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Atti del V Convegno Ecclesiale Nazionale di Firenze. “In Gesù Cristo il nuovo umanesimo” (seconda parte) Uscire Sintesi e proposte Annunciare Sintesi e proposte Abitare Sintesi e proposte Educare Sintesi e proposte Trasfigurare Sintesi e proposte Prospettive Smascherare il dolore: Luigi Novarese pioniere nel mondo della sofferenza Dalla prevenzione all’educazione. La sfida della cultura della prevenzione e della salute (prima parte) Dino Ciccanti, una gioia contagiosa Abbiamo letto per voi - Elogio della fragilità Spunti per la lettura Magistero www.luiginovarese.org [email protected] RIVISTA BIMESTRALE DI PASTORALE DELLA SALUTE A U S L’ nell’ di ncora nità alute 2 MARZO APRILE 2016 ANNO XXXV

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• Atti del V Convegno Ecclesiale Nazionale di Firenze. “In Gesù Cristoil nuovo umanesimo” (seconda parte) • Uscire Sintesi e proposte • Annunciare Sintesi

e proposte • Abitare Sintesi e proposte • Educare Sintesi e proposte • Trasfigurare Sintesi e proposte • Prospettive • Smascherare il dolore: Luigi Novarese pioniere nel mondo

della sofferenza • Dalla prevenzione all’educazione. La sfida della culturadella prevenzione e della salute (prima parte) • Dino Ciccanti, una gioia contagiosa• Abbiamo letto per voi - Elogio della fragilità • Spunti per la lettura • Magistero

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edizioni centro volontari della sofferenzatariffa associazioni senza fini di lucro - Poste italiane s.p.a. - spedizione in abbonamento Postale - d.l. 353/2003 (conv. in. l. 27/02/2004 n° 46) art. 1, comma 2 - dcB roma - taxe perçue (tassa riscossa) Ufficio Pt di roma - italy

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Rivista Medico-Psico-Sociologico-Pastoralea carattere professionale scientifico

Fondatore:Mons. Luigi Novarese

Direttore responsabile:Filippo Di Giacomo

Legale rappresentante:Giovan Giuseppe Torre

Redazione:Samar Al Nameh, Mauro Anselmo,

Armando Aufiero, Mara StrazzacappaComitato editoriale:

Maurizio Chiodi, Felice Di Giandomenico,Luigi Garosio, Rosa Manganiello

Segretario di redazione:Carmine Di PintoProgetto grafico:

Nevio De ZoltCollaboratori:

Alessandro Barca, Claudio Bottini, Amalia Bove, Paolo Cavagnoli, Gian Maria Comolli, Pino Corrarello,

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ANNO XXXV - N. 2 - Marzo-Aprile 2016Sped. abb. Post. - Comma 20/c, Art. 2, Legge 662/96 - Filiale di Roma

Trullo Comunicazione s.r.l. - Roma - Cell. 335.5762727 - 335.7166301Finito di stampare: Aprile 2016

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Associazione Silenziosi Operai della Croce - Centro Volontari della Sofferenza Via dei Bresciani, 2 - 00186 Roma

Per l’Italia ........................... d 35,00Sostenitore ........................ d 50,00Per l’Estero ........................ d 50,00In formato PDF .................. d 20,00

Un numero ........................ d 8,00

Periodico associato all’Unione Stampa Periodica Italiana

L’Ancora nell’Unità di SaluteScienza e fede

a servizio della persona

L’Ancora nell’Unità di Salute: tre aree

di interesse per favorire, nell’ambito

sociosanitario e pastorale, la piena

dignità della persona sofferente.

L’area umanistica coglie, nell’ampio

spettro delle scienze, le comprensioni

più idonee a promuovere l’apostola-

to specifico della persona ammalata,

disabile o comunque sofferente. Più

specifiche dell’orizzonte apostolico

dei Silenziosi Operai della Croce (As-

sociazione internazionale proprieta-

ria della rivista), le aree teologica e

associativa. L’azione diretta e respon-

sabile delle persone disabili o amma-

late, una precisa responsabilità pasto-

rale come soggetti attivi nella società

e nella Chiesa, sono gli intenti che la

rivista si propone. Fondata dal 1978

da mons. Luigi Novarese, iniziatore

dell’apostolato per la promozione

integrale della persona sofferente, la

rivista accoglie contributi a carattere

scientifico, collocandoli all’interno

di percorsi multidisciplinari. Punto

di convergenza per ogni studio è

comunque dare luce e profondità

alla dignità di ogni umana esistenza

e al valore di salvezza che essa rive-

ste in virtù dell’incarnazione di Dio,

in Cristo Gesù.

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INDICE

Maria Ciccanti 181 Dino Ciccanti, una gioia contagiosa

A cura della Redazione 184 Elogio della fragilità

A cura di Vincenzo Di Pinto 186 Recensioni e commenti

189 Agli operatori sanitari 191 Al Comitato Nazionale per la Bioetica

Speciale convegno

Area associativa

Area umanistica

_____________________________ Testimonianza __________________________

_____________________________ Abbiamo letto per voi ____________________

_____________________________ Magistero ______________________________

_____________________________ Spunti per la lettura ______________________

Felice Di Giandomenico 100 Editoriale

A cura della Redazione 102 Atti del V Convegno Ecclesiale Nazionale di Firenze. “In Gesù Cristo il nuovo umanesimo” (seconda parte)

Duilio Albarello 105 Uscire Sintesi e proposte

Flavia Marcacci 111 Annunciare Sintesi e proposte

Adriano Fabris 119 Abitare Sintesi e proposte

Pina Del Core 123 Educare Sintesi e proposte

Goffredo Boselli 129 Trasfigurare Sintesi e proposte

Angelo Bagnasco 136 Prospettive

Armando Aufiero 145 Smascherare il dolore: Luigi Novarese pioniere nel mondo della sofferenza

Hiang-Chu Ausilia Chang 154 Dalla prevenzione all’educazione. La sfida della cultura della prevenzione e della salute (prima parte)

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EDITORIALE

Dopo le polemiche riguardo uteri in affitto e madri surrogate, forse si pensava che il fondo era stato ab-bondantemente toccato. Invece no, c’è dell’altro e, questo “altro”, la dice lunga su come, la tanto sbandierata e adulata modernità stia decisamen-te prendendo una china pericolosa, dove l’ABC del buon senso sta an-dando inesorabilmente verso una deriva dalla quale sarà difficile venir fuori.

Il problema è sempre lo stesso: che valore si dà alla vita umana? Ha ancora senso parlare di sacralità del-la vita? È giusto manipolare la natura a proprio piacimento attraverso al-chimie che riducono ai minimi ter-mini la dignità umana?

Stando a quanto riportato dal quotidiano britannico Daily Mail questi interrogativi lasciano il tempo che trovano. È notizia recente che, in Inghilterra, vista la carenza di or-gani per i trapianti, alcuni scienziati hanno lanciato una proposta a dir poco aberrante, ossia utilizzare i feti che hanno sviluppato patologie nelle prime fasi di gravidanza per estrarre organi una volta venuti al

mondo ed utilizzarli. Il tutto condi-to dal fatto di convincere la donne incinte, consapevoli della patologia del loro piccolo, a non abortire.

Insomma un doppio binario eti-camente anomalo: da una parte la scelta o meno di abortire e, dall’al-tra, l’esortazione ad evitare l’interru-zione di gravidanza per fini “scien-tifici”, magari considerati anche a servizio del bene dell’umanità.

Secondo i medici britannici, si potrebbero utilizzare gli organi di bambini a cui, nel corso della gra-vidanza, è stata diagnosticata una malformazione congenita al cervello chiamata anencefalia. Secondo i me-dici inglesi, questo problema, che può essere rilevato al feto già dopo 12 settimane, dà pochissime possibi-lità di sopravvivenza.

Fortunatamente non pochi medi-ci restano però fortemente contrari all’idea di dover convincere delle madri, già ferite nell’animo dopo aver scoperto che il bambino che portano in grembo ha una malfor-mazione, a farlo nascere soltanto per renderlo una riserva di organi da utilizzare in sala operatoria.

pp. 100-101

La scienza modernistae il senso del limite

Felice Di Giandomenico

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Felice Di Giandomenico

Il prof. Trevor Stammers docen-te di bioetica presso la St Mary’s University, di fronte a questo deli-rio scientifico si è espresso in modo inequivocabile: “Francamente sareb-be aberrante se i medici chiedesse-ro alle donne, i cui figli hanno una patologia grave ma che non sono nemmeno nati, di portare a termine la gravidanza per il solo fatto che il corpo dei piccoli può essere utiliz-zato per estrarre gli organi”. Stam-mers analizza il paradosso per cui finora in questi casi le donne sono state messe sotto pressione per abortire, a tal punto da considerar-le “sciocche” laddove volessero co-munque proseguire la gravidanza. Sempre per Stammers: “È preoccu-pante che queste stesse donne ven-gano incoraggiate a portare avanti la gravidanza con l’esplicita intenzione di far prelevare gli organi al bambi-no. Cosa accadrebbe se cambiassero idea una volta che vedono il loro fi-glio appena nato?”.

Forse è vero che potenzialmente quei piccoli organi sarebbero in gra-do di salvare delle vite ma a quale costo per la nostra umanità? Qual è il senso di ridurre un bambino ap-

pena venuto alla luce a niente più che un mezzo funzionale al fine. A cosa si riduce una nuova vita? Ad un assortimento di pezzi di ricambio?

Forse è arrivata l’ora che la scien-za inizi sul serio a darsi una rego-lata. Proposte come quelle arrivate da alcuni medici britannici riguardo l’utilizzo di organi prelevati da ne-onati venuti al mondo con malfor-mazioni gravi si pongono – come osserva giustamente Stammers – in triste linea di continuità con la pra-tica di usare organi da adulti uccisi con l’eutanasia.

Questo continuo manipolare con troppa disinvoltura la natura umana dal punto di vista biologico (e pur-troppo non solo) sta degenerando in processi che nulla hanno a che vedere con la vera scienza ma che si prestano a creare nell’opinione pub-blica solo orrore e scetticismo.

A tutto c’è un limite ma, soprat-tutto in questi ultimi tempi, questo limite è stato abbondantemente su-perato. C’è solo da augurarsi che le idee di questi moderni Frankenstein, restino solo proposte e che queste proposte cadano subito nel vuoto che meritano. ■

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PROGRAMMA DEGLI INTERVENTI(in grassetto gli interventi pubblicati in questo numero)

Lunedì 9 novembre 2015

Saluto di S.Em. Card. Giuseppe Betori, Arcivescovo di FirenzeSaluto del Dott. Dario Nardella, Sindaco di FirenzeProlusione di S.E. Mons. Cesare Nosiglia, Arcivescovo di TorinoPresidente del Comitato preparatorio

martedì 10 novembre 2015

Riflessione spirituale di don Massimo NaroDocente di teologia sistematica presso la Facoltà teologica di SiciliaSaluto di S.Em. Card. Angelo Bagnasco, Arcivescovo di GenovaPresidente della Conferenza Episcopale ItalianaDiscorso del Santo Padre

Atti del V Convegno EcclesialeNazionale di Firenze

“In Gesù Cristo il nuovo umanesimo”(seconda parte)

A cura della Redazione

SPECIALE CONVEGNO DI FIRENZE

pp. 102-104

Nota di RedazioneDal 9 al 13 novembre 2015 si è svolto a Firenze il V Convegno Ecclesiale Nazionale dal tema: “In Gesù Cristo il nuovo umanesimo”. Sul n. 1/2016 di questa Rivista è stato dato ampio spazio alla prima parte delle numerose relazioni alternatesi durante i lavori del Convegno. Su questo numero pubblichiamo, scelti dalla Redazione, il resto degli interventi.Il materiale di seguito pubblicato è tratto, in forma integrale, dal sito ufficiale dell’e-vento. Per la completa trattazione degli argomenti è possibile consultare il sito: http://www.firenze2015.it

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A cura della Redazione

“COME LA PENSO IO” SULLE 5 VIEDialogano:Don Mauro Mergola sdb (uscire)Direttore dell’Oratorio salesiano San Luigi, parroco di Santi Pietro e Paolo Apostoli a Torino

Prof.ssa Valentina Soncini (abitare)Docente di storia e filosofia nella scuola secondaria superiore e di teologia fondamentale presso il PIME di Monza

Dott. Vincenzo Morgante (annunciare)Direttore della Testata Giornalistica Regionale della RAI

Prof. Alessandro D’Avenia (educare)Docente di lettere nella scuola secondaria superiore, scrittore

P. Jean Paul Hernandez sj (trasfigurare)Cappellano della Sapienza – Università di Roma e docente di teologia presso la Pontificia Università Gregoriana

mercoLedì 11 novembre 2015

Presiede S.E. Mons.Franco Giulio Brambilla, Vescovo di NovaraVice Presidente della Conferenza Episcopale ItalianaRiflessione spirituale di padre Giulio Michelini ofmOrdinario di Nuovo Testamento presso l’Istituto Teologico di Assisi

Relazioni introduttivePer un umanesimo della concretezza. Discernimento della società italiana e responsabilità della Chiesa

Prof. Mauro MagattiOrdinario di sociologia presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di MilanoLa fede in Gesù Cristo genera un nuovo umanesimo

Prof. Mons. Giuseppe LorizioOrdinario di teologia fondamentale presso la Pontificia Università Lateranense

Giovedì 12 novembre 2015

Presiede S.E. Mons. Nunzio GalantinoSegretario Generale della Conferenza Episcopale ItalianaRiflessioni spirituali:

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Atti del V Convegno Ecclesiale Nazionale di Firenze “In Gesù Cristo il nuovo umanesimo”

PROGRAMMA

P. Georgij BlatinskijArciprete della Chiesa Ortodossa Russa di Firenze

Dott.ssa Letizia TomassonePastora della Chiesa Valdese di Firenze

Rav Joseph LeviRabbino capo della Comunità Ebraica di Firenze

Izzeddin ElzirImam di Firenze e Presidente dell’UCOII (Unione Comunità Islamiche d’Italia)

venerdì 13 novembre 2015

Presiede S.E. Mons. Angelo Spinillo, Vescovo di Aversa Vice Presidente della Conferenza Episcopale ItalianaRiflessione spirituale di suor Rosanna Gerbino isg Biblista

Le 5 vie: sintesi e proposteProf. Don Duilio Albarello (uscire) Docente di teologia fondamentale presso la Facoltà Teologica dell’Italia settentrionale

Prof.ssa Flavia Marcacci (annunciare) Docente di storia del pensiero scientifico presso la Pontificia Università Lateranense

Prof. Adriano Fabris (abitare) Ordinario di filosofia morale presso l’Università di Pisa

Prof.ssa suor Pina Del Core fma (educare) Preside della Pontificia Facoltà di scienze dell’educazione Auxilium

Fr. Goffredo Boselli (tasfigurare) Liturgista, monaco di Bose

Interviene S.Em. Card. Angelo Bagnasco, Arcivescovo di Genova Presidente della Conferenza Episcopale Italiana ■

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Per introdurre questa relazione finale sulla via dell’«uscire», faccio riferi-mento ad un passaggio del discorso che ci ha rivolto papa Francesco:

«Voi uscite per le strade e andate ai crocicchi: tutti quelli che troverete, chia-mateli, nessuno escluso (cfr. Mt 22,9). Soprattutto accompagnate chi è rimasto al bordo della strada, «zoppi, storpi, ciechi, sordi» (Mt 15,30). Dovunque voi siate, non costruite mai muri né frontiere, ma piazze e ospedali da campo».

In queste parole del papa, troviamo l’indicazione ai cristiani cattolici ita-liani del grande compito per il nostro tempo, segnato dalla creatività e dal travaglio tipici di ogni cambiamento d’epoca. Quando si presentano nuove sfide, addirittura difficili da comprendere, la reazione istintiva è di chiudersi, difendersi, alzare muri e stabilire confini invalicabili.

È una reazione umana, troppo umana. Tuttavia i cristiani hanno la possibili-tà di sottrarsi a questo rischio, nella misura in cui diventano davvero consape-voli che il Signore è attivo e opera nel mondo: non solo nella Chiesa, ma pro-prio nel mondo, proprio dentro e attraverso quel cambiamento e quelle sfide.

Allora si apre una prospettiva nuova: si può uscire con fiducia; si trova l’audacia di percorrere le strade di tutti; si sprigiona la forza per costruire piazze di incontro e per offrire la compagnia della cura e della misericordia a chi è rimasto ai bordi.

SPECIALE CONVEGNO DI FIRENZE

pp. 105-110

UscireSintesi e proposte

Duilio AlbarelloDocente di teologia fondamentale presso la Facoltà Teologica dell’Italia settentrionale

Ecco le sintesi e le proposte elaborate nei gruppi di lavoro:1. uscire: Don Duilio Albarello, Docente di teologia fondamentale (Facoltà Teologica

Italia Settentrionale)2. annunciare: Flavia Marcacci, Docente di storia del pensiero scientifico (Pontificia

Università Lateranense)3. abitare: Adriano Fabris, Ordinario di filosofia morale (Università di Pisa)4. educare: Suor Pina Del Core, Preside della Pontificia Facoltà di Scienze dell’Educa-

zione Auxilium5. trasfigurare: Goffredo Boselli, Liturgista, monaco di Bose.

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Uscire

SPECIALE CONVEGNO DI FIRENZE

Questo è il «sogno» di papa Francesco per gli uomini e le donne che te-stimoniano Cristo oggi in Italia. Dipende da noi metterci cuore, mani e testa affinché questo «sogno» possa diventare realtà. Condizione essenziale è quel-la di riconoscere che «uscire» è più un movimento che una dotazione; non costituisce un’attività particolare accanto ad altre, bensì rappresenta lo «stile», ovvero la forma unificante della vita di ciascun battezzato e della Chiesa nel suo insieme. Infatti, come ha rimarcato il papa, «l’umanità del cristiano è sem-pre in uscita. Non è narcisistica, autoreferenziale».

1) Lo Spirito all’operaLa «umanità in uscita», che scopre nel rapporto credente con Gesù Cristo

la sua sorgente e il suo modello, non è una realtà senza luogo; piuttosto, essa trova il suo luogo visibile e sperimentabile nel vissuto delle comunità ecclesiali. Ciò si riscontra particolarmente in alcuni tratti di questo vissuto, nei quali si scorge lo Spirito all’opera:

- sempre di più si avverte nelle comunità cristiane la messa in atto di un cammino di conversione all’essenziale, di maturazione del senso autentico del-la povertà evangelica, riconoscendo con maggiore limpidezza che la cura per la trasmissione della fede è la ragione fondamentale del nostro essere Chiesa;

- inoltre, è in atto un cammino in uscita motivato dall’ascolto della Parola di Dio compresa alla luce della grande Tradizione ecclesiale. Questo ascolto, che è conversione a Cristo e al suo Vangelo, spinge nello stesso tempo ad es-sere più liberi e più creativi nel vivere la missione evangelizzatrice, rende più aperti alla realtà, più estroversi, capaci di riconoscere e di servire quanto lo Spirito va operando nell’umano, tra le donne e gli uomini del nostro tempo;

- ancora, la celebrazione eucaristica domenicale sembra essere vissuta come luogo formativo dell’uscire, del prendersi cura e dell’accompagnare la vita nella modalità del farsi dono, dalla quale scaturiscono i motivi dell’incon-tro e i criteri guida per ogni espressione di Chiesa e ogni attività pastorale;

- un rilievo del tutto particolare è riconosciuto alla cura nei confronti delle persone segnate da diverse forme di emarginazione e da ferite provocate da sofferenze o situazioni della vita. A questo livello, appare ben visibile una vera e propria «costellazione di espressioni di carità» che connotano la pratica quotidiana della Chiesa, arricchita anche dal recupero conciliare del diaco-nato permanente;

- un ulteriore luogo di visibilità dell’umanità in uscita è dato dalla presenza

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Duilio Albarello

dei giovani. Cito un’osservazione espressa dal tavolo dei giovani all’interno del gruppo: «La prima risorsa sono i giovani stessi. Purtroppo essi si trovano già in uscita, sia da una società che sembra non aver più bisogno di loro […], che da una Chiesa per la quale provano poco interesse e fascino. Le comu-nità non di rado tendono a trattenere i giovani, in un disperato tentativo di serrare le fila, nella paura che vadano, che si intromettano, che si sporchino. Occorrono comunità audaci, capaci di scommettere sui giovani, ben sapendo che commetteranno errori e combineranno guai, ma pronte ad accoglierli e comprenderli (non a scusare ogni pigrizia e tollerare l’apatia). I giovani, per la loro diversa sintonia con le cose della storia e dello Spirito, possono aiuta-re più di ogni altro le comunità a ripensarsi aperte e in uscita e ad avventu-rarsi per nuovi percorsi di annuncio»;

- infine, un luogo significativo dell’umanità in uscita è data dai gesti e dai segni di accoglienza delle persone provenienti da inedite frontiere di dram-ma, come quella dell’esodo di popoli. L’arrivo di queste persone, fisicamente e forzatamente «in uscita» dalle loro terre, mette alla prova la nostra autentica disponibilità a non trasformare il riferimento alla via dell’uscire in un puro esercizio retorico, in quanto ci spinge a passare da progetti puramente assi-stenziali a progetti di «inclusione e integrazione sociale e comunitaria», come il Papa ha ricordato durante la visita pastorale a Prato.

2) Linee di azioneL’indicazione di alcuni luoghi concreti già in atto, nei quali si può toccare

con mano lo stile dell’«uscire», non ci esime dal riconoscere che resta anco-ra molto cammino da compiere, per avvicinare sempre di più alla realtà il «sogno» di una Chiesa in uscita. A tale riguardo, emergono differenti linee di azione dalle scelte individuate nei gruppi.

Anzitutto, sembra importante sottolineare l’esigenza di evidenziare la di-mensione umana di Gesù, come punto di partenza per una proposta testi-moniale che sia vicina al «sentire» delle persone e quindi non astratta. Porre al centro Gesù Cristo, nella sua identità integralmente umana e proprio per questo pienamente divina, significa raccogliere la spinta a semplificare, tor-nando all’essenziale; soprattutto, significa uscire da noi stessi, lasciarsi sni-dare, vincendo la tentazione di un troppo facile accomodamento. A questo proposito, vorrei citare un’immagine efficace, espressa dal tavolo dei giovani:

«Occorre fare un falò dei nostri divani. Raccapricciarci della cristallizzazio-

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Uscire

SPECIALE CONVEGNO DI FIRENZE

ne delle nostre abitudini, che trasformano le comunità in salotti esclusivi ed eleganti, accarezzando le nostre pigrizie e solleticando i nostri giudizi sfer-zanti. Occorre darci reciprocamente e benevolmente, ma con determinazione ed energia, quella sveglia che ci ricorda che siamo popolo in cammino e non in ricreazione, e che la strada è ancora lunga».

Serve allora in primo luogo, come si diceva all’inizio, un cambiamento di stile. Non si tratta di «fare» per forza cose nuove, di avviare chissà quali inizia-tive, bensì di convertire la forma complessiva dell’agire pastorale, per render-lo maggiormente capace di mettersi a servizio dell’incontro di ciascuno con Gesù Cristo e la sua forza di autentica umanizzazione. L’incontro testimoniale con altri, se non vuole correre il rischio di rimanere un contatto superficiale, deve accadere sempre volta per volta, e volto per volto.

Di conseguenza, per uscire verso gli altri è necessario accorgersi di chi ha bisogno, e non solo della sua indigenza; è necessario essere in grado di map-pare il territorio, monitorarne le dinamiche, anche grazie ad “antenne sociali” disseminate, cioè a punti di riferimento di singoli e famiglie in grado di por-tare nelle comunità ecclesiali le domande di vita spesso nascoste o ignorate.

A questo riguardo, superando un latente clericalismo, è indispensabile recuperare una presenza laicale capace di ripartire verso nuove frontiere. Occorre dunque tornare a parlare dell’identità del cristiano impegnato come figura da non confondere o identificare con l’operatore pastorale. Tocca in particolare ai laici – senza ulteriori specificazioni e specializzazioni - presen-tare all’attenzione della comunità cristiana l’ordine del giorno del mondo, con uno sguardo globale e un agire locale, per scongiurare il rischio di insi-gnificanza o di mera organizzazione dell’ordinario.

Lo Spirito chiede una continua uscita/conversione a tutti i credenti affin-ché si riconoscano evangelizzatori; una conversione che non si pone solo sul piano morale, ma anche sul piano dell’apertura mentale e della fedeltà all’impulso imprevedibile dello Spirito stesso, per superare le precompren-sioni rigide e per riscoprire la forza liberante del Vangelo. C’è bisogno inoltre di suscitare nuove figure educative non previste dalla pastorale convenzio-nale (ad esempio, educatori di strada ed educatori della notte), che siano adeguatamente preparate e accompagnate. Così come sarebbe opportuno valorizzare di più la figura dei diaconi permanenti, affinché vivano il loro ministero come un servizio a tessere una rete di comunione a partire dal bas-so, dall’incontro effettivo con le persone nelle loro situazioni comuni di vita:

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Duilio Albarello

diaconi che siano occhi, bocca, orecchie, mani di una Chiesa tra la gente.Inoltre, per crescere nello stile testimoniale, sembra importante riconfi-

gurare e rilanciare gli organismi di partecipazione; in particolare, si tratta di ragionare in termini di corresponsabilità di tutti alla costruzione della co-munità - ministri ordinati, consacrati e laici - lasciando da parte la paura non evangelica di perdere il potere.

La corresponsabilità è chiamata ad esprimersi anche attraverso la costru-zione di una rete tra le comunità ecclesiali. A tale riguardo, uno strumento concreto potrebbe essere la creazione di un sito in cui, stabilmente, tutte le diocesi italiane condividano tanto sollecitazioni spirituali quanto iniziative di tipo pastorale. Il fine sarebbe quello di favorire un interscambio di «modalità di uscita» innovative ed efficaci, nonché un dono reciproco tra le diocesi di opera-tori pastorali esperti in determinati ambiti. Mettere in rete infatti significa anche mettere in comunione i percorsi della vita delle Chiese locali. Più ampiamente, significa promuovere una pastorale in prospettiva digitale, necessaria per l’in-dole di una Chiesa aperta e in dialogo soprattutto con i giovani.

Infine, non si può omettere il riferimento all’apertura alla dimensione universale della Chiesa, in particolare nella forma del rilancio dell’esperien-za dei fidei donum, andando però in maniera prioritaria nella direzione di un’interazione tra diocesi, anziché privilegiare l’esperienza individuale del singolo missionario.

3) ImpegniLa messa a fuoco delle linee di azione ci chiede infine di rimarcare alcuni

impegni più precisi, da affidare allo sforzo creativo di progettualità delle no-stre Chiese locali. Ne evidenzio tre:

1) Avviare un processo sinodale: l’esperienza vissuta durante i giorni del Convegno ci ha permesso di saggiare e condividere uno stile di ascolto e di confronto; ci ha fatto sperimentare che è realmente possibile esercitare il discernimento comunitario, anche attraverso la fatica benedetta del lavorare assieme di laici, presbiteri, vescovi, religiose e religiosi. L’esperienza e lo stile che abbiamo vissuto destano un desiderio di modalità di vita ecclesiale, che chiede di essere partecipato attraverso la testimonianza dei delegati che a diverso titolo ne hanno preso parte. Incamminarsi in un percorso sinodale è la strada maestra per crescere nell’identità di Chiesa in uscita, capace di

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Uscire

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mettersi in movimento creativo, innovando con libertà dentro un orizzonte di comunione.

2) Formare all’audacia della testimonianza: occorre avviare processi che abilitino i battezzati ad essere evangelizzatori attenti, capaci di coltivare le domande che provengono dall’esperienza di fede e di andare incontro a tutte le persone animate da una autentica ricerca di senso e di giustizia. La media-zione ecclesiale dell’evangelizzazione riveste il compito essenziale di guidare all’ascolto della Parola di Dio in tutta la sua ampiezza e di mostrare come il Vangelo sappia interpretare la condizione di vita di ogni uomo, aprendola a possibilità e a significati di salvezza che si fondano sulla gratuità dell’azione di Dio in Gesù Cristo. L’annuncio del Vangelo non deve essere offerto come una summa dottrinale o come un manuale di morale, ma anzitutto come una testimonianza sulla persona di Cristo, attraverso un volto amichevole di Chiesa tra le case, nella città.

3) Promuovere il coraggio di sperimentare: è l’indicazione formulata an-cora dalla tavola dei giovani, i quali propongono ad ogni comunità cristiana di «costituire un piccolo drappello di esploratori del territorio, che non si perdano in ampollose analisi sociologiche o culturali, ma si impegnino ad incontrare le persone, soprattutto nelle periferie esistenziali dove l’uomo è marginalizzato. L’approccio non è quello di chi va a risolvere problemi per-ché ha soluzioni pronte e risposte a tutto, ma di chi si china a medicare le ferite con la stessa fragilità e povertà».

Certo, la forma strutturale della Chiesa in uscita è la relazione rinnovata con chiunque, specialmente con i poveri e i cosiddetti lontani. Forse è proprio questo che permette al «sogno» di papa Francesco di diventare realtà: si tratta di non limitarsi ad assumere l’atteggiamento delle sentinelle, che rimanendo dentro la fortezza osservano dall’alto ciò che accade attorno, bensì coltivare l’attitudine degli esploratori, che si espongono, si mettono in gioco in prima persona, correndo il rischio di incidentarsi e di sporcarsi le mani. D’altra par-te, i discepoli del Signore sanno che non si esce per dare un’occhiata, ma per impegnarsi nel viaggio senza ritorno che è l’esistenza segnata dalla passione per tenere vivo il fuoco dell’Evangelo, quel fuoco che è capace - oggi come sempre - di illuminare la strada verso l’autentica umanizzazione. ■

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1. Rallegrati!«Rallegrati», dice l’angelo a Maria (Lc 1,26). L’annuncio ha da subito il

sapore della “gioia”. Come la Vergine, sperimentiamo davvero l’Evangelii gaudium, la gioia del Vangelo.

E prima di inoltrarci nella sintesi mi piace restituire uno stato d’animo che mi è stato condiviso dai moderatori della via Annunciare, da molti facilitatori e partecipanti. Confrontarci sul Vangelo ha generato gioia. Quello del Conve-gno è stata l’occasione preziosa per fare un’esperienza positiva di Chiesa, in un tempo di tensione che ha affaticato e fatto soffrire molti fedeli.

