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L'accertamento del danno biologico

Materiale didattico

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INDICE

1. L’oggetto ed i criteri dell’accertamento ...................................................................... 3

2. La disciplina processuale della consulenza tecnica medico legale ................................. 20

3. La relazione di consulenza ..................................................................................... 30

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1. L’oggetto ed i criteri dell’accertamento

L’oggetto ed i criteri dell’accertamento In questa lezione esamineremo:

- l’oggetto e i criteri dell’accertamento del danno - la disciplina processuale della ctu medico legale - il contenuto della relazione di consulenza

Lesione, disfunzione, handicap Il danno biologico consiste in una compromissione dell’integrità psicofisica, dalla quale sia derivato un peggioramento delle condizioni di vita della vittima. Presupposto di esso è dunque la sussistenza d’una lesione fisica o psichica. Per questa ragione l’accertamento del danno in esame richiede normalmente l’ausilio di un medico legale.

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Compito del medico legale è di verificare l’esistenza di tre elementi, legati tra loro da due nessi causali. Più esattamente, il medico legale deve accertare:

- se c’è stata una lesione dell’integrità psicofisica; - se da tale lesione sia derivata una disfunzione, cioè una disabilità; - se tale disfunzione abbia determinato un peggioramento delle funzioni vitali della

vittima, cioè un handicap.

Così, ad esempio, si immagini che l’attore alleghi di avere patito in conseguenza di un sinistro stradale una frattura del menisco, la quale sia guarita determinando una anchilosi ai gradi estremi dell’articolazione del ginocchio, e questa a sua volta abbia causato difficoltà alla deambulazione: in un caso di questo tipo, compito del medico legale è accertare:

- se sussista la frattura (lesione) e la sua derivazione causale dal sinistro; - se sussista l’anchilosi (disfunzione) e la sua relazione causale dalla lesione; - se sussistano le difficoltà di deambulazione (handicap), la loro derivazione causale dalla

disfunzione. Nel caso in cui dalla lesione sia effettivamente derivata una disabilità, e questa abbia a sua volta causato una peggioramento delle condizioni della vittima, a tale peggioramento si dà il nome di invalidità.

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L’invalidità può essere permanente (se inguaribile) o temporanea (se destinata a svanire con l’andar del tempo). Nell'uno come nell'altro caso normalmente al medico legale viene altresì demandato il compito di quantificare l'invalidità. L'invalidità temporanea è per risalente consuetudine medico legale quantificata in giorni; l'invalidità permanente è invece quantificata, anch'essa per risalente consuetudine, in misura percentuale. Tale misura percentuale esprime la riduzione delle complessive funzioni vitali dell'individuo, immaginando pari a "100" la validità di un individuo sano del medesimo sesso e della medesima età della vittima. La determinazione del grado di invalidità permanente La “trasformazione” delle disfunzioni organiche concretamente accertate in un numero percentuale costituisce uno degli aspetti più delicati del compito affidato al consulente medico legale. Non è infatti sempre agevole stabilire in che misura possa ritenersi limitata la validità di un individuo, in quanto diversissime sono sia le tipologie lesive, sia le tipologie di danneggiati, di talché altro è valutare una modesta anchilosi della articolazione tibiotarsica in un soggetto giovane, atletico e di robusta complessione, altro è valutare i medesimi postumi in un soggetto anziano, non dinamico, non autosufficiente. La determinazione del grado di invalidità permanente deve avvenire in base alle regole ed alla metodologia messa a punto dalla medicina legale. Ovviamente ciò non vuol dire che il relativo accertamento sia sottratto alle regole del diritto. Da un lato, infatti, resta sempre riservato al giudice il potere-dovere di sindacare le valutazioni scientifiche compiute del consulente tecnico medico legale; dall’altro lato anche la determinazione del grado di invalidità permanente deve rispettare precise regole giuridiche. Tra queste, tre sono di particolare importanza: l’accertamento del nesso causale, la valutazione delle lesioni plurime e la scelta del baréme di riferimento. Le esamineremo ora in modo analitico.

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I nessi causali La gran parte dei quesiti rivolti dai giudici di merito al consulente tecnico d’ufficio (c.t.u.) medico legale contiene una domanda relativa alla esistenza del nesso causale tra la lesione e l’invalidità che ne è derivata. Si tratta di una formulazione ellittica, perché in realtà per rispondere a quel quesito il consulente deve accertare non uno, ma tre nessi causali: il primo, tra il fatto illecito e la lesione; il secondo tra la lesione ed i postumi; il terzo, tra i postumi permanenti ed il peggioramento della qualità e delle condizioni vitali e relazionali della vittima. Come già detto, infatti, perché possa affermarsi l’esistenza di un danno biologico occorre accertare se sussista una lesione, se da questa siano derivati postumi e se questi ultimi abbiano compromesso in qualsivoglia maniera la concreta esistenza della vittima. Conseguentemente, una volta accertata l’esistenza delle lesioni e la loro derivazione causale dal sinistro, occorrerà stabilire se e quali postumi da esse siano derivati, e quindi accertare se e quali conseguenze tale menomazione abbia avuto sulla vita del danneggiato. Così ad esempio, se la vittima di un sinistro stradale lamenti la lussazione recidivante della spalla, occorrerà accertare dapprima se il sinistro per come dimostrato possa avere provocato un trauma alla spalla; poi occorrerà accertare se i postumi accertati in corpore siano derivati dalla lesione, ovvero non fossero preesistenti o successivi; ed infine occorrerà accertare se ed in che misura tali postumi abbiano inciso sulla vita della vittima. Si è spesso discusso se i nessi causali di cui si discorre debbano essere accertati secondo i princìpi elaborati dalla medicina legale, ovvero secondo le regole della causalità giuridica. Si tratta tuttavia di un falso problema, in quanto i criteri di causalità medico legali sono perfettamente sovrapponibili con le regole della causalità giuridica di cui agli articoli 40 del codice penale e 1223 del codice civile.

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E’ insegnamento tradizionale della medicina legale che la sussistenza di un valido nesso causale tra l’azione traumatica e la lesione, ovvero tra questa ed i postumi, va accertato in base a sette criteri principali.

- il criterio cronologico, il quale è soddisfatto quando le lesioni sono contestuali o immediatamente successive al prodursi dell’azione lesiva, ovvero quando tra le une e l’altra vi è una storia clinica documentata senza soluzioni di continuità;

- il criterio qualitativo o di idoneità lesiva, il quale è soddisfatto quando il tipo di lesione è compatibile con il tipo di azione lesiva (ad esempio, ferite lacero contuse riscontrate successivamente ad un investimento pedonale);

- il criterio quantitativo, il quale è soddisfatto quando la gravità della lesione è proporzionale all’intensità dell’azione lesiva ed alla quantità di energia in concreto applicata sull’organismo leso;

- il criterio modale, il quale è soddisfatto quando le lesioni sono compatibili con il mezzo attraverso il quale sono state inferte: ad esempio, una infezione virale è causalmente compatibile con la somministrazione di cibi avariati, ma incompatibile con l’esposizione ad agenti ustionanti od urticanti;

- il criterio topografico, il quale è soddisfatto quanto i postumi incidono sul medesimo distretto corporeo interessato dalle lesioni;

- il criterio di continuità fenomenologica, il quale è soddisfatto quando i postumi rappresentano la naturale evoluzione delle lesioni;

- infine il criterio di esclusione di altre cause. Perché possa affermarsi che una lesione sia stata causata da una azione lesiva, è necessario che siano soddisfatti tutti i criteri appena esposti. Spostando ora l’attenzione ai criteri di causalità giuridica, va ricordato come secondo la Cassazione in tema di responsabilità per fatto illecito ai fini dell’accertamento della sussistenza e della misura dell’obbligo risarcitorio occorre accertare un duplice nesso causale: quello tra la condotta illecita e la concreta lesione dell’interesse (c.d. causalità materiale), e quello tra

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quest’ultima ed i danni che ne sono derivati (c.d. causalità giuridica). La distinzione fra causalità materiale e giuridica è pacifica in giurisprudenza: in tal senso Cassazione, sezione III, 2 febbraio 2001, numero 1516 e Cassazione, sezioni unite, 26 febbraio 1971, numero 174.

Il primo di tali nessi causali può ritenersi sussistente allorché ricorrano due condizioni: - che la condotta abbia costituito un antecedente necessario dell’evento, nel senso che

questo rientri tra le conseguenze “normali” del fatto (con l’avvertenza che il concetto di “normalità” non coincide con quello di “frequenza”);

- che l’antecedente medesimo non sia poi neutralizzato, sul piano eziologico, dalla sopravvenienza di un fatto di per sé idoneo a determinare l’evento. In tal senso Cassazione, sezione III, 15 febbraio 2003, numero 2312; Cassazione, sezione III, 22 ottobre 2003, numero 15789.

Quando, poi, l'evento dannoso o pericoloso si ricolleghi ad una pluralità di azioni o di omissioni, coeve o succedutesi nel tempo, in virtù del ricordato articolo 40 del codice penale tutte hanno uguale valore causale, senza distinzione tra cause mediate ed immediate, dirette ed indirette, precedenti e successive.

