La questione meridionale(Leonardo Sciascia, Pirandello e la Sicilia, in Opere 1984-89, Bompiani,...

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La questione meridionale IL SUD NELLA LETTERATURA ASSOCIAZIONE FORMALIT 2018/2019

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  • La questione

    meridionale

    IL SUD NELLA LETTERATURA

    ASSOCIAZIONE FORMALIT

    2018/2019

  • Associazione ForMaLit La questione meridionale

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    Sommario

    Introduzione ............................................................................................................................................................... 2

    L’idea di Sud .................................................................................................................................................................. 2

    La questione meridionale ...................................................................................................................................... 3

    Il secondo Ottocento ................................................................................................................................................... 5

    Matilde Serao, Il ventre di Napoli ................................................................................................................................ 6

    Giuseppe Tomasi di Lampedusa, Il Gattopardo ................................................................................................. 6

    ❖ Per riflettere sui testi

    Giovanni Verga, Libertà ................................................................................................................................................ 8

    ❖ Per riflettere sui testi

    Il primo Novecento ................................................................................................................................................... 11

    Magia ............................................................................................................................................................................ 12

    Ernesto De Martino, Sud e Magia .............................................................................................................................. 12

    Carlo Levi, Cristo si è fermato a Eboli ....................................................................................................................... 12

    Francesco Jovine, Le terre del Sacramento ................................................................................................................ 14

    ❖ Per riflettere sui testi

    Leonardo Sciascia, Gli zii di Sicilia ............................................................................................................................. 16

    Curzio Malaparte, La pelle .......................................................................................................................................... 18

    ❖ Per riflettere sui testi

    Dal secondo Novecento a oggi .................................................................................................................................. 20

    Nicola Lagioia, La ferocia ........................................................................................................................................... 21

    Giorgio Vasta, Spaesamento ....................................................................................................................................... 22

    ❖ Per riflettere sui testi

    Mafia ............................................................................................................................................................................ 23

    Roberto Saviano, Gomorra ......................................................................................................................................... 24

    ❖ Per riflettere sui testi

    Glossario ................................................................................................................................................................... 26

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    Introduzione

    Sappiamo bene che c'era già una “questione meridionale”:

    ma sarebbe rimasta come una vaga “leggenda nera” dello

    Stato italiano senza l'apporto degli scrittori meridionali.

    (Leonardo Sciascia, Pirandello e la Sicilia, in Opere 1984-

    89, Bompiani, Milano 1991, p. 1146)

    L’idea di Sud

    Il Meridione è, prima di tutto, un’idea. O meglio, ai nostri occhi, un’intersezione di concetti,

    immagini, storie che dànno origine a un’idea complessa, articolata e contraddittoria. Dal Nord noi

    vediamo il Sud come: magico, povero, arcaico, lento, bagnato dal mare, arabo, felice. Allo stesso modo,

    il Meridione ha un’immagine del Nord come operoso, grigio, intristito, ricco, solitario, sospeso fra la

    monocultura del mais e le ciminiere delle fabbriche. Nessuna di queste due istantanee rappresenta la

    realtà, poiché nell’immaginario collettivo i contenuti di verità si mischiano inscindibilmente ai discorsi,

    alle immagini e ai pregiudizi.

    La rappresentazione che solitamente ci diamo del Meridione si basa, in ugual misura, su dati di

    fatto e sulle rappresentazioni mentali di un determinato territorio. La storia di queste ultime può essere

    di breve (il ragionamento sulla mafia, ad esempio, non ha molto più di un secolo) ma anche lunghissimo

    periodo: basti pensare ai moltissimi modelli culturali che ci provengono direttamente dall’età classica.

    Proprio la letteratura, in moltissimi casi, si fa veicolo di queste rappresentazioni: tanti dei miti che

    ancora oggi caratterizzano il Sud della Penisola nascono nelle pagine di grandi scrittori, italiani e non.

    Napoli, 27 febbraio 1787

    […] Si dica o racconti o dipinga quel che si vuole, ma qui ogni attesa è superata. Queste rive, golfi, insenature, il

    Vesuvio, la città coi suoi dintorni, i castelli, le ville! – Al tramonto andammo a visitare la grotta di Posillipo, nel momento in

    cui dall’altro lato entravano i raggi del sole declinante. Siano perdonati tutti coloro che a Napoli escono di senno! Ricordai

    pure con commozione mio padre, cui proprio le cose da me vedute avevano lasciato un’impressione incancellabile. E così

    come si vuole che chi abbia visto uno spettro non possa più ritrovare l’allegria, si potrebbe dire all’opposto che mio padre

    non poté mai essere del tutto infelice, perché il suo pensiero tornava sempre a Napoli.

    (Goethe, Viaggio in Italia, Oscar Mondadori, Milano 2011, pp. 205-206)

    Il mito di un Sud fertile, paradisiaco, rifugio alle fredde stagioni invernali che tanto pesano sui

    popoli del nord è antico; tuttavia, nessuno quanto Goethe ha contribuito alla sua diffusione al di fuori

    dei confini italiani. Il Sud in questo modo assume alcuni dei tratti che ancora oggi gli assegniamo: viene

    grammaticalizzato.

    Solo un ventennio dopo un altro grande autore, questa volta francese, Stendhal, è affascinato dall’Italia

    a tal punto da ambientare numerose opere nella penisola. Non sfugge alla sua attenzione la Sicilia, terra

    nella quale progettò più volte di recarsi, senza tuttavia mai mettervi piede.

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    Palermo, 22 luglio 1838

    Non sono un naturalista, e conosco mediocremente il greco; il mio principale fine, venendo in Sicilia, non è stato

    dunque di osservare i fenomeni dell’Etna o di chiarire in qualche modo a me stesso e agli altri quanto gli antichi scrittori

    greci hanno detto sulla Sicilia. Ho cercato innanzi tutto il piacere degli occhi che in questo singolare paese è assai vivo.

    Dicono che la Sicilia somigli all’Africa; certo, somiglia all’Italia solo per l’intensità delle sue passioni. Per i siciliani si può

    dire davvero che non esiste la parola impossibile quando l’amore e l’odio li accendono; e l’odio, in questa terra felice, non

    nasce mai da questioni di denaro.

    (Stendhal, La duchessa di Palliano, Mondadori, Milano 1994, p. 23)

    Stendhal contribuisce con un altro mattoncino all’edificazione di quell’idea, di grande successo,

    che vede i meridionali in generale, e in particolare i siciliani, in preda a grandi passioni, che non si

    arrestano davanti a nulla, in grado di divenire vere e proprie ragioni di vita. Sull’interpretazione

    dell’autore si può essere in accordo o disaccordo; quello che ci interessa è però un altro aspetto:

    Stendhal costruisce il testo su una serie di contraddizioni, che assumono una forma ben precisa, in

    grado di rendere in poche parole osservazioni e problematiche di non facile enunciazione. Le doppie

    negazioni, gli ossimori, gli accostamenti analogici sono in grado di dare una forma alle contraddizioni

    di un luogo e di un tempo, rendendocele presenti. Tutto ciò è uno dei tratti caratteristici della

    letteratura: è il secondo motivo per cui, a nostro parere, affrontare la questione meridionale con gli

    strumenti della rappresentazione letteraria è meno strano di quanto possa inizialmente apparire. La

    letteratura in questo senso è, seppur indirettamente, un ottimo strumento di conoscenza e

    problematizzazione del presente.

    La questione meridionale

    Meridionale, questione. Il dibattito circa le ragioni che avrebbero determinato e, con il

    trascorrere del tempo, aggravato la situazione di sottosviluppo economico e sociale del Mezzogiorno

    d’Italia, fin dal costituirsi dello Stato unitario. [Enciclopedia Treccani]

    Non solo gli scrittori hanno parlato del Meridione. Una lunga serie di riflessioni politiche, in

    debito con storiografia, antropologia, filosofia e sociologia ha contribuito a delineare i confini di quella

    che, da un secolo a questa parte, si definisce comunemente questione meridionale. Quando possibile,

    affiancheremo ai testi letterari brani di studiosi che si sono occupati di storia e cultura del Meridione:

    da una lettura parallela spesso scaturiscono ulteriori spunti di riflessione.

    Uno degli autori che ha contribuito in modo sostanziale alla definizione della questione meridionale è

    Antonio Gramsci, uno dei maggiori pensatori comunisti del Novecento italiano, morto nelle carceri

    fasciste dopo un decennio di prigionia. Sia in opere specifiche che nei Quaderni del carcere Gramsci

    affronta la problematica, individuandone le cause storiche in disequilibri di lunghissima durata,

    aggravati dalla politica della Nuova Italia uscita dal Risorgimento.

    Già nel 1911 in una pubblicazione semiufficiale posta sotto il patronato dell'Accademia dei lincei, Francesco

    Coletti, un economista serio e poco amante dei paradossi, aveva fatto notare che l'unificazione delle regioni italiane sotto

    uno stesso regime accentratore aveva avuto per il Mezzogiorno conseguenze disastrose, e che la cecità dei governanti,

    dimentichi del programma economico cavouriano, aveva incrudito lo stato di cose dal quale originava la annosa e ormai

    cronica questione meridionale.

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    La nuova Italia aveva trovato in condizioni assolutamente antitetiche i due tronconi della penisola, meridionale e

    settentrionale, che si riunivano dopo più di mille anni. L'invasione longobarda aveva spezzato definitivamente l'unità creata

    da Roma, e nel Settentrione i Comuni avevano dato un impulso speciale alla storia, mentre nel Mezzogiorno il regno degli

    Svevi, degli Angiò, di Spagna e dei Borboni ne avevano dato un altro. Da una parte la tradizione di una certa autonomia

    aveva creato una borghesia audace e piena di iniziative, ed esisteva una organizzazione economica simile a quella degli altri

    Stati d'Europa, propizia allo svolgersi ulteriore del capitalismo e dell'industria. Nell'altra le paterne amministrazioni di

    Spagna e dei Borboni nulla avevano creato: la borghesia non esisteva, l'agricoltura era primitiva e non bastava neppure a

    soddisfare il mercato locale; non strade, non porti, non utilizzazione delle poche acque che la regione, per la sua speciale

    conformazione geologica, possedeva.

    (Antonio Gramsci, La questione meridionale, Editori Riuniti, Roma 1966, p. 4)

    Gramsci identifica una serie di cause storiche, che dovremmo tenere presente nel corso della

    nostra discussione. Innanzitutto, le conseguenze nefaste che la scelta di accentramento compiuta

    all’indomani dell’Unità ebbe sulle singole regioni: la potenziale modernizzazione economica e sociale

    non avrebbe così avuto modo di svilupparsi. D’altra parte, il differenziale economico – comunque il

    più importante, nella prospettiva del marxista Gramsci – avrebbe cause antichissime, a partire dalla

    divisione dell’unità italiana in seguito all’invasione longobarda e alla diversa evoluzione politica delle

    varie zone: da una parte i liberi comuni, dall’altra il feudalesimo normanno. La mancanza di una

    borghesia propulsiva nel corso dell’Ottocento, secondo questa lettura, non avrebbe quindi permesso al

    Meridione di uscire dall’ancient régime in tempo per l’unificazione.