Annunciare è gioire, è aumentare la propria vita (EG 10); è «osare», afferma un gruppo; «è condividere», perché non esiste gioia che non senta il bisogno di essere condivisa. La Chiesa non cresce per proselitismo ma per attrazione (BENEDETTO XVI, 13 maggio 2007, cit. in EG 14). Annunciare la gioia, non la paura: la gioia non è allegrezza da esibire, né superficialità, né senso di superiorità, né sarcasmo, né cinismo, ma profondità, leggerezza e umiltà. Annunciare è la novità che si matura nell’ascolto, e nei gruppi è emerso un grande desiderio di mettersi in ascolto, ancor prima di parlare.

Come ascoltare? Lasciandoci guidare dai misteri centrali della nostra fede.«Puntate all’essenziale, al kerygma. Non c’è nulla di più solido, profondo e

sicuro di questo annuncio» (Discorso di papa Francesco). Proprio il kerygma ci restituisce la dinamica complessiva dell’annunciare: il Verbo incarnato (che dà attenzione alla concretezza delle situazioni reali delle persone con le quali Gesù ha comunicato mediante una parola semplice, diretta, chiara, carica di verità), Gesù che è morto (e che muore nelle difficoltà, nei fallimenti, nella sofferenza e nell’esperienza della morte che ognuno di noi può aver fatto), Gesù che è risorto (perché la morte offerta per amore non è l’ultima parola, perché quello che all’uomo sembra impossibile e assurdo non è impossibile a Dio, perché si possa sperimentare la salvezza e la gioia di una esistenza trasfigurata, carica di prospettive e capace di sperare).

AnnunciareSintesi e proposte

Flavia MarcacciDocente di storia del pensiero scientifico presso la Pontificia Università Lateranense

Flavia Marcacci

pp. 111-118

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2. Nel mistero dell’IncarnazioneGesù si è incarnato, «la dottrina è carne», ci ha detto il papa martedì. Come

portare questa carne, iniziando da chi è indifferente o lontano?È forte in tutti i gruppi di lavoro la volontà di creare relazioni, prendersi

cura e accompagnare. Questa volontà è un desiderio che nasce dal vivere prima di tutto la bellezza della relazione personale con Gesù, che va curata e custodita nella propria interiorità e nelle comunità. Per donare Gesù agli altri è essenziale creare percorsi di accompagnamento concreto e personalizzato. Ogni persona è degna della nostra attenzione (EG 274) che diventa ascolto delle esperienze concrete.

Gesù si conosce tramite la sua Parola, tramite la Scrittura, che ha valore performativo e crea «relazioni vere di incontro e condivisione», come spiega un gruppo. «È questo il primo passo – ha sottolineato un altro gruppo – per l’instaurarsi di una vera relazione: il linguaggio della vita». È questo l’umanesi-mo che già c’è nelle nostre Chiese e che vuole ancora più centralità e vigore.

Qui anche l’importanza della testimonianza, che suscita domande e rende desiderabile camminare con Gesù. Si può testimoniare solo dopo aver fatto esperienza concreta di Gesù, e dopo aver rinnovato la nostra risposta alla do-manda: «Ma voi chi dite che io sia?» (cfr. Mc 8 e par.). Così l’annuncio rigenera chi annuncia, come un gruppo afferma: «L’annuncio è uno spazio che genera partecipazione e fa sentire accolti».

«La dottrina cristiana non è un sistema chiuso, incapace di generare do-mande, dubbi, interrogativi, ma è viva, sa inquietare, animare. Ha volto non rigido, ha corpo che si muove e si sviluppa, ha carne tenera: si chiama Gesù Cristo» (Discorso di papa Francesco).

Spesso incontriamo persone che sono lontane dalla Chiesa, addirittura so-spettose: sono «coloro che non conoscono Gesù Cristo o lo hanno sempre rifiutato» (EG 14). Come incontrarle nel modo in cui Gesù ha incontrato Zac-cheo e la Samaritana? O, anche, come fare con coloro che provengono da realtà culturali molto diverse dalla nostra? Conoscerli e poi tornare alle radici dell’umano permette di costruire una Chiesa di inclusione e non di esclusione, perché l’umano è il luogo dove si radica la verità di Dio, quella verità «che non passa di moda perché è in grado di penetrare là dove nient’altro può arrivare» (EG 265). L’annuncio, così, si fa eloquente quando è fatto di gesti che hanno il gusto della carità animata dall’adesione a Cristo, dall’imitazione delle sue azioni, dal racconto dei suoi miracoli e dei suoi incontri con le persone.

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Flavia Marcacci

Ma anche chi già cammina da tempo ha bisogno di ascolto e di rinnovare la propria mente per non “raffreddare” la propria umanità. L’incontro con la differenza, la percezione dei propri limiti e la consapevolezza di essere amati porta a tornare sulle proprie motivazioni e a riscoprire in noi il volto di Cristo e la sua infinita tenerezza (cfr. EG 3).

3. Ai piedi della croceAfferma papa Francesco: desideriamo una «stagione evangelizzatrice più

fervorosa, gioiosa, generosa, audace, piena d’amore fino in fondo e di vita contagiosa!» (EG 260). Ma «come cantare i canti del Signore in terra stranie-ra?» (Sal 137,4), si chiede il salmista: in quella terra straniera che è il dolore, la solitudine, la contraddizione, la morte? È una terra straniera perché non siamo fatti per il dolore. È una terra straniera perché sempre irta di difficoltà e contraddizioni.

Gesù muore per noi. E allora chi annuncia impara dapprima a morire a se stesso. Sempre nell’uomo c’è il rischio dell’egocentrismo e di annunciare se stesso. Inoltre oggi sembra più difficile di ieri portare il Vangelo, ma è solo diverso, per le specifiche difficoltà legate alla nostra epoca (EG 263), piena di sfide che possono però diventare occasioni di annuncio.

Ecco alcune difficoltà emerse dai gruppi, a titolo puramente emblematico:

• Autoreferenzialità.

• Devozionismo.

• Clericalismo1.

• Povertà formativa: «Molti nostri operatori sono animati da un grande cuo re, ma il grande cuore non basta». Quando prevalgono questi elementi2,

1 «L’annuncio riguarda ogni battezzato, non solo i presbiteri», afferma con nettezza un gruppo. Altri auspicano meno clericalismo e un vaccino per i “clerodipendenti” altri ancora di liberare i sacerdoti da incombenze pratiche affinché possano dedicarsi di più all’ascolto e all’incontro con le persone.

2 Altri elementi che sono stati registrati:• Forme di ricchezza che rischiano di rendere poco dinamici e di rallentare l’annuncio. Sia-

mo lontani dal recepire appieno l’invio all’umiltà, al disinteresse e alla gioia formulato dal Papa.«Solo quando la Chiesa si orienta alla missio ad gentes ritrova se stessa».• Divisioni nella Chiesa: «Non si può annunciare in una Chiesa in cui un gruppo addita l’altro».• Difficoltà di raggiungere il mondo giovanile.• Poca creatività pastorale.• Linguaggi astratti e stereotipati.• Attivismo senza ascolto.

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l’annuncio si fa difficile, impossibile o sterile.Serve piuttosto formazione, comunione, creatività e credibilità per annun-

ciare3.

4. Nello Spirito del RisortoLa speranza è legata alla progettualità. E alla certezza che Cristo è già ri-

sorto, fonte della gioia. Abbiamo bisogno di un radicamento interiore, cioè «della convinzione che Dio può agire in qualsiasi circostanza, anche in mezzo ad apparenti fallimenti, perché ‘abbiamo questo tesoro in vasi di creta’ (2Cor 4,7)» (EG 279). Un tesoro, nascosto quasi come la vita nascente in un grembo materno. Un gruppo in particolare ci dona un’immagine molto suggestiva: «Maria che visita Elisabetta può essere vista come icona di colei che con umil-tà reca concretamente colui che annuncia». Come ha detto papa Francesco: «Desidero una Chiesa lieta col volto di mamma, che comprende, accompagna e accarezza» (Discorso di papa Francesco). Così aiuta a crescere e maturare. Ribadisce un gruppo: «La Chiesa ha un volto femminile, come quello di Ma-ria, che porta Gesù nascosto nel grembo e in questo modo lo porta incontro a ogni persona». Per questo più la Chiesa dà parola alle famiglie che la com-pongono, più diventa Chiesa madre.

Cosa propongono in sintesi i 500 della via Annunciare? Quali impegni chiedono alla Chiesa oggi in relazione alla nostra via?

- Passare da una attenzione esclusiva verso chi viene evangelizzato a una specifica attenzione a chi evangelizza. Qui emerge tutta l’importanza della comunità ecclesiale come soggetto di evangelizzazione e al suo interno, in particolare, delle famiglie.

- Attenzione alla formazione. Vari gruppi considerano necessaria «la revi-sione del sistema educativo della Chiesa»: non solo l’iniziazione cristiana e l’educazione dei bambini e dei ragazzi, ma la stessa formazione degli opera-tori, con particolare attenzione agli itinerari formativi che coinvolgono preti, religiosi e laici, uomini e donne. Del resto «Gesù lavorò molto con i propri discepoli», nota un altro gruppo. «Occorre il coraggio di partire da se stessi». Occorre professionalità, rigore e capacità di attingere dalla ricchezza della cultura cristiana per poi confrontarsi davvero con le istanze del nostro tempo.

• Uso funzionale della Parola di Dio.3 Dice un gruppo: «Per evitare l’individualismo occorre formazione e vita di comunione.

Non attaccarsi a ciò che si è sempre fatto, non aver paura delle novità».

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Flavia Marcacci

- Quanto alla modalità della proposta occorre continuare il lavoro circa il rinnovamento degli itinerari: con adulti, con giovani coppie, con adolescenti e giovani, con bambini e famiglie, e così via, coinvolti nei cammini dell’ini-ziazione cristiana. Anche la ritrovata attenzione allo stile catecumenale aiuta a ideare non corsi ma percorsi, dove offrire contenuti, ma soprattutto aiutare a vivere sempre più autenticamente il Vangelo.

- Infine è stato manifestato grande interesse alla questione dei linguaggi: occorre che siano chiari e diretti, semplici e profondi, capaci di portare a tutti la Parola. È così profonda la sete di Parola che si chiede di condividerla e non riservarla ai soli specialisti, pur riconoscendo l’importanza del loro lavoro.

Ecco esemplificate in maniera più ampia alcune proposte dei gruppi, rac-colte per grandi aree di attenzione:

Annunciare significa mettere al centro il Vangelo• Vari gruppi sottolineano «l’importanza della conoscenza della Parola di

Dio», fino a farla diventare un’esperienza ordinaria della formazione cristia-na. Occorre rimettere al centro della vita della Chiesa l’ascolto del Vangelo, elemento di unione e di aggregazione. Altri sottolineano che occorre «saperlo attualizzare», perché esso genera realmente «un profondo processo di conver-sione personale, comunitaria e pastorale».

• Ciò richiederà alle comunità cristiane di essere spazi di incontro con la Parola, fatti di silenzio, di preghiera, di contemplazione, di studio, di ri-cerca innovativa. Preziosa sarà quindi la lectio divina e la lettura popolare della Bibbia; ma anche esperienze innovative, simpatiche e di incontro sulla Parola. Un contributo giunto tramite facebook chiede: «Sentiamo il bisogno che la Bibbia ci sia riofferta, ci sia spalancata con il vigore della lettura, della predicazione, del teatro, dell’arte, della musica».

Annunciare significa agire, decentrarsi, aprirsi a tutti• È l’ascolto meditato e pregato del Vangelo che permetterà allo Spiri-

to Santo di portare la comunità sulle strade degli uomini, per incontrare le fragilità dell’umano, negli incroci dei sentieri della vita in un percorso fatto di vicinanza, accoglienza, incontro, accompagnamento e condivisione, con grande attenzione alle esigenze dei territori. Vari gruppi parlano di:

«Ascoltare, più che dire; incontrare più che portare»; «Attivare buoni pro-cessi, potenziare le buone prassi già in atto, creare nuovi spazi di confronto e di dialogo».

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SPECIALE CONVEGNO DI FIRENZE

• È vivo il desiderio di «Includere persone disabili, immigrati, emarginati» e le loro famiglie. Occorre acquisire la competenza necessaria per aiutare, sostenere, accompagnare e annunciare la speranza di una vita nuova e la dolcezza di un Gesù amico che non abbandona. In ogni contesto ambientale (scuola, lavoro, università, ospedali, carceri, social, media, non luoghi, …) ed esistenziale (disagi psichici, crisi coniugali, problemi educativi, …) in cui si trovano. Confrontarsi con la malattia, il disagio fisico e psichico, la disabilità e la fragilità costringe a fare i conti con la realtà di un’esistenza che non fa sconti a nessuno. Lo stesso dicasi per molte famiglie che vivono varie forme di fragilità nel rapporto tra i coniugi e nel confronto con i figli. Includere è il modo di testimoniare Gesù che si curva sugli ultimi.

• Occorre saper abitare i social, affinché diventino luoghi di reale dialogo e annuncio positivo e formativo, e vanno «valorizzati la stampa e i media di ispirazione cristiana».

• L’apertura richiesta dalla Parola porterà a rendere “piazze di incontro” gli oratori, ma anche a creare nuovi spazi di condivisione e di scambio nel territorio, arricchiti dalle strade del web.

Annunciare significa guarire e rinnovarsi• È irrinunciabile l’annuncio gioioso del perdono e della misericordia

come cuore pulsante dell’evangelizzazione e di un nuovo umanesimo in-centrato sull’alleanza tra l’uomo e il Signore. La Chiesa accompagna, aiuta a comprendere la povertà che consegue al peccato e invita sempre a gioire del perdono che guarisce e fa risorgere.

• È essenziale il primo annuncio, che va «inteso non solo come momento iniziale del cammino di fede di chi non è cristiano» ma come proposta di fondo che ritorna negli snodi fondamentali dell’esistenza. Così è preziosa l’evangelizzazione per le strade e in casa (pastorale 0-6 anni, cellule di evan-gelizzazione, gruppi di ascolto della Parola; gruppi di ascolto per giovani...), come altrettanto importante è impegnarsi a rinnovare i percorsi di iniziazione cristiana e di catechesi, oltre il catechismo.

• L’ascolto della Parola genera una sana inquietudine e un profondo di-namismo.

Questo dinamismo rende costantemente riformulabili le istituzioni, la li-turgia e le tradizioni, e provoca una costante riforma dei linguaggi e degli stili di Chiesa. Quali sono gli stili-chiave suggeriti per un annuncio fecondo?

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Flavia Marcacci

«Lo stile del narrare, lo stile della condivisione, lo stile del servizio, lo stile del dialogo, lo stile della gioia, lo stile del dubbio, lo stile della speranza, lo stile del mettersi in gioco, lo stile dell’ascolto, lo stile empatico», come hanno sottolineato molte voci, «a partire dallo stile di Gesù, ricco di tenerezza, non impositivo, capace di accostarsi alle persone e attivare processi».

• Va approfondito il tema degli itinerari formativi, per formare adeguata-mente i formatori.

Annunciare significa leggere la realtà e la nostra vocazione• Annunciare la Parola ravviva la consapevolezza del Battesimo, che è

chiamata alla missione. Molti gruppi sottolineano l’esigenza di “allargare” i protagonisti dell’evangelizzazione; in particolare le famiglie vanno colte sem-pre più come soggetto di annuncio, capace di esplicitare e curare i passaggi fondamentali nella vita di coppia e di famiglia. Sono importanti i percorsi di sostegno alla genitorialità, dove comunicare sì l’emergenza educativa, ma anche e soprattutto la gioia e la possibilità di educare.

• Occorre inoltre un sempre maggiore coinvolgimenti di laici e laiche nelle varie forme di annuncio. Si chiede «maggiore comunione tra sacerdoti e laici», coltivando la fiducia reciproca, senza corporativismi.

• In definitiva si tratta di riscoprire appieno la soggettività dell’intera co-munità cristiana in ordine all’evangelizzazione. Qui l’importanza di un reale confronto e dialogo tra parrocchie e realtà associative, come pure di uno stile di sinodalità nella Chiesa.

• Metodologicamente, per il dopo-convegno, si suggerisce di «lavorare in piccoli gruppi come nel Convegno, per cercare insieme proposte e soluzioni» negli organismi di partecipazione e in altre forme di condivisione e collegia-lità.

5. Leggerezza e beatitudineÈ stato affermato in più occasioni che le cinque vie sono tra loro distinte,

ma non separate né esaustive. Come gli ambiti evidenziati dal Convegno di Verona non esauriscono situazioni e bisogni esistenziali, così l’azione eccle-siale è alquanto ricca, perfino complessa, fatta di tanti elementi come la vita di una persona o di una famiglia. E come capita a una persona o una fami-glia, i differenti elementi – se ricomposti in armonia – costituiscono altrettanti punti di forza.

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Annunciare

SPECIALE CONVEGNO DI FIRENZE

In concreto, ci chiediamo se anziché pensare la via dell’annunciare come percorso tendenzialmente autonomo, non occorra immaginarla come arric-chita dalle altre.

Pensiamo al possibile binomio: annunciare-uscire. Non ha senso parlare di kerygma e non includervi una dinamica missionaria. O al binomio annun-ciare- abitare, che evoca la quotidianità dell’esistenza.

Annunciare-educare nelle nostre comunità dice della dimensione genera-tiva della Chiesa madre. Come afferma un gruppo: «L’annunciare non termina dopo che hai proclamato il Vangelo. Annunciare è anche accompagnare e aiutare a dare frutto».

E infine annunciare e trasfigurare, annunciare perché trasfigurati, capaci di consegnare ciò che ci ha stupiti e salvati, di fare memoria di un incontro che ci ha trasformati dal di dentro. Non a caso, come richiamato in un grup-po, al cuore di ogni azione formativa sta il giorno del Signore, la domenica, «il giorno senza il quale non possiamo vivere».

Proprio perché è il Signore il protagonista, proprio perché non ci si può disporre al servizio dell’evangelizzazione se non in quanto chiamati e salvati, possiamo cogliere la verità del mandato missionario. Gesù invita i suoi, dopo la Resurrezione, ad essergli testimoni iniziando da Gerusalemme, e poi pro-seguendo per la Giudea e la Samaria fino ai confini della terra. Prospettiva che deve averli spaventati, essendo ben noti a Gerusalemme come seguaci di un maestro morto sulla croce.

Ma Gesù non impone pesi. Afferma che sarà con i suoi fino alla fine dei giorni e che lo Spirito Santo li accompagnerà. Egli forse intende dire non: “Dovete essermi testimoni”, bensì: “Potrete essermi testimoni”, “Riuscirete ad annunciare”, “Vivrete l’evangelizzazione” anche a Gerusalemme e fino ai confini della terra. Nella forza dello Spirito Santo.

Detto altrimenti, il giogo che Gesù ci impone non è pesante ma leggero; tra le virtù di una Chiesa fedele al suo Signore e capace della gioia del Van-gelo vi è quella della leggerezza, da associare alla beatitudine di cui ci ha parlato papa Francesco; la leggerezza cristiana, di chi si sente voluto bene dal Padre, salvato da Gesù Cristo, sospinto dallo Spirito Santo. Su ali d’aquila (cfr. Sal 96). ■

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Adriano Fabris

Quello che viene qui restituito sicuramente deluderà. Non è possibile fare la sintesi del risultato, ricchissimo, del lavoro di tutti i gruppi. Non potrò in-dicare tutte le proposte belle, concrete, che sono state espresse. Non è possi-bile: anche se i facilitatori e i moderatori hanno scritto un resoconto accurato di quanto è stato detto. Troppi sono infatti gli spunti e le sollecitazioni che sono emerse, e c’è il rischio di perdersi.

Ciò che cercherò di offrirvi, allora, è un po’ come il lievito madre. È qualcosa che proviene da tante esperienze che sono cresciute in vari luoghi d’Italia, che avete fatto voi, e che di tali esperienze è stato ed è l’elemento generatore. È qualcosa che, grazie alla condivisione di queste esperienze che abbiamo vissuto qui a Firenze, vi viene di nuovo consegnato: temprato, pu-rificato, affinché possa ancora far lievitare le nostre azioni.

Da tutti i gruppi è emerso con chiarezza che “abitare” è un verbo che, come viene mostrato anche nella Evangelii Gaudium, non indica semplice-mente qualcosa che si realizza in uno spazio. Non si abitano solo luoghi: si abitano anzitutto relazioni. Non si tratta di qualcosa di statico, che indica uno “star dentro” fisso e definito, ma l’abitare implica una dinamica. È la stes-sa dinamica che attraversa le altre vie, e soprattutto la via dell’educare. Molti, anzi, hanno visto l’abitare e l’educare strettamente collegati fra loro.

In tutto questo però, non si parte da zero. Il cammino ulteriore che ci attende è un cammino che le nostre comunità locali stanno facendo da tem-po, andando incontro alle esigenze dei vari territori. Lo fanno, consapevoli che l’abitare, per il cattolico, è anzitutto un “farsi abitare da Cristo”, perché solo a partire da qui può essere fatto spazio all’altro. Si tratta di un cammino, poi, che la Chiesa italiana ha compiuto e che sta compiendo, con risultati concreti e incisivi, anche se essi non sempre sono conosciuti a sufficienza. È la Dottrina sociale della Chiesa, come molti hanno sottolineato, che dovrebbe essere ancor meglio approfondita quale fonte ispiratrice e quadro di riferi-mento dell’agire pubblico.

AbitareSintesi e proposte

Adriano FabrisOrdinario di filosofia morale presso l’Università di Pisa

pp. 119-122

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Abitare

SPECIALE CONVEGNO DI FIRENZE

Ma in che cosa consistono, concretamente, queste relazioni buone che ci troviamo ad abitare, e che dobbiamo rilanciare e praticare nella vita di tutti i giorni? Esse possono venir sintetizzate da alcuni verbi, che sono stati utiliz-zati, tutti o solo alcuni, dai vari gruppi. Questi verbi sono: ascoltare, lasciare spazio, accogliere, accompagnare e fare alleanza.

La prima cosa da fare – vera pedagogia dell’incontro – è acquisire la disponibilità ad ascoltare. C’è chi ha chiesto che vengano allestiti sempre di più luoghi in cui, in un’epoca di grandi solitudini, vi sia la possibilità di parlare e di essere ascoltati davvero. L’ascolto comunque è l’unico modo per uscire dall’autoreferenzialità, che è presente spesso, anche nelle fami-glie, dove in molti casi la capacità di ascolto si va perdendo. Ma la famiglia, com’è stato detto, è “un luogo di conoscenze e di azione per abitare il territorio”: è il luogo, cioè, di una fondamentale testimonianza dello stile di vita cristiano.

Abitare le relazioni, anche in famiglia, significa però essere capaci di la-sciare spazio all’altro. La necessità che venga lasciato spazio all’atro è sot-tolineata soprattutto dai più giovani. C’è il problema, qui, dei rapporti fra le generazioni. Qualcuno ha detto, letteralmente: “Noi figli abbiamo bisogno di far pace con un mondo adulto che non vuole lasciarci le chiavi, che ci nega la fiducia e allo stesso tempo non esita a scandalizzarci ogni giorno”. È una sfida che dev’essere accolta concretamente, nei comporta-menti quotidiani, da tutti i cattolici, per fare i conti con quell’ingiustizia che le generazioni più anziane si trovano oggi a commettere, per lo più involon-tariamente, nei confronti di quelle più giovani.

L’accoglienza, poi, è l’atteggiamento a cui siamo tutti chiamati nei con-fronti degli altri, e in particolare delle persone più fragili. Vi sono tante for-me di fragilità, oggi, che richiedono attiva attenzione: quelle dei bambini e degli anziani, ad esempio; quelle di coloro che hanno perso il lavoro e, in generale, dei poveri; quelle degli immigrati, alla ricerca di quel futuro che nelle loro terre d’origine è loro negato; quelle di chi vive un disorientamento psicologico ed esistenziale; quella, insomma, di tutti coloro che sono messi ai margini di un mondo che è impietoso nei confronti di chi non si uniforma alle proprie strutture economiche e sociali. Ma fare i conti con questo non significa – è stato da più parti sottolineato – limitarsi al gesto, pur impor-tantissimo, del dare: bisogna far emergere la dignità delle persone, bisogna metterle in grado di sentirsi utili, di sentirsi in grado di restituire qualcosa di

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Adriano Fabris

ciò che hanno ricevuto. Una relazione buona, un’accoglienza vera, non sono semplice assistenzialismo.

Ecco perché – e con ciò finisco l’elenco dei verbi più “gettonati” dai grup-pi al fine di declinare concretamente il nostro abitare – accogliere significa anche, sempre, accompagnare e fare alleanza. Accompagnare le persone che hanno bisogno di noi; accompagnarle nelle difficoltà, nella malattia, an-che nella morte. E tutto questo nei luoghi in cui viviamo tutti i giorni. C’è chi ha proposto, nel concreto, una vera e propria “pastorale del condominio”.

Tutto questo si verifica – molti lo hanno sottolineato – nelle relazioni che, a partire dalla relazione fondante con Dio e avendo a modello i comporta-menti di Gesù, sperimentiamo quotidianamente. Lo sappiamo bene, e tutto ciò è stato ulteriormente sottolineato. Queste relazioni si costruiscono nella natura e nel mondo – il creato come casa comune da custodire – nei luoghi in cui studiamo, lavoriamo, viviamo i nostri impegni e il nostro tempo libero, nei nostri spazi reali e negli ambienti virtuali. Emerge la necessità di un impe-gno diffuso, di un cristianesimo vissuto a tutti i livelli e testimoniato quotidia-namente, nella trasparenza dei comportamenti. Questo chiede anche un uso dei beni e di ciò che la Chiesa amministra secondo la radicalità evangelica. Ecco la vera tavola di verifica dei frutti di questo Convegno.

In particolare, in relazione a questi modi di realizzare la propria fede, sono emerse molte riflessioni riguardo a come vivere la realtà della par-rocchia in maniera adeguata alle sfide del nostro tempo. È stato chiesto di superare incrostazioni e difficoltà dovute a modi di pensare a volte ingessati, presenti anche nei vari organismi di partecipazione ecclesiale; è stato chiesto di lasciare più spazio ai carismi dei laici e di fare in modo che la stessa co-munità cristiana sia un luogo davvero aperto alle necessità di tutti.

Un ultimo aspetto è stato infine sottolineato da tutti i gruppi. Si tratta della necessità di ripensare l’impegno a favore della propria comunità. Si tratta di ripensare la politica, e di farlo in una chiave che sia davvero comunitaria. Al-cuni hanno detto: non bisogna semplicemente delegare, e poi disinteressarsi di ciò che viene deciso in nostro nome. Bisogna accompagnare i decisori, che sono i nostri rappresentanti; non bisogna lasciarli soli. Una nuova capa-cità di abitare le relazioni – un “nuovo umanesimo” – si collega e si esprime anche nella partecipazione e nell’impegno per una vera cittadinanza attiva.

In sintesi: ciò che emerso da tutti i gruppi è una continuazione e un ri-lancio dello stile sinodale. Qualcuno ha detto: La Chiesa o è sinodale o non

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Abitare

SPECIALE CONVEGNO DI FIRENZE

è Chiesa. Credo che tutto ciò lo abbiamo sperimentato e verificato anche in questi giorni. Ora dobbiamo riportarlo, appunto come il lievito madre, nelle nostre realtà locali.

Lo possiamo fare se teniamo presente un aspetto che è tipico del cristiano: la capacità di sognare concretamente. Sentiamo, come parola finale, ciò che è stato detto in un gruppo, con esplicito riferimento a ciò che il Papa proprio qui a Firenze ci ha chiesto: di rileggere e applicare la Evangelii Gaudium. Che cosa possiamo sognare, molto concretamente però, per il nostro futuro? In che cosa possiamo concretamente impegnarci? Ecco che cosa è stato detto:

“Sogniamo una Chiesa beata, sul passo degli ultimi; una Chiesa ca-pace di mettere in cattedra i poveri, i malati, i disabili, le famiglie ferite [EG, 198]; “periferie” che, aiutate attraverso percorsi di accoglienza e autonomiz-zazione, possano diventare centro, e quindi soggetti e non destinatari di pastorale e testimonianza.

“Sogniamo una Chiesa capace di disinteressato interesse: che metta a disposizione le proprie strutture e le proprie risorse per liberare spazi di condivisione in cui sacerdoti, laici, famiglie possano sperimentare la “mistica del vivere insieme” [EG, 87; 92].

“Sogniamo una Chiesa capace di abitare in umiltà, che, ripartendo da uno studio dei bisogni del proprio territorio e dalle buone prassi già in atto, avvii percorsi di condivisione e pastorale, valorizzando, “gli ambienti quotidianamente abitati”, ognuna nel proprio spazio-tempo specifico e ren-dendo così ciascuno destinatario e soggetto di formazione e missione [EG, 119-121]”. ■

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Pina Del Core

Una premessaNel tentare una sintesi e una riproposizione di quanto emerso nei gruppi

dedicati alla “via” dell’educare, una premessa appare necessaria. In numerosi tavoli di lavoro, infatti, è stato rilevato come la stessa esperienza di ascolto, condivisione e scambio avvenuti nei piccoli gruppi durante il Convegno ab-bia costituito, oltre che un metodo esemplare per altre iniziative ai diversi livelli della vita ecclesiale, una vera e propria

‘esperienza educativa’ in atto e soprattutto un esercizio di ‘sinodalità’. Non si cresce se non insieme, in una relazione diretta e accogliente: questo abbia-mo vissuto e ci ha arricchito.

Inoltre, sono state toccate tutte le aree e gli ambiti che Mons. Nosiglia nella sua prolusione ha indicato come frontiere d’azione: “la frontiera dram-matica dell’immigrazione, la frontiera sempre più tragica delle povertà anche a causa della crisi economica e occupazionale, la frontiera delicata dell’emer-genza educativa”.

Lo spirito all’operaGli orientamenti pastorali della Chiesa Italiana per il decennio in corso

hanno puntato sull’educazione come punto prospettico da cui avviare pro-cessi di conversione pastorale nelle comunità ecclesiali e nella prassi educa-tiva ed evangelizzatrice messa in atto nella concretezza della vita ordinaria.

