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Facoltà di Medicina Veterinaria Corso di Laurea in Tutela e Benessere Animale Tesi di Laurea in Fisiologia ed Etologia L’EREDITA’ DELLA MEMORIA EMOZIONALE Candidato: Relatore: Rossella Politi Prof.ssa Pia Lucidi Matricola n°. Correlatore: 71982 Dott. Romolo Caniglia Anno accademico 2016 2017

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Facoltà di Medicina Veterinaria

Corso di Laurea in Tutela e Benessere Animale

Tesi di Laurea in

Fisiologia ed Etologia

L’EREDITA’ DELLA MEMORIA EMOZIONALE

Candidato: Relatore:

Rossella Politi Prof.ssa Pia Lucidi

Matricola n°. Correlatore:

71982 Dott. Romolo Caniglia

Anno accademico 2016 – 2017

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Facoltà di Medicina Veterinaria

Corso di Laurea in Tutela e Benessere Animale

Tesi di Laurea in

Fisiologia ed Etologia

L’EREDITA’ DELLA MEMORIA EMOZIONALE

Candidato: Relatore:

Rossella Politi Prof.ssa Pia Lucidi

Matricola n°. Correlatore:

71982 Dott. Romolo Caniglia

Parole chiave: DNA, eredità, epigenetica, Lamarck, emozioni.

Anno accademico 2016 – 2017

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INDICE

INTRODUZIONE

CAPITOLO 1

1.1 La nascita dell’etologia e i suoi padri fondatori: un approccio evoluzionistico al

comportamento animale

1.2 I fondamenti dell’etologia

1.3 L’etologia e i suoi principali protagonisti: tradizioni di ricerca a confronto

1.3.1 Darwin e l’etologia

1.3.2 L’evoluzionismo di Lamarck: adattamento ed emozioni

1.3.3 Darwin e Lamarck: teorie a confronto

1.3.4 L’etologia post darwiniana: Lorenz e Tinbergen

CAPITOLO 2

2.1 Il libro della vita: il DNA e l’epigenetica

2.2 Le basi molecolari dell’eredità

2.2.1 Struttura e funzioni del DNA

2.2.2 Replicazione del DNA

2.3 Lo sviluppo del comportamento necessita sia dei geni che dell’ambiente

2.4 Dalla genetica all’epigenetica

2.5 L’impronta Lamarckiana nel mondo epigenetico

CAPITOLO 3

3.1 La memoria emozionale e le paure apprese

3.2 Le emozioni secondi gli evoluzionisti

3.3 Il passaggio transgenerazionale delle emozioni: viaggio nella psicogeneaologia

3.3.1 La Psicogenealogia e l'Epigenetica. La vera eredità: il comportamento dei

nonni cambia i geni dei nipoti

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CAPITOLO 4

4.1 Viaggio dentro il centro della genetica: il DNA “spazzatura”

4.2 Epigenetica e “Junk DNA” : il riscatto di Lamarck?

4.3 L’eredità delle emozioni

CONCLUSIONE

BIBLIOGRAFIA

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INTRODUZIONE

I nostri antenati hanno osservato per anni gli animali al fine di apprenderne il

comportamento per soddisfare, inizialmente, quelli che erano ritenuti i bisogni vitali.

Con il passare del tempo, grazie all’intervento di coloro che sono classificati come i

padri fondatori dell’etologia, lo studio del comportamento animale ha assunto una

valenza sempre più scientifica e una rilevanza notevole.

Il mondo degli etologi è stato da sempre illuminato da quelle che sono le linee guida

proposte da Darwin ed il suo concetto di selezione naturale, secondo il quale in una

popolazione formata da organismi della stessa specie ogni individuo è diverso

dall'altro facendo sì che le variazioni abbiano tutte le stesse probabilità di verificarsi.

Il concetto di selezione naturale proposto da Darwin stesso, illustra la conservazione

delle variazioni favorevoli, garantendo così la sopravvivenza e il successo

riproduttivo agli individui che le presentano. Una visione opposta è quella presentata

da Lamarck, il primo scienziato che sviluppò una teoria coerente sull’evoluzione

degli organismi ipotizzando che tutte le specie discendessero da altre specie. Lui

stesso affermò che gli organi degli animali diventano più o meno sviluppati a

seconda dello stile di vita dell’organismo e dagli stimoli provenienti dall’ambiente in

cui questo cresce e si sviluppa. Non a caso Lamarck affermava che la vita, nelle sue

forme più semplici, si originava continuamente per generazione spontanea.

Nell’ambito della biologia, hanno tuttavia sempre prevalso gli studi e le teorie

Darwiniste e quelle Lamarckiane sono state accantonate e sminuite per molto tempo.

Qualcosa sta cambiando solo negli ultimi anni, dopo che sono stati fatti passi avanti

nel mondo della genetica, arrivando sino alla scoperta di una nuova chiave di lettura

che si cela dietro il nostro DNA: l’epigenetica, disciplina che ha come oggetto di

lavoro le caratteristiche trasmesse da una generazione all’altra non riconducibili ai

rispettivi genotipi ma ai meccanismi molecolari attraverso cui l’ambiente altera il

grado di attività dei geni senza tuttavia modificare l’informazione all’origine.

L’epigenetica ha dunque riabilitato la teoria lamarckiana evidenziando la grande

rilevanza degli adattamenti all’ambiente nel miglioramento genetico moderno.

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L’epigenetica è inoltre riconducibile al concetto di trasmissione della memoria

emozionale: traumi, esperienze negative passate, paure o ansie possono essere

trascritte nel nostro genoma e trasmesse alla prole, almeno sino alla quarta

generazione, così come ha dimostrato un nuovo studio effettuato su alcuni topi e

pubblicato poi sulla rivista “Nature Neuroscience” da Brian G Dias e Kerry J Ressler

(2014) dell'Howard Hughes Medical Institute a Chevy Chase, nel Maryland, che ha

introdotto un nuovo elemento per la comprensione dei meccanismi biologici che

consentono di trasmettere alle generazioni successive non solo il patrimonio

genetico, ma anche i comportamenti appresi.

Gli stimoli ambientali che un individuo incontra nel corso della vita influenzano il

genoma mediante meccanismi epigenetici che regolano l'espressione dei singoli geni.

Ma dove vengono immagazzinate tutte queste informazioni? In quella parte di DNA,

circa il 98% del contenuto totale delle cellule, passato nella storia con il nome di

“junk DNA” (“DNA spazzatura”), denominato così perché ritenuto privo di qualsiasi

tipo di funzione biologica, senza sapere che in realtà al suo interno si cela un mondo

da rivalutare, ricco di informazioni e pseudo-geni, interruttori che quando vengono

azionati comportano determinate conseguenze ereditabili anche dalla progenie degli

organismi che li sperimentano.

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Capitolo 1

1.1 La nascita dell’etologia e i suoi padri fondatori: un approccio evoluzionistico

al comportamento animale

Per migliaia di anni i nostri antenati hanno osservato gli animali al fine di

apprenderne il comportamento per soddisfare , inizialmente, quelli che erano i

bisogni vitali, come la caccia. Con il passare del tempo lo studio del comportamento

animale ha assunto una valenza sempre più pratica e produttiva da cui poter ricavare

strategie di studio e di lavoro. Ad esempio, se si volesse proteggere un campo di

cotone dai danni del bruco di Pectinophora gossypiella, sarebbe utile sapere che le

femmine adulte di questa farfalla notturna attraggono i maschi con speciali odori per

poter interferire con questa via di comunicazione. Oggi inoltre c’è la possibilità di

studiare il comportamento degli animali senza l’urgenza della sopravvivenza,

necessità venuta meno dal momento in cui si è pensato più a tutelare la biodiversità e

gli ecosistemi.

E’ possibile, in ogni caso, distinguere lo studio del comportamento animale in due

aree di interesse: teorico a cui fa riferimento la psicologia comparata e applicativo,

legato invece all’etologia. Mentre la psicologia comparata è intesa come quella

disciplina che si interessa dello studio dei processi mentali da un punto di vista

comparativo mettendo a confronto le abilità cognitive dell’uomo con quelle degli

altri animali, l’etologia è una disciplina di aspetto biologico il cui compito consiste

nella ricerca delle cause che sono alla base di un comportamento e della cause

definite ultime, intese come responsabili della sua origine. Questa disciplina applica

allo studio del comportamento degli animali quell’approccio evoluzionistico che è

diventato d’uso corrente e naturale in tutti gli altri campi della biologia dopo Darwin;

la selezione naturale agisce non solo sugli organi e sulle strutture corporee, ma anche

sul comportamento. L’etologia utilizza un approccio filogenetico allo studio del

comportamento e la sua storia recente inizia con la scoperta da parte di Charles

Whitman e Oskar Heinroth (Sovrano et al., 2009) di alcuni moduli comportamentali

che, per la loro fissità, somiglianza o differenza da specie a specie, possono essere

utilizzati come caratteri di specie- specificità al pari dei caratteri morfologici.

Utilizzando il concetto di omologia, cioè il fatto che una struttura, un

comportamento o un gene si siano conservati nel corso dell’evoluzione a partire da

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un antenato comune, si analizzano in maniera comparativa questi particolari moduli

comportamentali in specie più o meno vicine dal punto di vista filogenetico e in

questo modo è possibile risalire ad una forma comune di modulo motorio ancestrale

(Sovrano et al., 2009).

Il momento della nascita dell’etologia “classica”viene fatto coincidere con la

comprensione di quelli che sono considerati i meccanismi alla base dell’istinto.

Alcuni psicologi, quali McDougall e Tolman, affermavano che l’istinto fosse un

agente per il quale non è applicabile e necessaria alcuna spiegazione naturale; si

tratta della visione tipica della scuola behaviourista americana, secondo la quale il

comportamento degli animali era un fenomeno totalmente appreso, ritenendo di

conseguenza inutile e poco scientifico lo studio degli animali in natura (Sovrano et

al., 2009). La scuola etologica europea, dove spiccano i nomi di Lorenz, von Holst e

Tinbergen, al contrario dell’americana, analizzò in dettaglio le componenti del

comportamento istintivo, dimostrando che la formulazione dei concetti di innato e di

appreso come antiteticamente disgiunti , era errata. Infatti, come sottolineato da

Lorenz, “ Ogni apprendimento deve essere fondato su un programma divenuto

filogenetico, nella misura in cui, come in realtà avviene, deve produrre dei moduli

comportamentali significativi per la conservazione della specie.” (Sovrano et al.,

2009).

L’etologia è una scienza complessa , le cui tematiche spesso vanno di pari passo con

altre discipline quali la psicologia evoluzionistica, la biologia, l’antropologia e la

fisiologia. Il tassello più importante della ricerca etologica è la conoscenza della

specie oggetto di studio. Anche se l’indagine dovesse riferirsi a un particolare aspetto

di un dato comportamento, il ricercatore o per meglio dire l’etologo, deve conoscere

tutto il repertorio comportamentale e tutte quelle che sono le caratteristiche

biologiche della specie animale coinvolta in quel momento. Lo stesso Lorenz (1978)

rimproverava moltissimi giovani ricercatori, che si consideravano etologi, di mancare

purtroppo di conoscenza degli animali e di occhio clinico. Tuttavia, l’osservazione e

la descrizione dei comportamenti, se fatte in maniera corretta, hanno la stessa

valenza scientifica di uno studio comportamentale analitico, tipico dell’odierna prassi

etologica, che predilige un approccio quantitativo allo studio del comportamento

(Sovrano et al., 2009).

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Alla base di una corretta metodologia di osservazione degli animali, ci sono il

campionamento e la registrazione dei dati comportamentali. Mentre il

campionamento è il processo di raccolta dei dati comportamentali che segue

procedure piuttosto rigorose e oggettive, la registrazione si basa su delle regole che

codificano per quanto tempo l’etologo stesso deve osservare un dato animale.

Nell’ambito del campionamento, riconosciamo quattro diversi metodi:

Il campionamento ad libitum: dove il ricercatore osserva e prende nota del

comportamento di tutti gli animali a lui visibili, senza necessariamente

soffermarsi su uno soggetto specifico;

Il campionamento su animale focale: dove il ricercatore si focalizza su un

solo soggetto o su una coppia di soggetti, registrando tutte le varie categorie

comportamentali che si manifestano;

Il campionamento per gruppo: dove il ricercatore osserva un intero gruppo

sociale in un dato momento, prendendo in considerazione alcune categorie

comportamentali e il comportamento di ogni singolo soggetto del gruppo

viene registrato a turno per un breve lasso di tempo;

Il campionamento per categoria comportamentale: simile al

campionamento per gruppo, ma con la differenza che il ricercatore non

osserva a turno ogni singolo soggetto ma si concentra sull’identificare la

manifestazione di un particolare tipo di comportamento , annotando quali

sono i soggetti che lo manifestano.

Nell’ambito, invece, della registrazione dei dati comportamentali, si riscontrano due

opzioni principali:

La registrazione continua, in cui il ricercatore prende nota in maniera

continuativa di tutti i moduli comportamentali ed eventualmente di tutte le

interazioni ad essi collegate nel corso del tempo;

La registrazione a intervalli di tempo, in cui il ricercatore osserva ad

intervalli fissi di tempo nel corso della giornata, l’animale o il gruppo.

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Per poter misurare il comportamento animale gli etologi prendono in considerazione

tre misure comportamentali: la latenza, la frequenza e la durata. Con il termine

latenza, si fa riferimento al tempo che intercorre dall’inizio dell’osservazione sino a

quando l’animale manifesta il comportamento oggetto di studio; con frequenza si

intende il numero di volte che si manifesta un dato comportamento nell’unità di

tempo presa in esame mentre con la durata si fa riferimento all’intervallo di tempo

necessario per manifestare il singolo atto comportamentale. Spesso a queste tre

misure può essere associata anche una quarta, l’intensità, difficilmente definibile,

intesa però come l’indice della forza con la quale l’animale manifesta un certo

modulo comportamentale. Lo studio degli animali sul campo offre all’etologo stesso

la possibilità di acquisire le informazioni sul comportamento animale secondo tue

metodologie differenti:

Il rilevamento diretto, dove il ricercatore osserva, con l’ausilio di

attrezzature piuttosto semplici (come cannocchiali, binocoli, etc...) ,

direttamente la specie di interesse. Questo metodo di rilevamento viene,

solitamente, adottato per lo studio di animali diurni, facili da osservare.

L’osservazione diretta però, presenta numerosi limiti dal momento in cui , ad

esempio, la maggior parte dei mammiferi è costituita da animali notturni poco

propensi a farsi osservare e studiare, per questo motivo il rilevamento diretto

è inteso come l’approccio iniziale per un qualsiasi progetto di ricerca

etologica sul campo;

Il rilevamento indiretto, adottato per le specie notturne elusive a cui si fa

riferimento sopra, dove il ricercatore ricalca ed elabora quello che è il

comportamento della specie oggetto di ricerca, basandosi sull’analisi delle

strutture, dei segni e delle tracce lasciate dall’animale stesso.

1.2 I fondamenti dell’etologia

Il termine “etologia”, che nel corso del XVII secolo aveva assunto il significato di

“studio dei costumi”, venne riferito per la prima volta alla sua accezione di “studio

del comportamento animale” solo nel 1911 , da Oskar Heinroth, uno dei maestri di

Lorenz (Sovrano et al., 2009).

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All’interno dell’etologia classica vi sono alcuni concetti “chiave”, indispensabili per

comprendere il ruolo di questa disciplina, di seguito presentati. Per comprendere il

significato evolutivo di un determinato modulo comportamentale è necessario

analizzare quel comportamento nella sua molteplicità di manifestazioni. L’etologia

moderna iniziò con la compilazione e lo studio dei cataloghi comportamentali propri

delle specie oggetto di studio.

L’etogramma , già in parte introdotto e descritto da Leroy (Sovrano et al.,2009), è

definito come il repertorio comportamentale di una specie, permettendo di

catalogarne i moduli fissi di attività ,ovvero quei comportamenti che rispondono a

condizioni interne o ambientali comuni a tutti gli individui della specie in questione.

Seppur sia difficile descrivere completamente i moduli comportamentali di una

specie a causa di una difficoltà oggettiva nel documentare tutti i moduli stessi e di

una difficoltà nel codificare quanto osservato senza interpretare il comportamento,

non è però impossibile. Nella storia dell’etologia, l’unico finora in grado di

conoscere molto bene l’etogramma di una specie animale, è stato Lorenz , assieme ai

suoi discepoli, che per ben 75 anni si è occupato dello studio dell’oca selvatica

(Anser anser) (Sovrano et al., 2009).

Nell’ambito dello studio e dell’osservazione del comportamento si è potuto osservare

che spesso vengono manifestati moduli comportamentali che l’animale non ha

alcuna necessità di apprendere. Queste forme di comportamento, conosciute anche

come “ capacità innate” o “ moduli fissi di azione”, rientrano in quelli che sono

ritenuti i punti chiave dell’etologia. Il termine innato indica che le strutture

neuromotorie alla base dei movimenti si sviluppano in un processo di

autodifferenziamento, secondo le modalità fissate nel patrimonio ereditario. Per

molto tempo era stata data una connotazione negativa ai comportamenti istintivi,

considerati come quei comportamenti che l’animale “non aveva bisogno di

apprendere”. Il grande merito di Lorenz fu quello di ridefinire le capacità innate

facendole diventare sinonimo di adattato filogeneticamente. La funzione principale

di queste capacità consiste nell’aumento della fitness dell’individuo, cioè nel numero

di discendenti che lascia, e ogni adattamento non avviene solo all’interno

dell’organismo, ma si manifesta grazie all’interazione del sistema adattato

(l’animale) con l’ambiente (habitat). Nel caso delle capacità innate, l’adattamento è il

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risultato dello sviluppo filogenetico. L’esperienza della specie viene fissata nel

genoma dell’animale che la codifica durante l’ontogenesi, processo che verrà

illustrato poi di seguito.

Un altro punto sul quale si è discusso è la necessità dell’esperienza per lo sviluppo di

un comportamento. In generale, quando gli etologi affermano che un comportamento

non necessita di esperienza per il proprio sviluppo, non intendono dire che esso non

necessita di esperienza in assoluto. Esistono, infatti, numerosi moduli

comportamentali innati che vengono manifestati sin dai primi momenti di vita in

maniera perfettamente sviluppata (si basti pensare ad un pulcino che sa beccare

appena uscito dall’uovo). Tuttavia, non tutti i comportamenti innati sono

perfettamente sviluppati alla nascita e molti si manifestano in maniera completa

solamente durante l’ontogenesi dell’animale. Per riconoscere un modulo motorio

innato, non ci si può basare solamente durante la crescita e alcuni solo in determinati

periodi di vita dell’animale (ontogenesi). Per riconoscere un modulo motorio innato,

non ci si dovrebbe basare solamente sul criterio di di elevata stereotipia e fissità ma

la dimostrazione sperimentale dovrebbe avvenire solo grazie a esperimenti di

privazione o isolamento, allevando l’animale in condizioni di isolamento sociale,

impedendogli altresì di apprendere il modulo comportamentale oggetto di studio

tramite un apprendimento per prove ed errori (Sovrano et al., 2009). Oggi

sperimentazioni di questo genere sono fortunatamente scongiurate dalla presenza di

Comitati di bioetica volti a tutelare il benessere degli animali anche nelle

sperimentazioni in campo etologico.

E’ ormai accettato che sia la componente ereditaria sia l’ambiente abbiano un ruolo

fondamentale nell’ontogenesi comportamentale. Grazie agli esperimenti di

privazione, gli etologi sono stati in grado di analizzare un determinato livello di

adattamento, evidenziando così il contributo specifico dell’ereditarietà.

Il concetto di “innato” è strettamente correlato a un altro meccanismo denominato “

filtro neuronale di stimolo”, meccanismo che consente all’animale il riconoscimento

innato di una situazione ambientale biologicamente rilevante; si tratta dunque di un

meccanismo neurosensoriale che scatena la reazione ed è responsabile della sua

selettività: il cervello quindi analizza le informazioni sensoriali afferenti e dopo aver

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identificato gli stimoli competenti, ossia gli stimoli che in una certa situazione

biologica scatenano un modulo comportamentale adeguato, attiva la risposta

comportamentale dell’animale. Lorenz utilizzò l’analogia “chiave-serratura” per

indicare il rapporto tra stimoli competenti e meccanismo scatenante innato.

Riassumendo, gli stimoli competenti (la chiave) agiscono sul meccanismo scatenante

innato (la serratura), il quale innesca un certo comportamento, come una chiave

particolare apre la sua serratura (Sovrano et al., 2009). In merito a quest’ultima

analogia, è bene presentare un ulteriore punto cardine dell’etologia, ossia il ruolo

degli stimoli esterni, ritenuti le chiavi che aprono la serratura e dunque i responsabili

di tutte le azioni istintive, facendo scattare il meccanismo innato da cui ha origine il

comportamento. Normalmente, gli animali sono immersi in milioni di stimoli ma,

solamente alcuni di questi hanno una certa rilevanza biologica per l’individuo .

Dunque, per rispondere agli stimoli giusti, l’animale possiede un meccanismo di

filtro a più stadi degli stimoli, grazie al quale gli stimoli vengono riconosciuti e la

risposta prodotta.

Dal punto di vista etologico è possibile studiare il filtro a più stadi attraverso degli

esperimenti comportamentali ove le caratteristiche di uno stimolo sono scisse in varie

parti e somministrate singolarmente in momenti successivi ( mediante zimbelli, ossia

modelli artificiali dello stimolo) con lo scopo di stabilire quale o quali siano le parti

più importanti e i caratteri determinanti per scatenare una risposta (Sovrano et al.,

2009). A tal proposito, lo stesso Tinbergen(Sovrano et al., 2009) ha dimostrato che la

forma, il colore e le dimensioni della testa del genitore non hanno importanza nello

scatenare la reazione del beccare per ottenere il rigurgito del cibo nei piccoli di

gabbiano reale nordico (Larus argentatus).

Gli stimoli esterni molto specifici ai quali l’animale risponde, esibendo una

specifica attività, consistente in una sequenza di movimenti più o meno complessi,

vengono detti stimoli chiave o stimoli segnale.

Tutti i segnali percettibili possono avere una funzione di stimolo chiave e possono

essere costituiti sia da segnali semplici o complessi (colore, forma, ecc.) intercettati

da un solo apparato sensoriale oppure da più apparati sensoriali. Per quello che

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riguarda gli stimoli chiave, l’interesse alla comunicazione risiede in una sola delle

due parti, ovvero il destinatario, nel quale si svilupperanno gli adattamenti per il

miglioramento della ricezione dello stimolo.

Gli stimoli chiave utilizzati nell’ambito dei rapporti intra-specifici e ai quali i

conspecifici rispondono con regolarità sempre allo modo sono denominati stimoli

rilascianti o segnali scatenanti. Questa tipologia comprende segnali di tipo visivo,

acustico, chimico, posturali, comportamentali oppure costituita da una somma di

questi. Una loro caratteristica fondamentale è la loro spiccata vistosità e, nel caso dei

moduli comportamentali, dall’accentuato carattere ritualizzato (Sovrano et al., 2009).

Ma cosa si comunicano individui appartenenti alla stessa specie? La loro

comunicazione può avvenire sulla base di segnali sessuali, scambio di informazioni

genitori-prole, segnali che aiutano animali che vivono in gruppo a mantenersi in

contatto o segnali il cui messaggio ha uno scopo di “gioco” (detta

metacomunicazione), questi ultimi molto presenti nei carnivori.

Scambi di informazioni avvengono anche tra individui di specie differenti, per questo

motivo è possibile parlare anche di stimoli inter-specifici, come nel caso dei

passeriformi, i cui canti sono estremamente differenti tra le varie specie ma gli

spettrogrammi dei richiami emessi in caso di pericolo sono più o meno

sovrapponibili, dunque in questo caso risulta evidente che lo scambio di informazioni

avviene non solo tra conspecifici ma anche tra individui di specie diverse.