    Altri storici hanno fornito ulteriori proposte per spiegare quello squilibrio fra Nord e Sud Italia

    che nessuna iniziativa politica è stata in grado, fino ad ora, di risolvere. Rosario Villari, ad esempio,

    fornisce un’ulteriore prospettiva nel suo Mezzogiorno e democrazia, individuando una delle cause in

    un deficit di «partecipazione attiva alla vita dello Stato di fasce ampie e medio-basse della popolazione»:

    nella mancanza, cioè, di un impulso dato dal governo centrale al Sud in termini di partecipazione ai

    processi regionali e nazionali di sviluppo.

    Mi pare che l’essenza della questione meridionale, anziché nello ‹‹sfruttamento›› economico e finanziario (che in

    qualche modo avrebbe presupposto, per raggiungere una reale efficacia, una unità economica maggiore di quella che

    effettivamente era tra Nord e Sud, oppure una vera e propria soggezione politica, una conquista), sia nella ‹‹rinunzia››,

    determinata dalla stessa struttura risorgimentale dello Stato e imposta a tutto il paese dall’orientamento

    dell’industrializzazione, ad utilizzare le potenziali risorse umane, intellettuali, economiche del Mezzogiorno nella

    costruzione della società italiana.

    (Rosario Villari, Mezzogiorno e democrazia, Laterza, Bari 1979, p. 50)

    La lettura di Villari vede dunque un Sud basato da una parte sul predominio culturale e politico

    dei grandi proprietari; dall’altra su masse passive, non in grado di fornire una partecipazione attiva alla

    vita comune.

    L’intento di questa dispensa è quindi duplice: a un ampliamento del programma di italiano si

    affiancherà una riflessione su una questione che continua nei nostri anni ad essere di attualità. Le forme

    letterarie dovranno prima di tutto essere storicizzate – collocate nel loro tempo – quindi interpretate.

    Solo a questo punto sarà possibile metterle a confronto con il nostro presente: il nostro augurio è che

    possa essere proprio la percezione dei partecipanti al laboratorio ad essere messa in discussione, perché

    messa a confronto con l’idea di Sud, ma anche, più in particolare, con i diversi significati, storici e

    culturali, che l’espressione questione meridionale contiene e veicola.

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    Il secondo Ottocento

    Quando si parla di unificazione del Regno delle Due Sicilie al Regno d’Italia, viene in mente

    un evento in particolare: lo sbarco di Giuseppe Garibaldi, comandante dei Mille, a Marsala, in Sicilia,

    l’11 maggio 1860. Da qui, una volta presa l’isola, l’esercito garibaldino risalirà la penisola per spianarsi

    la strada verso il cuore del nuovo stato italiano, costruendo le basi per l’adesione, nell’ottobre dello

    stesso anno, al governo dei Savoia, un processo che vede un’accelerazione all’indomani dell’incontro a

    Teano fra Garibaldi e Vittorio Emanuele re di Sardegna.

    L’unificazione la si può raccontare così, come un evento militare e istituzionale le cui dinamiche

    appaiono lineari: il racconto del processo storico, infatti, tende a semplificare cause e circostanze

    particolarmente complesse. Nel momento in cui Nord e Sud vengono a contatto, infatti, l’impressione

    generale, spesso rintracciabile nei documenti dell’epoca, è quella di una grande distanza – culturale, ma

    non solo – tra la classe dirigente piemontese e le masse del Mezzogiorno: «altro che Italia. Questa è

    Affrica: i beduini, a riscontro di questi caffoni, sono fior di virtù civile»1. Nasce così (male) la questione

    meridionale.

    Gli ultimi quarant’anni del XIX secolo sono una costellazione di problemi che dobbiamo tenere

    fin d’ora a mente. Qual è lo stato del Mezzogiorno e del centro-nord nel marzo del 1861? Sul piano

    socioeconomico, la differenza vistosa fra le due parti del paese è una: a sud domina ancora il sistema

    agrario latifondista, per cui il settore primario della produzione è in mano a pochi proprietari terrieri

    che controllano grandi terre; mentre a nord è sviluppata una piccola e media proprietà più avanzata.

    Nel neonato regno c’è povertà tanto a Sud che a Nord (e al suo interno quello che chiamiamo Nord è

    altrettanto diversificato), ma l’ex Regno di Napoli parte da una posizione strutturalmente più arretrata.

    L’Italia postunitaria deve affrontare il problema del grande deficit pubblico. La classe dirigente

    della Destra storica sceglie una precisa politica economica: vengono abolite le tariffe protezionistiche e

    si aprono, così, le frontiere dell’ex Regno di Napoli; tuttavia, il Sud rimane troppo debole

    economicamente per resistere alla concorrenza con le industrie del Nord e del resto d’Europa. A livello

    politico, invece, si sceglie la centralizzazione, sotto il segno della continuità con la politica piemontese2.

    E ha inizio così un ciclo vizioso di interdipendenza Nord-Sud, che si esaspera soprattutto a fine secolo:

    in seguito alla crisi agraria del 1880 precipitano i prezzi dei prodotti agricoli. Lo Stato applica misure

    protezionistiche per far fronte alla crisi agraria e tutelare l’industria nazionale: il Mezzogiorno è così

    costretto ad acquistare i prodotti industriali del Nord a prezzo più alto rispetto ai prodotti stranieri

    sottoposti a dazio.

    È in questo stato di cose che il problema del brigantaggio diventa un problema nazionale. Nato

    come vera e propria lotta di classe interna alla società meridionale, il conflitto fra cafoni e galantuomini

    è innanzitutto una delle conseguenze di quell’arretratezza economica che è il latifondismo del Sud: ma

    dal 1861 assume anche le forme di una rivolta contro lo Stato sabaudo, il quale, a sua volta, ricorre alla

    repressione militare talvolta sommaria. Ancora una volta, nella questione meridionale entrano in

    collisione fattori economici, politici e sociali.

    1 Lettera a Cavour di Luigi Carlo Farini (1812 – 1866), ministro dell’interno del terzo governo Cavour. 2 Per 9 dei primi 15 anni del Regno, i presidenti sono piemontesi.

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    Cominciamo dall’incipit de Il ventre di Napoli (1884) di Matilde Serao, scrittrice e giornalista. Nel libro è chiaro l’obiettivo

    giornalistico di denuncia sociale: l’autrice si addentra nelle viscere della città partenopea, si sofferma sui suoi abitanti e sulle

    loro misere condizioni di vita. ‹‹Bisogna sventrare Napoli›› è la frase da cui nasce l’invettiva della Serao proprio contro la

    classe dirigente.

    Bisogna sventrare Napoli

    Efficace la frase. Voi non lo conoscevate, onorevole Depretis, il ventre di Napoli. Avevate torto,

    perché voi siete il Governo e il Governo deve saper tutto. Non sono fatte pel Governo, certamente, le

    descrizioncelle colorite di cronisti con intenzioni letterarie, che parlano della via Caracciolo, del mare

    glauco, del cielo di cobalto, delle signore incantevoli e dei vapori violetti del tramonto: tutta questa

    rettorichetta a base di golfo e di colline fiorite, di cui noi abbiamo già fatto e oggi continuiamo a fare

    ammenda onorevole, inginocchiati umilmente innanzi alla patria che soffre; tutta questa minuta e facile

    letteratura frammentaria, serve per quella parte di pubblico che non vuole essere seccata per racconti

    di miserie. Ma il governo doveva sapere l’altra parte; il governo a cui arriva la statistica della mortalità e

    quella dei delitti; il governo a cui arrivano i rapporti dei prefetti, dei questori, degli ispettori di polizia,

    dei delegati; il governo a cui arrivano i rapporti dei direttori delle carceri; il governo che sa tutto: quanta

    carne si consuma in un giorno e quanto vino si beve in un anno in un paese; quante femmine disgraziate,

    diciamo così, vi esitano, e quanti ammoniti siano i loro amanti di cuore, quanti mendichi non possano

    entrare nelle opere pie e quanti vagabondi dormano in istrada, la notte; quanti nullatenenti e quanti

    commercianti vi sieno; quanto renda il dazio consumo, quanto la fondiaria, per quanto s’impegni al

    Monte di Pietà e quanto renda il lotto. Quest’altra parte, questo ventre di Napoli, se non lo conosce il

    Governo, chi lo deve conoscere? E se non servono a dirvi tutto, a che sono buoni tutti questi impiegati

    alti e bassi, a che questo immenso ingranaggio burocratico che ci costa tanto? E, se voi non siete la

    intelligenza suprema del paese che tutto conosce e a tutto provvede, perché siete ministro?

    (Matilde Serao, Il ventre di Napoli, BUR Rizzoli, Milano 2012 [18841

    ], pp. 35-36)

    Il Gattopardo (1958) è molto di più della riduzione comune a ‹‹gattopardismo››, trasformismo. In questo passo, i conflitti e

    le contraddizioni di un momento storico, infatti, vengono a galla nel dialogo tra Don Ciccio Tumeo, organista della chiesa,

    e il principe Fabrizio di Salina: mentre si riposano dalla loro battuta di caccia, i due ricordano il voto al Plebiscito, avvenuto

    qualche giorno prima (il 21 ottobre 1860), col quale viene sancita l’annessione del Regno delle Due Sicilie al nascente Regno

    d’Italia.

    Dietro la scrivania di don Calogero fiammeggiava una oleografia di Garibaldi e (di già) una di

    Vittorio Emanuele, fortunatamente collocata a destra; bell’uomo il primo, bruttissimo il secondo

    affratellati però dal prodigioso rigoglio del loro pelame che quasi li mascherava. Su un tavolinetto vi era

    un piatto con biscotti anzianissimi che defecazioni di mosche listavano a lutto e dodici bicchierini tozzi

    colmi di rosolio: quattro rossi, quattro verdi, quattro bianchi: questi, in centro; ingenua simbolizzazione

    della nuova bandiera che venò di un sorriso il rimorso del Principe che scelse per sé il liquore bianco

    perché presumibilmente meno indigesto e non, come si volle dire, come tardivo omaggio al vessillo

    borbonico. Le tre varietà di rosolio erano del resto egualmente zuccherose, attaccaticce e disgustevoli.

    Si ebbe il buon gusto di non brindare e comunque, come disse don Calogero, le grandi gioie sono

    mute. Venne mostrata a don Fabrizio una lettera delle autorità di Girgenti che annunziava ai laboriosi

    cittadini di Donnafugata la concessione di un contributo di duemila lire per la fognatura, opera che

    sarebbe stata completata entro il 1961, come assicurò il Sindaco, inciampando in uno di quei lapsus

    dei quali Freud doveva spiegare il meccanismo molti decenni dopo; e la riunione si sciolse.

