema che per la particolare disposizione è detto «a farfalla». Esiste quasi sempre un quadro artritico e una glomerulonefrite cronica che porta a una grave compomissione della funzione renale. Il quadro si complica talvolta con la presenza di versamenti nelle cavità sierose (polisierosite), endocardite, anemia emolitica, trombocitopenia e altre lesioni a carico di altri organi (polmoni, cervello, intestino, fegato). La malattia ha andamento ciclico, con periodi di riacutizzazione e altri di regressione o di stasi. Nelle fasi acute il complemento diminuisce nel plasma. Spesso esiste un fenomeno di Raynaud. Istologicamente si può osservare, con metodi di immunofluorescenza, la presenza di precipitati di complessi immuni, comprendenti anche il complemento, tra la membrana basale e le cellule endoteliali dei glomeruli renali. Nel fegato si osservano infiltrati linfoplasmacellulari negli spazi portali e talvolta anche nell'interno dei lobuli, con conseguente compromissione funzionale e frequente evoluzione cirrotica (epatite lupoide). Infiltrati linfoplasmocitari caratterizzano anche le lesioni della pelle e di altri organi. Negli organi colpiti è quasi sempre presente degenerazione fibrinoide, diffusa anche alle pareti dei vasi (vasculite). Nel sangue del midollo osseo si osserva un altro fenomeno caratteristico, il fenomeno LE (LE da Lupus

erythematosus). Consiste nella fagocitosi da parte di granulociti neutrofili dei nuclei di altre cellule; i residui appaiono dentro l’elemento fagocitante in forma di corpi ematossilinofili senza struttura apparente. Spesso il citoplasma e il nucleo dell'elemento fagocitante sono ridotti ad un sottile involucro posto intorno alle cellule fagocitate. Il fenomeno LE è stato riprodotto anche in vitro,

aggiungendo il siero degli ammalati a granulociti. E’ dovuto alla presenza in circolo del fattore LE, che consiste di anticorpi rivolti verso il nucleo delle cellule; la fissazione del fattore LE ai nuclei precede la loro fagocitosi da parte dei granulociti normali. Il fattore LE non è probabilmente un anticorpo unico, ma corrisponde ad una serie di anticorpi, specificamente rivolti verso la membrana nucleare, le nucleoproteine, i nucleoli, gli istoni nucleari o addirittura contro il DNA. Sono anche caratteristici gli anticorpi contro l'RNA e le ribonucleoproteine. Altri anticorpi sono rivolti verso cellule del sangue, del colon e anche verso γ-globuline plasmatiche. Gran parte del danno tessutale sembra legato alla deposizione di immunocomplessi formati dagli autoanticorpi e dagli autoantigeni e sarebbe per lo più mediato da un meccansimo di ipersensibilità di III tipo. Gli immunocomplessi si depositano nei vasi e nelle membrane basali dei diversi tessuti determinando l’attivazione del complemento, la produzione di anafilotossine e l’innesco del processo infiammatorio. Un problema centrale dell’immunopatogenesi del lupus è come sia possibile che il sistema immunitario presenti un livelllo di sregolazione così marcato da permettere la perdita della tolleranza verso un numero così elevato di antigeni diversi. In realtà vari autori hanno suggerito che questa ampia varietà di antigeni potrebbe essere ridimensionata dalla considerazione che essi sono componenti di un numero limitato di complessi multimolecolari, ovvero il sistema DNA-istoni e quello RNA-ribonucleoproteine. E’ pertanto possibile che la reattività complessiva sia riconducibile a un numero limitato di linfociti TH specifici per singoli componenti di questi complessi. Questi linfociti TH potrebbero poi funzionare da helper per vari linfociti B specifici per i diversi componenti del complesso multimolecolare. Alcuni autori hanno anche messo in relazione gli elevati livelli di apoptosi che si osservano nei soggetti con lupus con l’osservazione che gli antigeni riconosciuti sono strettamente connessi con l’apoptosi cellulare, che ha tra i suoi elementi chiave proprio la degradazione del nucleo e degli altri acidi nucleici cellulari. E’ stato allora proposto che la malattia possa in definitiva essere legata ad una iperreattività ad antigeni delle cellule apoptotiche. In linea con questa possibilità i soggetti con lupus producono anche anticorpi contro fosfolipidi e altri antigeni di membrana esposti in modo preferenziale dalle cellule apoptotiche. L'artrite reumatoide è una malattia molto diffusa in tutte le età, con preferenza tra i 40 e i 60 anni e per il sesso femminile, che è colpito circa 4 volte più frequentemente di quello maschile. La lesione più evidente è a carico delle articolazioni, che sono colpite da un processo infiammatorio (poliartrite), dapprima blando, poi sempre più grave, sino alla anchilosi. Nei casi più gravi, si arriva alla deformazione del profilo estetico, in parte dovuta alla retrazione cicatriziale che può portare a vere e proprie lussazioni delle estremità articolari, in parte alla atrofia dei muscoli conseguente alla forzata immobilità. Altre lesioni caratteristiche si trovano a livello di altri organi, e in particolare nella cute, nei vasi, nei polmoni. Sono abbastanza frequenti noduli granulomatosi sottocutanei, specialmente in corrispondenza delle zone sottoposte a maggiore frizione, come il gomito. Nei vasi esistono spesso processi arteritici, che possono portare alla necrosi ischemica delle parti non più irrorate. Fenomeni del genere sono frequenti specialmente nella forma che i clinici definiscono maligna, o fulminante. Le lesioni dei vasi possono portare a sofferenza anche di organi parenchimali, e specialmente del rene, del cuore e dei muscoli scheletrici. Frequente è l'interessamento del polmone, che talvolta può assumere aspetto preminente, specialmente in soggetti portatori di pneumoconiosi. L’artrite reumatoide con localizzazione polmonare in silicotici è detta sindrome

di Caplan. Si manifesta soprattutto nei minatori. Nel bambino l'artrite reumatoide si associa spesso a linfo- e splenomegalia ed a

Page 41: L’IMMUNITA’ - Il-Cubo · 2020-03-30 · 1 L’IMMUNITA’ Le macromolecole di cui i vari organismi sono formati hanno, nella maggior parte dei casi, struttura e configurazione

41

manifestazioni di anemia emolitica; si parla allora di morbo di Still. Dal punto di vista istopatologico, la lesione caratteristica dell'artrite reumatoide, reperibile nei noduli sottocutanei, nelle lesioni articolari ed anche negli infiltrati polmonari, è il granuloma reumatoide, di cui si è parlato nel capitolo dell'infiammazione. Classicamente le lesioni reumatoidi sono state attribuite alla produzione di anticorpi anti-immunoglobuline denominati fattori reumatoidi. Questi determinano la formazione di immunocomplessi che precipitano nei tessuti, specialmente in corrispondenza della membrana basale degli endoteli delle arteriole e dei capillari. Precipitazione di complessi immuni è stata dimostrata anche nelle cartilagini e nei tessuti iuxta-articolari; nel siero e nel liquido sinoviale dei pazienti si trovano inoltre complessi formati da immunolgobuline e anticorpi anti-immunoglobuline, capaci di attivare il complemento. Il complesso immune attrae fagociti, che lo inglobano. Gli anticorpi anti-Ig sono detti fattori reumatoidi e sono per lo più IgM specifiche per il frammento Fc delle IgG. Esse possono non avere specificità di specie e possono reagire anche con le γ-globuline di specie diverse dall'uomo (specialmente quelle del coniglio). La loro presenza nel siero venne infatti messa in evidenza grazie alla reazione di Waaler-Rose, che consiste nel mettere in contatto il siero dei pazienti con globuli rossi di montone pretrattati con piccole quantità di siero di coniglio anti-montone, insufficienti per produrre la agglutinazione direttamente. Il fattore reumatoide reagisce con le γ-globuline di coniglio adese sui globuli rossi di montone, determinandone la agglutinazione. L’identificazione dei fattori reumatoidi trova applicazione diagnostica, anche se la presenza di fattore reumatoide nel siero non è patognomonica, in quanto si può trovare anche in soggetti non affetti da artrite reumatoide. Inoltre una percentuale rilevante di soggetti con artrite reumatoide non presenta nessun fattore reumatoide. Questo ha fatto mettere in dubbio il fatto che il fattore reumatoide abbia realmente un importante ruolo patogenetico nella malattia. Varie osservazioni recenti tendono poi ad attribuire la responsabilità delle lesioni articolari a linfociti T specifici contro antigeni delle sierose articolari, il che è in accordo con le caratteristiche istopatologiche delle lesioni, che ricordano la ipersensibilità ritardata. Oltre ai fattori reumatoidi, nel siero dell'ammalato sono spesso presenti anche altri anticorpi rivolti verso antigeni citoplasmatici e nucleari. Più recentemente sono stati identificati come antigeni chiave della malattia le proteine citrullinate (in particolare la vimentina, filagrina, collagene, fibronectina) e anticorpi diretti contro questi epitopi sono un marker molto sensibile della malattia. La citrullinazione è una modificazione postraduzionale delle proteine che deriva dalla trasformazione dei residui di arginina in citrullina catalizzata dell’enzima PAD (peptidil-arginina-deiminasi) la cui espressione aumenta nel corso dei processi infettivi. Spesso l'artrite reumatoide si associa al lupus eritematoso, o ad altri quadri autoimmuni. Tra le sindromi autoimmuni che si associano con una certa frequenza all'artrite reumatoide, sono da ricordare anche la sindrome di

Reiter e quella di Sjögren. La prima è caratterizzata, oltre che dal consueto quadro articolare, da uretrite, cistite, congiuntivite e irite, per cui è stata chiamata anche sindrome congiuntivo-uretro-sinoviale. Talvolta sono presenti anche manifestazioni cutanee di tipo ipercheratosico. La sindrome di Sjögren è caratterizzata da cheratocongiuntivite secca, da secchezza della bocca (xerostomia) e delle mucose delle vie aeree, e (in circa il 70% dei casi) da artrite reumatoide. Spesso sono presenti tumefazioni delle ghiandole lacrimali. Dal punto di vista istologico, si osservano infiltrati linfoplasmocitari nelle ghiandole lacrimali ed in quelle salivari, oltre al quadro consueto a carico delle articolazioni; altre volte esistono anche sclerodermia, poliarterite nodosa o lupus eritematoso sistemico. La poliarterite nodosa è una malattia piuttosto rara nella forma tipica e predilige il sesso maschile. Consiste in un processo di necrosi fibrinoide a carico della media delle piccole arterie, cui seguono proliferazione dell'intima ed occlusione vasale; i tessuti irrorati dai vasi colpiti vanno incontro a necrosi ischemica. Intorno alle zone necrotiche si osserva accumulo di granulociti e di elementi plasmolinfocitari. Mediante tecniche di immunofluorescenza sono state messe in evidenza depositi di immunoglobuline nei tessuti lesi. La sclerodermia (o sclerosi progressiva) è più frequente nelle donne che negli uomini. Nella sua forma localizzata consiste di un diffuso ispessimento della cute, che dipende soprattutto da ialinizzazione e fibrosi del derma, mentre l'epitelio è quasi sempre atrofico e gli annessi cutanei scompaiono; le arterie presentano processi endoarteritici che ne riducono il lume. Gli individui che sviluppano questa forma localizzata spesso sviluppano una sindrome detta CREST, un acronimo per calcinosi cutanea (deposito di calcio a livello cutaneo), fenomeno di Reynaud, disfunzioni esofagee (con problemi alle deglutizione), sclerodattilia (tensione alla cute delle dita) e teleangectasia (formazione di chiazze rosse sulla cute). Le forme con CREST raramente sviluppano la forma sistemica della malattia, nella quale la sclerosi si diffonde anche agli organi interni ed assume andamento fatalmente progressivo, con atrofia dei parenchimi di rene, cuore, polmoni, tratto gastrointestinale e articolazioni (sclerosi sistemica progressiva). Nel plasma sono dimostrabili anticorpi anti-γ-globuline, anticitoplasma ed antinucleo di vari tipi cellulari. Spesso la malattia si associa ad altri quadri autoimmuni. La dermatomiosite preferisce anch'essa il sesso femminile. Consiste nella presenza di un processo infiammatorio a carico della cute e dei muscoli striati. La cute è edematosa e arrossata, specialmente nelle zone esposte alla luce; caratteristico è il collare che compare alla base del collo. I muscoli sono dolenti e ipofunzionanti. Istologicamente si osservano infiltrati linfoplasmocitari e necrosi. Nel muscolo le fibre necrotiche vanno incontro a calcificazioni e a fibrosi. Nel derma si osserva ialinosi, mentre l'epidermide si atrofizza. Spesso la dermatomiosite si associa con tumori maligni. Alcuni Autori ritengono che ciò dipenda dal fatto che l'organismo reagirebbe alle cellule neoplastiche producendo anticorpi rivolti verso antigeni situati su di esse; questi anticorpi potrebbero dare reazioni crociate con antigeni situati nella cute e nei muscoli normali. Meccanismi di induzione dell’autoimmunità

La presenza di linfociti autoreattivi è un fenomeno del tutto normale rilevabile in tutti gli individui. Se si prelevano i linfociti periferici di un individuo e si attivano in vitro con mitogeni policlonali, è frequentemente possibile identificare cellule capaci di reagire contro antigeni self. Questo è particolarmente vero per i linfociti B, nei quali la delezione clonale delle cellule autoreattive sembra essere meno rigorosa che per i linfociti T. Questa differenza è probabilmente legata al fatto che una efficiente risposta B richiede comunque che si attivi anche la risposta T helper, per cui è improbabile l’attivazione del B autoreattivo in assenza del corrispondente TH. L’esistenza di questi cloni autoreattivi è evidenziabile anche in vivo nella mononucleosi infettiva, conseguente

Page 42: L’IMMUNITA’ - Il-Cubo · 2020-03-30 · 1 L’IMMUNITA’ Le macromolecole di cui i vari organismi sono formati hanno, nella maggior parte dei casi, struttura e configurazione

42

alla infezione da virus di Epstein e Barr (EBV), che determina una estesa attivazione policlonale dei linfociti B. In questa malattia si evidenzia la produzione teamporanea di vari di di autoanticorpi, che scompaiono con la guarigione dall’infezione. Le manifestazioni immunopatologiche consistono nella comparsa di un'agglutinazione eterofila (reazione di Paul-Bunnel: compaiono in circolo anticorpi agglutinanti, detti agglutinine, anti-montone), di IgM di vario tipo, di emoagglutinine a frigore (anticorpi capaci di fissarsi sulle emazie a bassa temperatura); talvolta di anemia emolitica e di porpora trombocitopenica. Fortunatamente la presenza di linfociti autoreattivi non significa necessariamente lo sviluppo di malattie autoimmuni. Questo indica che i linfociti autoreattivi in condizioni normali non ricevono dagli antigeni self un segnale sufficiente da permettere la loro attivazione e che questa evenienza si verifica solo in circostanze particolari. Una lezione di quali possano essere queste circostanze viene dallo studio di modelli animali di queste malattie. 1) Modelli animali di malattie autoimmuni Esistono due categorie principali di malattie autoimmuni sperimentali: quelle sviluppate spontaneamente da alcuni ceppi di animali e quelle indotte sperimentalmente mediante immunizzazione con antigeni self. Esempi del primo tipo di malattie sono le malattie sviluppate dai topi diabetici non obesi (NOD), dai topi New Zealand Black (NZB) o dai polli di ceppo obeso. I topi NOD sviluppano un diabete autoimmune spontaneo simile al diabete insulino-dipendente umano, conseguente a una infiltrazione delle isole pancreatiche ad opera di linfociti T e macrofagi, e alla uccisone delle cellule β; la malattia può essere trasmessa ad animali sani mediante il trasferimento di linfociti T, sia CD4+ sia CD8+. I topi NZB e gli ibridi di prima generazione (F1) tra NZB e New Zealand White (NZW) sviluppano spontaneamente una malattia simile al lupus eritematoso sistemico umano, con produzione di autoanticorpi contro numerosi antigeni diversi (tra cui i caratteristici anticorpi anti-DNA) e glomerulonefrite. Una forma di autoimmunità con qualche analogia col lupus eritematoso sistemico è anche sviluppata dai topi MLRlpr/lpr di cui si parlerà più estesamente in seguito. I polli di ceppo obeso sviluppano invece spontaneamente una reazione sia anticorpale sia cellulo-mediata contro la tiroglobulina e sviluppano una malattia simile alla tiroidite di Hashimoto. Queste malattie spontanee sviluppate in ceppi geneticamente selezionati di animali indicano chiaramente che l’autoimmunità può avere una importante componente genetica. Esempi del secondo tipo di malattie sono l’encefalomielite autoimmune sperimentale (EAE), la miastenia grave autoimmune sperimentale (EAMG) e la tiroidite autoimmune sperimentale (EAT), che sono modelli rispettivamente della sclerosi multipla, miastenia grave e tiroidite autoimmune umane. Elementi comuni di queste malattie sperimentali sono: 1) l’induzione della malattia in seguito alla immunizzazione dell’animale con materiale derivato dall’organo che sarà in seguito

aggredito: in particolare si usano in genere proteine della mielina (proteina mielinica basica o proteina proteolipidica) per la EAE, il recettore per l’acetilcolina per la EAMG e la tiroglobulina per la EAT;

