L’ALPINISTA - IL SOLDATO...ALPI GIULIE - ANNO 112 - N. 2/2018 Semestrale ISSN 0391-4828 Società...

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ALPI GIULIE Anno 112 - N. 2/2018 Poste Italiane S.p.A. - Spedizione in Abbo- namento Postale - Tariffa pubblicazioni in- formative no-profit - DL 353/2003 conv. in L.27/02/2004 n.46 art.1,comma 2,DBCTrieste. DAI DIARI DI DOUGAN L’ALPINISTA - IL SOLDATO

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ALPI GIULIE - ANNO 112 - N. 2/2018Semestrale ISSN 0391-4828

Società Alpina delle GiulieVia Donota 2 - 34121 Trieste

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La guida del Montasio del 1932Neg. Andrea Orlini

Flavio Ghio è nato a Trieste nel 1951. Lau-reato in fi losofi a, si è specializzato in meto-dologie autobiografi che presso la Libera Università dell’Autobiografi a di Anghiari. Alpinista, ha ripetuto diverse vie classiche, aperto alcune vie nuove, tra cui la via dei Fachiri alla Cima Scotoni seguendo Enzo Cozzolino, e arrampicato in solitaria.

Vladimiro Dougan

ALPI GIULIEAnno 112 - N. 2/2018

Poste Italiane S.p.A. - Spedizione in Abbo-namento Postale - Tariffa pubblicazioni in-formative no-profi t - DL 353/2003 conv. in L. 27/02/2004 n. 46 art. 1, comma 2, DBC Trieste.

DAI DIARI DI DOUGANL ’ A L P I N I S T A - I L S O L D A T O

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Società Alpina delle GiulieVia Donota 2 - 34121 Trieste

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La guida del Montasio del 1932Neg. Andrea Orlini

Flavio Ghio è nato a Trieste nel 1951. Lau-reato in fi losofi a, si è specializzato in meto-dologie autobiografi che presso la Libera Università dell’Autobiografi a di Anghiari. Alpinista, ha ripetuto diverse vie classiche, aperto alcune vie nuove, tra cui la via dei Fachiri alla Cima Scotoni seguendo Enzo Cozzolino, e arrampicato in solitaria.

Vladimiro Dougan

ALPI GIULIEAnno 112 - N. 2/2018

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SOMMARIO

Prefazione di Mauro Vigini 7

Cronologia 9

Prima parte - L’alpinista 13

Montagna e storia in Vladimiro Dougan 14

Ritrovare l’alpinismo perduto 19

Dai diari 23

Dal monte Maggiore alla Cengia degli Dei 23

Cengia degli Dei o via Eterna? 34

Il ritorno a casa 44

La passione per il mare 44

Di nuovo sui monti 50

Il rifugio Pellarini 59

Il Cimone 62

La lente sulla scrittura di Dougan 76

Dopo i diari 80

Gli articoli per “Alpi Giulie” 83

Dougan e il GARS 87

Le spedizioni 94

Vie nuove aperte da Dougan e riportate nei taccuini 105

Seconda parte - Il soldato 109

Miro Dougan, il soldato riluttante di Lucio Fabi 111

La guerra di Miro 115

La notizia dell’ultimatum 115

Tra Montasio e Jòf Fuart 118

L’attrezzatura della gola NE 120

L’inverno del 1915 124

Alpinisti soldati o soldati alpinisti? 130

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Sull’Enzianturm 132

La Capanna Scotti 135

Una cengia di guerra 146

Una nuova destinazione 152

Caporetto 156

Conclusioni 169

Diari e tempo 169

Bibliografia 173

ALPI GIULIEEdita dal 1896Anno 112 - N. 2/2018

Rassegna di attività della Società Alpina delle Giulie - Sezione di Trieste del Club Alpino Italiano - Direttore responsabile: Mario Privileggi • Redazione: Sergio Duda, Giorgio Sandri • Direzione, Redazione e Corrispondenza: Società Alpina delle Giulie (ISSN 0391-4828) - Via Donota, 2 - 34121 Trieste - Telefono 040 630464 - Fax 040 3491028 - E-mail: [email protected] • Registrato al Tribunale di Trieste al nr. 357 • Spedizione in abbonamento postale D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 nr. 46) art. 1, comma 2, DBC Trieste •Tariffapubblicazioni informativeno-profit. -Poste ItalianeS.p.A. • Tutti i diritti riservati • Fotocomposizione e stampa: F&G Prontostampa sas - Trieste

Realizzazione della copertina a cura di Chiara ScrignerTutte le foto salvo diversa indicazione provengono dagli archivi S.A.G. Da ricerche fatte non sono stati trovati eredi. Pubblicazione non a scopo di lucro.

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PREFAZIONEMauro Vigini Presidente della S.A.G.

Prevale la mancanza, direbbe Flavio Ghio.La mancanza di fatti, circostanze, contesti, conoscenze. Ma anche la mancanza di congetture, di ipotesi, di fantasie.Qualche fotografia in bianco e nero o virato seppia, non troppo a fuoco, un volto che si riesce a indovinare più che intravedere, una figura snella. È tutto quello che abbiamo di Vladimiro Dougan, alpinista. È tutto quello che ci restituisce il film, meditato pazientemente da Flavio Ghio e Giorgio Gregorio “Domandando di Dougan”, che abbiamo presentato un anno fa al Teatro Miela insieme alla con-sorella Associazione XXX Ottobre, alla Società Alpinistica Slovena di Trieste - Slovensko Planisko Društvo Trst e all’associazione Monte Analogo.Il lavoro, di cui siamo profondamente grati agli autori, rende in maniera magistrale il fascino creato dalla mancanza.Chi è l’uomo dalla figura snella dietro il volto sgranato delle foto? Quali erano i suoi sentimenti, le sue aspirazioni, le sue paure? Con quale spirito, quale disposizione d’animo si è ritrovato alla base delle sue montagne, prima di accingersi alla salita? E il suo alpinismo è stato una scelta voluta e consapevole o vi si è arreso con naturale inevitabilità?Non lo sappiamo, e tuttavia il film è un lampo di luce che illumina improvvisamente il buio della nostra consapevolezza e ci parla di un uomo, un alpinista, di etnia slovena vissuto un secolo fa. Un grande alpinista, che si inserisce e continua nel solco dell’alpinismo esplorativo, poetico e nascosto di Kugy e tuttavia si muove su terreno difficile con un’abilità tecnica forse paragonabile - udite, udite - ai grandi degli anni ‘20 e ‘30. Un uomo, una storia se non ignota, di sicuro dimen-ticata, adesso restituita alla sua Società, al mondo alpinistico, alla città.Ebbene, a distanza di un anno, con questo numero di “Alpi Giulie” arriva un secondo, più potente squarcio di luce. Con un colpo di scena di quelli che talvolta riserva la storia, dopo decenni di oblio e ad appena un paio di mesi dal film di Gregorio e Ghio arriva la notizia che la casa torinese Bolaffi mette all’asta cinque diari autografi di Dougan e alcuni album di foto dell’epoca. Il seguito è emozionante: l’autorizzazione del Consiglio direttivo, la partecipazione all’asta in-formatica e telefonica, la gara col cuore in gola contro un competitore che resterà ignoto, che rilancia sempre e si arrende solo quando alziamo l’offerta oltre il tetto stabilito dal Direttivo (e sarebbe stato l’ultimo rilancio) la soddisfazione, l’arrivo dei diari a Trieste, la tutela da parte della Soprintendenza e poi la lunga minuziosa analisi dei testi ancora di Ghio, l’acquisizione e riprodu-zione delle foto d’epoca da parte di Amanda Vertovese, cui va un doveroso ringraziamento, da estendere alla redazione di “Alpi Giulie”, in particolare al direttore Mario Privileggi, allo storico Lucio Fabi, alla grafologa Marcella Meng, al bibliotecario Sergio Duda e a Daniela e Paola della Segreteria.Ora “Alpi Giulie” è fra le vostre mani e Dougan risale attraverso i decenni e vi parla con la sua lingua e il suo modo di esprimersi, ben evidenziato dal commento.Con questo numero speciale l’Alpina scioglie un debito nei confronti di un suo socio illustre e

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valoroso, di cui gli studiosi potranno dire, sulla base del materiale acquisito, il valore e le parti-colarità.Un’ultima notazione. Sono stato socio della S.A.G. anche nei difficili anni ’80 e ricordo bene il clima di quegli anni, in cui un’operazione storiografica come quella che viene compiuta oggi, sa-rebbe stata più difficile. Sono fortunato a esserne Presidente oggi, in anni in cui, deposte le armi della polemica, possiamo dedicarci con piena libertà a studiare e ricordare l’attività e la figura di Dougan e lasciarci trasportare dal fascino senza tempo che emana la sua storia.

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CRONOLOGIA

16 marzo 1891: Nasce a Trieste Vladimiro Dougan, figlio di seconde nozze di Antonio, impiegato delle ferrovie e Luigia Debelak, casalinga di anni ven-titré. È il secondo di tre fratelli, gli altri due muoiono in età infantile (a tre e a un anno) cosa non infrequente in quegli anni. Antonio è padre di otto figli, cinque maschi e tre femmine. Viene battezzato a Roiano nella chiesa Sant’Er-macora e Fortunato. Frequenta la scuola: quattro popolari e tre reali. Nei diari scrive:“Si andava a Vrem dall’amico Max che andava a scuola con papà e il figlio a Lubiana con me.”1908: Inizia a scrivere i taccuini annotando la sua prima ascensione: luglio, Monte Maggiore m. 1396, salito da Lupoglava.1909: Primo incontro con Kugy: sul Črna Prst d’inverno. In seguito Kugy lo inviterà a seguirlo nelle Caravanche, nel Delfinato, nelle Giulie.1910: Il suo nome è nell’elenco soci della Società Alpina delle Giulie. Maggio: Sale l’Hochstuhl, la prima cima raggiunta assieme a Kugy. Giugno: Sale la Schwalbenspitze. La sua prima arrampicata, invitato da Kugy che ha con sé la guida Anton Oitzinger. Lavora come impiegato ai Magazzini Generali.1912: Visita di leva, è dimissionato.1914: Prima traversata, con Pesamosca della cengia degli Dei dal Riofreddo. Viena così raggiunta la cima dello Jòf Fuart partendo da un altro versante. Questa impresa avrà grande risonanza nell’ambiente alpinistico.1915: Viene dichiarato abile al servizio militare nell’esercito A.U. Nel settem-bre del ’15, presta servizio nella 59a Hochgebirgscompagnie di stanza a Cam-porosso-Saifnitz. Partecipa a diverse azioni sul fronte del Montasio e dello Jòf Fuart. Con le guide Dibona e Innerkofler attrezza la gola N.E. per rifornire il presidio sulla cima del Jòf Fuart. Dal 27 Settembre 1917 al 25 Aprile 1917 partecipa al presidio stabile della cima dello Jòf Fuart comandato dal s.ten Klauer assieme a Lorenz, Schwarz, Slatko e Radilovich. Viene decorato con la medaglia d’argento di seconda classe e il grado di Gefreiter.1917: Collabora con Kugy, come guida, alla scuola di roccia a Soča, presso la 93a divisione fanteria.

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23 maggio 1918: Dougan rientra a Trieste, viene congedato per i suoi problemi di salute.1920: Sposa Lea Kulot, diciassettenne figlia di Giuseppe e Carolina Zors. Per problemi di salute Dougan non potrà andare in montagna poi lentamente ritornerà a frequentarla.1923: Si riscrive all’Alpina.1924: “Alpi Giulie”, la rivista della SAG pubblica un suo primo articolo “Salita invernale dello Steinerner Jäeger”, con la moglie, sua compagna in tante ascensioni. 1925: Ultimo resoconto sui diari: la salita del Lyskamm con la moglie Lea.1929: È tra i fondatori del GARS, il Gruppo Alpinisti Esploratori e Sciatori dell’Alpina delle Giulie. Entra nel Club Alpino Accademico Italiano.1929: Progetta e realizza con Andrea Pollitzer la prima spedizione triestina sul Caucaso estremo limine tra Europa e Asia. Spedizione leggera e autofinanziata. Sale la cima dell’Elbruz da solo, dopo un bivacco nella bufera a 5000 metri e altre cime del Caucaso.Abita nel Rione di Roiano; negli anni ‘30 risulta residente in Viale Regina Elena, 17 (ora Viale Miramare) al quarto piano. Qualche numero prima, al 15, per diverso tempo abiterà anche Kugy, tornato a Trieste dopo essersi congedato nel luglio del 1918.1931: Appare a puntate su “Alpi Giulie” il suo resoconto della spedizione in Caucaso. Sarà l’ulti-mo articolo scritto da Dougan.1932: Esce il libro di Pollitzer “Montagne bianche e uomini rossi” in cui viene raccontata la spe-dizione in Caucaso. La Società Alpina della Giulie pubblica la guida di Dougan e Marussi sul Gruppo del Montasio, frutto della sua lunga e intensa attività alpinistica ed esplorativa. Spedizione in Alto Atlante con Pollitzer e Botteri. 1933: parte con Pollitzer per una spedizione in Fennoscandia - prima traversata con Faltboat (canoa smontabile) dal mar di Barents al lago Inari e poi alternando strada a navigazione fino a Rovaniemi.1936: Ultima annotazione sui taccuini: 29 agosto salita del monte Auremiano.1943: Esce l’ultimo libro Kugy, “Dal Tempo passato” con un capitolo sull’Elbruz che riporta parte della relazione di Dougan apparsa su “Alpi Giulie”.7 aprile 1955: muore, colpito qualche anno prima da una malattia che ne aveva minato il fisico allontanandolo dai monti. Gli è vicino l’amico e compagno di arrampicate Andrea Pollitzer.

Il dopo

1956: Esce il libro di Vatta e Botteri “Aspri Sentieri” in cui Botteri racconta delle salite fatte con Dougan nelle Alpi Clautane nel 1928 e della spedizione sui monti dell’Alto Atlante nel 1932.1957: Carlo Chersi, nella sua “Guida del Carso Triestino” ricorda Vladimiro Dougan scrivendo quel necrologio annunciato su “Alpi Giulie” e non pubblicato.

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1960: Esce su “Alpi Giulie” un ricordo di Dougan scritto da Giorgio Brunner.Negli anni settanta, Lea Kulot lascia Trieste per trasferirsi ad Arco 2005: Nel cinquantesimo anniversario della morte, Dario Marini commemora Dougan su “Alpini-smo Gorizano”.Carlo Tavagnutti e alcuni soci del CAI di Gorizia collocano una targa a Forcella Buinz.2012 Esce il film di Samantha Faccio “Vie di pace” in cui viene narrato un episodio accaduto sulla Cengia degli Dei durante la Grande Guerra che coinvolgerebbe Dougan e Pesamosca arruolati in eserciti nemici.2016: Le Alpi Venete pubblicano un articolo di Flavio Ghio su Dougan.2017 dicembre: Esce il film “Domandando di Dougan”- regia di Giorgio Gregorio, testo di Flavio Ghio - che presenta Dougan come figura del desiderio dentro una storia perduta. Il film vince il premio Scabiosa Trenta, Alpi Giulie Cinema 2018. 2018 febbraio: Inaspettatamente i diari, i taccuini, quattro album fotografici e tre libri appartenuti a Dougan sono banditi dalla casa d’aste Bolaffi. Vengono acquistati dalla Società Alpina delle Giulie; si apre così una nuova possibilità di rendere a Dougan la memoria e la storia che gli sono state rubate.

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Parte prima

L’ALPINISTA

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Montagna e storia in Vladimiro Dougan

Credo che ricordare un grande alpinista sia una bella azione, un atto che sollecita l’interesse degli appassionati.Così, in buona fede, si guarda al valore morale del ricordare più che alla

persona ricordata, dentro un meccanismo che privilegia il rito del rimemorare.Questo scambio dei fini si può evitare agganciando la storia della persona

alla realtà in cui è vissuta, invece di idealizzarla in un mondo separato reso accessibile dal cerimoniale.

Così il ricordato non sarà un elemento isolato come un albero visto dal finestrino di un treno ma un compagno di viaggio che ha vissuto direttamente ciò di cui si è sentito solamente parlare.

Vladimiro Dougan (al centro) durante un’escursione.