Per quanto attiene poi ai criteri in base ai quali stabilire la sussistenza del nesso causale tra condotta illecita e lesione dell’interesse, si afferma che il giudice non deve fare ricorso:

- né alla causalità naturalistica intesa in senso stretto (il che porterebbe a ritenere «causa» di un evento tutta la sterminata serie di precedenti senza i quali il fatto non si sarebbe potuto verificare);

- né alla causalità statistica (impossibile da applicare per la mancanza di rilevazioni oggettive);

- né alla intuizione del giudice, anche se fondata sulla logica. Secondo la Cassazione, il nesso di causalità va invece accertato “valutando tutti gli elementi della fattispecie, al fine di stabilire se il fatto era obiettivamente e concretamente (cioè con riferimento a quel singolo caso contingente) idoneo a produrre l'evento” (Cassazione, sezione III, 11 settembre 1998, numero 9037). In applicazione di tale principio si è affermato che per l'accertamento del nesso causale tra condotta illecita ed evento di danno non è necessaria la

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dimostrazione di un rapporto di consequenzialità necessaria tra la prima ed il secondo, ma è sufficiente la sussistenza di un rapporto di mera probabilità scientifica. Ne consegue che il nesso causale può essere ritenuto sussistente non solo quando il danno possa ritenersi conseguenza inevitabile della condotta, ma anche quando ne sia conseguenza altamente probabile e verosimile (Cassazione 26 giugno 2007, numero 14759). Ciò vuol dire che, anche in tema di accertamento del danno alla salute, per stabilire l’esistenza di un valido nesso causale tra azione lesiva e lesioni, nonché tra lesioni e postumi permanenti, il giudice non può fare ricorso soltanto all’id quod plerumque accidit, ma deve valutare in concreto come, quando, attraverso quali modalità, ed in che misura si sono sviluppati la lesione ed i postumi ad essa conseguiti. Abbiamo dunque visto come per la medicina legale il nesso di causalità sussiste quando sono soddisfatti i sette criteri ricordati, e per la giurisprudenza tale nesso sussiste quando è soddisfatto il requisito della c.d. causalità “normale” od “adeguata”. Ebbene, alla luce di quanto esposto è possibile concludere che l’accertamento del nesso causale tra lesioni e postumi con riferimento a “tutti gli elementi della fattispecie”, richiesto dalla Corte di cassazione, non differisce nella sostanza dall’accertamento della sussistenza dei criteri medico legali di causalità. Anche questi ultimi, infatti, non possono essere valutati in astratto, ma vanno accertati con riferimento al caso concreto. Pertanto i criteri medico legali di causalità finiscono per coincidere sostanzialmente con i criteri giuridici. Perciò non può mai accadere che il nesso eziologico tra condotta illecita e lesioni, o tra queste ultime e postumi, possa essere ritenuto sussistente dal medico legale ed insussistente dal giudice (o viceversa), se tutti e due hanno fatto corretta applicazione - rispettivamente - delle leges artis e della regulae iuris.

Le lesioni plurime E’ assai frequente che da un fatto illecito derivino lesioni personali plurime. Queste ultime sono classificabili secondo due criteri:

- a seconda del momento in cui si sono verificate, si distingue tra lesioni monocrone, cioè insorte contestualmente (ad esempio, politrauma da circolazione stradale che determini fratture multiple agli arti), e lesioni policrone, cioè insorte successivamente e provocate da fattori causali diversi (ad esempio, endocardite da infezione intraoperatoria in soggetto già iperteso);

- a seconda delle reciproche interferenze sul piano degli effetti menomanti, si distingue tra lesioni concorrenti, e cioè tutte incidenti sul medesimo organo o sulla medesima funzione (ad esempio, riduzione del visus in soggetto monocolo), e lesioni coesistenti, cioè incidenti su organi o funzioni diversi (ad esempio, frattura del femore in soggetto con cirrosi epatica).

Le distinzioni che precedono sono molto importanti sul piano pratico, in quanto l’esistenza di lesioni plurime (policrone o monocrone, concorrenti o coesistenti), influisce sulla determinazione del grado di invalidità permanente e, di conseguenza, sulla misura del risarcimento.

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Le malattie o le menomazioni da cui il danneggiato era affetto già prima dell’evento dannoso prendono il nome di preesistenze, e di esse il consulente medico legale deve tenere conto nella determinazione del grado di invalidità permanente, in quanto di norma aggravano il danno, ovvero possono esserne aggravate. Per il medico legale è dunque fondamentale, prima di qualsiasi altro accertamento, stabilire con la migliore approssimazione possibile quale fosse lo stato di salute anteriore al sinistro. Sebbene non vi sia unanimità in medicina legale circa il modo in cui debba tenersi conto delle preesistenze nel caso di lesioni policrone, la maggior parte degli autori concorda nel distinguere a seconda che le lesioni preesistenti:

- interessino il medesimo organo oppure organi funzionalmente integrati (lesioni concorrenti: ad esempio, frattura di gamba in soggetto con osteoporosi agli arti inferiori);

- ovvero colpiscano organi diversi e non funzionalmente integrati (lesioni coesistenti: ad esempio, frattura mandibolare in soggetto affetto da zoppia).

Nel primo caso, al grado di invalidità permanente risultante dall’impiego degli ordinari criteri valutativi va applicato un coefficiente di maggiorazione, in quanto il concorso di lesioni policrone amplifica il danno disfunzionale causato dall’atto illecito. Nel secondo caso, invece, al grado di invalidità permanente, per così dire, “ordinario”, va applicato un coefficiente di riduzione, in quanto il danno ha colpito un individuo non perfettamente sano, la cui malattia preesistente non è stata però aggravata dall’evento dannoso.

Autorevole dottrina ha espresso questo coefficiente con la formula mostrata nella slide. Dove “D” rappresenta il quantum del danno biologico, ed “E” il valore percentuale dello stato di salute preesistente. Di conseguenza, quando la minorazione conseguente al fatto illecito e quella preesistente sono in coesistenza, quando cioè le due minorazioni interessano organi o sistemi diversi senza interferenze reciproche, si verifica semplicemente un pregiudizio ad un individuo che ha già ridotta la sua validità.

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Pertanto nel caso di lesioni policrone coesistenti il suddetto coefficiente dovrebbe ridurre il grado di invalidità permanente, previa applicazione della formula mostrata nella slide, dove I rappresenta il grado di invalidità da risarcire.

Nel caso invece di lesione policrone concorrenti va applicato il suddetto coefficiente in maggiorazione, e quindi la formula mostrata nella slide. Altri criteri, pure largamente diffusi, per tenere conto delle lesioni policrone, sono rappresentati dalla formula di Balthazard e dalla formula di Gabrielli.

La formula di Balthazard (o metodo scalare) viene solitamente adottata per tenere conto delle lesioni policrone coesistenti (cioè non interferenti le une con le altre). Essa si fonda sul principio secondo cui la validità di una persona già menomata non può essere pari a “100”, e quindi i postumi della nuova lesione devono essere rapportati alla validità residua. Così, ad esempio, se una persona che ha già avuto un danno biologico del 20% (e quindi ha una validità residua dell’80%) patisce un secondo danno che normalmente ridurrebbe del 30% la complessiva validità, il grado effettivo di invalidità permanente va determinato secondo la proporzione: D2 : 100 = x : CR

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Dove D2 è il grado di invalidità permanente che normalmente residua alla seconda lesione; x è il grado di invalidità permanente che vogliamo determinare, CR è la validità antesinistro.

Nell’esempio che precede il grado di invalidità permanente (x) sarà dunque determinabile in base alla proporzione:

30 : 100 = x : 80 e quindi

x = (30 * 80) : 100 24%. Il danno effettivo secondo la formula di Balthazard è dunque pari al 24%, mentre la medesima lesione se avesse colpito un individuo sano sarebbe stata valutata nella misura del 30%. Alla formula di Balthazard si è peraltro obiettato che essa è irreale, poiché non permetterebbe mai di raggiungere il 100%.

La formula di Gabrielli, invece, è per lo più adottata al fine di tenere conto di lesioni policrone concorrenti, ed è rappresentata dall’equazione mostrata nella slide, dove D è il grado di invalidità da determinare, Cp è la validità preesistente al sinistro, Cr è la validità residuata al sinistro.

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Così, nell’esempio fatto poco innanzi (una persona invalida al 20% che patisce una lesione quantificabile in astratto nella misura del 30%), il danno effettivo sarà pari a: (80 - 50) : 80, e quindi al 38%. Tuttavia non è lecito parlare di preesistenze, e quindi applicare un correttivo nella determinazione del grado di invalidità permanente, quando una non perfetta validità in epoca anteriore al sinistro dipenda non da pregresse malattie o lesioni, ma dal fisiologico scadimento dell’organismo col decorso degli anni. La invalidità infatti va accertata non in astratto, ma in concreto, cioè con riferimento al singolo individuo leso; pertanto anche il soggetto anziano, purché fisiologicamente sano, ha una sua validità che è pari a 100. Per lo stesso motivo, lo stato di validità anteriore al sinistro dovrà essere considerato pari al 100% in tutti quei casi in cui le patologie pregresse di cui il danneggiato era portatore non gli impedivano di condurre una vita normale.

Nel caso di lesioni plurime causate tutte dal medesimo evento dannoso (o lesioni monocrone), la medicina legale è concorde nell’escludere che il grado di invalidità conseguito a ciascuna lesione debba essere sommato. La mera somma algebrica, infatti, porterebbe in molti casi ad invalidità complessive che supererebbero il 100%. Nel caso di lesioni plurime monocrone, pertanto, il medico legale deve procedere ad una valutazione complessiva dell’invalidità, evitando di eseguire una mera sommatoria. Non è erroneo, ed anzi in determinate circostanze può essere vivamente raccomandato, ricorrere a formule matematiche per la determinazione del grado di invalidità permanente.