2) l’uso in contemporanea di un adiuvante, in genere l’adiuvante di Freund. Questi modelli sperimentali “non spontanei” suggeriscono pertanto che la malattia autoimmune sia indotta dagli autoantigeni, ma solo quando la loro immunogeneicità sia aumentata da elementi esterni (in questo caso l’adiuvante). E’ degno di nota che ceppi geneticamente diversi di topi presentano una suscettibilità diversa a queste malattie oppure possono sviluppare decorsi clinici differenti, il che suggerisce che anche in questo caso abbiano importanza fattori genetici. Infine un tipo particolare di malattia autoimmune sperimentale è l’artrite autoimmune indotta nel ratto dalla immunizzazione con Mycobacterium tubercolosis in adiuvante completo di Freund, un modello sperimentale della artrite reumatoide umana. L’uso in questo caso di un antigene non self indica che l’autoimmunità può essere innescata da un processo infettivo. Pertanto i modelli sperimentali animali nel loro insieme indicano che 1) le malattie autoimmuni hanno una importante componente genetica; 2) possono essere indotte dagli antigeni self, ma solo in particolari condizioni che ne aumentino l’immunogenicità; 3) possono essere indotte da antigeni di agenti infettivi. Si prenderà ora in considerazione come queste osservazioni siano riportabili alle malattie umane. 2) Predisposizione genetica delle malattie autoimmuni umane

E’ stata condotta una enorme mole di studi volti a definire i fattori genetici coinvolti nello svluppo delle malattie autoimmuni. Nel loro complesso i dati ottenuti disegnano il quadro tipico delle malattie multifattoriali in cui un insieme di geni diversi possono influire nella suscettibilità genetica allo sviluppo della malattia, che richiede comunque l’induzione da parte di fattori scatenanti. Molti studi di tipo genetico hanno evidenziato l’associazione statistica di particolari malattie autoimmuni con particolari polimorfismi di specifici geni, ovvero è stato dimostrato che una certa malattia autoimmune è più frequente nei portatori di un determinato allele di un certo gene. Tuttavia spesso non è chiaro se questi geni siano coinvolti direttamente nello sviluppo della malattia oppure se l’associazione statistica sia legata a fenomeni di linkage disequilibium, ovvero al fatto che quell’allele si associa frequentemente ad un particolare allele di un altro gene non noto, posto per lo più in vicinanza al primo e coinvolto nella genesi della malattia. Un esempio di questo fenomeno è stato osservato nel caso delle molecole HLA. In molte malattie autoimmuni si era infatti inizialmente osservata l’associazione con particolari alleli di HLA di classe I, ma successivamente si è verificato che l’associazione era in realtà con alleli di HLA di classe II, che erano in linkage disequilibrium con i primi. Nel complesso i fattori genetici che sono stati associati con maggiore certezza all’autoimmunità e la cui base biologica sia stata dimostrata in modo soddisfacente sono il sesso, l’aplotipo HLA e il sistema del Fas/FasL.

a) Associazione col sesso

Numerose malattie autoimmuni hanno un diversa frequenza nel sesso femminile e in quello maschile. Molte di esse, come il lupus eritematoso sistemico, la miastenia grave, la sclerosi multipla e la sindrome di Sjögren, sono molto frequenti nelle femmine che nei maschi. Viceversa la spondilite anchilosante è più frequente nei maschi. I motivi di questa diversa suscettibilità non sono noti con certezza, ma è probabile che un ruolo centrale sia giocato dagli ormoni sessuali. Non è chiaro se gli ormoni sessuali steroidei abbiano un’azione diretta sui linfociti, tuttavia questa possibilità è suggerita dal fatto che altri steroidi, come il cortisone, hanno un’effetto molto potente. Inoltre altri ormoni espressi differentemente nel maschio e

Page 43: L’IMMUNITA’ - Il-Cubo · 2020-03-30 · 1 L’IMMUNITA’ Le macromolecole di cui i vari organismi sono formati hanno, nella maggior parte dei casi, struttura e configurazione

43

nella femmina, come la prolattina, hanno effetto sui linfociti, come dimostrato dal fatto che il recettore per la prolattina è espresso dai linfociti sia T sia B e che la loro risposta a stimoli di attivazione è modulata in vitro da questo ormone. E’ noto che gli ormoni sessuali modulano notevolmente la risposta immunitaria durante la gravidanza indirizzando prevalentemente la risposta immune verso risposte di tipo TH2. Questo presenta due vantaggi: 1) favorisce le risposte anticorpali di tipo IgG, che sono protettive per il feto dal momento che le IgG superano la barriera placentare; 2) riduce le risposte citotossiche che potrebbero invece aggredire la placenta, che è un organo non self. In effetti alcune forme di aborto precoce ricorrente sono state attribuite ad una eccessiva risposta TH1 o CTL contro la placenta. In linea con queste osservazioni la gravidanza esacerba alcune malattie autoimmuni mediate da anticorpi (e quindi favorite dai TH2), come il lupus eritematoso sistemico, mentre attenua malattie autoimmuni mediate da cellule infiammatorie (e quindi TH1), come la sclerosi multipla e l’artrite reumatoide. E’ quindi possibile che la diversa reattività immunitaria condizionata dai diversi livelli di ormoni sessuali possa essere un fattore in grado di influenzare l’innesco e l’evoluzione della risposta autoimmune nei maschi e nelle femmine. Una seconda causa che può spiegare l’aumentata frequenza di malattie autoimmuni nel sesso femminine è il fatto che molti geni chiave della risposta immunitaria sono localizzati sul cromosoma X. Poiché le femmine hanno due cromosomi X, esse presentano un rischio raddoppiato di essere portatrici di varianti iperfunzionanti di questi geni, che possono favorire lo sviluppo di malattie autoimmuni. D’altra parte, come descritto nel capitolo sulle immunodeficienze, il fatto che i maschi abbiano un solo cromosoma X fa sì che siano più esposti allo sviluppo di immunodeficienze dovute a varianti ipofunzionanti degli stessi geni. b) Associazione con l’aplotipo HLA

Il più noto fattore genetico di predisposizione alle malattie autoimmuni è l’aplotipo HLA. Infatti per la maggior parte di queste malattie è stata descritta l’associazione con determinati alleli HLA. L’associazione è in genere con alleli di molecole HLA di classe II, anche se in alcuni casi è stata descritta l’associazione con molecole di classe I. Ad esempio, il rischio di sviluppo di diabete mellito insulino-dipendente è circa 20 volte maggiore in soggetti che esprimono HLA-DR3 e DR4, rispetto a soggetti che esprimono altri alleli; la probabilità di sviluppare sclerosi multipla è 5 volte maggiore nei portatori di DR2; quella di sviluppare miastenia grave è 5 volte maggiore nei portatori di DR3. L’associazione più stretta è però stata osservata nella spondilite anchilosante, il cui rischio di sviluppo è 90 volte superiore in soggetti portatori della molecola di classe I HLA-B27. In molti casi è stato dimostrato che questa associazione può essere dovuta all’efficienza con cui le molecole predisponenti “presentano” i peptidi self responsabili di quella malattia autoimmune. E’ intuitivo infatti che gli individui che esprimono molecole HLA capaci di presentare efficientemente i peptidi self verso cui si sviluppa una certa risposta autoimmune siano più predisposti allo sviluppo della malattia rispetto a soggetti che esprimono molecole MHC poco efficienti nella presentazione degli stessi. Più difficile è spiegare come determinati alleli HLA risultino protettivi per la malattia. Ad esempio l’espressione di DR2 riesce ad annullare l’effetto predisponente della contemporanea espressione di DR4. In questo caso si ritiene che l’allele protettivo agisca a livello timico, determinando la delezione clonale dei linfociti T con potenzialità autoreattive. In altre parole, se i linfociti T che riconoscono i peptidi diabetogenici presentati da DR4 cross-reagiscono potentemente con le molecole DR2, essi vengono deleti nel timo da DR2. In questo modo l’effetto predisponente di DR4 viene annullato, venendo a mancare in periferia i linfociti T in grado di reagire con i peptidi diabetogenici presentati da DR4. c) Studi GWAS

Negli ultimi anni sono stati eseguiti numerosi studi genetici di tipo GWAS (Genome Wide Analysis Study), nei quali sono state ricercate associazioni tra varie malattie autoimmuni e polimorfismi genetici, scannerizzando in modo ampio il genoma di pazienti e controlli sani. Questi studi hanno evidenziato un decine di geni (prevalentemente immunitari) che potrebbero essere coinvolti nello sviluppo di malattie autoimmuni. Alcuni di questi geni sembrano essere specificamente coinvolti in alcune malattie autoimmuni, mentre altri sembrano avere un coinvolgimento generale nell’autoimmunità. Un aspetto chiave di questi studi sta nel fatto che essi hanno messo in luce come ciascuno di questi geni dia un contributo minimo alla predisposizione genetica alle malattie autoimmuni e ciò che conta per ciascun individuo è il contributo cumulativo dato dalla copresenza di molte varianti geniche predisponenti. d) Malattie autoimmuni monogeniche

Un caso particolare è rappresentato da alcune malattie autoimmuni causate da lesioni a carico di singoli geni. Tra queste si possono ricordare ALPS, IPEX e APECED. i) ALPS (sindrome autoimmune linfoproliferativa). Come si è detto in precedenza, il Fas è un interruttore di apoptosi espresso dai linfociti attivati ed è coinvolto nello spegnimento della risposta immunitaria e nella eliminazione di gran parte dei linfociti effettori che si sono espansi nel corso della risposta. In questo modo si evita che i linfociti si accumulino nell’organismo in conseguenza delle successive risposte immunitarie cui va incontro l’individuo nel corso della sua vita e si riduce il rischio che, una volta eliminato l’antigene, i linfociti attivati si indirizzino contro antigeni self che presentino somiglianze con gli antigeni non self eliminati (vedere il concetto di mimetismo molecolare nella sezione successiva). E’ pertanto intuitivo che se questo sistema non funziona in modo corretto, si può verificare un accumulo di linfociti negli organi linfatici secondari e un aumentato rischio di sviluppo di malattie autoimmuni. Questo è in effetti quello che si verifica in topi di ceppo MLR portatori del carattere lpr (linfoproliferazione) o gld (generalized lymphoproliferative disease). Topi omozigoti per lpr (MLRlpr/lpr) o per gld (MLRgld/gld) sviluppano un quadro autoimmune (con varie emocitopenie, glomerulonefrite e vasculite) associato a linfoadenomegalia e/o splenomegalia legata ad accumulo di linfociti B e T nei tessuti linfatici secondari. All’inizio degli anni ’90 sono state identificate le basi molecolari dei due caratteri: il carattere lpr è dovuto a mutazioni nel gene di Fas, mentre il carattere gld è dovuto a mutazioni nel gene di FasL. In entrambi i casi le mutazioni causano un difetto funzionale del sistema di spegnimento dei linfociti. Nell’uomo una situazione simile è stata osservata in pazienti affetti dalla ALPS. Questi pazienti sviluppano in età pediatrica manifestazioni autoimmuni varie associate a linfoadenomegalia e/o splenomegalia. I pazienti con ALPS presentano mutazioni a carico del sistema di Fas, che possono colpire il gene di Fas, quello di FasL, oppure geni di altre molecole coinvolte nella via di trasduzione del segnale di Fas. L’osservazione che le famiglie dei pazienti con ALPS presentano una elevata incidenza di malattie

Page 44: L’IMMUNITA’ - Il-Cubo · 2020-03-30 · 1 L’IMMUNITA’ Le macromolecole di cui i vari organismi sono formati hanno, nella maggior parte dei casi, struttura e configurazione

44

autoimmuni di vario tipo, anche in assenza del tipico quadro ALPS, suggerisce che queste mutazioni possano anche favorire lo sviluppo di malattie autoimmuni comuni diverse dal raro quadro ALPS. ii) IPEX IPEX (Immune Dysregulation Endocrinopathy X linked) è una malattia autoimmune polireattiva dovuta a mutazioni del gene FoxP3. La ridotta funzione di Foxp3 causa una ridotta differenziazione dei Treg nel timo e quindi una ridotta tolleranza periferica legata all’attività di queste cellule. IPEX si sviluppa precocemente nell’infanzia (specie dei maschi essendo una malattia X-linked) ed è caratterizzata da sviluppo di diabete tipo 1, tiroidite, alopecia, anemia, dermatite, pneumopatia interstiziale, enteropatia. Una malattia analoga è sviluppata dai topi scurfy, portatori di una mutazione di FoxP3. iii) APECED APECED (autoimmune polyendocrinopathy-candidiasis-ectodermal displasia with immunodeficiency) è una malattia autoimmune polireattiva dovuta a mutazioni del gene AIRE. La ridotta funzione di AIRE causa una ridotta presentazione di autoantigeni da parte delle cellule epiteliali timiche con conseguente difetto sia della selezione negativa dei timociti autoreattivi sia della differenziazione dei Treg nel timo e quindi una ridotta tolleranza sia centrale che periferica. La malattia è caratterizzata dallo sviluppo di candidiasi mucocutanea cronica, ipoparatiroidismo, malattia di Addison, alopecia, cheratocongiuntivite, anemia perniciosa e distrofie dentali. 3) Fattori scatenanti le malattie autoimmuni umane

I fattori genetici sopra descritti favoriscono lo sviluppo delle malattie autoimmuni, ma non le determinano direttamente, come dimostrato dal fatto che soggetti portatori dei fattori di suscettibilità possono anche non sviluppare nessuna malattia. Lo sviluppo della malattia richiede infatti l’intervento di fattori scatenanti ambientali, tra cui si dà particolare importanza alle processi infettivi. L’associazione tra malattie infettive e autoimmunità è nata dall’osservazione clinica che l’esordio di numerose malattie autoimmuni è spesso preceduto da un episodio infettivo. Si ritiene oggi che questo possa innescare lo sviluppo della malattia autoimmune con tre meccanismi: il mimetismo molecolare, l’induzione di una espressione inappropriata di molecole MHC e di molecole costimolatorie e il rilascio di antigeni sequestrati.

a) Mimetismo molecolare

Numerosi patogeni esprimono proteine che presentano un notevole livello di omologia, in alcune loro parti, con molecole umane. Questo è particolarmente vero per i virus i quali, infettando la cellula ospite, possono appropriarsi di porzioni di genoma di quest’ultima. Queste omologie sono state osservate sia confrontando le sequenze aminoacidiche delle proteine dei microrganismi con quelle delle proteine umane, sia in studi che valutavano la cross-reattività con tessuti umani di anticorpi monoclonali specifici per vari tipi di virus. E’ stato quindi proposto che questo “mimetismo molecolare” possa essere uno dei principali fattori coinvolti nello sviluppo delle malattie autoimmuni. Secondo questo modello queste sarebbero pertanto legate alla cross-reattività della risposta immunitaria anti-microrganismo con alcuni costituenti self. L’esempio noto da più tempo di danno autoimmune dovuto a cross-reazione è la febbre reumatica post-streptococcica che si può sviluppare dopo una infezione da Streptococco β-emolitico. La malattia è caratterizzata da danno del muscolo cardiaco e dell’endotelio valvolare causato da anticorpi anti-streptococco che cross-reagiscono con antigeni cardiaci. Altre associazioni sono state fatte tra infezioni da virus Coxakie B o Rotavirus e diabete mellito insulino-dipendente e tra virus del morbillo e sclerosi multipla. In effetti sequenze proteiche di Coxakie B hanno una notevole omologia con GAD65 e sequenze di Rotavirus hanno omologia con insulina e IA-2, tutti auto-antigeni coinvolti nel diabete mellito insulino-dipendente; inoltre sequenze della proteina P3 del virus del morbillo hanno omologia con sequenze della proteina mielinica basica, noto auto-antigene coinvolto nella sclerosi multipla. Questo modello è stato convalidato producendo topi transgenici portatori di un antigene del virus della corionmeningite linfocitaria (LMCV) sotto il controllo del promotore dell’insulina. In questi topi le cellule β del pancreas esprimono basalmente l’antigene virale, ma non sviluppano malattia. Se però l’animale viene infettato con LMCV, si sviluppa un’intensa risposta anti-virale che cross-reagisce con le cellule β e causa diabete. b) Espressione inappropriata di molecole MHC e di molecole costimolatorie I tessuti oggetto di un’aggressione autoimmune esprimono in genere elevati livelli di molecole MHC di classe I e II ed elevati livelli di molecole costimolatorie, come B7-1 e B7-2. Questo è stato osservato in numerose situazioni, come nelle insule pancreatiche nel corso dell’insulite autoimmune, nella placche attive della sclerosi multipla, nella tiroide nel corso della tiroidite di Hashimoto. Poiché il danno autoimmune avviene in genere attraverso un processo infiammatorio cronico che coinvolge un infiltrato ricco di linfociti e macrofagi attivati (ricchi di MHC e di B7), nonché la produzione di citochine, come l’IFN-γ, che possono aumentare l’espressione di MHC anche sulle cellule epiteliali, è logico pensare che l’aumentata espressione di queste molecole sia la conseguenza, e non la causa, dell’aggressione autoimmune. D’altra parte è però anche possibile pensare che qualsiasi agente (ad esempio un virus) capace di produrre un processo infiammatorio locale in questi tessuti può funzionare da adiuvante per l’innesco di un processo autoimmune in soggetti predisposti. Questo modello è stato convalidato producendo topi transgenici portatori del gene di IFN-γ sotto il controllo del promotore dell’insulina. In questi topi le cellule β del pancreas producono basalmente elevati livelli di IFN-γ che induce l’espressione locale di elevati livelli di MHC di classe II. Questi topi sviluppano un diabete spontaneo del tutto simile a quello dei topi NOD e dei pazienti con diabete mellito insulino-dipendente. c) Rilascio di antigeni sequestrati La selezione negativa midollare e timica volta alla delezione dei linfociti B e T autoreattivi avviene contro i principali antigeni presenti nell’organismo, ma non può riguardare antigeni espressi selettivamente in determinati tessuti, che non riescono a riaggiungere gli organi linfatici primari in quantità sufficienti per indurre una selezione negativa. Per questo motivo, oltre al fenomeno della tolleranza centrale che si sviluppa nel midollo e nel timo, il sistema immunitario si avvale anche di una tolleranza periferica che controlla i linfociti autoreattivi che siano sfuggiti al filtro degli organi linfatici primari. La tolleranza periferica consiste essenzialmente nella induzione di apoptosi o anergia in tutti i linfociti che incontrano antigeni in contesti non infiammatori (cioè in