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Allora il ricordo si fa dialogo a più voci, “multi-logo”; nuovo ponte tra “qui e ora” e “lì e allora”.Ma Dougan può essere paragonabile per grandezza, ai Kugy, ai Cozzi, ai Comici?Se la grandezza dipendesse dalla quantità di scritti e di immagini disponibili, certamente no.È questa la realtà?Questo saggio su Dougan è una sfida volta a rovesciare tale pregiudizio e non per aggiungere

il suo nome all’elenco dei grandi ma per avvicinarsi alla sua unicità.

Dougan comincia a frequentare la montagna armato solo di passione, ottenendo la stima dei suoi contemporanei per la propria capacità, senza ostentarla, al punto da essere definito dal Can-tore delle Giulie, Julius Kugy: “schietto, quieto, modesto” e dall’imprenditore illuminato Andrea Pollitzer, suo compagno di cordata: “persona coraggiosa, fiera, leale”.

È strano che una persona, la cui fama tra i suoi concittadini era pari a quella dei più illustri alpinisti, sia scomparsa dalla scena al punto da essere, oggi, ignoto ai più.

Cancellare un grande alpinista non danneggia solo la sua persona, è una ferita alla storia e ogni tentativo di restituirgli il posto che gli spetta è velleitario se nello stesso tempo non viene riparato anche il danno fatto alla storia.

Se con l’uomo è stata cancellata anche una parte di storia, il solo inizio possibile è partire dall’attrazione che la montagna esercita su di noi e a cui rispondiamo con una “filoalpinia” che, estrinsecandosi in modi diversi, resta il fondamento di tutto.

A partire da questo fondamento ogni generazione ha cercato i suoi alpinisti e i suoi ideali per poi raccontarli più o meno appro-fonditamente.

Se proviamo a rendere tutto questo con un’ immagine, vedia-mo che ogni tappa sulla scala delle difficoltà è simile ad una stella at-torno alla quale gravitano gli alpi-nisti, alcuni vicini, altri più lontani ma tutti illuminati dalla medesima luce, finché non nasce un’altra stella che diventa il nuovo centro dell’Universo.

Il sovrapporsi dell’aspetto cul-turale del grado sull’originale at-trazione per la montagna si è fatto sempre più sistematico.

Nel tempo di Dougan questo fenomeno compare per la prima volta; la “filoalpinia”, amore per la dimensione verticale del mon-do iniziava ad essere schiacciata dal “filogradismo”, amore per la misurazione e la classificazione, e lui pagò con l’oblio questo ribalta-mento di valori. Album Vladimiro Dougan.

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La montagna è stata smontata e rimontata secondo il dettato della nuova scala della difficoltà: questo ha fatto sì che agli occhi degli alpinisti la montagna del terzo grado venisse coperta da quella del quarto, questa a sua volta scavalcata da quella del quinto e questa eclissata da quella del sesto, poi del settimo e così avanti.

Questo rivestimento di gradi e valori ha accelerato l’invecchiamento della montagna dato che essi sono legati al tempo più delle lancette dell’orologio.

Oggi è lecito pensare che in futuro la montagna non potrà più offrire qualcosa di congruo con le difficoltà generate dalle strutture artificiali progettate per sollecitare oltremisura l’equilibrio umano.

Spezzato così il legame tra misura e montagna, avrà ancora senso salire una cima? L’incenso dei media si trasferirà ad impregnare l’aria di nuovi templi dell’arrampicata?

Come la dea ragione aveva cancellato gli dei dalle cime delle montagne, il dio progresso allontanerà anche gli uomini?

Se questa è la tendenza, Dougan sembra l’ultimo dei mohicani: dopo di lui, gli alpinisti non sarebbero andati in montagna spinti dall’ineffabile spirito d’avventura, inintegrabile e anarchico ma ne avrebbero formato uno, più disciplinato, di apollinea e chiara misurabilità in palestra.

Più della vastità dell’ambiente incanterà il desiderio di applicare nel vasto quanto sperimen-tato in vitro.

Il sesto grado diventa la via regia per l’essenza della montagna e attraverso la stampa sportiva di massa e la propaganda politica l’impresa si fa esperienza collettiva.

Il culto dell’estremo stava eclissando quel senso della montagna che i pionieri avevano appre-so dai pastori, dai cacciatori e dalla gente che abitava la montagna da generazioni.

Questa è la testimonianza di Dougan anche se non la esplicita verbalmente. A questo cambiamento si è inchinato Kugy, il mentore di Dougan. Scrivendo una trilogia au-

tobiografica intrisa di nostalgia ha, suo malgrado, sdoganato la nuova narrazione che decretava l’invecchiamento anche della passione oltre a quello, scontato del corpo.

Su questa strada Dougan non l’ha seguito, non ha portato la sua passione al macero. È rimasto da solo a competere col tempo, fermo nella terra di nessuno racchiusa fra due regni; quello del passato in cui l’ingresso nella storia era legato alla passione per la montagna1 e quello del futuro in cui si iniziava ad usare metodi oggettivi per confrontare le ascensioni fra loro.

Libro Ascensioni del GARS: Cima De Gasperi: via Benedetti-Zanutti, VI grado Scala di Monaco.

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La passione, vista nella sua dismisura dionisiaca, veniva ridotta a una questione privata, e di fatto usciva di scena.

Dougan ha voluto continuare il suo percorso, sottraendolo alla classificazione altrui. La rispo-sta è stata la sua emarginazione dalla storia.

La storia avrebbe potuto accoglierlo se si fosse conformato al nuovo canone e avesse, come Kugy, piegato il capo dichiarando la sconfitta del suo modo di andare in montagna. Per la sua riluttanza Dougan è diventato un senza tetto della storia.

Furono le idee vincenti di allora a definire il perimetro di una memoria che lo ha rimosso.Dougan è il tempo imperfetto della storia che denuncia la forzatura del rinchiudere la selvati-

chezza della montagna nella gabbia dorata del grado; questa parte è stata imbrigliata per il pia-cere di vederla muoversi con la malinconica lentezza dei levrieri frenati dal guinzaglio dai padroni.

All’acme del suo viaggio Dougan è diventato un vascello fantasma per chi usava la bussola della scala di Monaco per solcare gli eventi.

La montagna di Dougan non è uno stadio per le imprese alpinistiche celebrate dalla stampa sportiva; basti pensare al ruolo svolto dal famoso giornalista sportivo Vittorio Varale a favore della battaglia del sesto grado.

E sarà sempre un altro giornalista sportivo, Emanuele Cassarà ad innescare la successiva svolta epocale, quella delle gare d’arrampicata. Era ovvio che nell’immaginario la montagna doveva subire un ridimensionamento. Nel documentario di Franco Fornaris, Cannabis Rock (2006) dichiarerà:“La montagna è un mucchio di pietre, la felicità o ce la porti tu sopra oppure lei non te la dà”.La montagna diventa una grande macchia di Rorschach, muta e fredda, su cui l’alpinista proietta la propria pallida psiche.

Dougan è stato fatto dimenticare per lo sfarinarsi di quello spirito alpinistico che Antonio Berti nel 1956, un anno dopo la morte di Dougan, sentiva ancora presente:

“Una storia dell’alpinismo genuino, di quello in cui la tecnica è solo un elemento per l’ele-vazione spirituale, deve citare con uguale onore, coloro che senza aver ambito, o avendo poco ambito i cimenti estremi, hanno, attratti dal richiamo delle bellezze divine del monte, indagato, esplorato studiato col cervello e col cuore, i gruppi, le cime.”A. Berti, Le Dolomiti Orientali vol.1 - parte Ia, CAI TCI, IV ed. Milano, 1972, pag. 56

Libro Ascensioni del Gars: Civetta via Comici-Bene-detti.

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Successivamente quell’onore non è stato tutelato, così il discorso ha avuto solo una rituale difesa d’ufficio prevista per un alpinismo divenuto figlio di un dio minore. Scrive Piero Rossi:

“Può darsi che molti alpinisti, che si sono distinti nell’alpinismo esplorativo, nella storiografia e nella letteratura alpinistiche, non abbiano mai colto grandi vittorie di rilevanza atletico sportiva anche a causa dei propri limiti fisici e psicologici… Reso così un doveroso omaggio a quella forma di alpinismo, che altri potrà definire mediocre, ma che, sinceramente, ci è anche la più cara, ci sembra di esserci tolto un peso dall’animo e di poter venire con più sincera e non condizionata ammirazione e partecipazione a rievocare le vicende degli anni legati soprattutto alle grandi af-fermazioni dell’alpinismo sportivo estremo.“ Piero Rossi in A. Bernardi, La grande Civetta, Zanichelli, Bologna 1971 pag.66-67

L’ipertrofia del grado ha causato uno scollamento tra passione per la Natura e le parole, imponendo una scelta tra la frequentazione silenziosa della montagna e il discorso affabulatore.

Una questione non semplice perché una montagna senza parole è vuota e un orecchio che sente solo i gradi di una scala è sordo.

Oggi un discorso che proponesse semplicemente un ritorno alle origini sarebbe inattuale. Così alpinisti fortissimi per profondo rispetto della montagna hanno scelto il silenzio preservando le loro imprese da ogni spettacolarizzazione mediatica.

È difficile oggi rifare l’apprendistato alpinistico di Dougan per il lungo tempo necessario a di-stillare i fiori dei sentieri, la neve delle cime, le orme dei camosci, i voli dei gracchi, le albe rosate e gli indecifrati tramonti e poter dire: tra me e questo mondo nessuna cesura.

Di Dougan parlano i libri di J. Kugy, di A. Pollitzer, di M. Botteri, di C. Chersi, gli articoli di G. Brunner, di D. Marini, di L. Santin ma anche quelli di M. Turk e di K. Pallasmann, rispettivamente sloveno e tedesco a ricordarci che Dougan interessa tutti, che la sua non è una questione locale e privata.

Sebbene Dougan finora abbia trovato sempre Saturno contrario, ha avuto la grande fortuna di essere accompagnato da una passione giovane come appena sbocciata e non vecchia e vizza come le tante che si sono affidate ad un grado per emergere sulle altre.

1. Del concetto di alpinismo come passione e della sua collocazione storica sono debitore a Giampaolo Valdevit “Storia dell’alpinismo triestino”, Mursia, Milano, 2018, pagg. 17-64 e passim.

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Ritrovare l’alpinismo perduto

Credo che perdere pezzi non sia il modo più giusto di scrivere la storia; allora conoscere Dougan diventa importante perché senza di lui la storia

dell’alpinismo è più misera.Ora, grazie ad un evento inaspettato c’è la possibilità di rovesciare il qua-

dro: l’Alpina delle Giulie, la società di cui Dougan fu socio, nel febbraio 2018, partecipando a una gara della casa d’aste Bolaffi, ha acquisito il lotto di Dou-gan consistente in quattro album fotografici, tre libri, tre taccuini di salite e due diari autografi, riportando questo materiale a Trieste e offrendo l’occasio-ne per conoscere un mondo perduto.

IlLotto66dell’astadaBolaffi.

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Il valore dei diari è conclamato; il Ministero dei Beni e delle Attività Culturali li ha dichiarati bene di interesse storico particolarmente importante.

Questo riconoscimento condanna il comportamento di chi ha evitato di tramandare la sua storia vuoi per ideologia, vuoi per opportunità, vuoi per indolenza intellettuale.

I diari - Libro I e Libro II - portano sulla prima pagina lo stesso titolo: Ricordi di salite alpine, escursioni, viaggi.

Non sono diari intimi o confessioni ma il racconto delle sue esplorazioni alpine e della sua vita di soldato sul fronte delle Giulie, che sarà argomento della seconda parte di questa monografia.

Nulla sappiamo della sua fine, del distacco dai monti causato dalla malattia, il suo scrivere fini-sce prima. Forse perché, come suggerisce Goethe, non dileguasse il delicato profumo del dolore.

Questa per noi è una perdita perché, le parole di chi, alla fine, gli è stato vicino, i Chersi, i Brunner, i Pollitzer, testimoniano che anche in quel momento, Dougan fu grande.

I diari ricordano i resoconti di viaggio che un tempo i nobili intraprendevano per mostrarsi degni della società cui appartenevano.

Qui, l’autore non è il nobiluomo, è un uomo del popolo che rompe il cliché che il destino gli aveva assegnato. Dougan è parte di quel popolo escluso che pensa ad un riscatto ottenuto non elemosinando attenzione ma partecipando attivamente alla cultura.

Se i diari fossero stati subito disponibili, per la forma con cui sono stati scritti, non avrebbero destato grande interesse perché non si era ancora consapevoli che non sta alla grammatica de-terminare la significatività o l’insignificatività di una vita.

Per fortuna ora c’è un nuovo interesse, dovuto anche alla svolta culturale operata da Saverio Tutino che a partire dal 1984, cosciente del valore storico e documentale della scrittura popolare l’ha affrancata dallo stato di minorità in cui si trovava e ha operato affinché fosse istituito l’Archivio Diaristico Nazionale di Pieve Santo Stefano il cui compito è di sostenere il valore documentale della scrittura popolare che normalmente non ha canali a disposizione per essere tramandata.

Nel nostro caso, la scrittura semplice e popolare di Dougan serve a capire che non è l’uomo a rendere grande la montagna ma è la montagna a rendere grandi i giorni dell’uomo.

Lo spirito di Dougan non fu inferiore a quello di borghesi benestanti come il dr. Kugy o l’avv. Bolaffio, o il dr. Pollitzer né la sua capacità arrampicatoria inferiore a quella delle guide Oitzinger e Pesamosca da cui erano soliti farsi accompagnare nelle Alpi Giulie, né di Joseph Crux o di Savoye di La Grave quando si recavano nelle Occidentali.

Dai diari traspare l’attrazione per un mondo dove tutto è nuovo, nulla è scontato, uno spazio dove il dentro e il fuori si mescolano: i nomi di luoghi e persone sono riportati a seconda del suo-no che Dougan percepisce a prescindere dalle regole grafiche.

Il suo è un parlare scritto, un’oralità inchiostrata, incurante di accenti, doppie, e i dialettismi come zigarette, bombaso, ventisello, merendare testimoniano e valorizzano tutta la spontaneità del vivere.

Per le stesse cime, forcelle, paesi, Dougan usa il tedesco, lo sloveno, l’italiano come quel mondo gli aveva insegnato.

Non ho voluto ridurre la nomenclatura presente ad una sola toponomastica. Mi è sembrato doveroso conservarne la pluralità per trasmettere, meglio di qualsiasi discorso, la koinè mitteleu-ropea presente nel suo stesso nome: Vladimiro, Vladimir e Wladimir; Dovgan e anche Dougan, pronunciato Dougan e anche Dugan.

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Inizialmente ho apportato qualche piccola modifica al testo per evitare che l’impatto della forma avesse il sopravvento, inducendo il lettore a considerare i diari una scrittura sgrammaticata e non una via di conoscenza.

Al principio i diari si presentano una grafia molto curata e formale, quasi che Dougan volesse imporsi un certo modo di scrittura e di espressione. Successivamente i contenuti prendono il sopravvento, Dougan butta sulla carta ciò che sente senza l’assillante controllo della forma. Lui, genuino e schietto, parlava bene quando parlava a se stesso.

Carlo Chersi scriveva: “Mai Miro Dougan ha scritto per esprimere la poesia che era in lui “.C. Chersi, Itinerari del Carso Triestino, Stabilimento Tipografico Nazionale, Trieste, 1967, pag. 20.

di certo non avrebbe immaginato che un giorno Dougan ci avrebbe parlato attraverso i suoi diari però nel modo adombrato da Umberto Saba nella poesia Trieste

“Se piace è come un ragazzaccio aspro e vorace, con gli occhi azzurri e mani troppo grandi per regalare un fiore; come un amore con gelosia.”

Se piace appunto quell’amore geloso, e così un giorno Julius Kugy chiese a quel ragazzaccio semplice in partenza per il Caucaso di salire pure l’Elbruz e di farlo anche per lui

“Sì, confermò Dougan nella sua semplicità. Sapevo che quel magnifico giovane, con quel

Vladimiro Dougan al centro.

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sì mi avrebbe recato l’Elbrus anche se fosse legato al cielo con catene” J. Kugy, Dal tempo passato, Adamo, Gorizia, 1982, pag. 55

Quasi che il compito fosse stato quello di andare in Caucaso per liberare Prometeo sebbene era nelle Alpi che iniziava a venire incatenato l’andare in montagna dei pionieri mentre laggiù, su quei monti lontani, viveva ancora in libertà.