1.3 L’etologia e i suoi principali protagonisti: tradizioni di ricerca a confronto

Lo sviluppo della moderna etologia trova le sue basi nelle ricerche di Konrad Lorenz

(1903-1989), Nikolaas Tinbergen (1907-1988) e Carl von Frish (1886-1982) insieme

vincitori del Nobel per la medicina nel 1973, che a loro volta poterono trovare come

supporto gli studi di precedenti insigni studiosi del calibro di Charles Darwin (1809-

1882) e Jean-Baptiste de Lamarck (1744-1829). Tutti loro hanno avuto senza

dubbio, un ruolo primario nello sviluppo di un metodo moderno di studio del

comportamento animale.

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A prescindere dalle specie studiate e dalle diverse specializzazioni, gli etologi e gli

studiosi di tale settore sono accumunati da due caratteristiche fondamentali : la

passione e la pazienza. Lo stesso Lorenz affermava: “ Nemmeno un santone tibetano

allenato in esercizi di pazienza sarebbe capace di rimanere immobile e sempre vigile,

davanti a un acquario o a uno stagno di anatre, tanto a lungo quanto è necessario per

procurarsi la base di dati per l’apparato percettivo” (Lorenz, 1978).

Esistono, alla luce di questa osservazione, due diversi tipi di etologi: da una parte

quelli che amano studiare gli animali in natura e ritengono che questo approccio sia

l’unico in grado di fornire un vero e proprio etogramma della specie. Gli altri invece,

amano circondarsi di animali che allevano in semilibertà. Lo stesso Lorenz

identificava i primi con il nome di “etologi cacciatori”, in cui vengono inseriti

Tinbergen e von Frish, e i secondi come “etologi contadini”, di cui faceva parte

Lorenz stesso.

Base altrettanto fondamentale dei principi etologici è, senza dubbio, la teoria

evoluzionistica della selezione della specie, presentata da Charles Darwin nell’

Origine delle specie (1859), secondo la quale il cambiamento evolutivo è inevitabile

quando si verificano tre condizioni: variazione, eredità e differenze nel successo

riproduttivo.

Rimanendo nel campo dell’evoluzione, figura di spicco fu Lamarck ,che affermò una

teoria secondo la quale gli animali si evolvono in base a eventi modulati

dall'ambiente esterno che dunque opera una pressione "naturale" sui caratteri delle

varie specie. Secondo Lamarck inoltre i caratteri acquisiti venivano trasmessi alla

prole, dove potevano rimanere stazionari o essere, a loro volta, modificati da

influenze esterne.

1.3.1 Darwin e l’etologia

I meccanismi alla base delle dinamiche etologiche sono le stesse che regolano

l’evoluzione delle specie viventi. Il contributo più consistente allo sviluppo della

moderna teoria evolutiva è senza dubbio alcuno quella del naturalista inglese Charles

Darwin. Egli, avviato alla carriera di medico ma disgustato dalle pratiche del tempo,

all'età di soli ventidue anni rinunciò a proseguire la sua attività. per avviarsi con poca

convinzione alla carriera ecclesiastica. Sebbene poco interessato a questo campo di

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studi, Darwin era un appassionato cacciatore e si interessava attivamente di botanica:

per cui, quando il capitano del brigantino Beagle si disse disposto a offrire un

passaggio a un giovane naturalista disposto a seguire senza stipendio la sua

spedizione verso la costa sudamericana, Darwin accettò con entusiasmo, ignaro che il

suo viaggio avrebbe cambiato per sempre la visione della nostra vita e della nostra

collocazione all'interno del regno dei viventi.

Fino al termine del XVIII secolo, la teoria riconosciuta dalla comunità scientifica

come la più verosimile era quella della Scala Naturae aristotelica, secondo la quale

gli organismi erano classificabili in una piramide ideale: gli animali più semplici

stavano alla base e l'uomo alla sua sommità, mentre tutti gli altri esseri viventi

occupavano le posizioni intermedie. Vi era poi un gruppo di biologi più

avanguardista, che rifiutava la concezione aristotelica in favore di quella ancor più

antropocentrica dell'Antico Testamento, secondo la quale tutti gli esseri viventi erano

stati creati per un atto divino, essenzialmente per l'utilità o il piacere degli uomini. A

questo si aggiungeva poi una constatazione che appariva incontrovertibile e che era

ben radicata nel senso comune, quella cioè che le specie animali fossero eterne e

immutabili, create di proposito e con fini specifici. Come si sarebbe potuta spiegare

altrimenti la straordinaria varietà degli organismi e il sorprendente adattamento di

ogni essere vivente al proprio habitat? Il brigantino Beagle salpò nel mese di

dicembre 1831 per arrivare a Bahia, sulle coste brasiliane, alla fine del febbraio

1832. L'imbarcazione riprese poi il viaggio lungo la costa effettuando soste a

intervalli più o meno regolari. Darwin ebbe così modo di passare circa tre anni e

mezzo lungo le coste del Sud America, esplorandone anche l'interno. La sosta alle

isole Galàpagos (dal nome spagnolo per testuggine) durò poco più di un mese e, in

questo periodo, egli effettuò numerosissime osservazioni sulla fauna dell'arcipelago.

L'oggetto delle sue osservazioni furono principalmente le grandi e singolari

testuggini che popolavano questo arcipelago; su ognuna delle numerose isole queste

differivano per alcuni particolari, ad esempio nella conformazione del carapace,

mentre per il resto le specie erano sorprendentemente simili. Osservando la

vegetazione circostante, Darwin rilevò un carattere più sorprendente: le diversità tra

le varie specie sembravano rispondere alle esigenze che le testuggini avevano

sull'isola nella quale risiedevano. Per esempio, nelle isole ricche di vegetazione le

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tartarughe avevano un carapace a forma di cupola, atto a proteggere le parti molli

dell'animale perché si potesse far strada tra gli arbusti; le tartarughe residenti sulle

isole dal clima più arido, invece, avevano un carapace a forma di sella, che

permetteva all'animale di allungarsi in modo più efficace in cerca di cibo. Inoltre il

viaggio offrì a Darwin ampie opportunità di familiarizzare con le più moderne teorie

geologiche, tramite i libri che aveva portato con sè; gli divenne chiaro che le

condizioni della Terra erano rimaste sostanzialmente costanti per milioni di anni.

Altrettanto affascinanti delle rocce e della stratigrafia della parte meridionale del

continente si rivelarono per lui le svariate specie esotiche che incontrò; egli fu inoltre

colpito in modo particolare dalle straordinarie somiglianze che occasionalmente

potette rilevare tra le specie viventi e le creature fossilizzate di cui era divenuto un

attento raccoglitore (Andriola, 2003). Fu allora che Darwin cominciò a misurarsi con

il problema dell’origine delle specie. La grande quantità di rilevazioni permise a

Darwin di elaborare una teoria destinata a cambiare per sempre la concezione

antropocentrica della scienza del suo tempo. Egli pubblicò nel suo più celebre libro,

L’origine della specie (1859), le sue conclusioni, che per gli scienziati dell'epoca

avevano dello sconcertante. Secondo Darwin, infatti, le variazioni tra individui

presenti in ogni popolazione naturale sono dovute al caso: non sono prodotte né

dall'ambiente né da una "forza creatrice" superiore e nemmeno da un ipotetico

impulso inconscio dell'organismo. Queste variazioni non presentano né uno scopo

preciso né una direzione, ma possono risultare più o meno utili per un certo

organismo ai fini della sua sopravvivenza e riproduzione, oppure sfavorirlo se

portatrici di caratteristiche meno idonee all'ambiente in cui l'animale vive. E' questo

il celebre principio della selezione naturale, il quale agendo sul singolo ma

propagandosi su un grande numero di generazioni dà una direzione certa

all'evoluzione degli organismi. Proseguendo nel suo ragionamento, Darwin intuisce

poi che, col passare del tempo e delle generazioni, le differenze che intercorrono tra

due animali discendenti dallo stesso progenitore ma che grazie al processo di

selezione naturale si sono progressivamente adattati ad ambienti o condizioni di vita

diversi, possono ampliarsi fino a originare nuove specie. Lo studioso era inoltre

convinto che l’origine della specie umana non facesse eccezione alla regola generale,

ossia che l’uomo fosse un prodotto dell’evoluzione biologica come qualsiasi altra

specie. Nel 1872 i motivi di tale convinzione vennero esposti in dettaglio ne

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L’origine dell’uomo. La pubblicazione di quest’opera venne a lungo rimandata a

causa della ferma convinzione da parte di Darwin che un’idea rivoluzionaria come la

sua, per essere accolta favorevolmente, necessitasse di un’accurata preparazione e

forse anche per la preoccupazione di possibili persecuzioni e dal suo disgusto per le

controversie pubbliche che sapeva ne sarebbero seguite, date le opinioni religiose

prevalenti nella società inglese del tempo. A quei tempi, sostenere una teoria che

poteva sembrare un incoraggiamento alla diffusione dell’ateismo possedeva un

effetto dirompente paragonabile a quello che, ai giorni nostri, avrebbe il sostenere

una teoria che incoraggiasse la pedofilia (Andriola, 2003). La teoria proposta da

Darwin trova le sue fondamenta sul verificarsi di tre condizioni:

1. Variazione, in maniera tale che i membri di una specie differiscono tra loro

in alcuni caratteri;

2. Eredità, per cui i genitori sono in grado di passare alcune delle proprie

caratteristiche distintive alla loro progenie;

3. Differenze nel successo riproduttivo all’interno della popolazione, in

maniera tale che alcuni individui, proprio grazie ai loro caratteri distintivi,

hanno una prole più numerosa.

Se c’è variazione ereditaria all’interno di una specie e se alcune variazioni ereditarie

continuano a essere trasmesse con maggior successo di altre, allora la crescente

abbondanza dei discendenti viventi dei tipi di maggior successo cambierà i caratteri

della specie. La specie evolverà non appena sarà dominata da individui che

possiedono i tratti associati nel passato ad una riproduzione di successo. Dunque, il

processo che causa il cambiamento evolutivo è un processo naturale, questo

giustifica il termine “selezione naturale” (Alcock, 2007).

Darwin non solo espose la logica della teoria della selezione naturale in maniera

chiara, ma fornì anche molte prove che la variazione ereditaria è sempre comune

all’interno di una specie e anche che alti tassi di mortalità sono la regola. Così,

tipologie alternative all’interno di una specie finiscono con l’essere coinvolte in una

competizione per il limitato spazio disponibile per i sopravvissuti.

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Quando Darwin sviluppò la sua teoria della selezione naturale, si sapeva molto poco

circa la natura dell’eredità. Oggigiorno , i biologi sanno che considerevoli variazioni

tra gli individui all’interno di una specie si manifestano a causa di differenze nei loro

geni, i segmenti di DNA che codificano fedelmente l’informazione necessaria per la

sintesi delle proteine. Siccome i geni possono essere copiati e trasmessi alla prole, i

genitori possono trasferire ai figli le informazioni ereditarie utili e/o necessarie per lo

sviluppo di caratteristiche importanti. La variazione genetica all’interno di una specie

avviene quando un determinato gene si trova in due o più forme, o alleli, all’interno

del pool genetico della specie. I diversi alleli a volte interessano la natura della

proteina codificata dal gene, in maniera tale che individui differenti geneticamente

trasmettono alla loro prole istruzioni diverse per la sintesi di tale proteina. Se le

proteine codificate da alcuni alleli sono superiori nella loro capacità di cooperare alla

formazione di individui con successo riproduttivo, allora quegli alleli verranno più

facilmente trasmessi di generazione in generazione e diverranno più comuni nel

corso del tempo, sostituendo un po’ alla volta i loro “competitori”. La conclusione

logica di questa maniera di pensare riguardo la selezione a livello del gene è che gli

alleli si diffonderanno in relazione a quanto bene essi contribuiscono a costruire un

organismo particolarmente efficiente nella riproduzione (Alcock, 2007).

Nel corso dei suoi studi inerenti alla selezione e all’origine della specie, Darwin

prese in esame anche l’opinione diffusa che tra l’uomo e gli altri animali esistesse

una differenza qualitativa esprimibile con l’affermazione che mentre il

comportamento degli altri animali è completamente guidato dagli istinti, quello

dell’uomo è guidato dalla ragione; cominciò quindi con l’argomentare che in quasi

tutte le specie il comportamento di un singolo individuo in parte è istintivo e in parte

dipende dalle sue personali esperienze passate; allo studioso inoltre sembrava chiaro

che istinto e apprendimento non sono inversamente correlati nelle varie specie.

Secondo Darwin vi sono delle differenze quantitative nelle capacità intellettive tra le

varie specie e in alcune di esse, in particolare nelle scimmie antropoidi, il

comportamento dimostra a volte capacità intellettive quasi umane: come esempi a

questo proposito egli citava vari resoconti di scimpanzé ed orangutan che

utilizzavano attrezzi, per esempio pietre, per rompere il guscio delle noci oppure

bastoni usati a mo’ di leve. A suo parere la mente umana poteva essere considerata

come un ulteriore gradino, anche se indubbiamente di notevole entità, in quello

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sviluppo evolutivo delle funzioni intellettive che già era osservabile negli animali

(Andriola, 2003).

Darwin ammetteva che la caratteristica distintiva più importante della mente umana

fosse costituita dal senso morale o dalla coscienza. E’ necessario notare l’importanza

centrale che in queste argomentazioni viene attribuita all’intelligenza, intesa come

capacità di risolvere i problemi pratici. Darwin si pose il problema dell’origine della

differenza delle superiori capacità mentali umane rispetto a quelle degli altri animali.

A tal riguardo ipotizzò due spiegazioni: la prima è legata all’ereditarietà dei caratteri

acquisiti, ossia all’idea lamarckiana:sin dai tempi del viaggio sulla Beagle sembra

che Darwin non avesse mai messo seriamente in discussione la propria convinzione

che le capacità, le abitudini e gli stili di pensiero che un determinato individuo

sviluppa nel corso della propria vita vengano in qualche modesta misura trasmessi

alla sua prole come parte dell’eredità biologica. La seconda spiegazione è legata alla

selezione sessuale, all’idea cioè, che lo sviluppo del grande cervello nella nostra

specie e delle notevoli capacità intellettive dell’uomo, potrebbero essere simili allo

sviluppo della coda del pavone o del palco di corna del cervo, caratteri

apparentemente pleonastici che sono il risultato dei processi della selezione sessuale.

Se nel 1859 l’obiettivo di Darwin era quello di modificare la concezione della natura

generalmente accettata, trasformandola in quella di un mondo armonioso contenente

forme di vita collegate anche se distinte, nel 1871 egli si propose invece di abbattere

una diversa ed ulteriore barriera, quella tra la mente umana e quella degli altri

animali. Per Darwin era sufficiente poter concludere che “per quanto grandi possano

essere, le differenze nelle capacità mentali dell’uomo e degli animali più elevati sono

indubbiamente di tipo quantitativo e non qualitativo”; il suo tono generale nel fare

questa affermazione non era tuttavia quello di chi enuncia le parole finali su un

argomento sviscerato a fondo, ma quello di chi indica la via che un nuovo campo di

ricerca potrà sviluppare (Andriola, 2003).

In qualsiasi modo si voglia intendere il concetto di selezione naturale presentato da

Darwin, si tratta comunque di una teoria di notevole impatto. Ad essere

inoppugnabile non è solo la logica su cui essa si basa, ma il fatto che le condizioni

stesse richieste possono essere applicabili a ogni organismo e questo implica dunque

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che ogni specie è stata forgiata dalla selezione naturale nel passato.

A sua volta questo significa che gli individui di ogni specie sono dotati di alleli che

sono giunti al presente perché migliori di ogni altro allele alternativo nell’aiutare il

loro portatore a riprodursi con successo. La portata dell’applicazione della teoria

darwiniana è impressionante dal momento che, quando gli etologi desiderano capire

le ragioni ultime di un comportamento, quasi sempre cercano di risolvere la

questione con un’ipotesi di lavoro che sia in accordo con la teoria della selezione

naturale (Alcock, 2007).

1.3.2 L’evoluzionismo di Lamarck: adattamento ed emozioni

La teoria dell’evoluzione è associata per definizione al nome di Charles Darwin, alla

sua opera, L’origine delle specie, in cui sono dettagliati i meccanismi della

trasformazione biologica e le prove a supporto dell’evoluzionismo. In realtà, il primo

scienziato a proporre un’ organica, coerente ed elaborata visione evoluzionistica del

mondo vivente fu il naturalista francese Jean-Baptiste Lamarck (1744-1829).

L’evoluzione biologica costituisce la condizione e la legge fondamentale della vita

ed è così che l’evoluzionismo è ritenuto la trama teorica che unifica e rende tra loro

coerenti le scienze biologiche. Non è un caso quindi che Lamarck, padre

dell’evoluzionismo, fu anche il primo a concepire l’unità delle scienze del vivente,

proponendo, nel 1801, il termine biologia.

Jean- Baptiste Lamarck fu un botanico e naturalista francese il quale, dopo aver

ricevuto un’educazione classica e una formazione militare, decise di dedicarsi allo

studio di medicina, chimica, paleontologia, geologia , zoologia e botanica tanto che

nel 1778 pubblicò l’opera “Flore Francaise”, dove presentò la prima classificazione

scientifica delle piante su chiavi dicotomiche. Lamarck fu membro dell’ Accademia

delle Scienze e nel 1795 divenne professore di zoologia degli invertebrati nel Museo

di storia naturale. Tra il 1815 e il 1822 compose l’opera “Histoire naturelle des

animaux sans vertebres”, in cui venne riportata per la prima volta una divisione

dettagliata degli invertebrati in più classi. Le ipotesi della sua teoria dell’evoluzione

furono però esposte nell’opera “Philosophie zoologique” (1809) per poi essere

ripresentate in molti altri scritti successivi.

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Alla luce delle sue numerose ricerche e studi, Lamarck può dunque essere

considerato il primo scienziato che abbia sviluppato una teoria coerente

dell’evoluzione degli organismi , ipotizzando che tutte le specie, uomo compreso,

discendessero da altre specie.

L’evoluzionismo di Lamarck tuttavia, si poggia su due postulati erronei: l’idea che

esista un impulso interno alla trasformazione delle strutture e delle funzioni

biologiche e l’ipotesi dell’ereditarietà dei caratteri acquisiti.

Secondo Lamarck, l’evoluzione era mossa in primo luogo da una specifica proprietà

dei processi biologici, da una caratteristica tendenza alla creazione di organi e

funzioni nuove. Lamarck scriveva, nel Discorso inaugurale del suo corso di zoologia:

“Il movimento organico non solo ha la proprietà di sviluppare l’organizzazione dei

viventi, ma anche quella di moltiplicarne gli organi e le relative funzioni”.

La trasformazione delle specie viventi, inoltre, dipendeva, secondo Lamarck,

dall’azione dell’ambiente che, tramite l’uso e il disuso degli organi, produce negli

individui viventi modificazioni fisiche capaci di trasmettersi ai discendenti. Questa

era la sua ipotesi: i cambiamenti dell’ambiente, per esempio le modificazioni

climatiche, la vicinanza e la competizione di una specie biologica prima assente o lo

stesso cambiamento delle abitudini dell’animale, costringono l’organismo a

modificare i comportamenti funzionali alla soddisfazione dei suoi bisogni. Questi

nuovi comportamenti però mutano l’uso strumentale degli organi e delle strutture

anatomiche. Se un organo o un arto si troveranno ad essere maggiormente utilizzati,

a garanzia della funzionalità, essi andranno incontro ad un processo di sviluppo,

mentre altre cadranno in disuso e potranno degenerare, come per esempio l’occhio

della talpa, inutile nei cunicoli in cui l’animale vive, gli arti dei Mammiferi acquatici,

trasformati in pinne organi più adatti delle zampe per la vita nei mari e così via.

Questi caratteri individualmente acquisiti si trasmettono alla discendenza. Così,

lentamente, un’intera popolazione sottoposta alle stesse pressioni ambientali si

modifica progressivamente nella struttura corporea e nel comportamento ricalcando

gli schemi dell’adattamento individuale (Canali e Pani, 2003).

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La trasformazione delle specie in Lamarck si legava quindi saldamente all’idea di

adattamento all’ambiente. Egli intendeva interpretare in senso scientific, non

creazionistico, la straordinaria corrispondenza tra abitudini e organizzazione

anatomica e funzionale degli organismi, tra conformazione fisica e ambiente abitato:

le ali e le ossa cave e leggerissime degli uccelli, gli artigli possenti dei felini, la

pelliccia degli animali polari, la "vista" notturna dei pipistrelli; l’armonioso e

stupefacente adattamento degli animali al proprio ambiente, ai diversi stili di vita

(Canali e Pani, 2003).

E’ possibile affermare che la teoria dell’evoluzione Lamarckiana poggia su due

principi fondamentali : il principio dell’eredità dei caratteri acquisiti (come

riportato nell’esempio degli organi che si sviluppano a seconda della vita svolta

dall’organismo) e il principio dell’impulso inconscio (che spinge ogni essere vivente

verso una maggiore complessità ). D’altronde, lo stesso Lamarck riteneva che la

vita, nelle sue forme più semplici, si originasse continuamente per generazione

spontanea. Non a caso l’esempio più citato in merito al concetto di eredità è

l’evoluzione del collo della giraffa: la giraffa moderna, infatti, si sarebbe evoluta da

antenati che dovettero allungare il collo per raggiungere le foglie poste sui rami più

in alto. Questi antenati avrebbero trasmesso così ai loro discendenti, il collo lungo

acquisito tramite l’allungamento; questi discendenti, a loro volta, avrebbero allungato

il collo ancor di più trasmettendo la nuova dimensione del collo ai propri figli e così

via.

In Lamarck l’adattamento, motore dell’evoluzione, era un’attiva modellazione fisica

dell’organismo, imposta dal cambiamento dell’uso degli organi, in risposta a

problemi posti dall’ambiente e relativa ai suoi specifici bisogni vitali. Secondo

Lamarck, le emozioni erano lo strumento principale con cui gli animali realizzano

l’adattamento, organizzando in maniera efficace nuovi comportamenti in relazione a

nuove pressioni ambientali. Attraverso le emozioni, gli animali- ipotizzava Lamarck-

, sentono i “disordini interiori” provocati da uno stress ambientale o da un bisogno

organico emergente (la fame, la sete, il desiderio di accoppiarsi, il bisogno di

riposarsi, etc.) e sono motivati a compiere certe azioni, a usare determinati organi per

portare nuovamente ordine nei processi biologici interni. L’adattamento individuale e

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delle specie viventi, in questa prospettiva, poggiava sulle funzioni emotive in quanto

capaci di innescare le modificazioni dell’uso degli organi alla base della

trasformazione organica. Tuttavia Lamarck sbagliava immaginando che i caratteri

somatici individualmente acquisiti potessero trasmettersi con la riproduzione. Un

padre non trasmette al figlio una muscolatura poderosa acquisita con un inteso

esercizio fisico, in quanto le alterazioni del corpo prodotte dall’uso degli organi non

hanno alcun effetto sul programma genetico responsabile della trasmissione dei

caratteri (Canali e Pani, 2003).

Anche le attuali conoscenze della biologia molecolare, della microbiologia e della

genetica, specialmente per quanto concerne la trasmissione dei caratteri alla prole,

fanno decadere la teoria Lamarckiana. E’ possibile limitare ulteriormente la validità

di quest’ultima, in base alle osservazioni sul fenotipo dei microrganismi. Giacché

individui fenotipicamente identici possono risultare fortemente variabili a livello del

corredo genetico ed essere più o meno favoriti rispetto a determinate condizioni

ambientali e, ancora, un ceppo batterico può essere resistente a un antibiotico, pur

essendo spesso fenotipicamente identico a un ceppo sensibile al farmaco; in questa

condizione il ceppo resistente ha sicuramente un vantaggio rispetto al ceppo

sensibile; in questi casi, pertanto, le osservazioni di Lamarck non trovano riscontro

nel caso specifico.