Page 45: L’IMMUNITA’ - Il-Cubo · 2020-03-30 · 1 L’IMMUNITA’ Le macromolecole di cui i vari organismi sono formati hanno, nella maggior parte dei casi, struttura e configurazione

45

assenza di cellule presentanti l’antigene attivate e di molecole costimolatorie), il che è la regola per i normali antigeni self dei tessuti. Alcuni antigeni però sfuggono anche alla tolleranza periferica in quanto sono sequestrati in organi non accessibili al sistema immunitario specifico. Classici esempi sono l’occhio, il testicolo e il sistema nervoso centrale. Nel caso in cui questi organi siano danneggiati da traumi o infezioni, è possibile che gli antigeni sequestrati siano liberati, il che avviene per di più in un contesto infiammatorio che favorisce la risposta immunitaria. In questa situazione il sistema immunitario può reagire contro questi antigeni self e produrre una malattia autoimmune contro l’organo in questione. Esempi di malattie prodotte con un meccanismo di questo tipo sono la oftalmopatia simpatica e la azoosperima autoimmune La oftalmopatia simpatica si manifesta nell'occhio sano, due o tre settimane dopo un intervento chirurgico o una lesione infiammatoria o traumatica dell'altro. E’ caratterizzata da un'uveite con infiltrazione linfoplasmocitaria della stessa uvea e specialmente dell'iride e del corpo ciliare. Nel sangue esistono anticorpi verso antigeni uveali. Il trauma o l'operazione chirurgica libererebbero dalle cellule pigmentate dell'uvea antigeni sequestrati, capaci di sollecitare la formazione degli autoanticorpi. Un fenomeno del genere, ma con anticorpi anticristallino, avviene anche nella oftalmite facoanafilattica, che fa parte del quadro della oftalmopatia simpatica, ma è caratterizzata soprattutto da cataratta. Si può formare dopo interventi chirurgici sul cristallino. La azoospermia autoimmune è spesso causa di sterilità. In molti casi di azoospermia (cioè di assenza o forte diminuzione di spermatozoi nello sperma) è possibile mettere in evidenza la presenza nel plasma di anticorpi rivolti contro gli spermatozoi. La malattia sarebbe in rapporto con orchiti o deferentiti capaci di impedire il normale deflusso degli spermatozoi, e di portare in diretto contatto gli antigeni degli spermatozoi con le cellule immunocompetenti del connettivo peritubulare. Nella cavia e nel ratto, una azoospermia è stata ottenuta mediante inoculazione di estratto di testicolo omologo o autologo, mescolato con adiuvante di Freund completo; è preceduta da un'orchite, in cui l'elemento istologico fondamentale è l'infiltrazione linfo-plasmacellulare. Un meccanismo paragonabile a questo è quello che sta alla base della encefalomielite post-vaccinica che può comparire in individui trattati con vaccino antirabbico, consistente in un estratto di midollo spinale di coniglio, contenente il virus fisso. La frequenza è di un caso su 3.000-10.000 trattati. Dal punto di vista istopatologico, sia nella forma umana che in quelle sperimentali, la malattia è caratterizzata da demielinizzazione multifocale; i focolai sono in rapporto con infiltrati linfoplasmacellulari, situati intorno ai piccoli vasi. d) Fenomeno dell’epitope spreading

Il ruolo del processo infiammatorio e del danno tessutale nell’indurre la malattia autoimmune può anche spiegare un fenomeno molto frequente nelle malattie autoimmuni sia umane sia sperimentali, ovvero il fenomeno detto ”epitope spreading” o “espansione epitopica”. Questo fenomeno consiste nel fatto che l’esordio della malattia autoimmune è in genere legato allo sviluppo di un’autoreattività contro singoli epitopi di autoantigeni, ma lo sviluppo della malattia si accompagna in genere al sovrapporsi di altre autoreattività specifiche per altri epitopi della stessa molecola e anche per molecole differenti. Il fenomeno può essere dovuto al fatto che il danno autoimmune iniziale determina la liberazione di antigeni sequestrati contro cui si possono sviluppare nuove risposte autoimmuni, favorite dalle citochine e dalle molecole costimolatorie presenti nel tessuto infiammato. 4) Meccanismi di tolleranza immunitaria

La tolleranza centrale è legata a meccanismi che agiscono a livello della maturazione dei linfociti degli organi linfatici primari, midollo osseo e timo, e determinano la selezione negativa dei linfociti immaturi autoreattivi. Accanto a questa agisce anche una tolleranza periferica, che agisce per impedire l’azione di linfociti debolmente autoreattivi che possono essere sfuggiti alla tolleranza centrale. I meccanismi della tolleranza periferica includono: a) La necessità del secondo segnale (mediato dall’interazione CD28/B7) perché di abbia l’attivazione della risposta immunitaria. In assenza del secondo segnale (ovvero di infiammazione) l’incontro di un linfocita col suo antigene porta alla delezione o anergia del linfocita. In genere gli autoantigeni sono espressi in assenza di infiammazione, per cui i linfociti autoreattivi sono inibiti da questo meccanismo. b) Alcuni giorni dopo la loro attivazione i linfociti effettori sono eliminati da vari meccanismi (Fas, PD1, CTLA-4) che riducono la possibilità che possano cross-reagire con il self. c) La riattivazione di un linfocita effettore porta alla sua morte anziché alla sua espansione. Questo fenomeno si chiama “morte cellulare indotta da riattivazione” e riduce il rischio che un linfocita attivato da un antigene microbico possa poi essere riattivato da un autoantigene cross-reattivo. d) I linfociti Treg inibiscono l’attivazione di linfociti autoreattivi e contribuiscono allo spegnimento dei linfociti effettori coinvolti nelle risposte immunitarie TRAPIANTI E REAZIONE DI RIGETTO.

Si dice innesto o trapianto il trasporto di tessuti viventi da un individuo ad un altro, oppure da un punto ad un altro dello stesso organismo. In quest'ultimo caso si parla di autotrapianto, o di trapianto autologo. Il trapianto è isologo (isotrapianto) quando avviene tra due individui geneticamente identici (gemelli monocoriali o animali singenici, ovvero appartenenti allo stesso ceppo geneticamente puro); è omologo (omo- o allotrapianto) quando avviene tra due individui non geneticamente correlati nell'ambito della stessa specie; è eterologo (etero- o xenotrapianto) quando i due individui non appartengono alla stessa specie. Esempi di autotrapianti sono il trapianto di cute nelle grandi ustioni, il trapianto d’osso nella riparazione di fratture con perdita di tessuto osseo o il trapianto autologo di midollo osseo, per lo più effettuato in soggetti trattati con dosi elevate di farmaci antineoplastici tossici per il midollo osseo. Esempi di allotrapianti sono i trapianti di rene, cuore, fegato, cuore-polmoni, o pancreas. Un esempio di xenotrapianto è il trapianto di valvole cardiache porcine. Il trapianto può riguardare quindi poche cellule, frammenti di organo o organi interi. In un trapianto si considera un ricevente e un donatore, riferendosi soprattutto alla massa dei tessuti trasferiti. Le condizioni che determinano l'accettazione dei trapianti sono 1) la possibilità dell'organo o del tessuto trapiantato di potersi nutrire a sufficienza attraverso un circolo efficiente; 2) la tollerabilità immunologica dei due partner. Si parla di rigetto immunologico soltanto nel caso in cui il mancato attecchimento dipenda da fattori immunologici. Di regola, non c'è rigetto immunologico nei riguardi degli autotrapianti e degli isotrapianti, mentre il rigetto è costante negli allotrapianti e xenotrapianti. Le condizioni che determinano il

Page 46: L’IMMUNITA’ - Il-Cubo · 2020-03-30 · 1 L’IMMUNITA’ Le macromolecole di cui i vari organismi sono formati hanno, nella maggior parte dei casi, struttura e configurazione

46

rigetto dipendono dalla differente struttura antigenica dei due partner. Gli antigeni che entrano in gioco sono detti antigeni della

istocompatibilità, o antigeni H (H = histocompatibility); la loro produzione è controllata da geni, detti geni dell'istocompatibilità, o geni H, che si trasmettono secondo le leggi di Mendel, comportandosi per lo più come dominanti. Esistono varie famiglie o sistemi di geni dell'istocompatibilità. Nel caso della specie umana, sono stati studiati specialmente quelli presenti in cellule facilmente isolabili ed analizzabili, come i globuli rossi e i linfociti. Queste cellule contengono numerosi antigeni propri, presenti esclusivamente in esse, ed altri che invece sono in comune con altre strutture dell'organismo.

1) Antigeni di istocompatibilità

a) Antigeni di gruppo sanguigno

Uno dei sistemi più studiati, certamente efficaci nel determinare l'incompatibilità immunologica, è il sistema AB0 dei globuli rossi, cioè l'insieme degli antigeni A e B delle emazie (detti anche agglutinogeni poiché sono in genere tipizzati con reazioni di agglutinazione). In base alla presenza nei globuli rossi di questi agglutinogeni, gli individui si dividono in 4 gruppi, e cioè A (antigene A sulle emazie; nel plasma sono presenti anticorpi naturali anti-B); B (antigene B sulle emazie, anticorpi anti-A nel plasma); AB (antigeni sia A sia B sui globuli rossi, nessun anticorpo nel plasma); e 0 (i globuli rossi non contengono né l'antigene A né il B, il plasma contiene anticorpi sia anti-A sia anti-B). Gli antigeni AB0 rappresentano diversi livelli di glicosilazione di un oligosaccaride espresso sulla membrana dei globuli rossi e la differenza genetica tra i diversi individui risiede nelle glicosiltrasferasi responsabili dell’aggiunta degli zuccheri immunodominanti alla catena oligosaccaridica. Gli individui 0 sono i donatori universali, in quanto i loro globuli rossi non contengono agglutinogeni A e B e possono essere trapiantati (trasfusi) in tutti i soggetti; gli individui AB sono ricevitori universali, in quanto non possiedono nel sangue agglutinine e accettano quindi tutti gli antigeni del sistema AB0. Gli antigeni del sistema AB0 sono presenti anche al di fuori dei globuli rossi (ad esempio sulle cellule endoteliali dei vasi) e intervengono nel rigetto di trapianti anche di tessuti diversi dal sangue. I globuli rossi contengono anche altri antigeni, appartenenti a sistemi genetici diversi. Essi, pur essendo meno attivi nel determinare incompatibilità trasfusionali, possono assumere particolare rilievo in certe situazioni. Si tratta dei sistemi P (antigeni P1, e P2), MN (antigeni M, N o MN) e Rh. Il sistema Rh è estremamente complesso, ma per semplicità si distingue un fenotipo Rh+ e uno Rh-. Nel rigetto di tessuti diversi dal sangue, solo alcuni di questi sistemi entrano in gioco; certamente è importante il sistema P, mentre non sono importanti l'MN e l'Rh. Ciò indica che questi ultimi antigeni sono presenti soltanto nei globuli rossi e non in altri tessuti, mentre gli antigeni AB0 e P hanno diffusione maggiore. A questi antigeni se ne aggiungono numerosi altri, il cui ruolo in terapia trasfusionale è però limitato a causa della loro scarsa immunogenicità oppure del fatto che essi distinguono gruppi di popolazione molto sbilanciati, con una grande maggioranza di individui che appartiene a un gruppo comune e solo pochissimi individui che appartengono a un gruppo raro. Si parla in questi casi di antigeni privati quando l’antigene è espresso dal gruppo raro e non da quello comune, di antigeni pubblici quando l’antigene è espresso dal gruppo comune e non da quello raro.

b) Antigeni MHC

Gli antigeni del sistema maggiore di istocompatibilità sono responsabili delle reazioni di rigetto più intense a livello degli allotrapianti. Il sistema, che nell’uomo si chiama HLA e nel topo H-2, è stato descritto nel paragarfo sulla presentazione dell’antigene e comprende nell’uomo 3 molecole di classe I (HLA-A, -B, -C) e tre molecole di classe II (HLA-DR, -DP, -DQ), i cui geni sono localizzati in stretta prossimità sul cromosoma 6. Questo sistema di geni è caratterizzato da un livello altissimo di polimorfismo, per cui la probabilità che due soggetti abbiano la stessa combinazione di alleli per le diverse molecole è bassissima. A causa della stretta vicinanza di questi geni sul cromosoma 6, i fenomeni di crossing-over all’interno di questa regione sono rari e, di norma, ciascun individuo eredita un blocco di molecole (aplotipo) dal padre e uno dalla madre, secondo le classiche leggi di Mendel. Questo significa che un figlio è sicuramente diverso, per un aplotipo, da ciascuno dei genitori, mentre due fratelli hanno il 25% di probabilità di essere identici, ovvero di ereditare gli stessi aplotipi dal padre e dalla madre. La risposta dei linfociti T di un soggetto alle molecole MHC di un altro soggetto si chiama alloreattività. E’ stato calcolato che circa 1-5% dei linfociti T circolanti siano alloreattivi nei confronti di un determinato antigene di istocompatibilità di un altro soggetto, il che rappresenta una frequenza enormemente maggiore rispetto alla frequenza di riconoscimento dei normali antigeni, che sono in genere riconosciuti da un linfocita ogni 105-106. Questo spiega la risposta rapida e intensa del sistema immunitario ai trapianti incompatibili per il sistema HLA. Si ritiene che l’alloreattività rappresenti un fenomeno di cross-reattività per il quale una parte dei linfociti T, selezionati nel timo per la loro capacità di riconoscere complessi tra molecole MHC self e peptidi non self, sarebbe anche capace di reagire contro molecole MHC non self indipendentemente dal peptide da queste presentato. L’elevata frequenza dell’alloreattività tra i linfociti T è giustificata dalla elevata densità con cui le molecole MHC sono espresse in membrana dalle cellule presentanti l’antigene. Infatti questa elevata densità di “antigene” rende possibile l’attivazione di linfociti T che riconoscono queste molecole con un’affinità molto bassa, in quanto rende possibile la stimolazione di molti TCR su ciascun linfocita. Viceversa il riconoscimento degli antigeni tradizionali (ovvero il complesso MHC-peptide) richiede un’affinità molto più elevata in quanto l’antigene è presente a una densità molto più bassa sulla superficie della APC: infatti il peptide specifico è presentato solo da una piccola frazione delle molecole MHC della APC, dovendo competere con gli altri peptidi processati dalla cellula. c) Antigeni minori di istocompatibilità

Il trapianto d’organo effettuato tra due ceppi di topi identici per le molecole MHC, ma per il resto geneticamente diversi, dà inevitabilmente luogo al rigetto. Questo è meno intenso di quello legato a differenze del sistema MHC, ma porta comunque alla graduale distruzione dell’organo trapiantato. Lo stesso fenomeno si verifica nell’uomo nel caso di trapianti tra due individui identici a per HLA, ma per il resto geneticamente diversi. Gli antigeni che mediano questo tipo di rigetto sono detti antigeni minori di

istocompatibilità e non hanno nulla a che vedere col sistema MHC. Essi non sono altro che diverse varianti alleliche di proteine prodotte dalle cellule del donatore e del ricevente. Queste proteine sono processate e presentate sulle molecole MHC self e sono riconosciute come non self dai linfociti T, che nel timo hanno “imparato” a riconoscere come self solo la variante allelica dei ricevente e non quella del donatore. Un esempio tipico di antigeni minori di istocompatibilità è l’antigene Y del topo, il quale è situato sul cromosoma Y ed è responsabile del rigetto di trapianti di tessuti maschili nella femmina singenica.

Page 47: L’IMMUNITA’ - Il-Cubo · 2020-03-30 · 1 L’IMMUNITA’ Le macromolecole di cui i vari organismi sono formati hanno, nella maggior parte dei casi, struttura e configurazione

47

2) Meccanismi del rigetto

Perché si manifesti la reazione di rigetto, occorre che gli antigeni dell’organo trapiantato possano giungere nel tessuto linfatico secondario del donatore, in cui innescano la risposta immune (fase di riconoscimento o di sensibilizzazione), e che quindi i linfociti attivati possano giungere nel tessuto trapiantato (fase effettrice) e indurne la distruzione. Se il tessuto viene trapiantato nel peritoneo di ospiti competenti, dopo di essere stato immesso in un sacchetto millipore impermeabile alle cellule, resiste a lungo senza venire respinto. Lo stesso accade se il trapianto avviene nella camera anteriore dell'occhio, ove i linfociti non arrivano. Se il trapianto è eseguito in zone del corpo in cui il circolo linfatico è scarso, la reazione di rigetto non avviene o avviene molto lentamente. Esempi di zone con scarso drenaggio linfatico e scarsa possibilità di rigetto sono il tessuto nervoso centrale e quello sottocutaneo della tasca della guancia del criceto e sono detti siti privilegiati La fase di sensibilizzazione è principalmente legata all’azione delle cellule presentanti l’antigene del trapianto (principalmente macrofagi e cellule dendritiche), le quali lasciano l’organo trapiantato e migrano nei tessuti linfatici secondari del ricevente, dove innescano l’attivazione dei linfociti alloreattivi. Altri linfociti possono essere attivati dalle cellule presentanti l’antigene del ricevente, le quali possono endocitare, processare e presentare gli antigeni minori di istocompatibilità del trapianto. Contemporaneamente gli antigeni del trapianto attivano anche i linfociti B e inducono una risposta anticorpale. Linfociti T attivati e anticorpi lasciano quindi gli organi linfatici secondari, invadono il trapianto e ne organizzano la distruzione L’immunizzazione prodotta dal rigetto produce una memoria immunologica specifica. Infatti la ripetizione di un trapianto nello stesso soggetto trova questo più pronto al rigetto, ma solo nel caso in cui il secondo trapianto presenti antigeni comuni col primo. Questo è facilmente osservabile in modelli murini. Infatti il trapianto di cute da un topo di ceppo A in uno di ceppo B produce un rigetto in una decina di giorni, detto rigetto primario (first set). Se il topo di ceppo B subisce un secondo trapianto con cute di ceppo A, il rigetto avviene in 3-4 giorni ed è detto rigetto secondario (second set). Se il secondo trapianto viene invece effettuato con cute un topo di ceppo C, il rigetto avviene nuovamente con la cinetica di un rigetto primario. A seconda della cinetica e dei meccanismi immunopatologici che lo sostengono, si distinguono tre tipi di rigetto: rigetto iperacuto,

rigetto acuto e rigetto cronico.

