La questione meridionale(Leonardo Sciascia, Pirandello e la Sicilia, in Opere 1984-89, Bompiani,...
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La questione
meridionale
IL SUD NELLA LETTERATURA
ASSOCIAZIONE FORMALIT
2018/2019
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Associazione ForMaLit La questione meridionale
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Sommario
Introduzione ............................................................................................................................................................... 2
L’idea di Sud .................................................................................................................................................................. 2
La questione meridionale ...................................................................................................................................... 3
Il secondo Ottocento ................................................................................................................................................... 5
Matilde Serao, Il ventre di Napoli ................................................................................................................................ 6
Giuseppe Tomasi di Lampedusa, Il Gattopardo ................................................................................................. 6
❖ Per riflettere sui testi
Giovanni Verga, Libertà ................................................................................................................................................ 8
❖ Per riflettere sui testi
Il primo Novecento ................................................................................................................................................... 11
Magia ............................................................................................................................................................................ 12
Ernesto De Martino, Sud e Magia .............................................................................................................................. 12
Carlo Levi, Cristo si è fermato a Eboli ....................................................................................................................... 12
Francesco Jovine, Le terre del Sacramento ................................................................................................................ 14
❖ Per riflettere sui testi
Leonardo Sciascia, Gli zii di Sicilia ............................................................................................................................. 16
Curzio Malaparte, La pelle .......................................................................................................................................... 18
❖ Per riflettere sui testi
Dal secondo Novecento a oggi .................................................................................................................................. 20
Nicola Lagioia, La ferocia ........................................................................................................................................... 21
Giorgio Vasta, Spaesamento ....................................................................................................................................... 22
❖ Per riflettere sui testi
Mafia ............................................................................................................................................................................ 23
Roberto Saviano, Gomorra ......................................................................................................................................... 24
❖ Per riflettere sui testi
Glossario ................................................................................................................................................................... 26
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Introduzione
Sappiamo bene che c'era già una “questione meridionale”:
ma sarebbe rimasta come una vaga “leggenda nera” dello
Stato italiano senza l'apporto degli scrittori meridionali.
(Leonardo Sciascia, Pirandello e la Sicilia, in Opere 1984-
89, Bompiani, Milano 1991, p. 1146)
L’idea di Sud
Il Meridione è, prima di tutto, un’idea. O meglio, ai nostri occhi, un’intersezione di concetti,
immagini, storie che dànno origine a un’idea complessa, articolata e contraddittoria. Dal Nord noi
vediamo il Sud come: magico, povero, arcaico, lento, bagnato dal mare, arabo, felice. Allo stesso modo,
il Meridione ha un’immagine del Nord come operoso, grigio, intristito, ricco, solitario, sospeso fra la
monocultura del mais e le ciminiere delle fabbriche. Nessuna di queste due istantanee rappresenta la
realtà, poiché nell’immaginario collettivo i contenuti di verità si mischiano inscindibilmente ai discorsi,
alle immagini e ai pregiudizi.
La rappresentazione che solitamente ci diamo del Meridione si basa, in ugual misura, su dati di
fatto e sulle rappresentazioni mentali di un determinato territorio. La storia di queste ultime può essere
di breve (il ragionamento sulla mafia, ad esempio, non ha molto più di un secolo) ma anche lunghissimo
periodo: basti pensare ai moltissimi modelli culturali che ci provengono direttamente dall’età classica.
Proprio la letteratura, in moltissimi casi, si fa veicolo di queste rappresentazioni: tanti dei miti che
ancora oggi caratterizzano il Sud della Penisola nascono nelle pagine di grandi scrittori, italiani e non.
Napoli, 27 febbraio 1787
[…] Si dica o racconti o dipinga quel che si vuole, ma qui ogni attesa è superata. Queste rive, golfi, insenature, il
Vesuvio, la città coi suoi dintorni, i castelli, le ville! – Al tramonto andammo a visitare la grotta di Posillipo, nel momento in
cui dall’altro lato entravano i raggi del sole declinante. Siano perdonati tutti coloro che a Napoli escono di senno! Ricordai
pure con commozione mio padre, cui proprio le cose da me vedute avevano lasciato un’impressione incancellabile. E così
come si vuole che chi abbia visto uno spettro non possa più ritrovare l’allegria, si potrebbe dire all’opposto che mio padre
non poté mai essere del tutto infelice, perché il suo pensiero tornava sempre a Napoli.
(Goethe, Viaggio in Italia, Oscar Mondadori, Milano 2011, pp. 205-206)
Il mito di un Sud fertile, paradisiaco, rifugio alle fredde stagioni invernali che tanto pesano sui
popoli del nord è antico; tuttavia, nessuno quanto Goethe ha contribuito alla sua diffusione al di fuori
dei confini italiani. Il Sud in questo modo assume alcuni dei tratti che ancora oggi gli assegniamo: viene
grammaticalizzato.
Solo un ventennio dopo un altro grande autore, questa volta francese, Stendhal, è affascinato dall’Italia
a tal punto da ambientare numerose opere nella penisola. Non sfugge alla sua attenzione la Sicilia, terra
nella quale progettò più volte di recarsi, senza tuttavia mai mettervi piede.
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Palermo, 22 luglio 1838
Non sono un naturalista, e conosco mediocremente il greco; il mio principale fine, venendo in Sicilia, non è stato
dunque di osservare i fenomeni dell’Etna o di chiarire in qualche modo a me stesso e agli altri quanto gli antichi scrittori
greci hanno detto sulla Sicilia. Ho cercato innanzi tutto il piacere degli occhi che in questo singolare paese è assai vivo.
Dicono che la Sicilia somigli all’Africa; certo, somiglia all’Italia solo per l’intensità delle sue passioni. Per i siciliani si può
dire davvero che non esiste la parola impossibile quando l’amore e l’odio li accendono; e l’odio, in questa terra felice, non
nasce mai da questioni di denaro.
(Stendhal, La duchessa di Palliano, Mondadori, Milano 1994, p. 23)
Stendhal contribuisce con un altro mattoncino all’edificazione di quell’idea, di grande successo,
che vede i meridionali in generale, e in particolare i siciliani, in preda a grandi passioni, che non si
arrestano davanti a nulla, in grado di divenire vere e proprie ragioni di vita. Sull’interpretazione
dell’autore si può essere in accordo o disaccordo; quello che ci interessa è però un altro aspetto:
Stendhal costruisce il testo su una serie di contraddizioni, che assumono una forma ben precisa, in
grado di rendere in poche parole osservazioni e problematiche di non facile enunciazione. Le doppie
negazioni, gli ossimori, gli accostamenti analogici sono in grado di dare una forma alle contraddizioni
di un luogo e di un tempo, rendendocele presenti. Tutto ciò è uno dei tratti caratteristici della
letteratura: è il secondo motivo per cui, a nostro parere, affrontare la questione meridionale con gli
strumenti della rappresentazione letteraria è meno strano di quanto possa inizialmente apparire. La
letteratura in questo senso è, seppur indirettamente, un ottimo strumento di conoscenza e
problematizzazione del presente.
La questione meridionale
Meridionale, questione. Il dibattito circa le ragioni che avrebbero determinato e, con il
trascorrere del tempo, aggravato la situazione di sottosviluppo economico e sociale del Mezzogiorno
d’Italia, fin dal costituirsi dello Stato unitario. [Enciclopedia Treccani]
Non solo gli scrittori hanno parlato del Meridione. Una lunga serie di riflessioni politiche, in
debito con storiografia, antropologia, filosofia e sociologia ha contribuito a delineare i confini di quella
che, da un secolo a questa parte, si definisce comunemente questione meridionale. Quando possibile,
affiancheremo ai testi letterari brani di studiosi che si sono occupati di storia e cultura del Meridione:
da una lettura parallela spesso scaturiscono ulteriori spunti di riflessione.
Uno degli autori che ha contribuito in modo sostanziale alla definizione della questione meridionale è
Antonio Gramsci, uno dei maggiori pensatori comunisti del Novecento italiano, morto nelle carceri
fasciste dopo un decennio di prigionia. Sia in opere specifiche che nei Quaderni del carcere Gramsci
affronta la problematica, individuandone le cause storiche in disequilibri di lunghissima durata,
aggravati dalla politica della Nuova Italia uscita dal Risorgimento.
Già nel 1911 in una pubblicazione semiufficiale posta sotto il patronato dell'Accademia dei lincei, Francesco
Coletti, un economista serio e poco amante dei paradossi, aveva fatto notare che l'unificazione delle regioni italiane sotto
uno stesso regime accentratore aveva avuto per il Mezzogiorno conseguenze disastrose, e che la cecità dei governanti,
dimentichi del programma economico cavouriano, aveva incrudito lo stato di cose dal quale originava la annosa e ormai
cronica questione meridionale.
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La nuova Italia aveva trovato in condizioni assolutamente antitetiche i due tronconi della penisola, meridionale e
settentrionale, che si riunivano dopo più di mille anni. L'invasione longobarda aveva spezzato definitivamente l'unità creata
da Roma, e nel Settentrione i Comuni avevano dato un impulso speciale alla storia, mentre nel Mezzogiorno il regno degli
Svevi, degli Angiò, di Spagna e dei Borboni ne avevano dato un altro. Da una parte la tradizione di una certa autonomia
aveva creato una borghesia audace e piena di iniziative, ed esisteva una organizzazione economica simile a quella degli altri
Stati d'Europa, propizia allo svolgersi ulteriore del capitalismo e dell'industria. Nell'altra le paterne amministrazioni di
Spagna e dei Borboni nulla avevano creato: la borghesia non esisteva, l'agricoltura era primitiva e non bastava neppure a
soddisfare il mercato locale; non strade, non porti, non utilizzazione delle poche acque che la regione, per la sua speciale
conformazione geologica, possedeva.
(Antonio Gramsci, La questione meridionale, Editori Riuniti, Roma 1966, p. 4)
Gramsci identifica una serie di cause storiche, che dovremmo tenere presente nel corso della
nostra discussione. Innanzitutto, le conseguenze nefaste che la scelta di accentramento compiuta
all’indomani dell’Unità ebbe sulle singole regioni: la potenziale modernizzazione economica e sociale
non avrebbe così avuto modo di svilupparsi. D’altra parte, il differenziale economico – comunque il
più importante, nella prospettiva del marxista Gramsci – avrebbe cause antichissime, a partire dalla
divisione dell’unità italiana in seguito all’invasione longobarda e alla diversa evoluzione politica delle
varie zone: da una parte i liberi comuni, dall’altra il feudalesimo normanno. La mancanza di una
borghesia propulsiva nel corso dell’Ottocento, secondo questa lettura, non avrebbe quindi permesso al
Meridione di uscire dall’ancient régime in tempo per l’unificazione.