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I barémes medico-legali Per determinare il grado di invalidità permanente, il medico legale ricorre normalmente ad una tabella delle invalidità, o baréme. Il baréme è una raccolta ragionata di menomazioni disfunzionali, solitamente raggruppate per insiemi organici (apparato scheletrico, organi interni, apparato respiratorio, eccetera), per ognuna delle quali è suggerito un valore indicativo di riduzione della complessiva validità dell’individuo. La stima del danno alla persona da parte del medico legale può avvenire in base a due diversi tipi di barémes.

Nei casi in cui è la legge a disciplinare espressamente il danno alla persona, la stessa legge impone altresì l’adozione di una certa tabella, normalmente essa stessa incorporata in un provvedimento normativo. Negli altri casi, e cioè quando la liquidazione del danno è lasciata alla valutazione equitativa del giudice, teoricamente il medico legale ed il giudice possono utilizzare qualsiasi tabella approntata dalla medicina legale.

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I barémes obbligatori per la liquidazione del danno biologico sono due: - la tabella approvata con decreto ministeriale del 12 luglio 2000 (“Approvazione di

"Tabella delle menomazioni"; "Tabella indennizzo danno biologico"; "Tabella dei coefficienti", relative al danno biologico ai fini della tutela dell'assicurazione contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali”, in Gazzetta Ufficiale 25 luglio 2000, numero 172, Supplemento ordinario), la quale deve essere utilizzata per la determinazione del grado di invalidità permanente ai fini del pagamento dell’indennizzo da parte dell’Inail, ex articolo 13 decreto legislativo 23 febbraio 2000 numero 38;

- la tabella approvata da ultimo con d.m. 19-6-2009 (Tabella delle menomazioni alla integrità psicofisica comprese tra 1 e 9 punti di invalidità), la quale deve essere utilizzata:

o (a) per la determinazione del grado di invalidità permanente ai fini della liquidazione del danno biologico causato da sinistri stradali che abbiano causato invalidità non superiori al 9%, secondo quanto previsto dall’art. 139 cod. ass.;

o (b) per la determinazione del grado di invalidità permanente ai fini della liquidazione del danno biologico causato da colpa medica che abbia causato invalidità non superiori al 9%, secondo quanto previsto dall’art. 3, comma 3, d.l. 13.9.2012 n. 158 (convertito nella legge 8.11.2012 n. 189);

Tra le norme che impongono il ricorso a determinati barémes va annoverato anche l’articolo 283, comma 3, codice delle assicurazioni, il quale disciplina la misura del risarcimento nel caso di danni, conseguenti a sinistri stradali, dei quali debba rispondere l’impresa designata, per conto del fondo di garanzia vittime della strada. Tale norma stabilisce che “la percentuale di inabilità permanente (…) [è determinata] in base alle norme del testo unico delle disposizioni per l'assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali”, e cioè il d.p.r. 30 giugno 1965 numero 1124. Questa norma deve essere rettamente intesa, nella parte in cui fa riferimento alla nozione di “inabilità permanente”.

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Nell’articolo 283 codice delle assicurazioni è stato trasfuso alla lettera il previgente articolo 21 della legge 990 del 1969. All’epoca di promulgazione di quest’ultima legge, il testo unico sull’assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro prevedeva che l’assicuratore sociale (l’INAIL) pagasse alla vittima di un infortunio sul lavoro un indennizzo a titolo di ristoro per la perdita della “attitudine al lavoro”. La perdita definitiva di tale attitudine al lavoro era definita dalla legge “inabilità permanente” (articolo 74, comma 1, d.p.r. 30.6.1965 numero 1124), e veniva determinata in base alle tabelle allegate al medesimo d.p.r. 1124 del ‘65. La nozione di “inabilità permanente” sorse tuttavia in un’epoca nella quale non si concepiva l’autonoma risarcibilità del danno alla salute (il danno biologico), e pur essendo variamente definita dalla giurisprudenza, su un punto non vi era discussione: e cioè che essa non si identificava con la lesione della salute in sé e per sé considerata, a prescindere dalla capacità di guadagno della vittima (ed infatti la rendita per inabilità permanente liquidata dall’INAIL si basava sul reddito dell’infortunato, e non era uguale per tutti a parità di lesioni). Oggi, per effetto della riforma introdotta dal decreto legislativo 23 febbraio 2000 numero 38, l’INAIL non indennizza più l’“inabilità permanente”, ma il danno biologico, liquidato in misura uguale per tutti a parità di lesioni, e maggiorato in base al reddito della vittima solo quando i postumi superino il 16% di invalidità permanente (articolo 13, comma 2, decreto legge 38 del 2000). Pertanto l’articolo 283, comma 3, del codice delle assicurazioni, là dove rinvia al d.p.r. 1124 del 1965 per la determinazione del grado di “inabilità permanente”, fa riferimento ad una norma e ad una nozione espunte dall’ordinamento. Ciò tuttavia non vuol dire che la liquidazione del danno biologico, nel caso di sinistri causati da veicoli non identificati, possa avvenire quomodolibet: la finalità della legge è infatti quella dettare criteri certi e prevedibili per i casi in cui il peso del sinistro sia destinato a gravare in definitiva sulla collettività degli assicurati, e per rispettare tale ratio deve ritenersi che un criterio oggettivo di liquidazione del danno alla persona permanga pur sempre.

Tuttavia per effetto delle modifiche normative sopravvenute tale limite va individuato non più nella “inabilità permanente” di cui all’abrogato articolo 74 d.p.r. 1124 del 1965, ma nel diverso concetto di “invalidità permanente” di cui all’articolo 13 decreto legislativo 38 del 2000. Ciò vuol dire che il danno biologico, nelle ipotesi in esame, dev’essere liquidato obbligatoriamente:

- determinando il grado di invalidità permanente in base alla tabella delle menomazioni approvata con decreto ministeriale 12 luglio 2000 (in Gazzetta ufficiale 25 luglio 2000, numero 172);

- individuando il valore monetario del singolo punto di invalidità in base alla “Tabella indennizzo danno biologico” approvata col medesimo decreto ministeriale 12 luglio 2000, emanato in attuazione dell’articolo 13 decreto legislativo 38 del 2000.

Il ricorso ad un baréme obbligatorio per la stima del danno alla persona è infine previsto dall’articolo 138 codice delle assicurazioni, con riferimento alla liquidazione del danno alla persona con postumi permanenti superiori al 9%. Tuttavia tale norma demanda l’approvazione di tale baréme ad un apposito dpr, il quale sinora non è stato ancora emanato. Si ricordi infine che in tutti i casi in cui è la legge ad imporre l’uso di una determinata tabella medico legale, erra il medico legale che dovesse determinare l’invalidità permanente in base

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ad un criterio diverso, e sarebbe conseguentemente viziata da error in iudicando la sentenza che dovesse condividerne le conclusioni: ovviamente, sempre che il baréme obbligatorio e quello utilizzato dal c.t.u. conducano a valutazioni percentuali diverse per la medesima invalidità.

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Quando non vi sia l’obbligo di adottare i barémes appena indicati, il giudice (ed il medico legale) sono liberi di adottare il baréme che preferiscono. I principali barémes correntemente utilizzati dai medici legali sono tre:

- la Guida alla valutazione medico-legale dell’invalidità permanente, di Ronchi, Mastroroberto e Genovese (Milano, 2009);

- la Guida alla valutazione medico-legale del danno biologico e dell’invalidità permanente - Responsabilità civile, infortunistica del lavoro e infortunistica privata, di Luvoni, Mangili e Bernardi (Milano, 2002);

- la Guida orientativa per la valutazione del danno biologico, a cura di Bargagna ed altri (Milano, 2001).

Accanto a questi, una certa diffusione hanno anche alcuni baréme stranieri, tra i quali il Barème international des invalidités di Mélennec (Parigi, 2000); il Baréme indicatif d’évaluation des taux d’incapacité en droit commun, edita dalla rivista francese Le Concours Medical; la Guide to the evaluation of permanent impairment, elaborata dalla statunitense American Medical Association.

Le varie tabelle non sono tra loro omogenee: a titolo d’esempio, ecco una comparazione dei gradi di invalidità suggeriti da alcune Guide molto diffuse, cioè la guida di Bargagna, quella di Luvoni-Mangili-Bernardi ed il Baréme indicatif di Melennec: Per evitare il rischio di sperequazioni è pertanto necessario che il giudice chieda all’ausiliario medico-legale non solo di indicare genericamente il “grado di invalidità permanente”, ma anche di precisare il metodo seguito o il baréme applicato nel determinare il suddetto grado di invalidità permanente. Il giudice liquida infatti (a parità di età) la medesima somma di denaro per il medesimo grado di invalidità permanente, e dunque per trattare in modo analogo i casi simili è necessario individuare un minimo comune denominatore col quale ponderare le valutazioni fornite dai diversi medici-legali. Meglio sarebbe se il giudice chiedesse al c.t.u. di fare riferimento sempre al medesimo baréme, per tutti i casi portati all’esame di quell’ufficio giudiziario. Ancora meglio sarebbe se i criteri di liquidazione del danno alla salute venissero

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elaborati sin dall’inizio non in astratto, ma con riferimento ad una determinata tabella delle invalidità.