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    [...] Dopo il seggio elettorale venne chiuso, gli scrutatori si posero all’opera ed a notte fatta venne

    spalancato il balcone centrale del Municipio e don Calogero si rese visibile con panciera tricolore e

    tutto, fiancheggiato da due ragazzini con candelabri accesi che peraltro il vento spense senza indugio.

    Alla folla invisibile nelle tenebre annunziò che a Donnafugata il Plebiscito aveva dato questi risultati:

    Iscritti 515; votanti 512; “sì” 512; “no” zero.

    Dal fondo oscuro della piazza salirono applausi ed evviva; […] vennero pronunziati discorsi:

    aggettivi carichi di superlativi e di consonanti doppie rimbalzarono e si urtavano nel buio da una parete

    all’altra delle case; nel tuonare dei mortaretti si spedirono messaggi al Re (a quello nuovo) ed al

    Generale; qualche razzo tricolore si inerpicò dal paese al buio verso il cielo senza stelle; alle otto tutto

    era finito, e non rimase che l’oscurità come ogni altra sera, da sempre.

    Sulla cima di monte Morco, adesso tutto era nitido sotto la gran luce; la cupezza di quella notte

    però ristagnava ancora in fondo all’anima di Don Fabrizio. Il suo disagio assumeva forme tanto più

    penose in quanto incerte: non era in alcun modo originato dalle grosse questioni delle quali il Plebiscito

    aveva iniziato la soluzione: i grandi interessi del Regno (delle Due Sicilie), gl’interessi della propria

    classe, i suoi vantaggi privati uscivano da tutti questi avvenimenti ammaccati ma ancora vitali; […] il

    disagio suo non era di natura politica e doveva avere radici più profonde radicate in una di quelle

    cagioni che chiamiamo irrazionali perché seppellite sotto cumuli d’ignoranza di noi stessi.

    L’Italia era nata in quell’accigliata sera a Donnafugata; nata proprio lì in quel paese dimenticato

    quanto nell’ignavia di Palermo e nelle agitazioni di Napoli; una fata cattiva però della quale non si

    conosceva il nome doveva esser stata presente; ad ogni modo era nata e bisognava sperare che avrebbe

    potuto vivere in questa forma: ogni altra sarebbe stata peggiore. D’accordo. Eppure questa persistente

    inquietudine qualcosa doveva significare; egli sentiva che durante quella troppo asciutta enunciazione

    di cifre come durante quei troppo enfatici discorsi, qualche cosa, qualcheduno era morto, Dio solo

    sapeva in quale andito del paese, in quale piega della coscienza popolare.

    Il fresco aveva disperso la sonnolenza di don Ciccio, la massiccia imponenza del Principe aveva

    allontanato i suoi timori; ora a galla della sua coscienza emergeva soltanto il dispetto […]. In piedi,

    parlava in dialetto e gesticolava, pietoso burattino che aveva ridicolmente ragione.

    “Io, Eccellenza, avevo votato ‘no’. ‘No’, cento volte ‘no’. […] e quei porci in Municipio

    s’inghiottono la mia opinione, la masticano e poi la cacano via trasformata come vogliono loro […].”

    A questo punto la calma discese su Don Fabrizio che finalmente aveva sciolto l’enigma; adesso

    sapeva chi era stato strangolato a Donnafugata, in cento altri luoghi, nel corso di quella nottata di vento

    lercio: una neonata, la buonafede; proprio quella creaturina che più si sarebbe dovuta curare, il cui

    irrobustimento avrebbe giustificato altri stupidi vandalismi inutili.

    (Giuseppe Tomasi di Lampedusa, Il Gattopardo, Feltrinelli, Milano 1977 [19581

    ], pp. 74-76)

    PER RIFLETTERE SUI TESTI

    • Le parole con cui si apre Il ventre di Napoli non sono disposte casualmente. Quali sono le accortezze formali scelte

    dalla Serao per sostenere il tono acceso della sua accusa? Individua, se ci sono, figure retoriche e motiva il loro impiego.

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    • Don Calogero, sindaco di Donnafugata, e Fabrizio Salina rappresentano le due classi dirigenti che si alternano a cavallo

    di un passaggio storico. Avverti a pelle che il narratore simpatizza più per una delle due? Da cosa lo deduci? In quale

    passaggio lascia trasparire il proprio giudizio e in che modo?

    • A quali momenti sociali e storici si riferiscono i due estratti della Serao e di Tomasi di Lampedusa? Entrambi, ma da

    punti di vista differenti, sono ambientati nel Meridione postunitario: che differenze ci sono tra la Napoli della prima e

    la Donnafugata del secondo? E cosa rappresentano i personaggi che le abitano?

    • Se Il ventre di Napoli si riferisce esattamente al momento storico in cui è pubblicato il libro, Il Gattopardo racconta

    fatti accaduti cento anni prima. In quali parti e in che modo i testi esplicitano questa diversa distanza storica dal

    Risorgimento? La scrittura saggistica de Il ventre di Napoli, che afferma ed argomenta, e quella romanzesca del

    Gattopardo, che ricrea invece un passato, implicano due diverse forme di rapporto fra letteratura e storia: spiega

    secondo te quali possono essere.

    La novella Libertà (pubblicata in Novelle Rusticane, 1883) è ambientata in un paesino dell’entroterra siciliano, i Mille sono

    già sbarcati a Marsala e c’è aria di liberazione. Un gruppo di popolani si ribella di notte ai cappelli del paese (uomini della

    classe medio-alta e alta). Ma è una rivolta disperata: presto l’esercito garibaldino (guidato da un generale ‹‹piccino››) scende

    in paese per mettere ordine. Verga reinterpreta così i fatti di Bronte, avvenuti nell’agosto del 1860.

    Sciorinarono dal campanile un fazzoletto a tre colori, suonarono le campane a stormo, e

    cominciarono a gridare in piazza: ‹‹Viva la libertà!››.

    Come il mare in tempesta. La folla spumeggiava e ondeggiava davanti al casino dei galantuomini,

    davanti al Municipio, sugli scalini della chiesa: un mare di berrette bianche; le scuri e le falci che

    luccicavano. Poi irruppe in una stradicciuola.

    – A te prima, barone! che hai fatto nerbare la gente dai tuoi campieri! – Innanzi a tutti gli altri

    una strega, coi vecchi capelli irti sul capo, armata soltanto delle unghie.

    – A te, prete del diavolo! che ci hai succhiato l’anima! – A te, ricco epulone3, che non puoi

    scappare nemmeno, tanto sei grasso del sangue del povero! – A te, sbirro! che hai fatto la giustizia solo

    per chi non aveva niente! – A te, guardaboschi! che hai venduto la tua carne e la carne del prossimo

    per due tarì al giorno!

    E il sangue che fumava ed ubbriacava. Le falci, le mani, i cenci, i sassi, tutto rosso di sangue! –

    Ai galantuomini! Ai cappelli! Ammazza! ammazza! Addosso ai cappelli!

    Don Antonio sgattaiolava a casa per le scorciatoie. Il primo colpo lo fece cascare colla faccia

    insanguinata contro il marciapiede. – Perché? perché mi ammazzate? – Anche tu! al diavolo! – Un

    monello sciancato raccattò il cappello bisunto e ci sputò dentro. – Abbasso i cappelli! Viva la libertà! –

    Te’! tu pure! – al reverendo che predicava l’inferno per chi rubava il pane. Egli tornava dal dir messa,

    coll’ostia consacrata nel pancione. – Non mi ammazzate, ché sono in peccato mortale! – La gnà Lucia,

    il peccato mortale; la gnà Lucia che il padre gli aveva venduta a 14 anni; l’inverno della fame, e riempiva

    la Ruota e le strade di monelli affamati. Se quella carne di cane fosse valsa a qualche cosa, ora avrebbe

    potuto satollarsi4, mentre la sbrandellavano sugli usci delle case e sui ciottoli della strada a colpi di scure.

    Anche il lupo allorché capita affamato in una mandra, non pensa a riempirsi il ventre, e sgozza dalla

    rabbia. […]

    Ma il peggio avvenne appena cadde il figliuolo del notaio, un ragazzo di undici anni, biondo

    come l’oro, non si sa come, travolto nella folla. Suo padre si era rialzato due o tre volte prima di

    strascinarsi a finire nel mondezzaio gridandogli – Neddu! Neddu! – Neddu fuggiva, dal terrore, cogli

    occhi e la bocca spalancati senza poter gridare. Lo rovesciarono; si rizzò anch’esso su di un ginocchio

    3 Mangione, ghiottone; che si riempie di cibi raffinati in gran quantità. 4 Saziarsi.

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    come suo padre; il torrente gli passò di sopra; uno gli aveva messo lo scarpone sulla guancia e glie

    l’aveva sfracellata; nonostante il ragazzo chiedeva ancora grazia colle mani. – Non voleva morire, no,

    come aveva visto ammazzare suo padre; – strappava il cuore! – Il taglialegna, dalla pietà, gli menò un

    gran colpo di scure colle due mani, quasi avesse dovuto abbattere un rovere di cinquant’anni – e

    tremava come una foglia. – Un altro gridò: – Bah! egli sarebbe stato notaio, anche lui!

    Non importa! Ora che si avevano le mani rosse di quel sangue, bisognava versare tutto il resto.

    Tutti! tutti i cappelli! – Non era più la fame, le bastonate, le soperchierie che facevano ribollire la collera.

    Era il sangue innocente. Le donne più feroci ancora, agitando le braccia scarne, strillando d’ira in

    falsetto, colle carni tenere sotto i brindelli delle vesti. – Tu che venivi a pregare il buon Dio colla veste

    di seta! – Tu che avevi a schifo d’inginocchiarti accanto alla povera gente! – Te’! Te’! – Nelle case, su

    per le scale, dentro le alcove, lacerando la seta e la tela fine. Quanti orecchini su delle facce insanguinate!

    e quanti anelli d’oro nelle mani che cercavano di parare i colpi di scure.