-Rigetto iperacuto

Il rigetto iperacuto si verifica entro poche ore dall’esecuzione del trapianto ed è dovuto all’azione di anticorpi preesistenti nel ricevente. Un classico esempio è quello del rigetto dei trapianti incompatibili per gli antigeni AB0 di gruppo sanguigno per opera degli anticorpi anti-A e anti-B. Come accennato in precedenza, gli antigeni A e B non sono espressi solo sui globuli rossi, ma anche sulle cellule endoteliali dei vasi. Inoltre i soggetti dei vari gruppi AB0 presentano costantemente anticorpi contro gli antigeni A e B che non esprimono. Questi anticorpi sono IgM naturali e preesistono al trapianto. Pertanto il trapianto di un organo di gruppo A in un soggetto di gruppo B determinerà il suo rigetto iperacuto dovuto all’azione degli anticorpi anti-A del ricevente. Una situazione simile è quella si verifica negli xenotrapianti dal momento che le cellule endoteliali degli animali esprimono antigeni, simili a quelli del sistema AB0, per i quali l’uomo possiede anticorpi naturali. Inoltre soggetti politrasfusi, donne poligravide e soggetti già trapiantati possono avere in circolo anticorpi specifici per le molecole MHC espresse rispettivamente dai leucociti e piastrine presenti nelle trasfusioni, dai leucociti dei figli (passati nella madre al momento del parto), e dagli organi trapiantati. Nel rigetto iperacuto gli anticorpi preesistenti si legano alle cellule endoteliali dei vasi del trapianto immediatamente dopo l’esecuzione del trapianto stesso, senza bisogno di una fase di sensibilizzazione. Il legame degli anticorpi determina l’attivazione del complemento, con conseguente danno diretto dell’endotelio, attivazione della cascata coagulativa e trombosi. Contemporaneamente le anafilotossine inducono l’arresto dei granulociti neutrofili, che contribuiscono a loro volta alla trombosi. La morte dell’organo trapiantato avviene quindi per necrosi ischemica e il rigetto iperacuto è anche detto rigetto bianco per l’aspetto pallido assunto dall’organo interessato. Il rigetto iperacuto non può essere controllato dalla terapia immunosoppressiva e deve essere pertanto prevenuto evitando di effettuare il trapianto se il donatore ha anticorpi contro di esso. Questi anticorpi sono ricercati cimentando il siero del ricevente con i leucociti del donatore in un test detto di reazione crociata. Il rigetto iperacuto rappresenta il principale ostacolo all’esecuzione degli xenotrapianti, che se potrebbero risolvere il problema della carenza di organi per i trapianti. Oggi si sta cercando di ovviare a questo problema producendo ceppi di maiali modificati geneticamente in modo da essere meno suscettibili a questo tipo di rigetto. Con questo scopo sono stati prodotti animali transgenici per il DAF umano, un inibitore del complemento umano, e per glicosiltransferasi umane in grado di modificare gli oligosaccaridi di gruppo sanguigno del maiale trasformandoli in quelli del sistema AB0 umano. -Rigetto acuto e cronico

Il rigetto acuto si sviluppa circa 10 giorni dopo il trapianto, mentre quello cronico si sviluppa dopo mesi o anni. La differenza tra questi due tipi di rigetto è sostanzialmente quantitativa ed entrambi sono mediati principalmente da linfociti TDTH, con un meccanismo sovrapponibile a quello della ipersensibilità di tipo IV. L’organo trapiantato viene invaso da linfociti CTL, TH1 e macrofagi e il tessuto danneggiato viene gradualmente sostituito da tessuto fibroso nel corso di una tipica reazione infiammatoria cronica. E’ presente anche una componente umorale di varia entità. Il rigetto acuto e cronico possono essere in parte prevenuti scegliendo con attenzione la combinazione migliore tra donatore e ricevente. Da questo punto di vista ha importanza la tipizzazione degli aplotipi HLA di entrambi i soggetti, che permette di valutare il grado di compatibilità. Inoltre, se possibile, si preferisce scegliere il donatore nell’ambito della stessa famiglia per ridurre le differenze a livello di antigeni minori di istocompatibilità. Il rigetto acuto e cronico richiedono l‘innesco di una risposta attiva e possono essere controllati con le terapie immunosoppressive oggi a disposizione. La suscettibilità del trapianto al rigetto dipende da vari fattori, quali a) le dimensioni dell’organo, b) la sua capacità di rigenerare e c) i livelli di espressione delle molecole MHC. Ad esempio il fegato, che è grande, capace di rigenerare ed esprime bassi livelli di

Page 48: L’IMMUNITA’ - Il-Cubo · 2020-03-30 · 1 L’IMMUNITA’ Le macromolecole di cui i vari organismi sono formati hanno, nella maggior parte dei casi, struttura e configurazione

48

molecole MHC di classe I, tollera un livello di incompatibilità molto maggiore rispetto al rene, che è piccolo, non rigenera ed esprime elevati livelli di MHC. Il livello di compatibilità ricercato dipende anche dalle possibilità di scelta che si hanno a disposizione. Pertanto la compatibilità ricercata per organi la cui disponibilità sia scarsa, come fegato e cuore, sarà inferiore rispetto a quella ricercata per organi maggiormente disponibili, come il rene e il midollo osseo, che possono essere donati anche da un vivente. Il trapianto di midollo osseo presenta una problematica diversa rispetto ai comuni trapianti. Infatti il midollo osseo contiene vari tipi cellulari, tra cui linfociti T e B maturi e immunocompetenti, Inoltre il trapianto viene eseguito dopo aver praticato una terapia mieloablativa, volta alla eliminazione del midollo autologo, che ha il risultato di distruggere il sistema immunitario del ricevente. L’introduzione dei linfociti maturi del donatore scatena una risposta di questi ultimi contro i tessuti del ricevente, la quale non può essere contrastata dal sistema immunitario del ricevente, debilitato dalla terapia mieloablativa. Si sviluppa allora una malattia di rigetto del trapianto contro l’ospite o graft versus host disease (GVHD), che è sostenuta prevalentemente da linfociti TH1 e CTL, ma anche da cellule NK, e che porta al danneggiamento di vari tessuti, con sviluppo di eritrodermia, emorragie gastrointestinali e insufficienza epatica. A seconda della sua gravità, se ne distingue una forma acuta e una cronica. La GVHD può avvenire anche nel trapianto fegato, un altro organo ricco di linfociti. -Tolleranza

Il rigetto non si verifica se, pur essendo diverso antigenicamente, il ricevente è in condizioni di tolleranza immunologica nei confronti del donatore. Esiste una tolleranza specifica ed una aspecifica; quella specifica è rivolta verso antigeni specifici, mentre la tolleranza aspecifica è dovuta ad una generica diminuzione dei poteri dell'organismo di riconoscere come estraneo qualsiasi antigene. Si può ottenere deprimendo le difese organiche o cercando di eliminare i linfociti, che sono i diretti effettori della reazione di rigetto. Ciò può ottenersi mediante irradiazione totale del corpo, o anche mediante trattamento con sostanze antiblastiche, o con cortisonici. Una buona tolleranza è stata ottenuta anche distruggendo i linfociti T mediante antisieri o anticorpi monoclonali specifici. In ogni caso, l'esito è temporaneo ed il rigetto si manifesta non appena si sospende la terapia. La tolleranza specifica si può ottenere cimentando un soggetto col particolare antigene, prima dell'acquisizione della maturità immunologica che, per quanto riguarda il rigetto, è controllata dal timo. Nel topo si può ottenere l'attecchimento di un trapianto di cute omologa eseguendo questo subito dopo la nascita, o anche timectomizzando gli animali alla nascita. In questo caso l'attecchimento è definitivo. Tolleranza specifica definitiva è anche quella che si verifica nei gemelli bovini dizigoti, i quali, avendo un circolo placentare comune, vengono a contatto con le cellule ematiche del gemello prima della maturità immunologica. Questi bovini si comportano per tutta la vita come chimere, in quanto portano nel loro sangue sia le cellule proprie, sia quelle originate nel fratello, tollerate, anche se geneticamente differenti, perché introdottesi nell'organismo prima della maturità immunologica. Tolleranza specifica, ma non definitiva, si può infine ottenere in un adulto trattandolo con forti quantità dell'antigene; si pensa che si ottenga così la distruzione di una gran parte dei cloni cellulari competenti, ma non si ottiene mai la loro completa eliminazione. E’ questo forse il motivo per cui la reazione di rigetto tende ad essere più lenta e meno completa se il tessuto trapiantato è abbondante.

IMMUNODEFICIENZE

Le immunodeficienze sono situazioni caratterizzate da ridotta risposta immunologica. Possono essere primitive (o congenite) o secondarie (o acquisite). Sia le une che le altre, poi, possono essere in rapporto col difettoso funzionamento di uno qualsiasi dei meccanismi cellulari o umorali che entrano in gioco nelle difese immunologiche.

Immunodeficienze secondarie o acquisite

Tra le immunodeficienze acquisite operanti a livello dei meccanismi cellulari, si possono ricordare i difetti del sistema mieloide e quelli del sistema linfoide. Il sistema mieloide è gravemente compromesso nel corso di terapie antineoplastiche con chemioterapici mielotossici. Infatti molti farmaci anti-neoplastici hanno la caratteristica di colpire in modo preferenziale cellule in attiva proliferazione, anche quelle normali. Pertanto essi hanno come effetto collaterale il danneggiamento di tessuti caratterizzati dal continuo rinnovamento cellulare, come le mucose, i bulbi capilliferi e i midollo osseo. In particolare nel midollo osseo il danno riguarda prevalentemente i sistemi che hanno maggior bisogno di rinnovamento, ovvero la serie granulocitaria e quella piastrinica. La terapia provoca una grave granulocitopenia, che causa una aumentata suscettibilità alle infezioni batteriche, particolamente da parte dei piogeni, e condiziona pesantemente le dosi massimali di farmaco che possono essere utilizzate. Infatti se le dosi non sono eccessive, la granulocitopenia è transitoria, ma diventa definitiva se si usano dosi molto elevate che risultano mieloablative. Per ovviare a questo problema e permettere l’uso di dosi sovramassimali di farmaci oggi si è abbinata la chemioterapia antineoplastica all’autotrapianto di midollo. In queste terapie il midollo osseo del paziente viene prelevato e congelato prima di eseguire un trattamento con dosi sovramassimali di farmaci antineoplastici, che producono come effetto collaterale una mieloablazione irreversibile. La terapia è quindi seguita dal trapianto del midollo osseo criopreservato, il quale con l’aiuto di fattori di crescita ricombinanti (i CSF) riesce a ricostituire rapidamente il sistema emopoietico e riportare in breve tempo i neutrofili a livelli protettivi. Altri tipi di neutropenie acquisite sono quelle autoimmuni e quelle da farmaci, prodotte con un meccanismo di ipersensibilità di II tipo. Il sistema linfoide può essere inibito da terapie immunosoppressive volte a controllare malattie autoimmuni o il rigetto dei trapianti. Compito del medico è quello di bilanciare le dosi dei farmaci in modo da ottenere il massimo effetto terapeutico con un minimo stato di immunodeficienza. Fra le immunodeficienze acquisite sono poi da ricordare i difetti della sintesi degli anticorpi conseguenti a varie cause. Prima di tutte vanno ricordate le ipoproteinemie da denutrizione, che sono causa di un gran numero di morti per malattie infettive nei bambini denutriti. Altre volte l'ipoproteinemia dipende da emorragie profuse, o da lesioni epatiche o renali, o da trattamenti con inibitori della sintesi proteica. La forma oggi più frequente di immunodeficienza secondaria è la sindrome da immunodeficienza acquisita (AIDS) indotta dal virus HIV (human immunodeficiency virus), un retrovirus a RNA (lentivirus) con involucro. Il virus utilizza come bersaglio recettoriale principale per infettare le cellule la molecola CD4. Pertanto infetta principalmente i linfociti TH, che esprimono elevati livelli di CD4, ma anche i macrofagi e le cellule dendritiche, che ne esprimono bassi livelli. Dopo essersi legato al CD4 tramite la glicoproteina dell’involucro virale gp120, il virus deve anche interagire con un corecettore cellulare rappresentato da un recettore chemochinico.

Page 49: L’IMMUNITA’ - Il-Cubo · 2020-03-30 · 1 L’IMMUNITA’ Le macromolecole di cui i vari organismi sono formati hanno, nella maggior parte dei casi, struttura e configurazione

49

Alcuni ceppi virali utilizzano CXCR4, che è espresso prevalentemente dai linfociti T, mentre altri utilizzano CCR5, che è espresso prevalentemente dai macrofagi. I primi sono ceppi prevalentemente linfocitotropici, i secondi sono prevalentemente macrofagotropici. Ciascun individuo è infettato da ceppi di entrambi i tipi. L’infezione determina principalmente una lenta e progressiva deplezione dei linfociti TH, i quali svolgono un ruolo centrale nella risposta immunitaria specifica, influenzando potentemente la funzione di linfociti B, CTL e macrofagi. La deplezione dei TH è in parte legata all’infezione diretta di queste cellule, in parte ad un’azione negativa esercitata da vari prodotti virali su linfociti TH non infettati. Ad esempio la gp120, prodotta in eccesso dal virus e rilasciata in forma solubile, lega il CD4 di linfociti TH non infettati e induce la trasmissione di un segnale negativo che induce l’anergia o l’apoptosi della cellula. Quando il numero dei linfociti TH scende al di sotto di un certo numero (pari a 200 cellule/µl di sangue) il sistema immunitario perde gran parte della sua funzionalità e l’individuo sviluppa infezioni opportunistiche, sostenute da microrganismi normalmente non patogeni, e alcuni tipi di tumori caratteristici. E’ questa la fase di AIDS conclamato, che si sviluppa dopo una fase di latenza che può durare dai 2 ai 10 anni. Un contributo all’immunodeficienza viene anche dato dalla progressiva deplezione di macrofagi e cellule dendritiche, che rappresentano anche un importante serbatoio di virus. Una delle caratteristiche peculiari di HIV è la sua capacità di mutare con una rapidità notevolissima, il che impedisce al sistema immunitario di venire a capo dell’infezione. Infatti nel momento in cui il sistema immunitario riesce a sviluppare una risposta efficace, si sono già sviluppate varianti del virus, verso cui è necessario sviluppare un nuova risposta, che a sua volta verrà vanificata dallo sviluppo di ulteriori varianti virali.