Delle successive spedizioni Dougan non ha scritto nulla se non le scarne note dei taccuini.Forse alla fine, avrà ritenuto che davanti alla Natura, la scrittura perfetta è il silenzio.Per restituire ai diari il contesto in cui sono stati scritti li ho messi in relazione con gli scritti dei

suoi contemporanei perché ogni voce non sta per conto suo ma si manifesta nel legame con le altre. Inoltre, fatto non di non poco conto, assieme i diari sono stati recuperati anche degli album

fotografici appartenuti a Dougan.Il logocentrismo della nostra cultura induce a pensare che la memoria sia stata veicolata at-

traverso l’oralità nelle società arcaiche e attraverso la scrittura nelle società più evolute. Così cro-nache, diari, biografie, confessioni sono diventati gli strumenti attraverso cui ci sono pervenute le tracce delle vite passate.

Rispetto alla parola, l’immagine possiede una potenza rievocativa più forte, non bisogna scor-rere parola per parola tutto l’intreccio della storia per conoscere l’intero.

Attraverso l’immagine il tutto irrompe immediatamente come la luce del lampo. La potenza simbolica delle fotografie è enorme e tocca tasti emotivi sconosciuti al discorso.

Né dobbiamo sempre richiamarci alla tecnica e al progresso quali deus ex machina per con-cludere l’analisi prima di averla affrontata.

La forza dell’immagine era cosa nota anche quando la fotografia era ancora di là da venire, altrimenti Aristotele non avrebbe iniziato il primo libro della Metafisica dicendo che tra tutte le sensazioni la più amata è quella esercitata attraverso gli occhi, essendo il senso della vista quello che ci fa conoscere di più perché ci presenta il maggior numero di differenze.

Ritornando a Dougan pensavo che il nostro attuale non-sapere dipendesse essenzialmente dalla carenza di tracce scritte.

Gli album fotografici hanno evidenziato un secondo tipo di ignoranza.Da diversi anni possiedo un libro con una copertina dove sono ritratti Kugy e Oitzinger. Dopo

aver sfogliato gli album mi sono reso conto che una terza persona presente nella foto non era uno sconosciuto ritratto per caso ma proprio il Dougan di cui cercavo notizie.

Quindi accanto all’ignoranza concettuale esiste anche un’ignoranza iconica determinata da stimoli che rimangono incodificati.

Per ripristinare la conoscenza perduta di Dougan abbiamo quindi necessità di un sapere fatto non solo di parole ma anche d’immagini.

Da qui la scelta di presentare nella monografia un apparato iconografico, inserito non per alleggerire il testo ma per colmare questo secondo genere d’ignoranza.

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DAI DIARIDal monte Maggiore alla Cengia degli Dei

Questa non è una pubblicazione integrale dei diari di Dougan né delle fotografie presenti negli album.

È un’antologia spero utile a descrivere i valori senza età e senza tempo della passione per la montagna.

La prima annotazione di Dougan è del 1908, riporta la salita del Monte Maggiore.

L’ultima è del 1925 e riguarda la salita del Lyskamm compiuta assieme alla moglie Lea.

Continuano i taccuini dove sono riportate brevemente ascensioni e viaggi ma non contengono altri dettagli e terminano con l’annotazione del 2 agosto 1936 in cui scrive di essere stato sull’Auremiano e poi a Capodistria.

Una delle prime pagine dei Taccuini.

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A quel tempo era ancora in forze, ma sappiamo che alla fine fu fermato dalla malattia. Gli fu particolarmente vicino il suo compagno nelle spedizioni in Caucaso, Atlante e Lapponia, quell’An-drea Pollitzer che

“condivise la passione per l’alpinismo con tre uomini Emilio Comici, Julius Kugy e Miro Dou-gan che egli considerava grandi maestri non solo d’alpinismo ma anche spirituali.“

Adriana Pollitzer Lepri, Ai miei A, edizioni della Laguna, Mariano del Friuli, 1997, pag. 114.

Il 14 novembre del 1908 sale per seconda volta il Črna Prst o Monte Nero di Piedicolle, Dou-gan alterna questi due nomi. In quell’occasione avvenne l’incontro con Kugy. È un fatto che si conosceva nella versione presente nel libro Dalla vita di un alpinista uscito nell’ottobre del ’25 che Dougan leggerà nella copia regalatagli da Kugy, con questa dedica destinata a caratterizzarlo:

“Al mio caro, fedele Vladimir Dovgan portatore della mia vecchia bandiera nelle Alpi Giulie” Julius Kugy11 dicembre 1925

“Quando, una torbida domenica invernale del 1909, vi salivo solitario da Podbrdo, la neve fredda era talmente alta e cattiva che ogni tanto vi affondavo fino al ginocchio e presto mi stancai. Arrivato al limite della vegetazione arborea cominciai a riflettere “Chi me lo fa fare a continuare la salita?” Quando si riflette così vien vo-glia di tornare indietro, e così feci. Nel-la discesa incontrai un bel giovane, che portava un elegante vestito da alpinista, di velluto marrone, e arrancava seguen-do le mie orme.“Buongiorno” lo salutai. “Dove andia-mo?“ “Sulla Črna Prst, dottore”. Mi co-nosceva e, come confessò più tardi, mi aveva seguito per trovarsi vicino a me. Lo invitai a scendere con me. Ma non ne volle sapere. Si sa, me la voleva “far ve-dere”. Da alpinista impavido girai fino a sera nelle osterie del Wochein ed era già notte quando lui arrivò, esausto, bagna-to, ma raggiante del suo trionfo: aveva preso la vetta e raggiunto il suo scopo. Aveva allora 17 anni.”J. Kugy, La mia vita, Eurograf, Tarvisio, 2011, pag. 231

Tra loro nascerà un legame molto forte. Dougan ne fu sempre orgoglioso

Al mio caro, fedele Vladimir Dovgan, portatore della mia vecchia bandiera nelle Alpi Giulie. Julius Kugy, 11 dicem-bre 1925.

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senza entrare mai nei dettagli ma Kugy parlando dello stato depressivo in cui era caduto, scrive:“Nella mia angoscia andai da un neurologo e capitai bene... sapeva che ero un alpinista. “Vada più che può in montagna! “conchiuse. …Così feci. Ma non è stato facile. Il cuore e la mente rimasero chiusi: avevo dentro di me un grande spavento. I giovani mi accompagnavano, non ero mai solo. Prima di tutti era con me e intorno a me il fedele Dougan. È stato un dono di Dio, e di lui parlerò ancora.”J. Kugy, La mia vita, Eurograf, Tarvisio, 2011, pagg. 186-187

Questo sostegno sembra trovare espressione simbolica nel commento di Kugy ad una foto di Dougan dal titolo: Una torre stanca

“Nei pressi di Razor, vicino alla Planja, un’alta torre rocciosa venne colta dalla stanchezza. Dio mio non c’è da stupirsi: è stata in piedi da tanto tempo!Poco mancò che crollasse e morisse. In fine ha fatto come bisogna fare in questo mondo: si è appoggiata a un amico più forte. Questi offrì alla testa vacillante del compagno stanco, la propria solida spalla e ora vanno, l’uno sorreggendo, l’altro sorretto uniti e stretti, da buoni amici, attraverso i millenni alpini.”J.Kugy, Le Alpi Giulie attraverso le immagini, Tamari, Bologna, 1970, pag. 110

Dougan era già stato sul Črna Prst nel 1908, anno in cui in cui comincia ad annotare le sue salite“Ho pernottato a Podbrdo e la mattina del 21 raggiunsi la cima, dove mi fermai 1 ora a godere il bellissimo quadro invernale… Questa fu la mia prima salita invernale.”

Era ritornato lì nell’ottobre dell’anno successivo “Nel Ottobre sono partito da Podbrdo per fare il Monte Nero mentre pioveva. Giunto all’altezza di circa 1100 me-tri trovai ragionevole, con la pioggia che non terminava, di ritornare”

Il 1910 inizia con la salita del monte Krn m. 2246 da Galorje e scendendo a Volarjc con gli ami-ci Strukel e Zerquenik al ritorno si ferma per fare un acquisto“Presto si abbiamo avvicinato al villaggi dove due cacciatori di frodo ci hanno ceduto due lepri bianchi per una corona il pezzo. Tre ore dopo il treno ci portava a Trieste.”

Un’alta torre rocciosa venne colta dalla stanchezza… da J. Kugy, Le Alpi Giulie in im-magini, Tamari, Bologna.

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Il suo primo incontro con Kugy, Dougan così lo raccontaMonte Nero m.1844“Lì 9-10 gennaio. Mi presi l’inca-rico di guidare l’amico Strukel e il signor Goldner sul monte Nero. Arrivati a Podbrdo vidi che l’inca-rico non era facile di eseguire per l’enorme quantità di neve che gia-ceva sulla montagna. Alle due di notte con la luce dei fanali si met-temmo in marcia. Presto s’arrivò nel bosco, dove si affondava passo per passo nella neve farinosa e per giunta sbagliai direzione per aver seguito le peste di boscaiuoli che ci condussero fino ad un certo punto dove terminarono. Compresi che mi trovavo troppo a destra - torna-re avrebbe costato troppa perdita di tempo, allora bisognava salire direttamente; ma con quale fatica. Continuamente cedeva la neve fari-nosa - spesso si nuotava nella neve fin oltre la cintola - risollevandosi si ricadeva fino al petto. Finalmen-te riuscimmo a portarsi vicini alla “Frühstigshütten” dunque dove

passa il sentiero nell’estate. Lì ab-biamo fatto sosta e preso la colazio-

ne, mentre il sole si levava e un quadro quanto bello e interessante si presentava ai nostri occhi, di valli e cime tutte coperte di un manto bianco. Sortiti dal bosco la neve era più solida e in certi punti persino ghiacciata fino all’arrivo alla sella ove siamo stati incan-tati dal grandioso spettacolo che così improvvisamente si presentò. Guardammo in basso i campi bianchi nella valle di Wochein, in altro troneggiava il Tricorno - più a destra le Caravanche e le Alpi di Stein - catene maestose in tutto il loro magnifico aspetto invernale. Cornicioni enormi sporgevano dalla cresta che congiunge la sella per la quale giungem-mo in cima. Dopo un lungo riposo ben meritato siamo scesi alla sella per andare nella Wochein. Il primo tratto dopo la sella era ghiacciato e non avendo avuto con me la corda, dovetti discendere da solo per un cento metri a fare prima delle tacche nel ghiaccio, poi ritornare due volte per accompagnare gli amici, i quali non si sentivano troppo sicuri nella neve, per portarli fuori dalla ripidità. Più si discendeva più molle tornava a diventare la

Un giovane Dougan con sci e bastone per il telemark.

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neve. Sostammo alla capanna slava ½ ora, seguindo poi la discesa attraverso il bosco sino a Wocheiner Feistritz. A l’Hotel Rodica si avvicinò Kugy informandosi del l’andamento della nostra salita e si congratulò della riuscita essendo stato respinto il medesimo giorno il Avv. Bolaffio dal tentativo di salire il monte Nero. Questo era il primo incontro con Kugy che allacciò la nostra indistrugibile amicizia.“

A prescindere da come si sia svolta la vicenda, Kugy inviterà Dougan ad andare con lui in montagna. Sulla cima delle Rondini Dougan riceve il suo battesimo alpinistico

“Quando decisi d’avviare Vladimir Dougan all’alta montagna scelsi per prima l’alta Cima delle Rondini. Egli non conosceva altro che le cime del Wochein e le Caravanche. Fu una giornata deliziosa! La neve nel canalone era sciolta in gran parte e interrotta in un punto da un lastrone difficile. Il passaggio toccò a Dougan, il quale dovette far da guida a un terzo compagno più debole. Egli attraversava per la prima volta crepacci marginali, montava

«Naturalmente avevo visto subito i van-taggidelloscienevolliapprofittare.Maera troppo tardi. Avevo allora cinquant’an-ni sonati. I quali non son certo un serio ostacolo, quando si voglia mantenere intatta una consuetudine inveterata, ma, l’ostacolo diventa insormontabile a chi ne voglia prendere una nuova. Dougan, i mio caro giovane alpinista, doveva farmi da maestro. Gli spiegai modestamente che non volevo diventare un virtuoso o campione di sci, mi bastava che le assi-cellemiportasserofinoinfondoallevalli,all’attacco delle rocce. Dalla risposta inte-si che mi considerava chiamato a grandi, a grandissime imprese sciistiche. Ne fui sinceramente lieto e commosso…Guardai per aria in cerca di eventuali ma-niglie alle quali attaccarmi per tirarmi su. Cercai a lungo senza trovarne. Notai inve-ce con grande stupore, che il mio lavoro onesto e molto faticoso aveva agitato il mio Dougan al punto che, invece di accor-rere e soccorrermi in quel frangente, s’era dovuto appoggiare allo steccato come unao che,gravemente ammalato, fosse preso da crampi dolorosi. «Dougan, su venga, mi aiuti!» invocai «Sì subito, sull’i-stante, verrò, sì, vengo, vengo appena posso»… Detto fra noi: era un’esplosione

di sfrenata allegria che non compromise punto la sua salute… MI feci quindi slacciare gli sci e quanto mai depresso e barcollante entrai con Oitzinger all’osteria dove cominciai a sentirmi un po’ meglio.»J. Kugy, La mia vita, Eurograf, Tarviso 2011, pagg. 158-159.

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per la prima volta quasi verticalmente a gambe larghe fra la neve a sinistra e la roccia a destra, rimaneva interdetto davanti a certi passaggi che poi superava con facilità e stava a guardare ammirato un famoso fumatore del secolo che, montando le pareti, accendeva un sigaro dopo l’altro. Si trovò poi per la prima volta su una autentica vetta selvaggia delle Alpi Giulie e non cessava di ammirare e chiedere spiegazioni davanti al grandioso pano-rama. Bisognerebbe andar più di frequente alla Cima alle Rondini. Non è poi alta: 1951 metri. Ma non è una passeggiata: è una montagna.”J. Kugy, Dalla vita di un alpinista, Lint, Trieste, 1985-2000, pag. 133.

Nel diario Dougan così ricorda quell’esperienzaSchwalbenspitze m. 1951“Kugy invitò a me e Goldner nel giugno e con noi vi era la guida Oitzinger a questa bella ascensione. Ma come più tardi Kugy confessava era una prova della nostra capacità. Al-begiava che noi traversammo la selvaggia valle Kaltwasser, giungendo fino ai piedi delle Swalbenspitzen. Al primo attacco delle rocie, Oitzinger aiutato dalle mie spale sorpassò un piccolo salto. Mentre Kugy e Oitzinger proseguivano il cammino io avevo l’incombenza di aiutare Goldner passare il salto, era incapace fino che Oitzinger non era tornato e che poi in due si tirò Goldner sopra come un sacco. Tutta la salita non presenta difficoltà, una sempre divertente rampicata. In cima si accese un gran fuoco. Io ero superbo della mia prima rampicata e Kugy contento di me. Dopo aver amirato e goduto il superbo circostante panorama si discese direttamente nel Kalterwassertal per la via coperta con folti mughi. Prima di notte si arrivò a Kalterwasser dove una carretta ci portò a Tarvis.”

Il mese precedente Dougan aveva già salito con Kugy una cima delle CaravancheHochsthul m.2246 ”È la prima salita fatta in compagnia di Kugy, della quale mi sento orgoglioso, poter accompagnare un sì grande alpinista. Con noi ce anche il signor Goldner. La facile cima salimo da Assling e per la medesima via ritorniamo. La giorna-ta non è troppo bella ma più mi dispiace per l’indi-sposizione di stomaco che si lagna Kugy. Siamo ai primi di maggio.”

Nel mese di agosto Dou-gan affronta per la prima volta le grandi montagne di ghiac-

Spesso, arrivati in cima si accendeva un fuoco Da sinistra: Kugy, Dou-gan, Herma Poech, una guida

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cio recandosi con Goldner a Solda, confidando in se stesso perché l’amico, come abbiamo visto, non era in grado di assumersi la responsabilità di condurre la cordata su terreno difficile.