    La baronessa aveva fatto barricare il portone: travi, carri di campagna, botti piene, dietro; e i

    campieri che sparavano dalle finestre per vender cara la pelle. La folla chinava il capo alle schioppettate,

    perché non aveva armi da rispondere. Prima c’era la pena di morte chi tenesse armi da fuoco. – Viva

    la libertà! – E sfondarono il portone. Poi nella corte, sulle gradinate, scavalcando i feriti. Lasciarono

    stare i campieri. – I campieri dopo! – Prima volevano le carni della baronessa, le carni fatte di pernici

    e di vin buono. Ella correva di stanza in stanza col lattante al seno, scarmigliata – e le stanze erano

    molte. Si udiva la folla urlare per quegli andirivieni, avvicinandosi come la piena di un fiume. Il figlio

    maggiore, di 16 anni, ancora colle carni bianche anch’esso, puntellava l’uscio colle sue mani tremanti,

    gridando: – Mamà! mamà! – Al primo urto gli rovesciarono l’uscio addosso. Egli si afferrava alle gambe

    che lo calpestavano. Non gridava più. Sua madre s’era rifugiata nel balcone, tenendo avvinghiato il

    bambino, chiudendogli la bocca colla mano perché non gridasse, pazza. L’altro figliolo voleva

    difenderla col suo corpo, stralunato, quasi avesse avuto cento mani, afferrando pel taglio tutte quelle

    scuri. Li separarono in un lampo. Uno abbrancò lei pei capelli, un altro per i fianchi, un altro per le

    vesti, sollevandola al di sopra della ringhiera. Il carbonaio le strappò dalle braccia il bambino lattante.

    L’altro fratello non vide niente; non vedeva altro che nero e rosso. Lo calpestavano, gli macinavano le

    ossa a colpi di tacchi ferrati; egli aveva addentato una mano che lo stringeva alla gola e non la lasciava

    più. Le scuri non potevano colpire nel mucchio e luccicavano in aria.

    […] Prima di notte tutti gli usci erano chiusi, paurosi, e in ogni casa vegliava il lume. Per le strade

    non si udivano altro che i cani, frugando per i canti, con un rosicchiare secco di ossa, nel chiaro di luna

    che lavava ogni cosa, e mostrava spalancati i portoni e le finestre delle case deserte.

    Aggiornava; una domenica senza gente in piazza né messa che suonasse. […] Dal campanile

    penzolava sempre il fazzoletto tricolore, floscio nella caldura gialla di luglio.

    […] Il giorno dopo si udì che veniva a far giustizia il generale, quello che faceva tremare la gente.

    Si vedevano le camicie rosse dei suoi soldati salire lentamente per il burrone, verso il paesetto, sarebbe

    bastato rotolare dall’alto delle pietre per schiacciarli tutti. Ma nessuno si mosse. Le donne strillavano e

    si strappavano i capelli. Ormai gli uomini, neri e colle barbe lunghe, stavano sul monte, colle mani fra

    le cosce, a vedere arrivare quei giovanetti stanchi, curvi sotto il fucile arrugginito, e quel generale piccino

    sopra il suo gran cavallo nero, innanzi a tutti, solo.

    […] Dopo arrivarono i giudici per davvero, dei galantuomini cogli occhiali, arrampicati sulle

    mule, disfatti dal viaggio, che si lagnavano ancora dello strapazzo mentre interrogavano gli accusati nel

    refettorio del convento, seduti di fianco sulla scranna, e dicendo ahi! ogni volta che mutavano lato. Un

    processo lungo che non finiva più. I colpevoli li condussero in città, a piedi, incatenati a coppia, fra due

    file di soldati col moschetto pronto. Le loro donne li seguivano correndo per le lunghe strade di

  • Associazione ForMaLit La questione meridionale

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    campagna, in mezzo ai solchi, in mezzo ai fichidindia, in mezzo alle vigne, in mezzo alle biade color

    d’oro, trafelate, zoppicando, chiamandoli a nome ogni volta che la strada faceva gomito, e si potevano

    vedere in faccia i prigionieri. Alla città li chiusero nel gran carcere alto e vasto come un convento, tutto

    bucherellato da finestre colle inferriate […]. Tutti gli altri in paese erano tornati a fare quello che

    facevano prima. I galantuomini non potevano lavorare le loro terre colle proprie mani, e la povera

    gente non poteva vivere senza i galantuomini. Fecero la pace. […]

    Il processo durò tre anni, nientemeno! tre anni di prigione e senza vedere il sole. Sicché quegli

    accusati parevano tanti morti della sepoltura, ogni volta che li conducevano ammanettati al tribunale.

    Tutti quelli che potevano erano accorsi dal villaggio: testimoni, parenti, curiosi come a una festa, per

    vedere i compaesani, dopo tanto tempo, stipati nella capponaia – ché capponi davvero si diventava là

    dentro! […]

    Li facevano alzare in piedi ad uno ad uno. – Voi come vi chiamate? – E ciascuno si sentiva dire

    la sua, nome e cognome e quel che aveva fatto. Gli avvocati armeggiavano fra le chiacchiere, coi larghi

    maniconi pendenti, e si scalmanavano, facevano la schiuma alla bocca, asciugandosela subito col

    fazzoletto bianco, tirandoci su una presa di tabacco. I giudici sonnecchiavano dietro le lenti dei loro

    occhiali, che agghiacciavano il cuore. Di faccia erano seduti in fila dodici galantuomini, stanchi, annoiati,

    che sbadigliavano, si grattavano la barba o ciangottavano fra di loro. Certo si dicevano che l’avevano

    scappata bella a non essere stati dei galantuomini di quel paesetto lassù, quando avevano fatto la libertà.

    E quei poveretti cercavano di leggere nelle loro facce. Poi se ne andarono a confabulare fra di loro, e

    gli imputati aspettavano pallidi, e cogli occhi fissi su quell’uscio chiuso. Come rientrarono, il loro capo,

    quello che parlava colla mano sulla pancia, era quasi pallido al pari degli accusati, e disse: – Sul mio

    onore e sulla mia coscienza!...

    Il carbonaio, mentre tornavano a mettergli le manette, balbettava: – Dove mi conducete? In

    galera? O perché? Non mi è toccato neppure un palmo di terra! Se avevano detto che c’era la libertà!...

    (Giovanni Verga, Libertà, in Tutte le novelle. 1, Oscar Mondadori, Milano 1968, pp. 332-338)

    PER RIFLETTERE SUI TESTI

    • Verga fa scontrare due mondi: da una parte, quello dei cafoni, dall’altra, quello dei galantuomini, delle forze dell’ordine

    e della giustizia. Come li rappresenta? Dopo aver descritto le due sfere di personaggi, rifletti sul loro reciproco rapporto.

    È una relazione dinamica, che può essere cambiata col tempo, oppure è statica, una situazione dove qualcosa non

    cambierà mai? Argomenta la tua risposta.

    • Essendo una novella, Libertà ha una struttura narrativa chiusa. Qual è il punto di massima tensione? Senti qualche

    differenza stilistica tra la prima parte del brano e la seconda? E perché secondo te il narratore verista, dovendo in linea

    di principio essere impersonale, cambia tono?

    • Questa novella verrà pubblicata vent’anni dopo la spedizione garibaldina, salutata con fiducia solo in un primo

    momento. Rileggi l’incipit e il finale del racconto: come cambia in un ventennio il significato della parola ‹‹libertà››?

    • Anche questo testo, come quello del Gattopardo, racconta a posteriori i giorni dell’Unità, ma qui il senso storico è

    perfettamente calato nella scena rappresentata, senza che ci sia bisogno di interventi del narratore. Oltre ai carbonai

    che prima esclamano ‹‹Viva la libertà›› e infine si chiedono se vi sia veramente libertà, puoi rintracciare altre allegorie

    dell’Unità? Se sì, quali? E credi che attraverso di esse si possa ricostruire l’ideologia di Verga?

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    Il primo Novecento

    Per la maggior parte della popolazione meridionale l’entrata nel secolo della modernità non

    coincide con alcun mutamento sostanziale della propria condizione. Il grande progresso economico e

    tecnologico interessa soprattutto le grandi città del Nord, che per tenore di vita e flusso di denaro sono

    sempre più simili alle metropoli europee. Il Sud, invece, quasi non conosce industrializzazione: nel

    1901 gli impiegati nell’agricoltura sono ancora 2 600 000, per lo più braccianti pagati a cottimo o fittavoli

    di un grande proprietario. Se al Nord il proliferare delle industrie favorisce la nascita di una fiorente

    borghesia produttiva e di un’agguerrita classe operaia politicizzata dai partiti di massa, al Sud i rapporti

    tra classi sociali rimangono rigidi, immutati da secoli. Leggiamo nella Inchiesta parlamentare sui

    contadini meridionali:

    Vi è in fondo nei proprietari la convinzione che i contadini non sono uomini come loro. Il comm. Dalmazzo,

    ispettore generale del Ministero dell’Interno, mandato a Cerignola a comporre lo sciopero del maggio scorso, ebbe a dire

    di aver letto sul viso dei proprietari la meraviglia per l’uguaglianza di trattamento formale che esso faceva ai proprietari e ai

    contadini, facendo sedere gli uni e gli altri accanto a sé.

    (Citato in: Pietro Bevilacqua, Breve storia dell’Italia meridionale, Donzelli, Roma 1993, p. 72)

    Per molti la soluzione alla miseria è una sola: emigrare. Dal 1900 al 1915 sono infatti 4 milioni

    i meridionali che cercano fortuna al di là dell’Oceano: alcuni di loro trovano un lavoro e mandano a

    casa le rimesse; altri, invece, non riescono a sfuggire al loro destino di povertà:

    I contadini vanno in America, e rimangono quello che sono: molti vi si fermano, e i loro figli diventano americani:

    ma gli altri, quelli che ritornano, dopo vent’anni, sono identici a quando erano partiti. In tre mesi le poche parole d’inglese

    sono dimenticate, le poche superficiali abitudini abbandonate, il contadino è quello di prima, come una pietra su cui sia

    passata per molto tempo l’acqua di un fiume in piena, e che il primo sole in pochi minuti riasciuga. In America, essi vivono

    a parte, fra di loro: non partecipano alla vita americana, continuano per anni a mangiare pan solo, come a Gagliano, e

    risparmiano i pochi dollari: sono vicini al paradiso, ma non pensano neppure ad entrarci. Poi, tornano un giorno in Italia,

    col proposito di restarci poco, di riposarsi e salutare i compari e i parenti: ma ecco, qualcuno offre loro una piccola terra da

    comperare, e trovano una ragazza che conoscevano bambina e la sposano, e così passano i sei mesi dopo i quali scade il

    loro permesso di ritorno laggiù, e devono rimanere in patria. [...] In brevissimo tempo è tornata la miseria, la stessa eterna

    miseria di quando, tanti anni prima, erano partiti [...]. Gagliano è piena di questi emigrati ritornati: il giorno del ritorno è

    considerato da loro tutti un giorno di disgrazia.