1.3.3 Darwin e Lamarck: teorie a confronto

Entrambe le teorie evoluzionistiche precedentemente presentate e proposte

rispettivamente da Darwin e Lamarck, hanno le loro radici nel concetto di

adattamento: tutti gli organismi rispondono alle trasformazioni ambientali evolvendo

una forma, una funzione o un comportamento adatto alle nuove circostanze.

Nel darwinismo questo processo avviene in due tempi:

in una popolazione formata da organismi della stessa specie ogni individuo è

diverso dall'altro. Quindi le variazioni hanno tutte le stesse probabilità di

verificarsi e non esiste una direzione preferenziale nelle variazioni;

la selezione conserva le variazioni favorevoli e garantisce la sopravvivenza

e il successo riproduttivo agli individui che presentano le variazioni

favorevoli.

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Nel lamarckismo, il processo avviene in maniera diretta:

in una popolazione, le variazioni si producono in preferenza per scopi

adattativi e l'ambiente orienta le variazioni in una direzione preferenziale.

Considerate quelle che sono le basi su cui poggiano le teorie evoluzionistiche e i

rispettivi concetti, possiamo mettere a paragone le stesse e capire così i differenti

campi di applicazione e i punti considerati non del tutto fondati, prendendo come

esempio una popolazione di elefanti presente in Siberia durante un intervallo di clima

temperato precedente all’avanzata dei ghiacci.

Secondo la linea di studio darwiniana, la quantità di pelo che riveste il corpo di

questi elefanti varierà in modo casuale e in tutte le direzioni. Quando i ghiacci

avanzeranno e le condizioni locali si faranno più rigide, gli elefanti con il pelo più

folto tenderanno a cavarsela meglio, semplicemente per la buona sorte rappresentata

dal loro miglior adattamento al cambiamento climatico: in media questi animali

avranno una prole più numerosa (questo successo riproduttivo diverso deve essere

concepito come una tendenza statistica generale e non come un bonus garantito in

ogni caso; a ogni generazione, l’elefante con il pelo più folto di tutti potrebbe cadere

in un crepaccio e morire proprio quando è nel pieno vigore degli anni, ma non si è

ancora riprodotto). Poiché la prole eredita dai genitori la quantità di pelo, nella

generazione successiva gli elefanti con il manto più folto (che continueranno a essere

favoriti dalla selezione naturale fintanto che persisterà la tendenza al raffreddamento

del clima) saranno in percentuale maggiore. Questo processo, nel corso del quale la

quantità media di pelo aumenta, può continuare per molte generazioni portando

all'evoluzione di una specie di mammut lanosi. Questo può aiutarci a capire perché,

all’orecchio dei contemporanei, la teoria darwiniana dell’evoluzione suonasse

bizzarra e contraria a tutte le tradizioni di pensiero e di spiegazione. Tutte le

proprietà curiose e affascinanti dell’evoluzione darwiniana scaturiscono dalla base

variazionale della selezione naturale; fra di esse in particolare la natura del risultato

(che dipende da cambiamenti complessi ma contingenti che hanno luogo negli

ambienti locali) e il carattere non progressivo della modificazione (la quale è

adattativa solo in queste circostanze locali e imprevedibili e comunque non porta a

un elefante migliore in senso generale).

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Prendendo in considerazione lo stesso gruppo di elefanti nella medesima situazione

ma seguendo questa volta la linea di studio lamarckiana, la quantità di pelo che

riveste il corpo di questi elefanti non varierà in modo casuale e in tutte le direzioni.

Quando i ghiacci avanzeranno e le condizioni locali si faranno più rigide, si

svilupperanno solo elefanti con pelo più folto perché l'ambiente condiziona la

direzione delle mutazioni e ha quindi un ruolo attivo nello sviluppo delle mutazioni

stesse. A questo punto tutti gli elefanti, con il passare delle generazioni, avranno il

pelo più folto e trasmetteranno questa caratteristica ai propri discendenti.

(Alcock ,2007).

1.3.4 L’etologia post darwiniana: Lorenz e Tinbergen

Tra il 1910 e il 1950 si assistete all’affermazione definitiva di una nuova tradizione

di ricerca etologica, che raggiunse il suo culmine nel 1973, quando sia a Niko

Tinbergen che a Konrad Lorenz fu conferito il premio Nobel per la medicina e

fisiologia.

La peculiarità del loro approccio può essere spiegata con un esempio: il moscerino

Hilara sartor, un dittero della famiglia degli Empididi, durante il corteggiamento

manifesta un comportamento molto speciale, cioè il maschio offre alla femmina il

cosiddetto dono nuziale, un saccottino di materiale setoso. Se la femmina lo accetta e

il maschio ne approfitta per copulare. Com’è possibile, allora, spiegare questo

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comportamento? Secondo gli etologi è del tutto inutile fare riferimento all’esperienza

passata, all’apprendimento per prove ed errori o al condizionamento. Se si vuole

capire questo comportamento bisogna utilizzare il metodo comparativo, cioè vedere

che cosa accade in una serie di animali che appartengono alla stessa famiglia di

Empididi, ma che manifestano tutta una serie di comportamenti differenti e che in un

certo senso illuminano, fanno chiarezza sul comportamento in esame (Sovrano et al.,

2009).

Il problema qui per il maschio è quello di essere un partner sessuale e non un pasto,

perché lui è più piccolo di dimensioni e la femmina potrebbe approfittarne per

mangiarselo. Allora, una delle strategie adottate dai maschi di alcune specie è quella

di avvicinarsi per copulare con la femmina solo mentre lei sta mangiando. Questo

però può risultare un po’ scomodo, perché richiede tempi di attesa non definibili.

Così altre specie hanno sviluppato un metodo migliore -una sorta di trucco- che

consiste nel fornire alla femmina stessa la preda come “dono”, in modo da avere più

tempo a disposizione. Altre specie hanno introdotto un’ulteriore strategia: avvolgono

la preda in un bozzolo setoso, così la femmina impiega più tempo per tirarla fuori. I

maschi di altre specie ancora, per non perdere tempo ed energie nella cattura della

preda, pongono all’interno del bozzolo oggetti di scarso valore, come un sassolino

(Sovrano et al., 2009).

Il metodo comparativo allora, applica allo studio del comportamento la stessa

modalità di analisi usata in anatomia comparata. Infatti così come il confrontare

strutture morfologiche nelle diverse classi permette di capire la funzione, anche i

comportamenti istintivi divengono adeguati strumenti per l’analisi comparativa,

poiché fissi come le strutture morfologiche.

Per un po’ di tempo le differenti tradizioni di ricerca, etologica e psicologica, si sono

mantenute lontane e indipendenti. Ma nel corso degli anni cinquanta scoppia una

polemica sulle nozioni di “innato” e “appreso”, che vede come protagonista Konrad

Lorenz.

Ricordiamo , in primo luogo, la differenza tra un comportamento innato ed uno

appreso: è detto comportamento “innato”, quello che si sviluppa negli individui

senza alcuna influenza ambientale o dovuta all’esperienza e che si contrappone a

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quelli che si sviluppano invece sulla base di un processo di apprendimento e/o

imitazione. Il termine stesso “innato” può essere comparato a “genetico”. Sul

dizionario difatti, la definizione che ci viene data è quella di congenito, che porta

ragionevolmente a pensare che significa “nei geni”. Il termine comportamento

“appreso” identifica invece un processo di adattamento biologico che modella

l’individuo in modo tale che risulti idoneo al proprio ambiente e che ne venga

assicurata la sopravvivenza (Mainardi, 1992).

Lorenz pensava ci fosse una distinzione tra comportamento innato e comportamento

appreso: riteneva che il comportamento fosse suddiviso in tanti moduli istintivi,

basati su circuiti nervosi ereditati; l’animale cioè raccoglieva informazioni

dall’ambiente durante la filogenesi (si parla allora di interazione geni e ambiente) che

venivano poi codificate nel genoma, durante l’ontogenesi (si tratta invece di

interazione tra individuo e ambiente), e poi codificate nel sistema nervoso (Mainardi,

1992).

Le informazioni acquisite nel sistema nervoso a seguito dell’esperienza

determinavano una modificazione abbastanza permanente nel comportamento

chiamata appunto adattamento. La distinzione tra i due fenomeni si poteva

dimostrare in modo semplice mettendo in isolamento un giovane animale cui veniva

tolta la possibilità di imparare per conto suo. Se il comportamento non era innato

allora era appreso e quindi l’uno escludeva l’altro. Lorenz concepì questi concetti

dopo lunghi anni passati a osservare la nascita e la crescita di diverse specie animali,

durante i quali notò e approfondì lo studio della loro straordinaria capacità di sapere

perfettamente cosa fare in una data situazione senza mai averla affrontata

precedentemente (Mainardi, 1992).

Lo stesso Lorenz, nel suo libro “Evoluzione e modificazione del comportamento”,

fece osservare agli psicologi comportamentisti che il punto cruciale non era negare

l’esistenza dell’apprendimento, ma il fatto che l’apprendimento è un fenomeno

adattivo, cioè sempre guidato dall’istinto, un punto che sembra sfuggire agli

psicologi comportamentisti (Sovrano et al., 2009).

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L’esempio classico è quello dello spinarello (Gasterosteus aculeatus), un piccolo

pesce d’acqua dolce che nella stagione riproduttiva attacca qualsiasi oggetto che sia

di colore rosso nella sua metà inferiore. Si potrebbe dunque pensare che tale

comportamento lo abbia imparato in ovo. Improbabile, come dice Lorenz, ma

supponiamo sia vero. Il punto è che nel mondo naturale in cui lo spinarello si troverà

a vivere tutto ciò che ha una porzione inferiore rossa, sono significativamente proprio

i suoi conspecifici di sesso maschile e questo tipo di informazione lo spinarello non

può averla appresa in alcun modo attraverso un apprendimento individuale ma può

averlo imparato solo dall’ innata maestra elementare, cioè tale informazione può

essere scritta solo nel suo genoma.

Così, poiché l’apprendimento è guidato dall’istinto, quello che l’animale impara è la

cosa giusta rispetto alla memoria filogenetica (la memoria della specie) in relazione

alle caratteristiche della nicchia evolutiva specifica (Sovrano, 2009).

Ad oggi sappiamo, quindi, che il comportamento è in parte innato e in parte appreso

e che gli animali imparano alcuni comportamenti prediligendoli rispetto ad altri;

insistiamo allora a mantenere la distinzione rigida tra innato e appreso solo perché

vogliamo sottolineare quella straordinaria caratteristica che gli animali posseggono

che sta nel sapersi comportare nel modo più giusto per riprodursi e sopravvivere già

la prima volta che si trovano di fronte ad una determinata situazione. La confusione è

nata allora perché si è pensato che se un comportamento può dirsi non-appreso debba

per forza essere a rigor di logica genetico.

Per scoprire se un comportamento è non-innato bisogna allora studiare gli effetti dei

diversi fattori ambientali sullo sviluppo dell’individuo e per scoprire se ci sono

differenze genetiche bisogna capire se le somiglianze di comportamento nascono da

somiglianze di genotipo (Dawkins, 1992).

Avvicinandoci ai tempi moderni però è emersa sempre di più, nel mondo della

scienza del comportamento animale, l’evidenza dei limiti biologici sui processi di

apprendimento. Gli studiosi comportamentisti pensavano che le leggi

dell’apprendimento fossero sempre le stesse, uguali per tutte le specie. Ma nel corso

degli anni settanta, anni che vedono invece come protagonista Tinbergen, per alcuni

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studiosi iniziò a essere chiaro che le cose non stavano esattamente così: in specie

diverse può essere più o meno facile associare certi stimoli a certe risposte e a certi

rinforzi, a seconda dei pre-adattamenti biologici di una specie e delle sue abilità

specifiche. Alla luce di questa considerazione, viene dunque riconosciuto che per lo

studio dell’ontogenesi del comportamento, i processi di apprendimento sono

importanti tanto quanto i meccanismi di istruzione filogeneticamente adattati, ossia

gli istinti.

Lo stesso Tinbergen propose un modello di organizzazione gerarchica degli istinti,

secondo il quale i moduli comportamentali si manifestano solitamente secondo un

determinato ordine temporale e solamente quando rispettano questo schema essi

risultano idonei ad adempiere una certa funzione biologica (Sovrano et al., 2009).

Possiamo riprendere l’esempio del comportamento dello spinarello precedentemente

citato con Lorenz, e della sua “danza di corteggiamento” come chiara dimostrazione

di quanto appena detto; nell’interazione sociale dei due partner, il comportamento di

un soggetto costituisce lo stimolo per il secondo e la risposta di quest’ultimo

costituisce a sua volta uno stimolo per il primo. Questa catena di azioni, se portata

avanti correttamente, scatena nell’altro l’azione successiva arrivando così all’azione

consumatoria finale (Sovrano et al., 2009).

Il contributo di Tinbergen dato al mondo delle scienze del comportamento animale,

non si limita solo alla gerarchia degli istinti, ma è assai più noto il suo metodo di

approccio allo studio dell’etologia, basato sull’utilizzo di quattro domande,

denominate come “ le quattro zampe dell’animale di Tinbergen”.Quattro domande

che corrispondono a quattro modi diversi di considerare il comportamento animale.

La prima questione da considerare quando analizziamo un segmento significativo del

comportamento animale riguarda le sue cause prossime o immediate, nei termini dei

meccanismi comportamentali o della fisiologia. La seconda domanda è quella che

attiene allo sviluppo del comportamento da un punto di vista ontogenico. La terza

domanda è quella che riguarda la storia evolutiva (detta filogenesi) del

comportamento. La quarta domanda, infine, è quella che riguarda le cause remote del

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comportamento, le sue funzioni biologiche, il modo in cui quel comportamento

contribuisce alla sopravvivenza e riproduzione differenziale (Sovrano et al., 2009).

Per avere un’idea più chiara su come poter applicare queste quattro domande

proposte da Tinbergen, immaginiamo di osservare in una sera d’estate lo spiccare del

volo di alcuni germani reali. Innanzi al loro comportamento migratorio, possiamo

organizzare le domande come di seguito:

1) Perché partono? Quali sono gli stimoli che fanno comprendere loro il

momento per migrare? Per esempio la lunghezza della giornata, la variazione

della temperatura (cause prossime).

2) Un animale giovane che migra per la prima volta ma conosce già la strada da

percorrere, è provvisto di una dotazione innata oppure impara con

l’esperienza osservando gli altri? Per contribuire come e quanto

contribuiscono i fattori esperienziali o genetici nella manifestazione di un

comportamento, è necessario fare riferimento all’ontogenesi, cioè alla storia

individuale.

3) Tutti gli uccelli sono migratori? Questa domanda fa riferimento alla

filogenesi, ossia la storia della specie. Ci si domanda allora, in quale punto

della linea riproduttiva è comparso tale comportamento e quali sono state le

pressioni selettive o gli eventi della storia che possono averlo influenzato.

4) Per quale scopo migrano? Per cercare condizioni ambientali differenti per

poter sopravvivere e riprodursi. Gli uccelli migrano verso climi più temperati

per non dover affrontare la rigidità climatica della stagione fredda.

Naturalmente vi sono vantaggi e svantaggi e l’analisi di questi aspetti

permette di chiarire le cause remote o funzionalmente adattive del

comportamento stesso.

Un ulteriore esempio può essere formulato sotto forma ni una domanda piuttosto

semplice, come: perché i gabbiani covano le uova? Sebbene possa sembrare una

domanda banale, essa cela differenti tipi di domande a seconda di dove venga posta

l’attenzione. Ad esempio, “perché i gabbiani covano le uova? Perché proprio le

uova? “Difronte a questa tipologia di domanda, ci si sta occupando di definire le

cause prossime del comportamento. Se invece dovessimo domandarci “Perché i

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gabbiani covano le uova e non le mangiano? “, ci si interessa sullo sviluppo del

comportamento (quindi della sua ontogenesi) e sul fatto che, in certi momenti dello

sviluppo individuale, anche a seguito di meccanismi ormonali e nervosi, si modifica

la motivazione e l’animale decide se covare o mangiare le uova stesse. Se dovessimo

riferirci alle origini filogenetiche del comportamento e come si differenzia tra le

varie specie, dovremmo domandarci: “Perché proprio i gabbiani covano le uova?”. In

conclusione, per analizzare le cause remote e giungere così alla quarta ed ultima

domanda, dovremmo chiederci: “Per quale motivo i gabbiani covano le uova?”.

Le quattro zampe dell’animale di Tinbergen, possono in realtà essere ricondotte a

due. Le prime due sono quelle relative allo sviluppo del comportamento e alle cause

remote e dunque richiedono spiegazioni strutturali, mentre la terza e la quarta

domanda richiedono spiegazioni funzionali, in quanto legate alla storia evolutiva e

alle cause remote.

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Capitolo 2

2.1 Il libro della vita: il DNA e l’epigenetica

Il comportamento degli animali deriva dalle complesse interazioni tra l’ambiente e il

corredo genetico degli individui. La genetica definisce ed è' modificata a sua volta

dal comportamento, il quale cambia in risposta alle variabili ambientali. L’efficacia

di un organismo nell’applicare le sue caratteristiche fenotipiche per la sopravvivenza

e per la produzione di prole, è in parte mediata dal comportamento che per di più è

influenzato dalle pressioni selettive dell’ambiente. Lo studio della genetica del

comportamento mira a individuare i geni che sottostanno ad un determinato modulo

comportamentale e come questi si relazionano con l’ambiente in cui, la specie

considerata , vive ed è per questo che possiamo dire che si occupa delle prime due

domande dell’animale di Tinbergen. Un discorso simile, seppur l’interesse si sposti

verso la terza e la quarta domanda di Tinbergen, è possibile farlo sull’ eco-etologia,

la quale esplora quegli aspetti del comportamento animale che mirano a rispondere a

questioni inerenti alla funzione, all’origine ed agli adattamenti evolutivi dei

comportamenti osservati.

Molte caratteristiche fisiche, sono una parte permanente del corredo genetico

dell’individuo che può cambiare solo di generazione in generazione. La capacità del

comportamento di variare la durata della vita di un individuo, tuttavia, fornisce

l’individuo di mezzi supplementari per modificare la sua vita, per rispondere alle

caratteristiche ambientali mutevoli o per ottimizzare la variabilità di altre, meno

flessibili, caratteristiche fenotipiche.

È nota l’ipotesi che i geni siano implicati nel definire il comportamento. A questo

punto ci si chiede se le differenze di comportamento possano essere ricollegate o

meno a differenze presenti nei geni. Diverse sono le tecniche usate dai genetisti per

saggiare questa ipotesi, come il confronto genitore-figlio, la creazione di mosaici

genetici, gli studi svolti su gemelli identici e la selezione artificiale (Alcock, 2007).

Un importante studio fu condotto su due popolazioni differenti di ragni della stessa

specie Agelenopsis , che presentavano un diverso comportamento predatorio. Questi

ragni vivevano in due habitat molto differenti e questo fece pensare che la pressione

selettiva dell’ambiente fosse il fattore responsabile del diverso comportamento.

Mettendo la prole di entrambe le popolazioni a vivere in un identico ambiente

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controllato, si vide come in realtà tutti gli appartenenti a una popolazione

ripresentavano lo stesso comportamento parentale e che questo era valido per

entrambe le popolazioni. Da qui si può dedurre che la maggior parte delle differenze

nel comportamento predatorio sono ereditarie e che le differenze fenotipiche in

realtà, derivano da differenze presenti nell’informazione genetica degli individui

appartenenti a due popolazioni diverse.

Un altro esperimento condotto su gemelli identici, ha studiato individui che

presentavano uno stesso corredo genetico e che per questo, se vero quanto sopra

citato, avrebbero dovuto mostrare comportamento e aspetto molto simili. L’ambiente

però, anche in questo caso sarebbe potuto essere responsabile di eventuali differenze,

quindi si studiarono coppie che erano cresciute in ambienti molto diversi. I risultati

dicevano che i due individui erano molto simili nell’aspetto e nella personalità,

sebbene una certa differenza era presente e dovuta in parte a differenze genetiche e in

parte legata al diverso ambiente in cui erano cresciuti (Holden, 1980). Calcolando la

varianza dei tratti della loro personalità emergeva che il 50% era legata a differenze

genetiche e il restante 50% a differenze ambientali (Alcock, 2007).

La diversità genetica tra gli individui può dare luogo anche a differenze

comportamentali ma anche se un allele può contribuire allo sviluppo di una certa

caratteristica comportamentale, ciò non equivale a dire che quel comportamento sia

determinato geneticamente (Alcock, 2007).

Quanto detto spiega come il comportamento sia fortemente influenzato dall’azione

della selezione naturale che per agire ha bisogno di una buona base di variabilità

genetica all’interno della popolazione interessata. Inoltre si capisce come l’individuo

necessiti, per il suo completo sviluppo, molto più di quello che gli viene fornito

dall’ereditarietà parentale, avendo bisogno inoltre, delle sostanze nutritive, degli

ormoni prodotti dal corpo, delle esperienze sensoriali e sociali e anche di quelle

acustiche (come negli di uccelli e alcuni mammiferi) (Alcock, 2007).

La maggior parte degli studiosi interessati a comprendere le cause remote del

comportamento, formula le proprie ipotesi in linea con la teoria della selezione

naturale proposta da Darwin. Per indagare l’evoluzione di un tratto, morfologico o

comportamentale, si usa il metodo comparativo che consiste nel raffrontare il tratto

oggetto di indagine in popolazione o in specie diverse per rilevare similitudini e

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differenze in caratteri omologhi. Il fine è quello di comprendere il significato

funzionale e l’origine di tali variazioni individuando, ad esempio, processi di

“evoluzione divergente” o “convergente” (Sovrano et al., 2009). Viene spesso

utilizzata la parola “omologo” che, nell’ambito della biologia dell’evoluzione, fa

riferimento alle somiglianze tra caratteri aventi un’origine evolutiva comune ,

mantenendo la stessa funzione nei diversi organismi o funzioni totalmente diverse.

Un tipico esempio di omologia riguarda la struttura dell’arto anteriore di alcuni

vertebrati tetrapodi, che si mantiene inalterata tra le diverse classi nonostante sia stata

adattata a impieghi molto diversi: dalla deambulazione terrestre in molti mammiferi

al volo nella maggior parte degli uccelli. Un ulteriore termine che ricorre è

“analogia”. Con questo si intendono le similarità, anche notevoli, riscontrate tra due

caratteri che però non dipendono dall’avere la stessa origine ma da un processo di

convergenza evolutiva.

La natura dell’ereditarietà su base genetica è stata scoperta solo successivamente alla

formulazione della teoria della selezione naturale. Darwin infatti, non poteva ancora

spiegare quali fossero i meccanismi dell’ereditarietà, ovvero come vengono di fatto

trasmesse le caratteristiche ereditarie da una generazione alla successiva o come

queste possono scomparire o riapparire in quella successiva (Sovrano et al., 2009),

poiché la dimostrazione dell’ereditarietà da parte di Mendel era ancora lontana. Ma

come è possibile, alla luce di questo, ricollegare la genetica con le scienze del

comportamento animale? E’ possibile spiegarlo dal momento in cui tutto ruota

intorno al concetto di sviluppo, inteso come processo evolutivo nel quale

l’informazione genetica interagisce con l’ambiente esterno e interno, che cambia in

maniera tale da costruire un organismo con specifiche proprietà e capacità. Il

processo avviene a livello del DNA, considerato il libro della vita, in particolar modo

a livello dei geni contenuti nel nucleo delle cellule, che possono essere attivati o

disattivati da specifici segnali, scaturendo così quelli che sono i meccanismi prossimi

alla base delle caratteristiche e capacità di un organismo (Alcock, 2007).

2.2 Le basi molecolari dell’eredità

La scoperta del ruolo dell’acido deossiribonucleico (DNA), è stato uno dei grandi

risultati della biologia. Le prime ricerche iniziarono intorno agli anni Cinquanta e

culminarono nella scoperta del fatto che geni e cromosomi sono formati da DNA,

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considerata la molecola portatrice di tutte le informazioni ereditarie in tutti gli

organismi.