Immunodeficienze primitive (congenite)

Le immunodeficienze primitive sono legate a difetti congeniti, per lo più ereditari; sono più rare, ma si concretano spesso in sindromi particolari. Le divideremo in: 1) anomalie dei fagociti; 2) anomalie dell’immunità specifica cellulo-mediata; 3) anomalie dell’immunità umorale.

a) Anomalie dei fagociti

Tra le anomalie congenite della fagocitosi, ricordiamo la malattia granulomatosa cronica, che dipende dalla mancanza del sistema NADPH-ossidasico. La prima si trasmette nel 70% dei casi come malattia recessiva legata al cromosoma X ed è dovuta all’assenza di citocromo p91phox; alternativamente la malattia può essere autosomica recessiva e dovuta all’assenza del citocromo p67phox o p22phox. Sono descritti anche rari casi in cui lo stesso sistema non funziona per una difettosa generazione del substrato, cioè del NADPH. Ciò si verifica, per esempio, nella deficienza congenita di glucoso-6 fosfato leucocitario, che dà luogo ad un quadro clinico simile a quello della malattia granulomatosa cronica. La difettosa produzione di derivati tossici dell’ossigeno riduce la capacità del fagocita di uccidere i microrganismi fagocitati. Questi tendono perciò a persistere all’interno dei fagociti e a indurre lo sviluppo di lesioni granulomatose disseminate in vari organi, in modo simile a quello che accade per i micobatteri. La sindrome di Chediak-Higashi è una malattia autosomica recessiva dovuta a mutazioni a carico della proteina LYST, implicata nel traffico vescicolare intracellulare. I fagociti di questi pazienti sono ripieni di granuli giganti di tipo lisosomiale, incapaci di sviluppare la funzione di questi organuli. Oltre al difetto dei fagociti, la sindrome presenta anche albinismo parziale oculo-cutaneo, legato a una alterata formazione dei melanosomi (organelli di natura lisosomale) e infiltrazione massiva di linfociti in vari organi. Il difetto di adesione leucocitario (LAD) è una malattia legata ad alterazioni di molecole di adesione coinvolte nell’homing dei neutrofili. Ne esistono due forme. Nella LAD di tipo I, la meglio caraterizzata, il difetto riguarda la sintesi della catena β2 delle integrine, coinvolta nella formazione delle integrine leucocitarie LFA-1 (αLβ2, CD11a/CD18), MAC-1 (αMβ2, CD11b/CD18) e p150-95 (αxβ2, CD11c/CD18). Nella LAD di tipo II è assente una glicosiltrasferasi importante per la produzione delle catene laterali glicidiche riconosciute dalla L-selectina sui suoi ligandi di tipo mucinico (Tab 3, Capitolo sull’Infiammazione). In entrambi i casi il difetto impedisce un corretto reclutamento dei granulociti dal circolo, per cui i pazienti presentano, paradossalemnte, una granulocitosi associata ad un difetto tessutale della funzione granulocitaria. Appartengono alle anomalie congenite della fagocitosi anche quelle in rapporto con inborn 1ysosomal diseases, nelle quali si verifica l'accumulo nei granuli del substrato dell'enzima congenitamente mancante. Appartiene infine alle anomalie dei fagociti anche la sindrome del leucocita pigro (= lazy leukocyte syndrome), nella quale esiste difetto della chemiocinesi. b) Difetti dell’immunità specifica cellulo-mediata

La più grave delle immunodeficenze congenite è la immunodeficienza grave combinata (severe combined immunodeficiency disease o SCID), di cui esistono numerose forme legate a difetti genetici diversi. In genere questi difetti determinato un alterato sviluppo dei linfociti T e B (da cui la denominazione di immunodeficienza combinata) a livello degli organi linfatici primari e l’assenza di queste cellule in periferia. Il quadro di immunodeficienza è gravissimo, con compromissione dell’immunità sia cellulo-mediata sia anticorpale e porta a morte in breve tempo. Poiché il difetto riguarda anche i linfociti T, la malattia si manisfesta fin dalla nascita. I difetti genetici che possono dare questo quadro sono vari e comprendono il difetto dei geni RAG1, RAG2 e Artemis coinvolti nel riarrangiamento dei geni di Ig e TCR; il difetto di JAK3 o della catena γ del recettore della IL-2 (IL-2Rγ), coinvolti nella trasmissione del segnale di varie citochine (IL-2, IL-4, IL-7, IL-9, IL-15) e necessari per la maturazione di linfociti T e in parte anche di quelli B. In altri casi il difetto riguarda enzimi coinvolti nel catabolismo delle purine, ovvero la adenosino deaminasi (ADA) oppure la purino nucleotide fosforilasi (PNP), la cui assenza determina l’accumulo di adenosina nei linfociti B e T e una loro precoce morte in periferia. Nel difetto di ZAP70, coinvolto nella trasduzione del segnale da parte del TCR, i linfociti T mancano in periferia o sono presenti, ma inattivi. In questa situazione il difetto riguarda essenzialmente i linfociti T, ma si ripercuote anche sulle risposte B, dal momento che nella maggior parte dei casi le risposte anticorpali richiedono in modo essenziale l’attività dei linfociti TH (risposte timo-dipendenti). Una situazione simile si sviluppa i caso di mutazioni di CD3ε, CD3γ o della catena α di IL7 (IL7α). Nella sindrome del leucocita nudo si ha un difetto nell’espressione di molecole MHC di classe I e/o di classe II, con conseguente difetto nella selezione timica positiva dei linfociti CD8+, oppure CD4+ oppure di entrambi, che non maturano e non compaiono in periferia. Ne consegue un difetto di attività dei CTL (difetto di MHC-I), dei TH (difetto di MHC-II) o di entrambi. Nel caso di mancanza di TH si avrà anche una ridotta risposta anticorpale, conseguente alla mancanza di attività helper necessaria alle riposte anticorpale timo-dipendenti.

Page 50: L’IMMUNITA’ - Il-Cubo · 2020-03-30 · 1 L’IMMUNITA’ Le macromolecole di cui i vari organismi sono formati hanno, nella maggior parte dei casi, struttura e configurazione

50

La sindrome di DiGeorge è dovuta a un difettoso sviluppo della terza e quarta tasca faringea, con conseguente difettoso sviluppo degli organi derivati, tra cui il timo. La aplasia timica porta a un mancato sviluppo dei linfociti T e alla conseguente immunodeficienza. I pazienti inoltre presentano una facies tipica, gravi malformazioni cardiache e ipoparatiroidismo per difettoso sviluppo delle paratiroidi Nella atassia-teleangectasia esiste un grave difetto di maturazione del sistema T, in soggetti che presentano atassia locomotoria ed ectasie capillari nella cute, nella sclera ed in vari organi interni, tra cui anche cervello e cervelletto. La lesione di quest'ultimo determina appunto l'atassia. La malattia sembra in rapporto con il difettoso funzionamento degli enzimi di riparazione del DNA, che ha per conseguenza il progressivo deterioramento di quest'ultimo. La malattia evolve talvolta in leucemia ed è autosomica recessiva. Altra sindrome del gruppo è quella di Wiskott-Aldrich, anch'essa eterocromosomica recessiva. E’ caratterizzata da trombocitopenia con manifestazioni emorragiche, nel quadro di un difetto maturativo che oltre alle cellule T, investe anche i macrofagi. Il gene coinvolto è il gene WASP, ma la funzione della proteina codificata non è nota. La linfocitoistiocitosi emofagocitica è una rara malattia letale autosomica recessiva legata a mutazioni a carico del gene della perforina o altri geni coinvolti nella sua secrezione. I linfociti CTL e le cellule NK di questi pazienti presentano un grave difetto di funzione citotossica e i bambini presentano un grave accumulo non neoplastico di linfociti attivati e di istiociti nel sistema reticoloendoteliale. c) Difetti dell’immunità umorale

Le immunodeficienze caratterizzate da anomalie o carenze congenite di uno qualsiasi dei fattori umorali della difesa immunologica sono numerose. Vi si comprendono le ipogammaglobulinemie e le carenze di componenti del complemento. L'ipogammaglobulinemia può essere totale (nel qual caso interessa tutte le classi di Ig), oppure selettiva (se riguarda una sola delle classi). La agammaglobulinemia legata al cromosoma X (XLA, X-linked agammaglobulinemia), o malattia di Bruton è eterocromosomica recessiva e colpisce pertanto prevalentemente i maschi (come per l'emofilia). Via via che nei neonati vanno scomparendo le Ig di origine materna (e cioè tra il terzo e il sesto mese di vita), si manifestano infezioni sempre più gravi, per lo più da batteri Gram-positivi. In circolo mancano linfociti B, mentre nel midollo sono presenti precursori pre-B, incapaci però di completare la loro maturazione. Il difetto colpisce il gene per la tirosino chinasi btk (bruton tyrosine kinase), che svolge un ruolo importante nella trasduzione del segnale da parte delle Ig di membrana. In questa situazione, quando il linfocita pre-B ha riarrangiato il gene della catena pesante ed esprime in membrana la catena µ associata al surrogato della catena leggera, non riceve da questo recettore il segnale di sopravvivenza necessario per innescare il riarrangiamento della catena leggera e muore per apoptosi (come i linfociti che non sono riusciti a riarrangiare la catena pesante). L'ipogammaglobulinemia transitoria dell'infanzia si distingue dalla forma precedente per non essere legata al cromosoma X e per la sua transitorietà, che lascia pensare più a un ritardo, che a una incapacità di maturazione. I bambini, superata la fase critica, diventano poi capaci di fabbricare anticorpi. L'ipogammaglobulinemia comune variabile è una sindrome variegata, caratterizzata da un ridotto numero di plasmacellule, ipogammaglobulinemia (specie di IgG e IgA) e infezioni ricorrenti. Compare negli adolescenti o in età adulta. Le cause genetiche non sono note nella maggior parte dei casi. In alcune famiglie sono state identificate mutazioni dei geni di TACI o BAFFR (entrambi recettori della citochina BAFF attiva sui linfociti B), del gene del recettore ICOS (espresso dai linfociti T e coinvolto nella formazione dei centri germinativi), del gene di CD19 (espresso dai linfociti B e coinvolto nella loro attivazione). Tra le ipogammaglobulinemie selettive la più frequente è la deficienza congenita di IgA che colpisce circa 1/600 individui. I livelli sierici di IgA sono bassissimi; le IgA mancano invece del tutto nei secreti, dove sono vicariate, in parte, dalle IgM. Ne consegue la più facile assorbibilità di antigeni dal tubo gastro-enterico, donde una più elevata incidenza di allergie e malattie autoimmuni. Inoltre sviluppano frequenti infezioni respiratorie e genito-urinarie. Il difetto risiede nella incapacità dei linfociti B di fare switch isotipico a IgA. La causa genetica non è nota, ma sembra essere localizzata al di fuori del locus delle Ig. La deficienza congenita di IgM e quella di IgG, o di sue sottoclassi, sono molto rare e predispongono soprattutto a malattie infettive da Gram-positivi. Non sono infrequenti i quadri setticemici. La sindrome iper-IgM è un difetto che colpisce il sistema dello switch isotipico in toto. I pazienti presentano elevati livelli di IgM, ma carenza di tutti gli altri isotipi anticorpali. Nella maggior parte dei casi è legata al cromosoma X, ma in altri casi la trasmissione non è chiara. I bimbi sviluppano con elevata frequenza infezioni, specialmente a livello respiratorio. La malattia legata al cromosoma X dipende da un difetto a carico del gene di CD40L, che è il recettore di membrana dei linfociti TH responsabile dell’innesco dello switch isotipico in seguito all’interazione col CD40 espresso dai linfociti B. Altre mutazioni responsabili possono colpire il gene di CD40, oppure i geni di AID e UNG (coinvolti nello switch isotipico). Tra le carenze congenite del complemento, la più frequente, nell'Uomo, è quella di C3, che dà luogo ad un quadro clinico di elevata suscettibilità alle infezioni batteriche. I pazienti inoltre presentano un aumentato sviluppo di malattie da immunocomplessi, a dimostrazione del ruolo centrale svolto dal complemento nella insolubilizzazione ed eliminazione degli immunocomplessi. Più rare sono le carenza congenita degli altri componenti del complemento. Le carenze di componenti del MAC (eccetto la carenza di C9 che è asintomatica) comporta una aumentata suscettibilità alle infezioni da Neisserie. Una malattia abbastanza diffusa è l’edema angioneurotico ereditario, dovuto ad un difetto dell’inibitore del C1 (C1Inh). Ne consegue aumentata attivazione di C1, con conseguente liberazione di un peptide vasoattivo, dal quale dipende l'aumentata permeabilità capillare che genera l'edema a livello cutaneo, gastroenterico e respiratorio, con sviluppo di dolori addominali e quadri ostruttivi delle vie aeree. Altre forme di ipogammaglobulinemie rientrano nel quadro di malattie congenite diverse (per esempio, nel mongolismo), ma in genere non ne è noto il meccanismo molecolare.

IMMUNITA’ ANTI-TUMORALE

L’immunità dei tumori studia i meccanismi che stanno alla base del riconoscimento delle cellule tumorali da parte delle cellule immunitarie. Agli inizi del ‘900 Paul Elrich elaborò la sua teoria dell’immunosorveglianza secondo la quale una delle funzioni centrali del sistema immunitario sarebbe l’eliminazione delle cellule tumorali, che si formerebbero con elevata frequenza nel corso della vita di un individuo. Secondo questa teoria, sarebbe proprio grazie al sistema immunitario che lo sviluppo dei tumori sarebbe

Page 51: L’IMMUNITA’ - Il-Cubo · 2020-03-30 · 1 L’IMMUNITA’ Le macromolecole di cui i vari organismi sono formati hanno, nella maggior parte dei casi, struttura e configurazione

51

invece un evento relativamente raro, in quanto potrebbero svilupparsi solo i tumori capaci di mettere in atto complessi sistemi di elusione della risposta immune. In realtà, pur essendo certo che il sistema immunitario può riconoscere le cellule tumorali, la sua reale importanza nel controllo dello sviluppo dei tumori è ancora un argomento controverso. Il principale dato chiamato in causa contro il concetto dell’immunosorveglianza è l’osservazione che individui affetti da immunodeficienza (sia pazienti con AIDS o altre immunodeficienza acquisite, sia topi atimici o con SCID) non presentano un generale aumento nello sviluppo di tumori. Tuttalpiù si osserva un aumentato sviluppo di alcuni tumori del sistema immunitario, come certi linfomi, ma non di altri tumori comuni, come in carcinoma del colon, del polmone o della mammella. Questo suggerisce che l’aumentato sviluppo di tumori del sistema immunitario nei soggetti immunodepressi sia legato più alla perdita dei sistemi di immunoregolazione, che alla perdita della immunosorveglianza. A queste osservazioni si può controbattere che lo sviluppo dei tumori richiede comunque tempi lunghi (necessari alla cancerogenesi multifasica), che non sono compatibili con la sopravvivenza concessa da gravi condizioni di immunodeficienza. Qualunque sia la reale importanza della risposta immunitaria antitumorale, resta il fatto che il sistema immunitario può riconoscere ed eliminare le cellule tumorali ed è possibile pensare che questa attività possa essere sfruttata per combattere alcuni tumori, utilizzando appropriati strumenti immunoterapeutici volti a potenziare e indirizzare in modo ottimale questa risposta. Nei paragrafi successivi si descriveranno i meccanismi di riconoscimento e i sistemi effettori utilizzati dall’immunità anti-tumorale e i meccanismi messi in atto dai tumori per eludere queste difese. a) Antigeni tumorali

Studi in vitro e sull’animale hanno dimostrato che gli anticorpi e i linfociti T possono riconoscere antigeni espressi dalle cellule tumorali. Una cellula tumorale può esprimere due tipi di antigeni: gli antigeni tumore-specifici, che sono specificamente espressi da un certo tumore e non dalle cellula normali, e gli antigeni tumore-associati, i quali possono anche essere espressi da cellule normali in determinate situazioni. Esempi di antigeni tumore-specifici sono i prodotti degli oncogeni responsabili della trasformazione neoplastica di un certo tumore oppure, nel caso di tumori indotti da virus, gli antigeni del virus oncogeno. Un caso particolare di antigene tumore-specifico è anche rappresentato dal sito combinatorio (idiotipo) delle Ig di membrana dei linfomi, che è specifico per ciascun linfoma La maggior parte degli antigeni tumorali appartengono però al gruppo degli antigeni tumore-associati, i quali comprendono in genere antigeni espressi in particolari stadi differenziativi di una cellula o da particolari tipi cellulari, oppure sono antigeni normali iperespressi dalla cellula tumorale. Un esempio di questi antigeni sono i cosiddetti antigeni oncofetali,corrispondenti a molecole espresse normalmente in stadi precoci dello sviluppo, prima dello sviluppo della tolleranza immunitaria. Esempi di questi antigeni sono l’α-feto-proteina (AFP) del carcinoma epatocellulare e l’antigene carcino-embrionario (CEA) del carcinoma del colon. Questi antigeni possono essere dosati nei sieri dei pazienti e sono un utili soprattutto nel “follow-up” della malattia dopo la terapia chirurgica. La loro specifictà è in realtà modesta in quanto i loro livelli serici possono anche aumentare in alcune patologie non neoplastiche. b) Difese immunitarie anti-tumorali e meccansimi di immunoelusione

I tumori possono indurre una risposta immunitaria specifica da parte di tutte le branche del sistema immunitario. In realtà la produzione anticorpale sembra avere un ruolo marginale nelle difese anti-tumorali e in alcuni casi è stato proposto che possano addirittua avere un effetto deleterio, mascherando gli antigeni tumorali e favorendo l’immunoelusione. Un ruolo centrale nella difesa anti-tumorale sarebbe invece svolto dai linfociti T citotossici, che sono abbondanti nell’infiltrato infiammatorio presente nei tumori solidi. I linfociti presenti in questo infiltrato sono anche detti TIL (linfociti infiltranti il tumore,

tumor infiltrating lymphocytes). I CTL antitumorali riconoscono gli antigeni tumorali espressi su molecole MHC di classe I e uccidono la cellula bersaglio inducendone l’apoptosi. Per questo motivo le cellule tumorali in genere esprimono bassi livelli di molecole MHC di classe I, in modo da sottrarsi all’azione dei CTL. Inoltre le cellule tumorali non esprimono molecole costimolatorie come quelle della famiglia B7, il che riduce ulteriormente la loro immunogenicità. Un secondo effettore chiave dell’immunità antitumorale è la cellula NK e la sua forma attivata da citochine, detta cellula LAK (lymphokine activated killer cell). Le cellule NK sono in grado di riconoscere e uccidere le cellule tumorali che hanno ridotto l’espressione delle molecole MHC di classe I, grazie all’azione dei loro recettori inibitori KIR. Per poter eludere queste difese pertanto la cellula tumorale deve bilanciare l’espressione delle molecole MHC di classe I in modo da ridurre il riconoscimento da parte dei CTL, ma non incappare nel riconoscimento da parte delle cellule NK. Inoltre la cellula tumorale sembra eludere il sistema immunitario riducendo la propria sensibilità agli stimoli apoptotici. Infatti l’azione citotossica di CTL e NK consiste nell’indurre l’apoptosi del bersaglio utilizzando meccanismi del tutto sovrapponibili, quali il sistema perforine/granzimi, il sistema Fas/FasL e il sistema TNF-β/TNF-R. Pertanto non stupisce che le cellule tumorali spesso sviluppino una notevole resistenza all’apoptosi indotta per queste vie, riducendo l’espressione di molecole effettrici di queste vie apoptotiche o aumentando l’espressione di loro inibitori. In alcuni casi i tumori possono addirittura diventare ostili nei confronti delle cellule immuni, esprimendo in membrana il FasL e uccidendo con questo i linfociti effettori, che esprimono in genere elevati livelli di Fas.