Altri storici hanno fornito ulteriori proposte per spiegare quello squilibrio fra Nord e Sud Italia
che nessuna iniziativa politica è stata in grado, fino ad ora, di risolvere. Rosario Villari, ad esempio,
fornisce un’ulteriore prospettiva nel suo Mezzogiorno e democrazia, individuando una delle cause in
un deficit di «partecipazione attiva alla vita dello Stato di fasce ampie e medio-basse della popolazione»:
nella mancanza, cioè, di un impulso dato dal governo centrale al Sud in termini di partecipazione ai
processi regionali e nazionali di sviluppo.
Mi pare che l’essenza della questione meridionale, anziché nello ‹‹sfruttamento›› economico e finanziario (che in
qualche modo avrebbe presupposto, per raggiungere una reale efficacia, una unità economica maggiore di quella che
effettivamente era tra Nord e Sud, oppure una vera e propria soggezione politica, una conquista), sia nella ‹‹rinunzia››,
determinata dalla stessa struttura risorgimentale dello Stato e imposta a tutto il paese dall’orientamento
dell’industrializzazione, ad utilizzare le potenziali risorse umane, intellettuali, economiche del Mezzogiorno nella
costruzione della società italiana.
(Rosario Villari, Mezzogiorno e democrazia, Laterza, Bari 1979, p. 50)
La lettura di Villari vede dunque un Sud basato da una parte sul predominio culturale e politico
dei grandi proprietari; dall’altra su masse passive, non in grado di fornire una partecipazione attiva alla
vita comune.
L’intento di questa dispensa è quindi duplice: a un ampliamento del programma di italiano si
affiancherà una riflessione su una questione che continua nei nostri anni ad essere di attualità. Le forme
letterarie dovranno prima di tutto essere storicizzate – collocate nel loro tempo – quindi interpretate.
Solo a questo punto sarà possibile metterle a confronto con il nostro presente: il nostro augurio è che
possa essere proprio la percezione dei partecipanti al laboratorio ad essere messa in discussione, perché
messa a confronto con l’idea di Sud, ma anche, più in particolare, con i diversi significati, storici e
culturali, che l’espressione questione meridionale contiene e veicola.
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Il secondo Ottocento
Quando si parla di unificazione del Regno delle Due Sicilie al Regno d’Italia, viene in mente
un evento in particolare: lo sbarco di Giuseppe Garibaldi, comandante dei Mille, a Marsala, in Sicilia,
l’11 maggio 1860. Da qui, una volta presa l’isola, l’esercito garibaldino risalirà la penisola per spianarsi
la strada verso il cuore del nuovo stato italiano, costruendo le basi per l’adesione, nell’ottobre dello
stesso anno, al governo dei Savoia, un processo che vede un’accelerazione all’indomani dell’incontro a
Teano fra Garibaldi e Vittorio Emanuele re di Sardegna.
L’unificazione la si può raccontare così, come un evento militare e istituzionale le cui dinamiche
appaiono lineari: il racconto del processo storico, infatti, tende a semplificare cause e circostanze
particolarmente complesse. Nel momento in cui Nord e Sud vengono a contatto, infatti, l’impressione
generale, spesso rintracciabile nei documenti dell’epoca, è quella di una grande distanza – culturale, ma
non solo – tra la classe dirigente piemontese e le masse del Mezzogiorno: «altro che Italia. Questa è
Affrica: i beduini, a riscontro di questi caffoni, sono fior di virtù civile»1. Nasce così (male) la questione
meridionale.
Gli ultimi quarant’anni del XIX secolo sono una costellazione di problemi che dobbiamo tenere
fin d’ora a mente. Qual è lo stato del Mezzogiorno e del centro-nord nel marzo del 1861? Sul piano
socioeconomico, la differenza vistosa fra le due parti del paese è una: a sud domina ancora il sistema
agrario latifondista, per cui il settore primario della produzione è in mano a pochi proprietari terrieri
che controllano grandi terre; mentre a nord è sviluppata una piccola e media proprietà più avanzata.
Nel neonato regno c’è povertà tanto a Sud che a Nord (e al suo interno quello che chiamiamo Nord è
altrettanto diversificato), ma l’ex Regno di Napoli parte da una posizione strutturalmente più arretrata.
L’Italia postunitaria deve affrontare il problema del grande deficit pubblico. La classe dirigente
della Destra storica sceglie una precisa politica economica: vengono abolite le tariffe protezionistiche e
si aprono, così, le frontiere dell’ex Regno di Napoli; tuttavia, il Sud rimane troppo debole
economicamente per resistere alla concorrenza con le industrie del Nord e del resto d’Europa. A livello
politico, invece, si sceglie la centralizzazione, sotto il segno della continuità con la politica piemontese2.
E ha inizio così un ciclo vizioso di interdipendenza Nord-Sud, che si esaspera soprattutto a fine secolo:
in seguito alla crisi agraria del 1880 precipitano i prezzi dei prodotti agricoli. Lo Stato applica misure
protezionistiche per far fronte alla crisi agraria e tutelare l’industria nazionale: il Mezzogiorno è così
costretto ad acquistare i prodotti industriali del Nord a prezzo più alto rispetto ai prodotti stranieri
sottoposti a dazio.
È in questo stato di cose che il problema del brigantaggio diventa un problema nazionale. Nato
come vera e propria lotta di classe interna alla società meridionale, il conflitto fra cafoni e galantuomini
è innanzitutto una delle conseguenze di quell’arretratezza economica che è il latifondismo del Sud: ma
dal 1861 assume anche le forme di una rivolta contro lo Stato sabaudo, il quale, a sua volta, ricorre alla
repressione militare talvolta sommaria. Ancora una volta, nella questione meridionale entrano in
collisione fattori economici, politici e sociali.
1 Lettera a Cavour di Luigi Carlo Farini (1812 – 1866), ministro dell’interno del terzo governo Cavour. 2 Per 9 dei primi 15 anni del Regno, i presidenti sono piemontesi.
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Cominciamo dall’incipit de Il ventre di Napoli (1884) di Matilde Serao, scrittrice e giornalista. Nel libro è chiaro l’obiettivo
giornalistico di denuncia sociale: l’autrice si addentra nelle viscere della città partenopea, si sofferma sui suoi abitanti e sulle
loro misere condizioni di vita. ‹‹Bisogna sventrare Napoli›› è la frase da cui nasce l’invettiva della Serao proprio contro la
classe dirigente.
Bisogna sventrare Napoli
Efficace la frase. Voi non lo conoscevate, onorevole Depretis, il ventre di Napoli. Avevate torto,
perché voi siete il Governo e il Governo deve saper tutto. Non sono fatte pel Governo, certamente, le
descrizioncelle colorite di cronisti con intenzioni letterarie, che parlano della via Caracciolo, del mare
glauco, del cielo di cobalto, delle signore incantevoli e dei vapori violetti del tramonto: tutta questa
rettorichetta a base di golfo e di colline fiorite, di cui noi abbiamo già fatto e oggi continuiamo a fare
ammenda onorevole, inginocchiati umilmente innanzi alla patria che soffre; tutta questa minuta e facile
letteratura frammentaria, serve per quella parte di pubblico che non vuole essere seccata per racconti
di miserie. Ma il governo doveva sapere l’altra parte; il governo a cui arriva la statistica della mortalità e
quella dei delitti; il governo a cui arrivano i rapporti dei prefetti, dei questori, degli ispettori di polizia,
dei delegati; il governo a cui arrivano i rapporti dei direttori delle carceri; il governo che sa tutto: quanta
carne si consuma in un giorno e quanto vino si beve in un anno in un paese; quante femmine disgraziate,
diciamo così, vi esitano, e quanti ammoniti siano i loro amanti di cuore, quanti mendichi non possano
entrare nelle opere pie e quanti vagabondi dormano in istrada, la notte; quanti nullatenenti e quanti
commercianti vi sieno; quanto renda il dazio consumo, quanto la fondiaria, per quanto s’impegni al
Monte di Pietà e quanto renda il lotto. Quest’altra parte, questo ventre di Napoli, se non lo conosce il
Governo, chi lo deve conoscere? E se non servono a dirvi tutto, a che sono buoni tutti questi impiegati
alti e bassi, a che questo immenso ingranaggio burocratico che ci costa tanto? E, se voi non siete la
intelligenza suprema del paese che tutto conosce e a tutto provvede, perché siete ministro?
(Matilde Serao, Il ventre di Napoli, BUR Rizzoli, Milano 2012 [18841
], pp. 35-36)
Il Gattopardo (1958) è molto di più della riduzione comune a ‹‹gattopardismo››, trasformismo. In questo passo, i conflitti e
le contraddizioni di un momento storico, infatti, vengono a galla nel dialogo tra Don Ciccio Tumeo, organista della chiesa,
e il principe Fabrizio di Salina: mentre si riposano dalla loro battuta di caccia, i due ricordano il voto al Plebiscito, avvenuto
qualche giorno prima (il 21 ottobre 1860), col quale viene sancita l’annessione del Regno delle Due Sicilie al nascente Regno
d’Italia.
Dietro la scrivania di don Calogero fiammeggiava una oleografia di Garibaldi e (di già) una di
Vittorio Emanuele, fortunatamente collocata a destra; bell’uomo il primo, bruttissimo il secondo
affratellati però dal prodigioso rigoglio del loro pelame che quasi li mascherava. Su un tavolinetto vi era
un piatto con biscotti anzianissimi che defecazioni di mosche listavano a lutto e dodici bicchierini tozzi
colmi di rosolio: quattro rossi, quattro verdi, quattro bianchi: questi, in centro; ingenua simbolizzazione
della nuova bandiera che venò di un sorriso il rimorso del Principe che scelse per sé il liquore bianco
perché presumibilmente meno indigesto e non, come si volle dire, come tardivo omaggio al vessillo
borbonico. Le tre varietà di rosolio erano del resto egualmente zuccherose, attaccaticce e disgustevoli.
Si ebbe il buon gusto di non brindare e comunque, come disse don Calogero, le grandi gioie sono
mute. Venne mostrata a don Fabrizio una lettera delle autorità di Girgenti che annunziava ai laboriosi
cittadini di Donnafugata la concessione di un contributo di duemila lire per la fognatura, opera che
sarebbe stata completata entro il 1961, come assicurò il Sindaco, inciampando in uno di quei lapsus
dei quali Freud doveva spiegare il meccanismo molti decenni dopo; e la riunione si sciolse.