2.2.1 Struttura e funzioni del DNA

Una molecola di DNA è costituita da due filamenti di monomeri legati detti

nucleotidi, avvolti l’uno attorno all’altro a formare una doppia elica. Ogni nucleotide

ha tre componenti: lo zucchero deossiribosio a 5 atomi di carbonio, un gruppo

fosfato e una base organica azotata. Il DNA contiene quattro tipi di nucleotidi,

ciascuno con una base diversa. L’adenina (A) e la guanina (G) sono basi

relativamente grandi, dette collettivamente purine o basi puriniche; la citosina (C)

e la timina (T) sono basi più piccole, dette collettivamente pirimidine o basi

pirimidiniche. Differenti sequenze e rapporti di basi sono presenti nel DNA di

differenti individui, conferendo a ciascuno una sequenza esclusiva di nucleotidi

lungo il decorso del DNA. In tutti gli organismi la quantità della purina A è uguale

alla quantità della pirimidina T , e la quantità della purina G è uguale alla quantità

della pirimidina C, poiché ogni A in un filamento di nucleotidi è unito da legami

idrogeno soltanto a una T nell’altro filamento di nucleotidi, e G è sempre appaiata a

C in modo simile (figura 1). Il filamento di DNA è invisibile al microscopio ottico

mentre è osservabile con il microscopio elettronico a trasmissione. Le sue dimensioni

sono straordinarie: tutto il DNA è impacchettato ma, se si potesse srotolare, il

filamento di una singola cellula sarebbe lungo più di un metro. Il gene è un

frammento di DNA che può essere definito come l’unità d’informazione genetica e

contiene le informazioni per produrre una singola catena polipeptidica.

A causa della costanza dell’appaiamento delle basi nel DNA, la sequenza di queste

lungo un filamento di nucleotidi è complementare a quella dell’altro filamento. La

complementarietà dell’appaiamento delle basi costituisce la base di due funzioni

principali del DNA: fabbricare copie esatte di sè stesso e servire da stampo per la

sintesi di acido ribonucleico (RNA), necessario per la sintesi delle proteine

(Lawrence et al., 1991).

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Figura 1 - Rappresentazione schematica

del DNA.

2.2.2 Replicazione del DNA

La sintesi del DNA, detta replicazione, precede sempre la mitosi e la meiosi e

produce due copie identiche della doppia elica originale. Durante la replicazione, il

DNA svolge la sua doppia elica, che si separa in due filamenti di nucleotidi. Ogni

filamento serve poi da stampo per la sintesi di un nuovo filamento complementare. I

nucleotidi liberi aventi basi complementari a quelle dei filamenti stampo sono uniti

da legami idrogeno agli stampi e uniti tra loro da legami covalenti. La sequenza di

basi viene copiata fedelmente, producendo due molecole di DNA entrambe identiche

alla molecola originale. Poiché ciascuna nuova doppia elica di DNA è costituita da

un filamento stampo e un nuovo filamento di nucleotidi, la replicazione del DNA è

detta semiconservativa (Lawrence et al., 1991).

In un processo detto “sintesi bidirezionale”, la replicazione del DNA comincia in

realtà in più siti, detti origini di replicazione, lungo una molecola di DNA, nei quali

la doppia elica viene aperta da enzimi. Da ambo i lati di un’origine di replicazione,

l’enzima DNA-elicasi, rompe i legami idrogeno tra basi complementari, creando una

forca di replicazione. Le forche di replicazione si allontanano dall’origine in

entrambi i versi. Nuovi filamenti di DNA si formano dietro ogni forca avanzante

mentre l’enzima DNA-polimerasi si lega a ciascun filamento stampo e catalizza la

sintesi di un filamento complementare (Lawrence et al., 1991). Ogni filamento di

nucleotidi in una molecola di DNA ha uno zucchero deossiribosio a un estremo e un

gruppo fosfato all’altro. In qualsiasi doppia elica di DNA, i due filamenti

complementari decorrono in versi opposti. Di conseguenza, in una forca di

replicazione, la DNA-polimerasi catalizza la costruzione di un nuovo filamento detto

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filamento guida, verso la forca di replicazione dell’altro filamento, detto filamento

regressivo, nel verso opposto alla stessa forca avanzante (Lawrence et al., 1991).

Per costruire la base dell’espressione dei geni -l’unità di informazione genetica- il

DNA deve contenere tutte le istruzioni che determinano il modo in cui 20 differenti

amminoacidi vengano uniti per formare le diverse proteine di un organismo. Come

possono essere immagazzinate tante informazioni nel DNA di un individuo? L’ unico

aspetto del DNA che è variabile e che potrebbe fornire una banca di informazioni

abbastanza ampia per questo scopo è la sequenza di basi puriniche e pirimidiniche

nei nucleotidi lungo il decorso della molecola. Ma come sono codificate nelle

molecole di DNA, le informazioni che determinano la struttura delle proteine?

Poiché esistono soltanto 4 tipi di basi dei nucleotidi nel DNA, ma esistono appunto

20 diversi amminoacidi, più basi formano insieme un codice per un amminoacido

all’incirca nello stesso modo in cui due simboli, il punto e la linea, possono

specificare 26 lettere dell’alfabeto e la punteggiatura nel codice Morse. In tutti gli

organismi, dai batteri alle piante e agli animali, i geni presenti nel DNA nucleare

sono risultati basati su un codice di triplette di basi dei nucleotidi (Lawrence et al.,

1991).

2.3 Lo sviluppo del comportamento necessita sia dei geni che dell’ambiente

Tutte le informazioni genetiche contenute nel DNA sono indispensabili non soltanto

per il processo di sintesi proteica ma sono altrettanto fondamentali per lo sviluppo

del comportamento stesso. Come disse Gene Robinson, “Il DNA è sì ereditato ma è

anche sensibile all’ambiente”, per questo i segnali ambientali influenzano quella che

è l’attività genetica (Alcock, 2007). Quando un gene viene difatti attivato o

disattivato da un cambiamento ambientale, esso può direttamente o indirettamente

alterare l’attività di altri geni all’interno delle cellule interessate. Una moltitudine di

cambiamenti nelle interazioni gene-ambiente, precisamente regolati nel tempo e ben

integrati, sono responsabili per la costruzione di ogni tratto dell’organismo e perciò

nessun tratto può essere puramente “genetico” (Alcock, 2007). Il contributo del

DNA nello sviluppo del comportamento può essere dimostrato esaminando lo

sviluppo delle abilità ad apprendere, visto che si dice spesso che i comportamenti

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appresi sono determinati dall’ambiente, anche se non lo sono. Naturalmente

l’ambiente è coinvolto quando l’animale impara qualcosa, ma visto che

l’apprendimento avviene nel cervello, le cui proprietà sono state forgiate dalle

interazioni geni-ambiente, l’influenza genetica sullo sviluppo non può essere

ignorata. Questo punto è evidente quando consideriamo anche solo quanto

circoscritti e focalizzati siano in realtà i comportamenti appresi. Questi vincoli ai

quali è soggetto l’apprendimento sono una conseguenza di strutture specializzate del

cervello, che a sua volta si sviluppa tramite il gioco incrociato tra geni ricchi di

informazioni ed ambiente (Alcock, 2007).

La manifestazione finale di un carattere è pertanto il risultato di una complessa

interazione di singole azioni geniche che possono influenzarsi e modificarsi a

vicenda, e che risentono sempre dell'azione dei fattori ambientali. L'ambiente agisce

sugli animali in due distinte maniere: in primo luogo stabilendo le condizioni

necessarie alla espressione fenotipica dei geni; inoltre, agendo direttamente

(attraverso meccanismi fisiologici di stimolazione o di inibizione) sulle condizioni

trofiche e funzionali dei tessuti e degli organi nonché dell'individuo preso nel suo

complesso. L'influenza dell'ambiente ha un ruolo di primaria importanza soprattutto

su quei caratteri la cui variabilità è (o può essere) anche notevole da un individuo

all'altro della stessa popolazione. Sono i cosiddetti "caratteri quantitativi" (cioè

"misurabili''), che rivestono grande importanza dato che comprendono le

caratteristiche somatiche e funzionali ("produttive"), preminenti negli animali

domestici in quanto interessano: il peso, la statura, e le altre dimensioni somatiche; la

produzione di latte, lana o uova e relativi "contenuti"; la velocità di accrescimento e

l'indice di conversione degli alimenti. Caratteri tutti riferibili non agli effetti di un

singolo fattore ereditario ("gene''), ma all'azione di molti o moltissimi geni a effetto

additivo, cioè geni i cui effetti si sommano l'un l'altro. Caratteri che variano da un

animale all'altro ancorché della stessa razza e dello stesso allevamento (si pensi ad

esempio, alla diversità di produzione lattea delle bovine di una stessa stalla),

risentendo notevolmente delle "condizioni ambientalì". Difatti, nelle specie animali

utili all'uomo, il rapporto eredità-ambiente diviene determinante per il risultato della

selezione.

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L'ambiente è rappresentato dal clima (temperatura, escursioni termiche, umidità,

precipitazioni atmosferiche, radiazioni solari, venti, altitudine, etc.); dalla natura

fisico-chimica del terreno nei suoi riflessi sulla composizione e sul valore nutritivo

dei foraggi che vi crescono; dall'alimentazione di cui gli animali usufruiscono,

soprattutto nel primo periodo della loro vita; dall'esistenza di specie e razze

concorrenti nella lotta per l'esistenza (per gli animali selvatici); dalle malattie

infettive e parassitarie che possono rappresentare veri fattori limitanti della riuscita

dell'allevamento. Inoltre, è da considerare come "influenza ambientate" quella

dipendente dalla vita fetale dell'organismo animale, non tanto per lo stato di

nutrizione della madre e di riflesso quello del feto, quanto per eventuali carenze, stati

tossici, ecc. Non ultimi per importanza, sono da considerare le condizioni di

allevamento (tipo di detenzione, igiene dei ricoveri, ginnastica funzionale cui gli

animali sono sottoposti, ecc.) e il "management", che è come dire: "il saperci fare

dell'allevatore".L'enorme casualità con cui agiscono i fattori ambientati è molto

articolata e la loro azione varia per intensità, localizzazione ed effetto. Alcuni

agiscono in concomitanza, altri in antagonismo.

Al fine di dimostrare la base genetica di un certo comportamento e di comprendere

meglio il ruolo svolto dall’ambiente rispetto al contributo dei geni, sono stati

effettuati esperimenti consistenti nell’isolare l’animale alla nascita o nell’effettuare

incroci controllati di animali portatori di genotipi differenti (chiamati esperimenti di

ibridazione) o uguali (inincrocio). Oggi, sappiamo che alcuni comportamenti

possiedono certamente una base ereditaria, sappiamo anche, però, che nella maggior

parte dei casi il comportamento dipende proprio dall’intima interazione ambiente-

patrimonio genetico (Sovrano et al., 2009).

2.4 Dalla genetica all’epigenetica

Negli ultimi dieci anni le conoscenze nel campo della biologia molecolare, della

genomica e della biologia evoluzionistica sono enormemente aumentate e si va

delineando un modello assolutamente nuovo di genoma dinamico e interattivo con

l’ambiente. Per quasi mezzo secolo si era pensato al DNA come a un semplice

“serbatoio di informazioni”, frutto di milioni di anni di evoluzione molecolare e

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quasi immutabile nel tempo e alle altre componenti della cromatina, in particolare

agli istoni (le proteine attorno alle quali il DNA è avvolto, per poter essere contenuto

in un nucleo di pochi micron di diametro) come ad una semplice struttura portante

ancora più stabile e semplicemente deputata a garantire le migliori modalità di

esposizione del DNA (cioè dei geni). Negli ultimi anni ci si è resi conto che l’intero

genoma andrebbe rappresentato piuttosto come un network molecolare complesso e

dinamico, in continua interazione con l’ambiente e che quest’ultimo andrebbe

considerato come una fonte di informazioni che interagiscono con la componente più

fluida del genoma stesso, l’epigenoma, inducendola continuamente a trasformarsi e

a riposizionarsi per rispondere nel modo più efficace alle sollecitazioni. In una tale

rappresentazione dinamica e sistemica, la struttura tridimensionale della cromatina

verrebbe a configurarsi come un complesso molecolare intimamente reattivo: le

stesse modifiche genomiche e cromosomiche andrebbero interpretate in questa luce e

le mutazioni verrebbero a configurarsi, almeno in parte, come modifiche

attive/difensive a carico dapprima dell’epigenoma (e della cromatina nel suo assetto

tridimensionale) e in un secondo tempo, della stessa sequenza-base del DNA.

A tal proposito, le patologie croniche (degenerative, infiammatorie, neoplastiche) più

che come effetti di mutazioni del DNA, sarebbero da interpretare come il prodotto di

un lungo processo reattivo-adattivo iniziato in utero materno o addirittura nelle

cellule germinali (Burgio, 2016).

Nel corso dell’ultimo secolo e soprattutto negli ultimi decenni (un tempo infinitesimo

in relazione ai tempi propri dell’evoluzione biologica e quindi dell’adattamento co-

evolutivo dei vari organismi all’ambiente), l’uomo ha prodotto e immesso nella

biosfera una quantità immensa di molecole artificiali, trasformato interi ecosistemi

(micro)biologici e virali e ampliato la gamma delle forme di energia immesse

nell’ecosfera. Parlare di ambiente e salute significa cercare di comprendere quali

potrebbero essere gli effetti bio-molecolari di questa trasformazione drammatica e

complessa, che da alcuni decenni mette sotto pressione l’intera biosfera e in

particolare l’assetto genetico ed epigenetico degli organismi superiori. Per valutare

correttamente l’impatto biologico e sanitario dell’attuale modello di sviluppo, non si

può prescindere da una cornice bioevolutiva di lungo periodo e da una riflessione più

complessiva sul rapporto, in via di vertiginosa trasformazione, tra uomo e ambiente.

La stessa Rivoluzione Epidemiologica del ventesimo secolo, consistente in una

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drammatica riduzione delle patologie acute da cause esogene e in un altrettanto

significativo incremento delle patologie cronico-degenerative da cause endogene

(immunomediate, neoplastiche, neuro-degenerative, endocrino-metaboliche,

cardiocircolatorie), appare sempre più chiaramente correlata alla repentina

alterazione dell’ambiente prodotta dall’uomo e alle trasformazioni (epi)genomiche

che avvengono nelle prime fasi dello sviluppo del feto e del bambino (Burgio, 2016).

Affermare la multifattorialità di un processo patologico significa essenzialmente

sostenere che i meccanismi patogenetici implicati sono numerosi e complessi e che

alcune di tali concause sono prevalentemente endogene, altre esogene. Questo ha

condotto numerosi autori a interrogarsi lungamente circa il ruolo svolto nel processo

patogenetico dalle informazioni provenienti dall’ambiente (nurture) e da ciò che è

frutto esclusivo del patrimonio genetico, o meglio dell’eredità genetica (nature).

Negli ultimi anni, però, la contrapposizione, anzi la stessa dialettica nurture/nature è

stata messa in discussione o quantomeno ha cambiato di valore e significato. Ha

infatti sempre meno senso chiedersi quanta parte abbia nella genesi di una malattia (e

più in generale nelle trasformazioni del nostro fenotipo) l’informazione proveniente

dall’esterno, rispetto a quella inscritta nel DNA del soggetto. Potremmo anzi dire che

da alcuni anni la stessa distinzione tra esterno e interno o almeno la linea di confine

tra queste due realtà si è fatta più sfumata, essenzialmente grazie alla definizione e

allo studio dell’epigenetica (dal greco επί, epì = “sopra” e γεννετικός, gennetikòs =

“relativo all’eredità familiare”) , cioè delle interazioni molecolari attraverso cui le

informazioni provenienti dall’ambiente inducono l’attualizzazione fenotipica di

quelle ereditarie contenute in potenza nel genoma (Burgio, 2016).

Un approccio iniziale, che portò poi alla scoperta di questa nuova disciplina e a una

rivalutazione del concetto di ereditabilità, è possibile riscontrarlo all’inizio del

diciannovesimo secolo, con la pubblicazione del libro “The cell in development and

inheritance” di E.B. Wilson (1896), che offrì una panoramica su una disciplina

trascurata fino a quel momento, nonostante gli studi degli anni precedenti portati

avanti da Mendel. Non a caso il lavoro svolto da quest’ultimo è stato rilanciato e

rivalutato proprio nel corso del ventesimo secolo, riconoscendogli il merito di aver

svelato le leggi dell’ereditabilità che hanno influenzato a loro volta gli studi di una

buona parte dei futuri genetisti che decisero di seguire le orme mendeliane.

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A guardar bene, è possibile trovare le origini concettuali dell’epigenetica ancora

prima di Mendel, ossia ai tempi di Aristotele, che credeva nell’epigenesi, vale a dire

nello sviluppo di forme organiche partendo da forme inorganiche. L’epigenetica così,

si è fatta strada per spiegare il divario fra natura e apprendimento. Negli anni

successivi venne perlopiù definita come "lo studio delle modifiche ereditabili nella

funzione del genoma che si verificano senza cambiamenti della sequenza di DNA".

Più tardi l’embriologo e genetista Conrad Waddington (1905-1975) che decise di

utilizzare il termine epigenetica per la prima volta per descrivere quella serie di

fenomeni che portano dal genotipo al fenotipo. Waddington definì l’epigenetica

come “le interazioni dei geni con il loro ambiente che danno vita al fenotipo” e cioè

all’individuo vivente concreto. È noto infatti che dallo stesso patrimonio genetico

possono manifestarsi diversi fenotipi. Per esempio, anche gemelli monozigoti (aventi

lo stesso patrimonio genetico) possono essere molto diversi sia a livello

macroscopico –per esempio nell’altezza- sia dal punto di vista della incidenza di

malattie, che si pensa abbiano una solida base genetica -come la schizofrenia. “È

possibile, scrisse Waddington settanta anni fa, che una risposta adattativa possa

essere fissata nel genoma senza attendere il manifestarsi di una mutazione”.

Un’intuizione che la moderna ricerca molecolare ha pienamente confermato: è

possibile modificare stabilmente l’attività del genoma senza cambiare la sequenza

delle basi, bensì cambiando l’espressione delle informazioni ivi contenute. Alcune

conoscenze sono ormai assodate, altre sono ancora oggetto di studi e pertanto non

conclusive. Il dato di fatto è che l’ambiente e i comportamenti (come

l’alimentazione, l’attività fisica, lo stress, etc.) sono in grado di produrre una

impronta epigenetica sul DNA delle nostre cellule e che l’epigenoma così formato

viene trasmesso alle cellule figlie quando una cellula si divide ( durante la cosiddetta

mitosi).

Essenziale, alla luce della scoperta dell’epigenetica, è comprendere dove e come

questa disciplina si differenzia dalla genetica tradizionale. La genetica si interessa

principalmente al processo della gametogenesi, nel quale si ha l’unione di due cellule

aploidi da cui avrà origine una cellula diploide (zigote), portando infine alla

formazione di un organismo. Se una mutazione o un cambiamento cromosomico si

verificassero in una cellula somatica, tale mutazione sarebbe trasmessa alle cellule

discendenti con lo stesso genotipo. Al contrario, i cambiamenti epigenetici si

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verificano in gruppi di cellule aventi lo stesso recettore, a seguito della ricezione di

un segnale specifico che le va a “influenzare”. I cambiamenti epigenetici non

comportano variazioni nella sequenza di DNA ma piuttosto modificazioni negli

istoni (proteine che si legano al DNA) che compongono la cromatina, e nella

metilazione del DNA , meccanismo biochimico che determina

l’espressione/programmazione del genoma. Questi cambiamenti contribuiscono ai

processi che permettono all’organismo di rispondere agli stress ambientali. Essendo

l’epigenetica un processo secondo il quale, ad esempio, i fattori ambientali

agirebbero nel medio-lungo termine sull’espressione genica, senza modificare la

sequenza genetica sottostante, ciò spalancherebbe prospettive enormi nell’eterno

problema relativo all’interazione ereditarietà e ambiente. Quello che è certo è che le

regole che governano i processi epigenetici sono ben diverse da quelle che

governano la genetica classica. L’epigenetica assume una sorta di valenza “positiva”

e “liberatoria” rispetto al determinismo e alla “condanna” della genetica. In buona

sostanza, il messaggio che ne deriverebbe è che non possiamo intervenire sui nostri

geni (o almeno non del tutto e non ancora) ma possiamo intervenire sull’espressione

genica.

La differenza tra genetica ed epigenetica può essere paragonata alla differenza che

passa fra leggere e scrivere un libro. Una volta scritto il libro, il testo (i geni o le

informazioni memorizzate nel DNA) sarà identico in tutte le copie distribuite al

pubblico. Ogni lettore potrà tuttavia, interpretare la trama in modo leggermente

diverso, provare emozioni diverse e attendersi sviluppi diversi man mano che

affronta i vari capitoli. Analogamente, l’epigenetica permette interpretazioni diverse

di un modello fisso (il libro o il codice genetico) e può dare luogo a diverse letture, a

seconda delle condizioni variabili con cui il modello viene interrogato.

Per capire meglio cosa sia effettivamente l’epigenetica, pensiamo al programma

genetico come una sorta di spartito musicale molto complesso. Senza un’orchestra di

cellule (i musicisti) e di fattori epigenetici (gli strumenti musicali), non verrebbe

prodotta alcuna musica. I recenti progressi della scienza stanno permettendo di capire

chi sia ad interpretare il nostro “spartito” genetico; sembra che l’interpretazione

possa cambiare da una generazione all’altra senza che avvenga alcun cambiamento

nel DNA. Le modificazioni epigenetiche regolano quindi l’interpretazione

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dell’informazione genetica. A causa della loro potenzialità nell’alterare i pattern di

espressione genica, queste modifiche giocano un ruolo fondamentale nello sviluppo e

nelle malattie.

Ma quali sono i fattori epigenetici? Oltre all’arrangiamento spaziale del DNA (ad

esempio l’avvolgimento intorno agli istoni nel formare la cromatina) ci sono le

modificazioni biochimiche come la metilazione e l’acetilazione. Il genoma umano è

formato da circa 30.000 geni. Il nostro meraviglioso spartito, come ogni pezzo

musicale avrà necessità di momenti di silenzio. Lo sviluppo di ogni singola cellula è

governato dal silenziamento selettivo di geni, inteso come il risultato di fattori

epigenetici. La metilazione ha un ruolo altrettanto fondamentale in quanto l’aggiunta

di gruppi metile ad un gene acceso lo spegne, così i diversi pattern di metilazione

regolano quindi l’accensione e lo spegnimento genico.

E’ chiaro che un errore nella metilazione del DNA determina un cambiamento

nell’organizzazione spaziale della cromatina e questo a sua volta determina

pericolose “stonature”; situazione di ipo- o iper-metilazione possono portare

rispettivamente all’accensione di geni potenzialmente dannosi o allo spegnimento di

geni che agiscono come oncosoppressori o nei meccanismi di riparo del DNA.

Epimutazioni di questo tipo sono state identificate in molti tipi di tumori.

L’epigenetica permette anche di capire come il materiale genetico si adatti ai

cambiamenti stagionali. Per esempio le piante sono in grado di memorizzare i

cambiamenti stagionali stessi: vari esperimenti hanno dimostrato che l’esposizione al

freddo durante la stagione invernale determina dei cambiamenti nella cromatina che

portano al silenziamento dei geni della fioritura. All’arrivo della primavera, e quindi

delle condizioni migliori per la riproduzione, i geni vengono riattivati.

L’ambiente può anche provocare cambiamenti epigenetici i cui effetti sono visibili

sulle generazioni future. Nei topi, il colore del pelo -che dipende dal grado di

metilazione del gene agouti durante lo sviluppo embrionale- può variare in seguito a

varie cause e alcuni esperimenti dimostrano che ciò può essere influenzato persino

dalla dieta: supplementi a base di acido folico o vitamina B12( ricchi in gruppi

metilici) orienteranno il colore del pelo in un senso più che in un altro.

