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LABORATORIO DI SCRITTURA

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LABORATORIODI

SCRITTURA

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IL TESTO DESCRITTIVOIl testo descrittivo è una tipologia di testo che descrive, appunto, una determinata realtà: un luogo, una persona, un oggetto.

Per realizzare una descrizione si può procedere in due modi: dal generale al particolare e viceversa. Nel primo caso si comincia col dare un’immagine complessiva e poi ci si sofferma sulle singole caratteristiche. Nel secondo, invece, si analizzano prima dei dettagli per coinvolgere maggiormente il lettore, e si arriva solo in fine all’aspetto complessivo dell’oggetto descritto.

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Un testo descrittivo può anche essere oggettivo o soggettivo. Nel caso della descrizione oggettiva si tratta di descrizioni molto particolareggiate e specifiche, caratterizzate da un linguaggio neutro e da un’assoluta mancanza di coinvolgimento da parte dell’autore. Nelle descrizioni soggettive invece l’autore mette in risalto solo quegli aspetti accattivanti che ritiene adatti a suscitare l’interesse di chi legge; inoltre c’è la forte presenza di osservazioni personali.

Nel nostro progetto ci siamo occupati di descrivere attraverso l’uso del criterio sensoriale. In questo modo, servendoci dei cinque sensi, abbiamo elaborato testi che descrivono principalmente spazi e luoghi aperti, piacevoli o, al contrario, chiusi e soffocanti.

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LA PIAZZA

Passo davanti alla piazza tutte le mattine, per andare a prendere il treno. A quel luogo associo le risate dei bambini, lo spettegolare delle vecchie, i baci tra ragazzi, la palla che rimbalza, l’acqua della fontanella che parla con il suo scrosciare monotono. Ora tutto è diverso.

La primavera ha portato via con sé anche la vita; e questa mattina di freddo pungente ingrigisce tutto. La piazza è vuota. Di un vuoto che mette i brividi. E, a parte la fontana che continua instancabile il suo lamento, tutto il resto è immobile. Morto.

Le panchine gelano in silenzio, ricordando dolorosamente quei ragazzi che d’estate, seduti proprio su di loro, si erano giurati amore eterno. La nebbia avvolge tutto con dita sinuose, ostacolando qualsiasi colore, qualsiasi rumore tenti di invadere quella realtà quasi atemporale. I negozi sono chiusi e si sente la mancanza di vita, si avverte sulle dita infreddolite e sulla punta del naso.

Il vento ogni tanto scuote i rami secchi e nodosi di qualche albero addormentato nel suo letargo, come se cercasse disperato di rianimare quel luogo; ma niente. La piazza non risponde. È come se anche lei fosse caduta in un lungo sonno, lasciando una nostalgia infinita negli occhi di chi passa e la guarda…

Ma finirà anche questo freddo e i bambini torneranno a colmare quel vuoto; passerà come è sempre passato. L’inverno non è eterno.

Sospiro. Mi stringo bene nel giacchetto e proseguo verso la stazione. Vado avanti.

Ilaria

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IN ATTESA

Una piccola stanza dalle pareti grigie e polverose, nude e vuote: l’unica cosa da poter leggere o guardare è il tabellone degli arrivi e delle partenze che però è solo un elenco freddo di località ed orari.

Sul pavimento ci sono le impronte delle scarpe dei tanti viaggiatori che l’attraversano di corsa. Un fazzoletto di carta, abbandonato in un angolo, è appallottolato vicino ad una lattina vuota. L’unico posto a sedere è una vecchia panchina dalla vernice scrostata da cui spunta la ruggine. Il viaggiatore durante la lunga attesa del treno in arrivo ha un unico passatempo: leggere le scritte lasciate dai ragazzi sui muri.

Nella stanza per molto tempo non si sente alcun rumore e tutto è piatto, senza la voce di anima viva; poi di colpo un altoparlante annuncia l’arrivo tanto atteso del treno con voce fredda, facendo sobbalzare il viaggiatore che si era addormentato.

Beatrice

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IN ASCENSORE

L’ascensore si bloccò improvvisamente, a metà tra il quarto e il quinto piano.

“Cavolo!” pensò Sara.

L’istinto le fece prendere tra le mani il cellulare, ma lì dentro non c’era campo. Poi si ricordò del famoso “pulsante con la campanella”, che da bambina le era stato vietato di toccare: lo premette e per un istante un trillo squillante squarciò l’aria.

Poi di nuovo silenzio. Sara si guardò intorno: quell’ascensore era piccolo, troppo. Quelle orribili pareti olivastre sembravano stringersi sempre di più; Sara si sentì soffocare.