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[...] Dopo il seggio elettorale venne chiuso, gli scrutatori si posero all’opera ed a notte fatta venne
spalancato il balcone centrale del Municipio e don Calogero si rese visibile con panciera tricolore e
tutto, fiancheggiato da due ragazzini con candelabri accesi che peraltro il vento spense senza indugio.
Alla folla invisibile nelle tenebre annunziò che a Donnafugata il Plebiscito aveva dato questi risultati:
Iscritti 515; votanti 512; “sì” 512; “no” zero.
Dal fondo oscuro della piazza salirono applausi ed evviva; […] vennero pronunziati discorsi:
aggettivi carichi di superlativi e di consonanti doppie rimbalzarono e si urtavano nel buio da una parete
all’altra delle case; nel tuonare dei mortaretti si spedirono messaggi al Re (a quello nuovo) ed al
Generale; qualche razzo tricolore si inerpicò dal paese al buio verso il cielo senza stelle; alle otto tutto
era finito, e non rimase che l’oscurità come ogni altra sera, da sempre.
Sulla cima di monte Morco, adesso tutto era nitido sotto la gran luce; la cupezza di quella notte
però ristagnava ancora in fondo all’anima di Don Fabrizio. Il suo disagio assumeva forme tanto più
penose in quanto incerte: non era in alcun modo originato dalle grosse questioni delle quali il Plebiscito
aveva iniziato la soluzione: i grandi interessi del Regno (delle Due Sicilie), gl’interessi della propria
classe, i suoi vantaggi privati uscivano da tutti questi avvenimenti ammaccati ma ancora vitali; […] il
disagio suo non era di natura politica e doveva avere radici più profonde radicate in una di quelle
cagioni che chiamiamo irrazionali perché seppellite sotto cumuli d’ignoranza di noi stessi.
L’Italia era nata in quell’accigliata sera a Donnafugata; nata proprio lì in quel paese dimenticato
quanto nell’ignavia di Palermo e nelle agitazioni di Napoli; una fata cattiva però della quale non si
conosceva il nome doveva esser stata presente; ad ogni modo era nata e bisognava sperare che avrebbe
potuto vivere in questa forma: ogni altra sarebbe stata peggiore. D’accordo. Eppure questa persistente
inquietudine qualcosa doveva significare; egli sentiva che durante quella troppo asciutta enunciazione
di cifre come durante quei troppo enfatici discorsi, qualche cosa, qualcheduno era morto, Dio solo
sapeva in quale andito del paese, in quale piega della coscienza popolare.
Il fresco aveva disperso la sonnolenza di don Ciccio, la massiccia imponenza del Principe aveva
allontanato i suoi timori; ora a galla della sua coscienza emergeva soltanto il dispetto […]. In piedi,
parlava in dialetto e gesticolava, pietoso burattino che aveva ridicolmente ragione.
“Io, Eccellenza, avevo votato ‘no’. ‘No’, cento volte ‘no’. […] e quei porci in Municipio
s’inghiottono la mia opinione, la masticano e poi la cacano via trasformata come vogliono loro […].”
A questo punto la calma discese su Don Fabrizio che finalmente aveva sciolto l’enigma; adesso
sapeva chi era stato strangolato a Donnafugata, in cento altri luoghi, nel corso di quella nottata di vento
lercio: una neonata, la buonafede; proprio quella creaturina che più si sarebbe dovuta curare, il cui
irrobustimento avrebbe giustificato altri stupidi vandalismi inutili.
(Giuseppe Tomasi di Lampedusa, Il Gattopardo, Feltrinelli, Milano 1977 [19581
], pp. 74-76)
PER RIFLETTERE SUI TESTI
• Le parole con cui si apre Il ventre di Napoli non sono disposte casualmente. Quali sono le accortezze formali scelte
dalla Serao per sostenere il tono acceso della sua accusa? Individua, se ci sono, figure retoriche e motiva il loro impiego.
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• Don Calogero, sindaco di Donnafugata, e Fabrizio Salina rappresentano le due classi dirigenti che si alternano a cavallo
di un passaggio storico. Avverti a pelle che il narratore simpatizza più per una delle due? Da cosa lo deduci? In quale
passaggio lascia trasparire il proprio giudizio e in che modo?
• A quali momenti sociali e storici si riferiscono i due estratti della Serao e di Tomasi di Lampedusa? Entrambi, ma da
punti di vista differenti, sono ambientati nel Meridione postunitario: che differenze ci sono tra la Napoli della prima e
la Donnafugata del secondo? E cosa rappresentano i personaggi che le abitano?
• Se Il ventre di Napoli si riferisce esattamente al momento storico in cui è pubblicato il libro, Il Gattopardo racconta
fatti accaduti cento anni prima. In quali parti e in che modo i testi esplicitano questa diversa distanza storica dal
Risorgimento? La scrittura saggistica de Il ventre di Napoli, che afferma ed argomenta, e quella romanzesca del
Gattopardo, che ricrea invece un passato, implicano due diverse forme di rapporto fra letteratura e storia: spiega
secondo te quali possono essere.
La novella Libertà (pubblicata in Novelle Rusticane, 1883) è ambientata in un paesino dell’entroterra siciliano, i Mille sono
già sbarcati a Marsala e c’è aria di liberazione. Un gruppo di popolani si ribella di notte ai cappelli del paese (uomini della
classe medio-alta e alta). Ma è una rivolta disperata: presto l’esercito garibaldino (guidato da un generale ‹‹piccino››) scende
in paese per mettere ordine. Verga reinterpreta così i fatti di Bronte, avvenuti nell’agosto del 1860.
Sciorinarono dal campanile un fazzoletto a tre colori, suonarono le campane a stormo, e
cominciarono a gridare in piazza: ‹‹Viva la libertà!››.
Come il mare in tempesta. La folla spumeggiava e ondeggiava davanti al casino dei galantuomini,
davanti al Municipio, sugli scalini della chiesa: un mare di berrette bianche; le scuri e le falci che
luccicavano. Poi irruppe in una stradicciuola.
– A te prima, barone! che hai fatto nerbare la gente dai tuoi campieri! – Innanzi a tutti gli altri
una strega, coi vecchi capelli irti sul capo, armata soltanto delle unghie.
– A te, prete del diavolo! che ci hai succhiato l’anima! – A te, ricco epulone3, che non puoi
scappare nemmeno, tanto sei grasso del sangue del povero! – A te, sbirro! che hai fatto la giustizia solo
per chi non aveva niente! – A te, guardaboschi! che hai venduto la tua carne e la carne del prossimo
per due tarì al giorno!
E il sangue che fumava ed ubbriacava. Le falci, le mani, i cenci, i sassi, tutto rosso di sangue! –
Ai galantuomini! Ai cappelli! Ammazza! ammazza! Addosso ai cappelli!
Don Antonio sgattaiolava a casa per le scorciatoie. Il primo colpo lo fece cascare colla faccia
insanguinata contro il marciapiede. – Perché? perché mi ammazzate? – Anche tu! al diavolo! – Un
monello sciancato raccattò il cappello bisunto e ci sputò dentro. – Abbasso i cappelli! Viva la libertà! –
Te’! tu pure! – al reverendo che predicava l’inferno per chi rubava il pane. Egli tornava dal dir messa,
coll’ostia consacrata nel pancione. – Non mi ammazzate, ché sono in peccato mortale! – La gnà Lucia,
il peccato mortale; la gnà Lucia che il padre gli aveva venduta a 14 anni; l’inverno della fame, e riempiva
la Ruota e le strade di monelli affamati. Se quella carne di cane fosse valsa a qualche cosa, ora avrebbe
potuto satollarsi4, mentre la sbrandellavano sugli usci delle case e sui ciottoli della strada a colpi di scure.
Anche il lupo allorché capita affamato in una mandra, non pensa a riempirsi il ventre, e sgozza dalla
rabbia. […]
Ma il peggio avvenne appena cadde il figliuolo del notaio, un ragazzo di undici anni, biondo
come l’oro, non si sa come, travolto nella folla. Suo padre si era rialzato due o tre volte prima di
strascinarsi a finire nel mondezzaio gridandogli – Neddu! Neddu! – Neddu fuggiva, dal terrore, cogli
occhi e la bocca spalancati senza poter gridare. Lo rovesciarono; si rizzò anch’esso su di un ginocchio
3 Mangione, ghiottone; che si riempie di cibi raffinati in gran quantità. 4 Saziarsi.
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come suo padre; il torrente gli passò di sopra; uno gli aveva messo lo scarpone sulla guancia e glie
l’aveva sfracellata; nonostante il ragazzo chiedeva ancora grazia colle mani. – Non voleva morire, no,
come aveva visto ammazzare suo padre; – strappava il cuore! – Il taglialegna, dalla pietà, gli menò un
gran colpo di scure colle due mani, quasi avesse dovuto abbattere un rovere di cinquant’anni – e
tremava come una foglia. – Un altro gridò: – Bah! egli sarebbe stato notaio, anche lui!
Non importa! Ora che si avevano le mani rosse di quel sangue, bisognava versare tutto il resto.
Tutti! tutti i cappelli! – Non era più la fame, le bastonate, le soperchierie che facevano ribollire la collera.
Era il sangue innocente. Le donne più feroci ancora, agitando le braccia scarne, strillando d’ira in
falsetto, colle carni tenere sotto i brindelli delle vesti. – Tu che venivi a pregare il buon Dio colla veste
di seta! – Tu che avevi a schifo d’inginocchiarti accanto alla povera gente! – Te’! Te’! – Nelle case, su
per le scale, dentro le alcove, lacerando la seta e la tela fine. Quanti orecchini su delle facce insanguinate!
e quanti anelli d’oro nelle mani che cercavano di parare i colpi di scure.