Molto è stato fatto, come del resto si costata guardando la storia e la tradi-zione ecclesiale di sempre: non è venuta mai meno, infatti, la passione edu-cativa della Chiesa, non solo nei confronti delle nuove generazioni ma anche nei confronti degli adulti, soprattutto gli educatori, i catechisti, gli animatori pastorali, ecc.

Lo spazio di condivisione delle esperienze e delle buone prassi offerto alle diocesi durante il cammino di preparazione al Convegno ecclesiale ha fatto emergere una ricchezza e una diversità di realtà davvero inedita e creativa,

EducareSintesi e proposte

Pina Del CorePreside della Pontificia Facoltà di Scienze dell’Educazione Auxilium

pp. 123-128

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Educare

SPECIALE CONVEGNO DI FIRENZE

non immediatamente visibile e conosciuta: varietà, originalità, concretezza, genialità, quali espressioni di una fantasia pastorale, frutto dello Spirito.

Nel racconto dei passi che le comunità ecclesiali hanno compiuto è emer-sa l’importanza del lavoro svolto negli ultimi anni (a livello di consapevolez-za, approfondimento e di esperienze messe in campo). Si è osservato che la sfida educativa è avvertita come centrale da molti uomini e donne del nostro tempo e costituisce un luogo privilegiato di incontro con tante persone a diversi livelli ed ambiti della società: siamo diventati più consapevoli che l’educazione è questione decisiva che riguarda tutti e non solo coloro che sono direttamente interessati e ad essa dedicati nella tensione verso il compimento della persona e la realizzazione di un autentico umanesimo. È una evidenza per molti che le comunità cristiane, pur tra limiti e difficolta, hanno da portare un contributo veramente originale e qualificante. Come Chiesa italiana non siamo all’anno zero, perché c’è in atto nel nostro Paese un’esperienza viva, testimoniata da innumerevoli tentativi creativi e in alcuni casi sorprendenti negli esiti.

È apparso chiaro come tale contributo si fondi non tanto su strutture, su tecniche o metodologie, su programmazioni educative ben strutturate, pur necessarie: esso si realizza piuttosto quando l’educazione cristiana, rischiando modi e forme sempre nuove, si conforma all’educare di Cristo, sia quanto a contenuto (la dignità inalienabile della persona, la sua unicità e irrepetibilità, con le sue molteplici dimensioni: affettiva relazionale, bio-fisica, cognitiva e religiosa; la relazionalità costitutiva dell’essere con e per gli altri; l’apertura alla trascendenza,…) sia quanto a metodo (la centralità della persona, la relazione e l’incontro personale, l’attenzione alle attese, alle domande, alle fragilità e ai bisogni, la ricerca di senso nell’apertura a orizzonti infiniti mediante la capacità di suscitare domande, la pazienza e il rispetto dei ritmi di crescita di ognuno, la vicinanza e l’accompagnamento, la guida amorevole e l’autorevolezza, la solidarietà e la condivisione), che trova nell’incarnazione il modello educativo e il criterio di ogni intervento.

La comunità cristiana punta sull’educazione integrale della persona e sulla credibilità dell’educatore che si pone innanzitutto come testimone, come chi è stato lui per primo ‘educato’ da Cristo e ha trovato in Lui il senso della sua vita.

Saremmo però miopi se non rilevassimo anche le difficoltà che quotidia-namente si incontrano nell’opera educativa. Tra queste, le due tentazioni indicate da papa Francesco nel suo discorso nella cattedrale di Firenze si

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Pina Del Core

applicano bene anche all’educazione: c’è il rischio cioè da una parte di pri-vilegiare l’attivismo e di cedere ad una “burocratizzazione impersonale” delle dinamiche formative; dall’altra, di assecondare una certa tendenza all’astra-zione e all’intellettualismo slegato dall’esperienza.

Anche le caratteristiche dell’umanesimo cristiano suggerite da papa Fran-cesco hanno provocato un’immediata applicazione allo stile educativo. All’e-ducatore, infatti, sono richiesti “esercizi” di umiltà, per accompagnare e non forzare i percorsi di crescita; “esercizi” di disinteresse e gratuità, per non le-gare a sé le persone ma orientare e proporre rispettando la libertà; “esercizi” di beatitudine evangelica davanti alla richiesta delle persone di non ricevere formule ma compagnia, senza “accademie della fede” ma con la forza di una testimonianza che trasmette la fede per attrazione.

Se la fatica di educare è evidente, tuttavia è sempre un compito ‘bello’ e appassionante. Le sfide e le difficoltà infatti non mancano, anzi sono molte, specie nel contesto di complessità, di frammentazione e di disorientamento in cui siamo immersi. Tali sfide sono percepite da molti gruppi come risorsa più che come problema, come opportunità per ripensare e rivedere alcune prassi, come sollecitazione al cambiamento o meglio a quella ‘conversione pastorale’ a cui il Papa ci ha fortemente invitato.

Linee di azioneLe linee principali di azione che emergono dalle scelte proposte nei grup-

pi si possono ricondurre a tre nuclei: la rilevanza di una comunità che educa e che è capace di mettersi in rete, l’urgenza della formazione dell’adulto, i nuovi linguaggi nell’educazione.

1. Comunità che educaLa nativa vocazione della Chiesa ad essere comunità che educa, che vive

coerentemente la propria fede come dono ricevuto e come consegna per le nuove generazioni costituisce soprattutto oggi una risposta alle sfide e alle difficoltà nel percorrere le vie dell’educare nel contesto di una società sempre più frammentata, complessa e contrassegnata da individualismo, autoreferen-zialità e crisi di identità.

Da qui la necessità di promuovere e rafforzare le varie forme di alleanza educativa e di implementare nuove sinergie tra i diversi soggetti che intera-giscono nell’educazione. Tale prospettiva ci spinge innanzi tutto ‘fuori’ dalle

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Educare

SPECIALE CONVEGNO DI FIRENZE

nostre comunità, ma chiede anche di cambiare molte prassi e impostazioni pastorali, rendendo sempre più organica e stabile la collaborazione tra pa-storale giovanile, pastorale familiare e pastorale scolastica e universitaria. In diversi gruppi è affiorata l’esigenza di “tavoli di pensiero e di azione” per lo scambio delle esperienze (buone pratiche) e per fare unità nella diversità di compiti, di luoghi, di responsabilità.

Si tratta di ‘fare rete’, di mettersi in rete con le diverse istituzioni educative presenti nel territorio e con quanti si interessano di educazione anche se di sponda opposta. Tale linea di azione riconferma uno dei punti nodali di ogni discorso educativo e collocato al centro di tutto il cammino fatto sia nella pre-parazione del Convegno Ecclesiale che nella realizzazione: la via relazionale costituisce il cuore di ogni educazione. È l’incipit, punto di partenza e punto di arrivo, senza il quale non può esserci crescita, né trasformazione. L’esisten-za umana è intrinsecamente ‘relazionale’ e questo dato a coinvolge pienamen-te ogni intervento educativo. La relazione, infatti, a livello personale e inter-personale, è lo spazio in cui si rende possibile l’incontro, l’apertura all’altro, il riconoscimento del proprio valore, la valorizzazione delle proprie forze e capacità, l’esperienza principiale di esistere come persona unica e irrepetibile.

2. La formazione dell’adultoDi fronte alla crisi dell’educazione e nel contesto di una crisi dell’uma-

nesimo il ruolo degli adulti è fondamentale. E ciò è ancora più evidente di fronte alla percezione diffusa che molti adulti sembrano aver rinunciato a proporre ai giovani significati e regole per vivere con responsabilità e libertà, per la comune e frequente difficoltà a superare la rigidità del passato e il per-missivismo libertario che hanno caratterizzato la transizione contemporanea di modelli educativi ormai desueti e ritenuti obsoleti. Priorità ineludibile è la for-mazione degli adulti, o meglio degli educatori, perché prendano in mano la propria primaria responsabilità educativa nei confronti delle nuove genera-zioni, curando anche la propria formazione personale (autoformazione).

L’attenzione alla famiglia e l’accompagnamento delle famiglie resti una priorità nella progettazione pastorale delle comunità ecclesiali locali.

In particolare è urgente assicurare:• La formazione di formatori e di guide spirituali in grado di accompagna-

re le coppie orientate al matrimonio e le famiglie in difficoltà.

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Pina Del Core

• L’educazione alla genitorialità perché i padri e le madri sappiano ac-compagnare la crescita dei loro figli nelle diverse fasi evolutive con autore-volezza e decisione.

• Percorsi di educazione alla reciprocità, che comporta in primo luogo un’educazione all’accettazione dell’alterità.

Alle nostre comunità ecclesiali è chiesta poi una nuova attenzione per la scuola e l’università, alimentando una pastorale d’ambiente che necessita di persone e di capacità di proposta. Gli insegnanti – compresi quelli di reli-gione cattolica – devono sentirsi realmente sostenuti e valorizzati, destinatari di proposte formative e stimolati a curare l’inserimento nella comunità cristia-na, la qualità del loro servizio e la professionalità. La difficile situazione delle scuole paritarie cattoliche, preziose risorse per la Chiesa e per il Paese, ci interpella a fare ogni sforzo per qualificare e sostenere queste esperienze, anch’esse chiamate a ripensarsi nella logica delle alleanze e delle collabora-zioni.

Un’altra linea fondamentale va nella direzione di investire nuove energie per rinnovare la formazione dei sacerdoti, dei religiosi/e e dei laici, anche mediante momenti formativi comuni tra presbiteri, famiglie e consacrati, anche valorizzando il patrimonio educativo-culturale delle nostre università ecclesiastiche e pontificie e degli ISSR, progettando percorsi formativi quali-ficanti nella direzione di una solida professionalità educativa.

Si esige per questo un ripensamento dei percorsi formativi nella linea di una formazione pastorale e pedagogica, con un’attenzione specifica alla ma-turazione umana e in particolare a quella affettivo-relazionale.

Non va considerato concluso, inoltre, il processo di rinnovamento dell’ini-ziazione cristiana e dei suoi strumenti, a partire da quelli catechistici.

Non si può tralasciare il cammino fatto e la nuova sensibilità che si è cre-ata in rapporto alla formazione sociopolitica, all’educazione alla cittadinanza attiva e una ripresa del tema della legalità. Come ci ha ricordato il Papa i cristiani sono ‘cittadini’.

3. Nuovi linguaggi nell’educazioneLe possibilità offerte dalle nuove tecnologie comunicative sono una splen-

dida risorsa per l’educazione e per l’evangelizzazione, ma sollecitano una più qualificata formazione critica e propositiva degli educatori e dei formatori.

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Educare

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Gli Ambienti digitali. Va studiato l’apporto degli ambienti digitali e il loro influsso nelle modalità di apprendimento e di relazione dei ragazzi e dei giovani. Il web non va solo studiato criticamente, ma va usato creativamente, valorizzando le culture giovanili. I media ecclesiali e le tecnologie digitali possono inoltre offrire un prezioso aiuto per la condivisione delle buone pratiche e il collegamento tra le realtà educative.

Cultura e bellezza: attorno a questo inscindibile binomio la creatività ispirata dalla fede potrà trovare nuove espressioni di incontro fecondo fra le arti, il Vangelo, l’educazione.

Alcune scelte di impegnoTra le molteplici e variegate proposte dei gruppi ne indichiamo soltanto

alcune:• Favorire le reti educative anche stipulando dei patti di corresponsabilità

che coinvolgano tutta la comunità educante compresa la società civile.• Favorire un più accurato discernimento e cura di coloro che la comunità

ha individuato come educatori e formatori.• Famiglia e fragilità: costituire delle equipe per affiancare le famiglie

nelle situazioni educative difficili e implementare proposte di volontariato in favore delle famiglie con anziani e disabili.

• Dare vita a un portale informatico per divulgare le buone pratiche e favorire le occasioni di scambio tra le diocesi e le realtà ecclesiali. Si tratta di una risposta al bisogno di forum – una sorta di piazze – in cui discutere, fare insieme, verificare il cammino a partire dalle buone pratiche esistenti.

ConclusioneApplicando all’educazione quanto ci diceva il Papa sulla “beatitudine”,

siamo convinti che per educare “occorre avere il cuore aperto”. L’educazione “è una scommessa laboriosa, fatta di rinunce, ascolto e apprendimento, i cui frutti si raccolgono nel tempo”, regalandoci una gioia incomparabile. Inco-raggiati dalle parole di papa Francesco e dall’esperienza di queste giornate, vogliamo continuare a credere nel potere umile dell’educazione e nella sua forza trasformatrice della storia e della società di ogni tempo. ■

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Goffredo Boselli

TrasfigurareSintesi e proposte

Goffredo Bosellimonaco di Bose e liturgista

Nella riflessione dei gruppi, il trasfigurare ha ricordato che Gesù di Na-zaret nei suoi incontri quotidiani, nel suo sguardo sul mondo e l’umanità, non ha mai lasciato cose e persone come le aveva trovate, ma ha trasfigu-rato tutto e tutti. Ha fatto nuove tutte le cose. È il Signore che trasfigura, non siamo noi! Bisogna allora lasciarsi trasfigurare e non ostacolare l’opera di Dio in noi e intorno a noi, ma saperla piuttosto riconoscere e aderirvi.

Percepire lo sguardo trasfigurante del Signore su di noi ci conduce a cogliere il valore dello sguardo sull’altro, come riconoscimento della sua dignità, soprattutto quando questa è attraversata da fragilità e povertà. Tra-sfigurare è allora sguardo che cerca l’uomo, specialmente i poveri, facendo emergere che non c’è umanità là dove c’è scarto e ingiustizia, dove si vive senza speranza e senza gratuità.

In sintesi, trasfigurare è far emergere la bellezza che c’è, e che il Signore non si stanca di suscitare nella concretezza dei giorni, delle persone che incontriamo e delle situazioni che viviamo.

Spirito all’opera: fatiche e risorseDal confronto nei gruppi sono emerse tre fatiche che le nostre comunità

vivono nell’attingere pienamente alle risorse di cui dispongono: un attivi-smo talvolta eccessivo, una insufficiente integrazione tra liturgia e vita, una certa frammentarietà della proposta pastorale.

Prima fatica. Di fronte a un certo attivismo pastorale è emersa l’esi-genza, soprattutto da parte del tavolo dei giovani, di proporre cammini di fede che comprendano esperienze significative di preghiera, di formazione liturgica e di accompagnamento spirituale. C’è domanda di interiorità, ma che ancora non trova risposte soddisfacenti nelle scelte di educazione alla fede dei giovani nelle nostre Chiese locali. Mentre le parrocchie sembrano riservare più attenzione all’aggregazione e all’animazione, la domanda di

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Trasfigurare

SPECIALE CONVEGNO DI FIRENZE

interiorità sembra maggiormente soddisfatta all’interno delle associazioni e dei movimenti ecclesiali.

Seconda fatica. Un’insufficiente integrazione tra liturgia e vita è speri-mentata come una mancanza di coinvolgimento esistenziale del credente con il mistero di Cristo celebrato. Per questo si richiede una liturgia più capace di introdurre al mistero, contro forme troppo dispersive di liturgia, rumorose, trionfali e poco essenziali, spesso avulse dal vissuto delle per-sone. L’attenzione mistagogica potrebbe rivitalizzare la liturgia, per aprirsi alla grazia e alla vera esperienza di Dio. Occorre dunque “trasformare in vita i gesti della liturgia”, perché non ci sia separazione tra liturgia, carità e profezia. L’essenziale della liturgia cristiana sta fuori della liturgia.

Terza fatica. Rilevando una certa frammentarietà della proposta pasto-rale si è evidenziata la difficoltà di tenere insieme annuncio, liturgia e carità, spezzando così l’alleanza tra Parola di Dio e profezia, tra Parola e parteci-pazione ai sacramenti, tra Parola e carità. L’urgenza, allora, è quella di dare circolarità a queste tre componenti.

Linee di azioneLe linee di azione indicate dai gruppi si possono raccogliere in tre grandi

ambiti: Parola di Dio, liturgia e carità.Da tutti i gruppi è stato ribadito il primato della Parola di Dio annun-

ciata, ascoltata e pregata. Per questo occorre rilanciare la lectio divina, ritenuto un esercizio molto valido per una lettura sapienziale ed esistenzia-le delle sante Scritture. Non si tema di permettere a tutti di accostarsi alle Scritture, attraverso momenti di preghiera e di confronto anche in famiglia e attraverso centri di ascolto nei quartieri. Si sperimentino inoltre momen-ti di silenzio e di preghiera nelle comunità, per far crescere l’interiorità e così pedagogicamente preparare a gustare il mistero celebrato. Si è infatti auspicato che non vi sia separazione tra lectio divina e ascolto della parola di Dio nella liturgia.

È poi emersa la liturgia come evento di trasfigurazione sia in quanto culmine che in quanto fonte di tutta la vita cristiana. Si chiede un profon-do rinnovamento che coinvolga tutti, pastori e fedeli nella preparazione e nell’intelligenza della liturgia. Attraverso la bellezza dei riti e la sua sobrietà,

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Goffredo Boselli

si auspica che la liturgia torni ad essere gustata dai fedeli; torni a interagire con tutte le dimensioni dell’umano, per riscoprire la dimensione contem-plativa e simbolica della vita cristiana. Pertanto si valorizzino e si formino gruppi liturgici che aiutino la comunità a crescere e a educarsi al senso del bello e a vivere tutti i momenti della liturgia. Molti hanno poi auspi-cato che da una viva partecipazione alla liturgia e soprattutto all’eucaristia domenicale, nasca una ricca ministerialità, che sappia accogliere, animare, accompagnare e sostenere tutte le persone di ogni fascia di età con una particolare attenzione a quelle più in difficoltà.

Circa la risorsa della domenica è emersa la necessità di una sua piena valorizzazione, nella sua dimensione di festa del popolo di Dio e nella sua carica umanizzante.

Infine, come terza linea di azione, sono stati indicati i luoghi di trasfi-gurazione dell’umano nell’esercizio di una carità capace di accogliere e coinvolgere tutti con umiltà, disinteresse e gioia delle beatitudini, come il Papa ci ha ricordato. Ogni luogo dell’umano sia vissuto pienamente e abitato dall’azione dello Spirito Santo, affinché ciascuno diventi testimone, e attraverso l’incontro e il dialogo, sappia suscitare desiderio dell’Oltre in quanti hanno smarrito il senso della vita o sono gravemente feriti nel corpo e nello spirito. La contemplazione del volto di Cristo trasfigurato ci deve spingere concretamente nel quotidiano a testimoniare la gioia dell’essere cristiani, facendoci prossimo agli uomini e alle donne che incontriamo. La cura delle relazioni e la tenerezza nel modo di presentarci, ci facciano sen-tire compagni di viaggio e amici dei poveri e dei sofferenti.

Infine, la pietà popolare vissuta come un’opportunità e non come un problema pastorale. Sicuramente bisognosa di evangelizzazione, ma non di emarginazione; risorsa utile per formare la coscienza civile e legale, dare consistenza al radicamento sul territorio e all’appartenenza ad una comu-nità. Forse in alcune aree del nostro Paese è stata accantonata, mentre si rivela importante per la fede del popolo di Dio, per i semplici e, senza dubbio, potrebbe svolgere un ruolo importante nel tenere i legami tra le generazioni.

ImpegniDal discernimento operato dai partecipanti alla quinta via, cogliamo tre consegne:

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Prima consegna.Il rinnovamento liturgico del Concilio è una realtà in atto che

chiede a noi fedeltà e responsabilità.A cinquant’anni dalla chiusura del Concilio, dobbiamo anzitutto ricono-

scere che la riforma liturgica è stata una benedizione per le nostre comuni-tà. L’impegno per il rinnovamento liturgico non è alle nostre spalle, perché il Concilio è un evento che continua ancora oggi a generare novità nella li-turgia come in tutta la vita della Chiesa. Per questo, dobbiamo continuare a camminare, senza incertezze e ripensamenti, sulla via tracciata dalla riforma liturgica conciliare, perché dal rinnovamento della liturgia passerà ancora il rinnovamento della Chiesa stessa. Infatti, alcuni gruppi hanno sottolineato la necessità di considerare la liturgia come prima fonte della vita cristiana e della nostra trasfigurazione in Cristo. Perché questo possa avvenire, le no-stre liturgie devono essere sempre di più segnate dalla bellezza e da quella nobile semplicità, voluta dal Concilio.

Per questo la prima consegna di questo Convegno alla Chiesa italiana è di riaffermare il posto centrale che occupano la liturgia, la preghiera e i sacramenti nella vita ordinaria delle comunità. La liturgia è il luogo dove la Chiesa stando alla presenza di Dio diventa ciò che è, ascoltando il Vangelo discerne la sua missione nel mondo. Solo quella comunità cristiana che pone al centro la liturgia riconosce che ciò che la tiene in vita non è il suo attivismo talvolta sfibrante, ma ciò che il Signore fa per lei. Nel suo essere priva di scopi, la liturgia addita il valore della gratuità e che la misura del nostro essere Chiesa non è il conseguimento di risultati verificabili e dun-que mondani, ma l’essere Chiesa secondo il Vangelo. Perché, “non è dai risultati che si giudica il Vangelo” (Enzo Bianchi).

Un gruppo ha avanzato la proposta che ogni comunità sappia trovare tempi e modi per sospendere ogni sua attività e sostare in preghiera comu-ne per rigenerarsi alla fonte della fede. Allo stesso modo, anche la famiglia è chiamata a trovare tempi e spazi di preghiera, perché la famiglia è il luogo primo dove “imparare la liturgia”, ossia fare esperienza di quei valori uma-ni presenti nei segni liturgici, come l’ascolto, il silenzio, la condivisione, il perdono, il rendimento di grazie.

Per questo, tutto ciò che papa Francesco nella Evangelii gaudium do-manda alla Chiesa chiama direttamente in causa anche la liturgia della Chie-sa. Ridare alle liturgie delle nostre comunità un nuovo soffio è un compito

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Goffredo Boselli

decisivo nel quale la Chiesa che è in Italia è chiamata a impegnarsi nel decennio che ci sta davanti.

Seconda consegna.La Chiesa che celebra e che prega è anche la Chiesa in uscita.Non possiamo nascondere il timore che, se compreso in modo distorto,

l’invito evangelico di papa Francesco a una Chiesa sempre in uscita, possa far pensare che tra la Chiesa in preghiera e la Chiesa in uscita possa esser-ci contrapposizione: l’una rivolta al suo interno attraverso la preghiera, la liturgia e i sacramenti; l’altra impegnata a uscire per raggiunge tutte le peri-ferie. No, non ci sono due Chiese, perché uno è il Cristo vivente, pregato e celebrato per ciò che lui è, e da noi riconosciuto presente nella persona del povero che è il suo più reale sacramento. Questo significa che la preghiera è il primo atto di una Chiesa in uscita, come la preghiera di Gesù nel luogo deserto è il primo atto della sua missione a Cafarnao.

La Chiesa che celebra è la stessa che va verso le periferie esistenziali, per la semplice ragione che oggi, per un numero sempre più grande di perso-ne, la liturgia è soglia al mistero di Dio. Negheremmo l’evidenza dei fatti se non ammettessimo che la pastorale dei sacramenti è oggi chiaramente una pastorale missionaria. La domanda del battesimo per i figli e le tappe della loro iniziazione, la richiesta del matrimonio cristiano, l’esperienza del male e della colpa, le dolorose prove della malattia e della morte, anche queste sono le periferie esistenziali verso le quali la Chiesa è impegnata a uscire. Per questo, nella liturgia come anche nello stile e nell’agire con-creto della comunità, dovrebbe emergere sempre di più che il trasfigurare investe la vita quotidiana, ma anche la cultura e le tradizioni di fede di un territorio. Uscire, leggiamo infatti in Evangelii gaudium, significa non stare in attesa ma prendere l’iniziativa, coinvolgersi, accompagnando l’umanità. Chi ha esperienza dell’umano sa che bene che nell’ordinaria pastorale dei sacramenti la Chiesa è condotta agli incroci delle strade, là dove si incontra l’umanità reale.

All’uomo che oggi fatica a dare un senso alle grandi tappe della sua vita, i sacramenti della Chiesa offrono la luce del progetto di Dio sulle sue crea-ture. Vita, amore, morte sono, ieri come oggi, le parole dell’umanizzazione, e la richiesta ancora molto ampia in Italia che i sacramenti della Chiesa se-gnino le grandi tappe della vita, impegna la Chiesa italiana a uscire incontro

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Trasfigurare

SPECIALE CONVEGNO DI FIRENZE

a questa domanda, non tanto per assecondare tradizioni religiose e abitu-dini sociali, ma uscire per discernere nella domanda dei sacramenti quel sentimento, più o meno confuso e tuttavia ancora presente nella nostra gente, che nel venire alla vita, nell’amare e nel morire si gioca qualche cosa di essenziale e decisivo per la loro vita. Per questo, l’azione sacramentale è essa stessa scelta missionaria di una Chiesa dalle porte aperte che incontra i lontani e trasfigura i luoghi dove la vita accade.

I sacramenti della Chiesa sono un cammino di umanizzazione evangelica.

Terza consegna.Far vivere l’umanità della liturgia è il compito che ci attende.Una delle acquisizioni di questo Convegno ecclesiale è aver raggiunto la

consapevolezza che la realizzazione del nuovo umanesimo in Gesù Cristo non può prescindere dalla natura profondamente umana e autenticamente divina della liturgia.

Negli anni che ci stanno davanti sarà più che mai necessario incammi-nare le comunità cristiane verso la ricerca di una sempre maggiore umanità della loro liturgia, facendo in modo che i credenti assidui come quelli occa-sionali, attraverso l’umanità del gesto, del linguaggio e dello stile liturgico, facciano esperienza dell’umanità di Dio rivelata da Gesù Cristo.

Dalla lettura delle sintesi mi è venuto spontaneo quanto scritto dal car-dinal Martini: “Se nei Vangeli si parla poco o nulla di liturgia, ciò avviene perché essi sono di fatto una liturgia vissuta con Gesù in mezzo ai suoi (…) È questa la liturgia dei Vangeli: essere attorno a Gesù nella sua vita e nella sua morte (…) Tutto ciò che i Vangeli riferiscono di Gesù tra la gente è un’anticipazione della liturgia e, a sua volta, la liturgia è una continua-zione dei Vangeli”1. La liturgia dei Vangeli, di cui parla il cardinale Martini, ci indica che sarà sempre più urgente che le nostre liturgie siano capaci di ricreare quel tipo di relazione che Gesù di Nazaret sapeva creare con le persone che incontrava. “La relazione - è stato detto nei gruppi - è lo stile del trasfigurare”. Una relazione che è fatta di gesti semplici, ordinari e insieme straordinari per la carica di umanità che trasmettono. “Occorre ritornare alla stanza al piano superiore” in cui Gesù ha celebrato l’ultima cena lavando i piedi ai discepoli.

1 C.M. Martini, “La liturgia mistica del prete. Omelia nella Messa crismale”, Rivista della Diocesi di Milano 89/4 (1998), pp. 641-648, p. 642.

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Goffredo Boselli

L’intera esistenza di Gesù è stata una liturgia ospitale, e anche le nostre liturgie sono chiamate a esserlo oggi più che mai. Per questo, negli anni che ci stanno davanti la santità della liturgia sarà chiamata a declinarsi come santità ospitale; non una santità di distanza ma di prossimità.

Di fronte a tutto questo, le liturgie di domani per essere cammini di prossimità, di misericordia, di tenerezza e di speranza saranno chiamate a diventare spazi di santità ospitale. Liturgie ospitali che sanno andare incon-tro alle persone fino a portare la fatica di chi fatica a vivere e a credere; che siano consolazione per chi è provato e ferito dalla vita, che siano capaci di dare ragioni per sperare. La cura delle relazioni e la tenerezza nel modo di presentarci, ci facciano sentire compagni di viaggio e amici dei poveri e dei sofferenti. La liturgia che ci attende sarà a immagine del Cristo che proclama: “Venite a me voi tutti affaticati e oppressi e io vi darò riposo” (Mt 11,28).

Solo così la liturgia della Chiesa sarà all’altezza del Vangelo di Cristo. ■

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pp. 136-144

SPECIALE CONVEGNO DI FIRENZE

1. L’occasione propizia e provvidenziale del Convegno

Cari fratelli nel Signore, è con cuore grato che concludiamo i lavori di questo Convegno ecclesiale, occasione di grazia e tempo di ascolto della Parola e della volontà di Dio sulla nostra Chiesa. Veramente il convenire, che ha scandito i decenni dopo il Concilio, è divenuto preziosa tradizione di confronto e discernimento a livello comunitario; ci ha aiutato e ci aiuta a recepire le istanze conciliari, a rafforzare la nostra testimonianza di fede e a contribuire al bene comune del Paese.

Per molti mesi abbiamo preparato queste giornate, in modo che non fos-sero un evento isolato, ma il punto di arrivo di un percorso condiviso e ap-profondito. Il frutto di tale itinerario rappresenta fin d’ora un nuovo punto di partenza per il cammino delle nostre comunità e dei singoli credenti. In questo senso, sarebbe parziale affermare che la Chiesa italiana ha celebrato in questi giorni il suo quinto Convegno ecclesiale; ben di più, essa ha scelto di assumere il percorso del Convegno e di mettersi in gioco, in un impegno di conversione finalizzato a individuare le parole più efficaci, le categorie più

ProspettiveAngelo BagnascoArcivescovo di Genova

Presidente della Conferenza Episcopale Italiana

“Cari fratelli nel Signore, è con cuore grato che concludiamo i lavori di questo Convegno ecclesiale, occasione di grazia e tempo di ascolto della Parola e della volontà di Dio sulla nostra Chiesa”. Con queste parole il Card. Angelo Bagnasco, Arcivescovo di Genova e Presidente della CEI, ha concluso i lavori del 5° Convegno Ecclesiale Nazionale, tracciando alcune prospettive per il cammino futuro dopo aver ascoltato le sintesi e le proposte scaturite dai 200 tavoli di lavoro dei delegati.“La Chiesa italiana – ha affermato – ha scelto di assumere il percorso del Convegno e di mettersi in gioco, in un impegno di conversione per individuare le parole più efficaci e i gesti più autentici con cui portare il Vangelo agli uomini di oggi.Quello fatto insieme è stato un cammino sinodale, che ci ha fatto sperimentare la bellezza e la forza di essere parte viva del popolo di Dio”.