Page 52: L’IMMUNITA’ - Il-Cubo · 2020-03-30 · 1 L’IMMUNITA’ Le macromolecole di cui i vari organismi sono formati hanno, nella maggior parte dei casi, struttura e configurazione

52

APPROFONDIMENTO 1

TEORIE DELLA GENERAZIONE DEL REPERTORIO ANTICORPALE

Le teorie istruttive. - Tra le teorie istruttive, la prima in ordine di tempo è quella dello stampo diretto, proposta da Breinl e

Haurowitz. Secondo questa teoria l'antigene, oppure una sua parte attiva (per esempio, l'insieme delle determinanti antigeniche),

penetrerebbe nelle cellule immuno-competenti. In presenza dell'antigene queste, anziché formare le proteine normali, si

adatterebbero a formare quelle anticorpali. Pauling precisò che il meccanismo induttore dell'antigene consisterebbe non tanto nel

cambiare la sequenza degli aminoacidi delle proteine normali, ma nel far loro assumere una disposizione sterica particolare,

modellata sui siti antigenici e a questi complementare. La specificità dell'anticorpo sarebbe quindi la conseguenza dalla forma

molecolare e non della sua struttura primaria. La teoria dello stampo diretto non riusciva però a spiegare come la produzione degli

anticorpi specifici per un certo antigene fosse ereditata dalle cellule figlie né spiegava i fenomeni della memoria immunologica e

della tolleranza immunitaria. Queste teoria è stata poi decisamente accantonata quando è stato chiarito che la conformazione di una

ogni proteina è strettamente legata alla sequenza aminoacidica, che è determinata dalla sequenza nucleotidica del gene codifante e

del corrispondente mRNA.

Per questi motivi, la teoria dello stampo diretto venne sostituita da quella dello stampo indiretto. Secondo questa teoria,

l'antigene non farebbe che modificare stabilmente la struttura del sistema proteino-formatore, agendo attraverso un fattore

intermedio che potrebbe sopravvivere a lungo dopo la scomparsa dell'antigene e potrebbe anche essere ereditabile dalle cellule

figlie. Burnet immaginò che lo stampo indiretto potesse essere rappresentato da un enzima proteino-sintetico evocabile dall'antigene.

Neanche questa tesi ha però retto alla critica e venne abbandonata dallo stesso Burnet, che passò alla teoria selettiva.

Le teorie selettive. Le teorie selettive si basano sul presupposto che l'antigene non cambia nulla nell'organismo sul piano

qualitativo, ma fa semplicemente aumentare la produzione di proteine anticorpo da parte di cellule preesistenti e già differenziate in

quel senso.

Sono state proposte diverse teorie selettive, che si differenziano soprattutto in base al livello in cui la selezione si verifica.

Per Jerne la selezione sarebbe avvenuta a livello delle immunoglobuline plasmatiche. Nel plasma di ogni individuo normale

esisterebbero anticorpi preformati (naturali) verso ogni tipo di antigene, in piccola concentrazione. L'inoculazione dell'antigene

avrebbe provocato il blocco delle molecole dell'anticorpo e la loro sottrazione dal circolo, giacché i complessi immuni formatisi

sarebbero stati fagocitati. L'organismo avrebbe allora reagito producendo una quantità di molecole superiore a quella sottratta. In

definitiva, l'antigene non farebbe che accelerare il ricambio di proteine già normalmente presenti, asportandole dal circolo; il

sistema sarebbe simile a quello di una reazione chimica in equilibrio, in cui la diminuzione della concentrazione del prodotto sposta

l'equilibrio nel senso di una maggiore velocità della sua produzione.

Nel 1959 Burnet propose la sua teoria clonale, che suscitò un gran numero di consensi. Per Burnet la selezione non avviene a

livello delle immunoglobuline seriche, ma delle cellule che le producono. Poiché ogni tipo di anticorpo è prodotto da cellule diverse,

Burnet ammise l'esistenza “ab initio” nell'organismo di tanti tipi cellulari (cloni) immunologicamente competenti, quanti sono gli

antigeni possibili. L'antigene agirebbe sulle cellule specificamente rivolte verso di esso, inducendole a proliferare, così da

selezionare sul piano quantitativo una risposta anticorpale efficiente. La maturazione dei cloni cellulari specifici avverrebbe durante

la vita embrionale, nel periodo della tolleranza immunitaria. In questo periodo le cellule clonali sono ancora poche ed il contatto con

un eccesso di antigene potrebbe portare alla loro distruzione. Ne risulterebbe la definitiva eliminazione del clone e quindi della

possibilità di risposta verso quell'antigene nella vita adulta. Sarebbe questo il motivo intimo dell'autoriconoscimento, per cui ogni

organismo non produce abitualmente anticorpi verso le proprie proteine; infatti le cellule dei cloni relativi verrebbero distrutte

durante lo sviluppo embrionale, in seguito al contatto prolungato con forti quantità di antigeni propri.

Le teorie selettive rendevano conto, quindi, di molti fenomeni e in particolare dell'autoriconoscimento e della tolleranza

immunitaria. Urtavano però contro l'esistenza in natura di un numero praticamente infinito di antigeni; secondo la teoria,

dovrebbero preesistere nell'individuo cloni rivolti non solo verso gli antigeni naturali, ma anche verso quelli artificiali, compresi

quelli che potrebbero venire sintetizzati in un futuro più o meno remoto. Quando è stato calcolato che il numero delle possibili Ig

diverse prodotte è superiore a 1010 è risultato chiaro che per le Ig non poteva valere la regola “un-gene-una-proteina” ritenuto

unversalmente valido. Il problema è stato risolto quando si scoprì il fenomeno del riarrangiamento dei geni per le catene H e L delle

Ig.

Le teorie selettive e quelle istruttive sono oggi conciliate dalla scoperta delle Ig di membrana, le quali, geneticamente espresse fin

dall'inizio su singoli cloni linfocitari, sono responsabili del riconoscimento dell'antigene e della successiva trasformazione blastica,

che porta alla moltiplicazione di quel clone e alla differenziazione di cellule (i centrociti e i centroblasti) che nei centri germinativi

dei linfonodi sviluppano il processo della maturazione d’affinità. In questo processo i linfociti B attivano un processo di

ipermutazione somatica che, nel corso delle successive divisioni cellulari, inserisce mutazioni puntiformi nei geni che codificano per

le porzioni variabili delle catene H e L delle Ig. Viene così generata una progenie di linfociti B che esprime Ig di membrana

leggermente modificate rispetto a quella origniaria. Le nuove Ig sono “provate” direttamente sull’antigene, che è disponibile nel

centro germinativo adeso sulla superficie di cellule specializzate, le cellule follicolari dendritiche. I linfociti che esprimeranno una Ig

migliorata nella sua capacità di legare l’antigene riceveranno un potente segnale di attivazione, che ne indurrà l’epansione clonale,

mentre quelle che avranno peggiorato il proprio recettore non riceveranno un segnale sufficiente e morranno per apoptosi nelcentro

germinativo. Questo processo genererà una progenie di linfociti B che riconoscono lo stesso antigene che ha indotto la risposta

immunitaria, ma con una efficienza molto maggiore rispetto alle cellule di partenza.

Page 53: L’IMMUNITA’ - Il-Cubo · 2020-03-30 · 1 L’IMMUNITA’ Le macromolecole di cui i vari organismi sono formati hanno, nella maggior parte dei casi, struttura e configurazione

53

APPROFONDIMENTO 2

ANTICORPI MONOCLONALI

La produzione degli anticorpi monoclonali è stata una delle più importanti invenzioni degli ultimi 50 anni in campo biologico e

ha rivoluzionato la tecnologia della ricerca e diagnostica biologico-medica; inoltre negli ultimi anni questa tecnologia sta anche

avendo un importante impatto terapeutico dal momento che alcuni anticorpi monolconali sono utilizzati con successo come farmaci

anti- tumorali o immunosoppressori.

L’invenzione risale al 1975 ed è dovuta a G. Khöler e C. Milstein ai quali fu per questo conferito il Premio Nobel nel 1984.

Prima dell’avvento degli anticorpi monoclonali, l’unico modo per produrre anticorpi contro un antigene era l’immunizzazione di

un animale con l’antigene e il successivo prelievo del suo siero. Il siero (detto anti-siero) può essere utilizzato come tale, oppure gli

anticorpi specifici per l’antigene possono essere ulteriormente purificati passandoli una colonna d’affinità adsorbita con l’antigene;

gli anticorpi specifici si legano all’antigene della colonna e possono poi essere eluiti e raccolti utilizzando un eluente capace di

rompere le interazioni tra anticorpi e antigeni (ad esempio un tampone ad elevata salinità o a basso pH). Questi anticorpi sono

anche detti “anticorpi policlonali” in quanto sono una mistura di tanti anticorpi diversi specifici per vari epitopi dell’antigene e

prodotti da linfociti B differenti. Questi anticorpi (ancora oggi utilizzati in alcuni casi) presentano due ordini di problemi:

1-Sono prodotti in quantità limitata in quanto ciascun animale dà una quantità limitata di anti-siero e animali diversi producono

anti-sieri in parte differenti in quanto sviluppano risposte immunitarie non del tutto sovrapponibili. Questa caratteristica rende

problematico paragonare osservazioni fatte con lotti diversi di un antisiero o con antisieri prodotti in laboratori diversi.

2-La loro specificità dipende dalla disponibilità di un antigene il più possibile puro da utilizzare nell’immunizzazione e nella

purificazione dell’anticorpo. Pertanto non si possono ad esempio ottenere anticorpi policlonali specifici per molecole di superficie di

specifici tipi cellulari, perché l’utilizzo nell’immunizzazione di cellule intere determina la produzione di numerosi anticorpi specifici

per le varie molecole espresse da queste cellule.

Khöler e Milstein pensarono che questo problema poteva essere risolto se si fosse riusciti a coltivare in vitro i linfociti B

dell’animale immunizzato e a selezionare le cellule produttrici degli anticorpi migliori; queste cellule avrebbero potuto essere

utilizzate come fonte di anticorpi estremamente omogenei. Questa idea si scontrava con il problema che non si conoscevano sistemi

per far crescere per indefinitamente in vitro plasmacellule normali. Tuttavia Khöler e Milstein rifletterono che esistevano nei

laboratori linee plasmacellulari immortali (ovvero capaci di crescita indefinita in coltura) che erano derivate da neoplasie

plasmacellulari dette mielomi. Naturalmente queste linee non potevano essere di per sé fonte dell’anticorpo desiderato dal momento

che potevano solo produrre gli anticorpi propri del linfocita B neoplastico da cui originavano. L’idea chiave di Khöler e Milstein fu

quella di costruire in vitro linee cellulari che possedevano la capacità di crescita indefinita in coltura propria delle linee di mieloma

e i geni per le Ig antigene-specifiche proprie dei linfociti B ottenuti dagli animali immunizzati.

Questo può essere ottenuto fondendo le cellule delle linee di mieloma con i linfociti B derivati dall’animale immunizzato,

utilizzando un detergente detto polietilenglicole (PEG). Per lo scopo si utilizza una linea di mieloma che ha perso la capacità di

produrre le proprie Ig (Ig-) e che è anche difettiva per la ipoxantina-guanina fosforibosil transferasi (HGPT-) o per la timidina

chinasi (TK-), due enzimi coinvolti nella “via di salvataggio” della sintesi di nucleotidi purininici (la via che ricicla timidina e

ipoxantina nei rispettivi nucleotidi). La carenza di questo enzima rende queste cellule incapaci di crescere in un terreno speciale

detto HAT dalle iniziali dei suoi componenti chiave: H=hypoxantine; A=aminopterina; T=timidina). In questo terreno l’aminopterina

inibisce la via di sintesi “de novo” delle purine, mentre l’ipoxantina e la timidina forniscono i substrati per la “via di salvataggio”.

Pertanto una linea cellulare difettiva nella via di salvataggio non può crescere in questo terreno in quanto l’aminopterina blocca

l’unica via alternativa per la sintesi dei nucleotidi. Viceversa una linea dotata della “via di salvataggio” potrà utilizzare ques’ultima

per superare il blocco prodotto sulla via “de novo” dalla aminopterina.

Dopo aver eseguito la fusione tra linfociti B “immuni” e cellule della linea di mieloma, le cellule ottenute sono fatte crescere nel

terreno HAT. In questo “terreno di selezione” i linfociti B non fusi muoiono perché incapaci di crescita indefinita, le cellule di

mieloma non fuse muoiono perché incapaci di crescere nel terreno HAT. Pertanto crescono soltanto le cellule “ibride” derivate dalla

fusione dei linfociti B e delle cellule di mieloma, le quali “ereditano” la capacità di crescita indefinita da cellule di mieloma e la

capacità di crescere in HAT dai linfociti B, che trasmettono anche i geni per le proprie Ig. Poiché la fusione viene effettuata in

condizioni per cui una cellula di mieloma si fonde con un singolo linfocita B, ciascuna cellula ibrida acquisisce la capacità di

produrre una sola Ig, derivata da quel linfocita B.

In questa fase la linea ibrida ottenuta è policlonale, ovvero è una mistura di cellule ibride diverse, derivate da linfociti B diversi e

secernenti anticorpi diversi. Infatti i linfociti B usati nella fusione sono arricchiti in cellule specifiche per l’antigene usato per

immunizzare l’animale, ma contengono anche gli altri linfociti B presenti nell’animale. Tuttavia poiché le cellule ibride crescono con

facilità in coltura, è possibile seminare ciascuna cellula ibrida in un proprio pozzetto di coltura in modo da ottenere numerose linee

ibride derivate da un singolo linfocita B (ibridomi monoclonali), ciascuna delle quali produce un singolo “anticorpo monoclonale”.

Poiché l’anticorpo monoclonale viene rilasciato in grandi quantità nel terreno di coltura, il ricercatore può saggiare il terreno

ottenuto da ciascuna linea e selezionare solo le linee che producono anticorpi contro l’antigene desiderato.

Gli ibridomi selezionati possono essere espansi in coltura in modo da ottenere quantità illimitate dell’anticorpo monoclonale, che

sarà sempre identico.

La produzione degli anticorpi monoclonali ha aperto la strada allo studio dei recettori di superficie dei linfociti, in quantoha reso

possibile immunizzare un animale con un certo tipo cellulare e selezionare poi gli anticorpi monoclonali specifici per quel tipo

cellulare e non per un altro. Negli anni ’80 questi studi hanno portato alla descrizione di un gran numero di nuove molecole di

superficie da parte di diversi laboratori che si dedicavano alla produzione di anticorpi monoclonali. Inizialmente queste molecole

ricevevano un nome dallo scopritore, ma presto ci si rese conto che la stessa molecola era spesso stata descritta da più laboratori e

aveva ricevuto nomi diversi. Per ovviare alla confusione crescente che si produceva, venne proposto di utilizzare una nomenclatura

comune, nella quale ciascuna nuova molecola viene designata con le lettere CD (Cluster of Differentiation) seguita da un numero

progressivo. La classificazione viene periodicamente aggiornata in appositi “workshop internazionali” nei quali si valutano i nuovi

Page 54: L’IMMUNITA’ - Il-Cubo · 2020-03-30 · 1 L’IMMUNITA’ Le macromolecole di cui i vari organismi sono formati hanno, nella maggior parte dei casi, struttura e configurazione

54

anticorpi monoclonali prodotti e si analizza se riconoscano molecole nuove (alle quali viene assegnato un nuovo CD) oppure CD già

classificati. La classificazione CD e la descrizione delle molecole classificate è ottenibile nel sito web www.ncbi.nlm.nih.gov/PROW/

APPROFONDIMENTO 3

FILOGENES1 DEI PROCESSI IMMUNITARI.

Già da quanto si è detto in precedenza, risulta che la proprietà di elaborare anticorpi è una caratteristica delle specie superiori di

Vertebrati, che compare nel quadro di una progressiva evoluzione dei meccanismi di difesa. Mentre gli animali delle classi

biologiche più basse hanno come unici meccanismi di difesa la fagocitosi e la rigenerazione, in quelli più evoluti compaiono

successivamente altri due processi fondamentali, e cioè l'infiammazione e l'immunità, che esprimono un particolare grado di

maturazione e di differenziazione dei tessuti connettivali. L'evoluzione dei meccanismi immunitari specifici può essere seguita

studiandoli in rappresentanti di specie zoologiche inferiori. I primi animali in cui si possono osservare difese specifiche di tipo

immunitario si trovano tra i Pesci inferiori ed in particolare fra i Petromizontidi, ultimi rappresentanti, insieme coi Missinoidi, della

classe degli Agnati derivata dagli Ostracodermi, vissuti nell'èra Paleozoica. Nei Petromizontidi (o lamprede), ed in particolare nella

specie Petromyzon marinus, che è la più studiata, compaiono i primi timidi accenni di difesa immunitaria specifica.

Essi possiedono infatti γ-globuline nel siero; se trattati con antigeni batterici (per esempio, con Brucella abortus), producono

anticorpi solubili con massa molecolare di circa 200 kDa. Non sono invece capaci di produrre anticorpi verso proteine solubili

derivate dal siero (albumine, globuline). Sono capaci di una debole reazione di rigetto verso i trapianti; quelli di cute vengono

respinti in circa 42 giorni. Questi animali non possiedono un timo ben sviluppato, ma hanno, al suo posto, piccoli nidi linfocitari,

commisti con cellule epiteliali, in corrispondenza della parete posteriore della faringe. Si tratta del primo rudimento timico che si

incontra nella filogenesi. Nel sangue esistono elementi linfocitoidi, ma non si trovano plasmacellule in alcuna parte del corpo.