L’invalidità temporanea L’invalidità temporanea consiste nella momentanea impossibilità di attendere alle proprie ordinarie attività. Essa costituisce una forma di manifestazione del danno biologico. L’invalidità temporanea viene solitamente distinta in assoluta e relativa. L’invalidità è assoluta quando essa impedisce alla vittima di attendere ad alcuna delle proprie abituali occupazioni. E’, invece, relativa quando riduce, ma senza escludere del tutto, la possibilità della vittima di svolgere le proprie occupazioni. Le due forme di invalidità non necessariamente debbono susseguirsi nel tempo. Mentre infatti a gravi lesioni può seguire dapprima un periodo di invalidità temporanea assoluta (malattia), e quindi uno di invalidità temporanea relativa (convalescenza), è assai difficile che lesioni lievi o moderate possano causare una invalidità temporanea assoluta. In questi casi, è più probabile che alla lesione consegua soltanto un periodo di invalidità temporanea relativa, che potrà variare in funzione della qualità e delle quantità delle funzioni compromesse. Appare pertanto non condivisibile la prassi di alcuni medici legali (e di quei giudici che avallano l’operato dei primi) di ritenere che da qualsiasi lesione della salute, quale che ne sia l’entità, derivi, sempre e comunque, un periodo di invalidità temporanea assoluta, e poi un periodo di invalidità temporanea relativa, immancabilmente al 50%.

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2. La disciplina processuale della consulenza tecnica medico legale

La consulenza tecnica d’ufficio medico legale Si è visto sinora attraverso quali valutazioni il medico legale pervenga alla determinazione del grado di invalidità permanente e della durata dell’invalidità temporanea, che costituiscono le basi per la monetizzazione del danno alla salute. E’ giunto ora il momento di occuparci degli aspetti processuali dell’accertamento del danno: e cioè le regole che presiedono allo svolgimento della consulenza tecnica medico legale nel processo civile. Ci occuperemo, in particolare, di quattro aspetti fondamentali:

1. come si concili la consulenza tecnica con l’onere di allegazione gravante sulle parti; 2. come si concili la consulenza tecnica con l’onere della prova gravante sulle parti; 3. quale sia il materiale probatorio legittimamente utilizzabile dal c.t.u.; 4. quale debba essere il contenuto minimo della relazione di consulenza.

Consulenza ed onere di allegazione Anche al medico legale, come a qualsiasi consulente tecnico d’ufficio, possono in teoria essere posti due tipi di quesiti:

1. l’accertamento di fatti ignorati (ad esempio, quale sia stata la causa della morte di una persona);

2. la valutazione scientifica di fatti già acquisiti al processo (ad esempio, la quantificazione in punti percentuali del grado di invalidità di una persona).

Nell’uno come nell’altro caso l’attività del consulente non può spingersi sino ad infrangere il principio dispositivo, secondo cui il giudice non può pronunciarsi su fatti che non siano stati debitamente allegati dalle parti. I rapporti tra c.t.u. medico legale e principio dispositivo pongono all’interprete due problemi:

- se il c.t.u. possa porre a fondamento delle indagini e delle proprie conclusioni fatti non allegati dalle parti;

- se il c.t.u. possa accertare tatti che, costituendo il fondamento della pretesa di una delle parti, sarebbe onere di quest’ultima provare.

Sotto il primo profilo, il principio secondo cui il giudice non può porre a fondamento della decisione fatti che non siano stati allegati dalle parti comporta che il c.t.u. non può svolgere indagini su fatti che non siano stati debitamente allegati dalle parti: né su richiesta del giudice, né - a fortiori - di propria iniziativa.

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Tali princìpi sono condivisi dalla S.C., la quale ha più volte affermato che la possibilità per il giudice di disporre una c.t.u. non sopprime la necessità che le parti restino comunque obbligate a dedurre in giudizio il fatto che intendono porre a fondamento del proprio diritto. E’ dunque necessario “che il consulente indaghi sui fatti prospettati dalle parti e non su fatti sostanzialmente diversi”. Così Cassazione, sezioni unite, 4 novembre 1996, numero 9522; nello stesso senso, Cassazione, sezione III, 10 maggio 2001, numero 6502 e Cassazione, sezione lavoro, 29 maggio 1998, numero 5345.

Poiché egli non ha il potere “di accertare i fatti posti a fondamento di domande ed eccezioni, il cui onere probatorio incombe sulle parti, e, se sconfina dai predetti limiti intrinseci al mandato conferitogli, tali accertamenti sono nulli per violazione del principio del contraddittorio, e perciò privi di qualsiasi valore probatorio, neppure indiziario”; in tal senso Cassazione, sezione III, 19 gennaio 2006, numero 1020. In applicazione di questi princìpi, può affermarsi in linea generale che:

- nei giudizi in cui al c.t.u. è chiesto di accertare l’entità del danno alla persona, l’ausiliario non può prendere in esame e valutare, al fine di determinare il grado di invalidità permanente, pregiudizi o disfunzioni mai ritualmente allegati dall’attore (ad esempio, se l’attore lamenta un deficit funzionale ad una articolazione, il c.t.u. non potrebbe di propria iniziativa rilevare che il trauma ha causato anche una infrazione costale, ovvero una trauma cranico non commotivo, ai quali siano residuati postumi permanenti); allo stesso modo, il c.t.u. nel determinare il grado di invalidità permanente non può valutare l’incidenza dei postumi sull’attività sportiva che l’attore pur risulta svolgere, se non è stato mai allegato tra i danni risarcibili il pregiudizio allo svolgimento della suddetta attività;

- nei giudizi aventi ad oggetto la responsabilità professionale di un sanitario o di un ospedale, il c.t.u. non può prendere in esame e valutare, sotto il profilo della coincidenza con le leges artis, condotte mai allegate dalle parti: ad es., non potrebbe il c.t.u. ritenere non conforme alle regole della buona pratica clinica l’omessa effettuazione di un elettrocardiogramma prima di eseguire un intervento chirurgico su un paziente cardiopatico, se l’attore ha allegato, quale titolo di colpa ascritto al

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convenuto, la difettosa sutura di una anastomosi, con conseguente deiscenza ed infezione postoperatoria.

Consulenza e onere della prova Al c.t.u. può essere affidato l’incarico sia di valutare fatti oggettivi già acquisiti al materiale istruttorio, ovvero incontroversi (c.t.u. deducente: ad esempio, determinare il grado di invalidità permanente), sia di accertare fatti incerti e controversi, dalla cui sussistenza discende l’accoglimento delle pretese di una delle parti (c.t.u. percipiente: ad esempio, stabilire quale sia stata la verosimile causa di una ipossia del feto intra partum). Da questa distinzione scaturiscono importanti conseguenze in tema di riparto dell’onere della prova. Infatti, quando il giudice affida al c.t.u. l’incarico di valutare fatti oggettivi (c.t.u. deducente), l’affidamento dell’incarico presuppone l'avvenuto espletamento dei mezzi di prova e ha per oggetto la valutazione di circostanze che devono essere già state completamente provate dalle parti. La c.t.u. “deducente” non costituisce, perciò, un vero e proprio mezzo di prova, ma serve solo a fornire al giudice argomenti per le proprie valutazioni, le quali rimangono comunque autonome, anche quando il giudice si limiti ad aderire all'opinione del consulente accogliendone le conclusioni. Ha stabilito al riguardo Cassazione, sezione lavoro, 8 agosto 1989, numero 3647 che la consulenza tecnica non può essere un mezzo di prova, né di ricerca dei fatti, ma deve essere soltanto uno strumento di valutazione dei fatti già dimostrati e ciò attraverso l’ausilio di persone dotate di particolare competenza tecnica; pertanto, ove la sentenza abbia recepito il parere tecnico senza eliminare da esso gli errori e le incongruenze (diretto accertamento da parte del consulente di fatti non dimostrati dalle parti), il vizio della consulenza si trasmette alla sentenza, determinandone la nullità (per violazione del fondamentale principio del contraddittorio), sempre che, ovviamente, il giudice si sia avvalso degli accertamenti così compiuti in modo determinante ai fini della decisione adottata. Ne consegue che, nei casi in esame, l’ammissione della consulenza tecnica non può essere disposta per la ricerca delle prove che le parti hanno l’onere di fornire, o per ovviare alle carenze probatorie imputabili alle parti stesse. Così Cassazione, sezione lavoro, 17 ottobre 1988, numero 5645; Cassazione, 16 dicembre 1986, numero 7557; Cassazione, 13 ottobre 1986, numero 5990. In questa ipotesi, se il c.t.u. dà conto nella relazione di fatti mai debitamente provati dalle parti, ed il giudice fonda su tali fatti la sua decisione, quest’ultima è insanabilmente viziata. Nel caso di c.t.u. deducente, quindi, l’onere della prova resta interamente e senza eccezioni a carico delle parti. Così, ad esempio, se la vittima di lesioni non allega la documentazione sanitaria dalla quale risulti l’esistenza delle lesioni ed il loro decorso, non potrebbe il c.t.u. acquisirla di sua iniziativa presso l’ospedale ove l’attore venne ricoverato. L’esistenza delle lesioni è fatto costitutivo della pretesa, e come tale deve essere provato da chi lo allega.