La baronessa aveva fatto barricare il portone: travi, carri di campagna, botti piene, dietro; e i
campieri che sparavano dalle finestre per vender cara la pelle. La folla chinava il capo alle schioppettate,
perché non aveva armi da rispondere. Prima c’era la pena di morte chi tenesse armi da fuoco. – Viva
la libertà! – E sfondarono il portone. Poi nella corte, sulle gradinate, scavalcando i feriti. Lasciarono
stare i campieri. – I campieri dopo! – Prima volevano le carni della baronessa, le carni fatte di pernici
e di vin buono. Ella correva di stanza in stanza col lattante al seno, scarmigliata – e le stanze erano
molte. Si udiva la folla urlare per quegli andirivieni, avvicinandosi come la piena di un fiume. Il figlio
maggiore, di 16 anni, ancora colle carni bianche anch’esso, puntellava l’uscio colle sue mani tremanti,
gridando: – Mamà! mamà! – Al primo urto gli rovesciarono l’uscio addosso. Egli si afferrava alle gambe
che lo calpestavano. Non gridava più. Sua madre s’era rifugiata nel balcone, tenendo avvinghiato il
bambino, chiudendogli la bocca colla mano perché non gridasse, pazza. L’altro figliolo voleva
difenderla col suo corpo, stralunato, quasi avesse avuto cento mani, afferrando pel taglio tutte quelle
scuri. Li separarono in un lampo. Uno abbrancò lei pei capelli, un altro per i fianchi, un altro per le
vesti, sollevandola al di sopra della ringhiera. Il carbonaio le strappò dalle braccia il bambino lattante.
L’altro fratello non vide niente; non vedeva altro che nero e rosso. Lo calpestavano, gli macinavano le
ossa a colpi di tacchi ferrati; egli aveva addentato una mano che lo stringeva alla gola e non la lasciava
più. Le scuri non potevano colpire nel mucchio e luccicavano in aria.
[…] Prima di notte tutti gli usci erano chiusi, paurosi, e in ogni casa vegliava il lume. Per le strade
non si udivano altro che i cani, frugando per i canti, con un rosicchiare secco di ossa, nel chiaro di luna
che lavava ogni cosa, e mostrava spalancati i portoni e le finestre delle case deserte.
Aggiornava; una domenica senza gente in piazza né messa che suonasse. […] Dal campanile
penzolava sempre il fazzoletto tricolore, floscio nella caldura gialla di luglio.
[…] Il giorno dopo si udì che veniva a far giustizia il generale, quello che faceva tremare la gente.
Si vedevano le camicie rosse dei suoi soldati salire lentamente per il burrone, verso il paesetto, sarebbe
bastato rotolare dall’alto delle pietre per schiacciarli tutti. Ma nessuno si mosse. Le donne strillavano e
si strappavano i capelli. Ormai gli uomini, neri e colle barbe lunghe, stavano sul monte, colle mani fra
le cosce, a vedere arrivare quei giovanetti stanchi, curvi sotto il fucile arrugginito, e quel generale piccino
sopra il suo gran cavallo nero, innanzi a tutti, solo.
[…] Dopo arrivarono i giudici per davvero, dei galantuomini cogli occhiali, arrampicati sulle
mule, disfatti dal viaggio, che si lagnavano ancora dello strapazzo mentre interrogavano gli accusati nel
refettorio del convento, seduti di fianco sulla scranna, e dicendo ahi! ogni volta che mutavano lato. Un
processo lungo che non finiva più. I colpevoli li condussero in città, a piedi, incatenati a coppia, fra due
file di soldati col moschetto pronto. Le loro donne li seguivano correndo per le lunghe strade di
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campagna, in mezzo ai solchi, in mezzo ai fichidindia, in mezzo alle vigne, in mezzo alle biade color
d’oro, trafelate, zoppicando, chiamandoli a nome ogni volta che la strada faceva gomito, e si potevano
vedere in faccia i prigionieri. Alla città li chiusero nel gran carcere alto e vasto come un convento, tutto
bucherellato da finestre colle inferriate […]. Tutti gli altri in paese erano tornati a fare quello che
facevano prima. I galantuomini non potevano lavorare le loro terre colle proprie mani, e la povera
gente non poteva vivere senza i galantuomini. Fecero la pace. […]
Il processo durò tre anni, nientemeno! tre anni di prigione e senza vedere il sole. Sicché quegli
accusati parevano tanti morti della sepoltura, ogni volta che li conducevano ammanettati al tribunale.
Tutti quelli che potevano erano accorsi dal villaggio: testimoni, parenti, curiosi come a una festa, per
vedere i compaesani, dopo tanto tempo, stipati nella capponaia – ché capponi davvero si diventava là
dentro! […]
Li facevano alzare in piedi ad uno ad uno. – Voi come vi chiamate? – E ciascuno si sentiva dire
la sua, nome e cognome e quel che aveva fatto. Gli avvocati armeggiavano fra le chiacchiere, coi larghi
maniconi pendenti, e si scalmanavano, facevano la schiuma alla bocca, asciugandosela subito col
fazzoletto bianco, tirandoci su una presa di tabacco. I giudici sonnecchiavano dietro le lenti dei loro
occhiali, che agghiacciavano il cuore. Di faccia erano seduti in fila dodici galantuomini, stanchi, annoiati,
che sbadigliavano, si grattavano la barba o ciangottavano fra di loro. Certo si dicevano che l’avevano
scappata bella a non essere stati dei galantuomini di quel paesetto lassù, quando avevano fatto la libertà.
E quei poveretti cercavano di leggere nelle loro facce. Poi se ne andarono a confabulare fra di loro, e
gli imputati aspettavano pallidi, e cogli occhi fissi su quell’uscio chiuso. Come rientrarono, il loro capo,
quello che parlava colla mano sulla pancia, era quasi pallido al pari degli accusati, e disse: – Sul mio
onore e sulla mia coscienza!...
Il carbonaio, mentre tornavano a mettergli le manette, balbettava: – Dove mi conducete? In
galera? O perché? Non mi è toccato neppure un palmo di terra! Se avevano detto che c’era la libertà!...
(Giovanni Verga, Libertà, in Tutte le novelle. 1, Oscar Mondadori, Milano 1968, pp. 332-338)
PER RIFLETTERE SUI TESTI
• Verga fa scontrare due mondi: da una parte, quello dei cafoni, dall’altra, quello dei galantuomini, delle forze dell’ordine
e della giustizia. Come li rappresenta? Dopo aver descritto le due sfere di personaggi, rifletti sul loro reciproco rapporto.
È una relazione dinamica, che può essere cambiata col tempo, oppure è statica, una situazione dove qualcosa non
cambierà mai? Argomenta la tua risposta.
• Essendo una novella, Libertà ha una struttura narrativa chiusa. Qual è il punto di massima tensione? Senti qualche
differenza stilistica tra la prima parte del brano e la seconda? E perché secondo te il narratore verista, dovendo in linea
di principio essere impersonale, cambia tono?
• Questa novella verrà pubblicata vent’anni dopo la spedizione garibaldina, salutata con fiducia solo in un primo
momento. Rileggi l’incipit e il finale del racconto: come cambia in un ventennio il significato della parola ‹‹libertà››?
• Anche questo testo, come quello del Gattopardo, racconta a posteriori i giorni dell’Unità, ma qui il senso storico è
perfettamente calato nella scena rappresentata, senza che ci sia bisogno di interventi del narratore. Oltre ai carbonai
che prima esclamano ‹‹Viva la libertà›› e infine si chiedono se vi sia veramente libertà, puoi rintracciare altre allegorie
dell’Unità? Se sì, quali? E credi che attraverso di esse si possa ricostruire l’ideologia di Verga?
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Il primo Novecento
Per la maggior parte della popolazione meridionale l’entrata nel secolo della modernità non
coincide con alcun mutamento sostanziale della propria condizione. Il grande progresso economico e
tecnologico interessa soprattutto le grandi città del Nord, che per tenore di vita e flusso di denaro sono
sempre più simili alle metropoli europee. Il Sud, invece, quasi non conosce industrializzazione: nel
1901 gli impiegati nell’agricoltura sono ancora 2 600 000, per lo più braccianti pagati a cottimo o fittavoli
di un grande proprietario. Se al Nord il proliferare delle industrie favorisce la nascita di una fiorente
borghesia produttiva e di un’agguerrita classe operaia politicizzata dai partiti di massa, al Sud i rapporti
tra classi sociali rimangono rigidi, immutati da secoli. Leggiamo nella Inchiesta parlamentare sui
contadini meridionali:
Vi è in fondo nei proprietari la convinzione che i contadini non sono uomini come loro. Il comm. Dalmazzo,
ispettore generale del Ministero dell’Interno, mandato a Cerignola a comporre lo sciopero del maggio scorso, ebbe a dire
di aver letto sul viso dei proprietari la meraviglia per l’uguaglianza di trattamento formale che esso faceva ai proprietari e ai
contadini, facendo sedere gli uni e gli altri accanto a sé.
(Citato in: Pietro Bevilacqua, Breve storia dell’Italia meridionale, Donzelli, Roma 1993, p. 72)
Per molti la soluzione alla miseria è una sola: emigrare. Dal 1900 al 1915 sono infatti 4 milioni
i meridionali che cercano fortuna al di là dell’Oceano: alcuni di loro trovano un lavoro e mandano a
casa le rimesse; altri, invece, non riescono a sfuggire al loro destino di povertà:
I contadini vanno in America, e rimangono quello che sono: molti vi si fermano, e i loro figli diventano americani:
ma gli altri, quelli che ritornano, dopo vent’anni, sono identici a quando erano partiti. In tre mesi le poche parole d’inglese
sono dimenticate, le poche superficiali abitudini abbandonate, il contadino è quello di prima, come una pietra su cui sia
passata per molto tempo l’acqua di un fiume in piena, e che il primo sole in pochi minuti riasciuga. In America, essi vivono
a parte, fra di loro: non partecipano alla vita americana, continuano per anni a mangiare pan solo, come a Gagliano, e
risparmiano i pochi dollari: sono vicini al paradiso, ma non pensano neppure ad entrarci. Poi, tornano un giorno in Italia,
col proposito di restarci poco, di riposarsi e salutare i compari e i parenti: ma ecco, qualcuno offre loro una piccola terra da
comperare, e trovano una ragazza che conoscevano bambina e la sposano, e così passano i sei mesi dopo i quali scade il
loro permesso di ritorno laggiù, e devono rimanere in patria. [...] In brevissimo tempo è tornata la miseria, la stessa eterna
miseria di quando, tanti anni prima, erano partiti [...]. Gagliano è piena di questi emigrati ritornati: il giorno del ritorno è
considerato da loro tutti un giorno di disgrazia.