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consone e i gesti più autentici attraverso i quali portare il Vangelo nel nostro tempo agli uomini di oggi.

È uno scopo che ci è stato presentato con chiarezza nella prolusione con cui Mons. Nosiglia ha aperto il nostro appuntamento fiorentino: con lui rin-graziamo l’intero Comitato preparatorio e la Giunta per l’impegno costante e qualificato che ci hanno offerto. La gratitudine va anche ai moderatori, ai facilitatori dei gruppi di lavoro e ai relatori finali; va a ogni convegnista, per l’investimento di tempo ed energia che ha messo a disposizione con la sua partecipazione. Abbiamo apprezzato le meditazioni spirituali e il respiro degli eventi culturali che ci sono stati proposti. La nostra riconoscenza è, quindi, per questa Chiesa e per il suo pastore – il cardinale Giuseppe Beto-ri –, per l’accoglienza che abbiamo ricevuto anche attraverso il servizio di centinaia di volontari, che è integrato con il prezioso lavoro della Segreteria generale della CEI. Siamo grati, infine, alle autorità civili che, in forme diver-se, si sono rese presenti a questo nostro evento: dal Sindaco di questa città, Dario Nardella, al Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella. Come co-munità ecclesiale assumiamo con rinnovato impegno la disponibilità all’in-contro e al dialogo per favorire l’amicizia sociale nel Paese e cercare insieme il bene comune.

Cari fratelli, quello fatto insieme è stato un cammino sinodale, che ci ha fatto sperimentare la bellezza e la forza di essere parte viva del popolo di Dio, sostenuti dalla comunione fraterna, che in Cristo trova la sua fonte e che ci apre quindi alla condivisione, alla correzione vicendevole e alla co-municazione di idee e carismi. L’immagine del corpo, valorizzata in più punti del Nuovo Testamento per raccontare l’essenza della Chiesa, ci fa sentire responsabili gli uni degli altri; una responsabilità che si estende anche oltre la comunità cristiana e raggiunge tutte le persone, fino alle più lontane, ben sapendo che “non esistono lontani che siano troppo distanti, ma soltanto prossimi da raggiungere”1.

Ecco cosa significa che la Chiesa è madre: lo è verso di noi, che ha gene-rato e istruito nella fede, e lo è verso tutti gli uomini, soprattutto gli ultimi, che da lei devono potersi sentire accolti, consolati e spronati. È nelle sue parole e nelle sue scelte – perciò in noi – che chi la guarda può incontrare un segno dell’amore e della tenerezza di Dio, e uno strumento di unità. Tale consapevolezza ci fa percepire l’importanza che la nostra testimonianza sia

1 Papa Francesco, Discorso a Prato, 10 novembre 2015.

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limpida, che il nostro linguaggio raggiunga le menti e i cuori, e che sappiamo avvicinarci con compassione alle persone nelle tante fragilità che sperimen-tano ogni giorno.

Il Santo Padre, nel discorso programmatico che ci ha rivolto martedì scor-so nella cattedrale di Firenze, ci ha mostrato lo spirito e le coordinate fonda-mentali che si attende dalla nostra Chiesa. Ci ha chiesto autenticità e gratuità, spirito di servizio, attenzione ai poveri, capacità di dialogo e di accoglienza; ci ha esortati a prendere il largo con coraggio e a innovare con creatività, nella compagnia di tutti coloro che sono animati da buona volontà.

Il testo del Santo Padre andrà meditato con attenzione, quale premessa per riprendere, su suo invito, l’Esortazione apostolica Evangelii Gaudium nelle nostre comunità e nei gruppi di fedeli, fino a trarre da essa criteri pratici con cui attuarne le disposizioni.

2. Il bisogno di salvezza da parte di un’umanità fragile e feritaLe due relazioni introduttive al Convegno ci hanno richiamato le tante

povertà che caratterizzano il nostro contesto sociale, e vanno a incidere sul vissuto concreto delle persone, lasciandole talora ferite ai bordi della strada. L’uomo rimane spesso vittima delle sue fragilità spirituali e della disarmonia che deriva dalla rottura di alleanze vitali, come ci ricordava Mons. Giuseppe Lorizio. È estremamente diffuso, oggi, un profondo senso di solitudine e di abbandono; un sentimento di vuoto, legato alla mancanza di mete alte e di persone con le quali condividere obiettivi e impegnarsi per conseguirli. La nostra stessa vita – ci ha aiutato a riconoscere il prof. Mauro Magatti – rischia di diventare un’astrazione, sempre più frammentata, priva di consistenza e separata da ciò che la circonda, perfino dagli affetti più profondi. Quanti pas-sano buona parte delle loro giornate in mezzo ad altri, ma senza conoscere in modo profondo alcuno e senza essere da alcuno conosciuti nella loro intimità! Questo genera un disagio profondo e insoddisfazione, senza che se ne comprendano le cause, le quali sono da cercare non tanto nella malizia o nell’egoismo dei singoli, ma nella miseria culturale che hanno respirato, nella carente o del tutto assente educazione spirituale e umana, che ha fatto mancare la percezione e l’esperienza dei valori più genuini e non ha guidato a essi. Ai nostri giovani la cultura dominante offre ideali non autentici, legati al perseguimento di un successo effimero o di soddisfazioni momentanee. E lo fa con una pervasività e un’efficacia quasi disarmanti.

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È così che tanti sono spinti ad accettare come verità assolute e inconte-stabili che il tempo sia denaro, con la conseguenza che solitamente non ne rimane per stare vicino agli ammalati e agli anziani; che il valore delle perso-ne sia legato alla loro efficienza, con l’effetto di scartare o sopprimere la vita imperfetta o improduttiva; che dipenda essenzialmente dai beni materiali la qualità della vita. Ancora, che ognuno debba cavarsela da solo, tentazione che alimenta l’individualismo e sprona alla diffidenza e alla falsità, facendo mancare il collante della fiducia che tiene unita una società. Tutto questo genera un carico di sofferenza profonda e in genere inespressa, che rivela il bisogno di una luce per orientare il proprio cammino, e di una mano per non compierlo da soli.

Partendo dalla fede in Cristo Gesù, il prof. Lorizio ci ha indicato la via dell’umanesimo della nuova alleanza, che si deve realizzare nelle alleanze che la vita quotidiana ci chiama a custodire e a risanare, se infrante: l’allean-za col creato, l’alleanza uomo-donna, l’alleanza fra generazioni, l’alleanza fra popoli, culture e religioni, l’alleanza fra i singoli e le istituzioni sia civili che ecclesiali. Il prof. Magatti, a sua volta, ci ha provocati a un umanesimo della concretezza, con cui combattere la frammentazione e riqualificare il rapporto tra la nostra persona e la realtà che ci circonda, nella responsabilità verso la rete di rapporti in cui siamo immersi e di cui siamo fatti. Ci ha anche ricor-dato ciò che caratterizza positivamente la storia del nostro Paese – il ‘made in Italy’, il volontariato, le cento città, l’artigianato, l’arte, la cura, la carità, le tante forme di sussidiarietà ed economia civile, la famiglia –: sono espressioni già presenti nella realtà, preziosa eredità affidata alla nostra responsabilità.

Da questa consapevolezza muove lo stesso progetto educativo del decen-nio in corso, declinato nelle cinque vie indicate dal Convegno che tracciano la via missionaria da percorrere per portare a tutti il messaggio di speranza che proviene da Vangelo, e per ricostruire, sulla base di principi più solidi, un tessuto sociale maggiormente vivibile e solidale, che veicoli valori autentici e umanizzanti, e faciliti il conseguimento di una felicità vera e non surrogata.

3. Lo sguardo a Gesù come ispirazione di un nuovo umanesimoLa ricostruzione dell’umano, che la Chiesa avverte come suo compito

primario e inscindibile dall’annuncio del Vangelo, passa da un’attenta cono-scenza delle dinamiche e dei bisogni del nostro mondo, quindi dall’impegno a un’inclusione sociale che ha a cuore innanzitutto i poveri. Tale impegno

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operoso muove da un costante riferimento alla persona di Gesù Cristo, mo-dello e maestro di umanità, che dell’uomo è il prototipo e il compimento. “Possiamo parlare di umanesimo solamente a partire dalla centralità di Gesù, scoprendo in lui i tratti del volto autentico dell’uomo”2 – ci ha detto il Papa –: “Solo se riconosciamo Gesù nella Sua verità, saremo in grado di guardare la verità della nostra condizione umana e potremo portare il nostro contributo alla piena umanizzazione della società”3 Spetta a noi mostrare a tutti l’infinito tesoro racchiuso nella sua persona, e la luce che da Lui si irradia sulle nostre inquietudini, sulle problematiche e le varie situazioni di vita. Lasciamoci guar-dare da Lui, “misericordiae vultus”, consapevoli che la condizione primaria di ogni riforma della Chiesa richiede di essere radicati in Cristo. Contempliamo, quindi, senza stancarci l’umanità di Gesù: in Lui siamo ridestati alla vita, ri-conosciamo un’esistenza unificata, raccolta attorno alla costante ricerca della volontà del Padre, e al tempo stesso tutta protesa verso il prossimo.

Al nostro mondo, spesso così esposto al rischio dell’autosufficienza o alla tentazione di ridurre Dio ad astratta ideologia, l’esistenza di Gesù, fattasi dono perfetto, rappresenta l’antidoto più efficace. La vita di ognuno, infatti, “si decide sulla capacità di donarsi”; è in questo trascendere se stessa che la vita “arriva a essere feconda”. Non solo: proprio nel dedicarsi al servizio dei fratelli – a partire da una convinta opzione per i poveri – il Signore indica la via per quella beatitudine che il Santo Padre ci ha proposto come uno dei tratti distintivi del credente. Il Papa ci ricordava che la gioia del cristiano è quella di chi conosce “la ricchezza della solidarietà, del condividere anche il poco che si possiede; la ricchezza del sacrificio quotidiano di un lavoro (…) svolto per amore verso le persone care; e anche quello della proprie miserie che, tuttavia, quando sono vissute con fiducia nella provvidenza e nella mi-sericordia di Dio, alimentano una grandezza umile”. Come pastori, sappiamo quanto queste esperienze siano ancora largamente diffuse tra la nostra gente.

Con i suoi gesti, le sue parole e i suoi silenzi, Gesù ci mostra anche come vivere il dolore senza disperare e come reagire alle provocazioni non con la violenza, ma con la forza della verità e del perdono. Questa mitezza conduce a riconoscere il mistero divino, sulla scorta del centurione che assiste alla sua morte in croce. Proprio nella massima debolezza sta il momento di mas-

2 Papa Francesco, Discorso ai rappresentanti del V Convegno ecclesiale nazionale della Chiesa italiana, 10 novembre 2015

3 Papa Francesco, Omelia, Stadio di Firenze, 10 novembre 2015.

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sima rivelazione di Dio, la sua gloria. Mistero stupendo e sconvolgente, che ancora e ogni giorno deve ribaltare i nostri criteri di valutazione su ciò che vediamo e su quanto ci accade. Dio rivela la sua potenza nella debolezza: ecco il cardine del Vangelo che, se nuovamente accolto, disegna un preciso progetto di vita che rovescia qualsiasi canone antropologico inautentico e oppressivo, e porta anche a un utilizzo del denaro, dei mezzi e delle stesse strutture all’insegna dell’essenzialità, della disponibilità e della gratuità. Allora le Beatitudini evangeliche sono davvero “lo specchio in cui guardarci, quello che ci permette di sapere se stiamo camminando sul sentiero giusto”.

4. Le cinque vie, per una Chiesa sempre più missionariaPer seguire e imitare Gesù, rendendolo presente agli occhi del nostro

mondo, come Chiesa siamo chiamati a vivere in uno stato di continua mis-sione. Nell’annuncio e nella testimonianza del Vangelo a tutti gli uomini riconosciamo il senso e il centro del nostro esistere. È quanto il Santo Padre non si stanca di dirci con la sua parola e il suo esempio, spronarci a una conversione pastorale che faccia della Chiesa una comunità aperta, protesa verso le periferie geografiche ed esistenziali. È quanto abbiamo messo a tema del nostro Convegno, proponendoci di percorrere con sempre maggior determinazione l’unica via, articolata nell’uscire, nell’annunciare, nell’abitare, nell’educare e nel trasfigurare.

L’impegno a valorizzare fin dal prossimo futuro quanto emerso dai lavori di gruppo e presentato nelle sintesi finali, mi permette ora di proporre sem-plicemente alcune sottolineature.

Dobbiamo anzitutto uscire, andare. Non basta essere accoglienti: dobbia-mo per primi muoverci verso l’altro, perché il prossimo da amare non è colui che ci chiede aiuto, ma colui del quale ci siamo fatti prossimi. “Desidero una Chiesa lieta col volto di mamma, che comprende, accompagna, accarezza”,4 ci ha detto papa Francesco. Tale sia lo spirito con cui anche noi agiamo: quello di chi ha premura verso tutti e va loro incontro per incontrarli e creare ponti con loro, e tra loro e Cristo. Dobbiamo uscire e creare condivisione e fraternità: le nostre comunità e associazioni, i gruppi e i singoli cristiani, vivano sempre con questo spirito missionario, e su di esso si verifichino pe-riodicamente, poiché da ciò dipende l’autenticità della proposta. Ben venga,

4 Papa Francesco, Discorso ai rappresentanti del V Convegno ecclesiale nazionale della Chiesa italiana, 10 novembre 2015.

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quindi, l’impegno – appena risuonato – a formare all’audacia della testimo-nianza, come quello di promuovere il coraggio della sperimentazione, secon-do quanto richiesto soprattutto dai giovani.

Il passaggio successivo consiste nell’annunciare la persona e le parole del Signore, secondo le modalità più adatte perché, senza l’annuncio esplicito, l’incontro e la testimonianza rimangono sterili o quantomeno incompleti. Per portare efficacemente la Parola – l’abbiamo appena sentito – bisogna esserne uditori attenti, fino a restarne trasformati: è davvero necessario un rinnovato sforzo di approfondimento e condivisione della Parola, se vogliamo far no-stro il pensiero e la mentalità biblica. Da qui scaturisce uno sguardo evange-lico sulla realtà; da qui si diviene capaci di relazioni vere, quindi di incontro, partecipazione e condivisione; da qui, facciamo nostra l’attenzione a non escludere nessuno. Sì, per quanto importante, un grande cuore non basta: la formazione degli operatori, sacerdoti inclusi, deve interrogarci quanto l’e-ducazione dei bambini e dei ragazzi. Un importante capitolo è pure quello che riguarda la comunicazione e la condivisione del messaggio attraverso le moderne tecnologie, delle quali è importante servirsi con sapienza e senza timore.

La terza tappa della missione consiste nell’abitare, termine con il quale ci richiamiamo a una presenza dei credenti sul territorio e nella società, secon-do un impegno concreto di cittadinanza, in base alle possibilità di ognuno: nell’impegno amministrativo e politico in senso stretto, ma anche attraverso un attivo interessamento per le varie problematiche sociali e la partecipa-zione a diverse iniziative. Abitare significa essere radicati nel territorio, co-noscendone le esigenze, aderendo a iniziative a favore del bene comune, mettendo in pratica la carità, che completa l’annuncio e senza la quale esso può rimanere parola vuota. “Mantenere un sano contatto con la realtà, con ciò che la gente vive, con le sue lacrime e le sue gioie – ci ha detto il Santo Padre – è l’unico modo per poterla aiutare, è l’unico modo per parlare ai cuo-ri toccando la loro esperienza quotidiana”5. Qui, un grazie convinto va speso per le diverse forme di associazionismo e di partecipazione: sì, non partiamo da zero! Nel contempo, anche alla luce di recenti fatti di cronaca, ribadiamo che l’impegno del cattolico nella sfera pubblica deve testimoniare coerenza e trasparenza. Sono rimasto colpito soprattutto dalle attese emerse dai giovani, dalla loro richiesta di riconoscimento, di spazi e di valorizzazione: sono con-

5 Papa Francesco, Omelia, Stadio di Firenze, 10 novembre 2015.

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dizioni perché la fiducia che diciamo di avere in loro non rimanga a livello di parole, troppe volte contraddette dalla nostra povera testimonianza.

La comunità e i credenti sono poi chiamati al compito di educare per rendere gli atti buoni non un elemento sporadico, ma virtù, abitudini della persona, modi di agire e di pensare stabili, patrimonio in cui la persona si riconosce. Sì, è una famiglia ed è una comunità quella che educa: entrambe necessitano di adulti che siano tali. Ben venga tanto l’indicazione ad accom-pagnare le famiglie – anche con percorsi di educazione alla genitorialità e alla reciprocità – quanto di porre nuova attenzione per la scuola e l’univer-sità, come pure a fare rete con le diverse istituzioni educative presenti sul territorio creando sinergie e costruendo relazioni che portino a una positiva integrazione di esperienze e di conoscenze.

Tutti questi passaggi, e gli sforzi che ne accompagnano la realizzazione, sono tesi a trasfigurare le persone e le relazioni, interpersonali e sociali. Il messaggio evangelico, se accolto e fatto proprio dalle diverse realtà umane, trasfigura, scardinando le strutture di peccato e di oppressione, facendo sì che l’umanesimo appreso da Cristo diventi concreto e vita delle persone, fino a raggiungere ogni luogo dell’umano, rendendoci compagni di viaggio e amici dei poveri e dei sofferenti. Abbiamo sentito le fatiche di questo pro-cesso, legate a un certo attivismo pastorale, all’insufficiente integrazione tra liturgia e vita, alla frammentarietà delle proposte. Sono condizioni che vanno considerate con attenzione, lasciandoci aiutare dalla richiesta di interiorità, di spiritualità e di accompagnamento, di cui ancora una volta proprio i più giovani sono i primi interpreti.

5. Per uno stile sinodaleÈ significativo pensare che il percorso del Convegno continua nell’im-

minente Anno santo di quella Misericordia, che altro non è che il nome dell’amore che Dio ha per noi: amore nella forma della fedeltà assoluta, che genera in noi stabilità, sicurezza e fiducia in qualunque situazione ci trovia-mo. La misericordia è la via attraverso la quale l’amore del Signore si rivela e raggiunge il mondo ferito, avvolgendolo con tenerezza che consola e rigene-rando – qual grembo materno – a nuova vita.

In fondo, è l’amore misericordioso che genera la Chiesa e che ci porta a camminare insieme. L’assunzione di uno stile sinodale – perché giunga ad avviare processi – richiede precisi atteggiamenti, che dicono anzitutto il no-

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stro modo di porci di fronte al volto dell’altro, e indicano nella prospettiva della relazione e dell’incontro la strada di una continua umanizzazione.

Ancora: uno stile sinodale esige anche un metodo, all’insegna della con-cretezza, del confrontarsi insieme sulle questioni che animano le nostre co-munità. Vive di cura per l’ascolto, di pazienza per l’attesa, di apertura per l’accoglienza di posizioni diverse, di disponibilità a lavorare insieme.

Infine, per dare concretezza al discernimento, uno stile sinodale deve sa-persi dare obiettivi verso i quali tendere: di qui l’importanza di riprendere in mano l’Esortazione apostolica Evangelii gaudium.

Con questo spirito facciamo ritorno alle nostre Chiese e ai nostri territori, senza la paura di guardare in faccia la realtà – anche le ombre -, ma con la lieta certezza di chi riconosce, anche nella complessità del nostro tempo, la presenza operosa dello Spirito Santo, la fedeltà di Dio al mondo.

Vorremmo, quindi, che questo nostro salutarci fosse come un abbraccio che dai Pastori si muove affettuoso e grato verso di voi, cari delegati: in voi vediamo il volto delle comunità cristiane disseminate nel nostro amato Paese. Grazie perché ci siete vicini e ci sostenete con la vostra preghiera e parteci-pazione.

Ma poi l’abbraccio si allarga, e da voi va incontro ai vostri Vescovi e sa-cerdoti, riconoscendo in noi il segno povero ma vero di Gesù buon Pastore. I nostri limiti vi sono noti, ma conoscete anche la sincerità dei nostri cuori, la dedizione sulle frontiere del quotidiano, il desiderio di servire il popolo cui Dio ci ha inviati. Noi siamo lieti del vostro abbraccio, e nei vostri volti leggiamo simpatia e fiducia, nelle vostre voci sentiamo incoraggiamento e sostegno. Anche noi – come tutti – ne abbiamo bisogno!

Infine, il nostro abbraccio – di Popolo e Pastori – si dilata, quasi a raggiun-gere e stringere la persona del Successore di Pietro: Francesco è il suo nome. A lui, la Chiesa italiana vuole riaffermare affettuosa vicinanza e operosa dedi-zione, rispondendo alla particolare attenzione, alla visibile stima, al paterno affetto con cui guida il nostro cammino.

Sì, che l’eco dei nostri cuori giunga fino al suo cuore di universale Pasto-re, e confermi – a Lui che conferma noi con il carisma di Pietro – ciò che i figli, con linguaggio semplice e diretto, dicono ai loro più cari: “Le vogliamo bene!”. ■

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Cosa prendere e cosa lasciare delle numerose espressioni che hanno segnato il cammino ecclesiale di mons. Novarese1 circa la pastorale della salute e la spiritualità nel tempo della sofferenza: il malato non è solo ogget-to di carità, ma soggetto attivo e responsabile di evangelizzazione; il valore salvifico della sofferenza; lo sviluppo integrale della persona del malato; il tipo di relazione sanante tra persone sofferenti e coloro che li aiutano; l’accettazione, l’offerta e la valorizzazione della sofferenza; la preghiera e la penitenza come risposta del malato alle attese della Chiesa; la sofferenza come vocazione…

Il tentativo di voler trovare una massima che riepiloghi il suo pensiero, è una tentazione tanto legittima quanto imprudente. Ad assecondarla si finisce col perdere di vista qualcosa, e col tradire la ricchezza di una riflessione uni-taria e policentrica al tempo stesso.

Poiché Novarese avverte la grande responsabilità di fronte alle necessità spirituali delle persone sofferenti, i suoi scritti e le sue opere evidenziano l’af-flato dell’evangelizzatore e la tonalità spirituale del suo pensiero. Si avverte la vicinanza della sua riflessione teologica alla situazione religiosa della persona sofferente nel suo tempo, ai suoi interrogativi, individuati ed interpretati nel loro senso e nella loro portata.

1. Ambientazione dell’opera di Luigi NovareseSe collochiamo l’esperienza e l’Opera di Novarese nel clima concreto del

secolo breve del Novecento, non sarà difficile anzitutto ritrovare anche in

1 Mons. Luigi Novarese, nato a Casale Monferrato (Al) il 29 luglio 1914, è il fondatore della Lega Sacerdotale Mariana (1943), dei Volontari della Sofferenza (1947), dei Silenziosi Op-erai della Croce (1950) e dei Fratelli degli Ammalati (1952), Associazioni che hanno contribuito alla comprensione pastorale nella Chiesa dell’identità e missione dei sofferenti. Morto a Rocca Priora (Roma) il 20 luglio 1984, è stato beatificato l’11 maggio 2013.

Smascherare il dolore:Luigi Novarese pioniere nel mondo

della sofferenzaArmando Aufiero

Silenzioso Operaio della Croce

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Smascherare il dolore: Luigi Novarese pioniere nel mondo della sofferenza

AREA ASSOCIATIVA

lui la tensione ad individuare spazio cristiano per l’esperienza del soffrire2. Novarese lo fa con i mezzi di cui dispone, e secondo la propria congenialità: mezzi e congenialità abbastanza diversi da quelli che riscontriamo in altre per-sonalità che hanno dato un grande impulso alla pastorale e alla teologia della sofferenza, anche se, per alcuni versi, la preoccupazione sembra la stessa3.

Più che di assistenza, Novarese parla di valorizzazione, più che di lotta al soffrire, Novarese condensa la sua riflessione sul valore salvifico di essa alla luce del mistero pasquale. Esempi questi che non hanno risparmiato critiche – a nostro giudizio troppo selettive e circoscritte – relegando il suo contributo come un’interpretazione della sofferenza in termini doloristici4. Negli anni Quaranta, quando Novarese da giovane sacerdote iniziava a dare consistenza all’ideale di mettersi al servizio dei sofferenti, la prassi pastorale e la mentalità cristiana riguardante l’integrazione delle persone sofferenti nella vita ecclesia-le trovava una sua peculiare espressione nella predicazione e catechesi della redenzione, orizzonte in cui veniva trattata quasi esclusivamente la questione del soffrire. La mentalità cristiana sembrava caratterizzata da un discorso am-biguo, in cui le affermazioni fondamentali della fede erano intaccate da idee fuorvianti e a volte pervertite da una sistemazione degradata, veicolando idee primitive, pericolose di Dio.

La sofferenza è un elemento che, se da un lato ha sempre suscitato, par-ticolarmente nella Chiesa, l’attiva compassione, la solidarietà, l’intelligenza creativa e la dedizione eroica ai malati, ha anche visto nascere, soprattutto nel corso del secondo millennio cristiano, visioni spirituali chiuse e limitative, rispetto alla coerenza con il Vangelo e con l’umanità dell’uomo5. E questo,

2 Per uno studio compiuto, rimandiamo a A. Aufiero, La questione teologica del soffrire. Il profilo morale e cristiano dell’esperienza della sofferenza nell’opera di Luigi Novarese.

3 Il rimando è a quei fondatori di istituzioni che hanno contribuito ad un notevole in-flusso sulla promozione ed integrazione delle persone sofferenti nella vita della Chiesa e della società. Basti citare don Giovanni Calabria (Verona 1873 – 1954) e don Carlo Gnocchi (San Colombano al Lambro - Lodi, 1902 – 1956). Per un approfondimento, si rimanda al Dizionario di Teologia Pastorale Sanitaria, particolarmente alle voci: Santi e Sante della carità, 1124-1143; San Camillo de Lellis, 1108-1116; San Giovanni di Dio, 1116-1119; San Vincenzo de’ Paoli, 1119-1124.

4 Il dolorismo ha la pretesa di valorizzare il dolore stesso, in quanto lo ritiene cosa bu-ona, perché è Dio che lo invia come prova e punizione. In questa concezione, molto ristretta, anche il malato stesso viene considerato un ‘privilegiato’.

5 Con l’elaborazione della teologia della soddisfazione, la riflessione sulla redenzione, seguendo il Catechismo del Concilio di Trento, si era lasciato trascinare dallo schema della giustizia commutativa e della compensazione, fino addirittura a giustificare la giustizia ven-

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sia che si tratti del processo di colpevolizzazione del malato, dunque di chi già è vittima del male, o della proclamazione della malattia come «privilegio» perché unisce più strettamente al Cristo sofferente, o della visione della ma-lattia come strumento pedagogico con cui Dio corregge il peccatore, o della sopportazione rassegnata della malattia come fonte di merito.

Novarese vive nel suo tempo. Anche se la letteratura sul tema della sof-ferenza era abbondante, la trattazione era lasciata per lo più all’ascetica più retorica o alla parenesi più pietista. La preoccupazione era prevalentemente quella di aiutare i malati ad accettare la loro situazione, sopportarla pazien-temente ed incoraggiarli per offrirla a Dio, facendo così della loro prova uno strumento di apostolato fecondo6.

Le opere ascetiche e pastorali indirizzate ai malati o a chi doveva pren-dersi cura di loro, avevano questa preoccupazione pratica di convincerli ad accettare la malattia e a rassegnarsi.

All’inizio del secolo si domandava soprattutto al malato di accettare e di “offrire la sua sofferenza” o di rassegnarsi (tutte formule che avrebbero richiesto di essere purificate dai loro equivoci); in quel tempo soprattutto in cui si parlava troppo facilmente della “buona sofferenza del cristiano” si cercava di portargli consolazione; egli era per eccellenza il paziente, colui che soffre e che riceve; lo si circondava di opere caritative assistendolo nei suoi bisogni, morali e materiali, o procurandogli i sacramenti, in particolare l’estrema Unzione, che gli apriva il Cielo7.

Il cristiano è invitato ad accettare la malattia non solo come un ineluttabile a cui rassegnarsi, ma l’abbraccia con amore. Indirizzo questo presente molto anche nel magistero pontificio, a partire dagli interventi di Pio XII. Possiamo affermare che il magistero pre-conciliare esprime, per lo più, da una parte, quel complesso di teorie teologiche e di atteggiamenti spirituali tradizional-mente diffusi dalla parenesi e dalla pastorale, ma non manca di indicare un altro modo di considerare e di vivere la malattia. Pertanto ci chiediamo: quale influsso ha avuto il carisma di Novarese nella vita della Chiesa? Novarese, che

dicativa, in quanto l’idea di compensazione esigeva una punizione. 6 Il riferimento è ad un’opera classica, quella de «L’Apostolat de la souffrance» di P.J.

Lyonnard (1819-1887). È l’opera che vedeva il compito di completare la passione di Cristo con l’apostolato della sofferenza. Secondo Lyonnard, la vocazione di ogni cristiano malato è di mettere a frutto le sue sofferenze per un fine apostolico, rendendo così plausibile non solo l’accettazione, ma addirittura l’amore per le sofferenze.

7 J.M. robert, «Les malades: qu’en pense l’Eglise?», Présences (1959) 108.

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ha provocato il primo radiomessaggio del papa Pio XII ai malati attraverso i microfoni della Radio Vaticana e ha lavorato per realizzare la prima Udienza agli ammalati, quale atteggiamento ha avuto nei confronti della sofferenza, quale prospettiva di vita intravedeva per i sofferenti?

Ai tempi di Novarese, la pastorale che riguardava le persone sofferenti, quando esisteva, era fortemente condizionata da un certo cliché, fatto pas-sare per l’unico atteggiamento veramente cristiano di fronte alla malattia: aiutare il malato a sopportare la sua condizione attraverso gesti caritativi ed assistenziali. In realtà si trattava di assolutizzazioni di alcune verità8 ed estre-mizzazioni di alcuni atteggiamenti di per sé parzialmente validi9. Il risultato era quello di vedere crescere sempre più la distanza tra un mondo di malati che prendeva progressivamente coscienza di sé e alla ricerca di un modo più autentico di vivere cristianamente la propria malattia, e gli atteggiamenti teo-logici e pastorali più diffusi. Il divario aumentava anche perché si occupava di trattare tematiche riguardanti la sofferenza, prevalentemente la letteratura spirituale di carattere devoto ed edificante, che aveva la massima incidenza sul piano pastorale, e dunque anche sulle forme della coscienza cristiana.