    (Carlo Levi, Cristo si è fermato a Eboli, Oscar Mondadori, Milano 1981, pp. 108-9)

    Con il blocco degli accessi voluto dagli Usa l’emigrazione non rappresenta più una possibilità;

    il fascismo, inoltre, ostacola ogni forma di espatrio, senza per questo riuscire a coinvolgere le masse

    contadine del Mezzogiorno nel progetto totalitario. Le opere di bonifica sono sufficienti a far

    proclamare la fine della «questione meridionale», ma nella realtà nulla è cambiato: il regime mantiene

    intatti i privilegi dei grandi possidenti terrieri, cercando il consenso delle masse attraverso la prospettiva

    dell’espansione coloniale. La propaganda fascista indica la guerra come unica fonte possibile di terra e

    di lavoro: ma in Etiopia, Spagna e Russia i cafoni trovano solo morte, fame e malattie, mentre il Sud è

    messo in ginocchio dalle truppe di occupazione. Al termine del secondo conflitto mondiale il divario

    con il Nord è ancora più ampio.

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    Magia

    Ernesto De Martino (Napoli, 1908 – Roma, 1965) è un antropologo che è diventato famoso

    per aver pubblicato, nel giro di pochi anni, tre importanti studi sul Meridione: Morte e pianto rituale

    nel mondo antico (1958), Sud e magia (1959) e La terra del rimorso. Contributo a una storia religiosa

    del Sud (1961). Non è propriamente letteratura, ma ci torna utile per affrontare – con l’aiuto di un’altra

    disciplina, l’antropologia – un’idea comune con le sue fondamenta storiche: che il Sud, cioè, sia terra

    della superstizione e della magia. De Martino individua la ‹‹radice della magia›› nell’assenza del

    ‹‹positivo per eccellenza››: non c’è, nelle condizioni di vita misere del contadino meridionale, la

    possibilità di agire nel mondo e di orientare le proprie scelte di vita per plasmare un futuro; non c’è

    spazio, cioè, per quel razionalismo progressista che caratterizza l’uomo moderno.

    L’immensa potenza del negativo lungo tutto l’arco della vita individuale, col suo corteo di traumi, scacchi,

    frustrazioni, e la correlativa angustia e fragilità di quel positivo per eccellenza che è l’azione realisticamente

    orientata in una società che “deve” essere fatta dall’uomo e destinata all’uomo, di fronte a una natura che “deve”

    essere senza sosta umanata dalla demiurgia della cultura: ecco – si dirà – la radice della magia lucana, come di

    ogni altra forma di magia.

    (Ernesto De Martino, Sud e magia, Universale Economica Feltrinelli, Milano 2017 [19591

    ], p. 89)

    Cristo si è fermato a Eboli è un libro difficilmente classificabile, a metà strada com’è tra il romanzo, il saggio e l’autobiografia.

    Carlo Levi, intellettuale torinese impegnato nelle fila di Giustizia e Libertà, lo scrive di getto tra il ’43 e il ’44: vi narra

    l’esperienza del confino in un piccolo paese della Lucania, risalente a quasi dieci anni prima. Il mondo con cui viene a

    contatto è quello dei contadini del Mezzogiorno, una popolazione che vive ai margini della storia e per la quale lo stesso

    messaggio di Cristo sembra ancora di là da venire. In questo brano Levi descrive la figura del becchino, uno dei tanti

    personaggi del paese che sembrano in grado di padroneggiare forze sovrannaturali per non soccombere al male

    dell’esistenza.

    Ci svegliava una strana voce senza sesso, né timbro, né età, che pronunciava parole

    incomprensibili. Un vecchio si sporgeva dal bordo della tomba5, e mi parlava attraverso le sue gengive

    sdentate. Lo vedevo contro il cielo, alto e un po’ curvo, con delle lunghissime braccia magre, come le

    ali di un mulino. Aveva quasi novant’anni, ma il suo viso era fuori del tempo, rugoso e sformato come

    una mela vizza: fra le pieghe della carne risecchita brillavano due occhi chiarissimi, azzurri e magnetici.

    Non un pelo di barba né di baffi gli cresceva, né gli era mai cresciuto, sul mento, e questo dava alla sua

    vecchia pelle un carattere bizzarro. Parlava un dialetto che non era quello di Gagliano, un miscuglio di

    linguaggi, perché aveva girato molti paesi, ma vi prevaleva la parlata di Pisticci, dove era nato in tempi

    remotissimi. Per questo, e per la mancanza dei denti che gli impastava le parole, e per il modo

    sentenzioso e rapido del suo discorso, dapprincipio mi riusciva oscuro: poi ci facevo l’orecchio, e si

    conversava a lungo. Ma non ho mai capito se egli veramente mi ascoltasse, o se seguisse soltanto il

    misterioso gomitolo dei suoi pensieri, che parevano uscire dalla indeterminata antichità di un mondo

    animalesco. Questo essere indefinibile indossava una camicia sudicia strappata, aperta sul petto, e anche

    qui non aveva peli, ma uno sterno sporgente come quello degli uccelli. Sul capo aveva un berretto

    rossastro, a visiera, che indicava forse una delle sue molte funzioni pubbliche: egli era insieme il

    becchino e il banditore comunale. Era lui che passava a tutte le ore per le vie del paese, suonando una

    5 Levi si trova disteso in una tomba appena scavata per cercare sollievo dalla calura.

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    trombetta e battendo su un tamburo che portava a tracolla, e con quella sua voce disumana annunciava

    le novità del giorno, il passaggio di un mercante, l’uccisione di una capra, gli ordini del podestà, l’ora

    di un funerale. Ed era lui che portava i morti al cimitero, che scavava le fosse e li seppelliva. Queste

    erano le sue attività normali, ma dietro ad esse c’era un’altra vita, piena di una oscura potenza

    impenetrabile. Le donne scherzavano con lui, quando passava, perché non aveva barba, e si diceva che

    in vita sua non avesse mai fatto all’amore. – Ci vieni stasera a letto con me? – gli dicevano dagli usci, e

    ridevano, nascondendo il viso tra le mani. – Perché mi lasci dormire sola? – Scherzavano, ma ne

    avevano rispetto, e quasi paura. Perché quel vecchio aveva un potere arcano, era in rapporti con le

    forze sotterranee, conosceva gli spiriti, domava gli animali. Il suo antico mestiere, prima che gli anni e

    le vicende lo avessero fissato qui a Gagliano, era l’incantatore di lupi. Egli poteva, secondo che volesse,

    far scendere i lupi nei paesi, o allontanarli: quelle belve non potevano resistergli, e dovevano seguire la

    sua volontà. Si raccontava che, quando egli era giovane, girava per i paesi di queste montagne, seguito

    da mandrie di lupi feroci. Perciò egli era temuto e onorato, e, negli inverni pieni di neve, i paesi lo

    chiamavano perché tenesse lontani gli abitatori dei boschi, che il gelo e la fame spingevano negli abitati.

    Ma anche tutte le altre bestie subivano il suo fascino, che non poteva rivolgersi alle donne; e non solo

    le bestie, ma gli elementi della natura e gli spiriti che sono nell’aria. Si sapeva che, nella sua gioventù,

    quand’egli falciava il campo di grano, faceva in un giorno il lavoro di cinquanta uomini: c’era qualcuno

    d’invisibile che lavorava per lui. Alla fine della giornata, quando gli altri contadini erano sporchi di

    sudore e di polvere, e avevano le schiene rotte dalla fatica e la testa rintronata dal sole, l’incantatore di

    lupi era più fresco e riposato che al mattino.

    […] Una notte, non molto tempo prima, qualche mese o qualche anno, non potei farglielo

    precisare, poiché le misure del tempo erano, pel vecchio incantatore, indeterminate, egli tornava da

    Gaglianello, la frazione, e, giunto sul poggio, che è di fronte alla chiesa, il Timbone della Madonna

    degli Angeli, aveva sentito in tutto il corpo una strana stanchezza, e aveva dovuto sedersi in terra, sul

    gradino di una cappelletta. Gli era stato impossibile alzarsi e proseguire: qualcuno lo impediva. La notte

    era nera, e il vecchio non poteva discernere nulla nel buio: ma dal burrone una voce bestiale lo

    chiamava per nome. Era un diavolo, installato là tra i morti, che gli vietava il passaggio. Il vecchio si fece

    il segno della croce, e il demonio cominciò a digrignare i denti e a urlare di spasimo. Nell’ombra il

    vecchio distinse per un momento una capra sulle rovine della chiesa saltare spaventosa, e scomparire.

    Il diavolo fuggì nel precipizio, ululando. – Uh, uh! – gridava dileguandosi: e il vecchio si sentì ad un

    tratto libero e riposato, e in pochi passi ritornò in paese. Avventure di questo genere, del resto,

    glien’erano successe infinite, e me ne raccontava, se lo interrogavo, senza dare ad esse nessuna

    importanza. La sua vita era così lunga, che questi incontri non potevano non essere stati numerosi. Egli

    era così vecchio che al tempo dei briganti era già un giovanotto. Non potei mai sapere con certezza né

    fargli dire precisamente, se anch’egli fosse stato, come è probabile, uno dei loro: ma certo, aveva

    conosciuto il famoso Ninco Nanco, e mi descriveva come l’avesse vista ieri, la compagna di Ninco

    Nanco, la Brigantessa, Maria ’a Pastora, che come lui era di Pisticci. Questa Maria ’a Pastora era una

    donna bellissima, una contadina, e viveva con il suo amante, in giro per i boschi e le montagne

    depredando e combattendo, vestita da uomo, sempre a cavallo. La banda di Ninco Nanco era la più

    crudele e la più ardita della regione; Maria ’a Pastora partecipava a tutte le azioni, agli assalti alle cascine

    e ai paesi, alle imboscate, alle taglie, alle vendette. Quando Ninco Nanco strappava con le sue mani il

    cuore dal petto dei bersaglieri che aveva catturato, Maria ’a Pastora gli porgeva il coltello. Il vecchio

    affossatore la ricordava benissimo, e un’ombra di compiacenza passava nella sua strana voce quando

    mi diceva che essa era bella, grande, bianca e rosata come un fiore, con le grandi trecce nere lunghe

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    fino ai piedi, ritta in arcione al suo cavallo. Ninco Nanco era stato ammazzato, ma il vecchio non mi

    sapeva dire come fosse finita Maria ’a Pastora, questa dea della guerra contadina. Non era morta e non

    l’avevano presa, mi diceva; era stata vista a Pisticci, tutta vestita di nero: poi era scomparsa, col suo

    cavallo, nel bosco, e non s’era mai più saputo nulla di lei.

    (Carlo Levi, Cristo si è fermato a Eboli, Oscar Mondadori, Milano 1981, pp. 63-65 e 66-67).

    Le terre del Sacramento non sono coltivate dai contadini, che le ritengono maledette dal momento in cui, con l’Unità

    d’Italia, furono espropriate alla Chiesa e vendute alla famiglia Cannavale. Il romanzo, ambientato fra la Prima guerra

    mondiale e la marcia su Roma, racconta lo scontro fra i tentativi di modernizzazione agricola, portati avanti dai personaggi

    principali, e il mondo contadino, legato a una conoscenza magica e pre-cristiana. La ritualità cattolica descritta nel brano

    risulta ibridata a elementi precedenti, folklorici e paganeggianti, rappresentando un potente esempio di sincretismo.