Gettò con sgarbo lo zaino a terra con la speranza di spezzare quel silenzio assordante che le aleggiava intorno. Il risultato non fu quello che si aspettava.

Sbuffò rumorosamente e abbandonò tutto il suo peso su una parete di quella prigione; i palmi delle sue mani sfiorarono qualcosa di sporco, quasi unto; Sara deglutì per resistere alla voglia di staccarle da quello schifo. Tenne duro e aspettò che il calore delle sue dita si trasferisse sulla parete sotto forma di un sottile velo di sudore. Poi scivolò, lentamente, fino a sedersi a terra. Da laggiù aveva un’altra prospettiva: l’ascensore sembrava molto più alto e la luce che lo illuminava vista da sotto le ricordò quella volta in cui l’avevano operata alla gamba.

Nel pavimento, coperto da uno spesso strato di polvere, Sara provò a trovare un passatempo, come disegnare con il dito forme bizzarre, ma la cosa non funzionò.

Era lì, sola, in uno spazio noioso e soffocante.Le mancava l’aria.

Ilaria

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IL GIUDIZIO ALTRUI

Bonifac, sì! Si chiamava così quel vecchio barbone che si trovava sotto casa mia.

[…]

Ogni volta che uscivo dalla palazzina, volgevo il mio sguardo verso destra, dove era solito mettersi. Sempre i suoi occhi si incrociavano con i miei; quei suoi occhi che in ogni sguardo nascondevano un grido di pietà!

Si vedeva che era un uomo triste. Il suo viso aveva rughe ed era molto sporco, labbra fine, quasi invisibili e capelli e barba ricci, diventati grigi a causa della sporcizia. Lui aveva qualcosa nel suo sguardo che mi riempiva il cuore d’amore!

[…]

Ciò che so di lui riguarda il suo passato, me lo raccontò una vecchia signora che abitava al piano terra. “E’ un signore ungherese, vedovo ormai da anni. Non so per quale strano motivo si trovi in Italia. Qualche tempo fa era venuta una donna dicendo di essere sua moglie e voleva portarselo via. Fu la prima volta che vidi Bonifac farsi valere, si ribellò e non volle tornare con questa ’moglie’ ”. Io annuii. Non ero in buoni rapporti con la gente del palazzo. […]

Alessia

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LA PIAZZA

Erano più o meno le due e mezza di notte, di un gennaio rigido in fatto di temperature. Il quartiere era totalmente disabitato, anche se qualche gatto si avventurava in cerca di qualcosa da mettere sotto i denti.

La piazza centrale, quella della scuola, da lì a poche ore sarebbe stata nuovamente invasa da grida di scolari che si rivedono, e da adulti che lavorando di clacson cercheranno una via. Quella notte la piazza era un luogo buio e tenebroso, a causa della quasi totale assenza di lampioni, fulminati o malfunzionanti. La scuola aveva già perso il suo bel colore e con il buio della notte e alla leggera luce dei lampioni rimasti, sembrava più uno di quei castelli che popolavano molti film horror. Il cortile esterno era incolto ed ormai pieno di erbacce secche, i cancelli che delimitavano il territorio scolastico erano arrugginiti e avevano perso il loro bel verde. Attorno alla scuola erano in corso dei lavori già da quasi un anno che avrebbero aumentato le dimensioni del marciapiede, i lavori obbligavano gli scolari ad un percorso che puntualmente non rispettavano.

Ma quella notte c'era già qualcuno al lavoro: il panettiere della piazza il cui pane era da sempre buonissimo.

Emanuele

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IL TESTO NARRATIVO I testi narrativi sono quei testi che si occupano di raccontare delle

vicende, dei fatti avvenuti cogliendone le relazioni temporali e i rapporti causa-effetto.

Nel testo narrativo ci sono alcuni elementi che è necessario analizzare.

Il rapporto tra fabula e intreccio: la fabula è la storia raccontata, presa nel suo ordine cronologico, cioè nella stessa maniera in cui è avvenuta, mentre l’intreccio è il modo in cui viene narrata e cioè rispettando o no l’ordine cronologico. Quando la narrazione si serve di flaschback, per raccontare fatti avvenuti prima, o di ellissi (cioè l’omissione di alcuni fatti avvenuti), si parla di intreccio non lineare.