Possiamo affermare che, da una parte, l’esigenza propria della coscienza delle persone sofferenti di ripresentare, in modo più consono, alla propria esperienza morale e, dall’altra, la ricerca delle nuove scienze dell’uomo di-spongono le condizioni propizie perché la riflessione teologica si riproponga in modo nuovo la questione del soffrire. Mentre si avvertono reazioni in senso negativo alla situazione di sofferenza, quali l’impazienza, il rifiuto, la ribellione, il fatalismo, la chiusura, il senso di fallimento o il senso di col-pa, spesso emergono reazioni in senso positivo quali l’accettazione della precarietà e del limite, l’integrazione e l’apertura degli orizzonti dei propri interessi, l’impegno personale nel prendere in carico la propria salute e le decisioni che la riguardano, la fiducia negli altri, la crescita in umanità, valo-

8 La cura pastorale e la coscienza credente sono sempre state provocate a ripensare e a conferire un significato di valore all’esperienza del patire, elaborando varie teorie e catego-rie, quali per esempio: la malattia come sacrificio e prova; la sofferenza come purificazione interiore; patire come aver pazienza nella prospettiva della rassegnazione e della ricompensa futura; la mistica della croce nella prospettiva espiatoria e dunque penale.

9 L’aspetto assistenziale e l’atteggiamento di sostituzione caratterizzava prevalente-mente l’attenzione che i volontari o altri assistenti prestavano ai malati. Anche la catechesi e l’omiletica erano particolarmente dirette a considerare la malattia come luogo di ascesi e il tutto si fondava sui meriti spirituali da acquisire soffrendo.

Smascherare il dolore: Luigi Novarese pioniere nel mondo della sofferenza

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rizzando l’esperienza della malattia come occasione per crescere in «umanità» e nella maturità personale. Di conseguenza, la sofferenza può diventare un momento di maturazione nella comprensione del senso della vita e dei valori autentici e duraturi.

L’opera e le molte intuizioni pastorali di mons. Luigi Novarese assumono una portata centrale nella riflessione antropologica e teologica, proprio per-ché si inseriscono nel dibattito sulla ‘grande questione’ che è il dolore, sem-pre attuale nella riflessione che accompagna l’uomo nella sua dimensione storica. Quello di Novarese è certamente, il contributo specifico offerto alla vita della Chiesa oggi.

2. L’esperienza della sofferenza alla luce della vita teologale Un esempio lo troviamo già in uno dei primi numeri della rivista L’Ancora,

iniziata nell’aprile del 1950 proprio come via di formazione e di collegamento per le persone sofferenti. In questo articolo, Novarese utilizza lo pseudonimo del dottor Trifone, per esprimere il modo di interpretare anche dal punto di vista medico, il vissuto proprio del sofferente; e può farlo, proprio alla luce della sua personale esperienza di sofferente in sanatorio10: “In patologia, nei mali che noi siamo abituati a curare, non trovo catalogata una malattia tanto comune negli uomini e che crea serie complicazioni nelle cure mediche: la tristezza. Nella mia esperienza di vita sanatoriale quotidianamente vedo molti ammalati che, quantunque tutti affetti dalla stessa forma patologica, tuttavia reagiscono in modi ben diversi sfociando poi in una forma unica: la tristezza [...] Nel campo fisico le stesse medicine date ad alcuni individui affetti dalla stessa malattia, non di rado hanno un risultato ben diverso, a seconda dell’in-dole serena o malinconica del paziente [...] Non va inoltre trascurato il grande fattore generatore di gioia che è la carità; più un ammalato dimentica se stes-so e cede al fratello sofferente, più scopre in sé risorse di consolazione e di

10 Fu questo un periodo importante per la sua vita e per la maturazione del suo insegna-mento. L’esperienza personale della sua malattia e la condivisione della sorte di altri pazienti lo ha portato a porsi la domanda di come l’infermo vive interiormente la malattia, con quali motivazioni decide di affrontarla e come interagisce con le cure dei medici il pensiero che l’infermo ha di se stesso e della malattia. Proprio l’esperienza personale del soffrire lo spinge a ‘guardare’ la sofferenza, ad affrontarla facendo leva sulle risorse custodite nella profondità del suo essere. Opera una vera e propria rivoluzione: è nella vita interiore, nell’esperienza del Cristo risorto in sé, nella pratica della propria dimensione spirituale che come ammalato trova una risposta alla sua domanda di senso e di amore. Cfr. M. AnselMo, Luigi Novarese. Lo spirito che cura il corpo, 53-81.

Armando Aufiero

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gioia, le quali, mentre fugano la tristezza, lo fanno progredire nella via della santità e donano all’organismo, mediante la gioia, nuove e intime risorse per resistere al male”11.

La prospettiva di Novarese passa attraverso una contrapposizione dia-lettica di accettazione e di rifiuto della sofferenza e questo ci permette di prendere le distanze da una tentazione in agguato, che è quella di leggere Novarese come un autore che ha utilizzato un linguaggio esclusivamente ascetico, con l’unica preoccupazione di insegnare alle persone sofferenti a dire: questo è da fare, questo non è da fare. È molto più profondo, perché Novarese vede la vita della persona come una totalità, che la sofferenza mi-naccia di frantumare.

Novarese esprime la struttura dell’antropologia cristiana, secondo cui l’uo-mo decaduto e peccatore sperimenta la gratuità dell’alleanza, nella miseri-cordia divina. La condizione, o la prospettiva, è quella della fede, della via e della vita teologale, possibile sempre e soltanto per iniziativa di Dio. Verso questo Dio, la cui ultima parola è Gesù Cristo, l’uomo, e in particolare la per-sona sofferente, può e deve tendere come al proprio ‘centro’, strappandosi da tutto ciò che appartiene all’uomo vecchio, per rinascere per mezzo della grazia, che è la vita teologale.

La persona, che vive in una situazione di sofferenza, riconosce la propria adesione di fede come la via per attuare il desiderio della totalità e del reali-smo delle proprie forze. Perciò, per compiersi non ha che la via della fiducia totale, liberandosi dalla tentazione di remissività, di mediocrità o di compro-messo. Novarese è convinto che la fecondità non sta nel dolore patito, ma nell’adempimento della volontà di Dio, a cui il dolore non può strapparci.

Questa via implica una pars destruens, l’umiltà del riconoscimento del proprio limite, delle proprie imperfezioni, della propria piccolezza; ed una pars construens: la scoperta dell’amore misericordioso di Dio, la volontà sal-vifica universale, l’amore kenotico e la passione di Dio per l’uomo. E di conseguenza, un cammino di abbandono fiduciale e dinamico alla potenza di Dio, premuroso e provvidente. Tale cammino, sperimentato da Novarese, particolarmente nel periodo della sua personale malattia, è offerto a tutti gli altri sofferenti, invitandoli a confidare nella misericordia potente di Dio.

Qual è il criterio e, insieme, la possibilità che si può aprire all’uomo per mettersi nella prospettiva della verità, della totalità vera e non di quella il-

11 l. novArese, «Vi parla il medico. La tristezza di alcuni malati», L’Ancora 4 (1950) 16-18.

Smascherare il dolore: Luigi Novarese pioniere nel mondo della sofferenza

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lusoria? Per Novarese la prospettiva che si apre all’uomo sofferente è quella della fede.

Partecipare alla sua vita divina, diventare in Cristo un corpo solo, realiz-zando la meravigliosa unità del suo Corpo Mistico, significa essere immersi nella realtà continuamente salvifica della sua morte e Resurrezione; significa avere risolto tutti i «perché» dell’esistenza […] La sofferenza con la inconfuta-bile storicità della Resurrezione del Cristo acquista dimensioni nuove, acqui-sta una vera e propria promozione, che da sé intrinsecamente non ha e non può avere, cessa di essere un doloroso enigma senza significato e diventa elemento positivo di bene12.

Novarese, quindi, legge l’esperienza della sofferenza alla luce della vita teologale, anche se in lui il discorso sulla vita teologale è meno nella dire-zione della scelta dell’uomo, dell’elezione dell’uomo, ma è molto più nella direzione dell’iniziativa di Dio, che fa sorgere la vita teologale nell’uomo13.

Lo stesso precetto divino “Chi vuol venire dietro di me rinneghi se stesso, prenda la croce e mi segua diventa ed è un caldo invito ad affrontare con animo nuovo la croce ed il mistero della carità avendo il dolore ottenuto quella promozione, che assolutamente non avrebbe mai potuto avere senza la libera ed eterna scelta del Figlio di Dio. Non qualsiasi sofferenza ha in se stessa tale promozione divina, ma soltanto quella che è vissuta in Cristo, in comunanza di vita divina con lui. Tali capacità nuove si acquistano con la vita della grazia che ci innesta e ci costituisce membra vive del suo Corpo Mistico14.

Potremmo allora dire con Novarese che il vero Dio è il Dio dell’alleanza che si rivela con l’iniziativa di un amore misericordioso. E l’uomo vero è quello secondo l’alleanza, fatto per la comunione con Dio, per incontrarsi con Dio, per essere uniformato a Dio, per trasformarsi in Dio, per vivere la vita di Dio. Questo è l’uomo vero, che però è un peccatore, e quindi ha bi-sogno di essere profondamente purificato e liberato.

Novarese esplicita meglio questa esigenza di purificazione, di liberazione interiore, per percorrere la scala dell’amore di Dio, nell’itinerario dei sette

12 l. novArese, Sofferenza, mia promozione e sviluppo, 210-212.13 Questa è la differenza che distingue Novarese da sant’Ignazio di Loyola, anche se egli

chiederà ai membri dell’Associazione Centro Volontari della Sofferenza gli Esercizi spirituali annuali secondo il metodo ignaziano.

14 l. novArese, Sofferenza, mia promozione e sviluppo, 212.

Armando Aufiero

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gradi del silenzio interiore15. Il Dio vero è quello di Gesù Cristo e l’uomo vero è quello secondo Gesù Cristo, e l’uomo diventa vero morendo e risorgendo con Gesù Cristo. Che cos’è per Novarese morire e risorgere? Che cos’è la partecipazione alla croce di Cristo? È la vita teologale. La croce dell’uomo, la croce più vera per il cristiano, è la vita di fede.

Un’ultima indicazione da rilevare è che questa vita teologale è un dina-mismo che è prima di tutto quello di Dio nell’uomo. Il primato è di Dio, è il Dio di Gesù Cristo che si autocomunica. È la misericordia di Dio che tende la mano non dal di fuori, non restando al di fuori, perché è una comunione, è una trasformazione. E quando Novarese parla di trasformazione, di rinno-vamento, ne parla anche a livello di esperienza, ma ad un livello molto più profondo: quello del dono, della grazia che è la vita teologale.

In questo piano di rinnovamento qual è, per noi sofferenti, il nostro posto? Siamo unicamente spettatori, o possiamo anche essere artefici, animatori e sostenitori? Il grande cantiere della vita, nella sua vertiginosa corsa ascensio-nale, sembra respingere la nostra presenza, mentre in realtà noi sentiamo il bisogno di fare sentire a tutti che noi pure siamo membra vive ed operative della società. Quale dunque il rinnovamento a cui noi sofferenti possiamo dare una mano? Abbiamo o no una parola da dire, una realtà da affermare, realizzare al punto di avere un posto ben preciso nella famiglia, nella Chiesa, nella società? […] Il vero rinnovamento interiore, personale, è quello che ci porta a vivere con sincerità la legge eterna, che Dio ha stampato con lettere indelebili nel cuore di ogni uomo, di tutti i popoli, di tutte le età. È vero Rin-novamento personale essere uomini completi, o diventare tali, uomini che afferrano la voce della coscienza che parla dentro di sé e pone, nel rispetto e sostegno degli altri, dei limiti e degli obblighi. Ma c’è ancora di più. È vero rinnovamento tutto quello che ci porta a scoprire Dio nel volto di ogni uomo, senza distinzione di razza, di classe. È vero rinnovamento tutto quello che ci porta ad essere più uomini, veri uomini, con la nostra statura inalienabile che abbraccia ed afferma le componenti del corpo e dello spirito. È vero rinnovamento, segno di autentica e perenne gioventù, sentire quella sete interiore che ci porta ad uscire da noi stessi per misurarci nel piano della storia dell’uomo, per scoprire il nostro volto di Dio, che ci ha creati e redenti.

15 Un itinerario che caratterizza in modo peculiare la spiritualità di mons. Novarese è il silenzio interiore con i suoi sette gradi: itinerario che consente alla persona di giungere alla piena comunione con Dio.

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Questo è dialogo di sapienza, di ponderatezza interiore, che ci obbliga a fare silenzio in noi ed attorno a noi per sentire la voce di Dio, la voce del Cristo, la voce della Chiesa, che oggi come nel giorno della Pentecoste, ripete agli uomini del XX secolo il messaggio di Resurrezione: “Il Cristo che voi avete crocifisso è risorto”. Il vero rinnovamento personale e spirituale è quindi, in ultima analisi, metterci dinanzi al Cristo perché lui solo ha parole di vita eter-na; innestarci in lui con la fede e col battesimo per essere partecipi della sua vita divina, per acquistare così nuove dimensioni, vera promozione umana, per poter fare la più grande scoperta che mai sia stata fatta su questa terra, la vittoria sulla morte. Ma questo è tutto un discorso di fede16.

E allora è un dinamismo di Dio: prima è Dio che si dona per cui sorge nell’uomo il cammino della fede, della speranza e della carità; e poi è un di-namismo umano, che cerca di descrivere, con una sproporzione abbastanza evidente tra la prospettiva teologale e l’azione dell’uomo.

3. ConclusioneRiconosciamo in Novarese la statura di un maestro spirituale, il cui meto-

do può proporsi come emblematico nella lettura dell’esperienza dell’umano soffrire. Il percorso compiuto da Novarese si esprime in due direttrici, che a loro volta si intersecano e si unificano: quella del suo itinerario evangelico e quella più propriamente esistenziale.

L’Opera ed il pensiero di Novarese, gravidi dell’intuizione spirituale circa il valore nuovo – salvifico – che l’esperienza della sofferenza assume, si pro-pongono di coniugare contemplazione e comunione con Dio, in un itinerario progressivo che della vita interiore della persona sofferente è propedeutico all’accoglienza dell’iniziativa misericordiosa di Dio. ■

16 l. novArese, Il cammino dell’anima, in f. Moscone, mons. Luigi Novarese apostolo dei malati, Ed. CVS, Roma 2010, pp. 50-51.

Armando Aufiero

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Dalla prevenzione all’educazioneLa sfida della cultura della prevenzione

e della salute1

(prima parte)

Il mondo nel quale viviamo è segnato da forti contrasti: benessere e ma-lessere, sicurezza e insicurezza, infatti, convivono e si oppongono. Nei Paesi ad alto benessere materiale, all’apparenza, sembra che la cultura della salute2

1 Il presente lavoro è stato pubblicato con lo stesso titolo sia in chinello Maria Antonia - ottone Enrica - ruffinAtto Piera (a cura di), Educare è prevenire. Proposte per educatori, 2015, 41-90, sia nella Rivista di Scienze dell’Educazione: chAng Hiang-Chu Ausilia, Dalla prevenzione all’educazione. La sfida della cultura della prevenzione e della salute, in Rivista di Scienze dell’Educazione 53(2015)2, 202-223; ID., Dalla prevenzione all’educazione. Verso una conver-sione pedagogica del concetto di salute, in Rivista di Scienze dell’Educazione 53(2015)3, 350-366.

2 Sulla “cultura della salute” cfr. Cosimo Guido – Verni Giuseppe (a cura di), Cultura della salute e scuola: percorsi, riflessioni ed esperienze, Bari, Ufficio Scolastico Regionale Puglia. Co-mitato Tecnico Provinciale Educazione alla Salute, 272 p. in http://www.ossefor.orgopgpubbvo-lume_1.pdf (25-04-2015); Cultura della salute, in http://www.quint-essenz.ch/it/topics/1274 (31-08-2010). Sulla nuova cultura della salute e della prevenzione cfr. MorgAnti Annalisa, Una nuova “cultura” della salute, in http://www.vegajournal.org › Home › Archivio› 2007 12 - Anno III Numero 3; Guadagnare Salute: una nuova cultura della prevenzione, in www.guadagna-resalute.it › Programma nazionale (25-04-2015); liuccio Michaela, Nuova cultura della salute,

L’articolo affronta il concetto poliedrico della prevenzione nell’attuale contesto in cui tale realtà occupa uno spazio rilevante della cultura, in svariati ambiti della convivenza umana e nella vita quotidiana.L’intento è quello di mettere in luce come nel mondo, segnato da forti contrasti, emerge sempre più l’esigenza di un’azione preventiva in linea con un intervento promozionale multidimensionale che si identifica, infine, con l’atto stesso dell’educare in prospettiva integrale. La seconda parte di questo articolo sarà pubblicata sull’Ancora nell’Unità di Salute n. 3/2016.

Hiang-Chu Ausilia ChangDocente di Didattica generale e di Pedagogia comparata

presso la Pontificia Facoltà di Scienze dell’educazione «Auxilium» (Roma).

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Hiang-Chu Ausilia Chang

e della prevenzione abbiano ormai raggiunto gradi ottimali, per cui parlare di tali concetti potrebbe sembrare fuori luogo. La prevenzione, inoltre, occupa ormai uno spazio rilevante della cultura, in svariati ambiti della convivenza umana e nella vita quotidiana delle singole persone.3

Tuttavia è giusto porci questa domanda: quali significati si celano dietro ai concetti di salute e di benessere, quindi di prevenzione? Da un lato, stiamo assistendo ad un numero crescente di suicidi e omicidi anche di massa, espres-sione lampante del malessere individuale e sociale. Non passa, infatti, giorno in cui non ci siano notizie di cronaca che parlano di delitti provocati dalla violenza organizzata, dalle “pazzie” persecutorie, dall’egoismo e dallo schiavismo, dalla miseria, dalla passione, dall’infedeltà. D’altro canto, informazioni pubblicitarie sempre più pervasive e martellanti, suggestionano l’immaginario collettivo con l’offerta di prodotti sempre nuovi creando pseudo bisogni, mentre in molti altri Paesi milioni di persone sono costrette alla soglia della sopravvivenza, giacché la miseria, le malattie e il disordine sociale riducono la loro vita in condizioni deplorevoli spingendo le grandi masse verso l’emigrazione.4

La domanda emergente è dunque come prevenire tali fenomeni, non solo dal punto di vista sociale e politico, ma anche e soprattutto attraverso l’azione educativa, pratica più lenta, che però - permeando la mentalità delle nuove generazioni - garantisce frutti sicuri e duraturi.

Di fronte a queste situazioni contrastanti, a mio avviso, vale la pena ten-tare una prima riflessione sul concetto poliedrico di salute e di prevenzione, per poi metterlo in relazione con quello di prevenzione educativa così come viene intesa oggi nell’ambito propriamente pedagogico, ipotizzando anche un ulteriore percorso di approfondimento.

in http://www.comunicazione.uniroma1.it/Corso.asp?IdCattedra=3948&IdLaurea=0&IdCorso=4639&TagId=C2 (19-04-2015).

3 La nostra è chiamata anche “società della prevenzione”, definizione che ne riassume al-tre: società dell’informazione, del rischio, della sorveglianza, dell’insicurezza (cfr. Pitch Tamar, La società della prevenzione, Roma, Carocci 2008).

4 Il contrasto delle situazioni nel mondo attuale è ben espresso nei titoli delle pub-blicazioni di bAuMAnn Zigmunt, Homo consumens. Lo sciame inquieto dei consumatori e la miseria degli esclusi, Gardolo (TN), Erickson 2007. Cfr. inoltre i titoli degli altri volumi dello stesso autore sulla società attuale, in particolare: Amore liquido. Sulla fragilità dei legami af-fettivi, Bari-Roma, Laterza 2004. Un’attenzione particolare merita il volume del noto sociologo tedesco Ulrich Beck (+2015) la cui pubblicazione è stata tradotta in ben 35 lingue: La società del rischio. Verso la seconda modernità (1986), Roma, Carocci 2000. Una seconda edizione aggiornata è stata pubblicata nel 2007.

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Dalla prevenzione all’educazione

AREA UMANISTICA

L’impresa non è semplice, e richiede anzitutto un approccio interdiscipli-nare. Pur nella consapevolezza di non poter sondare esaurientemente l’ar-gomento, intendo anzitutto evidenziare la complessità e la poliedricità del concetto di prevenzione che è in stretta relazione con quello di salute e di benessere, ed in seguito esaminare la prevenzione educativa propriamente detta, sondando alcune delle recenti pubblicazioni al riguardo e andando quindi oltre la riflessione salesiana che vanta a questo proposito di una espe-rienza mondiale quasi bicentenaria.5

È interessante notare fin d’ora, come le concezioni di salute riconducano gradualmente ad un approccio propriamente pedagogico, non nel senso ri-stretto di “educazione alla salute” (Health Education) soltanto, ma anche e soprattutto riguardo il significato generale e sostanziale della stessa educa-zione.

1. La prevenzione: un concetto poliedrico Il termine “prevenzione”, come anche “salute”,6 viene utilizzato in molti

campi, apparentemente senza problematicità, ma il suo significato è comples-so e poliedrico, non solo perché racchiude in sé una vera e propria concezio-ne di vita, di benessere, di salute e di sicurezza e, di conseguenza, comporta punti di vista diversi - in particolare medico, psicologico, sociologico, giuri-dico, politico, pedagogico, occupazionale - ma anche perché in tutti questi ambiti la sua concettualizzazione e operatività professionale ha subito col tempo un’evoluzione graduale significativa e tuttora bisognosa di ulteriori approfondimenti.7

5 Al riguardo cfr. lo studio di ruffinAtto Piera, Don Bosco e la prevenzione educativa nel e oltre il suo tempo nella presente pubblicazione.

6 «Il termine ‘salute’ non è certamente univoco. Non lo è per la gente comune, non lo è stato nel corso del tempo neppure in ambito scientifico. Ognuno di noi costruisce la propria definizione di salute ritagliando “porzioni di realtà” e da ciò conseguono differenti compor-tamenti o applicazioni operative». Occorre pertanto «fare i conti con una serie di contenitori semantici quali “prevenire”, “curare”, “salute”, “benessere”, “promozione” che non sono di appannaggio assoluto della psicologia» (consiglio nAzionAle ordine degli Psicologi [cnoP], Parere sulla Prevenzione/Promozione in ambito psicologico, in http://www.psy.it/allegati/promozione-e-prevenzione.pdf, 4 [24-01-2015]).

7 Cfr. regoliosi Luigi, Evoluzione del concetto di prevenzione, in benAglio Anna Maria - regoliosi Luigi, Ripensare la prevenzione. Vecchie e nuove dipendenze: è possibile una pre-venzione specifica?, Milano, Unicopli 2002, 27-35. Circa l’evoluzione storica della normativa di sicurezza e tutela della salute dei lavoratori cfr. grieco Antonio - bertAzzi Pier Alberto (a cura di), Per una storiografia italiana della prevenzione occupazionale ed ambientale, Milano,

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1.1. Il significato del termine “prevenzione”Etimologicamente il termine “prevenire” (dal latino prae-venire =venire

avanti) significa: giungere prima, anticipare. Per estensione esso significa evitare i rischi preparando i rimedi contro danni, disgrazie, insidie, reati e simili.8 Prevenire quindi significa arrivare prima per bloccare o modificare il percorso che conduce ad un evento negativo che si vuol scongiurare.

Sarebbe interessante fare un excursus storico sul significato semantico del termine “prevenzione” in diversi ambiti e delle variegate attività corrispon-denti - ovviamente avvalendosi dei contributi specifici di diversi studiosi del campo - qui tuttavia mi limito a mettere in evidenza le accezioni utilizzate nei diversi ambiti e ad offrire un eventuale concetto che le accomuna.

Esiste una discreta letteratura - piuttosto recente - sulla prevenzione, riferi-ta in particolare all’ambito medico-sanitario, psico-sanitario, di diritto penale, sociologico e socio-educativo.

Fino al secolo XIX l’idea di prevenzione era pressoché inesistente. Il concet-to cominciò a diffondersi in relazione agli studi sulla difesa dalle malattie epi-demiche e come primi tentativi di assicurazione della igiene/sanità pubblica. Di fronte alle epidemie di tifo, colera, tubercolosi, si cominciarono ad ideare alcune misure di prevenzione, ad esempio attraverso l’isolamento delle perso-ne infette e la chiusura delle frontiere; in ambito politico, similmente, vennero approntate altre misure per evitare disordini sociali e sommosse del popolo.9

A partire soprattutto dal 1948,10 venne gradualmente sviluppandosi il concetto di salute per cui, come vedremo, la prevenzione fu intesa come protezione e cura del benessere psicofisico e mentale, assicurazione della sicurezza e promozione dell’equilibrio personale e sociale, in sintesi, come educazione. Una chiave di riflessione sull’idea di prevenzione potrebbe rife-rirsi alle seguenti domande: da che cosa prevenire - per che cosa prevenire - come prevenire e con quale fondamento.

Franco Angeli 1997. Circa l’evoluzione del concetto di salute vedi anche Tema1: Concepto de salud - EUTM, in http://www.eutm-fmed-edu.uy/saludpublica/TEMA.pdf (17-04-2014); tAlAve-rA Marta, El concepto de salud. Evolucion historica, in http://elartedepreguntar.files.wordpress.com/el (17-04-2015).

8 Cfr. Dizionario etimologico on line, in www.etimo.it/?term=prevenire (17-04-2015).9 Cfr. gelMi Ornella (a cura di), L’istruzione artigianale e professionale di don Bosco nella

realtà dell’Ottocento, in http://www.unibg.it/dati/bacheca/682/38050.pdf, (24marzo 2015).10 Prima del 1948 (cfr. infra nota 21) una definizione di salute è così presente in Webster’s

1913 Dictionary: «The state of being hale, sound, or whole, in body, mind, or soul; especially, the state of being free from physical desease or pain».

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AREA UMANISTICA

Ciò che accomuna i diversi concetti di prevenzione riguarda sia l’aspetto di difesa e protezione, sia la classificazione delle attività di prevenzione in base al gruppo di riferimento, alla metodologia e al target.

1.2 I livelli della prevenzioneLa riflessione sulla prevenzione è legata soprattutto alle problematiche

relative alla salute psicofisica. Infatti, la nota triplice distinzione (triologia) dell’attività di prevenzione - prevenzione primaria, secondaria e terziaria - nasce nell’ambito psichiatrico e viene attribuita a Gerald Caplan (1964), stu-dioso di malattie mentali.11 Viene utilizzata, senza alcuna riserva particolare, in diversi ambiti anche a livello mondiale, in particolare dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS).12

La prevenzione primaria (Primary Prevention) consiste nell’agire sulle cause originarie responsabili di un danno alla salute, quindi riguarda iniziati-ve e servizi offerti all’intera società al fine di limitare le cause/fattori dei rischi (malattia, disagio, disadattamento); la prevenzione secondaria (Secondary Prevention) mira ad arrestare tempestivamente l’evoluzione del processo morboso e ha lo scopo di individuare precocemente, ad esempio attraverso screening e diagnosi precoce, i sintomi di un disagio; essa è rivolta ai co-siddetti “soggetti a rischio” che presentano carenze o problemi conseguenti a pregresse esperienze negative. Infine, la prevenzione terziaria (Tertiary Prevention) ha l’obiettivo di limitare il più possibile un danno già presente mettendo in atto interventi riabilitativi o terapeutici al fine di evitare ulteriori danni e complicanze.13

11 cAPlAn Gerald, Principles of preventiv psychiatry, London, Tavistock 1964, xi-304. 12 Il Glossary of Terms used in Health for All (OMS 1984) così definisce i tre livelli di preven-

zione: «La prevenzione primaria è volta a prevenire l’insorgere iniziale di una malattia. La pre-venzione secondaria e terziaria sono invece volte ad arrestare o a ridurre le malattie già esistenti e i loro effetti, attraverso una diagnosi precoce e una terapia appropriata, oppure a ritardare le recidive e il passaggio ad uno stato di cronicità, per esempio attraverso un’efficace riabilitazi-one» (cit. in World heAlth orgAnizAtion, Health Promotion Glossary, Geneva 1998 [http://www.who.int/healthpromotion/about/HPR%20Glossary%201998.pdf], tradotto in italiano: Glossario O.M.S. della Promozione della Salute, Torino, DoRS Regione Piemonte 2012, 5).

13 Cfr. sAntelli beccegAto Luisa, Pedagogia sociale e ricerca interdisciplinare, Brescia, La Scuola 1979; id., Pedagogia sociale: riferimenti di base 2001, 71-72; colecchiA Nicola (a cura di), Adolescenti e prevenzione. Disagio, marginalità, devianza, Roma, Il Pensiero Scientifico 1995; regoliosi Luigi, La prevenzione possibile, Milano, R. Cortina 1995; Angeloni Grazia, La prevenzione come problema della pedagogia professionale, in http://www2.unich.it/unichieti/ShowBinary/Area_Siti12/file.ppt in pdf, D20 (24-03-2015).