I Missinoidi, che sono situati un gradino più in basso nella scala zoologica, non possiedono neanche questi primi accenni di

sistema immunitario. Il più studiato, l'Eptatretus stouti (detto anche californian hagfish o pesce strega californiano: è un pesciolino

che suole entrare nella bocca dei pesci più grossi, per divorarli dall'interno), non ha infatti alcuna capacità di produrre anticorpi

antibatterici né di rigettare trapianti di cute; non ha globuline nel plasma e non possiede abbozzo timico né linfociti circolanti. Lo

stesso accade in un altro Missinoide, la Myxine glutinosa.

Una difesa immunitaria migliore che nelle lamprede compare negli Elasmobranchi, che appartengono alla Classe dei Pesci

cartilaginei, o Condritti. Le specie più studiate sono Rhinobatus productus (pesce-chitarra), oltre a vari squali (Heterodontus

francisci; Urolophus halleri; Mustelus canis; Negaprion brevirostris e altri). In questi animali è presente un timo vero e proprio,

mentre nel sangue sono contenuti linfociti ben differenziati. Anche qui mancano le plasmacellule, ma nel plasma sono presenti

γ-globuline. Il trattamento con antigeni batterici produce una reazione anticorpale debole, se pur maggiore di quella fornita dai

Petromizontidi. I trapianti vengono respinti entro 20 giorni, contro i 42 delle lamprede. Gli anticorpi che compaiono nel siero sono di

un unico tipo, e cioè 17-19 S, simili alle IgM umane; non esistono invece IgG 7 S. Nei Pesci ossei (Osteitti), le difese immunitarie

sono ormai ben conformate e si assiste alla progressiva maturazione degli organi linfoidi. Nei Condrostei, che degli Osteitti

rappresentano il gradino più basso, fanno la loro comparsa le plasmacellule; esistono anche timo e milza ben differenziati; il tessuto

linfoide è presente anche lungo l'intestino ed in altre parti del corpo, ma mancano centri germinativi evidenti. L'elaborazione di

anticorpi antibatterici o precipitanti è vivace e la reazione di rigetto è completa entro pochi giorni. La specie più studiata è Polyodon

spatula.

In Amia calva ed in Lepisosteus osseus, che appartengono ad un altro ramo degli Osteitti, quello degli Olostei, compaiono anche

reazioni di allergia ritardata nei riguardi di antigeni solubili (antigeni di Ascaridi).

La risposta immunologica è ancora migliore nei Teleostei e diventa completa ed articolata nella produzione di due categorie di

immunoglobuline (7 S accanto alle 19 S) negli Anfibi.

Negli Uccelli compare infine la borsa di Fabrizio, organo che dirige la produzione degli anticorpi solubili, mentre al timo spetta

il controllo della produzione delle Ig di membrana della reazione di rigetto. Nei Mammiferi, lo sdoppiamento anatomo-funzionale

degli organi linfoidi centrali diviene meno chiaro; scompare infatti la borsa di Fabrizio, anche se è verosimile che qualche altro

organo sinora non identificato ne assuma le funzioni.

Un vestigio della produzione degli anticorpi 19 S resta nei Mammiferi superiori nel corso della reazione primaria; quando questa

giunge a maturazione, e nella reazione secondaria, si ha la produzione dei soli anticorpi 7 S, che documentano il completamento

delle difese immunologiche.

Page 55: L’IMMUNITA’ - Il-Cubo · 2020-03-30 · 1 L’IMMUNITA’ Le macromolecole di cui i vari organismi sono formati hanno, nella maggior parte dei casi, struttura e configurazione

55

RIASSUNTO

1. Il sistema immunitario è l’insieme di tessuti, cellule e molecole responsabili della difesa dell’organismo dagli agenti estranei,

per lo più di tipo infettivo. L’immunità aspecifica (o naturale o innata) interviene in tempi molto brevi e comprende fattori (per lo più gli stessi dell’infiammazione) che riconoscono contemporaneamente numerosi agenti estranei. L’immunità specifica (o acquisita o adattativa) richiede un contatto prolungato con l’agente estraneo e coinvolge fattori strettamente specifici solo per quel determinato agente (linfociti T e anticorpi prodotti dai linfociti B).

A) FATTORI ASPECIFICI DELL'IMMUNITA’ 2. Le prime difese aspecifiche sono le difese di barriera, come la cute (con lo strato corneo e le secrezioni sebacee) e le mucose

(col muco contenente sostanze anti-batteriche). Il meccanismo cellulare più importante è la fagocitosi dei macrofagi tessutali e dei granulociti neutrofili ed eosinofili del sangue, richiamati nei tessuti dal processo infiammatorio. Questi fagociti usano recettori che legano direttamente molecole batteriche oppure legano opsonine, ovvero proteine sieriche che si fissano sull’agente estraneo. Esempi di recettori “diretti” sono CD14 e i recettori della famiglia Toll, che legano LPS, lipoproteine, acidi lipoteicoici e peptidoglicani batterici. Esempi di recettori “indiretti” sono i recettori del complemento (CR1, CR3, CR4 o il recettore del C3a/C4a), quelli per il frammento Fc delle IgG (FcγR-I), per la MBP (proteina legante il mannoso), per la PCR (proteina C reattiva) e per la SAP (proteina amiloide serica).

3. I batteri fagocitati sono uccisi nei fagolisosmi. I lisosomi tipici (granuli A, primari, o azzurrofili) contengono idrolasi acide, proteasi neutre, lisozima, defensine, mieloperossidasi, NADPH ossidasi. I neutrofili possiedono anche granuli B (o secondari o specifici), contenti fosfatasi alcalina, lisozima, defensine, lattoferrina e proteina legante la vit. B12. Il principale sistema di uccisione dei batteri è contenuto nei granuli A ed è basato sul sistema NADPH ossidasi-mieloperossidasi. La fagocitosi si associa al «burst respiratorio» che porta alla formazione dei metaboliti intermedi reattivi dell’ossigeno (ROI) e dell’azoto (RNI), altamente tossici per i batteri.

4. I fattori aspecifici umorali presenti nel siero comprendono lisozima, β-lisine e proteine cationiche, con azione prevalente sui gram-positivi; mentre il complemento ha una prevalente azione sui gram-negativi. Fanno parte dei fattori aspecifici umorali anche le opsonine prodotte dal fegato, come le già citate PCR e SAP e la MBP.

B) FATTORI SPECIFICI DELL'IMMUNITA’ 5. L’immunità specifica è caratterizzata da specificità del riconoscimento, selezione clonale dei linfociti specifici e acquisizione

di memoria. Si basa sull’espressione da parte dei linfociti di recettori capaci di riconoscere macromolecole estranee in modo estremamente selettivo. Il recettore dei linfociti B è l’immunoglobulina (Ig o anticorpo), quello dei linfociti T è il TCR (o recettore T cellulare). E’ stata calcolata l’esistenza di oltre 1010 Ig diverse, specifiche per macromolecole diverse, e di altrettanti TCR. Ciascun linfocita esprime una sola variante di Ig o TCR ed è specifico per una sola macromolecola estranea. L’attivazione della risposta immunitaria avviene negli organi linfatici secondari (linfonodi, milza e tessuto linfatico associato

alle mucose), che spesso contengono aggregati organizzati di linfociti T e B detti follicoli linfatici. 6. Sono antigeni tutte le macromolecole che possono essere riconosciute specificamente da un anticorpo o un TCR. I linfociti B

riconoscono gli antigeni immodificati, mentre i linfociti T li riconoscono dopo che una cellula presentante l’antigene (APC) li ha semplificati (processati) ed esposti (presentati) su una molecola MHC. L’immunogenicità dell’antigene dipende da caratteristiche intrinseche ed estrinseche. Le prime comprendono la distanza filogenetica tra l’antigene e l’organismo, le dimensioni e la complessità chimica dell’antigene, la sua suscettibilità alla presentazione da parte delle APC. Le seconde comprendono la dose, la via di somministrazione, lo sviluppo di danno tessutale con innesco di infiammazione e il substrato

genetico dell’individuo immunizzato. 7. I siti dell’antigene effettivamente legati da Ig e TCR sono detti determinanti antigenici o epitopi. Gli epitopi per le Ig sono

localizzati sulla superficie dell’antigene e sono facilmente accessibili; quelli per i TCR possono essere localizzati all’interno dell’antigene ed essere rivelati dalla “processazione”. Gli epitopi sono lineari o conformazionali a seconda del contributo dato nella loro formazione dai ripiegamenti della macromolecola antigenica. Gli epitopi dei linfociti B possono essere sia lineari sia sequenziali, quelli dei linfociti T sono sempre lineari. Gli apteni sono piccole molecole la cui immunogenicità dipende dal legame a una proteina vettrice detta carrier. Il carrier serve sia ad aumentare le dimensioni della molecola antigenica sia a indurre una risposta T che aiuti la produzione anticorpale.

C) GLI ANTICORPI 8. Il linfocita B inattivo produce le Ig come recettori di membrana, ma quando viene attivato dall’antigene, differenzia in

plasmacellula e produce le Ig nella forma solubile che si ritrova nel siero. Nell’uomo esistono cinque classi o isotipi di Ig, IgG, IgA, IgM, IgD, IgE; le IgG comprendono 4 sottoclassi, IgG1, IgG2, IgG3 e IgG4; le IgA ne comprendono 2, IgA1 e IgA2. Le classi di Ig si distinguono per l’attività funzionale e la distribuzione tessutale. Le Ig possono riconoscere come antigene qualsiasi macromolecola solubile (proteine, polisaccaridi, acidi nucleici, lipidi).

9. Le Ig sono formate da due catene leggere identiche (L) e due pesanti (H) identiche. Ciascuna catena comprende una porzione costante e una variabile; la regione variabile comprende tre regioni ipervariabili, dette CDR1, CDR2, e CDR3. Sulla base della porzione costante si distinguono due tipi di catene L (κ e λ), e nove tipi di catene H (µ, δ, ε, α1, α2, γ1, γ2, γ3, γ4). Il tipo di catena H definisce l’isotipo di Ig. La combinazione delle regioni variabili di una catena H e una L forma il sito combinatorio

per l’antigene. Ciascuna unità di Ig è bivalente, ovvero è dotata di due siti combinatori identici, formati ciascuno da una catena H e una L. Tutte le Ig di membrana, nonchè le IgG, IgD e IgE solubili sono formate da una singola unità di Ig; viceversa nelle IgA e le IgM solubili si ha l’aggregazione di più unità Ig identiche a formare pentameri (per le IgM) oppure tetrametri, trimeri e dimeri (per le IgA), stabilizzati da una catena giunzionale. Le IgA rappresentano il 90% delle Ig delle secrezioni mucose (il 10% sono IgM). Il passaggio nelle secrezioni avviene per transcitosi attraverso le cellule epiteliali in seguito al legame della Ig col recettore poli-Ig della cellula epiteliale. Dopo la transcitosi il recettore poli-Ig viene liberato dalla membrana, rimanendo legato alla Ig secreta come componente secretoria. Le IgG sono l’unica classe anticorpale che attraversa la barriera placentare.

10. Il legame tra antigene e Ig è dovuto a multipli legami deboli (interazioni coulombiane, legami bipolari, forze di Van der Waals e ponti di idrogeno) che creano su antigene e anticorpo superfici complementari che interagiscono con un sistema del tipo

Page 56: L’IMMUNITA’ - Il-Cubo · 2020-03-30 · 1 L’IMMUNITA’ Le macromolecole di cui i vari organismi sono formati hanno, nella maggior parte dei casi, struttura e configurazione

56

chiave-lucchetto. Il grado di complementarietà e la somma delle forze coinvolte determinano l’affinità dell’anticorpo per l’antigene. L’insieme della valenza dell’anticorpo e della sua affinità determinano l’avidità dell’anticorpo. La plurivalenza di anticorpi ed antigeni determina la formazione di aggregati di antigeni e anticorpi detti immunocomplessi.

11. Il legame dell’Ig all’antigene può di per sé inibire l’attività dell’antigene (ad esempio l’infettività virale o la tossicità di una tossina): questo effetto è detto neutralizzazione. Altre azioni sono invece legate alla capacità dell’Ig di “segnalare” l’antigene a sistemi cellulari e umorali dell’immunità aspecifica e comprendono l’opsonizzazione (IgG e IgE) per i fagociti, l’attività

citotossica cellulo-mediata anticorpo-dipendente (ADCC) per le cellule NK (IgG), la degranulazione dei mastociti (IgE) e l’attivazione del complemento (IgM e IgG).

12. Il complemento è un insieme di proteine sieriche che vengono attivate con un sistema a cascata attraverso una via classica

(attivata dal legame Ig/antigene) oppure una via alternativa (attivata direttamente dalle superfici batteriche). E’ stata anche descritta una via lectinica, attivata da lectine sieriche che legano carboidrati batterici. Queste vie convergono su una via

comune che forma il complesso di attacco alla membrana o MAC. L’attivazione del complemento porta allo sviluppo di varie funzioni tra cui: 1) lisi della cellula bersaglio da parte del MAC, 2) opsonizzazione da parte di C3b, 3) rilascio di fattori solubili con azione proinfiammatoria (le anafilotossine C3a, C4a, C5a), 4) insolubilizzazione degli immunocomplessi per interazione col recettore del complemento CR1 dei globuli rossi.

13. L’attivazione del complemento è regolata da un sistema di inibitori. Un inibitore chiave è il fattore I, che inattiva C3b e C4b legati al bersaglio utilizzando come cofattori proteine sieriche (fattore H e C4bBP), o di membrana (CR1 e MCP). Altri inibitori di membrana sono DAF, che accelera la dissociazione delle C3 convertasi, e HRF e MIRL che ostacolano la formazione del MAC. Altri inibitori sierici sono C1Inh, che inattiva il C1, e proteina S, che inattiva i complessi C5b67 solubili che possono danneggiare cellule “spettatori innocenti”.

14. La maturazione dei linfociti B avviene nel midollo osseo e comporta la costruzione dei geni che codificano la catena H e L attraverso un processo di “taglia e cuci” (riarrangiamento genico) che coinvolge frammenti genici presenti in multiple varianti nei loci delle catene Ig. I loci delle catene H contengono tre gruppi di frammenti, detti V, D e J; quelli delle catene L ne contengono due, detti V e J. Il riarrangiamento lega tra loro un frammento di ciascun gruppo, formando un segmento VDJ per le catene H e VJ per quelle L, che codificherà la regione variabile della rispettiva catena Ig. La variabilità dei segmenti VDJ e VJ è legata alla particolare combinazione di frammenti realizzata e al fatto che la giunzione dei frammenti prevede l’inserimento di nucleotidi addizionali (assenti nel DNA germinale) tra i frammenti da unire (basi P e N).

15. Il riarrangiamento coinvolge prima il gene della catena H e porta alla formazione di un linfocita pre-B, che produce catene µ citoplasmatiche; successivamente riarrangia la catena L e porta alla formazione di un linfocita B immaturo, che esprime IgM di membrana. I linfocita B immaturi che riconoscono autoantigeni presenti nel midollo osseo muoiono per apoptosi (selezione negativa): gli altri linfociti B completano la maturazione esprimendo anche IgD di membrana e diventano linfociti B maturi vergini, che lasciano il midollo osseo e ricircolano negli organi linfatici secondari alla ricerca dell’antigene.

16. Quando il linfocita vergine incontra l’antigene si attiva, cioè prolifera producendo una progenie di cellule figlie con la stessa specificità antigenica, e differenzia in plasmacellule e linfociti B memoria. Le plasmacellule producono grandi quantità di Ig solubili. I linfociti B memoria sono cellule che sono andate incontro a un processo di maturazione (nei centri germinativi dei follicoli linfatici), volto a migliorare la Ig sia a livello della sua capacità di legare l’antigene (maturazione d’affinità che avviene attraverso un processo di ipermutazione somatica della regione variabile) sia a livello delle sue capacità effettrici (switch isotipico, che cambia la classe Ig prodotta attraverso un riarrangiamento del gene della catena H che sposta la VDJ dalla sua posizione prossima ai segmenti µ e δ, a una nuova posizione prossima al segmento genico della nuova catena pesante scelta). Lo switch isotipico fa sì che mentre nelle prime fasi della risposta primaria siano prodotte solo IgM, successivamente sono prodotte classi diverse di Ig, con la stessa specificità antigenica.

17. La memoria immunologica è il fenomeno per cui la risposta secondaria ad un antigene è molto più rapida ed efficace di quella primaria. Infatti ha una fase di latenza inferiore, induce la produzione di livelli anticorpali superiori, nonché di classi di Ig diverse dalle IgM e dotate di un’affinità maggiore per l’antigene. Questo miglioramento della risposta secondaria è assicurato dalla espansione clonale dei linfociti B specifici per l’antigene, dallo switch isotipico che permette la produzione della classe Ig ottimale per l’eliminazione dell’antigene, e dalla maturazione di affinità che ottimizza il sito combinatorio dell’anticorpo.