È la grandiosità di quelle montagne a colpirlo, giunto sulla vetta del Cevedale annota“È la prima volta che mi trovo in una montagna di ghiaccio e sono tutto stupefatto della grandiosità del spettacolo che si vede, specialmente dal versante svizzero.“

Nei diari queste semplici annotazioni ci mostrano l’importanza che la cima ha per Dougan. Le sue sono espressioni semplici, nessun lirismo.

Il 15 agosto sale il Königspitze entrando in contatto con i pericoli di quelle montagne. Il diario ci mostra un modo di vivere le emozioni diverso dal canone enfatico dell’alpinismo romantico

“Dirigemmo attraversando il ghiacciaio che porta al Königsjoch. Giunti sotto questo si leva il sole e conseguentemente si stacano pietre dal Königsjoch. Una mi colpisce per fortuna cade sul zaino.Come prima è una comitiva che è partita prima di noi, secondo è Goldner con una guida, come ultimo io solo. Compreso il pericolo della caduta delle pietre accelero la marcia ar-rivando così per primo al Königsjoch m.3295.I rimanenti 550 m li facio in meno di un ora arrivando così per primo da solo, con un grande anticipo sugli altri, in cima. Dalla cima sporge una grande parecchi metri lunga cornice di neve dove un professore tedesco con sua moglie imprudentemente spintosi troppo avanti questa si ruppe cadendo giù nel fondo del ghiacciaio e con essa i due disgraziati. Il tempo bello permise una stupenda vista. Dal Königsjoch continuava cadere pietre, perciò il tratto alla Schaubachhütte lo feci di corsa. Ero solo gli altri preferiva-no fare il giro alla Hallischehütte per non esporsi al pericolo delle cadute di pietre. Il giorno dopo discendiamo a Sulden.”

Poi è la volta dell’Ortler m.3902“si raggiunse la cima, senza incontrare difficoltà, meno l’attenzione continua per i molti crepaci. Erano le ore sei e faceva ancora molto freddo … L’aria era nitida e la vista così bella come in rare giornate fortunate si può incontrare. Discendem-mo per la Edelweisshütte e giungemmo stanchi per la lunga via a Trafoi. Con la diligenza andiamo a Spondini staccan-dosi così a malincuore della montagna ma pieni di soddisfazione per il successo ottenuto con le tre bellissime salite.”

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Dougan riporta sul suo diario la descrizione che un suo compagno fa della traversata invernale del Tricorno e della sella Krederza m.2515 apparso sulla rassegna ”Alpi Giulie” Marzo-Aprile 1911. Traversata fatta con Trenti della SAT e Antonio Taddio della SAG.

All’interno del testo, Dougan inserisce un inciso“Nota. Per il nevaio che scende dalla Krederza, Taddio scivola così malamente da farsi una grande ferita alla mano con la piccozza. Già, qui a Taddio mancavano le forze per proseguire.”

E quando il gruppo arriva alla casere di Belopolje Dougan aggiunge “Nota. In queste casere in parte diroccate, Taddio che non sintindosi più in forza voleva pernottare, il che sarebbe stato una pazzia. Con le brutte si decide di andare avanti.”

Sarà stato Dougan a spronare il compagno con una decisione che non lasciava, pare, grandi margini di trattativa.

Taddio così conclude l’articolo“Traversata indimenticabile, tanto per la bellezza del panorama, quanto per le emozioni pro-

vate; il merito della riuscita va completamente attribuito ai fortissimi miei amici Dougan e Trenti.”

L’attività alpinistica svolta da Dougan viene riportata su “Alpi Giulie” nel 1912, 1913, 1914 fino a ridosso della guerra.

Sono gli anni in cui Kugy invita Dougan anche nel Delfinato nelle Alpi Occidentali.Kugy aveva esitato a visitare quel gruppo perché lì, un astro nascente dell’alpinismo da lui

molto stimato, ”Emil Zigsmondy vi aveva trovato la morte” ora era lì su “quei monti selvaggi” per salire alcune cime, con Dougan e la guida Joseph Croux.

Riporta Dougan“Si giungeva alla malga di Commandrant. Malga poco pulita e meno che meno appetitosa e mi spiego perché in mancanza di combustibile asciugano al sole il sterco del bestiame su pietre intorno alla casa per poi farne fuoco. L’aspetto era così poco appetitoso che abbia-mo preferito fare il nostro marendino più sopra in montagna.Prima che tramonti il sole, poco sotto il ghiacciaio ci fermiamo per bivaccare…Bevuto il rimanente brodo che solamente Croux sapeva preparare, ogniuno spariva sotto le coperte o sacchi. Kugy stava meglio di tutti nel suo sacco di piuma, mentre il mio sac-co di gomma mi rese un servizio pessimo, ero tutto bagnato. Alla 1 ½ di notte Croux ci svegliava offrendoci del tè caldo e alle tre si partiva ancora col oscurità. Attraversato il piccolo ghiacciaio arrivammo alla Bergschrund e attraversammo questa per un buon ponte di neve… A due metri dalla cima feci posto a Kugy per lasciarlo primo sulla vetta, ma lui con un segno dato alle guide mi fece da loro saltare in cima…E pieni di gioia erano i nostri cuori perché in un simile momento si raggiunge la felicità completta. Ne dolori, ne pensieri esistono lì sopra e neppure desideri e caprici ma solamen-te quiete, luce, sole e bellezze indescrivibili si gode. Ai nostri piedi si stendevano prati verdi come smeraldo in contrasto in alto con la roccia nera e i ghiacciai bianchi che brillavano nel sole…In uno di questi punti, per ammirare il Cervino, Croux mi sgridava dicendomi che gli occhi

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servono per guardare dove si mette i piedi, se non si vuole finire nella Bergschrund…Lì 19 luglio, riposo. Alloggiammo all’Hotel Meje, tratati in modo speciale dalla proprieta-ria, madame Juge, che mi prese per figlio di Kugy.”

Dougan ricopia sul diario due articoli in tedesco presi dall’Ost. Alpz. 05/01/1913 N° 87 in cui Kugy descrive le salite dell’Aiguille du Galeon e dell’Aiguille d’Arves Centrale.

Immaginiamo che Dougan ricevesse i notiziari sia dell’Alpina delle Giulie che dell’Österreichis-cher Alpenverein essendo iscritto ad entrambi i sodalizi.

Poi Dougan sale la grande Ruine m.3765 “Kugy… mi permise di approfittare di Savoi per la salita della Grande Ruine a pato che Savoi alla mattina del medesimo giorno fosse di ritorno. Dunque si trattava di battere un record. Alla 1 di notte, senza zaini, solamente con un vaso di mostarda… siamo partiti da rifugio di corsa attraverso la vallee de val Fourche. Persino in salita il passo era più di corsa che altro. Solamente al ghiacciaio dovevamo per prudenza rallentare il passo anche perché non era ancora abbastanza chiaro. Arrivammo in cima quando qualche raggio di sole sortiva fra le nuvole che sostavano intorno su tutto il firmamento.Il quadro era una delle Stimmung più oscure che io abbia conosciuto. Cime imponenti masse grigie di una serietà spaventosa, sono indimenticabilmente rimaste impresse nella mia mente. Mentre io stavo devoto davanti a una simile imponenza, Savoi rideva: Lui non poteva trattenersi dal piacere di aver raggiunto così presto la cima. Siccome era persuaso che non gli si credesse abbasso, di essere stato in cima, straccia una pagina del libro per comprovare…

Nelle Alpi Occidentali.

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Alle otto in punto erimo già alla capanna con grande meraviglia di tutti quanti. Kugy mi raccontava che Croux lo informava che prima delle sei ci trovavamo sul ghiacciaio e che lui allora credendoci appena in salita, temeva che il Savoi arriverà nel pom troppo tardi per partire per il Pic Gaspard; invece noi eravamo già in discesa.”

L’anno dopo ritornano nel Delfinato Dougan ha l’occasione di mettersi in evidenza e Kugy sottolinea

“Cominciai a portarlo sulle Caravanche e sulle Giulie, poi venne con me nel Delfinato dove sbalordì con la sua sicurezza e con la sua incredibile volontà il mio bravo Savoye e i Ga-spard. Così era fatto. Rimase poi al mio fianco e mi accompagnò sempre, come e quando gli era possibile, fedele come l’oro. In guerra fu la mia “guida“J. Kugy, La mia vita, Eurograf, Tarvisio, 2011, pag.231

“Vennero le vacanze estive del 1913 e io mi recai innanzitutto con Dougan nel Delfinato… Dougan passava il tempo alla meglio giocando con i bambini o cavalcando l’asino dell’al-pe. Un pomeriggio arrivò con le mani sanguinanti e con una piccola marmotta selvaggia. L’aveva presa tra i massi della morena dopo aver incontrato strenua resistenza. Era già un diavoletto, mostrava i denti, soffiava e sputava dalla collera.La mettemmo in un sacco di tela che venne collocato sopra lo zaino di Dougan. Così fece l’ascensione al Pic e Mont Thabor. Durante la ripidissima discesa del Pic ero molto in pensiero che potesse farsi male, perché lo zaino era sempre in posizione pericolosa tra la schiena di Dougan e le rocce taglienti. Egli era costretto ad adottare una nuova tecnica di roccia e, legato alla corda, doveva sempre piegarsi in avanti. Quando si sentiva troppo sballottata, la bestiola protestava con fischi energici e striduli. La battezzammo “Pic Tha-bor”. Dougan la portò a Trieste… Durante l’inverno arrivò da Lagrave una grande cassa. Savoye si era ricordato della mia impresa e mi mandò cinque grandi marmotte che aveva dissepolto dalla tana. La colonia era formata da nove individui. Nell’agosto del 1914 le avrei messe in libertà.”J. Kugy, La mia vita, Eurograf, Tarvisio, 2011, pagg. 196-197

Così Dougan racconta di quella salita“Io volendo fare un po’ di moto mi recai su un altura poco distante dalla malga. Che sor-presa! Constatai che mentre nella nostra valle si era fermata la nebbia in tutto il resto della montagna splendeva il sole. Tornai alle malghe con questa lieta notizia e subito furono fatti i preparativi per la partenza. Nel frattempo abbiamo catturato una marmotta. Dopo lungo consigliarsi decidemmo che la marmotta farà la salita del Pic Thabor nel mio zaino. Alla 1 di notte era veglia, alle due partenza, alle quattro al momento del sorgere del giorno eravammo sui nevai… Un ripido canalone che si restringe poi in un ripido camino ci portò mediante una bellissima arampicata in cima. Non so se durante questa operazione, la marmotta fischiava in segno di piacere per il sole che la riscaldava o pure per il poco delicato trattamento che subiva durante la arampicata. La cima era così aguzza da non offrir posto più che per una persona, in modo che bisognava darsi il cambio uno a uno per aver la sodisfazione di essere stato in cima… Il 27 ripartii fermandomi tre ore a Milano e alla sera ero a Trieste. Durante tutto il viaggio

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la marmotta del Thabor che ebbi con me mi diede parecchie noie. Avanti Milano in treno persino mi scapò.”

Dougan avrà raccolto la marmotta anche perché le parole di Kugy verso quelle bestiole sono permeate di delicata sensibilità:

“Ed ecco la bestiola tranquilla che mi guardava. Chi altri può avere un occhio bello, dolce, quieto, puro, tagliato così a mandorla, il bianco un po’ cangiante nell’azzurrino, le grandi pupille di velluto bruno, con quell’espressione di bontà, pazienza, fiducia, ingenua pu-rezza? Non occorre cercare, lo so io, non può essere che la marmotta…. Poi concepii un piano audace: volevo farmi impresario di marmotte. Ne volevo raccogliere parecchie ed esporle nelle Alpi Giulie. Sapevo già dove: nella valle di Riofreddo dove ho un giaciglio in mezzo ai rododendri. Là c’è acqua, buona erba, una bella fioritura di composite, macigni sparsi, ghiaioni, sfasciumi, terra tenera. A proteggerle dalle insidie penserò io. Parlo col re di Sassonia quando va a caccia nella Saisera e nella valle di Riofreddo. Punizioni esemplari per chi disobbedisce. Niente perdono a chi mette le mani addosso a una marmotta.”J. Kugy, La mia vita, Eurograf, Tarvisio, 2011, pagg. 195- 196

... Chi altri può avere un occhio bel-lo, dolce, quieto, puro, tagliato così a mandorla…

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Cengia degli Dei o via Eterna?

Riguardo a questa cengia credo si possano attribuire a Kugy due visioni distinte nel tempo.Nella prima, la cengia degli Dei è legata strettamente alla cima allo Jòf

Fuart, la seconda, riguarda l’anello (di vaga assonanza wagneriana) che per-corre tutto il massiccio dello Jòf, cioè la via Eterna.

Ciascuna ha il suo realizzatore: la prima Dougan, la seconda Comici.Nell’ultimo suo libro Kugy ritorna a ricordare un avvenimento che gli sug-

gerì la primitiva idea di un accesso alla cima della Jòf Fuart affatto originale “Dallo spigolo N.E. della Madre dei Camosci di Riofreddo viene verso di noi una lunga cengia orizzontale…Un notevole branco di camosci si mosse per venirci incontro. Saranno stati trenta forse anche più. Venivano lenti e calmi, si fermavano spes-so a pascolare. Si capiva che camminavano su un terreno antichissimo, loro familiare da innumerevoli secoli e generazioni…Noi, secondo la nostra consuetudine evitiamo ogni rumore, curiosi e attenti in perfetto silenzio…Tre camosci appaiono dalla parte dello Jòf Fuart. Ci vedono, schiz-zano in folle fuga verso le cenge, incontro al branco in arrivo. È il momento nel quale deve avvenire lo scontro. Che succederà? Eser-citeranno, quelli che arrivano un effetto calmante? O i tre fuggiaschi trascineranno tutti con sé? …Dove viene il pericolo? Poi tutta la lunga fila fa dietrofront e fugge per le cenge verso lo spigolo di NE della Madre dei Camosci di Riofred-do. Poi scompaiono. Verso dove? Ancora qualche sasso che cade, e le pareti sono sgombre. Tutto tace. E noi saliamo alla vetta del Jòf.”J. Kugy, Dal tempo passato, Adamo, Gorizia, 1982, pag. 118

Kugy prova a darsi una risposta“Dopo dieci anni le mie intenzioni mi condussero… più volte negli alti circhi glaciali del Riofreddo. Allora osservammo che i camosci in fuga prendevano le pareti orientali del Riofreddo e su per vie per noi inesplicabili miravano alla grande cengia che conduce, in alto, allo spigolo di NE del monte… È là, ormai lo sapevamo, cominciano le cenge che anni prima, ci erano sembrate così strane…

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I problemi ebbero entrambi un esito felice. In primo luogo per me la scalata con i miei uomini, (Oitzinger e Pesamosca ndr) della Madre dei Camosci da est e da nord. Avevo con me Herma ed Erwin Poech, ospiti graditi. Come due scoiattoli alati danzavano in salita sulle splendide rocce multicolori. Per le cenge dei camosci nella gola N.E. mi sentivo ormai troppo vecchio e pesante. Affidai quindi l’impresa al mio giovane amico Vladimiro Dougan (era infatti un pezzo di me stesso) e gli misi vicino Osvaldo. Questi due furono pertanto i primi ad abbracciare il “blocco” nel punto più sottile e decisivo. Per i camosci snelli e leggeri non vi erano difficoltà, per gli uomini fin troppo spaventosi abissi. Battezzai queste cenge chiamandole “Cenge degli Dei” nome accolto anche nella nomenclatura italiana.” J. Kugy, Dal tempo passato, Adamo, Gorizia, 1982, pagg. 119-120

Come i camosci passassero il blocco viene spiegato così“Cominciavo a capire: rimaneva soltanto da cercare il punto di unione, di saldatura da questo spigolo di nord-est alle cenge, sulle quali, come ho ricordato, ci erano venuti in-contro i camosci riuniti in grosso branco. Per un’adeguata ricognizione nell’estate del ’13 mandai lassù Osvaldo (Pesamosca ndr) assieme ad un’altra guida friulana. Osvaldo mi fece sapere che esisteva una congiunzione per mezzo della cengia di Giuseppe (il Luòf ndr) questo era il nome che le dava però non era possibile percorrerla perché in un punto strettissimo e terribilmente esposto era sbarrata per parecchi metri da un grande blocco di roccia sporgente. I camosci riuscivano a passare attraverso una fessura alla base del blocco di proporzioni estremamente ridotte.”J.Kugy, Anton Oitzinger, Lint, Trieste, 1985-2001, pag. 57

Kugy, parlando della sua salita alla cima di Riofreddo, in un articolo su “Alpi Giulie”, accenna ad un imprecisato “grande problema”

“È una via molto interessante che ho trovato studiando le vie battute dai camosci… mi accinsi all’ascensione accompagnato dalle guide Oitzinger e Pesamosca e dai miei giovani amici fratelli Poech di Vienna, da me espressamente invitati a questa impresa… Potei stu-diare durante la salita un altro grande problema, che però, visto la stagione avanzata deve essere rimandato per la sua soluzione al prossimo anno.”Cfr. A.G. 1913, pag. 114

In quell’ascensione il problema era stato perfettamente individuato“Avevo invitato due amabili giovani, i fratelli Herma ed Erwin Poech, di Vienna….Mentre io, che ero già un anziano signore, facevo una sosta sulla cengia, accanto ad una chiazza di neve, le due guide con i ragazzi raggiunsero rapidamente il grande masso. Tor-narono tutti eccitati, i giovani pieni di fiducia. Mi resi conto che aspettavano da me solo il segno per andare avanti. Ma per il momento il nostro obiettivo era soltanto la parete, ormai si era fatto tardi, e le condizioni del tempo stavano peggiorando.”J.Kugy, Anton Oitzinger, Lint, Trieste, 1985-2001, pag. 58

Che la salita dello Jòf Fuart partendo dalla valle di Riofreddo sia da considerarsi una via auto-noma e non la parte di un’idea più grande, Kugy lo esplicita così

“Allora credetti di poter affermare che sul versante settentrionale della Jòf Fuart non c’era ormai più posto per un’ottava via. Affermazione avventata. Due anni dopo, infatti, scopersi

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l’ottava via, la più straordinaria di tutte, la via dalla valle di Riofreddo per le “Cenge degli Dei” che il mio giovane amico Vladimir Dougan ha percorso per primo.”J. Kugy, Dalla vita di un alpinista, Lint, Trieste, 1985-2000, pag.115

Una via mitica molto differente da quelle odierne. Differenza non dovuta alla diversa capacità arrampicatoria di allora ma dall’atrofica capacità odierna di leggere il libro della Natura.