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Si parla anche di una prevenzione universale, se l’attività è rivolta a gruppi generali di popolazione,14 e di una prevenzione selettiva (o mirata), se rivolta a gruppi specifici di individui considerati a rischio o vulnerabili. La preven-zione universale, in pratica, si identifica con la prevenzione primaria e deve assicurare un’assistenza sanitaria di base (Primary health care) ribadita come un diritto umano fondamentale, in particolare nella Dichiarazione di Alma Ata del 1978;15 quella selettiva o mirata corrisponde, a seconda dei casi, alla prevenzione secondaria o terziaria. Come vedremo, la prevenzione primaria riguarda soprattutto l’ambito educativo.16

1.3 Il concetto di prevenzione nell’ambito sanitarioLa cura e la prevenzione delle malattie e la promozione della salute è una

componente imprescindibile ed integrante dell’azione sanitaria in quanto, e indubbiamente, la prevenzione è strettamente legata al concetto di salute. Se infatti, la salute viene intesa come assenza di malattie, la prevenzione nei suoi diversi livelli (primario, secondario, terziario) si riferisce all’approccio patogenico che cerca di evitare l’insorgere, il diffondersi e l’aggravarsi delle malattie, o curare le malattie attraverso l’erogazione di prestazioni tecnico-professionali limitate al settore sanitario.17

14 Si parla anche di “prevenzione attiva” che «rappresenta un insieme articolato di inter-venti, offerti attivamente alla popolazione generale o a gruppi per malattie di rilevanza sociale, che vedono un coinvolgimento integrato dei vari soggetti del Servizio Sanitario Nazionale impegnati nelle attività di prevenzione primaria e secondaria […]; si pone in un’ottica di pro-mozione ed adesione consapevole da parte del cittadino [ad es. con la partecipazione a vac-cinazioni, screening]. Il ruolo attivo, anziché passivo, ha il vantaggio di sollecitare i soggetti interessati così da evitare che essi trascurino, per disattenzione o disaffezione le azioni neces-sarie ad ottimizzare gli interventi di diagnosi e cura» (Piano nazionale di prevenzione attiva 2004-2006, in http://www.epicentro.iss.it/.../piano_prevenzione/PianoPrevenzione04-06.pdf (25-3-2015),1.

15 La Dichiarazione di Alma Ata (Kazakhistan), composta di 9 articoli, è stata redatta dalla Conferenza Internazionale organizzata dall’OMS sull’assistenza sanitaria di base svoltasi dal 6 al 12 settembre 1978.

16 Cfr. ad esempio contessA Guido, Prevenzione primaria delle tossicodipendenze, Mila-no, CLUED 1984; tArtArotti Lorenzo, Droga e prevenzione primaria. Prospettive e strategie dell’intervento preventivo scolastico, Milano, Giuffrè 1986; bislenghi Laura – Perelli Ginevra (a cura di), Un approccio alla prevenzione primaria delle tossicodipendenze: la logica dei “molti-plicatori della azione preventiva” in una prospettiva storica, Città di Milano, ASL 2000; durlAk Joseph A., School-based Preventive Programs for Children and Adolescents, Thousand Oaks (CA), Sage 1995.

17 L’approccio patogenetico esige di individuare i fattori di rischio e i meccanismi che

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Se, invece, la salute viene intesa come “completo benessere” della perso-na - concetto che si è sviluppato a partire dall’OMS (1946, 1948)18 - si parla principalmente di promozione della salute come impegno a sostenere le per-sone e aiutarle a non ammalarsi, a mantenersi sani, per cui tale significato si attiene al dovere di supportare l’autonomia delle persone singole.

La promozione della salute, come vedremo, va oltre la prevenzione ed è collegata alla cosiddetta “salutogenesi” ma, sia la prevenzione che la promo-zione, mirano allo stesso scopo: evitare le malattie e restare sani.19

Un primo aspetto significativo in questo ambito, come verrà sviluppato meglio successivamente, è il passaggio dalla sanità alla salute, che significa anche passare dal prevenire al promuovere: ovvero, dal prevenire e curare le malattie, alla promozione della salute (fisica, mentale, spirituale e sociale) del singolo cittadino, delle famiglie, dei gruppi sociali e della popolazione, attraverso la creazione di sane politiche pubbliche intersettoriali, comprese ovviamente quelle educative.

1.3.1. Dalla sanità alla salute intesa come «uno stato di completo benessere fisico, mentale e sociale»

Il passaggio dal concetto di sanità (medica) a quello di salute, ossia, dalla definizione negativa di salute come assenza delle malattie a quella positiva, e quindi dal concetto di prevenzione alla promozione della salute, è avvenuto piuttosto tardivamente. Come osserva Bruno Paccagnella,20 si è lentamente

provocano le malattie per ridurli o eliminarli onde intervenire nel decorso delle malattie per migliorare la prognosi e per ridurre il numero dei malati e dei morti.

18 L’indicazione della data dello Statuto dell’OMS viene fatta in modo vario a seconda degli studiosi, ma si riferisce allo stesso testo (vedi infra nota n. 21).

19 «La prevenzione, la diagnosi e la cura di malattie si basano, ovviamente, sulle conoscen-ze riguardanti la loro “patogenesi”, mentre la promozione della salute intesa come benessere fisico, mentale e sociale non può che basarsi sulle conoscenze riguardanti i fattori che ge-nerano salute, cioè la “salutogenesi”» (tAvAsAnis Giancarlo, Evoluzione del concetto di salute, in http://www. biblioteca.asmn.re.it/allegati/Corso%20mmg/evoluzioneconcettosalute.pdf, 5 [25-04-2015]). Di conseguenza, è importante studiare la salutogenesi ovvero, individuare ed intervenire sui prerequisiti e sui determinanti della salute per migliorare i processi esistenziali e per migliorare la qualità della vita. I prerequisiti della salute sono: la pace, l’acqua, il cibo, un tetto, l’istruzione, un lavoro, un reddito sufficiente, svolgere un ruolo utile nella comunità. I determinanti della salute sono: stili di vita sani, ambiente totale //Genoma, Modello organizza-tivo dei servizi sanitari e sociali (cfr. tAvAsAnis, Promuovere la salute. Introduzione al concetto).

20 Cfr. PAccAgnellA Bruno, L’evoluzione del concetto di salute, in S.A., Pace diritti umani (2005)3, 21. La complessità del processo di definizione della salute è ben descritta da Marta

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passati da un semplice e semplicistico concetto di salute come assenza di malattie, paradigma perdurato almeno fino alla prima metà del 1900, a quel-lo presente nello Statuto dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS 1948). Qui si trova la nota definizione: «La salute è uno stato di completo benessere fisico, mentale e sociale e non consiste soltanto in un’assenza di malattia o di infermità» (art.1).21

La definizione riconosce vari fattori connessi alla salute, sia personali (fisi-co-mentale), sia ambientali (sociale) però in modo piuttosto statico. Bisogna riconoscere che si tratta di un concetto multidimensionale di salute, vera-mente innovativo, almeno nella formulazione, e che merita indubbiamente un approfondimento da diversi punti di vista. In particolare è importante esaminare il significato da associare all’espressione chiave “completo benes-sere” che supera ovviamente l’ambito propriamente sanitario,22 anche perché l’aspirazione a una sorta di perfezione del benessere appare un obiettivo troppo distante dalla realtà. Nell’ambito strettamente sanitario questo è più che comprensibile; ciò nonostante, si può affermare che la definizione ha avuto fortuna per molti decenni diventando punto di riferimento anche delle diverse normative nazionali relative alla sanità.

1.3.2. Ulteriori integrazioni al concetto di salute dell’OMS 1948Il concetto di salute del 1948, come si è detto, riguarda in modo specifico

la persona singola senza tener conto del suo rapporto dinamico con l’am-biente, per cui dal concepire la salute come “stato di completo benessere” si passa sempre più consapevolmente ad una concezione dinamica della salute.

A partire dalla definizione del 1948 altri studiosi arricchiscono le riflessioni offrendone una chiave di lettura della stessa. Ad esempio Alessandro Seppilli

Talavera che esplicita tre componenti concettuali da considerare: a) diversi contesti d’uso (me-dico-assistenziale, culturale, sociologico, economico-politico, filosofico-antropologico, ideale e utopico); b) diversi presupposti di base; c) diversi ideali sulla salute (cfr. tAlAverA Marta, El concepto de salud. Evolución histórica, in https://elartedepreguntar.files.wordpress.com/el [17-4-2015]). Circa l’evoluzione del concetto di salute cfr. ancora Tema1: Concepto de salud - EUTM, in http://www.eutm-fmed-edu.uy/...saludpublica/...TEMA.pdf (17-04-2014).

21 La definizione di salute del 1948 fu adottata nella Conferenza internazionale del 1946 a New York, fu firmata da 61 Stati (Official Records of the World Health Organization, n° 2, 100) ed è entrata in vigore il 7 aprile 1948.

22 Come viene osservato nel Glossario O.M.S. della Promozione della Salute, «le defini-zioni, per loro natura, sono restrittive in quanto rappresentano la sintesi di idee ed azioni complesse» (p.7). Questo inciso si riferisce anche alla definizione di salute del 1948.

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(1966)23 ne evidenzia l’aspetto dinamico, così come risulta nella seguente definizione: «La salute è una condizione di armonico equilibrio, fisico e psi-chico, dell’individuo dinamicamente integrato nel suo ambiente naturale e sociale». Egli sostituisce l’espressione “completo benessere” con “armonico equilibrio” dinamicamente integrato nel contesto di vita, così pure il termine “stato” con quello “condizione”.

Aaron Antonovsky,24 integra il significato mettendo in evidenza l’elemen-to di continuum di questo equilibrio. L’autore è noto per il suo approccio salutogenico in contrapposizione a quello patogenetico. È importante, se-condo questo approccio, non solo prevenire, ma soprattutto promuovere il benessere a tutti i livelli. La prevenzione si occupa del prevenire/evitare la patogenesi; la promozione si occupa invece di incentivare quegli elementi che, se sviluppati, possono migliorare la salute e il benessere a tutti i livelli.25

Accanto a queste integrazioni della definizione di salute del 1948, e ancora in riferimento ad essa, si sono svolti diversi incontri internazionali sulla salu-te, ovviamente nell’ambito della sanità, introducendo e ampliando misure di prevenzione.26

23 Alessandro Seppilli (1902-1995) fu collaboratore dell’OMS e creatore della Scuola per l’educazione sanitaria (Perugia), così pure fondatore delle riviste Educazione Sanitaria e Pro-mozione della Salute e La Salute Umana (cfr. beAtini Paola et alii [a cura di], Alessandro Sep-pilli, scienziato, politico, educatore. Convegno nazionale nel decennale della scomparsa, Pe-rugia [Sala dei Notari], 18-19 febbraio 2005, in Educazione Sanitaria e Educazione alla Salute 29 [2006]1).

24 Aaron Antonovsky (1923 -1994) ha studiato la relazione tra stress, salute e benessere (cfr. Antonovsky Aaron, Health, Stress and Coping, San Francisco, Jossey-Bass 1979; Id., Unra-veling The Mystery of Health - How People Manage Stress and Stay Well, San Francisco, Jessey-Bass Publishers 1987).

25 Lo stato di salute delle persone viene visto su un continuum dove malattia e salute sono i poli opposti, e la persona viene vista nella sua interezza in tutti gli aspetti del benessere personale. La salutogenesi parte dal presupposto che tutte le persone siano più o meno sane e contemporaneamente più o meno malate. Secondo l’autore è sempre possibile identificare dei fattori protettivi negli individui e l’obiettivo di coloro che si occupano di salute dovrebbe essere proprio quello di promuovere questi fattori nei singoli e nella società. In che modo promuoverli? Alla base del suo pensiero, sono presenti i concetti di resilienza, di autoefficacia (self-efficacy), sviluppati in particolare in questi ultimi decenni (cfr. de filiPPo Annalisa, Lo stress salutogenico [29 maggio 2007], in http://www.psiconline.it/article.php?sid=6266 [30-03-2015]).

26 Sarebbe interessante esaminare i documenti dell’Unione Internazionale per la Promo-zione e l’Educazione alla Salute (IUHPE), un’associazione professionale di individui e organiz-zazioni che dal 1951 affronta il tema della salute e l’educazione alla salute, e organizza quasi ogni 3 anni conferenze internazionali su tali tematiche. Nel 2016 è prevista la 23a conferenza

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La Dichiarazione (universale) di Alma Ata, emanata alla Conferenza inter-nazionale dell’OMS, svoltasi in Kazakhistan (6-12 settembre 1978) sull’assi-stenza sanitaria primaria, riprende la definizione di salute del 1948 e ribadisce che la salute è un diritto fondamentale e perciò è necessario assicurare l’assi-stenza sanitaria di base per tutti gli individui del mondo.27

Come vedremo nella seconda parte del presente studio, della “promo-zione della salute”, propriamente detta, si parla soprattutto a partire dagli anni Ottanta del Novecento. La Conferenza di Ottawa del 1986 costituisce, si può dire, il culmine di queste considerazioni nell’ambito dell’OMS. Ciò che rimane acquisito e che costituisce il punto di riferimento immancabile e inevitabile, è senza dubbio la definizione di salute offerta dall’OMS nel 1948 e il suo sviluppo.

1.4 Il concetto di prevenzione in psicologiaMolto di quanto si parla della prevenzione/promozione della salute

nell’ambito psicologico fa riferimento alle acquisizioni graduali sulla salute da parte dell’OMS e in particolare alla Carta di Ottawa del 1986, cosicché il discorso potrebbe essere piuttosto collocato successivo alla seconda parte del presente studio.

Come rileva un interessante documento del Consiglio Nazionale Ordine degli Psicologi (CNOP) italiano, dal titolo Parere sulla Prevenzione/Promo-zione in ambito psicologico (2012),28 esiste un’ampia letteratura riguardante la psicologia della salute29 che si occupa della prevenzione psicologica e psi-

internazionale a Curitiba (Brasile). Dal 1986 tali incontri vengono organizzati insieme all’OMS.27 La Conferenza fu organizzata dalla OMS, dall’Organizzazione Pan Americana della Sa-

lute, dall’UNICEF, e patrocinata dalla Unione Sovietica. Il suo motto fu: Salute per tutti entro il 2000.

28 Il testo si trova in http://www.psy.it/allegati/promozione-e-prevenzione.pdf, 56 p. Il Parere fa riferimento all’art.1 della Legge 56/89 relativo all’attività di Prevenzione che recita: «La professione di psicologo comprende l’uso degli strumenti conoscitivi e di intervento per la prevenzione, la diagnosi, le attività di abilitazione-riabilitazione e di sostegno o in ambito psicologico rivolte alla persona, al gruppo, agli organismi sociali e alle comunità. Comprende altresì le attività di sperimentazione, ricerca e didattica in tale ambito». Di fronte al vincolo normativo che riserva l’esercizio della professione di Psicologo ai soli iscritti all’Ordine degli Psicologi, nella Presentazione del Parere viene indicata la necessità di «definire cosa è caratte-ristico, e quindi prerogativa esclusiva, della professione di psicologo e, al contempo respon-sabilmente stabilire i confini della professione stessa» (ivi 4).

29 Nei soli database bibliometrici psicologici esiste un corpus di oltre 50.000 articoli scientifici prodotti negli ultimi decenni su scala mondiale sul tema della prevenzione e della

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cosociale. Essa mira alla prevenzione non solo delle patologie, dei disagi, del malessere e delle problematiche di tipo cognitivo, emotivo-motivazionale e relazionale, ma anche della conseguente consulenza e promozione attiva del benessere e della salute in tali ambiti.30

Per quanto riguarda il contenuto del presente paragrafo mi servo prin-cipalmente di questo documento sia per la sua autorevolezza e sia per la ricchezza contenutistica accuratamente documentata.

In materia di salute, il documento riconosce il passaggio dalla «cultura focalizzata sull’eliminazione della malattia ad una cultura focalizzata sulla promozione della Salute».31 Al riguardo, il testo fa riferimento sia al concetto di salute del 1948 - ribadito nella Dichiarazione di Alma Ata del 1978 -, sia a quello di promozione della salute, definita esplicitamente nella Carta di Ottawa del 1986, con le seguenti parole: «il processo che consente alle per-sone di esercitare un maggior controllo sulla propria salute e di migliorarla».32 Facendo riferimento a quest’ultima definizione, si evince una considerazione particolarmente significativa per la riflessione pedagogica in quanto emerge chiaramente «che la “salute” va creata con il diretto coinvolgimento dell’indi-viduo, dei gruppi e delle comunità sociali. In tale processo è fondamentale aiutare le persone ad acquisire quel senso di padronanza e controllo su ciò che riguarda la propria vita (il cd. Empowerment psicologico)».33

Il documento, di conseguenza, riconosce e afferma espressamente che «la prevenzione, unita alla promozione del benessere fisico, psicologico e sociale, è […] parte integrante e tipica, sia da un punto di vista scientifico-professionale sia da un punto di vista normativo, delle «competenze professionali sanitarie», variamente articolate nei loro diversi ruoli e contesti applicativi».34 Dunque,

promozione della salute e, al riguardo, si fa riferimento soprattutto a PsychInfo, PubMed, libe-ramente accessibili online (cfr. ivi 20). Cfr. in particolare PietrAntoni Luca, La psicologia della salute, Roma, Carocci 2001; zAni Bruna - cicognAni Elvira, Psicologia della salute, Bologna, Il Mulino 2000. Esistono anche periodici scientifici riguardanti la psicologia della salute. Per quanto riguarda la formazione e l’esercizio della professione di psicologo in Italia rimando alla legge 56/89 e al DPR 328/2001. Sulle cosiddette “Discipline della prevenzione” in Italia cfr. L.251/2000 riguardante la “Disciplina delle professioni sanitarie”.

30 Cfr. CNOP, Parere 18.31 Ivi 7.32 WHO, Ottawa Charter for Health Promotion, Geneva, WHO 1986. Cfr. CNOP, Parere 5.33 CNOP, Parere 5.34 Ivi 17. Il documento presta significativa attenzione alla considerazione medica della

prevenzione (cfr. ivi 16-18) intendendo per funzione professionale «un insieme processuale di azioni, finalizzato e integrato, contestualizzato e ancorato semanticamente» (ivi 18). Secondo

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mentre riconosce che la prevenzione è «parte integrante delle competenze sanitarie»,35 nello stesso tempo, si mette in evidenza la «tipicità psicologica della prevenzione/promozione del benessere e della salute»,36 sostenendo che: «la prevenzione e promozione della salute e del benessere psicologico è per definizione una competenza tipica psicologica».37

In psicologia, dunque, il termine “prevenzione” quasi sempre è affiancato al “disagio” e alla promozione della salute psicologica.38 Infatti, per quanto riguarda la prevenzione psicologica e psicosociale, parlando degli atti tecnici della medesima, il documento fa riferimento ai casi di patologie, di disagi, di malesseri e di problematiche di tipo cognitivo, emotivo - motivazionale e re-lazionale, alla consulenza e promozione attiva del benessere e della salute in questi ambiti.39 Nell’esercizio della sua professione, «lo psicologo, nel campo della Prevenzione […] è tenuto, per formazione e deontologia, a basare le sue prassi professionali esclusivamente su paradigmi teorici del funzionamento psi-chico e relazionale coerenti e validati dalla ricerca scientifica internazionale».40

E ancora, partendo da una definizione di psicologia come «scienza delle relazioni, dei rapporti, dei processi di cambiamento […], scienza del com-portamento e delle sue determinanti»,41 il Parere afferma che «[…] la ragion

le normative italiane la “Prevenzione e promozione della salute” è «una componente impre-scindibile ed integrante dell’azione tipica “sanitaria”, assieme a componenti quali la diagnosi e la terapia, e contribuisce a costruire la sua identità complessiva, rendendola efficace. Tale ambito è variamente connotato in senso psicologico, sia in ordine alla prevenzione/promozio-ne della salute di area psicologica ed emotivo-relazionale, sia, nella più generale promozione di comportamenti ed atteggiamenti legati alla salute, ai metodi ed ai modelli di intervento che caratterizzano tali attività e che sono di natura strutturalmente psicologica» (l.cit.)

35 Cfr. ivi 16-18.36 Ivi 18-21. 37 L. cit. Si noti che al posto dell’aggettivo “mentale” viene usato “psicologico”. 38 Cfr. ad es. contessA Guido, La prevenzione. Teorie e modelli di psicosociologia e psico-

logia di comunità, Milano, Città Studi 1994. 39 Cfr. CNOP, l. cit.40 Ivi 20. Perciò si ribadisce: «Non è del resto possibile prevenire professionalmente i

disagi emotivi o promuovere processi di “crescita personale”, senza possedere, ad esempio, solide competenze sulla psicologia dei processi di sviluppo, personologici, delle dinamiche affettive e relazionali, sulla salute mentale, sulla psicopatologia, sulla psicologia della comuni-cazione e dei gruppi» (l. cit.).

41 Ivi 5. La definizione di psicologia come “scienza delle relazioni” (individuo, gruppi, comunità) è presente nella L.170/2003 e nell’art. 3 del Codice Deontologico degli Psicologi Italiani, in cui si afferma che «lo psicologo considera suo dovere accrescere le conoscenze sul comportamento umano ed utilizzarle per promuovere il benessere psicologico dell’individuo, del gruppo e della comunità» (l. cit.). E ancora, essa si trova nella Legge di Ordinamento per

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d’essere della nostra professione risiede nel riconoscimento che alla piena re-alizzazione della persona umana sono necessari ben più che i mezzi materiali per la sua sussistenza fisica. […] [ad essa, cioè] concorrono molteplici beni e servizi di natura immateriale, ma non per questo meno reali e necessari, che anche la recente ricerca economica contemporanea ha incisivamente definito beni relazionali».42 Si può concludere quindi che, in certo senso, il documen-to riconosce ancora una volta l’implicanza di un approccio interdisciplinare, in particolare quello pedagogico, benché non emerga chiaramente il rappor-to tra la dimensione psicologica e quella pedagogica.

1.5 Il concetto di prevenzione nell’ambito giuridicoIn ambito giuridico si parla di prevenzione in riferimento soprattutto al

diritto penale,43 sia come protezione dai rischi di carattere sociale, che come protezione antinfortunistica nell’ambito lavorativo.

1.5.1. Prevenzione come protezione dai rischiNel diritto penale, vario e in continua mutazione secondo i periodi storici

e i contesti nazionali, si distingue la teoria della prevenzione generale (o della intimidazione) dalla teoria della prevenzione speciale in relazione alla pena.44

Secondo la teoria della prevenzione generale - presente nel periodo illu-ministico - che parte dalla considerazione del crimine come un male non solo del singolo, ma anche della società o dei consociati, la pena ha la funzione di produrre un effetto di intimidazione (moralizzazione ed educazione) e un

la Professione di Psicologo (L56/1989).42 CNOP, Parere 6.43 Cfr. MilAni Maurizio, La essenziale modificabilità del giudicato sulla pena. Tesi di laurea

(Università degli Studi di Firenze - Facoltà di Giurisprudenza, 2014) guidata dal prof. Fabrizio Corbi. Cfr. anche scordAMAgliA Irene, Il diritto penale della sicurezza del lavoro tra i principi di prevenzione e di precauzione, in Diritto Penale Contemporaneo (2010-2012) pdf, in http://www.penalecontemporaneo.it/1353541107SCORDAMAGLIA2012b (24-03-2015) 12p; PAdovAni tullio, Il nuovo volto del diritto penale del lavoro, in RTDPL.1996; giuntA Fausto - Micheletti Dario (a cura di), Il nuovo diritto penale della sicurezza nei luoghi di lavoro, Milano, Giuffré Editore 2010.

44 Milani pone queste teorie accanto a quella della retribuzione secondo cui la pena necessaria va applicata quia peccatum est. Tale teoria individua il fondamento del male non nella coscienza umana, bensì nell’ordinamento giuridico, per cui la sanzione serve non solo a “retribuire” il male commesso, ma anche a riaffermare l’autorità della legge che è fonte della sanzione stessa (cfr. MilAni, La essenziale modificabilità 2) la quale deve essere “proporzio-nata” al male commesso.

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effetto di orientamento sociale attraverso la creazione di standards morali per tutti. Si direbbe, quindi, che la legislazione diventi (o venga concepita), in certo senso, come la morale della generazione successiva, cioè come criterio di prevenzione da un tipo o un insieme di crimini.

La teoria della prevenzione speciale - affermatasi posteriormente - si muo-ve su un piano opposto, ossia parte dal principio di proporzionalità secondo cui la pena non è più in riferimento alla gravità del reato e alla colpevolezza, bensì alla personalità dell’autore, per cui la pena viene considerata suscetti-bile di modificazioni quantitative e qualitative nell’arco della sua esposizio-ne. Si parla pertanto della «prevenzione speciale post delictum per impedire che chi ha commesso un reato ne commetta altri; di prevenzione speciale ante delictum per evitare che un soggetto, in ragione della sua concreta pe-ricolosità, cada nel delitto».45 Questa teoria, a differenza di quella generale, prevede un complesso di misure terapeutiche, rieducative e risocializzatrici volte ad impedire che il singolo cada o ricada nel reato. Post o ante delictum corrispondono a diversi livelli di prevenzione, anche perché la pena al tempo stesso ha lo scopo di “punire” e di offrire opportunità di riscatto.46

Oggi si tende ad affermare una teoria il più possibile onnicomprensiva dei vari aspetti della pena, anche perché non si può ignorare il carattere pluri-dimensionale della stessa, quindi si tende a riconoscere il diritto del reo alla risocializzazione, alla modificazione della pena, al trattamento che diremo “degno” della persona umana, come pure il “diritto del reo alla pena”.

L’attuale prospettiva, indicata da Milani in riferimento al contesto italiano (dettato costituzionale, art.27), è quella della prevenzione speciale, mirante alla possibile reintegrazione del condannato in società. Più esattamente l’art. 27, al terzo comma, recita: «Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condan-nato», quindi nel rispetto della dignità della persona. Sarebbe opportuno, a questo punto, approfondire il significato dell’espressione “rieducazione del condannato” anche alla luce dell’odierno principio dell’educazione/formazio-ne permanente, come anche della pedagogia speciale, sociale e degli adulti.

Vi è chi mette in questione il fatto che la prevenzione comporti, in caso di

45 Ivi 2.46 Come rileva ancora Milani, «di questo duplice scopo si deve tener conto già nel mo-

mento di creazione legislativa di un sistema sanzionatorio differenziato e non solo nel momen-to esecutivo attraverso l’individualizzazione del trattamento» (ivi 3).

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“rieducazione”, un «condizionamento del soggetto ai valori dominanti di una comunità», valori che stanno cioè alla base delle scelte legislative. Malgrado la crisi dei valori, la prospettiva della rieducazione (del finalismo rieducativo), a mio avviso, è da considerare in sintonia con il principio della formazione permanente, in prospettiva dell’educazione alla cittadinanza democratica ri-tenuta fondamentale soprattutto oggi a livello mondiale. Milani, invece, riter-rebbe più realistica la proposta di “risocializzazione” anziché “rieducazione”. Personalmente considero attendibili tutte e due le accezioni nel senso che la risocializzazione non esclude la rieducazione, anzi la prima ne è l’espressio-ne più auspicabile.47

Alla luce di queste considerazioni, i tradizionali strumenti “preventivi” (isti-tuti carcerari, psichiatrici, pene ordinarie), da un lato, e le istanze risocializza-trici (principio della premialità progressiva e della punibilità regressiva) dall’al-tro, sono più fiduciose nell’educabilità e nella perfettibilità dell’uomo. Occorre quindi riconoscere un carattere dinamico della prevenzione a motivo della consapevolezza di crescente complessificazione dei fattori che intervengono in un reato, per cui va aggiornata costantemente la valutazione dei rischi.

Tamar Pitch, docente di Sociologia giuridica e della devianza presso l’U-niversità di Salerno e autore del volume La società della prevenzione, parla dell’imperativo della prevenzione e del cambiamento del significato di pre-venzione, in questo ambito, nel senso cioè della necessità di spostare l’accen-to dagli autori di disordine e criminalità alle vittime, vere o potenziali, ossia a tutte e a tutti noi.48

1.5.2. Prevenzione come protezione antinfortunisticaSoprattutto oggi, il Diritto parla della prevenzione anche in riferimento al

bene dell’integrità psicofisica del lavoratore. Ciò comporta, al livello iniziale, la “tutela dai pericoli” e l’abbattimento di essi, e poi la “protezione” dai rischi,

47 Almeno sul piano della riflessione, è diffuso oggi il riconoscimento dell’importanza della prospettiva personalistica al riguardo (cfr. eusebi Luciano, Quale prevenzione dei reati? Abbandonare il paradigma della ritorsione e la centralità della pena detentiva, in de nAtAle Maria Luisa, Pedagogisti per la giustizia, Milano, Vita e Pensiero 2004, 65-114).

48 Cfr. Pitch Tamar, La società della prevenzione, Roma, Carocci 2008. Per “prevenzione” l’autrice intende l’insieme dei mezzi e delle strategie capaci di ridurre i rischi di vittimizza-zione. Al riguardo cfr. anche MAzzucAto Claudia, Il diritto minorile: un modello di cultura giuridica per le sfide della civiltà democratica. L’esempio della giustizia penale, in de nAtAle, Pedagogisti per la giustizia 165-224.

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ciò nella consapevolezza dei plurimi fattori di rischio presenti soprattutto nell’ambito del lavoro, pertanto è fondamentale la valutazione dei rischi e la predisposizione del sistema di misure di prevenzione antiinfortunistiche.49 La prevenzione può essere definita come «il complesso degli interventi o delle misure necessarie a evitare, o diminuire i rischi professionali e di conseguen-za a evitare o diminuire gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali»; mentre possiamo definire la protezione come «il complesso delle misure fina-lizzate a limitare le conseguenze dannose di un evento, una volta che questo si è manifestato».50

La prevenzione assume così il significato di protezione antinfortunistica, di contrasto degli infortuni, minimizzazione e neutralizzazione dei rischi nei luoghi di lavoro.51 Al riguardo, attualmente, anche il lavoratore è chiamato in prima persona ad applicare le norme di sicurezza52 anche se ciò non di-minuisce l’obbligo di valutazione dei rischi da parte di ogni datore di lavoro.

Come hanno messo in evidenza Fausto Giunta e Dario Micheletti, anche in questo ambito si costata l’evoluzione del concetto di prevenzione antiin-fortunistica. Gli autori parlano della differenza tra il vecchio e il nuovo siste-ma di prevenzione ritenendo che attualmente il lavoratore sia chiamato in prima persona ad applicare le norme di sicurezza, non potendo definirsi solo beneficiario delle norme prevenzionistiche, ma anche destinatario di una se-rie di precetti antinfortunistici, complementari rispetto al debito di sicurezza dei principali garanti.53

49 Cfr. scordAMAgliA, Il diritto penale della sicurezza del lavoro; PAdovAni tullio, Il nuovo volto del diritto penale del lavoro, in Riv trim.dir.pen.econ. (1996),1161.

50 Evoluzione del concetto di sicurezza, in http://www.uniroma1.itsitesdefaultfilesMate-riale_didattico.pdf, p.5 (25-04-2015).