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Quando, invece, il giudice affida al c.t.u. l’incarico di accertare fatti oggettivi (c.t.u. percipiente), la giurisprudenza ammette che la consulenza possa costituire essa stessa fonte oggettiva di prova: così Cassazione, sezione III, 7 dicembre 2005, numero 27002; Cassazione, sezione III, 23 febbraio 2006, numero 3990; Cassazione, sezione unite, 4 novembre 1996, numero 9522. E’ evidente che in questa seconda ipotesi parrebbe sussistere una contraddizione tra il principio secondo cui chi vuol far valere in giudizio un diritto ha l’onere di provarne il fatto costitutivo, e quello secondo cui l’accertamento dei fatti rilevanti ai fini del decidere può essere demandato al c.t.u.. La Cassazione si è fatta carico di sanare questa contraddizione stabilendo che, di norma, la c.t.u. non può mai essere utilizzata per sollevare una delle parti dall’onere della prova su essa incombente. Tuttavia, quando per la parte sia impossibile, ovvero estremamente difficile fornire la prova ad essa richiesta dall’articolo 2697 codice civile, se non con l’ausilio di speciali cognizioni tecniche o scientifiche, è consentito ricorrere alla consulenza. In tal senso Cassazione, sezione lavoro, 10 dicembre 2002, numero 17555.

Dunque, secondo il giudice di legittimità, in tema di rapporti tra onere della prova e consulenza tecnica esiste una regola ed un’eccezione:

- la regola è che i fatti sui quali si fonda la pretesa (o l’eccezione) vanno provati dalle parti, e non possono essere accertati tramite c.t.u.;

- l’eccezione è che i suddetti fatti possono essere accertati tramite c.t.u., quando gli ordinari mezzi di prova sono insufficienti a dimostrarne l’esistenza.

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Consulenza e prove documentali Di norma, il c.t.u. fonda le proprie elaborazioni non solo sull’ispezione corporale e sulla visita medico legale della persona del danneggiato, ma anche sull'esame di documenti. Questi ultimi, anzi, costituiscono spesso l’elemento fondamentale per la risoluzione delle questioni tecniche a lui affidate. Tuttavia le fonti di prova sulle quali il c.t.u. fonda il proprio giudizio devono essere le medesime sulle quali il giudice fonderà la propria sentenza. Il che vuol dire, detto altrimenti, che qualsiasi fatto ritenuto provato dal c.t.u., deve per ciò solo potere essere ritenuto provato anche dal giudice, e se per quest’ultimo il fatto non è provato, non può essere utilizzato neanche dal c.t.u.. Su questo punto la Corte di legittimità è stata estremamente chiara, affermando che “le conclusioni cui perviene il c.t.u. si fondano sul presupposto del rebus sic stantibus, quanto alla ricostruzione fattuale costituente presupposto delle operazioni tecniche da lui compiute, con la conseguenza che detto presupposto andrà poi, in sede decisionale (e quindi necessariamente successivamente alla consulenza) accertato e valutato dal giudice. Se detta valutazione degli elementi probatori sulla ricostruzione del fatto, effettuata dal giudice coinciderà con quella del consulente tecnico (...), la consulenza si fonda su fatti storicamente esatti, per cui potrà passarsi ad un esame dell'esattezza degli accertamenti tecnici e delle relative conclusioni. Se invece detta ricostruzione dei fatti è errata, in quanto non condivisa dal giudice, l'inesattezza del presupposto travolgerà l'iter argomentativo tecnico sviluppato dal consulente, nella parte in cui si fonda su tali premesse”: in tal senso Cassazione, sezione III, 10 maggio 2001, numero 6502. In tal senso sembra orientata anche la giurisprudenza di merito, la quale in diverse occasioni ha ribadito che il c.t.u., per rispondere ai quesiti, può ritenere esistenti solo quei fatti che siano processualmente provati, cioè solo quei fatti che anche il giudice potrebbe porre a base della propria decisione. Il c.t.u., quindi, non gode di maggiore libertà rispetto al giudice, nel ritenere accertato un fatto oggettivo: o quest’ultimo è processualmente provato, ed allora potrà essere posto dal c.t.u. a base delle proprie argomentazioni; ovvero non lo è, ed allora non potrà essere utilizzato né dal giudice, né dal c.t.u. Che il c.t.u. non possa utilizzare documenti irritualmente prodotti od acquisiti risulta confermato dal disposto dell’articolo 191, comma secondo, Codice di procedura civile. Tale norma infatti prevede la facoltà per il consulente di esaminare documenti non prodotti in causa, col consenso delle parti, soltanto quando la consulenza abbia ad oggetto un esame contabile: dal che si desume che, negli altri casi, i documenti non ritualmente prodotti non possano essere esaminati dal c.t.u.. Il regime di utilizzabilità dei documenti, da parte del c.t.u., muta a seconda che i documenti medesimi siano stati prodotti dalle parti, ovvero siano stati acquisiti direttamente dal c.t.u.

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I documenti acquisiti dalle parti Il c.t.u. non può prendere in esame ogni e qualsiasi documento a lui consegnato dalle parti, ma solo quelli ritualmente prodotti. Si ricordi a tal fine che, nel processo civile, i documenti possono essere prodotti dalle parti in vari modi:

- con l'atto di citazione, al momento della costituzione (articolo 163, comma secondo, numero 5, Codice di procedura civile);

- con la comparsa di risposta, al momento della costituzione (articolo 167 Codice di procedura civile);

- mediante produzione all'udienza, se ancora non è stato fissato il termine di cui all’articolo 183, comma 6, Codice di procedura civile (articolo 87 disposizioni di attuazione Codice di procedura civile);

- mediante deposito in cancelleria, unitamente alle memorie di cui all’articolo 183, comma 6, Codice di procedura civile (articolo 87 disposizioni di attuazione Codice di procedura civile);

- mediante ottemperanza ad una ordinanza di esibizione (articolo 210 Codice di procedura civile), entro il termine fissato nell’ordinanza.

Il c.t.u. può esaminare solo i documenti ritualmente prodotti dalle parti nelle forme sopra descritte, e cioè validamente acquisiti nel materiale probatorio. Documenti eventualmente prodotti dalle parti al di fuori di questi canali tipici non possono essere utilizzati dal giudice, e quindi neanche dal c.t.u..

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Sono perciò inutilizzabili, ad esempio, i documenti mai prodotti in giudizio, e consegnati brevi manu dalla parte al c.t.u. direttamente al momento delle indagini peritali. Tale produzione è irrituale, in quanto:

- l'articolo 87 disposizioni di attuazione del Codice di procedura civile non prevede la possibilità di depositare documenti durante lo svolgimento delle indagini peritali;

- l'articolo 194 del Codice di procedura civile consente al c.t.u., ove autorizzato dal giudice, di richiedere alle parti chiarimenti, non di raccogliere da esse prove documentali;

- là dove la legge ha inteso concedere al c.t.u. la possibilità di esaminare documenti non regolarmente prodotti in giudizio, l’ha prevista espressamente, come nell’articolo 198 del Codice di procedura civile.

Deve tuttavia segnalarsi come su tale questione la Corte di cassazione, con orientamento costante, ha sì affermato che il c.t.u. non possa esaminare documenti non ritualmente prodotti in giudizio, e che, se li esamina e le sue conclusioni vengono recepite dal giudice, la sentenza deve ritenersi viziata nella motivazione (in tal senso Cassazione, sezione II, 26 ottobre 1995, numero 11133); tuttavia ha finito per ridurre assai la portata di tale precetto, ammettendo che tale divieto venga meno se vi è il consenso di tutte le parti e l’autorizzazione del giudice, ed aggiungendo che comunque la nullità derivante dall’utilizzo di documenti irritualmente prodotti rimanga sanata, se non eccepita nella prima istanza o difesa successiva al deposito della relazione. Così Cassazione, sezione II, 19 agosto 2002, numero 12231; Cassazione, sezione lavoro, 14 agosto 1999, numero 8659; Cassazione, sezione II, 26 ottobre 1995, numero 11133. Questo orientamento, tuttavia, non appare oggi più condivisibile. Esso infatti si è formato con riferimento a procedimenti celebrati anteriormente alla novella di cui alla legge 26 novembre 1990 numero 353, la quale ha introdotto nel procedimento civile le preclusioni istruttorie di cui all’articolo 183, comma 6, del Codice di procedura civile. Prima della riforma le parti non avevano limiti temporali alla produzione di documenti, che poteva avvenire sino all’udienza di precisazione delle conclusioni. In un sistema simile, pertanto, è ben concepibile che l’irrituale produzione documentale resti sanata dall’acquiescenza delle parti.

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La situazione è ben diversa nel nuovo rito civile, nel quale è previsto un rigido sbarramento per le deduzioni istruttorie, superato il quale non è più possibile alcuna produzione documentale (articolo 183, comma 6 del Codice di procedura civile). E poiché i termini per la produzione dei mezzi di prova, previsti dal citato articolo 183 del Codice di procedura civile, sono espressamente qualificati perentori, ne discende che:

- la violazione di essi è rilevabile d’ufficio; - la violazione di essi non può essere sanata dall’acquiescenza delle parti.

Pertanto, nel nuovo rito civile, una volta maturata la preclusione di cui all’articolo 183 del Codice di procedura civile, qualsiasi produzione documentale (ivi comprese quella destinata al c.t.u.) è irrituale, e l’irritualità va rilevata d’ufficio: diversamente, infatti, e cioè ammettendo la possibilità per le parti di fornire al c.t.u. documenti che si sarebbe dovuto produrre nel termine ex articolo 183 del Codice di procedura civile, si perverrebbe di fatto ad un aggiramento, peggio, ad una interpretatio abrogans di tale ultima norma.

I documenti acquisiti direttamente dal c.t.u. Il c.t.u., quando svolge le sue indagini da solo, cioè senza la presenza del giudice, può compiere tutti gli accertamenti che siano collegati con l'oggetto della perizia. Egli può così:

- attingere aliunde notizie non rilevabili dagli atti processuali; - ottenere copie di documenti da enti o uffici pubblici; - assumere informazioni da terzi.