L’epigenetica dunque può essere vista come un nuovo modo di considerare la

genetica, o meglio il patrimonio genetico di una specie. Per chi non ha particolari

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conoscenze in ambito biomedico, non è semplice capire fino in fondo il significato

attribuito a questa disciplina e non è altrettanto semplice cercare di spiegarla con un

linguaggio accessibile. Spesso l’epigenetica viene considerata come la scienza in

grado di interessarsi a quelle che sono le impronte ambientali sul DNA. Siamo così

di fronte a una nuova concezione: se fino a qualche tempo fa era opinione diffusa che

il genotipo fosse una sorta di “ programma stabile” in grado di determinare il nostro

fenotipo, ora invece il genoma è inteso come una potenzialità: è l’attivazione o

repressione di specifici geni, indotta dall’ambiente nel corso dell’ontogenesi embrio-

fetale, a determinare i processi di differenziazione cellulare e quindi in ultima

analisi, la programmazione di tessuti e organi che compongono il fenotipo.

La metilazione del DNA cambia continuamente, anche nelle cellule ormai mature,

come i neuroni. Per esempio l’ambiente e l’esperienza acquisita inducono nel

genoma dei neuroni delle marcature relativamente stabili: una sorta di memoria

molecolare, che rappresenta il principale substrato biologico della nostra memoria

neuropsichica. Quello che cambia non è dunque il genoma, ma bensì l’epigenoma e

di conseguenza il connettoma, cioè la totalità delle connessioni che costituiscono le

reti neuronali, i circuiti cerebrali che sono altamente plastici soprattutto nelle prime

fasi di vita e si modificano in base alle stimolazioni ambientali che ricevono. La

programmazione epigenetica dell’espressione genica è molto sensibile all’ambiente

durante queste prime fasi, quindi sia l’ambiente sociale sia quello chimico possono

influenzare il modo con cui il genoma è programmato. Studi dimostrano che le

avversità nelle prime fasi della vita lasciano il segno sul nostro epigenoma ed

influenzano, nella vita adulta, la reattività allo stress e la salute, fisica e mentale

(Burgio, 2016) Analogamente, è ormai evidente che anche gli adulti rispondono

epigeneticamente ai segnali ambientali, che influenzano la fisiologia, i

comportamenti e il rischio di malattia. Il “cervello plastico”, potremmo dire, risponde

attivamente alle informazioni provenienti dall’ambiente: in quest’ottica si possono

studiare le marcature epigenetiche del genoma. Il nostro genoma può essere

considerato un ecosistema molecolare incredibilmente dinamico e complesso, nel

quale ogni gene è interconnesso ad altre decine di geni e lavora in modo diverso a

seconda delle informazioni che gli arrivano. Se prima era opinione condivisa che

fosse il DNA a “comandare” e che il flusso dell’informazione genetica fosse lineare

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e, per così dire, centrifugo e unidirezionale dal DNA, all’RNA, alle proteine e quindi

al fenotipo, ora il flusso dell’informazione dovrebbe essere considerato centripeto

(dall’ambiente verso il DNA) e circolare. In pratica, il DNA ha sempre bisogno di

informazioni che gli dicano in quale punto aprirsi per essere trascritto secondo le

esigenze della cellula e dell’intero organismo.

Nel DNA sono stati riconosciuti, in particolare, alcuni marker genetici di danno che

possono promuovere lo sviluppo tanto di disturbi del neurosviluppo (in particolare

dello spettro autistico), che di malattie neuropsichiatriche (schizofrenia, depressione

major) e neurodegenerative (malattia di Alzheimer) e l’interazione con l’ambiente

può aprire la strada al manifestarsi anche di altre patologie. Potremmo dunque,

paragonare il cervello a un hardware -geneticamente controllato- e il connettoma al

software, che continuamente muta ed evolve grazie alla puntuale interazione con

l’ambiente. Numerose dimostrazioni ed esperimenti sono stati realizzati nell’ambito

dell’epigenetica. Uno dei primi esperimenti fu fatto sul coniglio himalayano. Si tratta

di una specie che vive a 25°C e presenta il pelo di colore bianco con le estremità del

corpo di colore nero. Se messo a vivere a temperature superiore ai 30°C il pelo

diventa totalmente bianco, viceversa, se messo in condizioni di temperatura inferiori

a 15°C il pelo diventa per la maggior parte nero. Quindi ci troviamo difronte a una

situazione in cui l’ambiente esterno condiziona l'interno. L'esperimento prevedeva di

simulare il freddo infatti mettendo un sacchetto del ghiaccio a contatto con la

schiena del coniglio e dopo un determinato periodo di tempo si osservava che il pelo

sottostante si presentava di colore nero. I geni che esprimono l’enzima per la

colorazione nera del pelo erano temperatura-dipendenti (Burgio, 2016).

In che modo invece, un cambio di alimentazione può influire durante la gravidanza?

A tal riguardo, particolare è l'esperimento fatto sul topo Agouti fatto nel 2003 della

Duke University. Il topo Agouti è un topo con il gene Agouti che quando è “on”

porta ad esprimere una peluria gialla, obesità, predisposizione a diabete e cancro. Si

tratta di topi tendenzialmente malati rispetto a quelli "normali". In questo

esperimento sono state selezionate due topoline Agouti: alla prima, è stata

somministrata la classica alimentazione da topi, alla seconda invece un'alimentazione

più ricca di cibi metilanti (vitamine, sali minerali, verdure in pratica e frutta, etc). I

cibi metilanti sono alimenti che apportano gruppi metilici, i quali si attaccano al

DNA e possono controllarne l'espressione genica (si produce un cambiamento nelle

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caratteristiche del legame proteine regolatrici dei cromosomi) ecco perchè diventa

importante assumere frutta e verdura. I risultati hanno dimostrato che nel primo caso

tre topolini su quattro sono nati malati, nel secondo caso tre su quattro sono nati

invece sani. In pratica, questo gene che secondo la regola tradizionale della genetica

se una mamma è affetta anche la prole lo sarà, con la modulazione epigenetica è

ancora presente ma è stato metilato, ossia spento (Burgio, 2016).

2.5 L’impronta Lamarckiana nel mondo epigenetico

Secondo quanto già illustrato nel capitolo precedente, nella teoria dell'evoluzione di

Lamarck si affermava che i cambiamenti nell'aspetto e nelle funzioni vitali di un

essere vivente erano da imputare all'uso che esso faceva di un determinato organo,

come anche dimostrato nell’esempio del collo della giraffa. Oggi la teoria

Lamarckiana è superata in favore della teoria Darwinista, che ricordiamo basa i suoi

principi sulla concezione che solo gli individui portatori di caratteri adatti

all'ambiente sopravvivono e li trasmettono. Tuttavia, potremmo affermare che forse

Lamarck aveva parzialmente intuito in qualche modo l’epigenetica. Infatti oggi

sappiamo che le esperienze che un essere vivente compie in un dato ambiente

operano profonde modifiche in regioni periferiche del DNA . Queste modifiche

conterranno informazioni sui geni da attivare in un determinato ambiente, per

assicurare lo sviluppo dei caratteri fenotipici più adatti alla sopravvivenza: in un

recente studio, la trasmissione di caratteri epigenetici è stata osservata nel verme

nematode Caenorhabditis elegans (Bucci,2013), in ben 14 generazioni, ed è

ragionevole pensare che meccanismi simili siano all'opera anche negli esseri umani.

Grazie all’epigenetica, la teoria di Lamarck è stata rivalutata, difatti essa sembra

confermarla almeno parzialmente, poiché i segnali epigenetici acquisiti sono,

appunto, trasmissibili a più di una generazione successiva.

Il lavoro di Lamarck fu originariamente molto apprezzato dallo stesso Darwin che ne

condivise il netto distacco dall’approccio creazionista. Tuttavia, fino agli anni

settanta del secolo scorso le due teorie furono lette in antitesi e solo la teoria di

Darwin venne ritenuta corretta dalla comunità scientifica internazionale. Con

l’affermazione dell’epigenetica però, le due teorie iniziarono a essere viste come

integrazione una dell’altra (Bucci, 2013).

Numerose sono le ricerche condotte in merito negli ultimi anni, a tal proposito uno

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dei nomi di rilievo in questo campo è quello di Marcus Pembrey, genetista inglese

neo-lamarckiano, il quale ipotizza che l’uomo moderno, a causa dei repentini

cambiamenti del proprio stile di vita nell’epoca post-industriale, abbia “costretto” il

proprio genoma a dare risposte in termini di adattamento all’ambiente molto più

rapide rispetto al passato (Bucci, 2013). Le conferme degli effetti duraturi

dell’adattamento all’ambiente sarebbero ormai notevoli anche nel campo umano; ed

ancora, il progetto di ricerca “Avon longitudinal study of parents and children”,

condotto all’inizio degli anni novanta del secolo scorso dall’Università di Bristol su

oltre 14 mila donne in gestazione, ha evidenziato come alcuni fattori quali l’uso di

particolari sostanze (per esempio il fumo) e stati di ansia sarebbero responsabili

rispettivamente di allergie, della tendenza all’obesità e di una maggiore

predisposizione all’asma dei nascituri (Bucci,2013). Sebbene fino a oggi gli studi di

epigenetica abbiano riguardato soprattutto i mammiferi, anche per la maggiore

disponibilità di risorse economiche per la ricerca applicata in campo medico, è

crescente l’attenzione per il regno vegetale dove gli organismi, a causa

dell’immobilità, potrebbero essere interessati da adattamenti all’ambiente ancora

maggiori al punto da essere presi in considerazione come organismi modelli

(Bucci,2013).

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Capitolo 3

3.1 La memoria emozionale e le paure apprese

Grazie alle ricerche condotte e sostenute dai più importanti etologi (vedi capitoli

precedenti) è stato possibile stabilire la natura dei comportamenti tipici del mondo

animale, differenziare così i comportamenti innati da quelli appresi, comprendere

quali sono le risposte adattive e quelle svantaggiose per la specie, scoprire che

l’animale può dare risposte diverse a seconda dell’ambiente di sviluppo in cui cresce

e molto altro. Alla luce di ciò, è dunque possibile giustificare e scoprire le

motivazioni alle base del gioco tra cuccioli, della migrazione degli uccelli o dell’

imprinting. Ma come giustificare la paura tipica dell’acqua nel gatto o il timore dello

sparo nel cane? E’ possibile parlare dell’esistenza di una memoria emozionale e della

sua, eventuale, trasmissione? Ebbene, sì.

Studi recenti hanno dimostrato che esperienze di paura, panico ed ansia vengono

trascritte nel nostro genoma e di conseguenza trasmesse alle generazioni future

dando vita alla cosiddetta memoria emozionale. Prima di descrivere i meccanismi

alla base della trasmissione di questo bagaglio emozionale, è necessario inquadrare il

concetto di memoria e come l’approccio cognitivo allo studio della mente animale,

ne ipotizzi il fine adattivo.

L’apprendimento -che dipende dalla capacità di registrare, conservare e richiamare

l’informazione- sarebbe impossibile senza memoria. In ogni momento della vita di

un organismo l’informazione proveniente dall’ambiente viene selezionata e

conservata, poiché le azioni e le loro conseguenze sono correlate tra loro su un

continuum temporale e la memoria garantisce che un’azione presente discenda da

un’altra accaduta in un passato più o meno lontano (Sovrano et al., 2009).

Per classificare le memorie si possono utilizzare due differenti criteri: uno temporale

e uno relativo al tipo di codifica implicato.

Per il criterio temporale, Cherkin (1971) ha messo a punto un metodo di

apprendimento rapido per studiare i processi di consolidamento della memoria nei

pulcini di pollo domestico. Al pulcino è presentata una pallina colorata, che scatena

una risposta di beccata. Se la pallina era stata bagnata in un liquido dal sapore

disgustoso, quando gli viene riproposta, il pulcino evita di beccarla. In una sola prova

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così, l’animale memorizza le caratteristiche visive e gustative della pallina. Questa è

una forma di apprendimento passivo, in cui l’animale impara a evitare di fornire una

risposta a differenza dell’ apprendimento attivo, dove l’animale deve invece fornire

una risposta.

Per quanto concerne il criterio legato al tipo di codifica, può risultare utile portare

l’esempio di un paziente amnesico profondo studiato dalla psicologa Brenda Milner e

colleghi (1968). H.M. subì la rimozione bilaterale dei lobi temporali come intervento

risolutivo per una forma di epilessia non trattabile farmacologicamente. Dopo

l’intervento, H.M. non poteva più formare ricordi a lungo termine, rimanendo però

intatti l’apprendimento di nuove abilità motorie e l’apprendimento associativo e non

associativo. Ad esempio, addestrato a leggere la scrittura speculare, pur negando di

avere mai eseguito quel compito, ne migliorava progressivamente l’esecuzione. In

base a questa dissociazione, è allora possibile distinguere la memoria procedurale ,

di cui le abilità motorie sono le rappresentanti più tipiche, dalla memoria

dichiarativa, la quale riguarda le conoscenze di un fatto. Questa si forma

rapidamente, spesso in una singola prova e comporta l’associazione simultanea di

stimoli e la memorizzazione di eventi ben caratterizzati in senso spaziale e temporale

(Sovrano et al., 2009).

Il discorso inerente alla memoria emozionale però, occorre analizzarlo secondo

un’altra prospettiva ruotante intorno al concetto di DNA e geni.

Nonostante i vari meccanismi proposti, che forse sono fotografie istantanee di un

unico processo, sembra evidente che nel nostro DNA sia racchiusa ogni tipo

d’informazione acquisita nel corso della vita. Dagli studi di genetica e biologia

molecolare si sapeva che la quantità di DNA di cui si conosceva la funzione era

molto ridotta rispetto al quantitativo totale dall’acido presente in ogni cellula. Oggi si

sa che il 98 - 99% del materiale genetico che dovrebbe contenere le istruzioni per il

funzionamento del nostro organismo almeno all’apparenza non contiene proprio

nulla, tanto da far pensare che fosse del tutto inutile ed etichettarlo come

“junk”(spazzatura). Secondo alcuni calcoli, basati sulla lunghezza media dei geni e la

quantità di coppie di basi dell’intero DNA di una cellula, avremmo dovuto trovare

quasi 100 mila geni, invece sono stati rinvenuti appena 20 – 25 mila geni codificanti,

che dell’intero genoma umano occupano non più dell’1 - 2 %. Sono state fatte

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inoltre, varie supposizioni per cercare di dare una spiegazione. Gli inspiegabili vuoti

potrebbero contenere pseudogeni, cioè geni divenuti inutilizzabili a causa di

mutazioni (Vanin, 1985), oppure il DNA di decine di migliaia di virus ormai

fortunatamente inattivi, o vestigia fossili di terribili retrovirus e soprattutto tante

ripetizioni, dovute ai molteplici cicli di riproduzione dei virus (Dietrich e Been,

2001). Nessuno tuttavia è finora riuscito a scoprire con certezza se e quali funzioni

svolgano le sovrabbondanti “pagine bianche” del DNA. Un’ipotesi interessante è

quella che nel nostro DNA ci sia immagazzinata ogni tipo d’informazione

riconducibile a ogni esperienza che il nostro corpo fa, anche a livello emotivo

(Dietrich e Been, 2001). A questo proposito vari lavori che sembrano confermare

questa ipotesi aprendo la possibilità a vari meccanismi responsabili. Per ricordare un

particolare evento si deve attivare una specifica sequenza di neuroni al momento

giusto. Perché questo accada i neuroni devono essere connessi per via di giunzioni

chimiche chiamate sinapsi. E’ un mistero il come riescano a durare decenni, dato che

le proteine nel cervello, incluse quelle che formano le sinapsi, vengono distrutte e

rimpiazzate costantemente. Courtney Miller e David Sweatt (2007) dell’Università

dell’Alabama a Birmingham affermano che i ricordi di lunga durata potrebbero

essere mantenuti tramite un processo chiamato metilazione del DNA, cioè

l’addizione di “cappucci” chimici chiamati gruppi metilici al DNA. Molti geni sono

spesso rivestiti con gruppi metilici. Quando una cellula si divide, questa “memoria”

cellulare viene passata alle nuove cellule che sanno già quale funzione devono

svolgere. Miller e Sweatt hanno ipotizzato che i gruppi metilici aiutino a controllare

il quadro esatto dell’espressione proteica necessaria per mantenere le sinapsi

responsabili dei ricordi. Hanno iniziato studiando i ricordi a breve termine: quando

somministravano piccole scosse elettriche ai topi, questi normalmente esprimevano

comportamenti di evitamento e paura nei confronti della gabbia. Iniettandoli con

droghe che inibiscono la metilazione, sembrava che si cancellasse ogni memoria

dello shock. I ricercatori hanno anche dimostrato che in topi non trattati, la

metilazione dei geni cambiava rapidamente nella regione dell’ippocampo un’ora

dopo lo shock ma il giorno dopo tornava normale, suggerendo che la metilazione è

implicata nella creazione dei ricordi a breve termine. Per verificare se la metilazione

avesse una parte nella formazione dei ricordi a lungo termine, Miller e Sweatt hanno

ripetuto l’esperimento osservando lo strato più esterno del cervello, la corteccia e

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hanno scoperto che il giorno dopo lo shock i gruppi metile erano stati rimossi dal

gene chiamato calcineurina che codifica per la produzione di calcio e aggiunti a un

altro. In seguito al fatto che il quadro esatto della metilazione eventualmente stabilita

rimaneva costante per sette giorni dalla fine dell’esperimento, i ricercatori affermano

che i cambiamenti della metilazione potrebbero ancorare i ricordi dello shock nella

memoria a lungo termine, non solo nel controllo della sua formazione. Questi

ricercatori sostengono di aver osservato la formazione della memoria a breve termine

nell’ippocampo e che lentamente si trasformava in memoria a lungo termine nella

corteccia, presentando i risultati all’incontro della Società di Neuroscienza a

Washington DC (2001).

Un altro gruppo di ricercatori ha recentemente proposto una nuova idea molto

radicale. Secondo i ricercatori Peña de Ortiz e Arshavsky esiste un codice simile a

quello genetico in cui si registrano in modo permanente le matrici delle nostre

memorie. Per fissare una memoria in atto, molti ricercatori dicono che si ha bisogno

di rafforzare le connessioni sinaptiche. Un modo è quello di costruire più sinapsi, un

altro è quello di rendere quelle esistenti più grandi e più stabili. In entrambi i casi si

richiede la costruzione di proteine. Infatti, iniettando sostanze chimiche che bloccano

la formazione di nuove proteine nel cervello si può interrompere la formazione dei

ricordi a lungo termine. Sembra abbastanza plausibile. Ma costruire connessioni forti

e stabili non è un processo semplice. Quasi tutte le molecole del cervello, comprese

quelle che formano le connessioni neurali, vengono sostituite ogni settimana o due. Il

modo di come i ricordi di lunga durata possono essere memorizzati con questa

sistema genera confusione negli studiosi da anni. La neurobiologa Sandra Peña de

Ortiz, dell'Università di Puerto Rico a San Juan, dice che il problema è che questo

ricambio molecolare finirebbe per degradare queste proteine strutturali, diventando

irrimediabilmente sfocate, come fotocopie di fotocopie (2001). Anche Francis Crick,

il co-scopritore della struttura chimica del DNA, l’aveva già fatto notare nel 1984.

Gli studi al microscopio elettronico del neurobiologo Seth Grant dell’Università di

Edimburgo mostrano sinapsi sorprendentemente dinamiche, e neuroni altamente

stabili in quanto le loro distese ramificazioni cambiano da un giorno all’altro. Certo,

si potrebbero ricostruire le stesse strutture, ma come si sa cosa e dove ricostruire? Per

rendere le memorie stabili nel tempo, Peña crede che sia necessaria una sorta di

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modello in archivio per ogni esperienza acquisita. In questo modo il cervello

dovrebbe avere un set di istruzioni su come ricostruire ogni sinapsi. Lo schema

preferito della Natura, naturalmente, è il DNA e la fortuna ha voluto che il DNA non

subisce il ricambio che le altre molecole subiscono. E' abbastanza stabile di per sé, e

gode anche della protezione di un meccanismo di riparazione specializzato nel caso

si verificasse qualche errore. Peña de Ortiz e Arshavsky pensano che le molecole

della memoria siano nuove proteine create da un progetto unico che, potrebbe essere

formato dal riarrangiamento dei geni dei neuroni in risposta ad ogni nuova

esperienza. La struttura di ogni nuova proteina dovrebbe permettere di saltare in

un'unica posizione della sinapsi aiutando a costruire una traccia stabile della

memoria senza alterare le altre strutture sinaptiche.

Arshavsky ha una proposta un po' più ambiziosa: si chiede se le molecole della

memoria potrebbero conservare informazioni esse stesse, letteralmente una

rappresentazione molecolare dei ricordi. Pensa che invece di funzionare a livello di

rete, i singoli neuroni abbiano un ruolo importante. Ad ogni modo, questa è una

proposta radicale. Siamo abituati a pensare al nostro codice genetico come qualcosa

di fisso, proprio dall'inizio della nostra vita, non qualcosa che viene riscritto ogni

giorno. Dopo tutto, dà ad ognuno la propria individualità. Che cosa accadrebbe a

tutte le cellule del cervello se fosse permesso di manomettere quel codice? Cosa fa

pensare a Peña e Arshavsky di prendere ancora in considerazione una tale idea fuori

dai canoni, come riscrivere il nostro modello genetico? Finora ci sono solo prove

indiziarie, ma abbastanza per convincerli a continuare a cercare. Essi sostengono che

il DNA ha sicuramente la capacità di agire come un modello stabile per le molecole

della memoria. Una volta che i neuroni sono completamente sviluppati non si

dividono più, quindi non c'è pericolo di perturbare il DNA con la divisione cellulare,

e nessun problema se si interrompono i geni necessari per formare nuove cellule. In

ogni caso, c'è un grande quantitativo di DNA di ricambio per l'archiviazione dei

nostri ricordi. Per quanto ne sappiamo circa il 98% del nostro DNA non ha alcuna

funzione evidente. Ma come si può fare per conservare un ricordo nuovo? Secondo la

Peña e Arshavsky sarebbe necessario un qualche tipo di riarrangiamento genetico, un

rimescolamento delle quattro basi azotate che compongono il nostro alfabeto

genomico. Questo potrebbe non essere così stravagante come sembra. I genetisti

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Axel Dietrich e Willem Been dell'Università di Amsterdam, sostengono che la

riorganizzazione del DNA non può accadere nella maggior parte delle nostre cellule,

ma è esattamente ciò che accade nel nostro sistema immunitario, che si ricorda degli

agenti patogeni incontrati (2001). Si conoscono tre sistemi di memoria in natura. C'è

una memoria evolutiva di come costruire un organismo, una memoria cognitiva degli

eventi di cui abbiamo esperienza, e una memoria immunitaria delle infezioni passate.

Due di queste sono basate sul DNA, quindi si può indagare se anche la terza usi gli

stessi strumenti. La memoria immunitaria si presenta sotto forma di riconoscimento

delle proteine chiamate recettori per l’antigene. Questi recettori sono di una forma

unica specifica per intercettare e bloccare gli agenti patogeni specifici e si trovano

sulla superficie dei linfociti B circolanti. I genetisti sono abituati all'idea che i nostri

singoli complementi di DNA siano essenziali per ciò che si diventa. Pochi, tuttavia,

hanno preso in seria considerazione se la nostra identità lasci a sua volta un segno

permanente sul nostro genoma. Questo è proprio ciò che la nuova teoria sul DNA

della memoria propone. Se fosse vero, dovremo cambiare il nostro modo di pensare

le nostre menti, i corpi, le memorie e le malattie. Forse ci si ricorda di una settimana

infelice con la varicella da piccoli. Il sistema immunitario certamente sì; il suo

compito è assicurarsi di ricordare come affrontare il virus quando lo incontrerà di

nuovo. Due tipi di ricordi: sono scritti con lo stesso inchiostro?