Se paragonata con quella di Giuseppe Pesamosca, il primo ad essere arrivato al Blocco, ad-dirittura insignificante.

Più che la difficoltà lui, in montagna cercava la libertà“Ora però è bene sapere chi fosse questo Giuseppe Pesamosca. Del ceppo dei Lòuf, nato a Piani di Raccolana, era serissimo, silenzioso, scuro in volto, invasato da una irrefrenabile passione per la caccia, selvaggiamente amante della libertà. ...Per evitare il servizio militare aveva vagabondato per sette anni, estate e inverno nelle zone più remote dello Jòf Fuart, del Montasio, del Canin. Solitario e sfuggente, lontano da paesi e da ogni persona, in baite perdute, sotto pareti strapiombanti, in libertà assoluta, era continuamente braccato dai gendarmi. Cacciato come un animale, nel bisogno, nei pericoli, sempre soggetto a minacce ma mai rassegnato, era vissuto di caccia, stentata-mente e di quel poco che riuscivano a mandargli di nascosto.”J.Kugy, Anton Oitzinger, Lint, Trieste, 1985-2001, pagg. 55-56

Se qualcuno volesse riconsiderare il senso del proprio alpinismo è sulla genesi di questa via che dovrebbe meditare.

Così Dougan descrive quell’ascensione“Prima salita del Jof Fuart per la “via degli Dei” Quando sepi da parte di Kugy che Hol-zner gesuiticamente dopo avermi carpito il piano della prima salita della Vergine, mentre aveva di eseguire la salita con me, mi si scusava mediante un biglietto di non poter partire perché la sua zia era ammalata, invece che partiva con Zanutti, (Silvio Holzner e Alberto

...Girammo quindi attorno allo Jòf Fuart, lungo le sue cenge nord occidentali dal Grande Nabois… Neg. Timeus

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Zanutti facevano parte della “Squadra Volante” ndr) mi preparai per la partenza a Wolf-sbach. Arrivai così alla mattina del 3 luglio a Wolfsbach sperando che Oitzinger persuaso della possibilità della salita, venisse con me, ma a causa un male al piede era impossibilita-to. Allora mi recai di corsa a Ugowitz dove telegrafai a Pesamosca di trovarsi la medesima notte nell’alto del Kaltwassertal. Io, alquanto carico lentamente mi inviai nella Saifnitzer Karnika. Faceva molto caldo perciò mi svestivo man mano che camminavo di un indumen-to alla volta rimanendo infine in mutande e stivali. Attraversato la sella Karnika avanzai nel Kaltwassertal sino a circa 1800 m in un sito dove c’erano ancora dei pini mughi e la sorgente d’acqua. Dopo avermi riposato un po’ facevo i preparativi per il bivacco, pren-der acqua, portar legna, cucinar tè ecc. Allora quando ho tutto terminato il sole calava, principiava fare freddo. A un fuocherello fra il profumo dei pini mughi in quella immensa solitudine ho passato uno dei miei più memorabili bivacchi. C’era la mezzanotte che in alto alla sella Kaltwasser vidi spuntar un lume e poco dopo gridava annunziandosi, Pe-samosca. Intanto preparavo per Pesamosca un tè caldo. Quando arrivò gli spiegai subito le mie intenzioni per l’indomani ma Pesamosca non voleva sentire di quel vecchio (Kugy ndr). Ripeteva sempre “mi credo che se il mio zio (Giuseppe il Lòuf ndr) non è passato quella cengia men che meno la passeremo noi.” Al primo chiarore del giorno si levaro-no le nebbie dalla valle e un banco di nubi stava nel Sud prometendo poco buon tempo. Pesamosca ancora una volta mi sconsigliava dell’impresa invitandomi della salita della Gamsmutter ma io ero iremovibile. Salimmo per le ghiaie e arrivati sotto la Gamsmutter prendemmo un facile canalone poi delle plache che portano alla grande cengia degli dei. Qui la cenghia è molto larga che man mano che si gira la Kalwassergamsmutter sopra il Kaltwassertal per arrivare sopra la Saifnitzer Karnika questa va sempre più restringendosi sopra un spaventoso ballatoio di 500 metri. Al punto quando si arriva sotto la Innominata la larghezza della cenghia sarà di 1 metro e qui un blocco chiude la cenghia per un 5 metri che prosegue sempre stretta.Qui principiava il grande lavoro, con uno scalpello scavammo al altezza della cenghia dove questa era sotto il blocco legermente pronunciata nella roccia friabile, un buco da lasciar passare a pancia la lunghezza di una persona. Ma con ciò non era passato ancora il blocco. Stavammo già per abbandonare la impresa e avevammo già cambiato i scarpetti con gli stivali quando persuasi Pesamosca di tornare al tentativo. Assicurata la corda ad un chiodo in una fessura e getata questa oltre un altra fessura in modo che la corda veniva a stare verticalmente attraverso il buco scavato da noi. Legato ad un altra corda per sicurezza e inoltratomi nel buco mi agrapai alla corda verticale, poscia getato il corpo nel vuoto (Curiosa brutta sensazione provai in quel istante quando la corda per il peso del mio corpo scorse per qualche centimetro.) Ai miei piedi era un appiglio di la larghezza di due dita sul quale montai poscia ancora pochi metri trasver-salmente avanzai per piccole sporgenze e senza appigli per le mani e io ero salvo dall’altra parte della cenghia.Fattomi un buon posto venivano tirati con la corda i nostri due zaini e dopo veniva Pesa-mosca assicurato da me di una parte e dall’altra si teniva alla corda fissa. In quello il cielo si oscurava e principiava a piovere. Avanzammo per la cenghia che si restringe ancora o

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pure ci pareva a noi perché coperta ancora di neve, fatto si è che bisognava lavorare con la piccozza molto in modo che la neve dalla parte delle rocia arrivava fino ai ginochi tutto questo nel grande buco al quale sovrasta un enorme baldachino sotto la Innominata. Di là si passò sotto il Gamsmutterturm arrivando a un angolo dove sta un gendarme e passato questo proseguimmo per la cenghia che torna ad allargarsi sotto la Hohe Gamsmutter per neve fino ad arrivare sotto il Jòf Fuart, dove la cengia, che durante tutto il suo percorso si trova all’altezza da 2000 a 2200 metri, termina.A questo punto eravamo già tutti bagnati, pioveva in un modo inaudito. Cercammo rifugio sotto una roccia ma era peggio ancora giacché l’acqua veniva come un torrente giù per la roccia. Allora Pesamosca passando la prossima sella discese alla capanna Findenegg mentre io da solo ho proseguito in cima. La mia gioia per la vittoria era al colmo direi che non mi accorgevo del piovone che cadeva. Con grida di gioia e cantando, dopo aver nel libro della cima del Jòf Fuart notato la salita, discesi alla Findenegg dove la signora Bertosi e la sua nipotina in tutti modi affettuosamente mi aiutavano. Prima mi si diede i vestiti per cambiarmi, poi tè caldo e infine una squisita cena. L’indomani Pesamosca tornava ai Piani mentre io prendevo la via di Tarvisio.N.B. Nella Rassegna bimestrale della Società Alpina delle Giulie - Fascicolo Luglio Di-cembre 1914 il dott. Chersich scrisse un bellissimo articolo di questa salita.”

Non sappiamo se Chersi avesse prima chiesto a Dougan di scrivere un articolo per “Alpi Giu-lie” della salita e lui avesse declinato l’invito.

L’articolo fu scritto direttamente dal presidente dell’Alpina. Un indicatore del prestigio alpini-stico acquisito da Dougan realizzando un’intuizione di Kugy, il più grande conoscitore delle Giulie.

Dal tono dell’articolo si può intuire il grande effetto che la narrazione di Dougan aveva avuto sui contemporanei.

La via segnata idealmente dal dottor Kugy, via che egli chiamò «degli dei», ci era apparsa allora in tutta la sua maestosa semplici-tà ben distinta per la neve nella roccia delle pareti…

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La salita all’Iòf per la Grande Cengia settentrionale - Ricordi - Alla capanna Findeneggdi CArlo Chersi

“La notizia dell’ascensione compiuta giunse a noi tutti improvvisa, e non posso negare che fu per me una sorpresa: era da qualche settimana che si presentiva l’audace vittoria, ma né io né altri avremmo pensato che il problema sarebbe risolto tanto presto.Pochi giorni prima avevo attraversato coll’amico Buranello il vallone romantico dello Zapràha oltrepassando anche la Carnizza di Saifnitz sotto le pareti dello lòf, e tenevo ancora negli occhi la visione grande delle sterminate roccie; la grande cengia, ancora bianca, che corre orizzontale per le pareti dalla Kaltwasser Gamsmutter all’Iòf Fuart, mi stava, come stà ancor oggi, chiarissima nella memoria; una visione meravigliosa, vertiginosa.La via segnata idealmente dal dottor Kugy, via che egli chiamò «degli dei», ci era apparsa allora in tutta la sua maestosa semplicità ben distinta per la neve nella roccia delle pareti.Ma quel nastro bianco che si stringeva attorno alle moli enormi a cinquecento metri sopra i ne-vati, tanto distinto nella nera massa della pietra, aveva la vaporosità delle lontane visioni alpine; e nell’esaminare la struttura delle pareti, l’altezza smisurata del ballatoio, le masse immani della montagna, - anche la fiducia nei piani sempre esatti del dottor Kugy veniva in noi a diminuire.Anzi in sua vece nell’animo si faceva strada un senso di dubbio che mai quella impresa concepita coll’indagine della titanica ossatura delle Gamsmutter e dell’lóf Fuart potesse essere portata da un uomo a compimento.Invece, nella fresca sera d’estate, sul poggiuolo della nostra Alpina, l’amico Dougan appena una settimana dopo il nostro passaggio sui nevati dello Zapràha raccontava concitato l’audace ascen-sione dell’Ióf Fuart da lui compiuta attraverso la Grande Cengia. In fondo, sopra il mare scuro, oltre le vele e il sartiame, il cielo aveva la limpidezza meravigliosa che nel nostro golfo crea la brezza vespertina; e la luce bianca verde dei fanali appariva smorta sotto la limpidezza del cielo.Era nell’aria quella lievissima brezza che riscuote dallo snervamento delle sere lunghe d’ estate. Giungeva di tratto in tratto l’eco fragorosa delle ruote delle vetture.In quella morbidezza della sera, a quell’ora, in mezzo al riposo della città fino allora sveglia nel movimento dei carri, dei lavoratori, il racconto dell’amatore della montagna, la narrazione della lotta feroce coll’ostacolo tenace appariva come una evocazione di un fatto irreale.Dougan ci narrava.Oitzinger, la guida che aveva ritenuto sempre possibile la traversata delle grandi pareti in senso orizzontale, per la Grande Cengia, era stato impedito all’ultimo momento da un lieve malessere dal prendere parte attiva all’ascensione.Pesamosca, l’altra guida, era libero, ma non era stato modo fino allora, di indurlo a tentare la prova. Mai più dal momento che il vecchio Pesamosca Louf non aveva passata la Cengia, non era cosa da farsi. Il sacro terrore del nuovo si talmente insinuato e radicato in Osvaldo Pesamosca, che questo alle prime insistenze dell’amico Dougan perché venisse a “Iavorare” sulla Cengia, aveva con sufficiente chiarezza espresso fatalisticamente il suo pensiero, che se il Louf non era riuscito, un tentativo sarebbe stato inutile.Notoriamente però la dote principale dell’amatore dell’Alpe è I’ ostinatezza, e senza far torti all’a-mico Dougan credo che la sussistenza di tale dote sia stata in lui dimostrata in grado eminente dal fatto che Osvaldo Pesamosca una bella sera, il 3 luglio di quest’ anno, si trovava assieme a Dougan in bivacco ad attendere I’ora della partenza per la traversata oltre la Grande Cengia e I’ ascensione dell’lóf Fuart.

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L’attacco seguì dalla parte orientale della Kaltwasser Gamsmutter per la via già descritta dal dot-tor Kugy. Da questa parte, che fu superata in rapida rampicata, Dougan e Pesamosca uscirono sulla Cengia, che era molto coperta di neve sufficientemente dura. Nel primo tratto la Cengia era già stata esplorata altra volta. Dougan dice che la Cengia non è molto stretta, almeno nella maggior parte della sua lunghezza ma è poco comoda per la massa di detriti che depositandosi continuamente sul ripiano del ballatoio lo hanno elevato a scarpata verso la parete.Per la Cengia, senza grandi difficoltà girarono le pareti della Kaltwasser Gamsmutter, giungendo alla prima gola incisa fra la Kaltwasser Gamsmutter e l’Innominata. Subito dopo si trovarono di fronte alla chiave della salita: il blocco che sbarra la Cengia.Secondo le informazioni di Oitzinger il blocco doveva essere ormai libero dalla neve.Difatti in gran parte lo era, ma la sua posizione era tale da giustificare, ed anzi oltrepassare le previsioni delle gravi difficoltà da superare.AI blocco i due salitori cominciarono un regolare lavoro di attacco. Era necessario avvicinarsi a qualunque costo dal lato est a quello ovest del macigno, quindi girare il lato ovest per riprendere la Cengia.Per accorciare la distanza dallo spigolo ovest fu necessario scavare coll’aiuto della piccozza e del martello sotto il blocco e nella cengia una stretta scanalatura, tale da permettere il passaggio di un corpo umano; uno dei due salitori passò nella scanalatura; venne fissato nella muraglia in una fessura dietro il blocco un arpione e una corda legata per una estremità all’arpione fu gettata oltre il blocco in modo che l’altra estremità spenzolava sull’abisso. Di qua venne fermata la corda mediante sassi che furono incuneati quanto più possibile fra il macigno e la roccia, per evitare che la corda scivolasse via.Tenendosi colla sinistra alla corda Pesamosca e Dougan fecero quindi alcun passi tendendo a

Nabois, Riccarda de Eccher, Acquerello, cm 152 x 101.