Come già visto, stando alla lettera dell’articolo 194 del Codice di procedura civile, l'assunzione di informazioni da terzi da parte del consulente è subordinata all'autorizzazione del giudice. Tuttavia la Corte di cassazione ha spesso interpretato assai estensivamente questa norma, ammettendo che il c.t.u. possa assumere informazioni da terzi anche senza la preventiva autorizzazione del giudice, purché tali informazioni pertengano all’oggetto strettamente tecnico delle indagini. La Suprema Corte ha più volte affermato, a questo riguardo, che rientra nel potere del consulente d'ufficio attingere aliunde notizie non rilevabili dagli atti processuali e concernenti fatti e situazioni che formino oggetto dei suoi accertamenti, quando ciò sia necessario per espletare convenientemente il compito affidatogli.

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Quando, poi, il c.t.u. acquisisca documenti da terzi, il principio del contraddittorio deve ritenersi rispettato tutte le volte che alle parti sia stato data la possibilità di esaminare i suddetti documenti e controdedurre ad essi; in terminis, Cassazione, sezione I, 7 novembre 1989, numero 4644. Ciò vuol dire che quando il consulente assume informazioni da terzi, l’unico canone procedurale che deve osservare è quello di indicare nella relazione la fonte delle proprie informazioni, in modo da permettere il controllo delle parti su esse. Naturalmente, quando sia consentito al c.t.u. acquisire documenti da terzi, deve di necessità riconoscersi alle parti la possibilità di dedurre nuovi mezzi di prova per vincere le risultanze di tali documenti. Il potere di assumere informazioni o documenti da terzi incontra un limite: quello dell’onere probatorio. Il c.t.u. può, di propria iniziativa, assumere informazioni ed acquisire elementi da terzi solo se tali informazioni e documenti concernono fatti accessori, cioè fatti rientranti nell'ambito strettamente tecnico della consulenza.

Non può invece il consulente, di propria iniziativa, assumere informazioni od acquisire documenti relativi a fatti che - per essere posti a fondamento delle domande o delle eccezioni delle parti - debbono essere provati da queste; in tal senso Cassazione, sezione II, 15 aprile 2002, numero 5422. L'utilizzo da parte del c.t.u. di materiale documentario acquisito al di fuori del contraddittorio delle parti è causa di nullità della relazione, ma il relativo vizio costituisce una ipotesi di nullità relativa. Quindi la relativa eccezione deve essere sollevata nella prima istanza o difesa successiva al deposito della relazione, altrimenti la nullità resta sanata; così Cassazione, sezione lavoro, 26 giugno 1984, numero 3743. Per “prima istanza” o difesa successiva al deposito della c.t.u., in questo caso, deve intendersi la prima occasione in cui la parte può legittimamente interloquire, dopo avere preso debita cognizione della relazione di c.t.u. Pertanto la “prima istanza o difesa successiva al deposito della relazione” coinciderà con la prima udienza successiva a tale momento, se la relazione è stata depositata tempestivamente; in caso contrario, il dies ad quem per sollevare l’eccezione in parola sarà rappresentato dalla seconda udienza successiva al deposito.

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L’esame delle dichiarazioni del danneggiato Il consulente tecnico, ai sensi dell’articolo 191 del Codice di procedura civile, può assumere informazioni anche dalle parti stesse. Tale eventualità ricorre sistematicamente nell’ipotesi di consulenza medico legale su persona vivente, dalla cui viva voce normalmente il c.t.u. raccoglie l’anamnesi. Per stabilire quale sia il valore di tali dichiarazioni, è opportuno distinguere tra dichiarazioni pro se e dichiarazioni contra se. Le dichiarazioni (e le informazioni) rese al c.t.u. dal danneggiato non possono costituire prova a favore del dichiarante, trattandosi di atti di parte. Ciò vuol dire che il consulente non può fondare le proprie conclusioni unicamente su quanto dichiarato dalla parte, ma avrà l’obbligo di vagliare la loro attendibilità in base ad elementi esterni ed obiettivi di riscontro. Così, ad esempio, se si controverte in tema di lievi danni causati da un sinistro stradale, e l’attore-danneggiato dichiara al consulente di provare dolore ai gradi estremi di una certa articolazione, tale dichiarazione potrà essere utilizzata dal c.t.u. solo se corroborata da elementi oggettivi di riscontro (ad esempio, referti che documentino visite ripetute, ricevute di spesa per fisioterapia, prescrizioni di antidolorifici, ecc.). In mancanza, le dichiarazioni suddette non possono costituire né una prova, né un indizio. E’ controverso, invece, se possano avere natura confessoria le dichiarazioni contra se, rese dalla parte al consulente d’ufficio. Secondo un primo orientamento, esse fanno piena prova dei fatti dichiarati, se sfavorevoli al dichiarante e favorevoli alla controparte. La dichiarazione contra se resa al c.t.u. può infatti essere considerata una vera e propria confessione giudiziale, ex articolo 2733 codice civile, in quanto resa ad un ausiliario del giudice nel corso del procedimento. Per un diverso orientamento, invece, le informazioni fornite dalla parte al c.t.u., ex articolo 194 del Codice di procedura civile, anche se si concretano nel riconoscimento di fatti sfavorevoli alla parte stessa, non assurgono a valore di confessione, e cioè di prova legale, ma costituiscono soltanto elementi indiziari, liberamente apprezzabili dal giudice, alla stregua delle risposte date a questo dalle parti durante l’interrogatorio libero; in tal senso Cassazione, sezione II, 21 luglio 1965, numero 1666. Non fanno invece prova, anche se aventi contenuto confessorio, le dichiarazioni rese al c.t.u. dai consulenti di parte, in quanto esse non essendo vincolanti per la parte rappresentata; così Cassazione, sezione lavoro, 26 gennaio 1996, numero 600. Ovviamente, anche nei casi in cui non costituiscono prova, le dichiarazioni rese dalle parti al c.t.u. sono sempre liberamente valutabili dal giudice, al fine di formare il proprio libero convincimento; in tal senso Cassazione, sezione II, 24 maggio 1972, numero 1620

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3. La relazione di consulenza

Il contenuto della relazione di consulenza Nella relazione di consulenza il c.t.u. deve sforzarsi di fornire una risposta quanto più chiara, esauriente e razionalmente motivata a ciascuno dei quesiti formulati dal giudice. Ovviamente tale risultato può essere conseguito attraverso le più varie forme espositive. Tuttavia una consulenza medico legale valida e proficuamente utilizzabile nel processo deve prevedere cinque parti indefettibili, che potremmo definire: epigrafica, narrativa, descrittiva, valutativa o epicritica, conclusiva. Le esamineremo ora partitamente.

Parte epigrafica E’ la parte iniziale della relazione di consulenza; in essa vanno indicati ovviamente gli estremi del procedimento (numero di ruolo, nomi delle parti, organo giudiziario procedente). Non è necessario trascrivere i quesiti posti dal giudice, ma può essere utile per comodità di lettura. Taluni consulenti in questa parte ritengono di trascrivere sia le conclusioni rassegnate dalle parti, sia il contenuto degli atti introduttivi del giudizio. Questa prassi appare tuttavia sconsigliabile. Gli atti di parte sono ovviamente noti al giudice, ed è pertanto inutile trascriverli. Può, per contro, essere utile riassumere le posizioni delle parti, limitatamente a quei fatti che costituiscono l’oggetto della consulenza. Per gli stessi motivi, è superfluo riportare, in questa parte della consulenza, le conclusioni delle parti.

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Parte narrativa Se alle operazioni peritali è presente il giudice, di esse si redige verbale che viene allegato alla relazione. Se invece - come è assai frequente - il giudice non ha preso parte alle operazioni di consulenza, non è necessario stilare un verbale di queste ultime; in tal senso Cassazione sezione lavoro,11 maggio 2005, numero 9890. In questo caso tuttavia nella relazione finale è necessario che il c.t.u.:

- dia conto di quando e come abbia svolto le operazioni peritali; - riassuma le eventuali osservazioni, obiezioni od istanze mosse dalle parti o dai loro

consulenti. Quella in esame è la parte “narrativa” della relazione, imposta dall’articolo 195, comma secondo, del codice di procedura civile. La descrizione delle operazioni compiute è necessaria per consentire al giudice di stabilire se si siano verificate nullità durante lo svolgimento dell’incarico, ovvero valutare se appaia fondata l’eccezione di nullità sollevata da una delle parti; per verificare la condotta delle parti, anche al fine di tenerne conto per la decisione, ex articolo 116 codice di procedura civile; per verificare se sia stato rispettato il contraddittorio. Il consulente può adempiere al dettato dell’articolo 195, comma secondo del Codice di procedura civile., in due modi:

- redigendo verbale delle operazioni compiute, ed allegandolo poi alla relazione; - trascrivendo direttamente nella relazione il riassunto delle operazioni compiute.