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Il narratore, cioè colui che narra la storia: può essere interno o esterno alla vicenda che racconta. Il narratore potrebbe essere un personaggio della storia che narra gli avvenimenti, potrebbe essere una voce esterna che espone i fatti prendendo il punto di vista di chi invece vive la storia, o potrebbe anche essere un narratore esterno che non dà nessuna opinione riguardo ciò che accade nel testo. Il narratore può ancora essere di primo o di secondo grado. Il primo caso si verifica in una normale narrazione, mentre il secondo avviene quando, all’interno della storia, uno dei personaggi prende la parola e comincia a raccontare lui stesso altri avvenimenti, talvolta dei flaschback.

Il tempo della storia e il tempo del racconto: il primo è il tempo cronologico nel quale la vicenda narrata si è svolta, il secondo, invece, è il tempo materiale di spazio che lo scrittore impiega per raccontare l’accaduto. In questo modo si determina anche il ritmo

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della storia; per esempio, in un testo in cui sono presenti molte descrizioni la narrazione è estremamente rallentata, mentre, in caso di scene dialogate, tempo della storia e del racconto coincidono e danno al brano un’andatura molto più incalzante.

Nel nostro progetto ci siamo soffermati molto su questi aspetti e siamo arrivati a realizzare testi narrativi che presentano i seguenti elementi: un intreccio non lineare, dei flaschback e delle ellissi, delle scene dialogate e anche la presenza di almeno un narratore di secondo grado. Inoltre abbiano anche prodotto dei testi che avessero la particolarità di essere narrati da un punto di vista particolare, magari un oggetto o un animale.

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L’ARTISTA

Storia breve di una fanciulla, di un gatto e di un pennello che non aveva mai dipinto nulla

Mi chiamo Pedro, Fernandes, Salvador, Diego, Alejandro, Jo-Pintos de la Vega.

Chiamami Pepè. Sono un gatto. E per quanto possa sembrare effettivamente strano, anche io ho una storia da raccontare. Tranquilla, non è una storia complicata. È una favola semplice e neanche so se ha una vera morale. Comunque mi sembrava giusto raccontartela.

Camminavo a coda alta per la mia strada, tutto intento a studiare il volo degli uccelli e le loro piroette, quando il mio sesto senso felino mi chiamò.

Devi sapere che noi gatti abbiamo un sesto senso che spesso ci aiuta. È una sorta di vocina che ci parla nelle orecchie.

Come ti dicevo, il mio sesto senso, che io chiamo Zippo, mi sussurrò: “Ehi, Pepè…”.

“Che c’è?”.

“Non senti qualcosa?”.

“Cosa?”.

“C’è qualcuno dietro quel cespuglio…”.

Mi fido ciecamente di Zippo e così, con un balzo, mi lanciai sull’intruso. Immaginati la mia sorpresa quando mi accorsi di avere tra le zampe un pennello.[…]

Ilaria

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VORREI TANTO RECUPERARE UNO DEI MILLE PEZZI DELLA MIA TAZZA DA TÈ.

“DRIIN!!!” Aprii gli occhi. La lezione era finita a quanto pare. Chiusi velocemente l’astuccio e riposi nello zaino i libri della materia che nessuno sembrava essersi accorto mi fossi persa. La classe era in tumulto: ultime settimane prima delle vacanze estive, inevitabili valutazioni per gli ormai prossimi scrutini e, pensiero comune, debiti da estinguere. Mi alzai delicatamente dalla sedia e indolenzita per la lunga permanenza e ancora un po’ stordita dalla breve dormita mi recai verso la porta, la aprii e mi lasciai alle spalle quel mondo fatto di ignoranza beata e scontati principi. Il corridoio era semideserto. Evidentemente la mia era l’unica classe a rispettare il suono della campanella: negli ultimi giorni i professori faticano a tenere i ragazzi in classe, ma chissà come, per noi era diverso. Scendendo le scale portai le mani ai capelli. Grondavano di sudore e percorsi l’intera rampa tentando di incastrarvi una matita adocchiata un attimo prima fuori dalla classe e trafugata silenziosamente. “Fatto” pensai uscendo dai cancelli della scuola e ignorando la confusione che abitualmente regnava in quel tratto di strada.[…]

“Hai fatto una buona mezzora di ritardo. Capisco che non è una passeggiata venire qui ma devi metterci del buon impegno anche tu, altrimenti non andiamo da nessuna parte.” Un impulso mi costrinse a scattare in piedi. “Lei ha idea di cosa significhi non poter rimuovere la sofferenza neanche per un attimo? Essere incapace di scordare anche per un singolo istante di averla persa?