(Carlo Levi, Cristo si è fermato a Eboli, Oscar Mondadori, Milano 1981, pp. 108-9)
Con il blocco degli accessi voluto dagli Usa l’emigrazione non rappresenta più una possibilità;
il fascismo, inoltre, ostacola ogni forma di espatrio, senza per questo riuscire a coinvolgere le masse
contadine del Mezzogiorno nel progetto totalitario. Le opere di bonifica sono sufficienti a far
proclamare la fine della «questione meridionale», ma nella realtà nulla è cambiato: il regime mantiene
intatti i privilegi dei grandi possidenti terrieri, cercando il consenso delle masse attraverso la prospettiva
dell’espansione coloniale. La propaganda fascista indica la guerra come unica fonte possibile di terra e
di lavoro: ma in Etiopia, Spagna e Russia i cafoni trovano solo morte, fame e malattie, mentre il Sud è
messo in ginocchio dalle truppe di occupazione. Al termine del secondo conflitto mondiale il divario
con il Nord è ancora più ampio.
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Magia
Ernesto De Martino (Napoli, 1908 – Roma, 1965) è un antropologo che è diventato famoso
per aver pubblicato, nel giro di pochi anni, tre importanti studi sul Meridione: Morte e pianto rituale
nel mondo antico (1958), Sud e magia (1959) e La terra del rimorso. Contributo a una storia religiosa
del Sud (1961). Non è propriamente letteratura, ma ci torna utile per affrontare – con l’aiuto di un’altra
disciplina, l’antropologia – un’idea comune con le sue fondamenta storiche: che il Sud, cioè, sia terra
della superstizione e della magia. De Martino individua la ‹‹radice della magia›› nell’assenza del
‹‹positivo per eccellenza››: non c’è, nelle condizioni di vita misere del contadino meridionale, la
possibilità di agire nel mondo e di orientare le proprie scelte di vita per plasmare un futuro; non c’è
spazio, cioè, per quel razionalismo progressista che caratterizza l’uomo moderno.
L’immensa potenza del negativo lungo tutto l’arco della vita individuale, col suo corteo di traumi, scacchi,
frustrazioni, e la correlativa angustia e fragilità di quel positivo per eccellenza che è l’azione realisticamente
orientata in una società che “deve” essere fatta dall’uomo e destinata all’uomo, di fronte a una natura che “deve”
essere senza sosta umanata dalla demiurgia della cultura: ecco – si dirà – la radice della magia lucana, come di
ogni altra forma di magia.
(Ernesto De Martino, Sud e magia, Universale Economica Feltrinelli, Milano 2017 [19591
], p. 89)
Cristo si è fermato a Eboli è un libro difficilmente classificabile, a metà strada com’è tra il romanzo, il saggio e l’autobiografia.
Carlo Levi, intellettuale torinese impegnato nelle fila di Giustizia e Libertà, lo scrive di getto tra il ’43 e il ’44: vi narra
l’esperienza del confino in un piccolo paese della Lucania, risalente a quasi dieci anni prima. Il mondo con cui viene a
contatto è quello dei contadini del Mezzogiorno, una popolazione che vive ai margini della storia e per la quale lo stesso
messaggio di Cristo sembra ancora di là da venire. In questo brano Levi descrive la figura del becchino, uno dei tanti
personaggi del paese che sembrano in grado di padroneggiare forze sovrannaturali per non soccombere al male
dell’esistenza.
Ci svegliava una strana voce senza sesso, né timbro, né età, che pronunciava parole
incomprensibili. Un vecchio si sporgeva dal bordo della tomba5, e mi parlava attraverso le sue gengive
sdentate. Lo vedevo contro il cielo, alto e un po’ curvo, con delle lunghissime braccia magre, come le
ali di un mulino. Aveva quasi novant’anni, ma il suo viso era fuori del tempo, rugoso e sformato come
una mela vizza: fra le pieghe della carne risecchita brillavano due occhi chiarissimi, azzurri e magnetici.
Non un pelo di barba né di baffi gli cresceva, né gli era mai cresciuto, sul mento, e questo dava alla sua
vecchia pelle un carattere bizzarro. Parlava un dialetto che non era quello di Gagliano, un miscuglio di
linguaggi, perché aveva girato molti paesi, ma vi prevaleva la parlata di Pisticci, dove era nato in tempi
remotissimi. Per questo, e per la mancanza dei denti che gli impastava le parole, e per il modo
sentenzioso e rapido del suo discorso, dapprincipio mi riusciva oscuro: poi ci facevo l’orecchio, e si
conversava a lungo. Ma non ho mai capito se egli veramente mi ascoltasse, o se seguisse soltanto il
misterioso gomitolo dei suoi pensieri, che parevano uscire dalla indeterminata antichità di un mondo
animalesco. Questo essere indefinibile indossava una camicia sudicia strappata, aperta sul petto, e anche
qui non aveva peli, ma uno sterno sporgente come quello degli uccelli. Sul capo aveva un berretto
rossastro, a visiera, che indicava forse una delle sue molte funzioni pubbliche: egli era insieme il
becchino e il banditore comunale. Era lui che passava a tutte le ore per le vie del paese, suonando una
5 Levi si trova disteso in una tomba appena scavata per cercare sollievo dalla calura.
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trombetta e battendo su un tamburo che portava a tracolla, e con quella sua voce disumana annunciava
le novità del giorno, il passaggio di un mercante, l’uccisione di una capra, gli ordini del podestà, l’ora
di un funerale. Ed era lui che portava i morti al cimitero, che scavava le fosse e li seppelliva. Queste
erano le sue attività normali, ma dietro ad esse c’era un’altra vita, piena di una oscura potenza
impenetrabile. Le donne scherzavano con lui, quando passava, perché non aveva barba, e si diceva che
in vita sua non avesse mai fatto all’amore. – Ci vieni stasera a letto con me? – gli dicevano dagli usci, e
ridevano, nascondendo il viso tra le mani. – Perché mi lasci dormire sola? – Scherzavano, ma ne
avevano rispetto, e quasi paura. Perché quel vecchio aveva un potere arcano, era in rapporti con le
forze sotterranee, conosceva gli spiriti, domava gli animali. Il suo antico mestiere, prima che gli anni e
le vicende lo avessero fissato qui a Gagliano, era l’incantatore di lupi. Egli poteva, secondo che volesse,
far scendere i lupi nei paesi, o allontanarli: quelle belve non potevano resistergli, e dovevano seguire la
sua volontà. Si raccontava che, quando egli era giovane, girava per i paesi di queste montagne, seguito
da mandrie di lupi feroci. Perciò egli era temuto e onorato, e, negli inverni pieni di neve, i paesi lo
chiamavano perché tenesse lontani gli abitatori dei boschi, che il gelo e la fame spingevano negli abitati.
Ma anche tutte le altre bestie subivano il suo fascino, che non poteva rivolgersi alle donne; e non solo
le bestie, ma gli elementi della natura e gli spiriti che sono nell’aria. Si sapeva che, nella sua gioventù,
quand’egli falciava il campo di grano, faceva in un giorno il lavoro di cinquanta uomini: c’era qualcuno
d’invisibile che lavorava per lui. Alla fine della giornata, quando gli altri contadini erano sporchi di
sudore e di polvere, e avevano le schiene rotte dalla fatica e la testa rintronata dal sole, l’incantatore di
lupi era più fresco e riposato che al mattino.
[…] Una notte, non molto tempo prima, qualche mese o qualche anno, non potei farglielo
precisare, poiché le misure del tempo erano, pel vecchio incantatore, indeterminate, egli tornava da
Gaglianello, la frazione, e, giunto sul poggio, che è di fronte alla chiesa, il Timbone della Madonna
degli Angeli, aveva sentito in tutto il corpo una strana stanchezza, e aveva dovuto sedersi in terra, sul
gradino di una cappelletta. Gli era stato impossibile alzarsi e proseguire: qualcuno lo impediva. La notte
era nera, e il vecchio non poteva discernere nulla nel buio: ma dal burrone una voce bestiale lo
chiamava per nome. Era un diavolo, installato là tra i morti, che gli vietava il passaggio. Il vecchio si fece
il segno della croce, e il demonio cominciò a digrignare i denti e a urlare di spasimo. Nell’ombra il
vecchio distinse per un momento una capra sulle rovine della chiesa saltare spaventosa, e scomparire.
Il diavolo fuggì nel precipizio, ululando. – Uh, uh! – gridava dileguandosi: e il vecchio si sentì ad un
tratto libero e riposato, e in pochi passi ritornò in paese. Avventure di questo genere, del resto,
glien’erano successe infinite, e me ne raccontava, se lo interrogavo, senza dare ad esse nessuna
importanza. La sua vita era così lunga, che questi incontri non potevano non essere stati numerosi. Egli
era così vecchio che al tempo dei briganti era già un giovanotto. Non potei mai sapere con certezza né
fargli dire precisamente, se anch’egli fosse stato, come è probabile, uno dei loro: ma certo, aveva
conosciuto il famoso Ninco Nanco, e mi descriveva come l’avesse vista ieri, la compagna di Ninco
Nanco, la Brigantessa, Maria ’a Pastora, che come lui era di Pisticci. Questa Maria ’a Pastora era una
donna bellissima, una contadina, e viveva con il suo amante, in giro per i boschi e le montagne
depredando e combattendo, vestita da uomo, sempre a cavallo. La banda di Ninco Nanco era la più
crudele e la più ardita della regione; Maria ’a Pastora partecipava a tutte le azioni, agli assalti alle cascine
e ai paesi, alle imboscate, alle taglie, alle vendette. Quando Ninco Nanco strappava con le sue mani il
cuore dal petto dei bersaglieri che aveva catturato, Maria ’a Pastora gli porgeva il coltello. Il vecchio
affossatore la ricordava benissimo, e un’ombra di compiacenza passava nella sua strana voce quando
mi diceva che essa era bella, grande, bianca e rosata come un fiore, con le grandi trecce nere lunghe
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fino ai piedi, ritta in arcione al suo cavallo. Ninco Nanco era stato ammazzato, ma il vecchio non mi
sapeva dire come fosse finita Maria ’a Pastora, questa dea della guerra contadina. Non era morta e non
l’avevano presa, mi diceva; era stata vista a Pisticci, tutta vestita di nero: poi era scomparsa, col suo
cavallo, nel bosco, e non s’era mai più saputo nulla di lei.
(Carlo Levi, Cristo si è fermato a Eboli, Oscar Mondadori, Milano 1981, pp. 63-65 e 66-67).
Le terre del Sacramento non sono coltivate dai contadini, che le ritengono maledette dal momento in cui, con l’Unità
d’Italia, furono espropriate alla Chiesa e vendute alla famiglia Cannavale. Il romanzo, ambientato fra la Prima guerra
mondiale e la marcia su Roma, racconta lo scontro fra i tentativi di modernizzazione agricola, portati avanti dai personaggi
principali, e il mondo contadino, legato a una conoscenza magica e pre-cristiana. La ritualità cattolica descritta nel brano
risulta ibridata a elementi precedenti, folklorici e paganeggianti, rappresentando un potente esempio di sincretismo.