Un altro gruppo ha individuato complessi di decine di proteine cellulari,

soprannominati "Hebbosomi" e molte di queste proteine non sono assolutamente

coinvolte nella formazione di sinapsi. Grant dice che conosciamo nuove proteine

costruite appena nuove memorie vengono fissate ma per creare l'enorme varietà di

memorie in nostro possesso, non c'è bisogno che ogni proteina abbia una struttura

unica nuova (Dietrich e Been, 2001).

3.2 Le emozioni secondo gli evoluzionisti

Le teorie evoluzioniste sono denominate in quanto tali poiché riprendono il pensiero

e la teoria evoluzionista di Darwin. Gli studiosi contemporanei d’impostazione

psicoevoluzionista svilupparono una teoria coerente che poneva le espressioni

emozionali al centro di una visione delle emozioni come risposte adattative alle

emergenze ambientali. Nel campo della psicologia delle emozioni, il problema

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dell’universalità è stato posto per la prima volta come un tema critico alla fine degli

anni ‘60 da alcuni autori di ispirazione evoluzionista, secondo i quali le emozioni si

configurano come unità distinte, regolate da meccanismi innati su base genetica e

dunque universali (Desiderio, 2013).

Pur non considerando le emozioni come il motore dell’evoluzione, alla stregua di

Lamarck, Darwin riservava allo studio delle reazioni emozionali un’attenzione del

tutto particolare. La sua visione della vita, unitaria e storica, inquadrava le

dimensioni del vivente entro un unico corso evolutivo, legando così i fenomeni

biologici di base ai processi psicologici. Egli era convinto, così, che la teoria

dell’evoluzione dovesse essere usata per strappare l’indagine sulla mente alla

metafisica e alla filosofia, portandola finalmente entro il dominio delle scienze.

L’evoluzionismo poteva spiegare la mente illustrandone la storia naturale, la

progressiva emergenza da stadi di organizzazione più semplici, dare un senso alle sue

correlazioni con l’anatomia e le funzioni del corpo. Poteva accostare i fenomeni

psicologici a quelli fisiologici, indicandone la funzione ai fini della sopravvivenza e

dell’adattamento, descrivendone il valore selettivo. Da questo punto di vista, le

emozioni rappresentavano un elemento di eccezionale interesse. Nessun altro

fenomeno della vita dimostra la correlazione tra sfera biologica e dimensione

psicologica, nessun altro processo si presta così bene all’esame della continuità

evolutiva tra la psiche umana e i comportamenti delle altre specie animali. Ciò spiega

come mai Darwin abbia lavorato allo studio delle emozioni molto prima di giungere

a formulare la sua teoria dell’evoluzione e perché le osservazioni sulle emozioni

siano state un materiale d’analisi importante nel processo stesso di definizione della

teoria darwiniana (Canali e Pani, 2013). Soltanto parte dell’enorme mole di materiale

sulle emozioni raccolto in vari decenni di studio, sparso in diversi taccuini, lettere,

appunti, fotografie e ritratti annotati, questionari spediti in tutto il mondo,

osservazioni sui suoi figli e altro ancora è stato usato da Darwin in forma organizzata

per dare alle stampe nel 1872 una voluminosa monografia scarsamente considerata

dai contemporanei ma oggi riscoperta feconda ed attuale, “L’espressione delle

emozioni negli animali e nell’uomo” (Canali e Pani, 2013).

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In quest’opera, Darwin suggeriva che le emozioni hanno un’origine evolutiva e

quindi possono essere comprese a partire dal loro vantaggio selettivo e dalla loro

storia. Egli indicava tre principi generali alla base dell’espressione delle emozioni: 1)

il principio delle abitudini associate utili, 2) il principio dell’antitesi, 3) il principio

degli atti determinati dalla costituzione del sistema nervoso.

Il principio delle abitudini associate utili afferma che ogni atto capace di ridurre un

disagio, una tensione, di dare sollievo e piacere tende a trasformarsi in abitudine in

virtù della ripetizione e a trasmettersi alla discendenza per apprendimento, per

imitazione ovvero a fissarsi nel patrimonio ereditario della specie. La forza di questa

abitudine è tale da provocare la ripetizione dell’atto ogni volta che si riproduce la

stessa emozione, anche quando ciò non dà alcun vantaggio o non ha più una specifica

funzione. Le trasformazioni dell’ambiente e della specie che intervengono nel corso

dell’evoluzione spesso rendono queste espressioni non più adattative. Esse si

riducono così a resti vestigiali, frammentari, minimi, disfunzionali e potenzialmente

in grado di causare danno all’organismo (Canali e Pani, 2013).

Uno dei numerosissimi esempi di abitudini associate utili a livello di individuo è

offerto dai gatti. Essi talora quando si trovano sdraiati su un cuscino o su un altro

oggetto soffice danno dei colpetti leggeri e ritmati con le zampe anteriori e le dita

distese come fanno i gattini sul ventre della madre per stimolare la secrezione di

latte; quindi succhiano con la bocca il cuscino e fanno le fuse, di nuovo esattamente

come i gattini quando poppano. Un esempio di vestigia evolutive di una espressione

emotiva originariamente utile, ormai avente solo una funzione comunicativa, è

invece l’atto dello scoprire i denti durante una crisi di collera, atto che riporta

all’abitudine adattativa di mordere durante la lotta degli antenati dell’uomo e degli

animali in generale. Un altro esempio del genere è l’atto di tirare fuori la lingua o di

sputare in segno di disprezzo, comportamento adattativo associato all’introduzione di

qualcosa di sgradevole o ripugnante in bocca diventato col tempo e con l’evoluzione

umana soprattutto un segnale universale di disdegno verso un’altra persona, una

situazione, una cosa (Canali e Pani, 2013).

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Certi stati determinano quindi particolari atti abituali che hanno in origine un’utilità.

Stati d’animo di segno opposto ad essi, secondo Darwin, generano una forte e innata

tendenza a eseguire movimenti e atti di natura opposta, anche se sono del tutto inutili

e non funzionali. Ad esempio la rabbia porta il cane a rizzare la testa, la coda,

irrigidire il corpo; al contrario il cane che vede il padrone o si sottomette al capo

branco abbassa la testa, si acquatta al suolo, si agita col tronco e con la coda. Allo

stesso modo negli uomini, il senso di impotenza si esprime abbassando la mascella,

rilasciando i muscoli intorno alla bocca, alzando le sopracciglia e stringendo le

spalle: il contrario degli atteggiamenti e delle espressioni di una persona determinata

e pronta all’attacco, che aggrotta le ciglia, serra la mascella, stringe i pugni e

irrigidisce le braccia, gonfia il torace e rizza le spalle, gesti utili a prepararsi a lottare

o a intimorire gli avversari (Canali e Pani, 2013).

Il terzo principio è quello degli atti determinati dalla costituzione del sistema

nervoso. In questo caso l’espressione delle emozioni è direttamente legata all’azione

del sistema nervoso, alla sua organizzazione, alle sue vie e alle sue connessioni che

trasportano l’eccitazione sensoriale connotata emotivamente ai diversi organi del

corpo provocando reazioni involontarie e spesso non adattative. Esempi in questo

senso sono numerosi: il tremore delle mani e la sudorazione in concomitanza con

intense emozioni, l’aumento del battito cardiaco, le variazioni nelle funzioni delle

ghiandole endocrine. Questo terzo principio, pur talora scorrettamente applicato da

Darwin a reazioni emozionali dipendenti da altri meccanismi, è tutt’ora utile a fare

ipotesi evolutive sull’origine di patologie somatiche legate alle emozioni.

L’evoluzione tende infatti a mantenere le soluzioni già sperimentate, a utilizzare il

materiale biologico preesistente. Il codice genetico su cui opera la selezione ha dei

forti meccanismi interni di equilibrio e i geni sono coadattati per produrre un modello

di sviluppo ben organizzato. Inoltre, la selezione di un carattere controllato da più

geni può determinare alterazioni non funzionali a carico dei sistemi anatomici e

fisiologici interessati. Per queste ragioni, dunque, l’effetto della costituzione del

sistema nervoso sull’espressione delle emozioni, elemento storico frutto del caso,

della selezione e dei compromessi evolutivi, potrebbe spiegare molte malattie

cosiddette psicosomatiche (Canali e Pani, 2013).

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Il legame tra emozioni e malattie era peraltro ben riconosciuto da Darwin, che a

conclusione della sua opera del 1872 affermava: “L’espressione per sé stessa - o il

linguaggio delle emozioni, come è stata chiamata qualche volta - ha certamente una

grande importanza per il benessere del genere umano” (Darwin, Espress. p. 420).

Tra gli anni ‘60 e ‘80, attraverso i lavori di Tomkins e Plutchik , si sviluppava,

prevalentemente negli Stati Uniti, la cosiddetta concezione psicoevoluzionistica delle

emozioni. I due autori elaborarono la loro teoria partendo dai pensieri di Darwin sulle

emozioni, ritenendo che esse fossero associate alla sopravvivenza e funzionali alla

specie e all’individuo. E’ questa la tesi accolta e sviluppata anche da Ekman (1972) e

da Izard (1978) e implica l’accettazione della visione innatista delle espressioni

facciali delle emozioni. Le teorie psicoevoluzionistiche hanno una concezione

categoriale delle emozioni, cioè ritengono che ogni tipo di emozione primaria

(tristezza, collera, dolore, ira, paura, ecc.) abbia una propria struttura di tipo

fisiologico (espressioni facciali, risposte fisiologiche, etc.) e psicologico che è

universale e innata, frutto di apprendimento e adattamento filogenetico. Così anche le

espressioni facciali delle emozioni, come le emozioni, sono universali e legate a

specifiche reazioni neurofisiologiche che determinano la generalità dello sviluppo

emozionale e la reazione a eventi probabili nell’ambiente (Desiderio, 2013).

Il primo studioso che riprese i concetti darwiniani per proporre una visione

psicoevoluzionista delle emozioni fu Tomkins che propose l’esistenza di otto

emozioni fondamentali (o primarie), chiamate da lui “affetti”.

Gli affetti positivi sono interesse, sorpresa e gioia. Quelli negativi sono angoscia,

paura, vergogna, disgusto e rabbia. Queste emozioni primarie sono, secondo l’autore,

risposte strutturate innate a certi tipi di stimoli e vengono espresse attraverso una

vasta gamma di reazioni corporee, soprattutto espressioni facciali. Per ogni affetto,

Tomkins ipotizza l’esistenza di programmi specifici in aree subcorticali del cervello

confermando l’esistenza di una base genetica specie-specifica per l’espressione delle

emozioni primarie (Desiderio, 2013).

Successivo a Tomkins, Carrol Izard ha ampliato questa teoria con particolare

attenzione al ruolo delle espressioni facciali delle emozioni. Secondo l’autore, nove

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sarebbero le emozioni fondamentali: gioia, sorpresa, interesse, dolore, rabbia,

disgusto, disprezzo, vergogna e paura, dalla cui combinazione derivano tutte le altre.

Per illustrare le sue idee sulla mescolanza delle emozioni, Izard prende come

riferimento l’ansia e in particolare le idee di Tomkins riguardo ad essa. Nel 1966,

essa veniva descritta come affetto dirompente identificabile semplicemente come

paura. Ma nel 1972, con il contributo di Tomkins, si concluse che l’ansia è un

concetto multidimensionale che include le emozioni di paura e due o più delle

seguenti emozioni: rabbia, vergogna, senso di colpa e interesse. Seguendo questo

percorso, Izard afferma che, da un punto di vista evolutivo, le persone non hanno

bisogno di imparare come provare una certa emozione; quello che deve essere

appreso sono le condizioni e gli stimoli precisi che possono farle suscitare negli

individui. Egli sostiene la tesi secondo cui gli elementi cognitivi non sono parte

essenziale dell’emozione perché, anche se normalmente vi è interazione tra i vari

processi, quello emotivo è completamente indipendente da quello cognitivo, tesi che

verrà ribaltata dai successivi studi cognitivi sulle emozioni (Desiderio, 2013).

Le diverse emozioni sono dunque, programmi adattativi complessi di natura

biologica e comportamentale, messi a punto dalla selezione, specifici per ogni specie

vivente, determinati nella loro struttura fondamentale a livello genetico ma aperti alla

modificazione dell’esperienza e all’apprendimento.

.

3.3 Il passaggio transgenerazionale delle emozioni: viaggio nella

psicogeneaologia

La maggior parte delle volte, al concetto di eredità dei caratteri si associa la

trasmissione genitori-figli di caratteristiche morfologiche, costituite per esempio

dallo stesso colore degli occhi o dei capelli, la statura, i lineamenti del viso, ecc…

tutti caratteri ereditati dalle generazioni precedenti.

Sicuramente sarà capitato a più persone di avere in comune con dei nonni , bisnonni

o zii alcune fobie o semplicemente il carattere simile a uno dei membri della

famiglia. Partendo da questi concetti, è dunque possibile che le emozioni o una

particolare esperienza traumatica possa essere ereditata? A tal proposito, è possibile

aprire una grande parentesi su quello che è il mondo della cosiddetta

psicogeneaologia.

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Secondo questa disciplina, l’eredità non include solo la semplice trasmissione del

colore degli occhi in un individuo , ma anche l’influenza delle esperienze ereditate

dagli antenati, dette esperienze ancestrali, che vanno a ripercuotersi, assieme ai

caratteri morfologici, proprio sulle generazioni successive.

La psicogenealogia o analisi transgenerazionale, è lo studio delle influenze

dell’albero genealogico sulla storia dell’individuo ed è piuttosto recente come

disciplina, proprio per questo è difficile trovare un corpo unitario di riferimento in

materia. Un numero via via crescente di ricercatori lavora infatti più o meno a sé

stante, senza un vero e proprio contesto teorico comune. Quest’ultimo è

oggettivamente difficile da trovare, data anche la storia recente della disciplina,

soprattutto perché ciascuno affronta la questione dal suo specifico punto di vista:

psicologico, psicanalitico, incentrato sullo sviluppo personale, sull’inchiesta, sulla

sociologia o sulla psicosomatica anche se, alcune grandi linee di fondo iniziano

comunque a essere tracciate piuttosto precisamente (Dumas, 1999).

La psicogenealogia si può, in sostanza, definire come uno studio specifico della

persona e della sua provenienza tramite l’analisi del suo albero genealogico. Questo

diventa infatti, in tale prospettiva, la base di qualsiasi nevrosi, ossessione e malattia

individuale, dato che tutti ereditiamo un’impronta psichica profonda che ci pesa

addosso come una trappola che non siamo coscienti di possedere. In realtà, l’idea che

i nostri destini e la nostra vita possano essere concretamente determinati dalla storia

psicologica delle generazioni precedenti è molto antica. La medicina cinese e

africana, per esempio, a differenza di quella occidentale, trattano qualsiasi malattia

all’interno del contesto familiare e genealogico: il rapporto con gli antenati definisce

in buona misura i legami, i diritti, i doveri e l’identità che strutturano l’essere umano,

sia a livello culturale che nella sua stessa biografia personale.

L’analisi transgenerazionale, infatti, emerge oggi un po’ dappertutto e in diverse

pratiche e scuole. Centinaia di psicanalisti e di psicoterapeuti riconoscono ormai

l’importanza dell’albero genealogico e soprattutto quella dei cosiddetti “segreti di

famiglia” e dei nodi che le generazioni si passano l’una con l’altra. Anche Freud, il

padre della psicanalisi, conosceva certamente l’importanza degli antenati nella

costituzione degli psicosomatismi individuali e collettivi. Ciascuno di noi non è solo

influenzato dal triangolo edipico “padre-figlio/a-madre” (la base di tutta la

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psicanalisi), ma anche da una serie di influenze dell’intero albero genealogico. Freud

aveva avuto l’intuizione di una trasmissione genealogica della nevrosi e conosceva

anche l’importanza che hanno i nonni nella vita di un bambino, ma non si spinse

oltre nell’indagine transgenerazionale. Il suo lungo e duro lavoro per difendere

l’origine sessuale della nevrosi gli ha fatto trascurare quella dimensione

fondamentale dell’essere umano che è la fedeltà invisibile al vissuto degli antenati.

Come si è arrivati alla conclusione che esperienze particolarmente traumatiche

possano essere trasmesse? Contrariamente a quello che viene comunemente inteso

come albero genealogico, dove sono menzionati solo nomi, cognomi e date di nascita

e di morte di tutti i membri della famiglia, il genosociogramma è il raccoglitore di

tutte le informazioni di un individuo e integra molti altri dati: la data del

concepimento (e non solo di nascita); tutti i nomi propri e non solo quello principale;

le date di matrimonio, di divorzio o di separazione; la posizione esatta dei figli nella

successione cronologica di nascita (conteggiando anche gli aborti spontanei o

volontari e precisandone, se possibile, il sesso); le malattie e le date in cui queste

sono emerse; gli eventuali ricoveri ospedalieri, i trattamenti subiti e i loro esiti; la

tipologia e la data dei vari eventi significativi della vita delle persone (guerre,

incidenti, dispute notarili o legali, aggressioni, abusi, tradimenti ecc.); il contesto

economico e sociale; la professione; i cambiamenti di casa o di lavoro; la condizione

economica; i legami fra i diversi membri della famiglia; le affinità; le città in cui

abitano i vari membri; l’età in cui c’è stato un trasferimento; le morti inspiegabili; gli

abbandoni; i figli illegittimi; i processi; le eredità e i diseredi; i vizi (alcool, gioco..)

etc.

Una pioniera assoluta in questo campo è Anne Ancelin Schützenberger, medico e

resistente antinazista, psicoterapeuta e psicanalista, insegnante di psicologia sociale e

clinica a Nizza, la quale ha introdotto per prima il concetto di “sindrome di

anniversario” e la pratica del “genosociogramma”. Mentre lavorava con dei malati

terminali, Schützenberger iniziò a scoprire nelle biografie di questi dei sorprendenti

fenomeni di ripetizione, e in parallelo quanto e come questi stessi pazienti si

identificassero sempre con delle persone della propria famiglia scomparse da anni. A

partire da queste constatazioni, Schützenberger iniziò a elaborare il

genosociogramma, un albero genealogico particolare che privilegia i forti

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avvenimenti e gli shock (malattie, nascite, incidenti, morti precoci o violente,

matrimoni, traslochi, partenze, separazioni ecc.), mettendo in evidenza , tramite una

rappresentazione grafica d’insieme di tutta la famiglia per almeno sei generazioni, i

legami prioritari, sia negativi che positivi, dimenticati o negati al punto da diventare

“inconsci psicogenealogici”. Gli eventi significativi della vita di una persona

accadono alla stessa età o nello stesso periodo in cui il padre, la madre, un fratello,

una sorella o un’altra persona della famiglia ha vissuto la medesima situazione o

qualcosa di altrettanto significativo, come per un fenomeno di identificazione

inconscia o di legame familiare invisibile. Il genosociogramma serve appunto a

mettere in evidenza le coincidenze di date, di età, di configurazione e tutte le

ripetizioni e le “coincidenze”, troppo frequenti e sistematiche per essere imputate al

caso. Analizzate le situazioni del passato da un minimo di tre fino a nove generazioni

precedenti, emergono infatti delle ripetizioni sconcertanti, “coincidenze” di età e

addirittura dei periodi (date) in cui accadono gli eventi determinanti nella vita delle

persone di una stessa famiglia.

Anche il contesto in cui le persone sono nate è molto importante e quindi gli usi e

costumi, le crisi, le mode, tutto entra nel genosociogramma e ne determina alcuni

aspetti importanti: l’epoca è la nicchia ecologica del loro ecosistema, dice

Schützenberger, perché influisce anche nella scelta dei nomi, che si ripetono molto

spesso in una famiglia e costituiscono quindi un segnale importante della “sindrome

di anniversario”. La sindrome di anniversario può manifestarsi anche in

conseguenza (e coincidenza temporale) di un avvenimento critico, triste, difficile o

drammatico che è successo alle generazioni precedenti: in questi casi si assiste

spesso al verificarsi di un incidente, di una malattia fisica grave o di un episodio

psicotico, allorché i discendenti arrivano all’età che aveva, all’epoca, il parente che

ha vissuto quell’avvenimento.

Esistono molte persone, inoltre, che sono angosciate e depresse ogni anno sempre

nello stesso periodo, senza nemmeno sapere perché: molti casi di fragilità fisica e

psichica avvengono proprio in coincidenza di un anniversario familiare. È proprio

questo passaggio temporale, che corrisponde alla stessa età di morte di un padre, di

un fratello, di una madre o di un altro consanguineo, che Schützenberger chiama

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“stress da anniversario”. Tra i moltissimi casi di manifestazione della ripetizione

dell’albero genealogico studiati da Schützenberger, vale la pena di citare quello del

“bambino di sostituzione”, il quale costituisce senz’altro uno dei casi più

emblematici che la dottoressa abbia analizzato. Il “bambino di sostituzione” è un

bambino che nasce dopo un fratello o una sorella morti in tenera età. Questa morte

lascia ovviamente un vuoto profondo e un dolore molto forte, tanto da rendere

l’elaborazione del lutto molto difficile, se non addirittura impossibile.

Per colmare questo dolore, molte famiglie generano spesso un altro figlio: è questo

che viene chiamato “bambino di sostituzione”, vale a dire un figlio che deve

sostituire il primogenito, del quale generalmente porta anche il nome e che è quindi

condannato a non essere sè stesso, a non possedere una propria identità. Tutto ciò ha

ovviamente delle conseguenze di non poco conto sullo sviluppo della personalità: i

figli di sostituzione esistono solo perché ricoprono il ruolo di un altro, sono quindi

privi di identità definita e sono destinati a vivere molti problemi prima di riuscire ad

esprimersi compiutamente. Sono inoltre animati da una disperata ribellione contro il

ruolo passivo che è stato loro assegnato e a cui non possono sottrarsi: si spingono

quindi di continuo in attività e comportamenti che possono anche risultare rischiosi

per la loro stessa sopravvivenza. La loro esistenza è plasmata a priori secondo la

forma che i genitori hanno inconsciamente scelto, perché il figlio sostitutivo è prima

di tutto una proiezione dei desideri e delle aspettative dei genitori.

Nell’ambito della psicogenealogia, un altro aspetto fondamentale è il concetto delle

memorie familiari invisibili, legami di causa-effetto che si producono tra un

avvenimento del passato e una problematica attuale. I membri di uno stesso uno

stesso clan e i loro discendenti sono fedeli a questa memoria e sono diretti nel loro

vissuto, nella loro fisiologia e nel loro comportamento da questa memoria: è uno

stesso clan e i loro discendenti sono fedeli a questa memoria e sono diretti nel loro

vissuto, nella loro fisiologia e nel loro comportamento da questa memoria: è la

“fedeltà familiare invisibile” o “forza familiare invisibile”, che introduce la nozione

di dramma familiare.

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È necessario ricordare che queste memorie trasmesse di generazione in generazione

sono completamente inconsce e dunque invisibili: esse si esprimono all’insaputa

delle persone tramite i loro atti, nelle loro evoluzioni psico-affettive, professionali e

somatiche. In breve, esse dirigono l’individuo, sotto una forma che si potrebbe

definire “pulsionale”.