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Io non riesco a dimenticare, anche se mi ostino a provarci. Ogni volta il mio riflesso nello specchio pensa a ricordarmelo, o quando passo accanto alle vetrine dei negozi o al finestrino di un’auto! Tutto mi ricorda lei, io stessa sono la fonte di questo, io della mia sofferenza, e non posso farci niente! Io non posso… cambiare quello che è successo…”

Sorrideva vagamente.

“E’ per questo che hai tagliato i capelli?”

Feci cenno di sì con il capo e sfinita mi lasciai andare sulla poltrona. Presi a respirare affannosamente e all’improvviso mi ritrovai le guance inondate di lacrime. Come quando una diga viene abbattuta e non si può far altro che aspettare che il disastro abbia fine, così ciò che per molto tempo era stato soppresso ora spadroneggiava con tutta la sua potenza sul mio viso distrutto e inerme.

 “Sai, ho sempre desiderato avere una sorella gemella e ho invidiato ad ogni occasione che mi si presentava quel rapporto a due che contraddistingue le persone che hanno questo tipo fortuna. Io non oso neanche immaginare quello che ti è successo o quello che da quel momento si è agitato nella tua testa, ma voglio capire, provarci, se me lo permetti.” La sua voce si era fatta via via più dolce, come se la sua compassione stesse lasciando il posto alla consapevolezza.

 “Stai facendo un buon lavoro. Sei passata dal totale mutismo, all’indifferenza, e ora alle urla. Significa che sei pronta per accettare ciò che ti è capitato.”

 Impossibile. Non sarebbe mai stato così facile.

 

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“Oh… è per la cronaca… Stai benissimo con i capelli corti.” Accennai un mezzo sorriso, segnata ancora pesantemente dallo sforzo della confessione.

 “Ti va di parlarmi di lei?” Scossi immediatamente la testa, avvertendo come una piccola crepa nella diga da poco restaurata. Non era ancora finita.

 “Tranquilla tesoro, non c’è fretta. Abbiamo tutta l’estate.”

Beatrice

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CÉCILE E BERNADETTE

Erano le nove del mattino, Bernadette, famosa scrittrice francese, stava andando alla scuola media del quartiere parigino in cui abitava. Salì le scale per andare al secondo piano, dove si trovava la classe 3C. Bussò alla porta e, dopo il consenso dell'insegnante, entrò nell'aula: venti ragazzini che la fissavano incuriositi. Cercando di non far notare il suo imbarazzo, si presentò alla classe e cominciò a rispondere alle domande. Tutte molto superficiali, la maggior parte era sulla sua vita privata.

Ad un certo punto una ragazzina, seduta all'ultimo banco, chiese: <<Nella tua biografia parli di una tua amica, Cécile, dicendo che ha una storia a sé, ce la puoi raccontare ora?>>.

Con un sorriso, Bernadette cominciò a raccontare la storia:

<<Allora, era il 1988, una mattina d’estate, calda e assolata. Ero andata a fare la spesa al posto dei miei genitori, che erano ammalati. Le cose da portare erano molte e non ci riuscivo da sola e così una ragazza, che mi aveva visto in difficoltà, mi aiutò. Era molto carina, capelli lunghi, ricci e mori, carnagione scura, occhi grandi e delle deliziose fossette che le venivano quando sorrideva. Parlammo per un po' e mi disse che i suoi genitori erano originari del Maghreb, una zona del Nord Africa. A casa sua parlavano solo arabo, ma lei sapeva abbastanza anche l'italiano. Ci frequentammo per tutta l'estate. Si chiamava Cécile ed era molto simpatica. Finita l'estate non ci vedemmo per tutto l'anno: lei frequentava una scuola fuori città e solo l'estate veniva qua.

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Quando la rincontrai, stava correndo veloce nel parco in direzione opposta a casa sua. La chiamai e nel momento in cui si girò, notai che stava piangendo. Corsi a chiederle cosa le fosse successo e mi rispose che la sera precedente aveva ricevuto una notizia terribile. Infatti il padre le aveva trovato marito, un figlio di un collega del padre, lei non lo conosceva nemmeno, inoltre sarebbero dovuti ritornare nel loro paese d'origine per il matrimonio. Lei però non voleva, non sopportava l'idea di essere costretta a fare qualcosa che andava contro i suoi princìpi. Infine mi rivelò che voleva scappare quella stessa notte. Non potevo lasciarla da sola, così le dissi che sarei andata con lei. Quella sera partimmo verso le due di notte, di nascosto. Per fortuna i miei non si accorsero di nulla. […] Purtroppo mi ammalai. […] Passarono due anni.Ero tremendamente preoccupata per lei, non avevo sue notizie da alcuni mesi. I giorni passavano, e l'ansia cresceva. Una mattina, seduta a tavola per fare colazione, vidi mio padre silenzioso e turbato che leggeva il giornale. Gli chiesi il motivo della sua preoccupazione, lui senza fiatare mi porse il giornale. Io incuriosita lo presi e vidi un articolo con una foto di Cécile.