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raggiungere nuovamente la cengia dopo il blocco. E finalmente uno dei due, girando con pre-cauzione il blocco, e restando affatto esposto sull’abisso pervenne a toccare dall’altra parte la cengia. L’impresa era virtualmente ormai riuscita ma l’attacco al blocco era durato non meno di un’ora e mezzo.Nel ridire questo sforzo enorme di energie impiegate a duemila duecento metri d’ altezza, su un ballatoio aereo, sotto al quale le pareti cadono per cinquecento metri di profondità, in mezzo ad una delle più immani distese di roccie di tutte le Alpi, nel rievocare questa temeraria vittoria, l’amico Dougan apparve ancora agitato e commosso dal recente ricordo dell’impresa compiuta. E noi seguimmo ancora, coll’animo sospeso e la mente pervasa dal suo stesso entusiasmo, la sua parola vibrante.La cengia dopo il blocco guida ormai ininterrotta alla seconda gola, incisa fra l’Innominata e la Torre. Nella gola la neve si era ammassata in un pendio tanto ripido che nel fare i gradini si do-vette scavare fino all’altezza dei ginocchio. Usciti dalla gola, e procedendo sulla cengia Dougan e Pesamosca attraversarono successivamente le pareti della Torre e dell’Alta Gamsmutter. La cengia era coperta di molta neve, e vi camminavano incomodamente anche per causa del detrito ammassato; poi finalmente la cengia si allargò conducendo ad una piccola sella, e sboccò nella grande gola di nord ovest (sic) dell’lóf Fuart.Improvvisamente il tempo che si era mantenuto incerto durante la mattina peggiorò sensibilmen-te, e subito dopo il temporale in un baleno si scatenò con estrema violenza su tutto il gruppo dell’Iòf Fuart.Risalito il canalone, Pesamosca si fermò sotto alcune roccie al riparo; Dougan si lanciò sotto lo scroscio della pioggia verso la vetta dell’Iòf, ormai facilmente raggiungibile. Quantunque la traversata memoranda fosse riuscita, tuttavia gli occorreva che fosse coronata toccando la cima dell’Iòf Fuart. Pochi minuti dopo infatti, ed erano le prime ore del pomeriggio, Dougan raggiun-geva la cima, compiendo la più emozionante grande ascensione che sia stata fatta negli ultimi anni nelle Alpi Giulie.La discesa avventurosa fra la pioggia e il tempaccio seguì sul lato opposto, alla Findenegg. I parti-colari di questa discesa non li seppi da Dougan, ma ne scoprii il ricordo io stesso alla Findenegg.Qualche settimana più tardi infatti, portato dalle mie peregrinazioni di montagna nel gruppo dell’lóf Fuart, ho passato come ogni anno molte ore al focolare della capanna Findenegg, mentre il fuoco asciugava le nostre giacche e i nostri indumenti appesi in lunga e fitta schiera al soffitto. Eravamo reduci da una traversata dalla selvaggia valle Weissenbach oltre la forcella Kor, e uno dei soliti acquazzoni ci aveva accompagnati dal circo roccioso Weissenbach fino alla Findenegg. Arrivammo in uno stato miserando. Ma la nonna Pertossi, custode della Findenegg, venne a con-fortarci dicendo che tutta quell’acqua che ci aveva inondati, e che con poca coscienza lasciavamo scendere a rivi sul pavimento della cucina era niente in confronto di quella che aveva subissato l’amico Dougan dopo l’ascensione all’Iòf per la Grande Cengia. Come si può immaginare, abbia-mo tempestato subito di domande la nonna, che però si riservò di rispondere quando ci fossimo cambiate le vesti che allagavano il pavimento. Bisognò obbedire e tosto.Nella sera burrascosa, seduti presso al fuoco nell’abbandono alpino della capanna, ascoltammo poi dalla nonna Pertossi il racconto delle ultime peripezie di quell’ascensione, dell’allegria di Dougan e della riservatezza di Pesamosca. lo avevo indossato una camicione e una giacca di cui si era servito qualche settimana prima Pesamosca di ritorno dalla salita mentre i suoi indumenti, come i nostri, si asciugavano al fuoco.La nonna Pertossi parlava e preparava da mangiare. Noi abbiamo ascoltato e mangiato, inter-

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rompendo a monosillabi e troncammo il religioso silenzio nostro solo quando ci fummo rimessi dal fiero morbo della fame. Oltre i vetri i nevati bianchi del Prestrelenik verso il Canin si vedevano distinti dall’oscura massa delle roccie. Dall’altro finestrino nel buio cielo si indovinavano i profili delle Gamsmutter, le custodi del circo alpino dello Iòf Fuart violato nell’ultimo recesso, nelle ul-time difese.”Cfr. A.G. 1914, pagg. 89-91

Dougan leggerà nell’originale tedesco dal libro “Aus dem Leben eines Bergsteigers” regala-togli da Kugy, l’ultima eco dell’atavico timore che, in un tempo lontano, gli uomini avevano per la montagna

”China la fronte; il tuo piede calca zolle sulle quali camminano dei!” Non c’è nessuna lapide che lo ricordi, ma il tuo cuore rispettoso dirà con tremore che vuoi seguire i corni-cioni vertiginosi e finemente scolpiti attraverso i muraglioni settentrionali della madre dei Camosci fino alla luminosa cima dello Jòf Fuart. O coraggioso, ti saluto. Per vie divine la fortuna ti accompagni!”J.Kugy, Dal tempo passato, Adamo, Gorizia, 1982, pag. 137

Forse l’unica realtà realmente temuta dall’uomo è il nulla; così caduta la venerazione per gli dei, si sarebbe passati al culto della dea difficoltà.

L’idea di un percorso circolare attorno a tutto il gruppo è successiva all’ascensione di Dougan“Così m’è venuto varie volte il pensiero che si potrebbe forse combinare un anello di cen-ge intorno a tutta quella immensa isola di roccia formata dal Jòf Fuart coi baluardi della Cima de lis Codis e l’intera catena delle Madri dei Camosci. Con che si dimostra che non si esauriscono i problemi di una grande montagna, conoscendone tutte le possibili ascen-sioni. L’idea è forse fantastica, ma la realizzazione sarebbe grandiosa.” J.Kugy Dalla vita di un alpinista, Lint, Trieste, 1985-2000, pag 108

Il problema fu risolto da Comici che si recò alla locanda Gelbmann di Valbruna dove c’era Kugy per comunicarglielo. Kugy nel descrivere l’episodio rimarca l’autonomia della salita compiu-ta da Dougan nel 1914

”Dottore” si rivolse a me, “le comunico che oggi abbiamo percorso l’anello attorno allo Jòf Fuart, per le “Cenge degli Dei”. “Bravi!” esclamai “Avete dunque percorso la via Eterna”… È stata l’opera magistrale di Comici sulle Alpi Giulie. Onore a luiDunque la cima del Jòf non ha nulla a che fare con la “via dell’anello”. Ne è circondata. … Ecco dunque la trama di questa breve, ma certo memorabile storia. Dalle processioni di camosci al pascolo alla scoperta delle Cenge degli Dei, dalle fantastiche speculazioni dell’anziano signore al meraviglioso anello senza pari, a questa “via eterna”!” J.Kugy, Dal tempo passato, Adamo, Gorizia, 1982, pag. 139 Se c’è un precursore di Comici sulla via dell’anello questi non è Dougan ma Hans Klug:“(la cengia) Cento metri prima della sella Mosè s’interrompe ancora sulle rosse pareti della muraglia occidentale ma il punto fu aggirato nonostante le grandi difficoltà opposte dalla roccia friabile. Comici non sapeva forse ancora che prima di lui un classico conoscitore delle cenge sul Jòf

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Fuart, oggi padre Hans Klug, aveva aggirato allo stesso modo il passo difficile. Questo cu-ratore d’anime, entusiasta della montagna e ferrato, va considerato, diremo, il precursore della soluzione del problema che l’anello di cenge presentava.” J. Kugy, La mia vita, Eurograf, Tarvisio, 2011, pag. 204

La salita di Dougan alla cima dello Jòf lungo la cengia degli Dei segna il nuovo ruolo di Kugy: non più protagonista in prima persona delle salite ma l’ispiratore di nuove imprese per le nuove generazioni. Ispiratore preparato e non privo di genialità

“Non avviene spesso che si salga un monte da una valle che non appartiene affatto al suo corpo. Perché ciò accada è necessario probabilmente un siffatto “ponte divino”. Certo che la scoperta, il battesimo e l’introduzione di queste “Cenge degli Dei” nella nomenclatura costi-tuiscono la parte migliore delle mie fatiche alpine. Quando tutto mi fu chiaro e concordante, concepii l’ardente idea di aver spiato alle Alpi Giulie uno dei misteri più belli e più reconditi.”J. Kugy, Dal tempo passato, Adamo, Gorizia, 1982 pag. 120, pag 137

Relazione sul libro GARS. ...“Bravi!” esclamai “Avete dunque percorso la via Eterna”…

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IL RITORNO A CASALa passione per il mare

Ritornato a casa dal fronte, Dougan per il suo stato di salute, non è in grado di riprendere l’attività alpinistica “Causa il male di cuore dovetti rinunciare alla montagna e mi dedicai in cambio allo sport del mare. Oltre alle innumerevoli gite per la costa fino a Santa Croce intraprese quasi ogni domenica in barca.A Umago nel Agosto, per quanto poco pratico mi rischiai con Sadei di fare questo rischiato viaggetto.Era ancora notte che con la nostra Pescara, con la vela terzarola e con un fresco borino partimmo da Barcola. Il vento incontro che ci stac-cammo da Trieste aumentava e alla ultima diga il cielo aveva un brutto aspetto. Incontrammo un bragozzo che ci consigliava di ripararci in un porto. Tagliando dei grandi cavaloni presi la direzione di Punta Sottile. Come per un incanto il cielo si rasserenò e il mare quieto. Un leger vento trascinava la nostra brava barca verso Pirano…. Erano le 12 che entrammo a Portorose… L’indomani alle 10 ci staccammo da Portorose e contemporaneamente con noi un bragozzo e non essendo abbastanza pratico della manovra imitavo l’uguale che faceva il bra-gozzo. Innumerevoli bordi abbiamo dovuto fare per sormontare Punta di Salvore. Da qui in poi abbiamo avuto costantemente un vento forte da Ostro con mare molto agitato che veniva dalla direzione oposta. Senza altri bordi entrammo con preoccupazione nella difficile entrata a Umago. Accolti e trattati da principi dalla ostessa del Leon d’oro passammo due bellissime giornate a Umago. Dopodiche partimmo la mattina alle 10 con vento in poppa e cavaloni lunghi. Ci sembrava con ogni onda di cavalcare una montagna. Girata la Punta di Salvore ci venne un fresco borino incontro che rapidamente ci portò a Portorose. Siamo arrivati al momento propizio perché il piacevole borino è di-ventata una insidiosa bora. L’indomani la bora era più forte ancora e abbiamo dovuto rinforzare i nostri ormegi. Il giorno dopo andammo a Pirano con un borino ma trovammo prudente andare sopra il duomo per vedere come era il golfo di Trieste. In punto alle 12 dopodiche è

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sortito il maestral legerissimo, lentamente ci siamo avvicinati a Trieste. Faceva molto cal-do percio temevo che si scatenasse un improviso neverin. Alla Punta grossa una corrente contraria ci obbligò lungamente di navigare. Vicini alle dighe visto che le altre barche si riparavano dietro di queste abbiamo fatto anche noi altrettanto. Nel fratempo nella direzio-ne di Miramare si è molto oscurito il cielo. Essendo gia fuori della diga tentai di entrare a Barcola quando improvvisamente forti rafiche e mare grosso mi obbligò di abbassar la vela e getar l’ancora ma l’ancora non fece abbastanza presa e la Pescara andava fortemente.In un momento fummo dal cimitero di Barcola al mag. 33 e già vedevo la Pescara fran-tumarsi contro la scogliera quando con un ultima speranza sotto acqua legai un peso al ancora fermando la barca a pochi metri dalla scogliera. Mentre ancora il temporale si scatenava venne il vaporino Ema in nostro socorso e noi però non acetammo alcun altro aiuto. Calmatosi il brutto tempo entrammo sodisfatissimi della bella gita e del ultima pic-cola aventura tocatoci nel porto di Barcola.”

L’anno successivo 1920, Dougan sposa Lea Kulot, compagna di vita e anche di numerose e difficili ascensioni in montagna.

Così racconta Dougan il suo viaggio di nozze“Al 12 Settembre alle 8 dopo il nostro sposalizio Lea e io partimmo per Venezia rimanendo sino al 14. Al 15 siamo partiti per Milano e il 17 al lago Maggiore a Palanza. Il tempo era pessimo pioveva continuamente. Un dopopranzo andammo con la barca visitare i tre gio-ieli del lago Maggiore, l’isola bella, l’isola madre e l’isola dei pescatori. Nel fratempo si scatenò un temporale che allagò sensibilmente la nostra fragile barca che oltretutto dovetti lottare col forte vento. Inzupati oltre per oltre siamo arrivati al nostro albergo. Al 19 siamo andati col tramvai a Omegna ma anche qui pioveva. Il 22 e 23 abbiamo passato a Milano e al 24 che volevamo andare direttamente a Trieste causa i danni prodotti dalle acque grosse ai ponti dovevamo interrompere a Venezia e da qui via mare tornare a Trieste. Molto ab-biamo in questo viaggio speso ma molto anche goduto, non ci si lasciava mancare nulla.”

Nel 1921 Dougan prova a ritornare in montagna e lo fa assieme a Lea“Al 4 luglio caminando molto lentamente e con continue tappe perché questa è la prima salita di Lea e per paura del mio male di cuore. Lungo il Seebach Tal era la nostra via che ci conduceva sino quasi al Slappiker See poi per un sentiero a serpentine ci portò alla Vie-torquelle. Da lì in poi ci si associò un giovane pastore il nostro amico Sep. “Frannele!” “Brannele!” ecc. gridava di tanto in tanto alle sue caprette quando lontano da lui dal posto prefisso si allontanavano, per richiamarle. E come conoscevano la sua voce. E come ubedivano. Venne con noi sino alla Neue Hannover Hütte quando tutto il cielo era coperto da nuvoloni neri e mentre soffiava fortemente il vento e nevicava. Non avendo trovato aperta la capanna forzammo una finestra per la quale siamo entrati. Lea soffriva molto del freddo e prima che si riscaldasse ci voleva alcool, tè caldo, la stufa accesa e un 8 coperte di lana. Quando alla mattina ci alzammo e sortimmo dalla capanna tutto intorno era bianco dalla neve. L’idea di salire l’Ankogel dovevammo con cio abbandonare. Ci fermammo ancora un po’ alla Hannover Hütte poscia scendemmo a Mallnitz. Passando

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incontrammo il nostro Sep che ci attendeva. Avanti arrivare a Mallnitz alla Lea le venne male. Pare che un paesano se ne abbia acorto e mandò sua figlia 14enne con delle gocce Hoffmann e zucchero. Quando volevo ricompensare questa gentil samaritana, non accettò i miei denari perche gli venne proibito dal padre. Cuori che si trova in montagna! Il 6 Luglio partimmo da questo a noi si caro luogo oltre Spittal e Dölsach. L’indomani due forti cavalli ci portò in carrozza a Heiligenblut impiegando l’intera giornata. Heiligenblut è altretanto bello di Mallnitz. Il nostro albergo era addirittura lusuoso.”

Successivamente e non senza difficoltà, salgono il Klein Glockner. Per Lea sarà la sua prima vetta, per Dougan un ritorno ai monti dopo la lunga pausa; l’ultima salita l’aveva compiuta in guerra nell’ottobre del 1917 con Kugy, Tozbar e dei soldati bosniaci.