Il concetto di fedeltà familiare invisibile corrisponde a una sorta di ordine , un diktat,

a cui sono sottoposti inconsciamente tutti i membri di una famiglia, in seguito a un

evento scatenante che può avvenire anche a generazioni di distanza. Per comprendere

meglio tale concetto, Schutzenberger riporta alcuni esempi tratti dalle proprie

esperienze cliniche:

1) violenze sessuali o corporali subite dalle donne del clan familiare: la fedeltà

familiare invisibile produce il diktat che le donne devono essere più forti per

proteggersi. L’effetto è di produrre delle donne mascoline, che hanno

un’enorme difficoltà a vivere dei rapporti di coppia e che al massimo trovano

solo uomini sensibili, dolci e fondamentalmente depressi;

2) morti precoci all’interno di una famiglia, sia di bambini che di giovani: la

fedeltà familiare invisibile si esprime tramite la domanda “perché fare dei

figli se muoiono presto?” Uno degli effetti che derivano da questa fedeltà

invisibile, tra gli altri, è la sterilità;

3) una donna, magari una nonna, ha avuto un figlio che è morto giovane a causa

di un incidente: il diktat della fedeltà familiare invisibile è “vedere un

bambino mi ricorderebbe troppo il mio trauma, meglio non fare dei maschi”.

L’effetto è la difficoltà a concepire dei figli maschi, anche se tutto funziona

bene e si hanno già avute delle altre figlie femmine.

Il concetto di fedeltà familiare invisibile è stato introdotto da Ivan Boszormenyi-

Nagy, un ungherese di adozione statunitense, il quale parla di una sorta di

“libro dei conti di famiglia” , che produce un debito o un credito per ciascun

componente: ogni storia illustra a suo modo questo fenomeno, il cui denominatore

comune è appunto, il debito da pagare che risulta dal bilancio della famiglia. Questi

debiti possono essere reali (vero e proprio denaro) oppure simbolici.

Il concetto fondamentale su cui si basa questo approccio è quello di legame familiare

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invisibile, che rinvia a due diversi ma integrati livelli di comprensione: quello

sistemico (sistema sociale o di gruppo) e quello individuale (psicologico). Il “legame

familiare invisibile” è costituito dall’unità sociale, la quale dipende dal legame che

esiste tra i membri della famiglia, e dalle motivazioni proprie di ciascuno dei suoi

membri. Dal concetto di legame familiare invisibile deriva quello di “giustizia

familiare”: quando non c’è giustizia si instaura ovviamente un’ingiustizia, la quale

continua a ripetersi nel corso delle generazioni catalizzandosi in malattia, incidenti o

comunque in eventi negativi che continuano a influire sulle persone di una stessa

famiglia, finché non si raggiunge un equilibrio ed è ristabilita una “giustizia

familiare”. È per questo che Boszormenyi-Nagy parla di una specie di grande “libro

dei conti” di famiglia, tramite il quale è possibile stabilire il debito o il credito che

ogni famiglia ha ancora in sospeso: debiti, obbligazioni, errori che hanno originato –

di generazione in generazione – tutta una serie di problemi che continuano a

perdurare.

3.3.1 La Psicogenealogia e l'Epigenetica. La vera eredità: il comportamento dei

nonni cambia i geni dei nipoti.

Lo stile di vita influisce sui geni e si ripercuote, per almeno 5 generazioni, sui

discendenti (2015). Come questo avvenga è materia di una nuova ricerca scientifica

studiata e sostenuta dalla neodisciplina, l’Epigenetica. Molti ricercatori ammettono,

alla luce dei nuovi risultati, lo sbaglio: i geni non sono tutto. Sequenziato il DNA e

scoperto che i geni sono solo 20-25 mila, è stato subito evidente che all'appello

mancavano informazioni: quelle con le quali l'ambiente comunica col DNA.

L'Epigenetica, nuova branca della genetica studia come i fattori ambientali quali

dieta, stress, nutrizione materna e sostanze inquinanti possono cambiare la funzione

dei geni senza alterare in alcun modo la sequenza del DNA. Questi fattori sono

ereditari, vengono cioè trasmessi alle generazioni successive. Andrea Baccarelli,

docente di epigenetica ambientale alla Harvard University di Boston , ha affermato

che nei topolini utilizzati negli esperimenti, questa eredità si è presentata per ben 4-5

generazioni, ma per quelle successive, poichè nessuno è ancora andato oltre la

ricerca, non ci sono evidenze (Patitucci, 2015). Tutti questi passi avanti fatti

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nell’ambito della scienza che hanno portato l’epigenetica in primo piano, allo stesso

stadio in cui si trovava per intenderci la genetica 20 anni fa, possono essere

considerati come la rivincita postuma di Jean Baptiste de Lamarck , l’unico

naturalista nella storia da sempre convinto che gli organismi fossero controllati da

influenze ambientali ereditabili (Patitucci, 2015).

Secondo una ricerca portata avanti da un gruppo di scienziati della Emory University

di Atlanta su alcune cavie, è stato possibile evidenziare la presenza di ricordi dei

nonni nei loro nipoti (Patitucci, 2015). Di nonno in nipote è una eredità speciale e

dimostra come il patrimonio emozionale venga trasmesso alle generazioni

successive. I ricordi dei nostri nonni si possono trasmettere influenzando

l’espressione del DNA e influenzando così, lo sviluppo cerebrale e i comportamenti

futuri. La scoperta, benché su animali, potrebbe avere implicazioni sul fronte degli

studi transgenerazionali dato che potrebbe spiegare, ad esempio, perché un evento

traumatico che ha coinvolto un antenato continui a influenzare la famiglia molte

generazioni dopo. Inoltre, tale studio fornisce un’evidenza del fenomeno della

cosiddetta “eredità epigenetica transgenerazionale”, ossia una condizione in cui

l’ambiente esterno influenza la genetica di un individuo, ne modifica il DNA,

rendendo questo cambiamento ereditabile (Patitucci, 2015).

A sostenere quanto appena detto, è un ulteriore recente studio americano effettuato

su alcuni sopravvissuti alla Shoa, il quale ha evidenziato segni di tale esperienza nel

DNA della prole. Gli scienziati americani hanno analizzato il DNA di 32 ebrei,

uomini e donne, deportati nei lager nazisti e dei loro figli, scoprendo in questi ultimi

alterazioni genetiche collegabili a deficit dell’attenzione, stress e depressione, assenti

nelle famiglie di origine ebraica vissute lontano dall’Europa durante la guerra. Le

modifiche appaiono, in particolare, correlate a un gene, “fkbp5”, coinvolto nella

regolazione degli ormoni dello stress e nella capacità di reagire a eventi estremi. Le

analisi genetiche hanno inoltre escluso la possibilità che i cambiamenti siano il

risultato di un trauma di cui i figli dei sopravvissuti all’Olocausto hanno fatto

esperienza diretta, portando i ricercatori ad associarli alla terribile esperienza dei

lager. L’idea che le esperienze di vita di un individuo possano trasmettersi alle future

generazioni, modificandone il DNA, è nata solo di recente, negli Anni 2000, fino a

trovare sempre più consenso tra genetisti e biologi molecolari. Gli esperti

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definiscono questa nuova branca della biologia “epigenomica”. In pratica, ogni

individuo non è la semplice sommatoria numerica dei propri geni. Un ruolo chiave

nel definire le caratteristiche personali è, infatti, svolto da fattori esterni, ambientali.

Fattori come fumo, dieta e stress, incidono sull’attività del DNA attraverso l’aggiunta

di piccoli gruppi chimici, simili a etichette, che sono in grado di spegnere e

accendere specifici geni, ad esempio solo in alcuni tessuti e organi. Studi recenti

hanno dimostrato che queste etichette chimiche che regolano l’attività genica

possono essere trasmesse ai figli, anche se i dettagli molecolari con cui avviene

questa trasmissione sono ancora poco noti . Uno studio olandese ha dimostrato che le

donne nate in Olanda alla fine della Seconda guerra mondiale, in un periodo di fame

e povertà, hanno un rischio superiore alla media di sviluppare forme di schizofrenia(

2015). Un altro studio, pubblicato lo scorso anno sull’European Journal of Human

Genetics dimostra, inoltre, che gli uomini che fumano prima della pubertà hanno una

maggiore probabilità di concepire figli maschi in sovrappeso rispetto agli altri padri

(Patitucci, 2015). La ricerca made in Usa dimostra adesso che anche l’inferno dei

lager nazisti può lasciare tracce nel patrimonio genetico. Un lascito che è anche una

forma di resilienza biologica, una prova cioè di come la natura tenti di resistere e

contrastare le situazioni di maggiore stress (Patitucci, 2015).

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Capitolo 4

4.1 Viaggio dentro il centro della genetica: il DNA “spazzatura”

Fin dai primi studi nel campo genetico, si è sempre pensato che il nostro genoma

racchiudesse geni, RNA messaggeri e proteine tradotte da quest’ultimi , senza tenere

conto però che il nostro DNA è fatto anche di molecole di RNA che fungono da

“interruttori” e di singole basi, chiamate SNPs (single nucleotide polymorphisms),

che ne influenzano il funzionamento.

Al di là di questi, di rilevante importanza sono i cosiddetti pseudogeni- definiti come

geni morti- e la presenza di una “rete funzionale” che collega tutti i vari elementi,

entrambi risultati essere oggetto di studio del consorzio di ricerca pubblico Encode

(Encyclopedia of Dna Elements), guidato dal National Genome Research Institute

americano e dall’ European Bioinformatics Institute, grazie ai quali è stato

dimostrato che nel DNA nulla si trova lì per caso (Arcovio, 2012).

Partito senza troppe pretese, il progetto Encode è riuscito ad analizzare ben 1640 set

di dati, riguardanti 147 tipi diversi di cellule. Sono stati studiati 4 milioni di geni

nuovi, la cui maggioranza funziona da “interruttore”. Il merito maggiore di tale

progetto, sta nell’aver dimostrato che il cosiddetto “DNA spazzatura” è tutt’altro che

inutile (Arcovio, 2012).

In biologia, per DNA spazzatura si intende quel DNA non codificante, ossia quella

sequenza di DNA in un genoma non soggetta a trascrizione da parte dell’RNA o

rimossa dall’RNA messaggero prima della traduzione. Poichè tali sequenze

risultavano prive di funzione, essere erano state indicate in passato con il termine di

junk DNA (DNA spazzatura). Circa l’85% del nostro genoma è stato ritenuto

“spazzatura”, ma è molto improbabile che tutto questo DNA non codificante non

abbia un qualche ruolo e questo spiegherebbe la sua preponderanza nel genoma.

Alcune sequenze non codificanti, infatti, presentano un'altissima conservazione tra

numerose specie, alcune filogeneticamente molto lontane. Recenti esperimenti hanno

evidenziato che il DNA non codificante potrebbe avere diverse funzioni, molto

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diverse dalla semplice trascrizione e traduzione (Arcovio, 2012). Questa materia

oscura, è cosi vista come il cervello da cui partono tutti i comandi per le operazioni

di accensione e di spegnimento dei geni. E’ proprio questa parte, fino ad oggi

incompresa, del codice genetico a stabilire quali geni devono sintetizzare una data

proteina, in che tempi e in quali quantità, nonostante alcuni di questi interruttori

siano molto distanti dal gene che attivano (Arcovio, 2012).

Tale scoperta porta dunque a riconsiderare il concetto di gene stesso, definito come

l’unione di sequenze genomiche che codificano per un set coerente di prodotti

funzionali, potenzialmente sovrapponibili, eliminando così la vecchia nozione

secondo la quale la maggior parte del nostro DNA non sia funzionale (Arcovio,

2012).

Il progetto Encode ha così dimostrato che quell’85% di materia oscura è in grado di

scrivere, tradurre, regolare, accendere e spegnere geni, allargare la cromatina per far

accedere al DNA proteine regolatrici e molto ancora. Le implicazioni di queste

scoperte vanno al di là della pura conoscenza. Encode ha infatti permesso di

identificare nel genoma singole basi di DNA, gli SNPs, la cui variazione può

comportare una aumentata suscettibilità a sviluppare una malattia oppure una

maggiore protezione dalle malattie stesse (Arcovio, 2012). Il progetto di ricerca ha

fornito così un elenco di SNPs (ritenuti prima non funzionali, perché si trovavano in

regioni di DNA definite desertiche) che influenzano l’accensione e spegnimento di

geni, oppure modificano la struttura del DNA rendendolo più accessibile, ad

esempio, a fattori di trascrizione e ancora inducono a produrre più RNA e quindi,

più proteina in una determinata cellula e non in un’altra (scoperta questa importante

per capire l’effetto di alcune mutazioni del cancro e la loro connessione con lo

sviluppo di neoplasie) (Arcovio, 2012).

Un discorso simile può essere fatto anche per gli pseudogeni, considerati da sempre

copie di geni non più funzionali, ma che con Encode sono stati rivisitati , assumendo

funzioni importanti come il controllo dell’attività di geni simili o di loro cloni.

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Comprendere questa trama genomica sarà utile in futuro per sviluppare farmaci

molto più efficaci in grado di agire in punti diversi della stessa rete (Arcovio, 2012).

In merito all’origine del DNA spazzatura, esistono numerose ipotesi sulla persistenza

nel genoma di ampie regioni non codificanti ma nessuna di queste è riuscita a

convincere totalmente la comunità scientifica. È comunque possibile che ogni ipotesi

sia parzialmente corretta, e che l'intero DNA non codificante presente nel genoma si

sia originato in numerosi modi diversi, alcuni dei quali descritti appunto dalle teorie

di seguito riportate:

1) Queste regioni potrebbero essere rimasugli di pseudogeni, che nel corso

dell'evoluzione avrebbero perso la loro funzione, anche a causa di eventuali

frammentazioni della sequenza codificante;

2) L'8% del DNA non codificante è stato dimostrato essere stato originato da

retrotrasposoni di HERV (dall'inglese Human Endogenous RetroVirus), ma si

ipotizza che questa percentuale possa essere ritoccata a quasi il 25% del

genoma umano;

3) Il DNA non codificante potrebbe avere una funzione protettiva nei confronti

delle regioni codificanti. Dal momento che il DNA è continuamente esposto a

danni casuali da parte di agenti esterni, infatti, una tanto alta percentuale di

DNA non codificante permette di pensare che le regioni ad essere

statisticamente più danneggiate siano in realtà gli spezzoni non codificanti;

4) Il DNA non codificante potrebbe anche essere una sorta di riserva di

sequenze al momento non codificate, ma dalle quali potrebbe emergere un

qualche gene in grado di conferire vantaggio all'organismo. Da questo punto

di vista, dunque, tali regioni costituirebbero le vere basi genetiche

dell'evoluzione;

5) Parte del DNA non codificante è ritenuto essere, più semplicemente, un

elemento spaziatore tra geni. In questo modo gli enzimi che hanno rapporti

con il materiale genetico avrebbero la possibilità di complessare più

agevolmente il DNA. Il DNA non codificante potrebbe così avere una

funzione fondamentale pur essendo composto di una sequenza assolutamente

casuale;

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6) Alcune regioni di DNA non codificante potrebbero avere una funzione

regolatoria sconosciuta: potrebbero ad esempio controllare l'espressione di

alcuni geni o lo sviluppo di un organismo dallo stato embrionale a quello

adulto;

7) Nel DNA non codificante potrebbero essere contenute numerose sequenze

trascritte in RNA ma non tradotte in proteine: questi non coding RNA sono

ancora poco conosciuti, ma si ritiene possano essere molti di più di quelli

attualmente noti;

Il ruolo del DNA spazzatura è correlato all’importanza che l’epigenetica ha assunto

nei nostri giorni. Negli ultimi 20 anni la ricerca genetica ha apportato un’enorme

quantità di dati innovativi che stanno profondamente modificando la nostra visione

degli esseri viventi e dell’ambiente in cui viviamo. La branca della genetica che sta

letteralmente rivoluzionando la nostra tradizionale visione è proprio l’epigenetica

assieme allo studio dei numerosi fenomeni ereditari in cui il fenotipo è determinato

anche da modifiche apparentemente secondarie che ne determinano però il

comportamento funzionale del genotipo. Le modifiche epigenetiche sono specifiche

segnature ereditabili che, pur non alterando la sequenza nucleotidica di un gene, ne

condizionano l’attività: la ricerca ha dimostrato come queste modifiche siano indotte

da fattori ambientali (De Gobbi, 2016).

Un “dogma” quasi indiscusso domina la biologia moderna: quello “neodarwinista”

delle mutazioni casuali del DNA e della pressione selettiva dell’ambiente. Tale

dogma trae le sue origini dalle memorabili osservazioni di Charles Darwin e

dell’abate Mendel ed è stato considerevolmente rafforzato dalla scoperta del DNA..

Fu in particolare Francis Crick a definire il Dogma Centrale, secondo il quale in

DNA sarebbe la sede del programma genetico del singolo individuo e conterrebbe

tutte le informazioni necessarie e sufficienti per la costruzione del suo fenotipo: un

modello lineare nel quale l’informazione viaggia a senso unico, dal DNA appunto

alle proteine e al fenotipo e non vi è alcun tipo di azione in senso opposto. Una

sintesi divulgativa di questo paradigma è il famoso libro del premio Nobel Jacques

Monod “Il Caso e la Necessità”: le mutazioni avvengono per caso, le necessità di

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vivere e di procreare spingono l’individuo ad adattarsi, l’ambiente crea una forte

pressione selettiva sulle varie specie ma non modifica il loro DNA (De Gobbi,2016).

Verso la fine degli anni ’90, mentre il progetto di sequenziamento del genoma umano

procedeva con sorprendente efficienza e rapidità, la ricerca cominciava a prendere

atto che i geni sono quasi sempre necessari ma non sempre sufficienti a causare le

varie malattie. Il famoso aforisma “la salute è nel DNA” cominciò ad incrinarsi

seriamente e la definizione di “ Junk DNA” con la quale si catalogava quella larga

porzione di DNA non codificante, si rivelava essere un singolare esempio di miopia

scientifica. Tornava così a riaffacciarsi tra gli studiosi di genetica la corrente di

pensiero denominata Neolamarckismo, ispirata alle intuizioni del biologo Lamarck

(accettate da Darwin, ma non ammesse dai neodarwinisti) sulle interazioni tra

ambiente e caratteri trasmessi dai genitori alla prole. Semplificando possiamo dire

che nel modello neolamarckiano la Selezione Naturale, pur essendo presente, non ha

il ruolo fondamentale che ha assunto in Darwin e l’Ambiente non svolge un ruolo

essenzialmente selettivo, ma è anche in grado di interferire con il DNA determinando

trasformazioni fenotipiche spesso trasmissibili da una generazione all’altra, che

possono favorire o ostacolare l’adattamento degli esseri viventi ed anche generare

malattie (De Gobbi, 2016).

Molto spesso si ritiene che l’epigenetica sia semplicemente una delle varie sezioni

della genetica: in realtà le marcature del DNA, il codice delle modifiche istoniche, le

interferenze degli RNA minori, sono gli strumenti epigenetici che modulano in vario

modo la trascrizione e traduzione del messaggio contenuto nel DNA. Lo studio

dell’epigenetica rappresenta pertanto lo strumento più adatto e potente per costruire

un nuovo modello di genoma sistemico: un vero e proprio network molecolare

dinamico e interattivo, al suo interno e con l’esterno. Secondo questo modello

l’epigenoma (software) si comporta come una sorta di camera di compensazione in

cui il flusso di informazioni, che proviene dall’esterno (ambiente e microambiente)

incontra e si confronta con le informazioni codificate da milioni di anni nel DNA

(cioè nell’hardware), orchestrando tutti i principali processi molecolari che

determinano le modifiche strutturali e funzionali di cellule e tessuti e concorrono alla

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continua trasformazione del nostro fenotipo, tanto in ambito fisiologico che

patologico (De Gobbi, 2016).

L’ambiente riveste il ruolo di stimolo per il nostro epigenoma. In questa prospettiva

possiamo pensare ad una ridefinizione del concetto di ambiente, sia in senso lato che

microambiente interno all’organismo (cellulare, tessutale e sistemico): con questo

termine possiamo intendere quel flusso di stimoli che raggiungono l’epigenoma

(software e camera di compensazione del genoma), inducendolo continuatamene ad

attivarsi e a modificare il proprio assetto molecolare. Per ambiente dunque si

dovrebbe quindi intendere la composizione chimico-fisica dell’atmosfera, della

biosfera, delle catene alimentari e i suoi cambiamenti: in particolare per ciò che

concerne moltissimi agenti fisici (es: le radiazioni ionizzanti e non ionizzanti),

alcune molecole (in particolare gli xenobiotici) e agenti chimici (come i metalli

pesanti) che Homo sapiens sapiens ha immesso troppo rapidamente in ambiente e

che possono interferire con l’epigenoma delle nostre cellule e quindi con

l’espressione dei geni, favorendo o sopprimendo la sintesi di particolari sostanze nel

tentativo (da parte delle cellule e dell’intero organismo) di adattarsi a un ambiente

che cambia assai più rapidamente del DNA (De Gobbi, 2016).

Development plasticity o plasticità dello sviluppo è il termine con il quale ci si

riferisce ai molti possibili fenotipi (polifenismi) che possono derivare da un unico

genoma, sulla base, nel caso dei mammiferi e dell’uomo in particolare, delle

informazioni che provengono dalla madre e dall’ambiente. Secondo le acquisizioni

dell’epigenetica infatti, il DNA non conterrebbe il programma genetico

dell’individuo, ma semplicemente un’enorme quantità di informazioni potenziali che

sono il portato di miliardi di anni di evoluzione molecolare. Invece il programma

genetico definitivo del singolo individuo si formerebbe nei nove mesi

dell’ontogenesi embrio-fetale, sulla base delle informazioni provenienti

dall’ambiente e, come detto, sulla conseguente programmazione epigenetica

predittiva di organi e tessuti (fetal programming) : è insomma l’ambiente a estrarne il

fenotipo definitivo. E’ possibile trovarsi difronte ad una insufficienza del fetal

programming, cioè a una mancata o imperfetta corrispondenza tra programmazione

in utero e realtà postnatale, che potrebbe essere all’origine di alcune patologie

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umane. L’esempio che meglio chiarisce le potenziali conseguenze di questa

incongruenza tra sviluppo fetale e vita dell’adulto è quello della denutrizione

materno-fetale: è stato dimostrato, in particolare da seri studi epidemiologici condotti

in Olanda e in URSS, come in situazioni di gravi deficit nutrizionali materno-fetali

vi sia un adattamento del feto e quindi del bambino alla scarsità di nutrienti. Tuttavia

quando questi i bambini divengono adulti una normale alimentazione e in particolare

una modesta iperalimentazione favoriscono le malattie metaboliche con frequenza

significativamente superiore ai feti/bambini non denutriti. Un interessante filone di

ricerca è volto a verificare se tali meccanismi possano contribuire a spiegare quella

che l’OMS ha definito la pandemia di obesità e diabete di tipo 2, e che sembrerebbe

configurarsi come un cambiamento fenotipico (e programmatico) maggiore,

concernente un’intera specie (De Gobbi. 2016).

4.2 Epigenetica e “Junk DNA” : il riscatto di Lamarck?

Nel corso degli ultimi due decenni, si sono sempre più diffusi in letteratura

scientifica studi riguardanti le influenze dell’ambiente sulle caratteristiche degli

organismi viventi. Questi studi analizzano le modalità con cui il fenotipo di un

organismo e della sua progenie possa essere modificato modulando l’attività dei

geni, senza che questo tipo di ereditarietà sia basato sulla trasmissione di sequenze

alterate di DNA. Nel solo anno 2015 sono stati pubblicati circa diecimila articoli su

riviste scientifiche in merito a tale argomento. Nonostante all’apparenza possa

sembrare una scienza nuova, l’epigenetica affonda le sue radici addirittura nella

cultura ellenica; quando, per primo, Aristotele ipotizzò che l’ambiente potesse

influenzare le caratteristiche di un individuo e soprattutto che queste potessero essere

trasmesse ai suoi discendenti (Berni et al., 2016).

Tuttavia, la prima ipotesi scientifica sull’eredità è attribuibile a Malpighi (1673), che

propose la teoria secondo la quale l’embrione esisterebbe già preformato all’interno

della cellula germinale. La visione di Malpighi fu successivamente ampliata, tanto da

creare un dibattito tra due scuole di pensiero: la prima, quella detta del

“preformazionismo”, che prendeva per l’appunto le mosse dalla primordiale idea del

Malpighi, e che credeva che tutti gli elementi di un organismo adulto fossero già

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presenti totalmente formati nell’uovo e semplicemente espressi durante la crescita.