    Sul palco apparve all’improvviso la figura di padre Marcello. Nella chiesa si rifece un tristissimo

    silenzio. Il frate si fece il segno della croce ampio, e sulla parete di fronte, tra i due angioli di gesso che

    si vedevano a tratti nell’incerta luce delle candele, l’ombra enorme delle due braccia ripeté il gesto con

    mostruosa lentezza.

    Poi padre Marcello parlò. Dapprima a voce bassa, come se avesse voluto che i suoi ascoltatori

    tendessero gli orecchi per comprendere le sue parole. Disse che veniva di lontano, che aveva visto molti

    paesi, aveva parlato a migliaia di fedeli, aveva ascoltato infiniti peccati, e la sua anima era carica di vizi

    e di brutture. Il Signore aveva rifiutato di ascoltarlo perché lui, da mesi, forse da anni, non aveva niente

    da offrigli. La sua voce si empì di lacrime e continuò:

    «Non ho dato abbastanza sangue per voi fratelli. Nostro Signore lo diede tutto e morì. E io sono

    vivo, fratelli!»

    Tacque per qualche istante. Dal fondo della chiesa si udì un singhiozzo represso. Riprese

    lentamente: «Il Signore ha fatto sentire la sua voce terribile, e dieci milioni di uomini sono morti. C’è

    stata la guerra, c’è stata la peste; ma non è bastata la peste, non è bastata la guerra. Per le vie del mondo

    passeggia Satana, abita in tutte le case, si è annidato come un predace avvoltoio in tutti i cuori. Il mondo

    si ricarica di peccati, di desideri sfrenati. Il demonio soffia nelle menti i suoi perversi disegni e le donne,

    le fanciulle, le spose, le vedove hanno le carni infuocate dalle fiamme dell’inferno».

    La voce diventava via via accasciata, cavernosa, si spegneva in una specie di borbottio doloroso. I corpi

    dei fedeli stretti l’uno all’altro fermentavano nel calore dei fiati roventi; le donne si sentivano tutte invase

    dal demonio. Le mani del frate, che prima si agitavano violentemente e indicavano il cielo tenebroso

    dell’abside, si stesero sui fianchi. Poi d’un tratto le braccia tornarono a vibrare nell’aria e dal petto di

    padre Marcello uscì un urlo; un muggito di bove colpito in fronte. Disse:

    «E noi non faremo niente, o fratelli? Permetteremo che le piaghe di Gesù Nostro Signore

    tornino a sanguinare? Noi non faremo penitenza dei nostri peccati? Non saremo capaci di far tacere

    Satana che ci morde le carni? Voi non farete nulla», continuò a dire con toni sommessi e piangenti,

    «ma io sono carico dei vostri e dei miei peccati. Io chiederò a Dio perdono, per voi e per me».

    Le mani del frate corsero all’improvviso, frenetiche, alla chiusura del saio; la destra strappò

    violentemente una banda della stoffa e, alla luce incerta, apparve il biancore lattiginoso della pelle.

    Padre Marcello aveva nella destra una durissima fune a nodi che parve metallica agli uomini che erano

    nel fondo. La fune vibrò due o tre volte nell’aria. Poi la voce del frate si fece alta, risonante; la sua testa

    pallida si rovesciò verso l’alto e bevve tutta la luce delle candele; per qualche attimo apparve come

    pietrificata.

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    «Io sono un peccatore, mio Dio. Sono miei tutti i peccati di questi tuoi figli, usciti dal cammino

    della Tua Grazia».

    Il cilicio vibrò ancora una volta per aria, e poi staffilò le carni madide di padre Marcello. Ci fu un solo

    gemito doloroso in tutta la chiesa. La voce del frate, tra il clamore del pianto, dei sospiri, dei gemiti che

    invocavano pietà s’udiva solo quando il cilicio vibrato pareva, per qualche attimo, arrestare il battito dei

    cuori.

    L’ultima sera padre Marcello si fustigò blandamente, parlò in termini più miti della vita

    peccaminosa di Morutri6. A due ore di notte, parato di bianco, avendo ai lati don Settimio e padre

    Ferdinando, litaniando si avviò alla Costa Solenne. La pesante croce era portata a spalla da quattro

    giovani contadini, che precedevano la processione e andavano tentando, cautamente, la strada sassosa.

    La folla che seguiva era illuminata da lanterne cieche e da torce a vento. Alla testa del corteo erano gli

    uomini. Alcuni avevano sulle spalle il fucile a canna rovesciata, altri portavano nella destra, ben visibili,

    rivoltelle, vecchie pistole. Emilio Tassoni e Paolo Ferrari avevano nudi nelle mani due lunghi coltelli a

    serramanico con i quali una sera avevano tentato di sgozzarsi al vicolo delle Cese. Molti giovani avevano

    a tracolla le loro fisarmoniche, le loro chitarre; dei ragazzi portavano tamburelli a sonagli.

    Giunti ai margini della Costa Solenne la processione si fermò. Gli uomini e i ragazzi che avevano

    le lanterne e le torce, fecero circolo intorno alla buca profonda che doveva fare da tomba agli strumenti

    della lussuria e della violenza. A un cenno di don Settimio piovvero nella fossa coltelli, fucili e pistole.

    Quando il cumulo della ferraglia fu abbastanza alto, incominciò il lancio dei tamburelli che, volando

    sulle teste, mandavano il loro ultimo allegro tintinnio nel buio della notte. Due ocarine di coccio si

    ruppero fragorosamente sulle pietre perché fallirono il bersaglio. Tra il mormorio vario di sospiri e

    delle preghiere, sorse a un tratto un pianto acuto di ragazzo seguito dallo schiocco di un ceffone. Il un

    gruppo lontano una donna diceva:

    «Ha nascosto lo zufolo, non lo vuol gettare. Sta a suonare tutto il giorno e a giocare per le

    strade».

    «Ma non fa peccato; è un’anima innocente», disse la voce grave di un uomo. «Dovresti lasciarlo

    stare, Sofia».

    «Vengono su col diavolo o con Dio, come li avvezzi, Valentino. Deve buttare lo zufolo e anche

    l’organetto».

    A un tratto la folla si aprì e le torce fecero un canale luminoso tra la massa oscura. Una donna disse:

    «Arrivano i libri, viene Giustino con i libri».

    Si vide avanzare, nel breve corridoio illuminato vagamente dalle torce un uomo che aveva una manciata

    di libri e di scartafacci sotto l’ascella.

    «Porta tutti i libri del demonio», fece una vecchia, «Ci guariva con i libri del Diavolo il Mago di

    Befagna».

    Il Mago di Befagna era un contadino piccolo, rubizzo, con la vocetta fessa da zitella, senza un

    filo di barba; si muoveva con le mossette aggraziate d’una ragazza da marito. Arrivato davanti alla fossa

    si fece il segno della croce e lanciò la bracciata dei libri nel mucchio.

    «Fuoco!» disse una voce, e buttò la torcia sui libri.

    I libri fecero una rapida vampata e sulla prima vampa piovvero altre torce e poi i mandolini, gli

    organetti e le chitarre. Padre Marcello salmodiava, le donne rispondevano confusamente alle preghiere.

    (Francesco Jovine, Le terre del Sacramento, Einaudi, Torino 1950, pp. 149-154) 6 Il paese molisano in cui si trovano le terre del Sacramento di cui si parla nel romanzo.

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    PER RIFLETTERE SUI TESTI

    • Il brano di Levi descrive i poteri sovrannaturali del becchino: qual è l’atteggiamento dell’autore verso il mondo magico

    nel quale sembra vivere la maggior parte dei paesani? Anche un fenomeno di grande portata storica come il brigantaggio

    viene trasfigurato nel mito, nella leggenda popolare: rispetto al tradizionale resoconto storiografico, quali spunti offre

    una narrazione di questo tipo?

    • Nel brano di Jovine la figura centrale è quella di Padre Marcello. Quale tipo di potere esercita all’interno della

    comunità? Tra predicatore e fedeli si instaura una dinamica particolare: quali strategie retoriche e formali utilizza

    l’autore per descrivere il momento di massima tensione?

    • Nel secondo estratto la magia, rappresentata dal Mago di Befagna, sembra essere stigmatizzata: quali differenze e quali

    tratti comuni presentano i sistemi valoriali delle comunità descritte dai due autori?

    • Le due vicende sono ambientate nello stesso periodo: eppure, se si esclude il brigantaggio, questi testi non contengono

    precisi riferimenti storici. Si tratta, secondo te, di una precisa scelta degli autori? Quali sono le motivazioni e quali le

    conseguenze?

    Gli zii di Sicilia è una raccolta di quattro racconti pubblicata da Sciascia nel 1958. In questi racconti lo scrittore racalmutese

    ripercorre la storia dell’isola dai moti del 1848 al secondo dopoguerra, tracciando un variopinto affresco delle classi sociali

    siciliane: il nobile, l’emigrato, l’artigiano comunista. Il protagonista dell’ultimo racconto, L’antimonio, è un minatore, che la

    disperazione e la fame spingono ad arruolarsi volontario in Spagna fra i legionari fascisti.

    Credevo in Dio andavo a messa e rispettavo il fascio. Volevo bene a mia moglie, ché l'avevo

    sposata per amore e senza un soldo di dote. E lavoravo nella zolfara, una settimana del turno di notte

    e un'altra nel turno di giorno, senza mai lamentarmi. Avevo solo una gran paura dell'antimonio, ché

    mio padre c'era rimasto bruciato, e nella stessa zolfara. Era una zolfara che, a memoria dei più vecchi,

    i padroni avevano sempre sfruttato senza curarsi della sicurezza degli operai, frequenti erano le

    «disgrazie», il crollo di una volta o lo scoppio dell'antimonio: e le famiglie di quelli che restavano

    schiacciati o arsi se la prendevano col destino. C’era stato un tempo, nel ’19 e nel ’20, che invece di

    prendersela col destino, gli zolfatari che scampavano la «disgrazia», se l’erano presa col padrone,

    avevano scioperato e mandato minacce: ma il tempo degli scioperi era passato, per la verità non credevo

    lo sciopero fosse una buona cosa in una nazione d’ordine come era diventata l’Italia.