“Klein Glockner. Il 10 luglio dopo molti stenti Lea si è decisa per questa salita. Partimmo alle 9 alla mattina per la Franz Josef Hütte. …Incontrammo un 10 muche e alla testa stava una con la campana. Ad un certo punto que-sta si fermò in parte passando in rivista la sua compagnia. Deve aver contato perché si comprese chiaramente, che se ne è acorta che gli mancava una della compagnia. Fatto si è che fatto fermare la sua grege, ritorna per un lungo tratto in cerca della ritardataria. Di corsa ritorna con questa e raggiunte le altre si mise di nuovo in testa, dopo di che tutte in-sieme si muovevano in direzione della valle. Nella capanna che abbiamo trovato ospitalita trovai uno che era soldato con me nella Hochgebirgscompagnie... Ho avuto poca fortuna

“Frannele!” “Brannele!” ecc. gridava di tanto in tanto alle sue caprette quando lontano da lui dal posto prefissosiallontanavano…

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con la scelta della guida giacché questa tanto vecchia che nulla valeva. Alla 1 del giorno seguente col perfetto scuro si partiva dalla capanna. Con preoccupazioni attraversammo il ghiacciaio mentre faceva giorno. La nostra via conduceva prima per un sperone di rocia, poi a sinistra, girando e saltando diverse spacature di ghiaccio in cresta. Qui soffiava un fortissimo vento freddo. Trovammo un riparo dietro la roccia per merendare. Ormai erimo poco discosti dalla capanna Franz Ferdinand. Quivi una piccola sosta poi avanti faticosa-mente per neve tenera. Con preocupazioni lasciavamo le insidiose cornici che si trovano quasi in cima del piccolo Glockner. Evidentemente la guida aveva paura di andare avanti, pecato perché non ci dividevano altro che 30 metri di altezza per il grande Glockner. Lea è discesa perfino nella Glockner Scharte ma io, forse per troppa prudenza ho fatto ritorno. La neve era ancora più tenera nella discesa. Lea che durante tutta la salita si sentiva male, alla capanna F.F. si agravò talmente che io ero seriamente preocupato. Tutta la notte e il giorno seguente aveva febbre, male di testa, le duoleva il polmone. Il 13 Luglio facendo uno sforzo discendemmo. Aveva male di montagna perché arrivati sotto i 3000 come per incanto si sentiva bene.”

Poi Dougan decide di andare a trovare il suo vecchio amico Oitzinger“Grande Nabois m 2307. Desideroso di vedere dopo tanto Oitzinger andai in cerca di lui sulle malghe sue. Gli chiesi se è lui Oitzinger e se venisse con me in montagna. Senza riconoscermi mi ri-spose che non andava più in montagna. La pantomima non avrebbe avuto fine se il figlio di Oitzinger non mi avrebbe riconosciuto. Oitzinger resta sempre il mio più grande amico che ho in montagna. L’indomani il 19 andammo con Lea nella Saifnitzer Krnica, nella sella Nabois e in cima al grande. Faceva molto caldo quel giorno. Il 21 Luglio siamo ritornati a Trieste.”

Ad autunno si riapre il capitolo del mare e con due amici, Tonello e Kossovel, inizia la costru-zione di una barca

“Tutto l’inverno e tutta la primavera dedicai tutte le ore libere alla costruzione. In Aprile abbiamo trasportato la barca in Punto Franco. Uno degli ultimi lavori era la fusione del piombo che per due volte non ci è riuscito. Al lavoro abbiamo preso parte Tonello e io soli. Eravamo disperati dopo tutte quelle fatiche a non riuscire. Ai primi di Giugno venne varata la barca. Per trascinarla dalla officina 33 alla riva 24 abbiamo attaccato prima due manzi ma che non riuscivano a smuoverla. Ne 4, ne 6, appena 8 manzi la potevano trascinare fino al mag. 27 quando le catene alle quali erano attaccati i manzi si spezzavano una dietro l’altra. Per fortuna ci era venuta in aiuto la macchina della ferrovia che la portò sotto il magazzino 24 dove con due grue a stento la pogiavano in mare fra un unanime grido di ev-viva. Da lì un motoscafo la trascinò a Barcola. La barca venne chiamata “Alcione” aveva una larghezza di m. 2,90 lunghezza m 9 sulla chilia attaccato un pezzo di piombo di chg. 1500. Complettamente chiusa nella mastella di popa con uno spazio per 8 persone. Una scaletta portava giù nel camerino che aveva 4 letti (eventualmente si potevano improvvisa-re 6 letti, un tavolino e 8 finestrini. Un altro spazio era di prora per le vele, cordami, ancore

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e catena (due ancore da 20 chg. l’una) Si sortiva per un bocaportino con una finestra. Di vele ne avevamo una randa da 84 mq, controranda, flocco, flochetto e flocco balon. Tutta la barca era lavorata con pezzi e chiodi di rame e bronzo. La barca era un tipo lancione elegantissima e fortissima fatta per lunghe crociere. Più tardi le parti di Kossovel e Tonello vennero vendute rimanendo padroni Sadei e io.”“Con l’Alcione alle isole Brioni. Partimmo il 14 luglio da Barcola. Era una mattina grigia con un fresco borino. Con cambiamento di diversi venti giungemmo relativamente presto a Umago. Da Umago andammo a Cittanova, a Rovigno. Qui arrivammo ¼ d’ora prima che si scatteni un temporale. Infine giungemmo alle isole Brioni. Nel ritorno ci fermammo a Rovi-

gno e un’altra tappa a Umago. Dopo il nostro arrivo per un giorno e una notte soffiava un così forte libecio che a Uma-go da molti anni non si ricordavano uno compagno. Tutta la notte e il giorno se-guente ci cambiamo di guardia… Quel-la notte era in pericolo un cavafango e una maona è andata a frantumarsi su la riva. Una brazera che veniva da Venezia sul terzo giorno un improvviso neverin gli stracciò tutte le vele. Era un brutto anno per la navigazione a vela.

La barca venne chiamata “Alcione” …

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Le mie speranze di trovare altretanto piacere per mare come per montagna naufragarono completamente. Era bello sì ma non era congiunto così l’amore profondo che sento per la montagna. Con ciò, meno piccole gite o passando il tempo andando a pescare, questo sport terminò.”

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Di nuovo sui monti

È il Črna Prst, un monte a lui molto caro, il monte del suo incontro con Kugy, quello scelto da Dougan per ritornare ai monti e riprovare l’emozione di

essere ancora su una cima “Eccomi di nuovo in montagna, pentito di aver tentato di abbandonar-la. Mi avvicinai al mio vecchio amico persuaso del perdono. Era il 17 settembre che con Lea e Mary che da Piedicolle andammo a quel pri-mo fienile dopo il paese Trtnik. Il Črna Prst mi perdonò ma prima fece un viso serio e cupo. Quasi quasi mi parve che il castigo voleva dar-melo con un secondo batizzo. In ultimo però mi perdonò mostrandomi in veta prima di discendere un po’ della bella Wochein e un momento la Sua maestà il Tricorno che in quella ocasione portava un mantello bianco quasi trasparente.Oh Montagna! Una volta sola si può cadere e essere infedele, una seconda non più. Nessuno mai potrà confrontarsi ai tuoi fascini, alle tue bellezze. E chi tornerebbe a pecare rischia di perdere il paradiso per sempre.”

Ritorna anche la voglia di trascorrere il Natale in montagna“Alla vigilia di Natale alle 11 di sera scendemmo i tre Spongia e io dal treno a Chiusaforte. Ci mettemmo subito in marcia mentre princi-piava a piovere sempre più forte cosi che quando arrivammo a Saletto eravamo complettamente tutti bagnati. Lì nel osteria atorno il fuoco ci abbiamo un po’ riscaldati e asciugati.Quando faceva giorno pioveva ancora, poi in un momento di tregua andammo a Piani. Strada facendo incontrammo Pesamosca che venne con noi. Giunti a Nevea nevicava. Era escluso di salire il Zabus come che era la nostra intenzione, perciò andammo alle casere Cragnedul di sotto dove trovammo un buon ricovero. Attraversando il bosco si pre-sentavano di quando in quando di quei indimenticabili quadri. Alberi con rami carichi di neve. Il grande silenzio del bosco. Un cielo grigio e cupo. Una vera Stimmung di natale.

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Per quanto primitivo il nostro albero di natale era iluminato fuori della nostra casera e lentamente fiochi di neve lo adobavano. Alla mezzanotte ci era venuta fame e una polenta fredda la guardavammo come una torta. L’indomani appariva il sole per questo siamo discesi fino al vecchio confine per vedere il gruppo del Jof Fuart. Fantastica appariva l’Innominata, una torretta bianca che brillava nel sole fra una cornice di nebbie. In quel momento il mio cuore desiderava di trovarsi su qualche cima dominante.”

Il 1923 è l’anno in cui Dougan riprende assiduamente a frequentare la montagna. Si riscrive all’Alpina delle Giulie. Il suo modo d’intendere la montagna è sempre lo stesso. Ogni monte ha la sua bellezza, ogni momento del giorno, ogni stagione hanno la loro magia. Un’escursione è bella quanto un’arrampicata, un colosso alpino non prevale sul piccolo belvedere né le uscite invernali sono meno numerose delle estive.

Era stato Kugy a marcare l’importanza dell’alpinismo invernale“Conosciamo dunque i monti soltanto a metà se non li abbiamo visitati anche d’inverno per comprenderli appieno. Ma vorrei dire di più: bisogna averli visti con ogni tempo.” J. Kugy, La mia vita, Eurograf, Tarvisio, 2011, pag.160

L’escursione successiva ci mostra la sensibilità di Dougan che, per rimanere con gli amici, rinuncia a salire in vetta

“Il 10 febbraio di notte salimmo Lea, i tre Spongia e Guerrino e io da Hudjužna a Stržišče dove abbiamo dormito un paio di ore. Prima che facia giorno siamo partiti per il Montenero. Quando sortimmo dal bosco dove c’era un po’ di più neve vidi come Cesare, Matteo e Guerri-no camminavano male. Due volte scivola Matteo e una Cesare per questo non mi rischiavo a fare l’ultimo tratto con loro e siamo rimasti in sella dove la vista è quasi uguale. Avremmo po-tuto Bruno e io andare in cima, ma ciò avrebbe avvilito gli altri. Siamo discesi a Piedicolle.”

Il nocciolo dell’alpinismo di Dougan era la vetta, il punto più alto da dove spaziare con lo sguardo. Questo è un dono che la montagna concede all’alpinista. Per amicizia si può rinunciare e accontentarsi se “la vista è quasi uguale” oppure quando, sempre con gli Spongia, sale la cima del Cucel e scrive “Gran scopo non ha di salire questo ultimo tratto essendo la cima boscosa che non permette alcuna vista”

La salita del Gogliak m. 1496 ci conferma l’amore di Dougan per la montagna in tutte le sue manifestazioni

“La sera del 17 marzo Carlo Pokorny, Lea e io salimmo da Santa Croce Strada con un fred-do forte vento a Predmeje. Era la mezzanotte che battemmo alla porta del guardia boschi a cio ci apriva ma per paura ci ha tenuto in strada un’ora intera e appena quando minacciai di getar giù la porta ci permetteva entrare.Eravamo tutti intirizziti dal freddo nel frattempo. Lea e io abbiamo dormito per terra vicino la stufa abbastanza bene. Pokorny invece che ha voluto sedere su una sedia non ha chiuso ochio tutta la notte. Col levar del sole partimmo da Predmeje… Era magnifico il spetta-colo quando la montagna col levar del sole veniva colorita da un rosa delicato… Da una indescrivibile bellezza era il bosco nel ultimo tratto verso la cima. Ogni alberello o cespu-

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glio era completamente coperto di uno stratto di neve che brillava al sole. Tutto ciò che ci circondava era così candido, allegro e solen-ne che solamente in paradiso può essere così. Realmente quando oggi giorno voglio raffigurami il paradiso penso a quel candido boschetto… Volentieri, con pia-cere spesso ricordo a questa bella salita. Ciò mi dimostra che anche la piccola montagna può offrire grandi cose.”

Il 20 luglio del ‘23 Dougan apre una via nuova sul Torrione di Riobianco. Salita perduta riemersa ora grazie ai diari

“Poco più in su attaccammo le friabilissime roccie del Torrione di Rio bianco. Girammo su un esposta cengia che guarda la Gamstal e da qui per un largo cammino che dopo un 10 metri si allarga in una gola sino sotto la cima e qui trasversalmente per una cengia e pochi metri più in sopra in cima. Erimo tutti e tre tanto sodisfati della bellissima salita (Dougan, Lea e Costanzi ndr) al ritorno abbiamo fatto grande attenzione per il pericolo della caduta di pietre.”

La traversata per cresta dallo Jòf Fuart alla Cima di Terrarossa è una traversata di pace, pen-sata da Dougan attraverso un percorso che unisce cime dove durante la guerra nelle Giulie erano schierati i due fronti avversari. Solo per il sopraggiungere del maltempo Dougan non riuscirà a concludere la traversata fino al Montasio. Nemmeno di questa traversata si sapeva. Kugy parla del tentativo di Wittine e Spanyol e poi di Deye che la percorse tutta in un solo giorno, non di Dougan

“Il 23 luglio alle 4 del mattino partimmo con il padre e figlio Pesamosca io e Mikosch, il quale ho preso con me per fare la pratica come guida che più tardi dietro mia proposta venne anche nominato guida alpina dalla S. A. d. Giulie. Un buon passo ci portò ai piedi del piccolo Jòf Fuart e dopo una piccola fermata prendemmo il canalone di neve a sini-stra del piccolo Jòf. Per il camino, arrampicandoci trovammo un tubo che supponevammo fosse di gelatina. Con tutta prudenza lo abbiamo schivato. Alquanto stanchi arrivammo in cima. Erimo forse fermi un ora ammirando la vista quando scuri nuvoloni minacciava-no un temporale. Arrivammo in giusto momento alla sella Moses che principiava piovere dirottamente. Un baracamento di guerra ci diffese dalla pioggia ma mancavano porte e finestre. Qui abbiamo bivaccato. L’indomani il 24 luglio partimmo dalla Moses Scharte salendo per la scala la Kastrein Spitzen… In cima delle Kastrein ci fermammo poco avendo in programma il medesimo giorno di salire molte vete. Con preoccupazione scendemmo alla Bärenlahn Scharte perché tutto questo terreno era sparso di munizioni specialmente le pericolose granate a mano.

“Il mio cuore desiderava di trovarsi su qualche cima dominante…”

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Spitz Plagnis m 2404. Prima salita diretta dalla Bärenscharte. Attaccammo questa parete prima per ripido nevaio poi superammo un terreno formato a terrazzini sopra ogniuno di questi offre un posto di riposo ma per superare uno da l’altro si incontra spesso serie di difficoltà. Poi obliquamente per ripidissimi verdi direttamente in cima. Qui un piccolo riposo poi avanti su le Cime delle Portate m 2426 che si presentano in forma di torrioni. Giungemmo in cima per un esposta arrampicata e un corto cammino. Trovai un unico biglietto da visita di Kugy: 11-7-1900 mit Jože Komac und Anton Oitzinger von der Cragnedulscharte immer über den Grad hier Cima delle Portate. I Ersteigüng. Ab Wischberghütte 4 ¾ , Spitze am 8 h. Wir versuchen um die Gratwanderung weiter zum Boinc. Nelle Alpi Giulie si si incontra sempre con Kugy.Scendemmo alla forca del Val dove abbiamo raccolto un poco di neve nelle nostre bottiglie e per terreno facile salimmo in cima al Modeon. Qui ci abbiamo sfamato e disettato con un pezzo di lardo, pane e neve.Per una facile cresta giungemmo dal Col del Modeon in cima del Foronon.”

Nella forcella tra i due Buinz è stata posta dal CAI di Gorizia una targa commemorativa: “Gli alpinisti giuliani ricordano VLADIMIRO DOUGAN 1891-1955 in questo posto che gli fu caro. Sella Buinz 2005”.

“Magnifica la discesa alla Forca de lis Sieris… Erimo già stanchi e per questo la cima Gambon non la abbiamo fatta completa-mente per cresta ma bensì siamo saliti per un canalone dalla parte Sud. Giungemmo in cima per ripidi verdi non molto difficili… Il vecchio Pesamosca e Mikosch ci attese alla base. Erano troppo stanchi per salire in cima. Dalla Cima Gambon siamo scesi un tratto e poi risaliti alla Hudapalica Scharte. Qui Pesamosca visto che era già tardi e piove-va cercava un posto per bivaccare mentre io salivo la poco distante cima della Terra rossa. Ridiscesi alla Hudapalica Scharte con vento nebbia e pioggia. Il tempo era pessi-mo. Abbiamo trovato una piccola caverna dove ci abbiamo rifugiato…. Era un brutto bivacco…. Ci abbiamo stretto tutti quattro insieme per avere un pochino di caldo ma non serviva. Ad onta di tutto ciò per la gran-de stanchezza io ho dormito qualche ora. La notte era bruttissima… Quando faceva gior- Sella Buinz.