La seconda scuola, detta dell’epigenetismo (da non confondere con l’epigenetica,

parola coniata solo successivamente da Waddington, 1942) considerava i tratti

caratteristici degli organismi una conseguenza della progressiva interazione tra le

parti costitutive dello zigote con il contesto in cui esso si sviluppava (Berni et al.,

2016).

Jean-Baptiste Lamarck (1744- 1829) giocò un ruolo fondamentale nell’evoluzione

del pensiero epigenetico, infatti nel suo famoso lavoro “Philosophie Zoologique ou

Exposition des Considérations Relatives à L’historie Naturelle Des Animaux”,

Lamarck espose la sua teoria sull’ereditarietà delle caratteristiche acquisite,

conosciuta come soft inheritance (acquisizione di fenotipi attraverso eredità non

genetiche), la quale costituì una prima cornice per l’evoluzione. Tuttavia le teorie

evoluzionistiche di Darwin prevalsero nettamente su quelle lamarckiane, relegando

all’angolo le idee del francese. Solo alcuni anni dopo, Georges Cuvier (1769-1832) e

Geoffroy Saint-Hilaire (1772-1844), grazie ai loro studi, apportarono nuova linfa alle

idee di Lamarck, gettando le basi di una nuova scienza che, di lì a breve, avrebbe

preso il nome di epi-genetica. Difatti nella prima metà del ventesimo secolo, periodo

di fermento per la genetica e per le teorie sull’ereditarietà, Conrad Waddington

(1905-1975), coniò il termine “Epigenetica” . Attraverso una metafora, egli ipotizzò

che l’ambiente potesse influenzare le vie di sviluppo e le rotte evolutive. Waddington

infatti descrisse la maturazione di un embrione come la discesa di una sfera in un

paesaggio di montagna. La sfera, spinta dalla forza di gravità, avrebbe potuto

raggiungere la valle percorrendo i solchi tra le montagne che rappresentavano per

Waddington le differenti vie di maturazione (Berni et al., 2016).

Il primo scienziato che definì un solco tra ereditarietà genetica e non genetica fu D.L.

Nanney che, con il suo lavoro “Epigenetics control systems” (1958). Per le prime

evidenze sperimentali molecolari dell’epigenetica, bisogna però aspettare la fine

degli anni settanta, quando Riggs, Holliday e Pugh(1996) per primi dimostrarono che

il DNA poteva essere metilato nei batteri. A partire da queste evidenze, grazie anche

alle nuove tecnologie disponibili, iniziò un susseguirsi di scoperte sensazionali

ancora oggi viste come le fondamenta dell’epigenetica (Berni et al.,2016).

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Possiamo a questo punto definire l’epigenetica come l’insieme delle modificazioni

reversibili, indotte dall’ambiente, che agiscono sul patrimonio genetico,

conferendogli un’architettura variabile ed ereditabile. Per alcuni versi, l’epigenetica

potrebbe essere vista come una riscoperta delle idee di Lamarck, nonché un punto di

contatto tra queste e la teoria di Darwin. La riconciliazione tra queste due teorie è

essenzialmente riassunta nel cosiddetto “Effetto Baldwin”: i caratteri individuali

acquisiti dai membri di un gruppo di organismi possono eventualmente, sotto

l’influenza della selezione, essere rinforzati o replicati da fattori ereditari simili.

Baldwin (1896) propose l’idea che l’ambiente induca modificazioni

comportamentali, psicologiche e strutturali non ereditabili, a meno che queste non

siano vantaggiose per la sopravvivenza. Queste modifiche sono favorite dalla

selezione naturale e tendono a diffondersi nella popolazione nel corso delle

generazioni. Il risultato è un adattamento, originariamente individuale e non

ereditabile che si trasforma in una caratteristica ereditaria. Questo chiarì il concetto

di “assimilazione” espresso nel 1942 da Waddington (Berni et al., 2016).

L’obiettivo degli studi epigenetici quindi è quello di identificare l’espressione

fenotipica e le modalità di trasmissione di quest’ultima. Uno dei problemi legati agli

studi epigenetici è proprio la scelta del fenotipo da studiare. Il termine fenotipo non è

usato per comunicare un tratto fisico unitario (comportamentale, psicologico o

morfologico) ma, nella maggior parte dei casi, per intendere il consolidamento di

molteplici tratti. In conclusione l’epigenetica è l’ingrediente fondamentale per la

profonda comprensione delle interazioni gene-ambiente (Berni et al., 2016).

Da quanto detto finora, risulta chiaro che esiste una netta distinzione tra modifiche

genetiche ed epigenetiche, sebbene il risultato finale in alcuni casi possa essere

sovrapponibile. Le modifiche genetiche sono rappresentate dalle mutazioni, che

avvengono casualmente nel genoma e non sono reversibili, se non con bassa

probabilità. Queste modificazioni permettono di acquisire nuove caratteristiche in

grado di conferire una fitness (successo riproduttivo) positiva o negativa

all’organismo, incanalandolo nella teoria evoluzionistica di Darwin. Le

modificazioni epigenetiche agiscono in punti specifici del DNA sotto l’influenza di

precisi segnali e soprattutto sono molto più facilmente reversibili. Un’ulteriore

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differenza sostanziale tra mutazioni genetiche e variazioni epigenetiche è il loro

rapporto con l’ambiente. Infatti l’epigenetica potrebbe essere considerata una

rivisitazione delle teorie di Lamarck, secondo cui l’ambiente induce modifiche

fenotipiche agli organismi. Ciò che invece accomuna modificazioni genetiche ed

epigenetiche è la loro ereditabilità (Berni et al., 2016).

4.3 L’eredità delle emozioni

Molte delle nostre insicurezze e delle nostre paure le abbiamo ereditate

geneticamente dai genitori e, probabilmente, le passeremo ai nostri figli e nipoti.

Ricercatori svizzeri, dopo una ricerca condotta su topi da laboratorio, affermano che i

traumi vengono trasmessi di generazione in generazione; la chiave del processo è

nell'RNA, l’acido ribonucleico, il quale fa sì che le esperienze negative vengano

trascritte nel nostro patrimonio genetico (Magrinelli, 2017).

Il nostro codice genetico comprende perciò anche le paure e i traumi vissuti dai

genitori, meccanismo di trasmissione che interesserà poi anche le generazioni

successive. La scoperta arriva dall'Università di Zurigo , dove un gruppo di

ricercatori ha individuato i componenti chiave di questo processo nell'RNA. Qui

sono contenute piccole frazioni di materiale genetico, che veicolano il "ricordo" delle

esperienze negative degli avi (Magrinelli, 2017).

Gli studiosi hanno analizzato il comportamento di topi da laboratorio, dove sono stati

confrontati animali adulti esposti a traumi con altri topi non traumatizzati,

pubblicando i risultati sulla rivista Nature Neuroscience. Studiando il numero ed il

tipo di RNA nei roditori sottoposti a stress, è stato scoperto che le condizioni

negative alterano la quantità di RNA nel sangue, nel cervello e nello sperma. Le

modifiche così, causano una trasmissione differente nei processi cellulari controllati

proprio da questi frammenti di materiale genetico (Magrinelli, 2017).

Il tutto viene trasmesso ai figli e successivamente ai nipoti e i ricercatori hanno

spiegato di essere riusciti a dimostrare per la prima volta che le esperienze

traumatiche influenzano anche il metabolismo nel lungo termine e che questi

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cambiamenti sono ereditari. E’ stato inoltre dimostrato che gli effetti sul

metabolismo e sul comportamento si sono trasmessi fino alla terza generazione

(Magrinelli, 2017).

L’eredità dunque risulta più strana di quanto sembri. Di solito, l’odore dolciastro del

cibo non fa scappare i ratti ma quando è stato associato il profumo simile di arancia,

ciliegia e mandorla emesso dall’acetofenone assieme ad una scossa elettrica, gli

animali hanno velocemente risposto a questo odore con risposte comportamentali

tipiche della paura. Questo comportamento è associato alla comparsa di nuovi

neuroni negli epiteli olfattivi e nei centri di elaborazione degli odori presenti nel

cervello, il che rende i soggetti fortemente sensibili all’odore dell’acetofenone

(Magrinelli, 2017).

Fino a questo punto, questi risultati sembrano alquanto normali e comprensibili,

quello che però è strano è che i figli di questi ratti ed i figli dei loro figli mostravano

la stessa risposta di paura che si era creata nei ratti sottoposti al test. Anch’essi

avevano la corteccia celebrale più sviluppata, sebbene questa prole non fosse mai

stata a contatto con i propri padri/nonni (gli unici ad essere stati condizionati

dall’esperimento) e senza nemmeno essere mai stati sottoposti all’acetofenone.

Com’è possibile allora che questi ratti abbiano ereditato qualcosa che i loro

genitori/nonni hanno imparato?

Figura 4.1 In figura rappresentazione grafica della reazione dei topolini

all’acetofenone. (Magrinelli, 2017).

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La genetica ci spiega che solamente le informazioni contenute nel DNA vengono

tramandate alla prole. Caratteristiche quali memoria, cicatrici o una muscolatura

robusta non possono essere ereditate, in quanto la loro acquisizione non altera il

genoma. Tuttavia il condizionamento indotto in questi ratti da laboratorio ha

provocato a tutti gli effetti dei cambiamenti genetici, non nella sequenza del DNA

stessa, ma nel modo in cui questa viene letta e usata nel corpo dei ratti (Magrinelli,

2017).

In ogni cellula esiste un macchinario molecolare che traduce costantemente le

sequenze di DNA nelle proteine necessarie per effettuare i processi biologici. La

sequenza di DNA possiede alcuni interruttori molecolari che possono accendere o

spegnere diverse sequenze di DNA, dicendo ai macchinari molecolari quali proteine

produrre e in quale quantità. Questi interruttori, chiamate etichette epigenetiche, sono

uno dei motivi per i quali una cellula di rene ha struttura e funzione diverse da una

cellula epiteliale o nervosa, sebbene tutte queste cellule abbiano lo stesso DNA. Gli

interruttori che agiscono sul DNA non sono tuttavia immutabili. L’aver insegnato ai

ratti ad avere paura di un certo odore, l’acetofenone, ha causato una forte modifica in

uno di questi interruttori. Non si sa esattamente in quante parti del corpo del ratto

questo cambiamento abbia avuto luogo, ma si sa per certo che esso ha avuto luogo in

un gruppo di cellule fondamentali: gli spermatozoi. Queste cellule passano le

informazioni alla prole, facendo in modo che anche le nuove generazioni siano a loro

volta molto sensibili all’acetofenone (Magrinelli, 2017).

Questo fenomeno non è stato osservato limitatamente ai ratti. In Overkalik, Svezia,

nel 19° secolo alcuni ragazzi che durante l’inverno hanno sofferto periodi di carestia

hanno poi avuto figli con un’ottima salute, con tassi di problemi cardiaci e diabete

molto bassi e lo stesso si è verificato nei loro nipoti, i quali sono anche riusciti a

vivere ben 32 anni oltre la media di figli e nipoti di persone che non avevano patito la

fame come i loro nonni. Tutto questo non vuol dire che dovremmo cominciare a

malnutrire i nostri figli, gli scienziati non sanno affatto quale sia stato l’interruttore

genetico ad essere stato alterato in questi casi. Sebbene con i topi siamo riusciti a

collegare direttamente alcuni di questi interruttori genetici con cambiamenti

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specifici, siamo ancora molto lontani dal riuscire a farlo nell’uomo, dopotutto è

difficile tenere in considerazioni tutte le variabili che costituiscono la nostra vita

quotidiana, molto più numerose e in alcuni casi più instabili dell’ambiente

controllato delle cavie da laboratorio (Magrinelli, 2017).

E’ chiaro che l’influenza Lamarckiana è ben presente; gli stimoli ambientali

incontrati da un individuo nel corso della vita, influenzano il genoma mediante

meccanismi epigenetici che regolano l'espressione dei singoli geni. Tuttavia, finora

gli studi su una possibile trasmissione dei fattori epigenetici alle generazioni

successive hanno dato risultati parziali e non conclusivi, oppure validi solo in

specifiche condizioni. D'altra parte, le ricerche comportamentali hanno dimostrato

che l'esperienza può essere trasmessa con meccanismi culturali, intesi nel senso più

ampio del termine. Esperienze traumatiche o paurose possono essere condivise con i

propri simili e quindi tramesse anche con le generazioni più giovani per imitazione.

Dias e Ressler (2014) hanno dimostrato nei topi che informazioni specifiche

possono essere trasmesse alle due generazioni successive tramite le cellule

riproduttive, senza alcuna prossimità tra genitori e figli. Qualcuno già parla, di un

ritorno di Lamarck. Ma i risultati dell’esperimento realizzato dal neurobiologo

Ressler ed il suo giovane collaboratore, Dias, mostrano che in alcuni casi è possibile

la “trasmissione ereditaria dei caratteri acquisiti” teorizzata, oltre due secoli fa, dal

naturalista francese. Ma va anche detto che questi risultati non sminuiscono in alcun

modo l’importanza che ha la “selezione naturale del più adatto” nell’evoluzione

biologica, così come proposta da Charles Darwin. Ressler e Dias sostengono che non

sia possibile il cervello dei topolini figli e nipoti abbia ereditato la modifica

strutturale subita dal cervello del parente (in seguito all’esperienza che associa

l’odore dell’acetofenone al dolore fisico) per una pura casualità. Il topo originario ha

dunque trasmesso alla sua discendenza un carattere acquisito nel corso della sua vita;

possibilità prevista dalla teoria dell’evoluzione biologica che Jean-Baptiste Pierre

Antoine de Monet, cavaliere di Lamarck, propose nel 1809 nella sua opera più

celebre: la Philosophie zoologique. Teoria sostanzialmente negata dalla teoria

dell’evoluzione biologica per selezione naturale, che premia gli organismi più

adattabili, proposta da Charles Darwin nel 1859 (Corbis, 2013).

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Com’è noto la teoria darwiniana è oggi quella dominante in biologia. Darwin non

conosceva però il meccanismo mediante il quale i genitori trasmettono alla prole i

propri caratteri, così oggi la genetica ci fornisce la spiegazione molecolare. I caratteri

ereditari sono inscritti nel DNA che i genitori trasmettono con modificazioni casuali

alla loro prole e la selezione naturale premia statisticamente le modificazioni che

offrono un vantaggio adattativo e puniscono quelle che rappresentano uno svantaggio

(Corbis, 2013).

Un’esperienza come l’esposizione all’acetofenone o il dolore provocato da una

scossa elettrica non modifica il DNA. Dunque, secondo la teoria genetica della

selezione naturale, non può essere trasmessa ai figli. Difatti, Ressler e Dias non

hanno trovato alcuna modificazione del DNA nei loro topolini associabile al

combinato disposto dell’esposizione all’acetofenone e del dolore provocato dalla

scossa elettrica. Allora, come si spiega il “ricordo” che i figli e i nipoti hanno

dell’esperienza del topo originario? Si può spiegare nelle cause esterne al DNA che

determinano anche l’espressione stessa del DNA, nonché l’epigenetica (Corbis,

2013).

Nello specifico dell’esperimento di Ressler e Dias, i topolini hanno nei loro cervelli

un numero maggiore di neuroni sensibili all’acetofenone e questi neuroni sono

associati ai neuroni sensibili al dolore. Tuttavia le modalità con le quali

l’informazione epigenetica si trasmette di genitore in figlio non è chiara. Ressler e

Dias suggeriscono che il meccanismo possa essere associato alla metilazione del

DNA, aspetto però non ancora approfondito (Corbis, 2013).

La trasmissione ereditaria dei caratteri acquisiti osservata da Ressler e Dias non

costituisce una novità in quanto sono molti anni che i biologi forniscono prove

piuttosto fondate sulla trasmissione di alcuni caratteri acquisiti. Già cinquant’anni fa

l’americano Tracy Morton Sonneborn ,dimostrò che il Paramecium aurelia, un

protozoo, può trasmettere alla progenie le cicatrici superficiali che ha acquisito

(Corbis, 2013).

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Nei processi di riproduzione sessuata, durante la coniugazione, due cellule di

Paramecium si appaiano formando un ponte citoplasmatico attraverso il quale

avviene lo scambio di materiale genetico. Quando i partner si separano, ognuno

riacquista la sua struttura superficiale normale; a volte però, a causa di una

separazione difettosa, uno dei partner mantiene un frammento della superficie

dell’altro e trasmette poi questa struttura superficiale cicatriziale ai suoi discendenti

per molte generazioni. Analogamente, cellule di lievito che vengono esposte per un

breve periodo di tempo a un determinato zucchero cambiano il loro metabolismo per

poter utilizzare tale zucchero come alimento. Quando lo zucchero è rimosso, le

cellule “ricordano” come digerirlo e trasmettono questa informazione per centinaia di

generazioni. Questi cambiamenti ereditabili non implicano modifiche del DNA: nel

primo caso la superficie cellulare sembra funzionare da stampo per produrre una

nuova superficie organizzata in modo identico, mentre nel secondo a essere

trasmesso è probabilmente uno stato metabolico che rimane fissato sia nella cellula

originale sia nelle cellule figlie (Schatz, 2009).

Ma talvolta l’ambiente può indurre anche modificazioni “mirate” del genoma. Se

viene esposta a raggi ultravioletti nocivi la pianta Arabidopsis aumenta la velocità

dei processi di riparazione e rimodellamento del DNA nel tentativo di ridurre i danni,

e sorprendentemente continua a farlo per diverse generazioni dopo la rimozione della

fonte di luce ultravioletta. Quando certi batteri sono esposti al calore o a sostanze

tossiche riarrangiano parti del loro DNA allo scopo di generare nuovi tipi di proteine

di difesa. Sebbene non sia ancora stato dimostrato, probabilmente anche noi umani

possiamo adattare parti del nostro genoma in maniera finalizzata e trasmettere questi

cambiamenti ai nostri figli (Schatz, 2009).

Ulteriori studi in merito alla trasmissione dei traumi, sono stati condotti dal gruppo

del Center for Reproductive Biology della Washington University , il quale ha

realizzato una serie di esperimenti utilizzando un interferente endocrino (sostanza

capace di legarsi a recettori di vari ormoni), il pesticida “vinclozolina”, che ha una

documentata attività anti-adrogena. In un primo esperimento, i ricercatori hanno

dimostrato che l’esposizione di un animale al pesticida di un animale, nel momento

del suo sviluppo sessuale, causa un effetto transgenerazionale sulla fertilità maschile

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e sulla funzione testicolare: più del 90% dei maschi delle successive quattro

generazioni analizzate avevano, infatti, una ridotta capacità spermatica. L’analisi

epigenetica ha confermato alterazioni nella metilazione di geni e sequenze di Dna, di

derivazione paterna, che risultano associate alle malattie riscontrate (Bottaccioli,

2013). Lo stesso gruppo di ricercatori più recentemente ha dimostrato che femmine

di ratto non esposte da tre generazioni al pesticida evitano di accoppiarsi con maschi

che sono stati esposti all’interferente endocrino (Bottaccioli, 2013). Qualche mese fa

sulla rivista Pnas l’aggiornamento: gli animali, i cui avi di quarta generazione sono

stati esposti al pesticida, sono più ansiosi, meno sociali e più grassi degli altri e, sotto

stress, hanno un’alterazione dei circuiti cerebrali “emotivi” (amigdala e ippocampo).

Ancora: un modello sperimentale che induce una condizione cronica di “disfatta

sociale”, che i topi e ancor più gli esseri umani provano quando sono esclusi dal

contesto sociale e non vedono una via d’uscita, induce marcati comportamenti

depressivi e ansiosi nei figli, nipoti e pronipoti. La trasmissione di questi caratteri

riguarda l’epigenoma degli spermatozoi (Bottaccioli, 2013). Sono stati condotti

anche studi anche sugli umani, in uno dei quali è stato dimostrato che uomini di

Taiwan che masticano regolarmente semi di palma (“noci di betel”), fatto che li

predispone al diabete, trasmettono questo rischio alla progenie per via paterna

(Bottaccioli, 2013).

E ancora, studiando i figli di donne con diagnosi di cancro e con l’epimutazione, i

ricercatori hanno trovato che in due dei tre figli maschi l’epimutazione trasmessa

dalla madre era stata riportata allo stato normale, mentre nel terzo figlio la segnatura

epigenetica era rintracciabile a livello somatico, seppure eliminata a livello

spermatico. Tutto questo significa che nei processi di maturazione degli spermatozoi

(e degli ovuli) intervengono meccanismi di cancellazione e di reset dell’epigenoma

che limitano la trasmissione tra generazioni ma non la cancellano del tutto

(Bottaccioli, 2013).

Possiamo dunque parlare di una rivincita di Lamarck su Darwin? La risposta a tale

domanda non è ancora certa per due motivi: Il primo è che la selezione naturale resta

di gran lunga un meccanismo evolutivo più universale e potente della trasmissione

ereditaria per via epigenetica; il secondo è che lo stesso Charles Darwin sosteneva

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che la selezione naturale è il meccanismo principale, ma non l’unico, dell’evoluzione

biologica (Corbis, 2013).

Ovviamente, l’evoluzione è pluralista e utilizza tutti i mezzi che la natura le mette a

disposizione, tenendo conto del fatto che nessuno può mettere le briglie alla natura.

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CONCLUSIONE

Alla luce di quanto illustrato e soprattutto grazie ai nuovi traguardi raggiunti dalla

ricerca, è inevitabile non inquadrare il genoma come il libro della vita di ciascun

organismo così come era impensabile che quel 98% di DNA inesplorato, venisse

ritenuto realmente irrilevante.

Questa potente nuova chiave di lettura del patrimonio genetico è sicuramente un

metodo utile per migliorare o creare nuove soluzioni, mirate alla prevenzione di

malattie degenerative e non, fornendo così un’ arma di difesa contro quelle che sono

le patologie ormai all’ordine del giorno nella nostra società.

Nell’ambito prettamente etologico e veterinario, la scoperta della trasmissione

genitori-prole di paure e traumi, può senza dubbio essere un ulteriore motivo per

prevenire fenomeni quali il maltrattamento e/o l’abbandono che andrebbero

altrimenti a “segnare” la sfera psicologica dell’animale, donando così alle

generazioni future dei ricordi negativi che comporterebbero di conseguenza difficoltà

nella relazione dell’animale stesso con conspecifici e non.

Ulteriore accortezza deve essere fatta persino nel momento della gestazione di una

mamma, dove una trasmissione sbagliata di un certo stimolo, può andare a limitare il

cucciolo stesso (accendendo quegli interruttori responsabili di tale “vincolo”) nel

saper affrontare quel determinato stimolo durante la vita post natale e la fase di

sviluppo successiva.

L’epigenetica è sicuramente un mondo nuovo grazie al quale teorie ritenute meno

importanti come quelle proposte dallo stesso Lamarck, sono state nettamente

rivalutate, così come il ruolo rivestito dall’ambiente. Quest’ultimo è risultato essere il

fattore responsabile di cambiamenti genetici – come dimostrato nell’esperimento dei

topolini messi a contatto con l’acetofenone associato a un trauma- agendo non sui

geni in sé, ma ne modo in cui la sequenza genica viene letta e usata nei topolini. Per

questo motivo, si può ritenere l’epigenoma come una rete avente il ruolo di

interscambio genetico tra ambiente cellulare ed extracellulare, favorendo il

funzionamento di tutti quei pseudo-geni ritenuti “junk” che se azionati da specifici

interruttori, sappiamo possono addirittura essere la causa scatenante di tumori.

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La scoperta della trasmissibilità delle memorie emozionale costituisce la miglior

evidenza sperimentale mai fornita all’eredità delle risposte ai cambiamenti

ambientali e getta nuova luce sul meccanismo biologico per cui tratti

comportamentali si tramandano attraverso le generazioni.

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