Sul palco apparve all’improvviso la figura di padre Marcello. Nella chiesa si rifece un tristissimo
silenzio. Il frate si fece il segno della croce ampio, e sulla parete di fronte, tra i due angioli di gesso che
si vedevano a tratti nell’incerta luce delle candele, l’ombra enorme delle due braccia ripeté il gesto con
mostruosa lentezza.
Poi padre Marcello parlò. Dapprima a voce bassa, come se avesse voluto che i suoi ascoltatori
tendessero gli orecchi per comprendere le sue parole. Disse che veniva di lontano, che aveva visto molti
paesi, aveva parlato a migliaia di fedeli, aveva ascoltato infiniti peccati, e la sua anima era carica di vizi
e di brutture. Il Signore aveva rifiutato di ascoltarlo perché lui, da mesi, forse da anni, non aveva niente
da offrigli. La sua voce si empì di lacrime e continuò:
«Non ho dato abbastanza sangue per voi fratelli. Nostro Signore lo diede tutto e morì. E io sono
vivo, fratelli!»
Tacque per qualche istante. Dal fondo della chiesa si udì un singhiozzo represso. Riprese
lentamente: «Il Signore ha fatto sentire la sua voce terribile, e dieci milioni di uomini sono morti. C’è
stata la guerra, c’è stata la peste; ma non è bastata la peste, non è bastata la guerra. Per le vie del mondo
passeggia Satana, abita in tutte le case, si è annidato come un predace avvoltoio in tutti i cuori. Il mondo
si ricarica di peccati, di desideri sfrenati. Il demonio soffia nelle menti i suoi perversi disegni e le donne,
le fanciulle, le spose, le vedove hanno le carni infuocate dalle fiamme dell’inferno».
La voce diventava via via accasciata, cavernosa, si spegneva in una specie di borbottio doloroso. I corpi
dei fedeli stretti l’uno all’altro fermentavano nel calore dei fiati roventi; le donne si sentivano tutte invase
dal demonio. Le mani del frate, che prima si agitavano violentemente e indicavano il cielo tenebroso
dell’abside, si stesero sui fianchi. Poi d’un tratto le braccia tornarono a vibrare nell’aria e dal petto di
padre Marcello uscì un urlo; un muggito di bove colpito in fronte. Disse:
«E noi non faremo niente, o fratelli? Permetteremo che le piaghe di Gesù Nostro Signore
tornino a sanguinare? Noi non faremo penitenza dei nostri peccati? Non saremo capaci di far tacere
Satana che ci morde le carni? Voi non farete nulla», continuò a dire con toni sommessi e piangenti,
«ma io sono carico dei vostri e dei miei peccati. Io chiederò a Dio perdono, per voi e per me».
Le mani del frate corsero all’improvviso, frenetiche, alla chiusura del saio; la destra strappò
violentemente una banda della stoffa e, alla luce incerta, apparve il biancore lattiginoso della pelle.
Padre Marcello aveva nella destra una durissima fune a nodi che parve metallica agli uomini che erano
nel fondo. La fune vibrò due o tre volte nell’aria. Poi la voce del frate si fece alta, risonante; la sua testa
pallida si rovesciò verso l’alto e bevve tutta la luce delle candele; per qualche attimo apparve come
pietrificata.
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«Io sono un peccatore, mio Dio. Sono miei tutti i peccati di questi tuoi figli, usciti dal cammino
della Tua Grazia».
Il cilicio vibrò ancora una volta per aria, e poi staffilò le carni madide di padre Marcello. Ci fu un solo
gemito doloroso in tutta la chiesa. La voce del frate, tra il clamore del pianto, dei sospiri, dei gemiti che
invocavano pietà s’udiva solo quando il cilicio vibrato pareva, per qualche attimo, arrestare il battito dei
cuori.
L’ultima sera padre Marcello si fustigò blandamente, parlò in termini più miti della vita
peccaminosa di Morutri6. A due ore di notte, parato di bianco, avendo ai lati don Settimio e padre
Ferdinando, litaniando si avviò alla Costa Solenne. La pesante croce era portata a spalla da quattro
giovani contadini, che precedevano la processione e andavano tentando, cautamente, la strada sassosa.
La folla che seguiva era illuminata da lanterne cieche e da torce a vento. Alla testa del corteo erano gli
uomini. Alcuni avevano sulle spalle il fucile a canna rovesciata, altri portavano nella destra, ben visibili,
rivoltelle, vecchie pistole. Emilio Tassoni e Paolo Ferrari avevano nudi nelle mani due lunghi coltelli a
serramanico con i quali una sera avevano tentato di sgozzarsi al vicolo delle Cese. Molti giovani avevano
a tracolla le loro fisarmoniche, le loro chitarre; dei ragazzi portavano tamburelli a sonagli.
Giunti ai margini della Costa Solenne la processione si fermò. Gli uomini e i ragazzi che avevano
le lanterne e le torce, fecero circolo intorno alla buca profonda che doveva fare da tomba agli strumenti
della lussuria e della violenza. A un cenno di don Settimio piovvero nella fossa coltelli, fucili e pistole.
Quando il cumulo della ferraglia fu abbastanza alto, incominciò il lancio dei tamburelli che, volando
sulle teste, mandavano il loro ultimo allegro tintinnio nel buio della notte. Due ocarine di coccio si
ruppero fragorosamente sulle pietre perché fallirono il bersaglio. Tra il mormorio vario di sospiri e
delle preghiere, sorse a un tratto un pianto acuto di ragazzo seguito dallo schiocco di un ceffone. Il un
gruppo lontano una donna diceva:
«Ha nascosto lo zufolo, non lo vuol gettare. Sta a suonare tutto il giorno e a giocare per le
strade».
«Ma non fa peccato; è un’anima innocente», disse la voce grave di un uomo. «Dovresti lasciarlo
stare, Sofia».
«Vengono su col diavolo o con Dio, come li avvezzi, Valentino. Deve buttare lo zufolo e anche
l’organetto».
A un tratto la folla si aprì e le torce fecero un canale luminoso tra la massa oscura. Una donna disse:
«Arrivano i libri, viene Giustino con i libri».
Si vide avanzare, nel breve corridoio illuminato vagamente dalle torce un uomo che aveva una manciata
di libri e di scartafacci sotto l’ascella.
«Porta tutti i libri del demonio», fece una vecchia, «Ci guariva con i libri del Diavolo il Mago di
Befagna».
Il Mago di Befagna era un contadino piccolo, rubizzo, con la vocetta fessa da zitella, senza un
filo di barba; si muoveva con le mossette aggraziate d’una ragazza da marito. Arrivato davanti alla fossa
si fece il segno della croce e lanciò la bracciata dei libri nel mucchio.
«Fuoco!» disse una voce, e buttò la torcia sui libri.
I libri fecero una rapida vampata e sulla prima vampa piovvero altre torce e poi i mandolini, gli
organetti e le chitarre. Padre Marcello salmodiava, le donne rispondevano confusamente alle preghiere.
(Francesco Jovine, Le terre del Sacramento, Einaudi, Torino 1950, pp. 149-154) 6 Il paese molisano in cui si trovano le terre del Sacramento di cui si parla nel romanzo.
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PER RIFLETTERE SUI TESTI
• Il brano di Levi descrive i poteri sovrannaturali del becchino: qual è l’atteggiamento dell’autore verso il mondo magico
nel quale sembra vivere la maggior parte dei paesani? Anche un fenomeno di grande portata storica come il brigantaggio
viene trasfigurato nel mito, nella leggenda popolare: rispetto al tradizionale resoconto storiografico, quali spunti offre
una narrazione di questo tipo?
• Nel brano di Jovine la figura centrale è quella di Padre Marcello. Quale tipo di potere esercita all’interno della
comunità? Tra predicatore e fedeli si instaura una dinamica particolare: quali strategie retoriche e formali utilizza
l’autore per descrivere il momento di massima tensione?
• Nel secondo estratto la magia, rappresentata dal Mago di Befagna, sembra essere stigmatizzata: quali differenze e quali
tratti comuni presentano i sistemi valoriali delle comunità descritte dai due autori?
• Le due vicende sono ambientate nello stesso periodo: eppure, se si esclude il brigantaggio, questi testi non contengono
precisi riferimenti storici. Si tratta, secondo te, di una precisa scelta degli autori? Quali sono le motivazioni e quali le
conseguenze?
Gli zii di Sicilia è una raccolta di quattro racconti pubblicata da Sciascia nel 1958. In questi racconti lo scrittore racalmutese
ripercorre la storia dell’isola dai moti del 1848 al secondo dopoguerra, tracciando un variopinto affresco delle classi sociali
siciliane: il nobile, l’emigrato, l’artigiano comunista. Il protagonista dell’ultimo racconto, L’antimonio, è un minatore, che la
disperazione e la fame spingono ad arruolarsi volontario in Spagna fra i legionari fascisti.
Credevo in Dio andavo a messa e rispettavo il fascio. Volevo bene a mia moglie, ché l'avevo
sposata per amore e senza un soldo di dote. E lavoravo nella zolfara, una settimana del turno di notte
e un'altra nel turno di giorno, senza mai lamentarmi. Avevo solo una gran paura dell'antimonio, ché
mio padre c'era rimasto bruciato, e nella stessa zolfara. Era una zolfara che, a memoria dei più vecchi,
i padroni avevano sempre sfruttato senza curarsi della sicurezza degli operai, frequenti erano le
«disgrazie», il crollo di una volta o lo scoppio dell'antimonio: e le famiglie di quelli che restavano
schiacciati o arsi se la prendevano col destino. C’era stato un tempo, nel ’19 e nel ’20, che invece di
prendersela col destino, gli zolfatari che scampavano la «disgrazia», se l’erano presa col padrone,
avevano scioperato e mandato minacce: ma il tempo degli scioperi era passato, per la verità non credevo
lo sciopero fosse una buona cosa in una nazione d’ordine come era diventata l’Italia.