D) I LINFOCITI T 18. I linfociti T riconoscono, tramite il TCR, antigeni proteici dopo che sono stati processati dalle cellule presentanti l’antigene

(APC), e da queste “presentati” ai linfociti T all’interno di molecole del complesso maggiore di istocompatibilità (MHC). Il TCR esiste solo in forma di recettore di membrana. Esistono due categorie di molecole MHC, quelle di classe I e quelle di classe II. Nell’uomo si hanno 3 tipi di molecole di classe I (HLA-A, -B e -C) e tre tipi di molecole di classe II (HLA-DR, -DP e -DQ). Tutte sono altamente polimorfiche, per cui la probabilità che due individui presentino lo stesso assetto HLA è molto basso. I geni che codificano queste molecole sono per lo più ereditati in blocco (detto aplotipo) da ciascun genitore. Le molecole MHC formano una tasca che accoglie i peptici antigenici (peptidi di 10-20 aminoacidi) e li presenta ai linfociti T. Diverse molecole MHC presentano peptidi con caratteristiche differenti. Le molecole MHC di classe I sono espresse da tutte le cellule nucleate; quelle di classe II sono espresse dalle APC, ovvero i macrofagi, le cellule dendritiche e i linfociti B.

19. MHC di classe I presenta peptidi derivanti da proteine citosoliche ai linfociti T citotossici CD8+ (CTL); MHC di classe II presenta peptidi derivati da proteine endocitate ai linfociti T helper CD4+ (TH) Le proteine citosoliche sono scisse dal proteasoma in peptidi che sono trasportati nel reticolo endoplasmatico rugoso da molecole TAP; qui sono caricati sulle molecole MHC di classe I che sono poi trasportate in membrana; questa via permette il riconoscimento di cellule infettate da virus e cellule tumorali. La via endocitica riguarda proteine extracellulari che vengono endocitate dalle APC, degradate in peptidi dal sistema lisosomale e caricate su molecole MHC di classe II.

20. Esistono due tipi di TCR, i dimeri delle catene α e β (TCRαβ) e i dimeri delle catene γ e δ (TCRγδ). Come nelle Ig, ciascuna catena è formata da una regione variabile (con le regioni ipervariabili CDR1, CDR2 e CDR3) e da una costante. Il sito combinatorio per l’antigene è formato dalle regioni variabili di entrambe le catene. La maggior parte dei linfociti T circolanti e degli organi linfatici secondari hanno un TCRαβ; sono questi i classici CTL e TH. L’antigene riconosciuto da questi linfociti è

Page 57: L’IMMUNITA’ - Il-Cubo · 2020-03-30 · 1 L’IMMUNITA’ Le macromolecole di cui i vari organismi sono formati hanno, nella maggior parte dei casi, struttura e configurazione

57

formato dal complesso del peptide antigenico con una particolare molecola MHC. Viceversa i linfociti Tγδ sono prevalenti negli epiteli (linfociti intraepiteliali o IEL) e riconoscono antigeni particolari, come substrati fosforilati.

21. I linfociti Tαβ maturano nel timo, mentre i Tγδ possono anche avere una maturazione extratimica. Come per i linfociti B, la maturazione dei linfociti T inizia con la costruzione dei segmenti genici per le regioni variabili delle catene del TCR. Le catene β e δ richiedono un riarrangiamento VDJ, quelle α e γ un riarrangiamento VJ. Per il TCR αβ riarrangia prima β e poi α; per quello γδ prima δ poi γ. Come per le Ig, la variabilità dipende dai frammenti VDJ e VJ scelti e dalle sequenze di DNA che li uniscono, che contengono basi N e basi P. Dopo aver riarrangiato α e β i timociti esprimono in membrana il TCRαβ insieme a CD4 e CD8 e vengono detti timociti CD4/CD8 doppi positivi. Questi vanno incontro al processo di educazione timica, che ha lo scopo di selezionare solo i linfociti T “utilizzabili” (ovvero il cui TCR “si adatta” alle molecole MHC self) (selezione positiva) purché non siano “autoreattivi” (ovvero purché non siano attivati da peptidi self) (selezione negativa). Il processo di maturazione dei linfociti Tγδ è meno noto, come meno chiara è la funzione di queste cellule nei tessuti. I timociti che non hanno queste caratteristiche muoiono nel timo per apoptosi.

22. I linfociti Tαβ vergini maturi escono dal timo e ricircolano negli organi linfatici secondari dove si attivano quando incontrano il peptide per cui sono specifici presentato sulle opportune molecole MHC dalle APC. L’attivazione induce la proliferazione (con produzione di una progenie di cellule figlie con lo stesso TCR) e la differenziazione in linfociti “effettori” (CTL o TH). Le APC sono le uniche cellule che possono attivare i linfociti T, in quanto esprimono molecole (dette B-7) capaci di stimolare un recettore dei linfociti T, il CD28, il cui segnale è necessario per permettere l’attivazione del linfocita T da parte dell’antigene. In assenza di questo segnale, il linfocita T diventa anergico o muore per apoptosi. Come per le Ig, anche la risposta T è seguita dalla produzione di memoria, tuttavia i suoi meccanismi (a parte l’espansione clonale) sono ancora poco noti (non avviene maturazione d’affinità né switch isotipico).

23. I CTL riconoscono cellule infettate da virus e cellule tumorali, inducendone la lisi con tre meccanismi: a) secrezione di perforina e granzimi contenuti nei granuli litici; b) secrezione della citochina pro-apotpotica linfotossina (o TNFβ); c) azione del recettore di superficie FasL, che lega il recettore di morte Fas sul bersaglio. Simili meccanismi sono anche utilizzati dalle cellule NK, prive di TCR, ma dotate di recettori inibitori (KIR) in grado di identificare una ridotta espressione di MHC di classe I da parte di cellule infettate da virus e cellule tumorali che tentano di eludere il riconoscimento da parte dei CTL.

24. I linfociti TH hanno la funzione di produrre citochine capaci di indirizzare la risposta immunitaria. Possono differenziare in linfociti TH1 che producono IL-2, IFN-γ e LT e servono da helper per CTL, NK e macrofagi, oppure in linfociti TH2 che producono IL-4, IL-5, IL-6 e funzionano da helper per i linfociti B. Le citochine sono piccole molecole proteiche secrete da vari tipi cellulari e coinvolte nelle comunicazioni tra cellula e cellula. Diverse cellule producono citochine differenti, ma una stessa citochina può essere prodotta da più tipi cellulari. L’azione delle citochine può essere autocrina, paracrina o endocrina ed è caratterizzata da pleiotropia, ridondanza, sinergia e antagonismo.

25. Lo spegnimento della risposa immunitaria avviene con due meccanismi. A) L’esaurimento dell’antigene determina un calo dei livelli di citochine trofiche per i linfociti attivati (come la IL-2), che pertanto muoiono per apoptosi. B) I linfociti attivati esprimono recettori di morte (come Fas) che vengono ingaggiati da ligandi (come FasL) espressi da altre cellule.

26. La vaccinazione consiste nel presentare al sistema immunitario l’antigene in forma non patogena, in modo da indurre una risposta protetiva. I vaccini possono essere costituiti da microrganismi interi (uccisi o attenuati) oppure da molecole purificate. Sono in corso di studio vaccini costituiti da vettori vivi modificati, vaccini a DNA e vaccini polivalenti. L’efficacia di un vaccino dipende dalla sua immunogenicità e dal tipo (anticorpale o cellulare) e localizzazione delle difese specifiche che induce. La sieroterapia consiste nel proteggere temporaneamente un individuo con anticorpi prodotti in un individuo diverso della stessa specie o di una specie diversa (sieri eerologhi); ne sono un esempio i sieri antitossici, antiofidici, anti-scorpionici e anti-ragno.

E) IPERSENSIBILITÀ. 27. Per ipersensibilità immunitaria si intendono tutti i fenomeni patologici in rapporto con l'incontro di antigeni non self con il

sistema immunitario specifico. Sinonimo di ipersensibilità è allergia. In tutte le reazioni di ipersensibilità si distinguono tre stadi: la sensibilizzazione, il periodo di latenza e lo scatenamento della reazione. La classificazione di Gell e Coombs distingue le di I, II, III e IV tipo.

28. L’ipersensibilità di I tipo è mediata da IgE, che si legano ai recettori ad alta affinità per le IgE dei mastociti. L’incontro con l’antigene, detto allergene, determina la degranulazione dei mastociti con liberazione di istamina, che è il principale mediatore di questa reazione. Poiché la degranulazione avviene in pochi minuti, questa ipersensibilità è anche detta immediata. In un momento successivo (fase tardiva) la reazione è sostenuta da citochine e leucotrieni. La sintomatologia dipende dalla sede della degranulazione e può essere localizzata o sistemica. Esempi di reazione localizzata sono la rinite allergica, l’asma allergica, la dermatite atopica (eczema), le allergie alimentari (con sintomi gastroenterici o orticaria). Una reazione sistemica è lo shock anafilattico.

29. La ipersensibilità di II tipo è mediata da IgG e IgM con azione citotossica ed è diretta verso antigeni che si legano ai tessuti. Il legame degli anticorpi all’antigene determina la fissazione del complemento e il danno dei tessuti cui l’antiogene è legato. Questo processo richiede un tempo di minuti/ore. Un esempio è l’anemia emolitica da farmaci, determinata da anticorpi contro farmaci che si legano sulla superficie dei globuli rossi funzionando da apteni. L'anticorpo si lega al farmaco adsorbito e induce la fissazione del complemento su questi ultimi e la conseguente emolisi. E’ una ipersensibilità di II tipo anche la malattia

emolitica del neonato o eritoblastosi fetale, determinata per lo più dalla incompatibilità materno-fetale per l’antigene eritrocitario Rh.

30. L’ipersensibilità di III tipo è mediata da IgM e IgG specifiche per antigeni solubili. Gli anticorpi formano con questi antigeni immunocomplessi solubili che fissano il complemento. Gli immunocomplessi si possono depositare in vari tessuti (come le pareti dei vasi, la membrana sinoviale della articolazione, la membrana basale dei glomeruli renali) e indurre una reazione infiammatoria locale, promossa dall’attivazione del complemento con produzione di anafilotossine. A seconda della sede di

Page 58: L’IMMUNITA’ - Il-Cubo · 2020-03-30 · 1 L’IMMUNITA’ Le macromolecole di cui i vari organismi sono formati hanno, nella maggior parte dei casi, struttura e configurazione

58

formazione degli immunocomplessi, si distinguono reazioni localizzate (ad es. il fenomeno di Arthus) e sistemiche (ad es. la malattia da siero).

31. L’ipersensibilità di IV tipo è anche detta ipersensibilità ritardata, in quanto richiede alcuni giorni per manifestarsi. E’ mediata da linfociti TH1 e CTL, anche detti nel loro insiem

32. e TDTH. E’ un processo infiammatorio cronico causato da antigeni difficilmente eliminabili, che attivano linfociti TH1, che secernono IFN-γ, TNF-β (LT) e IL-2, le quali attivano i macrofagi tessutali. Ne sono esempi il fenomeno di Koch in risposta ad antigeni tubercolari, la dermatite da contatto in risposta a piccole molecole (lattice, tinture, Cr) che funzionano da apteni legandosi a proteine endogene e il morbo celiaco in risposta alla proteina del glutine gliadina.

F) AUTOIMMUNITA’ 33. Le malattie autoimmuni sono dovute all’aggressione di tessuti self da parte del sistema immunitario specifico. Sulla base del

grado di localizzazione del danno si distinguono malattie autoimmuni organo-specifiche e sistemiche (Tab.16); a seconda del meccanismo patogenetico principale si distinguono malattie autoimmuni mediate da anticorpi, da immunocomplessi e da linfociti T (TH1 e CTL) (Tab.17). Il loro sviluppo dipende dall’azione di fattori scatenanti di tipo ambientale che agiscono su una condizione di predisposizione genetica

34. Il più noto fattore genetico predisponente è l’aplotipo HLA. Ad esempio, il rischio per il diabete mellito insulino-dipendente è 20 volte maggiore in soggetti con HLA-DR3 e DR4, mentre quello per la sclerosi multipla è 5 volte maggiore nei soggetti con DR2. Questa associazione può essere dovuta all’efficienza con cui le molecole predisponenti “presentano” i peptidi self responsabili della malattia. Un altro fattore predisponente è il sesso, in quanto molte malattie autoimmuni sono più frequenti nella donna; questo può essere dovuto all’influenza degli ormoni sessuali sulla risposta immunitaria. Infine le malattie autoimmuni possono essere favorite da difetti genetici che alterano i meccanismi di spegnimento della risposta immunitaria (ad es. un difettoso funzionamento del sistema Fas/FasL causa lo sviluppo della sindrome autoimmuni linfoproliferativa.

35. Il principale fattore scatenante oggi chiamato in causa nello sviluppo delle malattie autoimmuni sono i processi infettivi che possono agire con tre meccanismi: il mimetismo molecolare, l’induzione di una espressione inappropriata di molecole MHC e di molecole costimolatorie e il rilascio di antigeni sequestrati.

G) TRAPIANTI. 36. L’autotrapianto è il trasporto di tessuti viventi da un da un punto ad un altro dello stesso organismo. L’isotrapianto è il

trasporto di tessuti tra individui geneticamente identici; l’allotrapianto avviene tra due individui non geneticamente correlati della stessa specie; lo xenotrapianto avviene tra individui di specie diversa. Tipicamente gli ultimi due vanno incontro a un rigetto immunologico.Il rigetto può essere iperacuto, acuto o cronico.

37. Il rigetto iperacuto è dovuto alla presenza nel ricevente di anticorpi preformati contro il tessuto trapiantato. Ad esempio il trapianto di un organo da un donatore di gruppo sanguigno B in un ricevente di gruppo A produce un rigetto iperacuto sostenuto dagli anticorpi naturali anti-B del ricevente. Questi si legano agli antigeni B espressi dall’endotelio dei vasi del trapianto, inducendo l’attivazione del complemento, il danno dell’endotelio, la trombosi del vaso e la necrosi ischemica del trapianto. Anticorpi preformati possono anche riconoscere le molecole MHC e possono essere presenti in soggetti politrasfusi o donne poligravide.

38. Il rigetto acuto e cronico sono dovuti a per lo più differenze nelle molecole MHC tra ricevente e donatore. Le molecole MHC non self dell’organo trapiantato inducono una risposta immunitaria, prevalentemente di tipo cellulare (TH1 e CTL), ma anche anticorpale, che aggredisce l’organo trapiantato. I due tipi di rigetto si differenziano per la loro intensità. Il rigetto cronico può anche essere dovute a differenze negli antigeni minori di istocompatibilità (varianti alleliche di proteine prodotte dalle cellule del donatore e del ricevente, che sono processate e presentate sulle molecole MHC self). Nel caso del trapianto di organi ricchi di linfociti maturi (come il midollo osseo o il fegato) si può avere un rigetto del ricevente da parte dei linfociti del donatore (la graft-versus-host disease).

H) IMMUNODEFICIENZE. 39. Le immunodeficienze possono essere primitive (o congenite) o secondarie (o acquisite). Sia le une che le altre, poi, possono

essere in rapporto col difettoso funzionamento di uno qualsiasi dei meccanismi che entrano in gioco nelle difese immunologiche. Le immunodeficienze primitive sono legate a difetti congeniti, per lo più ereditari; Si possono distinguere anomalie dei fagociti, anomalie dell’immunità specifica cellulo-mediata e 3) anomalie dell’immunità umorale.

40. La forma oggi più frequente di immunodeficienza secondaria è l’AIDS indotta dal virus HIV. Il virus utilizza come bersaglio recettoriale la molecola CD4, per cui infetta le cellule CD4+, ovvero i linfociti TH, ma anche i macrofagi e le cellule dendritiche. Il virus deve anche interagire con un corecettore cellulare rappresentato da un recettore chemochinico, CXCR4 o CCR5. L’immunodeficienza è principalmente dovuta alla graduale deplezione dei TH, in parte legata alla loro infezione diretta, in parte ad un’azione negativa esercitata da vari prodotti virali su linfociti TH non infettati. L’immunodeficienza determina lo sviluppo di infezioni opportunistiche e di tumori a carico del sistema immunitario.

H) IMMUNITÀ ANTI-TUMORALE 41. Secondo la teoria dell’immunosorveglianza il sistema immunitario sarebbe preposto all’eliminazione delle cellule tumorali. Si

distinguono due tipo di antigeni tumorali: gli antigeni tumore-specifici e gli antigeni tumore-associati. Esempi dei primi sono i prodotti degli oncogeni. Esempi dei secondi sono gli antigeni oncofetali, come l’α-feto-proteina (AFP) del carcinoma epatocellulare e l’antigene carcino-embrionario (CEA) del carcinoma del colon.

42. Un ruolo centrale nella difesa anti-tumorale sarebbe svolto dai linfociti T citotossici (CTL): quelli che infiltrano il tumore sono detti TIL (tumor infiltrating lymphocytes). Un secondo effettore chiave è la cellula NK e la sua forma attivata detta LAK (lymphokine activated killer cell). Le cellule NK riconoscono le cellule tumorali quando queste riducono l’espressione delle molecole MHC di classe I per non farsi riconoscere dai CTL. Sia i CTL che le NK uccidono le cellule tumorali inducendone l’apoptosi.

43. Per eludere queste difese la cellula tumorale cerca di bilanciare l’espressione delle molecole MHC di classe I in modo da impedire il riconoscimento sia dei CTL che delle NK. Inoltre diventa meno suscettibile all’apoptosi riducendo l’espressione di

Page 59: L’IMMUNITA’ - Il-Cubo · 2020-03-30 · 1 L’IMMUNITA’ Le macromolecole di cui i vari organismi sono formati hanno, nella maggior parte dei casi, struttura e configurazione

59

molecole effettrici dell’apoptosi o aumentando l’espressione di suoi inibitori. In alcuni casi i tumori esprimono FasL e uccidono i linfociti effettori che esprimono elevati livelli di Fas.