“RITROVATA LA RAGAZZA NORDAFRICANA SCOMPARSA. Dopo due anni e mezzo di ricerche, è stato finalmente ritrovato il corpo di Cécile, la ragazza di Parigi fuggita da casa. Si pensa sia stata rapita e in seguito picchiata da colui che doveva diventare suo marito, poi abbandonata in un vialetto della sua città originaria.”>>

Negli occhi di Bernadette si vedeva l'immenso affetto che provava verso di lei. Qualche mese dopo uscì il suo libro, dedicato a Cécile e alla sua storia.

 Claudia

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28-08-08 

Seguiva le venature del legno con il dito.

Era una cosa che lo attraeva, un qualcosa di ipnotico. Non che fosse particolarmente divertente, ma gli piaceva. Sentiva il peso delle occhiaie pendergli sulle guance.

Aveva letteralmente scaraventato la testa su quel tavolo e quei suoi ricci neri vi si erano sparsi come l’inchiostro quando cade su un foglio bianco: con eleganza.

Chiuse gli occhi. Quel sudicio appena accennato sul petto era nauseante.

Il dito continuava a disegnare forme sconosciute sul legno che non avevano corpo.

Tentò un respiro profondo, ma il peso dell’aria era come una lama che gli squarciava il torace. Era un giorno d’agosto.

Si trovava in uno di quei posti dove di solito le famiglie passano la domenica pomeriggio.

Uno di quei prati dove sono dispersi quattro o cinque tavoli per mangiare e tutte le madri fanno a gara per cercare di acciuffarseli per prime.

Un raggio di sole gli carezzava il polso della mano con cui disegnava. Lui si aggrappava disperatamente a quel calore troppo delicato per dargli realmente conforto. Aveva freddo. Aveva freddo, ma era tutto perfetto.

Sarebbe morto lì, da solo, e il pensiero gli dava ancora la forza per sorridere. Sentiva il sangue sgorgare lento. Chiuse gli occhi in attesa della morte: l’ avrebbe aspettata lì, immobile. Per la prima volta era felice. Serenità.

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Poi, però, qualcosa distrusse tutta quella perfetta dimensione che si era creato.

Una sirena: qualcuno aveva chiamato l’ambulanza.

Diego Martinelli, morto il 28 Agosto 2008 in ospedale. Suicidio.

 

La dottoressa Diana Arconti aprì la porta di casa. Era stata una giornata terribile.

Si abbandonò sul divano.Era distrutta.

Diana era una donna dall’aspetto forte e deciso, portamento fiero e sguardo severo che incuteva timore; ma non quella sera.

Quella sera la donna seduta sul divano non aveva niente a che fare con lei:

era pallida e un velo di sudore freddo le brillava sulla fronte, sotto la luce della lampada. Le tremavano le labbra, come se avesse un sospiro o una parola appesi lì che si tenevano aggrappati alla bocca da tutto il giorno e che non avevano voglia di lasciarsi cadere. Sentiva le palpebre farsi pesanti e gli occhi bruciare. Faceva respiri brevi e veloci. Che diavolo le stava succedendo?

Si alzò in piedi con uno scatto e perse l’equilibrio per qualche secondo.

Diamine, non riusciva a smettere di pensare a quel ragazzo.

Aveva analizzato il suo corpo all’obitorio, quella stessa mattina. Non riusciva a togliersi dalla testa quegli occhi freddi che la fissavano.

Era un ventenne che si era infilato un coltello nel petto e l’ambulanza non era arrivata in tempo.

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Lei poteva ancora vedere il suo corpo freddo, di marmo. Un corpo perfetto, bianco.

Una pelle liscia come il ghiaccio.

Linee dolci e armoniose che disegnavano la sua figura fanciullesca e che terminavano in una chioma scura, sciolta sul tavolo da autopsia.

Era bellissimo, pareva un Dio. Ma allo stesso tempo metteva in soggezione a causa di quei suoi occhi di pietra, rimasti aperti dopo la morte.

Non era questo il punto però. Diana aveva visto cadaveri in condizioni assai peggiori di quello.

Il punto era che ad un certo punto si era accorta di un tatuaggio, dietro il collo del ragazzo.

Semplice, come fosse stato scritto con una penna: 28-08-08.

28 Agosto 2008.

La data della sua morte.

Ilaria