    L’otto settembre del 1936, giornata di Maria Bambina, e in sua gloria in tutta la campagna del

    mio paese vengono accesi dei falò (mia madre disse poi che era una giornata «segnalata» e nelle giornate

    «segnalate» non si lavora), avevo il turno di giorno: il turno di giorno mi faceva alzare alle tre di notte,

    uscire di casa alle tre e mezzo, fare un’ora di strada e «calare» nei pozzi alle cinque. Mio zio Pietro

    Griffeo, fratello di mia madre, che della zolfara era vecchio lupo, da diversi giorni raccomandava –

    ragazzi, tenete basse le lampade, c’è qualcosa che non mi piace – e anche quel giorno fece la

    raccomandazione solita. La nostra sezione era la meno ventilata, non c’erano armature; e i «ripieni»

    erano da fare7. Ci spogliammo, e l’aria ce la sentivamo sul corpo nudo come un lenzuolo bagnato. Le

    nostre lampade erano ad acetilene, le lampade di sicurezza l’amministrazione le teneva come uno di

    noi tiene il vestito della festa, per «comparire» quando venivano gli ingegneri per l’ispezione: del resto,

    i vecchi zolfatari non le volevano – quando è destino – dicevano – si muore anche con le lampade di

    sicurezza – chi sa perché le avevano in antipatia, amavano i vecchi lumi ad acetilene.

    Dopo aver fatto colazione, quasi tutti mangiavamo pane con sarde salate e cipolla cruda,

    riprendemmo il lavoro. Mio zio ancora raccomandò – basse le acetilene – e un minuto dopo dal fondo

    7 Si tratta di riempimenti, fatti con diversi materiali, in modo tale da colmare gli spazi da cui viene estratto il minerale;

    la loro funzione è quella di evitare il collasso di gallerie e cunicoli dopo l’estrazione.

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    della galleria venne un ruggito di fuoco, come avevo visto al cinematografo l’acqua precipitare dalle

    chiuse aperte, così il fuoco venne verso di noi urlando; ma questo sto pensandolo ora, non sono sicuro

    fosse proprio così, mi vedevo il fuoco sopra e non capivo niente, mio zio che gridava – l’antimonio – e

    mi trascinava, e io già correvo come in un sogno. Corsi anche dopo che uscii dalla bocca della zolfara,

    scalzo e nudo corsi per la campagna finché non sentii il cuore che mi schiattava, mi buttai a terra

    piangendo forte come un bambino e tremando.

    La notte ebbi delirio, non avevo febbre né dormivo, ogni parola che mi dicevano ogni rumore

    che sentivo ogni pensiero che mi nasceva, parevami esplodesse dentro come il lampo che fanno i

    fotografi, il lampo si spegneva e mi restava una luce viola, la luce che immaginavo si portassero dentro

    i ciechi; sempre avevo avuto spavento dell’antimonio perché sapevo che bruciava le viscere, così mio

    padre era morto, o gli occhi: conoscevo molti che per l’antimonio erano ciechi.

    L’indomani mi sentivo vecchio di cento anni, decisi che mai più sarei tornato alla zolfara.

    Sapevo che c’era una guerra in Spagna, molti erano andati a quella d’Africa e avevano fatti i soldi, uno

    solo era morto in Africa del mio paese. E poi morire alla luce del sole non mi faceva paura (e in tutta

    la guerra di Spagna non ho avuto paura della morte, mi faceva sudare di paura solo il pensiero del

    lanciafiamme). Mi vestii come fosse domenica e andai alla casa del fascio. C’era il segretario politico

    che era stato mio compagno di scuola, lui poi era diventato maestro delle scuole elementari, non mi

    voleva male anche se temeva che io lo trattassi con la confidenza del compagno di scuola e gli dessi del

    tu, ma io gli parlavo con tanto rispetto.

    Dissi – vorrei andare alla guerra, in Spagna.

    – Ecco – disse – effettivamente c’è qualcosa, una richiesta di volontari è già arrivata, non è poi

    detto che si vada in Spagna…

    – Anche all’inferno – dissi.

    – Sì, va bene, ma vogliono militi, i militi hanno la precedenza: tu non fai parte della milizia.

    – Iscrivetemi – dissi.

    – Non è una cosa facile.

    – Sono nei sindacati fascisti – dissi – sono stato giovane fascista, ho fatto il premilitare e poi il

    soldato, non so perché quando son tornato non mi avete iscritto milite.

    – Dovevi domandarlo – disse.

    – Lo domando ora: non ho fatto la guerra d’Africa, ma questa la voglio fare; sono stato bersagliere,

    sto in buona salute: credo che uno come me il diritto di fare una guerra ce l’abbia; o io scrivo al

    duce e mi offro a lui come volontario.

    Questo argomento era buono, una volta un operaio aveva scritto al duce per un premio che non gli

    volevano dare, aveva piantato una grana che il segretario politico ancora se ne ricordava; vero è che poi

    gliel’avevano fatta pagare, all’operaio.

    – Vedremo quel che si può fare – disse il segretario politico – lo dico al console e vediamo: torna

    lunedì.

    Mi arruolarono. Mia madre e mia moglie piansero. Io partii col cuore in pace: la zolfara mi faceva

    paura, al confronto la guerra in Spagna mi pareva una scampagnata.

    (Leonardo Sciascia, L’antimonio in Gli zii di Sicilia, Einaudi, Torino 1975, pp.176-180)

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    La pelle (1949) è il romanzo più famoso di Curzio Malaparte. Al momento della pubblicazione, l’opera suscitò grande

    scalpore: la realtà della guerra nel Sud Italia è trasfigurata, attraverso una narrazione crudele, verso una narrazione onirica,

    impudica e primitiva. La crudeltà dello sguardo è, d’altra parte una delle categorie che meglio descrivono l’opera di

    Malaparte. Nel brano il protagonista osserva l’eruzione del Vesuvio nel 1944 e il panico che invade le strade della città di

    Napoli, da pochi mesi occupata dagli Alleati.

    Un'immensa nube nera, simile al sacco della seppia, (e seccia è chiamata appunto tal nube),

    gonfia di cenere e di lapilli infocati, si andava strappando a fatica dalla vetta del Vesuvio e, spinta dal

    vento, che per miracolosa fortuna di Napoli soffiava da nordovest, si trascinava lentamente nel cielo

    verso Castellammare di Stabia. Lo strepito che faceva quella nera nube gonfia di lapilli rotolando nel

    cielo era simile al cigolio di un carro carico di pietre, che si avvii per una strada sconvolto. […]

    Eravamo dalla Piazza Reale saliti a Santa Teresella degli Spagnoli: e a mano a mano che scendevamo

    verso Toledo cresceva il tumulto, più frequenti si facevan le scene di paura, di furore e di pietà, e più

    fiero e minaccioso l'aspetto del popolo. Presso Piazza delle Carrette, davanti a un bordello famoso per

    la sua clientela negra, una folla di donne inferocite urlava e tempestava, tentando di abbattere la porta,

    che le meretrici avevano barricato in gran furia. Finché la folla irruppe nella casa, e ne uscì trascinando

    per i capelli ignude puttane e soldati negri sanguinanti e atterriti, che la vista del cielo in fiamme, delle

    nubi di lapilli sospese sul mare, e del Vesuvio avvolto nel suo orrendo sudario di fuoco, faceva umili

    come bambini spauriti. All'assalto ai bordelli si accompagnava quello ai forni e alle macellerie. Il

    popolo, come sempre, al suo cieco furore mescolava la sua antica fame. Ma il fondo di quel furore

    fanatico non era la fame: era la paura, che si voltava in ira sociale, in brama di vendetta, in odio di se

    stesso e di altri. Come sempre, la plebe attribuiva a quell'immane flagello un significato di punizione

    celeste, vedeva nell'ira del Vesuvio la collera della Vergine, dei Santi, degli Dei del cristiano Olimpo,

    corrucciati contro i peccati, la corruzione, i vizii degli uomini. E insieme col pentimento, con la dolorosa

    brama di espiare, con l'avida speranza di veder puniti i malvagi, con l'ingenua fiducia nella giustizia di

    una così crudele e ingiusta natura, insieme con la vergogna della propria miseria, di cui il popolo ha

    una triste consapevolezza, si svegliava nella plebe, come sempre, il vile sentimento dell'impunità, origine

    di tanti atti nefandi, e la miserabile persuasione che in così grande rovina, in così immenso tumulto,

    tutto sia lecito, e giusto. Talché si videro in quei giorni compiere atti turpi e bellissimi, con cieca furia

    o con fredda ragione, quasi con una meravigliosa disperazione: tanto possono, nelle anime semplici, la

    paura, e la vergogna dei proprii peccati. […]

    Nel dedalo dei vicoli che scendono a Toledo e a Chiaia, il tumulto si faceva ad ogni passo più

    denso e furioso: poiché avviene delle commozioni popolari come nel corpo umano delle commozioni

    del sangue, che in una medesima parte tende a raccogliersi e a far violenza, ora nel cuore, ora nel

    cervello, ora in questo o in quel viscere. Dai più lontani quartieri della città il popolo scendeva a

    raccogliersi in quelli che fin dai più antichi tempi son reputati i luoghi sacri di Napoli: nella Piazza

    Reale, intorno ai Tribunali, al Maschio Angioino, al Duomo, dov'è custodito il miracoloso sangue di

    San Gennaro. Quivi il tumulto era immenso, e prendeva talvolta l'aspetto di una sommossa. I soldati

    americani, confusi in quella spaventosa folla che li menava or qua or là nella sua rapina, voltandoli e

    percuotendoli, tal bufera infernale di Dante, parevan anch'essi invasi da un terrore e da un furore

    antichi. Avevano il viso brutto di sudore e di cenere, le uniformi a brandelli. Ormai umiliati uomini

    anch'essi, non più uomini liberi, non più orgogliosi vincitori ma miserabili vinti, in balìa della cieca furia

    della natura; anch'essi inceneriti fin nel profondo dell'animo dal fuoco che bruciava il cielo e la terra.

    Di quando in quando un cupo, soffocato rombo, propagandosi per le misteriose latebre della

    terra, scuoteva il lastrico sotto i nostri piedi, faceva sussultare le case. Quel sotterraneo rombo, quella

    profonda voce, quel fango bollente, stanavano fuor delle viscere della terra la miserabile plebe che in

  • Associazione ForMaLit La questione meridionale

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    quei dolorosi anni, per sottrarsi agli spietati bombardamenti, s'era rintanata a vivere nei meandri

    dell'antico acquedotto angioino, scavato nel sottosuolo di Napoli, dicon gli archeologi, dai primi

    abitatori della città, che furori greci, o fenici, o dai pelasgi, quegli uomini misteriosi venuti dal mare.