L’otto settembre del 1936, giornata di Maria Bambina, e in sua gloria in tutta la campagna del
mio paese vengono accesi dei falò (mia madre disse poi che era una giornata «segnalata» e nelle giornate
«segnalate» non si lavora), avevo il turno di giorno: il turno di giorno mi faceva alzare alle tre di notte,
uscire di casa alle tre e mezzo, fare un’ora di strada e «calare» nei pozzi alle cinque. Mio zio Pietro
Griffeo, fratello di mia madre, che della zolfara era vecchio lupo, da diversi giorni raccomandava –
ragazzi, tenete basse le lampade, c’è qualcosa che non mi piace – e anche quel giorno fece la
raccomandazione solita. La nostra sezione era la meno ventilata, non c’erano armature; e i «ripieni»
erano da fare7. Ci spogliammo, e l’aria ce la sentivamo sul corpo nudo come un lenzuolo bagnato. Le
nostre lampade erano ad acetilene, le lampade di sicurezza l’amministrazione le teneva come uno di
noi tiene il vestito della festa, per «comparire» quando venivano gli ingegneri per l’ispezione: del resto,
i vecchi zolfatari non le volevano – quando è destino – dicevano – si muore anche con le lampade di
sicurezza – chi sa perché le avevano in antipatia, amavano i vecchi lumi ad acetilene.
Dopo aver fatto colazione, quasi tutti mangiavamo pane con sarde salate e cipolla cruda,
riprendemmo il lavoro. Mio zio ancora raccomandò – basse le acetilene – e un minuto dopo dal fondo
7 Si tratta di riempimenti, fatti con diversi materiali, in modo tale da colmare gli spazi da cui viene estratto il minerale;
la loro funzione è quella di evitare il collasso di gallerie e cunicoli dopo l’estrazione.
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della galleria venne un ruggito di fuoco, come avevo visto al cinematografo l’acqua precipitare dalle
chiuse aperte, così il fuoco venne verso di noi urlando; ma questo sto pensandolo ora, non sono sicuro
fosse proprio così, mi vedevo il fuoco sopra e non capivo niente, mio zio che gridava – l’antimonio – e
mi trascinava, e io già correvo come in un sogno. Corsi anche dopo che uscii dalla bocca della zolfara,
scalzo e nudo corsi per la campagna finché non sentii il cuore che mi schiattava, mi buttai a terra
piangendo forte come un bambino e tremando.
La notte ebbi delirio, non avevo febbre né dormivo, ogni parola che mi dicevano ogni rumore
che sentivo ogni pensiero che mi nasceva, parevami esplodesse dentro come il lampo che fanno i
fotografi, il lampo si spegneva e mi restava una luce viola, la luce che immaginavo si portassero dentro
i ciechi; sempre avevo avuto spavento dell’antimonio perché sapevo che bruciava le viscere, così mio
padre era morto, o gli occhi: conoscevo molti che per l’antimonio erano ciechi.
L’indomani mi sentivo vecchio di cento anni, decisi che mai più sarei tornato alla zolfara.
Sapevo che c’era una guerra in Spagna, molti erano andati a quella d’Africa e avevano fatti i soldi, uno
solo era morto in Africa del mio paese. E poi morire alla luce del sole non mi faceva paura (e in tutta
la guerra di Spagna non ho avuto paura della morte, mi faceva sudare di paura solo il pensiero del
lanciafiamme). Mi vestii come fosse domenica e andai alla casa del fascio. C’era il segretario politico
che era stato mio compagno di scuola, lui poi era diventato maestro delle scuole elementari, non mi
voleva male anche se temeva che io lo trattassi con la confidenza del compagno di scuola e gli dessi del
tu, ma io gli parlavo con tanto rispetto.
Dissi – vorrei andare alla guerra, in Spagna.
– Ecco – disse – effettivamente c’è qualcosa, una richiesta di volontari è già arrivata, non è poi
detto che si vada in Spagna…
– Anche all’inferno – dissi.
– Sì, va bene, ma vogliono militi, i militi hanno la precedenza: tu non fai parte della milizia.
– Iscrivetemi – dissi.
– Non è una cosa facile.
– Sono nei sindacati fascisti – dissi – sono stato giovane fascista, ho fatto il premilitare e poi il
soldato, non so perché quando son tornato non mi avete iscritto milite.
– Dovevi domandarlo – disse.
– Lo domando ora: non ho fatto la guerra d’Africa, ma questa la voglio fare; sono stato bersagliere,
sto in buona salute: credo che uno come me il diritto di fare una guerra ce l’abbia; o io scrivo al
duce e mi offro a lui come volontario.
Questo argomento era buono, una volta un operaio aveva scritto al duce per un premio che non gli
volevano dare, aveva piantato una grana che il segretario politico ancora se ne ricordava; vero è che poi
gliel’avevano fatta pagare, all’operaio.
– Vedremo quel che si può fare – disse il segretario politico – lo dico al console e vediamo: torna
lunedì.
Mi arruolarono. Mia madre e mia moglie piansero. Io partii col cuore in pace: la zolfara mi faceva
paura, al confronto la guerra in Spagna mi pareva una scampagnata.
(Leonardo Sciascia, L’antimonio in Gli zii di Sicilia, Einaudi, Torino 1975, pp.176-180)
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La pelle (1949) è il romanzo più famoso di Curzio Malaparte. Al momento della pubblicazione, l’opera suscitò grande
scalpore: la realtà della guerra nel Sud Italia è trasfigurata, attraverso una narrazione crudele, verso una narrazione onirica,
impudica e primitiva. La crudeltà dello sguardo è, d’altra parte una delle categorie che meglio descrivono l’opera di
Malaparte. Nel brano il protagonista osserva l’eruzione del Vesuvio nel 1944 e il panico che invade le strade della città di
Napoli, da pochi mesi occupata dagli Alleati.
Un'immensa nube nera, simile al sacco della seppia, (e seccia è chiamata appunto tal nube),
gonfia di cenere e di lapilli infocati, si andava strappando a fatica dalla vetta del Vesuvio e, spinta dal
vento, che per miracolosa fortuna di Napoli soffiava da nordovest, si trascinava lentamente nel cielo
verso Castellammare di Stabia. Lo strepito che faceva quella nera nube gonfia di lapilli rotolando nel
cielo era simile al cigolio di un carro carico di pietre, che si avvii per una strada sconvolto. […]
Eravamo dalla Piazza Reale saliti a Santa Teresella degli Spagnoli: e a mano a mano che scendevamo
verso Toledo cresceva il tumulto, più frequenti si facevan le scene di paura, di furore e di pietà, e più
fiero e minaccioso l'aspetto del popolo. Presso Piazza delle Carrette, davanti a un bordello famoso per
la sua clientela negra, una folla di donne inferocite urlava e tempestava, tentando di abbattere la porta,
che le meretrici avevano barricato in gran furia. Finché la folla irruppe nella casa, e ne uscì trascinando
per i capelli ignude puttane e soldati negri sanguinanti e atterriti, che la vista del cielo in fiamme, delle
nubi di lapilli sospese sul mare, e del Vesuvio avvolto nel suo orrendo sudario di fuoco, faceva umili
come bambini spauriti. All'assalto ai bordelli si accompagnava quello ai forni e alle macellerie. Il
popolo, come sempre, al suo cieco furore mescolava la sua antica fame. Ma il fondo di quel furore
fanatico non era la fame: era la paura, che si voltava in ira sociale, in brama di vendetta, in odio di se
stesso e di altri. Come sempre, la plebe attribuiva a quell'immane flagello un significato di punizione
celeste, vedeva nell'ira del Vesuvio la collera della Vergine, dei Santi, degli Dei del cristiano Olimpo,
corrucciati contro i peccati, la corruzione, i vizii degli uomini. E insieme col pentimento, con la dolorosa
brama di espiare, con l'avida speranza di veder puniti i malvagi, con l'ingenua fiducia nella giustizia di
una così crudele e ingiusta natura, insieme con la vergogna della propria miseria, di cui il popolo ha
una triste consapevolezza, si svegliava nella plebe, come sempre, il vile sentimento dell'impunità, origine
di tanti atti nefandi, e la miserabile persuasione che in così grande rovina, in così immenso tumulto,
tutto sia lecito, e giusto. Talché si videro in quei giorni compiere atti turpi e bellissimi, con cieca furia
o con fredda ragione, quasi con una meravigliosa disperazione: tanto possono, nelle anime semplici, la
paura, e la vergogna dei proprii peccati. […]
Nel dedalo dei vicoli che scendono a Toledo e a Chiaia, il tumulto si faceva ad ogni passo più
denso e furioso: poiché avviene delle commozioni popolari come nel corpo umano delle commozioni
del sangue, che in una medesima parte tende a raccogliersi e a far violenza, ora nel cuore, ora nel
cervello, ora in questo o in quel viscere. Dai più lontani quartieri della città il popolo scendeva a
raccogliersi in quelli che fin dai più antichi tempi son reputati i luoghi sacri di Napoli: nella Piazza
Reale, intorno ai Tribunali, al Maschio Angioino, al Duomo, dov'è custodito il miracoloso sangue di
San Gennaro. Quivi il tumulto era immenso, e prendeva talvolta l'aspetto di una sommossa. I soldati
americani, confusi in quella spaventosa folla che li menava or qua or là nella sua rapina, voltandoli e
percuotendoli, tal bufera infernale di Dante, parevan anch'essi invasi da un terrore e da un furore
antichi. Avevano il viso brutto di sudore e di cenere, le uniformi a brandelli. Ormai umiliati uomini
anch'essi, non più uomini liberi, non più orgogliosi vincitori ma miserabili vinti, in balìa della cieca furia
della natura; anch'essi inceneriti fin nel profondo dell'animo dal fuoco che bruciava il cielo e la terra.
Di quando in quando un cupo, soffocato rombo, propagandosi per le misteriose latebre della
terra, scuoteva il lastrico sotto i nostri piedi, faceva sussultare le case. Quel sotterraneo rombo, quella
profonda voce, quel fango bollente, stanavano fuor delle viscere della terra la miserabile plebe che in
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quei dolorosi anni, per sottrarsi agli spietati bombardamenti, s'era rintanata a vivere nei meandri
dell'antico acquedotto angioino, scavato nel sottosuolo di Napoli, dicon gli archeologi, dai primi
abitatori della città, che furori greci, o fenici, o dai pelasgi, quegli uomini misteriosi venuti dal mare.