La trascrizione delle istanze delle parti, poi, è necessaria per consentire al giudice, collazionando le argomentazioni del c.t.u. con le osservazioni delle parti, la fondatezza di queste ultime. Tuttavia né l’omissione del verbale, né l’omessa trascrizione delle istanze delle parti, ha conseguenze processuali. Secondo la Suprema Corte, infatti, poiché la legge non prevede alcuna nullità espressa per la violazione da parte del c.t.u. del disposto dell’articolo 195, comma secondo del Codice di procedura civile, non dà luogo a nullità della consulenza tecnica la mancata indicazione nella relazione delle istanze delle parti e dei loro consulenti, né l’omessa verbalizzazione delle operazioni; in tal senso Cassazione, sezione II, 14 aprile 1999, numero 3680. E’, comunque, pur sempre necessario che dal contesto della relazione risulti come il c.t.u. abbia preso in debita considerazione le istanze delle parti, ovvero che dalla motivazione della relazione possa desumersi con evidenza la infondatezza di tali osservazioni, Diversamente, infatti, non potrebbe ritenersi che il c.t.u. abbia adempiuto compiutamente al proprio incarico, e potrà essere disposta la rinnovazione della consulenza o un approfondimento della stessa. In ogni caso, poi, l’omissione nella relazione delle istanze delle parti può esporre il c.t.u. alle sanzioni disciplinari da parte del Comitato di cui all’articolo 14 disposizioni di attuazione codice di procedura civile.

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Parte descrittiva E’ la parte della consulenza nella quale il c.t.u. dà conto del materiale utilizzato ai fini del proprio giudizio. In questa parte il c.t.u. deve quindi:

- indicare i documenti e le altre prove prese in esame (ad esempio, verbali contenenti deposizioni testimoniali);

- descrivere i risultati dell’esame obiettivo condotto sulla persona del danneggiato. Detto altrimenti, nella parte descrittiva della relazione l’ausiliario deve esporre, in modo organico e compiuto, i fatti sui quali egli ha fondato il proprio convincimento e le risposte ai quesiti. Vale la pena ricordare che:

- per quanto attiene alla scelta dei fatti da esaminare, il c.t.u. non può porre a fondamento della propria risposta fatti mai allegati dalle parti, a meno che non si tratti di circostanze tecniche strettamente attinenti l’oggetto della consulenza;

- per quanto attiene alla prova dei fatti da esaminare, il c.t.u. può di norma ritenere provati soltanto i fatti già ritualmente provati dalle parti con gli ordinari strumenti processuali, e non può accertare di propria iniziativa fatti rispetto ai quali le parti non hanno assolto l’onere della prova su esse incombente.

A quest’ultimo principio, come si vede, è possibile derogare allorché la prova dei fatti costitutivi della domanda (o dell’eccezione) sia impossibile, ovvero sia estremamente difficoltosa, ove non si ricorresse alla consulenza tecnica: situazione, quest’ultima, piuttosto frequente nel caso della c.t.u. medico legale (ad esempio, allorché la consulenza sia disposta per stabilire la congruità di un trattamento sanitario, ovvero stimare il grado di invalidità permanente). Nondimeno, quando la c.t.u. è destinata a divenire fonte di prova il consulente deve prestare particolare attenzione al materiale che intende porre a fondamento delle proprie osservazioni e valutazioni. Egli infatti in quest’ultimo caso è chiamato ad un vero e proprio giudizio sulla prova: sulla sua attendibilità, sulla sua rilevanza, sulla sua concludenza, sulla sua pertinenza. E se, come è la norma, in tema di indagini tecniche il c.t.u. trae la prova del fatto ignorato da una inferenza logica, questa deve ubbidire ai precetti di cui agli articoli 2727-2729 del codice civile, e cioè fondarsi su circostanze gravi, precise e concordanti. S’intende che, se il c.t.u. erra nel ritenere provato un fatto in realtà non dimostrato da elementi sufficienti, tutta la sua valutazione tecnica di quel fatto viene a cadere, e la relazione sarà inservibile. La Corte di cassazione ha riassunto questo principio osservando che le conclusioni cui perviene il c.t.u., per quanto attiene alla ricostruzione fattuale costituente presupposto delle operazioni tecniche da lui compiute, si fondano sul presupposto del rebus sic stantibus: ciò vuol dire che il fondamento fattuale del giudizio del c.t.u. andrà poi, in sede decisionale (e quindi necessariamente successivamente alla consulenza), accertato e valutato dal giudice. Se detta valutazione degli elementi probatori sulla ricostruzione del fatto effettuata dal giudice coinciderà con quella del consulente tecnico (effettuata al solo fine di rispondere ai

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quesiti), la consulenza si fonda su fatti storicamente esatti, per cui potrà passarsi ad un esame dell'esattezza degli accertamenti tecnici e delle relative conclusioni. Se invece detta ricostruzione dei fatti è errata, in quanto non condivisa dal giudice, l'inesattezza del presupposto travolgerà l'iter argomentativo tecnico sviluppato dal consulente, nella parte in cui si fonda su tali premesse; così Cassazione, sezione III, 10 maggio 2001, numero 6502. Elemento essenziale della parte descrittiva della c.t.u. medico legale è l’esame obiettivo del danneggiato: cioè la descrizione del suo stato clinico attuale. L’esame obiettivo deve mettere in condizione il giudice di valutare le attuali condizioni di salute del danneggiato. Esso dunque non deve limitarsi a riportare le indicazioni prescritte dai tradizionali insegnamenti della medicina legale, spesso scontati o del tutto inutili per il giudice. Si legge spesso nelle relazioni di consulenza, ad esempio, che la persona esaminata ha “pupille isocoriche ed isocicliche”, oppure che “è in normale stato di nutrizione e sanguificazione”. Le condizioni di nutrizione o la isocoria delle pupille del danneggiato tuttavia sono di norma del tutto irrilevanti per la stima del danno alla persona (a meno che ovviamente le lesioni causate dal sinistro non siano state esse stesse causa di calo ponderale o denutrizione). Il c.t.u. deve, invece, esporre in modo completo condizioni, deficit e caratteristiche di una persona viva e vitale: e quindi peso, altezza, complessione, atteggiamento psichico, situazioni familiare, occupazione. Così ad esempio, se un danneggiato ha riportato in conseguenza di un sinistro una lieve zoppia, sbaglierebbe il c.t.u. che non desse conto nell’esame obiettivo trattarsi di persona obesa, in quanto tale condizione esaspera l’affaticamento e, di conseguenza, il danno causato dalla zoppia.

Parte valutativa o epicritica Altrimenti detta “discussione medico legale”, è la parte della consulenza nella quale il c.t.u. esprime il proprio giudizio valutativo: e quindi spiega perché ha ritenuto esistente un fatto (c.t.u. percipiente: ad esempio, perché ha ritenuto sussistente il nesso causale tra l’infortunio e la morte), ovvero spiega perché ha fornito una certa valutazione di un fatto (c.t.u. deducente: ad esempio, perché ha ritenuto sussistente una invalidità permanente di un certo grado). In essa il c.t.u. deve fornire la genuina e motivata ricostruzione del fatto, dell’evento, del nesso, del processo, del fenomeno che gli è stato chiesto di accertare o valutare. E’ opportuno operare, a questo riguardo, un distinguo. Quando al consulente sia richiesta la mera rilevazione di un fatto, vale a dire la rilevazione di un dato suscettibile di essere acquisito attraverso la mediazione di conoscenze tecniche, egli deve compiere solo una descrizione del dato stesso, limitandosi - al massimo - ad esporre il metodo col quale quel dato sia stato acquisito. In questi casi, il c.t.u., non avrà alcun obbligo di motivazione, ma solo di descrizione. Così, ad esempio, ove al c.t.u. sia domandato di eseguire una autopsia, egli esaurirà il suo compito nel descrivere lo stato di cose che abbia riscontrato. Dovrà indicare quali indagini abbia compiuto, ma non dovrà ovviamente motivare sul perché abbia ritenuto esistente - ad esempio - un edema polmonare od un ematoma cerebrale. L’accertamento di tali fatti costituisce la traduzione in termini scientifici di un dato della realtà oggettiva, non il portato dì un'attività di giudizio. In altri termini, nell'accertamento e rilevazione di dati, si pone al c.t.u. un problema di indicazione e corretta lettura delle fonti, non di motivazione.

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Quando, invece, al c.t.u. sia richiesto l’accertamento della causa di un fatto, ovvero una valutazione in termini di compatibilità tra una causa ed un effetto (ad esempio, stabilire quali siano le cause della morte), il consulente non può limitarsi ad una descrizione del dato acquisito, ma deve elaborarlo e fornire un giudizio su esso, giudizio che dovrà essere motivato. In questi casi, quindi, l’ausiliario deve spiegare al giudice ed alle parti per quale ragione abbia ritenuto sussistente un rapporto di implicazione, esclusione od indifferenza tra due fatti. Pertanto, nella valutazione di dati, si pone al c.t.u. un problema non solo di indicazione e corretta lettura delle fonti, ma anche di motivazione. Nei giudizi aventi ad oggetto il risarcimento di danni alla salute, normalmente si richiedono al c.t.u. ambedue le attività sopra descritte: la rilevazione di postumi (permanenti o temporanei) costituisce infatti un accertamento tecnico (di un fatto); la determinazione del grado di invalidità permanente è invece un accertamento critico (un giudizio), che scaturisce dalla comparazione di un fatto oggettivo con la previsione di un baréme, e che va motivato dall’ausiliario col seguente sillogismo:

- il baréme A assegna al postumo P un grado di invalidità pari ad x; - ho riscontrato in corpore il postumo P; - ergo, nel caso in esame sussiste un'invalidità x.