    Dell'acquedotto angioino, e della sua strana popolazione, parla già il Boccaccio nella novella di

    Andreuccio da Perugia. Sbucavano quegli infelici su dal loro sozzo inferno, fuor degli oscuri antri, dei

    cunicoli, dei pozzi, delle bocche delle fogne, recando sulle spalle le misere suppellettili, o, nuovi Enea,

    il vecchio padre, o i teneri figli, o il 'pecuriello', l'agnello pasquale, che nei giorni di Pasqua (erano

    appunto i giorni della Settimana Santa) allieta ogni più squallida casa napoletana, ed è sacro, perché è

    l'immagine di Cristo. […]

    Una squadriglia di cacciatori americani aveva spiccato il volo dal campo di Capodichino e si avventava

    contro l'enorme nube nera, la 'seppia', gonfia di lapilli infuocati, che il vento a poco a poco spingeva

    verso Castellammare. Dopo alcuni istanti si udì il tic toc delle mitragliere, e l'orribile nube parve

    fermarsi, far fronte agli assalitori. I caccia americani tentavano di sdrucire la nuvola con le raffiche delle

    loro mitragliatrici, di far precipitare la valanga di pietre roventi sul tratto di mare che si stende fra il

    Vesuvio e Castellammare, per tentar di salvare la città da una certa rovina. Era un'impresa disperata, e

    la folla trattenne il respiro. Un profondo silenzio cadde sulla piazza. Dagli squarci che le raffiche di

    mitragliatrice aprivano nei fianchi della nera nube, precipitavano in mare torrenti di lapilli infocati,

    sollevando alte fontane d'acqua rossa, e alberi di vapore verdissimo, e comete di cenere rovente, e

    meravigliose rose di fuoco, che lentamente si scioglievano nell'aria. ''U bil! 'u bil!' gridava la folla

    battendo le mani. Ma l'orribile nube, spinta dal vento che soffiava da settentrione, si avvicinava sempre

    più a Castellammare.

    A un tratto, uno dei caccia americani, simile a un falco d'argento, si gettò fulmineo contro la 'seppia', la

    squarciò con i rostri, penetrò nello squarcio, e con uno schianto orrendo esplose dentro la nube: che

    si aprì come un'immensa rosa nera, e precipitò in mare.

    (Curzio Malaparte, La pelle, Adelphi, Milano 2010, pp. 261-269)

    PER RIFLETTERE SUI TESTI

    • Il brano di Leonardo Sciascia descrive la situazione della popolazione rurale durante gli anni del fascismo: che cosa ti

    colpisce delle condizioni di vita? Quali sono i problemi?

    • La pelle è narrata in prima persona dall’alter ego di Malaparte: da che prospettiva si pone? È partecipe del terrore

    collettivo, o ti sembra distaccato? La conclusione del brano non è evidentemente verosimile: perché Malaparte la

    racconta con tanta partecipazione?

    • Identifica i riferimenti storici presenti nei due testi. La popolazione comprende quello che succede? Come partecipa

    agli avvenimenti?

    • Fra la scrittura di Sciascia e quella di Malaparte ci sono molte differenze: quali sono, secondo te, le più importanti? Su

    cosa si focalizza la scrittura di Sciascia, su cosa quella di Malaparte? Quale testo ti sembra maggiormente espressivo?

    Quale più realistico?

  • Associazione ForMaLit La questione meridionale

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    Dal secondo Novecento ad oggi

    Oggi la questione meridionale non può dirsi risolta. Ciononostante, essa non è più al centro del

    dibattito pubblico: l’impressione generale è che le forze politiche non abbiano più soluzioni da opporre

    al cronico divario Nord-Sud, come se questo fosse un dato di fatto ormai tacitamente accettato.

    Per facilitare l’analisi degli anni più vicini a noi prendiamo a riferimento delle date chiave: il

    1950, il 1973 e il 2008.

    L’Italia del boom ha una grande occasione: sfruttare condizioni economiche positive (come il

    rapporto favorevole debito pubblico/Pil) per modernizzare il Sud. Ma lo Stato concentra i suoi sforzi

    nel settore primario con l’idea di sanare l’agricoltura dall’alto. Il 1950 è la data emblematica di questa

    politica paternalistica: il governo fonda, per amministrare gli investimenti appositamente indirizzati al

    Sud, la Cassa per il Mezzogiorno. Nello stesso anno, viene varata la riforma agraria con cui i proprietari

    di terre superiori ai 300 ettari sono obbligati a cedere le loro terre a contadini. Tuttavia, gli esiti

    economici e politici di queste misure sono problematici.

    Se essa [la riforma agraria], infatti, contribuì a trasformare e a rendere più moderne alcune zone delle campagne

    meridionali, non costituì certo la leva capace di mutare le strutture di fondo dell’economia meridionale, né tanto

    meno di correggere il meccanismo del dualismo Nord-Sud. […] Sul piano politico, tuttavia, l’iniziativa

    riformatrice ebbe effetti particolari. […] La Dc venne tessendo una fitta rete assistenziale-clientelare,

    discriminando i contadini appartenenti agli altri partiti e fedi politiche, e chiedendo agli assegnatari una piena

    appartenenza, elettorale e ideologica, allo schieramento cattolico8.

    L’assistenzialismo statale degli anni Cinquanta e Sessanta, dunque, non contribuisce al

    cambiamento delle ‹‹strutture di fondo›› che da sempre determinano il problema meridionale. Con

    l’esplosione della crisi petrolifera del 1973 inizia poi un periodo di inversione di rotta: se nel periodo

    1952-1973 gli investimenti al Centro Nord e al Meridione sono del 6,40% e 7,64%, tra 1974 e 1980

    sono dell’1,72% e dello 0,09%: per la prima volta dopo vent’anni s’investe più al Nord che al Sud. La

    fine dell’intervento straordinario coincide così con una fase di regressione economica, che nel territorio

    si manifesta nelle palazzine tipiche dei centri urbani del Sud, nella crescita dell’organizzazione capillare

    del potere mafioso, nel turismo di massa verso il mare.

    La crisi economica del 2008 ha estremizzato ulteriormente questa situazione drammatica: nel

    suo rapporto sull’economia meridionale, la Svimez (Associazione per lo sviluppo dell’industria nel

    Mezzogiorno) ha fatto notare che in tredici anni, dal 2000 al 2013, il Sud è cresciuto del +13%, mentre

    la media europea è superiore al +53%. Il rapporto parla di ‹‹forte rischio di desertificazione industriale››.

    L’impoverimento e lo stato di minorità del Mezzogiorno continua, come vediamo, tutt’oggi, ma sempre

    affiancato dall’immagine di un Sud magico, solare e primitivo. Lu sole, lu mare, lu ientu, ma anche

    l’abusivismo edilizio e il caporalato nelle campagne.

    8 Piero Bevilacqua, Breve storia dell’Italia meridionale dall’Ottocento a oggi, Donzelli editore, Roma 1993, pp. 98-99.

  • Associazione ForMaLit La questione meridionale

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    Il romanzo La ferocia rappresenta, attraverso le vicende di una famiglia di imprenditori, la Bari degli anni Ottanta, tra droga

    e palazzinari. In questo brano Michele, il figlio problematico della potente famiglia Salvemini, dialoga con un giornalista per

    indagare sulla misteriosa scomparsa di sua sorella Clara.

    Il pomeriggio era bellissimo. Se ne stavano seduti da un’ora nella vecchia Fiesta parcheggiata

    sotto un noce. Campi incolti. Terra rossastra tra un albero e l’altro. Poi il mare, la linea azzurra.

    Sull’altro c’erano i primi palazzi di Mola. Affitti crollati e cibo buono. Era qui che la storia rallentava.

    Ma era anche il posto dove uno come Danilo Sangirardi poteva trovare rifugio per leccarsi le ferite tra

    un’inchiesta e quella successiva.

    - Ma io apprezzo questo genere di cose, - continuò il giornalista, - adoro i figli ingrati.

    [...]

    - C’è voluto più coraggio per riuscire a ottenere il tuo contatto, - disse Michele.

    Ma quello neanche lo ascoltò. Stava parlando di un container pieno di rifiuti tossici. – Il sistema dei giri

    di bolla. Cambiano i codici sul formulario e a quel punto gli scarti industriali possono diventare rifiuti

    da lavorazione agricola. Dalla Germania a Foggia, poi dritto in Campania e in Albania. Ma un po’ di

    merda resta anche qua, non ti credere. L’altro mese è uscito un pezzo sulla “Frankfurter”. Indovina in

    Italia chi ne ha scritto, a parte me. Nessuno. Tu lo sapevi? Non potevi saperne niente, - si rispose, -

    perché me l’hanno pubblicato su “Daunia Oggi”. Praticamente il bollettino parrocchiale. […]

    - Chi del resto non ha un conto in sospeso con voi Salvemini? – disse accendendosi una

    sigaretta.

    - Vi temono o vi odiano. Quando non sono alle vostre dipendenze. Io non vi odio. È molto più

    interessante studiarvi. Siete una delle conseguenze fisiologiche di questa terra. Quando non dissodi

    bene un campo, poi è ovvio che crescono le erbacce. Se non toccava a voi, toccava a un’altra famiglia

    di imprenditori.

    Michele accese anche lui una sigaretta. Guardava Sangirardi. Lo ammirava. Aveva l’impressione

    che la ricerca della verità andasse in lui di pari passo con l’esaltazione personale. Come se l’urgenza

    non nascesse da una ferita ma da una sfida, una competizione disperata alla quale si era chiamato da

    solo.

    […] - Il mio curriculum è un bollettino di guerra, - continuò Sangirardi con macabra

    soddisfazione. Elencò i posti da cui era stato licenziato. Di nuovo Michele ebbe la sensazione che si

    trattasse di una gara nella quale Sangirardi era divorato dalla necessità di arrivare primo. C’era un

    calendario e c’era un medagliere, persino quando vinceva chi perdeva.

    - Se mi avessero lasciato le mani libere avrei provato con facilità che i costi per l’ampliamento

    del porto di Manfredonia tuo padre li ha gonfiati oltre la soglia di decenza. Avrei provato che l’assessore

    ai Lavori pubblici del Comune era di fatto alle vostre dipendenze, e non mi sarebbe stato difficile

    dimostrare che il residence in Val di Noto l’avevate costruito manipolando i coefficienti di sostenibilità

    ambientale. Invece c’è sempre qualcosa che succede sul più bello. Un documento importante sparisce.

    O sono io che vengo licenziato.

    [...] - Costantini, - disse, - tua sorella era l’amante di Renato Costantini. Il direttore generale

    dell’università. Uno dei pezzi grossi di EdiPuglia. Io scrivevo un pezzo contro tuo padre, Clara andava

    da Costantini e lui tirava giù dal letto il direttore del giornale.

    […] - Mi dispiace che si sia ammazzata, - disse Sangirardi con un tono di fatalità che a Michele

    non piacque. - Ogni tanto li vedevo insieme a Bari, - si grattò il mento, - lei e Costantini. Devo dire che

    facevano impressione. Non era solo la differenza di età, o la faccenda della coca. [...] Sembravano

    sputati fuori direttamente dal centro di una fogna. Non ti offendere. Era come se brillassero in una luce

    raccapricciante. Non te lo so spiegare meglio. A un certo punto, quando “La Gazzetta del Mezzogiorno”

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