51 Data la complessificazione dei fattori di rischio, anche nell’ambito del diritto penale si parla del «passaggio dalla logica dell’abbattimento del pericolo a quella della riduzione dei rischi» o del «passaggio dalla regola cautelare alla regola precauzionale» (Perini Chiara, Il con-cetto di rischio nel diritto penale moderno, Milano, Giuffrè 2010, 174s) e della «minimizzazione dei rischi» (MorgAnte Gaetana, Spunti di riflessione su diritto penale e sicurezza del lavoro nelle recenti riforme legislative, in Cass. Pen, [2010]9, 3319.), così pure del «passaggio dalla tutela dai pericoli alla prevenzione dei rischi» (scordAMAgliA, Il diritto penale della sicurezza). Anche il concetto di “rischio”, pertanto, «presenta una problematica polisemia ed eterogeneità dei campi di impiego che rendono difficile, […], la distinzione di una nozione propria dello stesso all’interno del diritto penale» (Perini, Il concetto di rischio 174s).

52 In materia di prevenzione degli infortuni si parla di “sicurezza partecipata” (cfr. http://www.diritto.it/materiali/lavoro/staiano2.html [25-04-2015]).

53 Cfr. GiuntA Fausto - Micheletti Dario (a cura di), Il nuovo diritto penale della sicurezza

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La prevenzione propriamente educativa, a mio avviso, trarrebbe molto frutto dalla riflessione sui concetti mutuati dal Diritto penale appena citati. La prospettiva giuridica, infatti, considera di fondamentale e primaria im-portanza la valutazione dei rischi ed esige di stabilire le misure generali di prevenzione e protezione sulla base dei concetti di pericolo, danno e rischio prevedibile. Questo, sia nella convivenza umana in genere, sia nei diversi posti di lavoro.

Propriamente, nelle azioni di difesa contro ciò che potrebbe recare dan-no, di riduzione al minimo dei rischi non eliminabili, si parla di Prevenzione - come riduzione della probabilità di accadimento - e di Protezione come diminuzione della gravità del danno.54 Al riguardo ci sono diverse normative nazionali.55 Tali concetti potrebbero essere una base rilevante per la riflessio-ne pedagogica e per l’azione educativa per quanto riguarda i fattori protettivi e quelli di contrasto.

1.6 La prevenzione nell’ambito pedagogicoIn ambito pedagogico ed educativo la prevenzione dovrebbe trovare la

sua più naturale collocazione, in quanto l’azione dell’educare è per eccel-lenza volta a promuovere prevenendo e prevenire promuovendo. Tuttavia, nella letteratura pedagogica, non sono numerose le trattazioni al riguardo e, quelle che si trovano, sono piuttosto recenti, tutte riferite all’educazione alla salute o alla pedagogia sociale.56 Luisa Santelli Beccegato, ad esempio, rileva che la prevenzione è «una grande tematica pedagogica»,57 rielaborata dalla pedagogia sociale che traccia e promuove ambienti, spazi e condizioni positivamente connotati che concorrono a contrastare condizioni di disagio, di rischio e di pericolo per poi porre le basi ad un modo positivo di vivere la propria esistenza.

Anche nell’ambito pedagogico, quindi, si fa uso dell’ormai nota triplice

nei luoghi di lavoro, Milano, Giuffrè Editore 2010, 91s.54 Cfr. scordAMAgliA, Il diritto penale della sicurezza.55 In Italia ad es., sulla valutazione dei rischi (di “tutti i rischi”) a carico del datore di lavo-

ro cfr. D. Lgs 626/94, art.17; sulla tutela della salute e della sicurezza del lavoro, D. Lgs 81708, in particolare l’art.15.

56 Tra i trattati intitolati Pedagogia sociale tale tematica è presente in Pollo Mario, Manu-ale di pedagogia sociale, Milano, FrancoAngeli 2004, 342-362 (=L’educazione alla salute e la prevenzione); sAntelli beccegAto Luisa, Pedagogia sociale: riferimenti di base, Brescia, La Scuola 2001, 71-72; trAMMA Sergio, Pedagogia sociale, Milano, Guerini 2010, 153-161.

57 sAntelli beccegAto, Pedagogia sociale 70.

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distinzione della prevenzione: primaria, secondaria, terziaria.58 Mario Pollo menziona anche altre tipologie, in particolare quella che distingue cinque forme: la prevenzione in senso stretto (promozionale); la prevenzione a-specifica del disadattamento; la prevenzione specifica del disadattamento; la prevenzione specifica primaria; la prevenzione specifica secondaria. Una seconda tipologia è quella che fa riferimento alla pubblicazione di Maria Te-resa Cairo e che considera cinque dimensioni che servono per analizzare e classificare gli interventi di prevenzione.59

Come si è detto in antecedenza, si tratta di diversi modi di esplicitare la triplice tipologia in rapporto alle categorie dei destinatari, alla metodologia e al target dell’intervento.

1.6.1. La prevenzione come educazione alla saluteCom’è noto, di fronte al fenomeno dilagante delle tossicodipendenze e

del disagio giovanile, le decadi degli anni ’70, ‘80, ’90 sono state ricche di iniziative a livello internazionale e nazionale sulla tematica dell’educazione alla salute a scuola, che corrisponde alla prevenzione soprattutto primaria e assume il ruolo di catalizzatore.60

La principale promotrice dell’Health Education sin dal 1950 è stata l’Or-ganizzazione Mondiale della Sanità.61 Secondo il Glossario O.M.S. (1998) vi

58 Cfr. ivi 71-72; Angeloni, La prevenzione D20; rossetti Sara Amalia, La prevenzione edu-cativa, Roma, Carocci 2010, 16-22; Pollo, Manuale di pedagogia sociale 347-350.

59 Cfr. cAiro Maria Teresa, Educazione alla salute. Soggetti e luoghi, Brescia, La Scuola 1994.

60 Vedi supra, nota n.16. In Spagna l’educazione alla salute - Educación para la Sa-lud (EpS) - è considerata come uno dei campi di innovazione della Riforma educativa (cfr. http://www.stec.cat/~imarias/ [21-03-2015]). La EpS, anzi, ritenuta tra le più giovani discipline nell’ambito delle scienze della salute (cfr. http://www.ocw.unican.es [21-03-2015]) è concepita come uno dei pilastri fondamentali della Salute Pubblica. La sua finalità è quella di ottenere una condotta che migliori le condizioni di vita (http://www.rincondelvago.com/educacion-para-la-salud html [21-03-2015]). _ Per quanto riguarda l’éducation à la santé in Francia cfr. http://www.education.gouv.fr/.../la-sante-des-eleves.html, (21-03-2015).

61 I dibattiti e gli orientamenti per l’educazione alla salute da parte dell’OMS risalgono all’anno 1950, poi si sono susseguiti negli anni: 1954, 1958, 1960, 1964, in particolare nell’anno 1974, nel 1992 e nel 1996. Nel 1992, in collaborazione con l’UNESCO e l’UNICEF, l’OMS pub-blicò un documento intitolato Comprehensive school health education: suggested guidelines for action. Già nel 1962 si occupò della formazione degli operatori in questo ambito: WHO - PAn AMericAn heAlth orgAnizAtion, Postgraduate Preparation of Health Workers for Health Educa-tion (1962), in http://apps.who.int./iris/handle/10665/40585.Uno dei più recenti documenti dell’OMS è: WHO, Promotion Health Through Schools. Report of a WHO Expert Committee on

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Dalla prevenzione all’educazione

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sono due distinte definizioni di Health Education: quella “tradizionale”, e quella che rientra nel significato di promozione della salute. Il Glossario, pertanto, definisce Health Education come «l’insieme delle opportunità di ap-prendimento consapevolmente costruite, che comprendono alcune forme di comunicazioni finalizzate a migliorare l’alfabetizzazione alla salute [Health Literacy], ivi compreso l’aumento delle conoscenze, e a sviluppare Life Skills che contribuiscono alla salute del singolo e della comunità».62

Un documento di fondamentale importanza al riguardo, ritenuto da tutti i Paesi Occidentali quale vera e propria “carta fondamentale dell’educazione alla salute” è quello sull’Educazione alla salute della 1° Conferenza Europea dei Ministri responsabili della salute pubblica (Madrid, 22-24 settembre 1981). In esso sono presenti alcuni elementi significativi riguardo l’educazione alla salute, cioè l’affermazione del suo ruolo di catalizzatore in materia di pre-venzione primaria, la necessità di demedicalizzare l’educazione alla salute e di non considerarla come un settore a se stante, ma come «costituita da un insegnamento globale e integrato in ogni aspetto del curricolo formativo».63

Il suddetto documento riconosce, dunque, che il concetto di salute si è evoluto verso una visione meno statica che pone l’accento sull’importanza dell’interazione dinamica tra individuo e ambiente; per questo utilizza l’e-spressione educazione promozionale alla salute la quale ha come obiettivo «il pieno sviluppo delle possibilità dell’individuo (fisiche, mentali e sociali) in armonia con il suo ambiente».64 L’educazione promozionale alla salute, com-pito della famiglia e della scuola (e delle altre agenzie educative di un dato territorio), «deve essere orientata a far prendere coscienza a ciascuno delle proprie responsabilità nel mantenimento e nella promozione della salute; a sviluppare nei singoli la capacità di prendere decisioni coscienti nei riguardi del proprio benessere personale, familiare, sociale; ad aiutare il singolo indi-viduo ad integrarsi in modo armonioso nella vita attiva e nella società in ge-nerale, perché ognuno possa arrivare ad esprimersi, affermarsi e svilupparsi adeguatamente; a stimolare il singolo ad una partecipazione responsabile e

Comprehensive School Health Education and Promotion, Geneva, WHO 1997 (WHO Techni-cal Report Series, No.870).

62 Glossario O.M.S. 5.63 N.7, riportato in ferrAzzi Giorgio, Educazione alla salute nella scuola: significati, prob-

lemi, prospettive, in corrAdini Luciano - Pieretti Antonio - serio Giuseppe (a cura di), Educazi-one alla salute tra prevenzione e orientamento, Cosenza, Pellegrini 1992, 43.

64 L.cit.

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costruttiva alla vita della collettività; stimolare il singolo al proprio sviluppo pieno, sul piano fisico, affettivo e sociale».65

Va da sé che l’educazione alla salute, così come ribadita dal documento, deve necessariamente avvenire in una linea positiva e promozionale, e non va confusa con l’educazione sanitaria riduttiva «fondata su tutta una serie di interdizioni, per incoraggiare un atteggiamento positivo nei confronti di un’a-zione diretta all’individuo».66 Di fatto, nella prassi dell’educazione alla salute, è diffusa l’idea di dover educare per evitare di incorrere nei vari rischi, per di più emergenti nell’odierno contesto di vita. Dunque, si può supporre che se questi non esistessero, non si parlerebbe di educazione alla salute.

In un rapporto del 1981, l’OMS tratta del fattore di rischio in questi termini: «il grado in cui un individuo è rimasto attardato rispetto ai suoi pari nel cam-mino verso il raggiungimento - mediante i regolari mezzi rappresentati dalla famiglia, dalla scuola e dalla comunità - di una o più pietre miliari che la sua società o il suo ambiente culturale si aspettano che egli raggiunga nel corso del suo passaggio dall’infanzia all’età adulta, dall’immaturità alla maturità».67 Di fatto, il contenuto di tale considerazione tocca soprattutto l’ambito dell’e-ducazione. È quindi curioso che la suddetta elencazione del documento eu-ropeo coincida con il contenuto della finalità generale dell’educazione, della scuola e della formazione.68

Nel periodo sopra indicato, in più Paesi, anche a livello italiano, sono stati vivaci i dibattiti e molteplici le circolari ministeriali emanate in materia di educazione alla salute per far fronte al fenomeno sempre più diffuso delle tossicodipendenze minorili.69

Tutto ciò, sempre in nome della salute ritenuta come un diritto fondamen-tale, come un bisogno-valore per l’uomo, come obiettivo educativo. I curatori

65 L.cit.66 L.cit.67 Citato in ivi 40.68 Cfr. chAng Hiang-Chu Ausilia, La scuola al naufragio? Riscoprire le funzioni della

scuola nel XXI secolo, in AA.vv., Il bene cultura, il male scuola, Roma, Armando 1999,105-121.69 cAtAlAno Luigi – cAtAlAno Piero (a cura di), Educare per prevenire: idee guida, indica-

zioni normative e strumenti operativi (1976-1989), Roma, MPI 1989; corrAdini – Pieretti – serio (a cura di), Educazione alla salute, sopra ricordato, rappresenta gli Atti del VII Convegno internazionale di Praia a Mare (28-31 ottobre 1990) sul tema Il diritto alla salute e al lavoro nell’Europa degli anni ’90. Cfr. anche Pollo Mario, Manuale di pedagogia sociale, Milano, FrancoAngeli 2004, 342-362; regogliosi Luigi, La prevenzione del disagio giovanile, Roma, Ca-rocci 1994.

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Dalla prevenzione all’educazione

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del volume Educazione alla salute tra prevenzione e orientamento rilevano: «Nessun concetto è più caro e più familiare al vivere quotidiano e alla comu-ne sollecitudine del concetto di salute»,70 e considerano la salute come obiet-tivo educativo definendola come «la capacità dell’uomo di star bene con se stesso, con la propria cultura, con le proprie istituzioni», per cui è necessario educare a «saper aprirsi agli altri, alle altre culture e a istituzioni sempre più tra loro interdipendenti e solidali [e] la scuola può e deve concorrere, insieme alla famiglia, a promuovere questo tipo di salute».71

Ampliando la riflessione, come osserva giustamente Luciano Corradini, per attuare un’autentica educazione alla salute, «occorre un quadro di riferi-mento più ampio che chiami in causa l’etica, ossia il problema del bene e del male, la sociologia, la psicologia e la pedagogia, ossia un riflessione matura ed efficace sulle motivazioni dei comportamenti».72

In conclusione, sia la visione di Luciano Corradini, sopra citata, sia l’acce-zione ampia di cui si parla nel Glossario O.M.S., emerge evidente la prospet-tiva propriamente pedagogica della salute la quale viene sempre più intesa nel senso globale.

1.6.2. La prevenzione come problema di pedagogia professionaleIl tema della prevenzione come problema di pedagogia professionale è

piuttosto assente nelle tematizzazioni degli studiosi. Uno dei pochi contri-buti in materia è quello di Grazia Angeloni.73 Per spiegare il significato di

70 corrAdini – Pieretti – serio, Educazione alla salute 5. Cfr. anche ivi 5-10.71 Ivi 9. Nell’ambito italiano sono state realizzate alcune esperienze nazionali interessanti

che vanno sotto il nome di Progetto Giovani ’93 (PG/93), Progetto Ragazzi 2000.72 corrAdini, La legge 162/90 e il Progetto Giovani ’93, in ivi 22. Sul contenuto di questo

Progetto cfr. ancora ivi 19-36. È significativo, soprattutto dal punto di vista propriamente peda-gogico, il noto slogan ministeriale diffuso con tali progetti: «star bene con se stessi, star bene con gli altri e star bene nelle istituzioni».

73 Grazia Angeloni è docente presso l’Università agli Studi “G. d’Annunzio” Chieti-Pes-cara. Facoltà di Scienze Sociali. Nel suo contributo sviluppa i seguenti argomenti: Pedagogia e prevenzione – Pedagogia, prevenzione e formazione – Il colloquio clinico – Apprendimento trasformativo degli stili di vita – L’aiuto pedagogico nel contesto familiare – Cultura scientifica e pedagogia della prevenzione – La pedagogia dell’autoprevenzione – Formazione umana e prevenzione della violenza – La prevenzione come assunzione di responsabilità (Angeloni Gra-zia, La prevenzione come problema di Pedagogia professionale [pdf], in http://www2.unich.it/unichieti/ShowBinary/Area_Siti12/file (24 marzo 2015). Il materiale di consultazione da lei indicato riguarda solo: blezzA Franco (a cura di), Pedagogia della prevenzione, Torino, Centro Scientifico Editore 2009).

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“pedagogia”, l’autrice propone la definizione di Mauro Laeng: «termine che comprende l’arte dell’educazione, la scienza di quell’arte, e la filosofia di quella scienza». La professione di coloro che possiedono tali competenze è quella degli educatori, siano essi genitori o insegnanti.74 «L’aggettivo profes-sionale sta a significare il ruolo professionale da essi ricoperto. Il pedagogi-sta è invece il professionista superiore di quella che era in origine l’arte del pedagogo».75

L’Angeloni distingue il significato del termine “previsionalità” - propria della pedagogia nel suo aspetto teorico - da quello di “prevenzione” che appartiene alla pedagogia in quanto tale (dove pensiero e azione, applicati-vità e applicazione non sono disgiunti).76 Secondo l’autrice prevedere «indica anticipare con il pensiero e la parola fatti che dovrebbero avvenire e che non ancora sono avvenuti», mentre prevenire «indica un anticipare con il pensiero e la parola fatti che non dovrebbero avvenire e un agire perché non avvenga il fatto che non si vuole avvenga».77

L’assenza del discorso di cui si è detto all’inizio del paragrafo è solo ap-parente, in quanto tale discorso è strettamente connesso soprattutto con il recente sviluppo della cosiddetta pedagogia clinica la quale si occupa dell’a-iuto professionale alle persone di diverse età e con diversificati disagi, ma considerando il singolo nella sua interezza e quindi non concentrando sui disturbi e le incapacità bensì puntando sulla valorizzazione e attivazione delle potenzialità e risorse personali, in modo che sappia affrontare con con-sapevolezza e coscienza le nuove situazioni che gli si presentano nei diversi periodi dell’esistenza.78

La pedagogia clinica viene considerata da alcuni come una disciplina pe-dagogica79 e da altri semplicemente come una modalità della pedagogia più

74 Angeloni, La prevenzione D7.75 Ivi D14.76 Ivi D16. Angeloni che intende per educazione «impostazione della prassi, presa in

cura del soggetto in senso preventivo e previsionale», afferma: «la prevenzione necessita di pedagogia» (ivi D19).

77 Ivi D16.78 In Italia esiste anche un’Associazione Nazionale [italiana] Pedagogisti Clinici (ANPEC)

costituita con Atto Pubblico il 28 marzo 1997 e registrata a Firenze il 16 aprile 1997 al n° 2423; il “pedagogista clinico”, generalmente in possesso di Laurea Magistrale in Pedagogia o in Scienze Pedagogiche e con ulteriori qualificazioni specifiche in Pedagogia clinica, è un profes-sionista regolamentato dalla Legge 14.01.2013 n° 4.

79 Cfr. Pesci Guido, I presupposti epistemologici della Pedagogia Clinica 1974. Sulla temati-

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Dalla prevenzione all’educazione

AREA UMANISTICA

che una specializzazione o un metodo80 o anche come pedagogia sul campo, tra scienza e professione.81 Com’è dimostrato dalle note, esiste un numero crescente di pubblicazioni riferite alla pedagogia clinica.

I presupposti epistemologici della pedagogia clinica sono stati indicati da Guido Pesci. In un saggio pubblicato nel 1974 egli afferma: «Le basi episte-mologiche della pedagogia clinica sono state rintracciate nella filosofia, nella teologia, nel diritto e nella medicina di un lontano passato, in ciò che ha da sempre impegnato l’uomo a conoscere se stesso e a trovare forme di rimedio utili a mantenersi in uno stato di equilibrio».82

Franco Blezza, autore sia del saggio Pedagogia della prevenzione, come anche del volume La pedagogia professionale, sociale e clinica, ribadisce che tutta la pedagogia è mediazione. Egli sviluppa il concetto di “interlocuzione pedagogica” ritenendola “erede legittima del dialogo socratico”, una relazio-ne d’aiuto di forma esplicita che si attua solo sul piano cosciente, con l’accor-gimento di distinguere tra problemi e situazioni problematiche.83

La tematica della “mediazione educativa” – alla base del discorso relativo alla pedagogia clinica - è stata sviluppata negli anni ‘80 del secolo scorso, in particolare da Riccardo Massa il quale pubblicò il volume con un titolo cu-

ca vedi anche le recenti pubblicazioni che offrono un inquadramento in sintesi: solA Giancar-la, Introduzione alla pedagogia clinica, Genova, Il Melangelo 2008; id., Verso una pedagogia clinica, 2009, 187-198, in http://www.fupress.net/index.php/sf/article/download/8595/8043 (24-03-2015).

80 Cfr. Angeloni, La prevenzione D44 e 45.81 crisPiAni Piero, Pedagogia clinica. La pedagogia sul campo, tra scienza e professione.

Azzano S. Paolo MI, Edizioni Junior 2001, 29. Crispiani è teorico della pedagogia clinica e direttore della Collana di Pedagogia clinica presso le edizioni Junior di Milano.

82 Pesci Guido, Pedagogia clinica. Le basi epistemologiche, in Il Portale del Pedagogista Cli-nico, 1974 (in http://www.guidopesci.it/www.isfar-firenze.it), p.1. Corsivo mio; http:/www.cli-nicalpedagogy.com/contributi/basi_epistemologiche.pdf. Cfr. ancora id., Epistemologia, Firenze, Edizioni Scientifiche ISFAR 1998; id., Pedagogia Clinica. La pedagogia in aiuto alle persone, Torino, Omega 2012; id. - Pesci Anna, Pedagogia clinica in classe, Roma, Edizioni Magi 1999.

83 Cfr. blezzA Franco, Posizione del problema, in id. (a cura di), Pedagogia della preven-zione, Torino, Centro Scientifico Editore, 2009, 7. Cfr. ancora id. La pedagogia professionale, sociale e clinica, in ivi 27-30; id., Pedagogia e prevenzione nella formazione del personale sanitario laureato, in ivi 44; id., Educazione XXI secolo, Cosenza, Pellegrini editore, 2007, 137; id. (a cura di), Pedagogia della prevenzione, Torino, Centro Scientifico Editore, 2009; id., La Pedagogia professionale, Scriptaweb 2012; id., Pedagogia e professioni sociali. Teoria, metodo-logia, tecnica d’esercizio e casistica clinica, 2014). Quest’ultimo volume si presenta come un Manuale ad uso dei pedagogisti di professione in formazione continua, dei professionisti operanti nei settori del sociale, sanitario, culturale e didattico e degli studenti universitari delle scienze umane, sociali e sanitarie.

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rioso: La clinica della formazione. Ricerca e Counseling in ambito educativo e socio-sanitario. Egli considera la clinica della formazione come pratica di consulenza e supervisione, come mediazione educativa tra il mondo della vita (mondo vitale) e quello della formazione (azione Intenzionale). Questa mediazione è detta «latenza pedagogica».84

Ciò che merita una considerazione è che da tutto ciò emerge il significato sostanziale dell’azione educativa da sempre concepita come rapporto inter-personale e intenzionale, di aiuto/guida/sostegno alla crescita umana dell’e-ducando. L’attenzione al singolo, l’importanza data al colloquio (diagnostico, orientativo e di ricerca anche solidale), la visione ecologica e globale sono, infatti, tratti tipicamente caratteristici dell’azione educativa autentica.

Un altro aspetto degno di nota è che la Pedagogia clinica punta sul prin-cipio cardine dell’educazione nel senso etimologico del termine, che deriva da ex ducere, e significa tirar fuori ciò che già è presente nell’individuo, per cui l’aiuto che gli si offre professionalmente deve collocarsi in una visione globale e olistica dell’essere umano.85

Nello sviluppo della cosiddetta pedagogia clinica, dunque, emerge una stretta connessione soprattutto tra l’ambito pedagogico, quello psicologico e sanitario.

1.6.3. La «prevenzione educativa»Una prospettiva particolarmente significativa è quella proposta dalla pe-

dagogista Sara Amalia Rossetti. Nel volume La prevenzione educativa,86 l’au-trice difende «l’appartenenza intrinseca del paradigma preventivo alle scienze

84 Cfr. MAssA Riccardo (a cura di), La clinica della formazione, Milano FrancoAngeli 1992; id. (a cura di), La Clinica della Formazione. Un’esperienza di ricerca, Roma, Armando 1991; id., Dalla scienza pedagogica alla clinica della formazione, Milano, FrancoAngeli 2004; id., Ricerca, ricerca empirica e clinica della formazione, in solA Giancarla, Epistemologia peda-gogica. Il dibattito contemporaneo in Italia, Milano, Bompiani 2002. Sull’autore vedi anche rezzArA Anna (a cura di), Dalla scienza pedagogica alla clinica della formazione: sul pensiero e l’opera di Riccardo Massa, Milano, FrancoAngeli 2004.

85 Cfr. ferrAri Francesca, Che cos’è la pedagogia clinica, in http://www.ffpedagogiaclini-cabs.it/pedagogia_clinica.htm [24-03-2015]). Al riguardo F. Blezza ritiene importante recupe-rare un duplice significato del termine educazione - “estrarre” (educere) e “nutrire” (educare) - senza quindi riduzionismi o contrapposizioni dell’uno all’altro, bensì considerati in «una visione più mediata, o dialettica» (blezzA, Posizione del problema 7).

86 rossetti Sara Amalia, La prevenzione educativa, Roma, Carocci 2010. Sara Amalia Ros-setti è dottore di ricerca in Teorie della formazione e modelli di ricerca in pedagogia e didattica presso la Facoltà di Scienze della Formazione dell’Università degli Studi di Milano-Bicocca.

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Dalla prevenzione all’educazione

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dell’educazione» mentre evidenzia come sia avvenuta una certa «espropria-zione di competenze, abilità, nonché di saperi teorici, proprie delle profes-sioni educative» a favore di prassi medicalizzanti che si appropriano della dimensione preventiva. Quest’ultima, in realtà, è una componente essenziale dell’educazione che «svolge sempre e comunque un’azione di prevenzione, prima che di eventuale cura».87

Ora, il concetto di prevenzione finora diffusa nell’ambito soprattutto sani-tario, ha concorso a restringerne la valenza semantica, facendolo coincidere con gli interventi nei confronti di rischi specifici che richiedono provve-dimenti specialistici. Al contrario, è l’educazione tout court ad avere una dimensione preventiva che si esprime abitualmente «all’interno di situazioni di quotidianità e di normalità, e attraverso quelle attività che tendono a ri-durre i rischi di un possibile incontro con il malessere e con il disagio».88 In tal modo si riscatta l’idea di una «azione preventiva che è […] azione edu-cativa, in quanto strutturalmente connessa a letture del mondo, attribuzioni di senso, formulazioni di ipotesi su ciò che è adattamento e disadattamento sociale, su ciò che è adeguato e inadeguato in un particolare contesto».89 Di conseguenza, cambia anche il modo di “fare prevenzione” nel senso di ab-bandonare prassi soltanto mirate alla cura e di «lavorare sui processi più che sui contenuti: [infatti] se obiettivo della prevenzione educativa è modificare atteggiamenti e comportamenti, è indispensabile agire su tutto ciò che con-sente a un individuo di scegliere, attribuendo un significato personale alle informazioni che riceve, agli stimoli offerti dalle persone che incontra e alle cose di cui fa esperienza».90

Il concetto di prevenzione va quindi ampliato e integrato aggiungendo al sostantivo l’aggettivo educativa. Anzitutto, è necessario recuperare il signi-ficato etimologico del termine “prevenire” nella sua doppia valenza: «l’una (prevenire come “evitare”, “impedire”, “sventare”, “ostacolare”, “scongiura-re”) scaturisce in via indiretta dalla connotazione negativa implicitamente attribuita all’oggetto destinatario della stessa azione preventiva e quindi si previene il verificarsi di qualcosa che viene ritenuto comunque negativo; l’al-

87 bertolini Piero, Prevenzione, in Id., (a cura di), Dizionario di pedagogia e scienze dell’educazione, Bologna, Zanichelli 1996, 449. Citato da rossetti, La prevenzione educativa 14.

88 rossetti, La prevenzione educativa 22-23.89 Ivi 23.90 Ivi 24.

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tra (prevenire come “arrivare prima”, “precedere”, “anticipare”, o, più esten-sivamente, “agire a monte”) è inscritta nell’etimologia stessa del termine, cioè nella composizione delle due voci latine prae- (prima) e venire».91 In tal modo si giunge a far coincidere il significato di prevenzione con la promo-zione del benessere, sia individuale che collettivo.

Servendosi del contributo di vari studiosi,92 la Rossetti afferma che l’azione preventiva «è un’azione educativa»93 e sviluppa così il concetto di «promozio-ne educativa». Questa suppone che, all’accezione negativa di fare contro che ha caratterizzato la prevenzione in questi ultimi decenni, si affianchi il con-cetto di «prevenzione come azione educativa volta ad aumentare il benessere del soggetto e a promuoverne abilità utili per affrontare i compiti evolutivi e i cambiamenti esistenziali, nonché a rafforzarne caratteristiche che possano sopperire a eventuali fragilità».94

A livello metodologico scaturisce quindi l’istanza di abbandonare prassi meramente orientate a individuare elementi di rischio, a favore di azioni volte ad organizzare attività promozionali culturali, scientifiche, informative e formative rivolte al maggior numero di destinatari individuandoli nei contesti della normalità. In tal modo si contribuisce a rendere forte (empovered) la persona, facendo in modo che possa sentirsi adeguata alle diverse situazio-ni che si trova ad affrontare, potendo far ricorso a differenti risorse che gli consentano tanto di costruire un progetto per il futuro, quanto di gestire con efficacia le situazioni contingenti.

In questo approccio è centrale il concetto di educazione promozionale

91 Ivi 25.92 trAMMA Sergio, Pedagogia sociale, Milano, Guerini Studio 1999; ingrosso Marco, Di-

venire sensibili alla salute, in Animazione sociale (1996) 12, 23-45; id., Lettura sociale della salute e promozione della qualità della vita, in Animazione sociale (2000) 5, 9-18; zAnnini Lucia, Salute, malattia e cura. Teorie e percorsi di clinica della formazione per gli operatori sociosanitari, Milano, FrancoAngeli, 2001; leMMA Patrizia, Promuovere salute nell’era della glo-balizzazione. Una nuova sfida per “antiche professioni”, Milano, Unicopli 2005; zAni Bruna - cicognAni Elvira, Psicologia della salute, Bologna, il Mulino 2000; contessA Guido, Prevenzione primaria delle tossicodipendenze, Milano, CLUED 1994. Probabilmente tali autori, erano buoni conoscitori della Carta di Ottawa sulla promozione della salute (1986). Al riguardo vedi anche contessA, La prevenzione. Teorie e modelli di psicosociologia e psicologia di comunità, Milano, Città Studi 1994; scArAtti Giuseppe, Prevenzione e lavoro educativo: percorsi di valutazione di efficacia, in buccoliero Elena - sorio cristina - tinArelli Alberto (a cura di), Modelli di valuta-zione della prevenzione primaria in Europa, Milano, FrancoAngeli 1999, 61-76.