Dell'acquedotto angioino, e della sua strana popolazione, parla già il Boccaccio nella novella di
Andreuccio da Perugia. Sbucavano quegli infelici su dal loro sozzo inferno, fuor degli oscuri antri, dei
cunicoli, dei pozzi, delle bocche delle fogne, recando sulle spalle le misere suppellettili, o, nuovi Enea,
il vecchio padre, o i teneri figli, o il 'pecuriello', l'agnello pasquale, che nei giorni di Pasqua (erano
appunto i giorni della Settimana Santa) allieta ogni più squallida casa napoletana, ed è sacro, perché è
l'immagine di Cristo. […]
Una squadriglia di cacciatori americani aveva spiccato il volo dal campo di Capodichino e si avventava
contro l'enorme nube nera, la 'seppia', gonfia di lapilli infuocati, che il vento a poco a poco spingeva
verso Castellammare. Dopo alcuni istanti si udì il tic toc delle mitragliere, e l'orribile nube parve
fermarsi, far fronte agli assalitori. I caccia americani tentavano di sdrucire la nuvola con le raffiche delle
loro mitragliatrici, di far precipitare la valanga di pietre roventi sul tratto di mare che si stende fra il
Vesuvio e Castellammare, per tentar di salvare la città da una certa rovina. Era un'impresa disperata, e
la folla trattenne il respiro. Un profondo silenzio cadde sulla piazza. Dagli squarci che le raffiche di
mitragliatrice aprivano nei fianchi della nera nube, precipitavano in mare torrenti di lapilli infocati,
sollevando alte fontane d'acqua rossa, e alberi di vapore verdissimo, e comete di cenere rovente, e
meravigliose rose di fuoco, che lentamente si scioglievano nell'aria. ''U bil! 'u bil!' gridava la folla
battendo le mani. Ma l'orribile nube, spinta dal vento che soffiava da settentrione, si avvicinava sempre
più a Castellammare.
A un tratto, uno dei caccia americani, simile a un falco d'argento, si gettò fulmineo contro la 'seppia', la
squarciò con i rostri, penetrò nello squarcio, e con uno schianto orrendo esplose dentro la nube: che
si aprì come un'immensa rosa nera, e precipitò in mare.
(Curzio Malaparte, La pelle, Adelphi, Milano 2010, pp. 261-269)
PER RIFLETTERE SUI TESTI
• Il brano di Leonardo Sciascia descrive la situazione della popolazione rurale durante gli anni del fascismo: che cosa ti
colpisce delle condizioni di vita? Quali sono i problemi?
• La pelle è narrata in prima persona dall’alter ego di Malaparte: da che prospettiva si pone? È partecipe del terrore
collettivo, o ti sembra distaccato? La conclusione del brano non è evidentemente verosimile: perché Malaparte la
racconta con tanta partecipazione?
• Identifica i riferimenti storici presenti nei due testi. La popolazione comprende quello che succede? Come partecipa
agli avvenimenti?
• Fra la scrittura di Sciascia e quella di Malaparte ci sono molte differenze: quali sono, secondo te, le più importanti? Su
cosa si focalizza la scrittura di Sciascia, su cosa quella di Malaparte? Quale testo ti sembra maggiormente espressivo?
Quale più realistico?
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Dal secondo Novecento ad oggi
Oggi la questione meridionale non può dirsi risolta. Ciononostante, essa non è più al centro del
dibattito pubblico: l’impressione generale è che le forze politiche non abbiano più soluzioni da opporre
al cronico divario Nord-Sud, come se questo fosse un dato di fatto ormai tacitamente accettato.
Per facilitare l’analisi degli anni più vicini a noi prendiamo a riferimento delle date chiave: il
1950, il 1973 e il 2008.
L’Italia del boom ha una grande occasione: sfruttare condizioni economiche positive (come il
rapporto favorevole debito pubblico/Pil) per modernizzare il Sud. Ma lo Stato concentra i suoi sforzi
nel settore primario con l’idea di sanare l’agricoltura dall’alto. Il 1950 è la data emblematica di questa
politica paternalistica: il governo fonda, per amministrare gli investimenti appositamente indirizzati al
Sud, la Cassa per il Mezzogiorno. Nello stesso anno, viene varata la riforma agraria con cui i proprietari
di terre superiori ai 300 ettari sono obbligati a cedere le loro terre a contadini. Tuttavia, gli esiti
economici e politici di queste misure sono problematici.
Se essa [la riforma agraria], infatti, contribuì a trasformare e a rendere più moderne alcune zone delle campagne
meridionali, non costituì certo la leva capace di mutare le strutture di fondo dell’economia meridionale, né tanto
meno di correggere il meccanismo del dualismo Nord-Sud. […] Sul piano politico, tuttavia, l’iniziativa
riformatrice ebbe effetti particolari. […] La Dc venne tessendo una fitta rete assistenziale-clientelare,
discriminando i contadini appartenenti agli altri partiti e fedi politiche, e chiedendo agli assegnatari una piena
appartenenza, elettorale e ideologica, allo schieramento cattolico8.
L’assistenzialismo statale degli anni Cinquanta e Sessanta, dunque, non contribuisce al
cambiamento delle ‹‹strutture di fondo›› che da sempre determinano il problema meridionale. Con
l’esplosione della crisi petrolifera del 1973 inizia poi un periodo di inversione di rotta: se nel periodo
1952-1973 gli investimenti al Centro Nord e al Meridione sono del 6,40% e 7,64%, tra 1974 e 1980
sono dell’1,72% e dello 0,09%: per la prima volta dopo vent’anni s’investe più al Nord che al Sud. La
fine dell’intervento straordinario coincide così con una fase di regressione economica, che nel territorio
si manifesta nelle palazzine tipiche dei centri urbani del Sud, nella crescita dell’organizzazione capillare
del potere mafioso, nel turismo di massa verso il mare.
La crisi economica del 2008 ha estremizzato ulteriormente questa situazione drammatica: nel
suo rapporto sull’economia meridionale, la Svimez (Associazione per lo sviluppo dell’industria nel
Mezzogiorno) ha fatto notare che in tredici anni, dal 2000 al 2013, il Sud è cresciuto del +13%, mentre
la media europea è superiore al +53%. Il rapporto parla di ‹‹forte rischio di desertificazione industriale››.
L’impoverimento e lo stato di minorità del Mezzogiorno continua, come vediamo, tutt’oggi, ma sempre
affiancato dall’immagine di un Sud magico, solare e primitivo. Lu sole, lu mare, lu ientu, ma anche
l’abusivismo edilizio e il caporalato nelle campagne.
8 Piero Bevilacqua, Breve storia dell’Italia meridionale dall’Ottocento a oggi, Donzelli editore, Roma 1993, pp. 98-99.
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Il romanzo La ferocia rappresenta, attraverso le vicende di una famiglia di imprenditori, la Bari degli anni Ottanta, tra droga
e palazzinari. In questo brano Michele, il figlio problematico della potente famiglia Salvemini, dialoga con un giornalista per
indagare sulla misteriosa scomparsa di sua sorella Clara.
Il pomeriggio era bellissimo. Se ne stavano seduti da un’ora nella vecchia Fiesta parcheggiata
sotto un noce. Campi incolti. Terra rossastra tra un albero e l’altro. Poi il mare, la linea azzurra.
Sull’altro c’erano i primi palazzi di Mola. Affitti crollati e cibo buono. Era qui che la storia rallentava.
Ma era anche il posto dove uno come Danilo Sangirardi poteva trovare rifugio per leccarsi le ferite tra
un’inchiesta e quella successiva.
- Ma io apprezzo questo genere di cose, - continuò il giornalista, - adoro i figli ingrati.
[...]
- C’è voluto più coraggio per riuscire a ottenere il tuo contatto, - disse Michele.
Ma quello neanche lo ascoltò. Stava parlando di un container pieno di rifiuti tossici. – Il sistema dei giri
di bolla. Cambiano i codici sul formulario e a quel punto gli scarti industriali possono diventare rifiuti
da lavorazione agricola. Dalla Germania a Foggia, poi dritto in Campania e in Albania. Ma un po’ di
merda resta anche qua, non ti credere. L’altro mese è uscito un pezzo sulla “Frankfurter”. Indovina in
Italia chi ne ha scritto, a parte me. Nessuno. Tu lo sapevi? Non potevi saperne niente, - si rispose, -
perché me l’hanno pubblicato su “Daunia Oggi”. Praticamente il bollettino parrocchiale. […]
- Chi del resto non ha un conto in sospeso con voi Salvemini? – disse accendendosi una
sigaretta.
- Vi temono o vi odiano. Quando non sono alle vostre dipendenze. Io non vi odio. È molto più
interessante studiarvi. Siete una delle conseguenze fisiologiche di questa terra. Quando non dissodi
bene un campo, poi è ovvio che crescono le erbacce. Se non toccava a voi, toccava a un’altra famiglia
di imprenditori.
Michele accese anche lui una sigaretta. Guardava Sangirardi. Lo ammirava. Aveva l’impressione
che la ricerca della verità andasse in lui di pari passo con l’esaltazione personale. Come se l’urgenza
non nascesse da una ferita ma da una sfida, una competizione disperata alla quale si era chiamato da
solo.
[…] - Il mio curriculum è un bollettino di guerra, - continuò Sangirardi con macabra
soddisfazione. Elencò i posti da cui era stato licenziato. Di nuovo Michele ebbe la sensazione che si
trattasse di una gara nella quale Sangirardi era divorato dalla necessità di arrivare primo. C’era un
calendario e c’era un medagliere, persino quando vinceva chi perdeva.
- Se mi avessero lasciato le mani libere avrei provato con facilità che i costi per l’ampliamento
del porto di Manfredonia tuo padre li ha gonfiati oltre la soglia di decenza. Avrei provato che l’assessore
ai Lavori pubblici del Comune era di fatto alle vostre dipendenze, e non mi sarebbe stato difficile
dimostrare che il residence in Val di Noto l’avevate costruito manipolando i coefficienti di sostenibilità
ambientale. Invece c’è sempre qualcosa che succede sul più bello. Un documento importante sparisce.
O sono io che vengo licenziato.
[...] - Costantini, - disse, - tua sorella era l’amante di Renato Costantini. Il direttore generale
dell’università. Uno dei pezzi grossi di EdiPuglia. Io scrivevo un pezzo contro tuo padre, Clara andava
da Costantini e lui tirava giù dal letto il direttore del giornale.
[…] - Mi dispiace che si sia ammazzata, - disse Sangirardi con un tono di fatalità che a Michele
non piacque. - Ogni tanto li vedevo insieme a Bari, - si grattò il mento, - lei e Costantini. Devo dire che
facevano impressione. Non era solo la differenza di età, o la faccenda della coca. [...] Sembravano
sputati fuori direttamente dal centro di una fogna. Non ti offendere. Era come se brillassero in una luce
raccapricciante. Non te lo so spiegare meglio. A un certo punto, quando “La Gazzetta del Mezzogiorno”
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