Al medico legale si domanda infatti non tanto e non soltanto un'opinione conclusiva sulla misura della riduzione della validità, quanto di reperire ed evidenziare al giudice gli elementi medico legali che sarà poi il giudice ad utilizzare per la propria valutazione, “non rinunziabile né delegabile”. Ciò vuol dire che, nel giudizio di risarcimento del danno alla persona, compito primario del medico legale è, prima ancora di fornire al giudice una misura percentuale, quello di descrivere: descrivere in cosa la vita del danneggiato sia stata limitata dai postumi delle lesioni. Sarà poi il giudice, inserendo la risposta tecnica data dal consulente nel quadro di tutti gli elementi disponibili, a formarsi il convincimento sul punto da decidere; in tal senso Cassazione 6 marzo 1984, numero 1567. Sia quando il c.t.u. è chiamato a svolgere un ruolo percipiente, sia quando è chiamato a svolgere un ruolo deducente, egli nella discussione medico legale deve evitare sia il "silenzio" che il "rumore". Si ha silenzio quando il medico-legale omette di riferire al giudice circostanze significative in relazione all'oggetto della controversia. Ad esempio quando, dopo aver descritto uno stato patologico, trae delle conclusioni in ordine alla sua eziogenesi dimenticando di ripercorrere tutto l'iter logico attraverso il quale a quelle conclusioni giunse. In tal modo, il giudice è oggettivamente impossibilitato a verificare la bontà delle soluzioni prospettate. Si ha altresì silenzio quando, ad esempio, dopo aver riscontrato l'ipotonotrofia muscolare di un arto attinto da un trauma, il medico-legale omette di indicare se essa sia presente nell'arto controlaterale: di guisa che permane il dubbio circa la riconducibilità dell'ipotonotrofia al trauma. Di un'ipotesi particolare di silenzio si è già detto, e ricorre allorché il medico-legale ponga a fondamento della sua risposta le dichiarazioni resegli dalla persona periziata, senza aver compiuto alcun riscontro oggettivo. Analogamente, si ha silenzio quando il medico-legale pone a base della sua diagnosi, in assenza di ulteriori riscontri oggettivi, un solo certificato redatto dal medico curante. Non che una simile certificazione sia priva di valore, ovviamente: ma riguardata in sé e da sola, processualmente essa non è che una dichiarazione proveniente da un terzo, non pubblico ufficiale, e quindi non è assistita da alcuna presunzione legale di veridicità (articolo 2700 codice civile). Tutte le ipotesi di silenzio sopra descritte si convertono ipso facto in altrettante ipotesi di insufficienza probatoria in ordine al nesso causale tra evento traumatico e lesioni. Non si ha, invece, silenzio, allorché Il c.t.u. ometta di riportare nelle conclusioni della relazione i risultati di tutte le indagini compiute: gli elementi reputati privi di rilevanza possono infatti essere omessi, senza che ciò infirmi la concludenza e la legittimità dell'elaborato; così Cassazione 9 ottobre 1985, numero 4908. Del pari, non è necessario che il c.t.u. trascriva nella relazione le osservazioni formulate dalle parti o dai loro consulenti, occorrendo solo che tali osservazioni siano state tenute presente nello svolgimento dell'incarico, in tal senso Cassazione 14 febbraio 1994, numero 1459.

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Si ha rumore, invece, quando il medico-legale deborda dai quesiti postigli, affrontando questioni non richieste o semplicemente non necessarie. Nell'ambito del "rumore" deve farsi rientrare altresì la formulazione di pareri o, peggio, affermazioni recise di contenuto giuridico in merito ai fatti di causa. Come già detto, in questi casi il medico-legale, oltre ad invadere un campo istituzionalmente riservato al giudice, corre il rischio di indurre in errore alcuna delle parti sulle istanze istruttorie da formulare o sul tipo di conclusioni da rassegnare. Nella parte valutativa della consulenza, infine, il medico legale dovrà espressamente prendere posizione (vuoi accogliendole, vuoi confutandole) sulle osservazioni eventualmente mosse dalle parti alla bozza di relazione che va ad esse previamente comunicata, secondo la previsione dell’art. 195, comma 3, codice di procedura civile.

Parte conclusiva E’ buona norma che il c.t.u., dopo avere esposto in modo analitico il risultato delle proprie indagini, e motivato le risposte ai quesiti, riassuma il proprio lavoro e lo esponga in modo sintetico, fornendo risposte concise esposte subito dopo la trascrizione di ogni singolo quesito. E’ questa la parte conclusiva della relazione, la quale - sebbene non imposta da alcuna norma - è tuttavia suggerita dall’esperienza, al fine di fornire un immediato resumé di tutto il lavoro del consulente.

L’accertamento delle micropermanenti. Norme ad hoc per l’accertamento del danno alla salute che abbia causato postumi micropermanenti son state apparentemente - si dirà tra breve il perché di questo avverbio - dettate dal decreto legge 24 gennaio 2012 n. 1 (convertito, con modificazioni, dalla legge 24 marzo 2012, n. 27, e recante “Disposizioni urgenti per la concorrenza, lo sviluppo delle infrastrutture e la competitività”). Tali regole sono contenute nell’art. 32, commi 3 ter e 3 quater, del d.l. 1/2012. Ambedue le previsioni sono state inserite dalla legge di conversione. Il comma 3 ter del rinnovato art. 32 del d.l. 1/12 ha modificato il comma 2 dell’art. 139 del Codice delle Assicurazioni (d. lgs. 7.9.2005 n. 209), aggiungendovi il seguente periodo:

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“In ogni caso le lesioni di lieve entità che non siano suscettibili di accertamento clinico strumentale obiettivo, non possono dar luogo a risarcimento per danno biologico permanente”. Il comma 3 quater stabilisce invece (senza modificare testualmente il Codice delle Assicurazioni): “Il danno alla persona per lesioni di lieve entità di cui all’articolo 139 del decreto legislativo 7 settembre 2006 n. 209 è risarcito solo a seguito di riscontro medico legale da cui risulti visivamente o strumentalmente accertata l’esistenza della lesione”. Dal punto di vista dogmatico, i due commi appena trascritti presentano una struttura analoga: tutti e due fissano le condizioni che debbono necessariamente sussistere per potere chiedere ed ottenere il risarcimento del danno alla persona di lieve entità. Nel comma 3 ter infatti si dice che: le lesioni di lieve entità (soggetto) ==> se non siano suscettibili di “accertamento clinico strumentale obiettivo” (precetto) ==> non potranno dar luogo a risarcimento per danno biologico permanente (sanzione) Nel comma 3 quater si dice invece che: il danno alla persona per lesioni di lieve entità ex art. 139 cod. ass. (soggetto) ==> se manca un “riscontro medico legale da cui risulti visivamente o strumentalmente accertata l'esistenza della lesione” (precetto) ==> non è risarcito (sanzione) Ci troviamo dunque al cospetto di due previsioni praticamente identiche, le cui uniche differenze sono soltanto formali. Unica vera ed apprezzabile distinzione tra le due previsioni è che l’una (il comma 3 ter) fa riferimento ai soli postumi permanenti; l’altra (il comma 3 quater) fa riferimento sia ai postumi permanenti, sia a quelli temporanei. Il combinato disposto delle due previsioni porta dunque a concludere che il legislatore abbia voluto ancorare la liquidazione del danno biologico sia temporaneo, sia permanente, in presenza di postumi micropermanenti o senza postumi, ad un rigoroso riscontro obiettivo. Quale è il novum effettivamente introdotto dalle previsioni di cui si discorre? Nessuno. Per convincersene basta riflettere che la legge previgente definiva (e continua a definire) “danno biologico” soltanto quello “suscettibile di accertamento medico legale” (così gli artt. 138 e 139 d. lgs. 7.9.2005 n. 209, ma anche l’art. 13 d. lgs. 23.2.2000 n. 38, nonché, in precedenza, l’abrogato art. 5 l. 5.3.2001 n. 57). “Accertare” deriva etimologicamente dal latino medioevale accertare, deverbativo di certus: esso esprime il concetto di “certificare”, cioè rendere sicuro, riconoscere per vero, verificare . “Suscettibile di accertamento medico legale”, pertanto, vuol dire né più, né meno, che il danno biologico per potere essere risarcito deve essere obiettivamente sussistente in corpore, e la sua assistenza deve potersi predicare non sulla base di intuizioni o suggestioni, ma sulla base di una corretta criteriologia medico legale. Dunque anche prima del d.l. 1/12 il danno biologico era risarcibile solo a condizione che fosse riscontrabile una obiettività medico legale, posto che per la medicina legale non è certo concepibile l’esistenza di danni presunti, figurativi od ipotetici. Ma se così è, deve concludersi che da un punto di vista teorico e dogmatico le nuove norme contenute nell’art. 32 d.l. 1/12 nulla hanno aggiunto e nulla hanno tolto rispetto al passato. Esse non hanno fatto altro che formulare in modo esplicito un principio già necessariamente implicito nel sistema. L’unico effetto che le nuove norme possono dunque produrre non ha natura giuridica e contenuto precettivo, ma ha natura “psicologica” e contenuto “declamatorio-esortativo”. Si intende dire che esse non possono valere a null’altro se non a richiamare l’attenzione dei pratici sulla necessità che il danno alla salute sia accertato in modo rigoroso e zelante, senza facilonerie e pressappochismi, purtroppo assai diffusi nella pratica.

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In virtù di quanto esposto sin qui, i criteri medico legali e giuridici alla luce dei quali procedere all’accertamento dei danni con esiti micropermanenti causati da sinistri stradali non dovranno mutare per effetto della riforma, rispetto a quelli che si sarebbero dovuti adottare in precedenza. Ovviamente dovranno mutare, e molto, se i criteri adottati prima della riforma erano improntati alla sciatteria di cui si è già detto.