93 rossetti, La prevenzione educativa 23. 94 Ivi 26.

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Dalla prevenzione all’educazione

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in cui la salute è vista come esperienza che abbraccia le fasi di benessere ma anche quelle di malessere, le dimensioni individuali e collettive. L’aspet-to educativo di questo orizzonte punta a far emergere le qualità personali (sensibilità, rigore, tenacia) e le abilità caratteristiche di base (autocoscienza, autostima, capacità analitiche, relazionali, comunicative) attraverso attività esperienziali.

Finalmente, la prevenzione educativa si riconosce quindi in un processo educativo più complesso e articolato, che ha lo scopo (finalità negativa) di contrastare processi di emarginazione e disadattamento (fare contro), ma so-prattutto (finalità positiva) di migliorare l’ambiente sociale e culturale in cui l’individuo si muove, stimolandone l’autonomia e la consapevolezza di sé, ma anche la dimensione decisionale e progettuale, promuovendo cioè “ben-essere” inteso come possibilità di avere un progetto per il futuro.95

Si rispecchia in tal modo il cammino delle riflessioni che si sono svolte a livello internazionale sullo stesso concetto di salute. Tale discorso merita un’attenzione particolare a cui verrà dedicato il prossimo paragrafo. ■

95 Cfr. ivi 24-26.

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TESTIMONIANZA

pp. 181-183

Dino Ciccanti,una gioia contagiosa

Maria Ciccanti

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Nel 1965 mi sono ammalata. Il medico di famiglia suggerì a mio padre di mandarmi in montagna tre mesi per recuperare le forze. Il primo Istituto che rispose fu l’As-sociazione Silenziosi Operai della Croce di Re (No). In questa Casa si stava svolgendo un corso di stu-dio Nazionale sul tema “A che vale il Soffrire” per incaricati diocesani, ammalati e sani, circa 350 persone. A conclusione del corso conobbi Dino, un giovane in carrozzina, con il quale ci scambiammo gli indirizzi.

Dopo circa un anno, all’improvviso, ricevetti una lettera da Dino che mi invitava nella sua città, Todi (Pg), dove viveva con la mamma inferma. Così decisi di andarli a trovare (era il 21 agosto 1967).

Mi raccontarono la loro vita fatta di tante prove e di sofferenze. Il marito, maresciallo maggiore dei Carabinieri, comandava le stazioni di Thiene e Ar-siero. Morì colpito da infarto a soli 42 anni e la vedova con due figli piccoli ritornò a Todi, loro città natale.

Nel 1943 la grande tragedia di Dino. A 15 anni rimase sepolto sotto le macerie durante un bombardamento a Foligno (Pg): dopo alcune ore, fu estratto vivo per miracolo, ma segnato a vita. Dopo tre anni di ricoveri continui al policlinico Gemelli di Roma gli fu diagnosticata la “sclerosi mul-tipla” malattia grave e progressiva. Per Dino si prospettava la realtà della carrozzina e a 18 anni la mamma si vide costretta ad affidarlo all’ospizio “per anziani” Veralli-Cortesi di Todi (dal 1946 al 1954). L’ambiente non poté che far crescere in lui il rifiuto, l’astio, il dolore fisico e morale.

Nel 1949 si recò per la prima volta a Loreto, accompagnato da Giunio

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Dino Ciccanti, una gioia contagiosa

TESTIMONIANZA

Tinarelli. Entrando nella Santa Casa, per venerare la Vergine Lauretana, ai piedi della Madonna, da cui non riuscì a staccare lo sguardo, avvertì dentro di sé una grande trasformazione ed una gioia inesprimibile. Uscito dalla Santa Casa ancora immerso in quella gioia e, quasi timoroso di essere stato oggetto di una suggestione, continuò a piangere silenziosamente e serena-mente. Non la guarigione fisica, ma sentì una forza nuova per accettare la sua situazione e l’intuizione di una chiamata, proprio attraverso il dolore, la sofferenza.1

Il ritorno all’Istituto lo riportò nelle stesse realtà e difficoltà di prima; ma lui si sentì cambiato ed avverte al suo fianco la continua presenza della Ver-gine. Ogni anno, più volte si recò a Loreto.

Nel 1952, nel suo primo pellegrinaggio a Lourdes, Dino conobbe monsi-gnor Novarese che lo invitò a Re per l’anno dopo, quando ebbe inizio il pri-mo corso di Esercizi spirituali per ammalati e sani presso la “Casa Barbieri”. Durante quel corso, si avvicinò a lui una signora, Enza, chiedendo perché fosse in carrozzina così giovane e il motivo per cui si trovava in istituto a Todi. Dino la mise al corrente dei fatti e l’anno dopo questa benefattrice lo fece rientrare in famiglia e la mantenne per 13 anni, compreso una donna per aiutarli nelle varie necessità. Questo è stato il miracolo di grazia che al primo corso di Esercizi spirituali, l’Immacolata, attraverso questa signora, ha donato a Dino.

Dino diventa un collaboratore scelto dall’Immacolata e l’anno dopo, nel 1955, iniziò gli incontri del Centro Volontari della Sofferenza nella sua par-rocchia, nella diocesi di Todi, e poi come incaricato Regionale in altre dio-cesi dell’Umbria, fino al 1968. Sempre con entusiasmo e gioia diffuse i mes-saggi dell’Immacolata a Lourdes e a Fatima.

Monsignor Fustella, vescovo di Todi, negli anni 1960 con il contributo di una rivista cattolica, donò a Dino una carrozzella a motore perché potesse far conoscere ovunque l’apostolato del Centro Volontari della Sofferenza, “l’ammalato per mezzo dell’ammalato”.

Nel 1959, la famiglia visse un’altra tragedia: Il fratello Litto, di 24 anni, muore annegato.

1 La testimonianza di questa esperienza è stata pubblicata da “Ecclesia Mater” nel 1986 ed è conservata” dal 16.03.2013 - nell’Archivio delle grazie e miracoli operati da Dio per in-tercessione della Vergine Lauretana. Padre Santarelli, direttore generale della Congregazione universale S.Casa, Loreto”

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Maria Ciccanti

Dino rendendosi conto dell’aggravamento della mamma e del suo, decise di recarsi in Pellegrinaggio a Lourdes nel 1967, per chiedere alla Madonna il miracolo di poter formare una famiglia.

La profondità spiritua-le di Dino, come viveva la sua infermità mi facevano riflettere; la sua serenità e l’abbandono a Dio erano invidiabili, aveva una gioia contagiosa. Giorno dopo giorno, sentivo che Dino mi era entrato nel cuore con una forza irresistibile fin dal primo incon-tro. Di lui ho avvertito la bellezza dell’amore e la grandezza della sua anima.

Fissammo la data del matrimonio, ma all’improvviso ci colpì il lutto per la morte della mamma. Dopo esserci sposati, nel 1968, ci trasferimmo nel Veneto a Thiene (Vi). Qui Dino continuò gli incontri del Centro Volontari della Sofferenza fino al 1985, svolgendo l’apostolato per ben 32 anni.

Abbiamo avuto anche la gioia della nascita di nostra figlia, Federica ed in seguito di una nipote, Elisabetta.

Le prove, che non sono mancate, hanno contribuito a rinforzare ogni giorno di più il nostro amore, sostenuti dalla preghiera e con la presenza di Gesù Eucarestia, fonte di ogni grazia. Abbiamo affrontato tutto con grande gioia e fiducia, perché a Dio l’impossibile è possibile! Abbiamo vissuto 42 anni di matrimonio molto provati ma l’Amore di Dio e di Maria erano con noi.

Mio marito ha raggiunto la Casa del Padre il 1 giugno 2010, a 82 anni, 67 dei quali convissuti con l’infermità. Per me lui è sempre al mio fianco, ogni giorno. ■

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ABBIAMO LETTO PER VOI

pp. 184-185

Un testo intenso, vissuto questo di don Claudio Campa, scritto in collaborazione con la dottoressa Silvia Lova coordinatore educativo presso l’Istituto per la Ricerca, la Formazione e la Riabilitazione di Torino.

Tema centrale del lavoro è la fragilità umana in tutte le sue forme ma, soprattutto, la fragilità intesa come paradigma in stretto rapporto con la fede e la Parola di Dio nella vita di tutti i giorni.

La società contemporanea, tutta protesa verso un arrivismo e un utilitari-smo che sta toccando vertici decisamente allarmanti, sembra disinteressarsi di tutto ciò che è “fragile”, “indifeso”, apparentemente debole.

Eppure, parafrasando l’apostolo Paolo è proprio quando si è deboli che si può diventare forti, quando si è fragili, che si possono comprendere nella loro essenza quegli aspetti della vita che troppo spesso si danno per scontati. La malattia, la disabilità, la sofferenza in tutte le sue poliedriche manifesta-zioni può e deve divenire un’occasione per accrescere e nutrire la propria dimensione spirituale.

Attraverso brevi pensieri e riflessioni, il testo di don Claudio mira a mette-re la persona “fragile” al centro di un discorso in cui vengono enfatizzate le ricchezze interiori che la persona possiede e che devono essere sostenute e alimentate attraverso la fede e i rapporti interpersonali con gli altri.

Il vivere quotidiano, come del resto la vita spirituale, ha un’origine, un centro ed un fine: Gesù Cristo. Diventa allora apertura della persona a Dio che è Persona, al trascendente che coinvolge tutto l’essere.

Don Claudio Campa con Silvia LovaEdizioni CVS, Roma, 2015, € 10

Elogio della fragilitàA cura della Redazione

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A cura della Redazione

Divenire se stessi, essere fedeli a ciò che si è veramente non è un proces-

so per conquistare posizioni virtuose; è piuttosto un modo per giungere alla

consapevolezza profonda degli interventi di Dio nella nostra vita che, gra-

dualmente, possono aiutare a liberarsi da tutto ciò che è accessorio: difese,

maschere, atteggiamenti esteriori, sensi di colpa, autoinganni…ecc.

È il modo con cui l’individuo si rapporta al mondo esterno a “creare dei

problemi” e a favorire lo sviluppo di atteggiamenti nichilisti nei confronti

dell’esistenza.

In un passo assai significativo del libro si legge: “È meglio scoprirsi per-

sone fragili che essere uomini e donne di vetro, induriti dalla vita e quindi

poco duttili e tolleranti sia nei confronti di se stessi che degli altri. Il fragile è

l’uomo per eccellenza, perché laddove la forza impone, respinge e reprime,

la fragilità accoglie, incoraggia e comprende. La vita fragile acquista un senso

nuovo e può sviluppare relazioni autentiche e profonde” (p. 32).

La fragilità rappresenta l’esperienza del limite, della nostra debolezza e

precarietà che prima o poi tocca tutti noi, nella malattia, nella disabilità, nel

disagio esistenziale, in un lutto o una disgrazia, nei fallimenti e nelle rotture

delle relazioni affettivamente significative.

La spiritualità cristiana ci dice che anche Dio è fragile, ha condiviso la no-

stra fragilità. Non è distaccato, alieno, e questa sua partecipazione alla nostra

debolezza ci apre una strada di senso e speranza. Ed è questo che costituisce

il leit motiv del libro scritto da don Claudio. Quindi, leggere e riflettere sui

pensieri che compongono questo “Elogio della fragilità” può aiutare a com-

prendere che ciò che viene considerato fragile a livello prosaico, rappresenta

invece una ricchezza che ha delle valenze anche spirituali che rimandano

anche alla bella meditazione durante la Via Crucis al Colosseo presieduta da

papa Francesco il 25 marzo scorso.

Meditando sulla quinta stazione nella quale Gesù è aiutato da Simone di

Cirene a portare la croce si legge: “Il Cireneo ci aiuta a entrare nella fragilità

dell’anima umana e mette in luce un altro aspetto dell’umanità di Gesù. Per-

sino il Figlio di Dio ha avuto bisogno di qualcuno che lo aiutasse a portare

la croce. Chi è dunque il Cireneo? È la misericordia di Dio che si fa presente

nella storia degli esseri umani. Dio si sporca le mani con noi, con i nostri

peccati e le nostre fragilità. Non se ne vergogna. E non ci abbandona”. ■

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I detti di GesùI detti di Gesù, conosciuti tra gli studiosi anche come “documento

Q” dal termine tedesco Quelle che significa “fonte”, costituiscono una raccolta di detti scoperti nella prima metà del XIX secolo e fan-no parte di testi tra i più antichi del cristianesimo. Studiati principal-mente nei Paesi anglosassoni, i detti di Gesù rappresentano senza dubbio un prezioso approfondimento per capire meglio non solo la formazione dei Vangeli ma anche per accedere alla pratica di vita e alle credenze dei primi gruppi dei discepoli di Gesù.

“Il documento Q è, certamente, un ‘testo di passaggio’. Niente in esso è definitivo: né la sua formulazione, né i suoi contenuti, né

l’esperienza di vita che riflette, né la sua testimonianza di fede. Ma questo carattere provvisorio, incompleto, interstiziale, fa di questo testo uno spazio privilegiato per la creatività e per l’innovazione. La sua vicinanza a Gesù circonda il testo di un’aura che evoca in modo molto particolare e concreto l’esperienza viva di un gruppo di suoi discepoli che cercò di portare avanti il progetto del Regno di Dio da lui inaugurato”.

S. Guijarro, I detti di Gesù, Carocci Editore, Roma 2016, € 13

Rivestita di bellezza divinaIl testo della Rocca compie un’analisi puntuale e rigorosa sulla

figura della donna nelle Sacre Scritture, evidenziando caratteristi-che proprie dell’universo femminile rapportate con la dimensione dello spirito.

Il lavoro si snoda in 51 brevi capitoli dove, attraverso “specifi-che caratteristiche” della condizione femminile, si riflette sul ruolo proprio della donna nel mistero di Dio, così come il sottotitolo del libro indica. Certamente un’opera utile da leggere e approfondire di questi tempi, in cui il rispetto verso le donne sembra essersi dissolto lasciando spazio a violenze e prevaricazioni, un viatico

per alimentare la fede nella condizione femminile come dono prezioso del Creatore a vantaggio dell’intera umanità.

M. Rocca, Rivestita di bellezza divina. La donna e il mistero di Dio, Tau Editrice, Todi, 2016, € 15

La rivista accoglie in queste pagine le recensioni di testi che, dai più disparati punti di osservazione, trattano temi utili per approfondire e dibattere questioni inerenti all’articolato mondo dell’umana sofferenza. Questa rubrica è il luogo per un abituale e critico appuntamento con una bibliografia ritenuta utile a mantenere aperto un confronto ed un dibattito.

SPUNTI PER LA LETTURA

pp. 186-188

A cura di Vincenzo Di Pinto

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Il brusio del pettegolo«Il pettegolo ha i tratti del potente, del legislatore e del giudice.

Si erge a custode dei valori della propria comunità, e la riuscita in tale impresa è fonte somma del suo piacere».

Dario Edoardo Viganò, prefetto della Segreteria per la comuni-cazione della Santa Sede, riassume in questo modo i contenuti del suo nuovo libro.

Per la sua capacità di includere e di escludere, oltre che di sta-bilire nei dettagli le regole dei giochi sociali, il pettegolezzo non risparmia nessuno ed è connaturato all’esercizio del potere. Anche la Chiesa – osserva Viganò – non è esente dal pettegolezzo, come testimo-niano le lettere di san Paolo e le recenti, severe critiche di papa Francesco rivolte ai brusii e alle voci che uccidono «il fratello e la sorella con la lingua».

D.E. Viganò, Il brusio del pettegolo. Forme del discredito nella società e nella Chiesa, EDB, Bologna 2016, pp. 80, € 7,00

Il Vangelo secondo Stephen KingAlla ricerca dei segni biblici, in particolare apocalittici, che tra-

sudano, anche con ironia e sarcasmo, da ogni pagina di Stephen King, Alessandro Tenaglia rilegge i romanzi horror del popolaris-simo scrittore americano di famiglia metodista mettendo al centro la sua opera più emblematica, quella sorta di apocalisse che è It.

Attraverso la narrazione acuta e sensibile di situazioni realistiche e personaggi verosimili, l’opera horror di Stephen King contiene, per Alessandro Tenaglia, una complessa trama di significati, molti dei quali di risonanza biblica, in particolare apocalittica.

Ciò vale soprattutto per It, opera centrale della sua produzione e nome con cui i sette amici protagonisti chiamano il «baratro vivido di non-luce», quel mostro multiforme collegato ai fantasmi più interiorizzati e personali di ciascuno di loro e di noi.

L’architettura e la simbologia del romanzo raccontano il confronto con il male che si annida ovunque e la possibilità di credere – attraverso un grande viaggio di svelamento e il compimento di tempi e destini – in un Dio oltre il male stesso.

A. Tenaglia, Il Vangelo secondo Stephen King, Claudiana, Torino 2016, pp. 133, € 14.90

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Recensioni e commenti

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Viaggio nella vita religiosaA conclusione dell’Anno della Vita Consacrata indetto da papa

Francesco, la Libreria Editrice Vaticana pubblica un volume che raccoglie 14 conversazioni con i superiori di diversi Istituti religiosi. Viaggio nella vita religiosa, del giornalista Riccardo Benotti, è un cammino tra i carismi della Chiesa alla scoperta di un mondo assai variegato.

I superiori intervistati entrano nella loro vita privata e raccon-tano cosa significhi compiere una scelta definitiva come quella della consacrazione, confrontandosi con le difficoltà e le sfide del tempo presente. Nel dialogo franco con l’autore, non mancano i ri-ferimenti a temi delicati – abusi, clericalismo, gestione del denaro,

omosessualità tra i religiosi, crisi delle vocazioni, rapporto con l’islam, ruolo dei laici – o la riflessione su momenti storici importanti che gli Istituti stanno attraversando come nel caso dei Francescani.

R. Benotti, Viaggio nella vita religiosa, LEV, Città del Vaticano, pp. 234, € 15

Diventare grandi all’epoca degli schermi digitaliA che età e con quali modalità conviene introdurre gli “schermi”

– della televisione, del videogioco, del computer – nella vita dei bambini? A quanti anni i nostri ragazzi possono usare internet o i social network come Facebook? Come riusciamo ad aiutarli a vivere queste relazioni virtuali e a distinguerle dalla vita reale, ad esempio quanto a rappresentazione di sé e degli altri, intimità, rispetto? Quali regole servono per fare una buona educazione digitale? A queste ed altre diffuse domande risponde il libro-manifesto dello psichiatra e psicologo Serge Tisseron imperniato sulla collaudata formula 3-6-9-12 che indica quattro tappe fondamentali: 3 anni, l’entrata nella scuola dell’infanzia; 6 anni, la primaria; 9 anni, l’incontro con la lettoscrittura; 11-12 anni, il passaggio alla scuola secondaria.

Così come esistono regole per introdurre nella dieta del bambino latticini, verdure e carne, allo stesso modo è possibile immaginare una “dietetica” degli schermi, per imparare a usarli correttamente. Rinunciando a due tenta-zioni: idealizzare queste tecnologie e demonizzarle. Un testo per compren-dere nodi educativi sempre più centrali. Ma, attenzione, Tisseron non dice a genitori, insegnanti, educatori, tutto quello che devono fare consentendo loro di stare tranquilli. Offre loro, sì, indicazioni importanti, ma pure li invita a mobilitarsi, a capire, a passare tempo osservando figli e allievi, compren-dendone bisogni e paure.

P. C. Rivoltella (a cura di), 3-6-9-12: Diventare grandi all’epoca degli schermi digitali, Editrice la Scuola, Brescia 2016, pp. 154, € 11

Recensioni e commenti

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MAGISTERO

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Cari fratelli e sorelle,grazie per la vostra accoglien-

za! Ringrazio sua eccellenza mons. Zygmunt Zimowski per il cortese sa-luto che mi ha rivolto a nome anche di tutti i presenti, e do il mio cordiale benvenuto a voi, organizzatori e par-tecipanti di questa trentesima Confe-renza Internazionale dedicata a “La cultura della salus e dell’accoglienza al servizio dell’uomo e del pianeta”. Un grazie sentito a tutti i collaborato-ri del Dicastero.

Molteplici sono le questioni che verranno affrontate in questo ap-puntamento annuale, che segna i trent’anni di attività del Pontificio Consiglio per gli Operatori Sanitari (per la Pastorale della Salute) e che coincide anche con il ventesimo an-niversario della pubblicazione della Lettera enciclica Evangelium vitae di san Giovanni Paolo II.

Proprio il rispetto per il valore della vita, e, ancora di più, l’amore per essa, trova un’attuazione insosti-tuibile nel farsi prossimo, avvicinarsi, prendersi cura di chi soffre nel corpo e nello spirito: tutte azioni che ca-

ratterizzano la pastorale della salute. Azioni e, prima ancora, atteggiamenti che la Chiesa metterà in speciale risal-to durante il Giubileo della misericor-dia, che ci chiama tutti a stare vicino ai fratelli e alle sorelle più sofferenti. Nella Evangelium vitae possiamo rin-tracciare gli elementi costituitivi della “cultura della salus”: cioè accoglien-za, compassione, comprensione e per-dono. Sono gli atteggiamenti abituali di Gesù nei confronti della moltitudi-ne di persone bisognose che lo avvi-cinava ogni giorno: malati di ogni ge-nere, pubblici peccatori, indemoniati, emarginati, poveri, stranieri… E cu-riosamente questi, nella nostra attua-le cultura dello scarto sono respinti, sono lasciati da parte. Non contano. È curioso… Questo cosa vuol dire? Che la cultura dello scarto non è di Gesù. Non è cristiana.

Tali atteggiamenti sono quelli che l’Enciclica chiama “esigenze positive” del comandamento circa l’inviolabili-tà della vita, che con Gesù si manife-stano in tutta la loro ampiezza e pro-fondità, e che ancora oggi possono, anzi devono contraddistinguere la

Agli operatori sanitariDiscorso del santo padre Francesco del 19 novembre 2015 ai partecipanti alla Conferenza internazionale promossa dal Pontificio Consiglio per gli operatori sanitari (per la pastorale della salute)

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pastorale della salute: esse «vanno dal prendersi cura della vita del fratello (familiare, appartenente allo stesso popolo, straniero che abita nella terra di Israele), al farsi carico dell’estra-neo, fino all’amare il nemico» (n. 41).

Questa vicinanza all’altro - vici-nanza sul serio e non finta - fino a sentirlo come qualcuno che mi ap-partiene - anche il nemico mi ap-partiene come fratello - supera ogni barriera di nazionalità, di estrazione sociale, di religione…, come ci inse-gna il “buon samaritano” della para-bola evangelica. Supera anche quella cultura in senso negativo secondo la quale, sia nei Paesi ricchi che in quelli poveri, gli esseri umani vengo-no accettati o rifiutati secondo criteri utilitaristici, in particolare di utilità so-ciale o economica. Questa mentalità è parente dalla cosiddetta “medicina dei desideri”: un costume sempre più diffuso nei Paesi ricchi, caratterizza-to dalla ricerca ad ogni costo della perfezione fisica, nell’illusione dell’e-terna giovinezza; un costume che in-duce appunto a scartare o ad emargi-nare chi non è “efficiente”, chi viene visto come un peso, un disturbo, o che è brutto semplicemente.

Ugualmente, il “farsi prossimo” - come ricordavo nella mia recente Enciclica Laudato si’ comporta anche assumerci responsabilità inderogabi-li verso il creato e la “casa comune”,

che a tutti appartiene ed è affidata alla cura di tutti, anche per le gene-razioni a venire.

L’ansia che la Chiesa nutre, infat-ti, è per la sorte della famiglia uma-na e dell’intera creazione. Si tratta di educarci tutti a “custodire” e ad “amministrare” la creazione nel suo complesso, quale dono consegnato alla responsabilità di ogni generazio-ne perché la riconsegni quanto più integra e umanamente vivibile per le generazioni a venire. Questa conver-sione del cuore al “Vangelo della cre-azione” comporta che facciamo no-stro e ci rendiamo interpreti del grido per la dignità umana, che si eleva soprattutto dai più poveri ed esclu-si, come molte volte sono le persone ammalate e i sofferenti. Nell’immi-nenza ormai del Giubileo della mise-ricordia, questo grido possa trovare eco sincera nei nostri cuori, cosicché anche nell’esercizio delle opere di misericordia, corporale e spirituale, secondo le diverse responsabilità a ciascuno affidate, possiamo accoglie-re il dono della grazia di Dio, mentre noi stessi ci rendiamo “canali” e testi-moni della misericordia.

Auspico che in queste giornate di approfondimento e dibattito, in cui considerate anche il fattore ambien-tale nei suoi aspetti maggiormente legati alla salute fisica, psichica, spiri-tuale e sociale della persona, possiate

MAGISTERO

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a cura della Redazione

contribuire ad un nuovo sviluppo del-la cultura della salus, intesa anche in senso integrale. Vi incoraggio, in tale prospettiva, a tenere sempre presen-te, nei vostri lavori, la realtà di quelle popolazioni che maggiormente su-biscono i danni provocati dal degra-do ambientale, danni gravi e spesso permanenti alla salute. E parlando di questi danni che vengono dal degra-do ambientale, per me è una sorpre-sa trovare – quando vado in Udienza il mercoledì o vado nelle parrocchie – tanti malati, soprattutto bambini… Mi dicono i genitori: “Ha una malat-tia rara! Non sanno cosa sia”. Queste malattie rare sono conseguenze della malattia che noi facciamo all’ambien-te. E questo è grave! […]

Al Comitato Nazionale per la Bioetica Discorso del santo padre Francesco al Comitato Nazionale per la Bioetica il 28 gennaio 2016

Illustri Signori e Signore, […] si tratta, in sostanza, di servire l’uomo, tutto l’uomo, tutti gli uomini e le donne, con particolare attenzione e cura – come è stato ricordato – per i soggetti più deboli e svantaggia-ti, che stentano a far sentire la loro voce, oppure non possono ancora, o non possono più, farla sentire. Su

questo terreno la comunità ecclesiale e quella civile si incontrano e sono chiamate a collaborare, secondo le rispettive, distinte competenze.

Codesto Comitato ha più vol-te trattato il rispetto per l’integrità dell’essere umano e la tutela della sa-lute dal concepimento fino alla mor-te naturale, considerando la persona nella sua singolarità, sempre come fine e mai semplicemente come mez-zo. Tale principio etico è fondamen-tale anche per quanto concerne le applicazioni biotecnologiche in cam-po medico, le quali non possono mai essere utilizzate in modo lesivo della dignità umana, e nemmeno devono essere guidate unicamente da scopi industriali e commerciali.

La bioetica è nata per confronta-re, attraverso uno sforzo critico, le ragioni e le condizioni richieste dalla dignità della persona umana con gli sviluppi delle scienze e delle tecno-logie biologiche e mediche, i quali, nel loro ritmo accelerato, rischiano di smarrire ogni riferimento che non sia l’utilità e il profitto.

Quanto sia arduo a volte indivi-duare tali ragioni e in quanti diver-si modi si cerchi di argomentarle lo si evince dagli stessi pareri formulati dal Comitato Nazionale per la Bioe-tica. E dunque l’impegnativo lavoro di ricerca della verità etica va ascritto a merito di quanti vi hanno operato,

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tanto più in un contesto segnato dal relativismo e poco fiducioso nelle ca-pacità della ragione umana. Voi siete consapevoli che tale ricerca sui com-plessi problemi bioetici non è facile e non sempre raggiunge rapidamen-te un’armonica conclusione; che essa richiede sempre umiltà e realismo, e non teme il confronto tra le diverse posizioni; e che infine la testimonian-za data alla verità contribuisce alla maturazione della coscienza civile.

In particolare, vorrei incoraggiare il vostro lavoro in alcuni ambiti, che brevemente richiamo.

1. L’analisi interdisciplinare delle cause del degrado ambientale. Au-spico che il Comitato possa formu-lare linee di indirizzo, nei campi che riguardano le scienze biologiche, per stimolare interventi di conservazione, preservazione e cura dell’ambiente. In questo ambito è opportuno un confronto tra le teorie biocentriche e quelle antropocentriche, alla ricerca di percorsi che riconoscano la cor-retta centralità dell’uomo nel rispetto degli altri esseri viventi e dell’intero ambiente, anche per aiutare a defini-re le condizioni irrinunciabili per la protezione delle generazioni future. Uno scienziato un po’ amareggiato e

scettico, una volta che dissi questa cosa circa la protezione delle gene-razioni future, mi rispose cosi: “Mi dica, Padre, ce ne saranno?”.

2. Il tema della disabilità e del-la emarginazione dei soggetti vul-nerabili, in una società protesa alla competizione, all’accelerazione del progresso. È la sfida di contrastare la cultura dello scarto, che ha tante espressioni oggi, tra cui vi è il trattare gli embrioni umani come materiale scartabile, e così anche le persone malate e anziane che si avvicinano alla morte.

3. Lo sforzo sempre maggiore ver-so un confronto internazionale in vi-sta di una possibile ed auspicabile, anche se complessa, armonizzazione degli standard e delle regole delle attività biologiche e mediche, regole che sappiano riconoscere i valori e i diritti fondamentali.

Infine esprimo il mio apprezza-mento perché il vostro Comitato ha cercato di individuare strategie di sensibilizzazione dell’opinione pub-blica, a partire dalla scuola, su que-stioni bioetiche, ad esempio per la comprensione dei progressi biotec-nologici. ■

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• Atti del V Convegno Ecclesiale Nazionale di Firenze. “In Gesù Cristoil nuovo umanesimo” (seconda parte) • Uscire Sintesi e proposte • Annunciare Sintesi

e proposte • Abitare Sintesi e proposte • Educare Sintesi e proposte • Trasfigurare Sintesi e proposte • Prospettive • Smascherare il dolore: Luigi Novarese pioniere nel mondo

della sofferenza • Dalla prevenzione all’educazione. La sfida della culturadella prevenzione e della salute (prima parte) • Dino Ciccanti, una gioia contagiosa• Abbiamo letto per voi - Elogio della fragilità • Spunti per la lettura • Magistero

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