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no la situazione era invariata. Attendemmo sino le 11. Poi abbiamo fatto un tentativo di discendere alla forca del Palone ma nella forte nebbia era impossibile orientarsi. Più tardi scendemmo alle casere di Pecol. Avevo intenzione di salire l’indomani alla cima di Terra rossa per fare il resto della cresta sino al Montasio ma appena a mezzogiorno si rischiarò il tempo ed era troppo tardi. Discesi a Chiusaforte e col treno mi recai a Valbruna.”

Il 5 agosto durante la salita del Grande Nabois, Dougan è affascinato dalla bellezza dei luoghi e dal desiderio di dotare quella zona anche di un rifugio

“Nella Saifnizer Krnica sotto le imponenti pareti delle Gamsmutter abbiamo sostato men-tre queste si tingevano di color rosa. È un punto tanto bello e interessante che decisi nuo-vamente di fare la proposta alla S.A.d.G. per una capanna.”

Testimonianza questa del suo ritorno all’Alpina dopo la pausa della guerra e la lontananza dai monti per i noti problemi di salute. In quell’anno su ”Alpi Giulie” appare anche il suo primo articolo in cui descrive la salita invernale dello Steinerner Jäger. L’articolo viene riportato anche nel diario.

Il 28 ottobre escursione sull’Auremiano. È una delle rare volte in cui accenna alla sua famiglia. Le poche volte che lo fa, cita il padre cui sembra molto affezionato, e che, possiamo immaginare, deve avergli trasmesso la passione per la montagna

“Molti anni indietro venivammo qua qualche volta con papà meta di qualche nostra gita. Si andava a Vrem dall’amico Max che andava a scuola con papà e il figlio a Lubiana con me o si traversava l’Auremiano e si andava a Niederdorf. L’oste della stazione si ricordava di noi. In cima all’Auremiano restammo Lea e io lunghe ore facendo anche un bel sonnel-lino.”

Sono escursioni serene per i luoghi e per la compagnia“Escursione a Petrovo Brdo 2 marzo. Anche questa volta arrivammo col primo treno della mattina con l’intenzione di salire il Poresen ma la tormenta non ci permise… Vicino ai casolari di Petrovo Brdo ci divertimmo come fanciuli di fare grandi balle di neve. Come sempre ci divertimmo anche col tempo bruto.”

Appare per la prima volta Alberto Hesse che si legherà in cordata con Dougan in ascensioni importanti. Di lui, altro dimenticato dalla storia, il poco che troviamo è raccontato da Dougan

“Per una disgrazia toccata ad un suo amico durante un escursione sul Totenkirchl abban-donò per anni la montagna ma ritornò credo, con più coraggio di prima.”

“Alle 5 della mattina del 2 Marzo la Bois de Chesne, Hesse, Schnabel, Lea e io subito dopo la partenza da Piedicolle allaciammo le grappette… La cresta del Črna Prst aveva dei stupendi cornicioni di neve. In cima era un vero godimento non soffiava la minima arieta, bel sole, vista stupenda. In discesa la neve si scioglieva e noi ad onta delle racchette affon-davamo nella neve. Gran ridere col “fetten Schincken” che la Bois de Chesne portò con sé per consiglio di Kugy.”

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L’alpinismo di Dougan non è fatto solo di vette facili e difficili; il suo alpinismo è esplorazione e scoperta e lo porta anche all’attraversamento di forcelle come la forca della Val, la forca del Palone, la forca del Vandul, la forca delle Puartate ritrovando qui l’antico percorso dei pastori dalla val Dogna.

Le forcelle permettevano ai cacciatori raggiungere i branchi di camosci e ai pastori di portare le greggi da un versante arido a uno più fertile.

Nel caso della Forca del Palone sarà la cima ad essere di ripiego“Il 24 Maggio Hesse, sign.ra Niederhorn, Lea ed io a Chiusaforte e ripartimmo con una carretta subito per Piani. Dopo una sosta da Pesamosca ci mettemmo in cammino per le malghe Prato di mezzo. Era una notte buia e cavaloni neri di nuvole correvano nella dire-zione Nord. Quivi arrivati ci rifugiammo in una casera e riposammo 2 ore. Alle 8 giungem-mo impiegando dalle malghe alla Forca 1 ½ ore…Ma qui era impossibile calarsi giu dall’altra parte giacche il vento era cosi forte in sella da non poter regere in piedi. Il scopo di questa gita era il modo di una prima traversata della forca del Palone ma come detto ben poco si poteva intraprendere. Un curioso fenomeno abbiamo visto al di la della Forca. Poco sotto di noi ad un certo punto saltavano le pietre come colpite da una fucilata e contemporaneamente si udiva un forte tiro. Non abbiamo potuto comprendere se questo era dovuto a uno scherzo elettrico o dal vento. Con quel vento e freddo non potevamo a lungo resistere percio gia che il tempo si ha un pochino rimesso decidemmo di salire la cima di Terra Rossa… alle 11 eravamo in cima. La sosta era abbastanza bella. Alle 12 siamo scesi.”

Sulle “Alpi Giulie” Dougan così descrive la traversata della forca del Vandul “La Forchia di Vandul è la più profonda sella nella catena est del Cimone. Quando il Finde-

A sin. Olga Bois de Chesne e Vladimiro Dougan.

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negg quale primo turista la raggiunse nel 1878 esso rimase tanto colpito dall’orrido dei precipizi verso nord, che così la descrisse:“(Rel. ann. D. Oe. A. V. 1877) si presenta qui uno spettacolo alpino che io chiamerei porta d’Aver-no (Hollentor) essendochè precisamente questo è il nome che vi si adatta. Due muraglie di roccia esattamente verticali dell’altezza di 1000 piedi costituiscono una larga porta, e I’interna struttura appare invero come una porta di un gigantesco tempio, del quale però sia già caduta la cupola. Se si tocca la soglia, che cade in strapiombi, lo sguardo si perde in una spaventosa gola, che cade a picco nella Val Dogna…Era trascorso dall’epoca di questa descrizione esattamente un mezzo secolo e non si era trovato nessuno che avesse avuto l’animo di attraversare quella soglia, il che era ben naturale trattandosi nientemeno che della soglia dell’inferno. Se si fosse trattato della porta del cielo, si sarebbe potuto vedere quanta gente avesse voglia di salire lassù. - Io però che son certo di attraversare nell’al di là quest’ultima porta, non volli lasciarmi sfuggire l’occasione più unica che rara di dare un’occhiata nell’inferno. - Quando si tratta di una grande impresa l’amico Alberto Hesse è poi sempre della partita, e certamente non abbandona l’amico proprio nel momento in cui si tratta dell’inferno…Scendemmo tosto fino ad una cengia friabilissima, che continuava sotto la forcella, cengia che ci portò ad un angolo con lastroni di roccia. Colà ci attendeva iI principio delle maggiori difficoltà. Dopo parecchi tentativi di raggiungere una cengia inferiore più larga, da ultimo poco prima dello spigolo della parete attaccammo una parete a lastroni che scendeva sotto Ia cengia. Quando fummo scesi di là per circa 20 metri, attraversammo verso sinistra per circa 12 metri sull’estremità di un lastrone a cengia, contrassegnato da un foro nero. Colà c’era un piccolo posto per riposare. La traversata di questo lastrone lungo 12 metri si svolge su una pietra tanto liscia e senza appigli, sopra un abisso tanto terribile, che abbiamo preferito percorrere quel tratto a piedi scalzi. Dimenticammo però di prendere con noi i peduli da roccia, del che ci dovevamo poi molto pentire. Per uscire dal foro dovemmo superare ancora un salto di roccia alto 4 metri e difficile; poi ci trovammo su una cengia che conoscevamo di già per averla già raggiunta salendo da Dogna.Ora sapevamo che grandi difficoltà ormai non ci attendevano più e ne fummo lieti che per la gioia della vittoria scendemmo il resto della via zuffolando e cantando….Volentieri avremmo proseguito fino a Dogna; ma poiché eravamo scalzi non c’era da pensarci. Già tanto ci dolevano i piedi ad ogni passo che spesso ci aiutavamo a salire coi ginocchi. Fu una marcia di penitenza su spine - così almeno io sotto i piedi sentivo la roccia acuta e pungente. Ma non si poteva far altro - visto che avevamo commessa la sciocchezza di lasciare lassù le scarpe da roccia. La conseguenza fu che per poco non sarebbe andata male quando raggiunti nuovamente i difficili lastroni cominciò a piovere. Lastroni difficili e per giunta lisci, - ognuno può pensare come noi ci si sentiva.Raggiunta finalmente la Forchia Vandul corremmo in fretta giù per il verde pendio fino ad una fonte nascosta. Eravamo infatti senz’acqua perché Ia boraccia si era staccata dallo zaino di Hesse e, con grandi salti in pochi secondi, aveva rifatta la via da noi percorsa in più ore.”Cfr. A.G. 1929, pagg. 10 - 11

Il Cimone del Montasio resta il monte che più di altri rivela l’ostinatezza caratteriale di Dougan per il lungo assedio a cui sottopose la sua parete Nord prima di riuscire a scalarla.

Nel diario Dougan descrive i suoi tentativi.Tentativo di una prima salita della parete Nord del monte Cimone sino a 2200 m.

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“Arrivammo alle 7.30 di sera Hesse e io a Chiusaforte dove si unì a noi ancora Pesamosca. Stentatamente un piccolo cavallino ci portò a Dogna dove cercammo un altro portatore già conosciuto da Hesse. Blanc si chiama. Non so se questo era un sopranome perché realmente la sua faccia è bianca come la cera. Parla poco questo piutosto piccolo uomo mentre che i suoi occhi sono vivacissimi, in complesso un curiosissimo essere. Era alla caccia con un al-tro suo compaesano quando venne scoperto dal vecchio Mikic suocero di Antonio Oitzinger. Sicome non volevano fermarsi colpiva l’uno mortalmente mentre Blanc se la svignò. Nella notte Hesse e io avanti fino a Chiout. Lungo tempo durò fino a che la nostra buona donna piena di paura ci apriva la porta. Andammo a dormire sopra un vivace fienile, dico vivace giacché era pieno di pulci. Alle 5 ½ partimmo discendendo per 300 m al Rio di Dogna e passammo questo per un ponte zinzolante talmente stretto che bisognava essere equilibristi per traversarlo. Subito dopo si passa una piccola e graziosa malghetta, poi ci si inalza per un bosco e di tanto in tanto erano pogiate trapole per gali di montagna. Guardando da Chiout il Cimone ci pareva un osso duro ma arrivati dopo il bosco sopra una colinetta dove riposammo, una specie di Belvedere per il Cimone, ci parve acesibile da diverse parti. Deci-demmo allora di salire il Cimone nobilmente cioè per un via diretta. Dopo arrivammo a una casera dirocata e da lunghi anni gia abbandonata. Da questo incantevole luogo si domina una stupenda vista specialmente sul Montasio con le sue pareti selvagge e avanti a lui stanno i Scortisoni e sembrano una fila tagliente di coltelli. Noi che non avevamo molto tempo da perdere salimmo per il classico terreno, almeno così ci pareva a noi perché completamente abbandonato dagli stessi abitanti della valle Dogna e assolutamente sconosciuto ai alpinisti sin sotto le vergini pareti. Il punto dove attaccammo le rocie sarebbe nel valone che porta in su dalla casera abandonata e cioè lì dove la rocia arriva piu in basso. Non lungo tempo ci arampicammo che la nostra via nobile non nobilmente ci respinse. Blanc e Pesamosca erano i primi a abandonare. Hesse voleva per forza tentare, ma quando giunse sotto un strapiombo e stava sopra un pilastro che pareva tutto fuso con la parete, questo si mose. Era la prima insidia che ci tese il Cimone. Disilusi tornammo. Piu a sinistra una ripida gola conduce sino quasi in cresta, volemmo attaccare questa, ma alla sua base sono pareti che strapiombano e percio dovemmo attaccare piu a sinistra ancora 50 metri piu in alto dove ce un ultimo larice e una cengia avrebbe dovuto portarci alla gola. Hesse avanza per primo e fatti un 20 m. nella cengia, assicurato da me e da Pesamosca ma da una posizione così poco sicura che se Hesse fosse scivolato noi due non avremmo potuto fermarlo. Noi due fummo assicurati da Blanc che in cambio aveva una magnifica posizione. Dopo di che Hesse monta sopra una placa umida e di la avrebbe dovuto salire sopra una seconda cengia piu alta la quale e pero iragiungibile. La posizione nella quale si trova Hesse e pero così critica che non si arrischia di ritornare senza prima aver incalzati gli scarpetti i quali aveva in custodia Blanc. Facevammo allora una specie di funicolare con la corda dopia. Passava un scarpetto e tornava un stivale che Hesse incalzava con una mano e con l’altra si teneva alla rocia. Battuti la seconda volta non ci dammo per vinti ancora e realmente girando ancora piu a sinistra dove ce il più grande canalone di tutta la parete Nord del Cimone qui anche più lavorato specialmente con nume-rosi torrioni. Prima sovramontammo una placa subito piu tardi una cengia erbosa che e poco buona porta verso destra poi si inalza verso una seconda piu larga cengia che porta a sinistra

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poi per un più facile terreno sino a ragiungere una stretta cengia che porta a un bellissimo stretto camino lungo 16 metri e arrivati sopra questo sono altri 10 metri di esposta rampi-cata ma con magnifici appigli. Si svolta verso sinistra per una cenghia che va sempre più alargandosi e quindi per terreno facile verso destra si inalza per un abastanza lungo tratto che finisce per ripidi verdi in una specie di buco e subito sopra a questo si si trova sopra una crestina che guarda in un canalone che cade giù perpendicolarmente (questo sarebbe il cana-lone secondario che cade pararelamente al grande canalone) la stano due cenge l’una piu in basso e larga, l’altra piu in alto e stretta. Tutte due vano verso sinistra. Noi prendemmo la piu alta, che termina presto. Girando verso destra pochi passi arrivammo in un grande buco ma che è troppo alto per soprapassarlo. Ancora pochi brutti passi piu avanti ci trovammo chiusi da tutte le parti. Pesamosca tentò di soprapassare una liscia rocia e più di 30 volte tenta di gettare una doppia corda sopra uno spigolo ma questa mai fa presa. Il Cimone trionfa e noi siamo batuti, stanchi, rotti e anche l’ultimo momento gia che fa tardi le 5 ¾ discendiamo. Con la notte siamo arrivati alla casera dirocata. Un grande fuoco ci difende dal vento freddo che entra liberamente da tutte le parti. Prima di partire guardammo a lungo stupefati l’imponente Montasio, poi la grandiosa parete del Cimone e non ci parve vero di essere stati battuti dopo tante fatiche. Rapidamente scendemmo in valle Dogna e risalimmo l’altra sponda a Chiout.Hesse andò a Dogna a raggiungere il treno mentre io salivo il passo Somdogna fermando-mi spesso a guardare il Cimone ma poco ho potuto vedere essendo giusto l’ultimo tratto, che più interessava in nebbia… Lungo stetti ad ammirare e studiare le circostanti belle montagne poi vinto dalla stanchezza del giorno precedente mi addormentai per ben 2 ore. Quindi ridiscesi in val Saissera poi oltre i prati di Oitzinger giunsi a Valbruna nella ospi-tale casa di Oitzinger.“

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Il rifugio Pellarini

Dougan si impegna a portare a buon fine la sua proposta per la costruzione di un rifugio sotto le Madri dei Camosci “Avendo avuto l’incarico di far costruire una capanna per conto dell’Alpina delle Giulie da me proposta parecchie volte in anteceden-za (Alla fine della costruzione non ebbi neanche un grazie, in cambio il dott. Chersich si invento una lunga storia facendo la proposta come se fosse partita da lui)Trovai quella stessa sera i uomini per la costruzione.”

Queste considerazioni, sarà più chiaro in seguito, mostrano che Dougan non vedeva la distanza tra la sua visione e quella istituzionale dell’Alpina delle Giulie pur perseguendo il medesimo scopo

“8 Luglio siamo partiti alla mattina alle 6.30 da Valbruna Mikosch e Gelbmann - imprenditore per la costruzione del rifugio Pellarini. Nella Saifnitzer Karnika cercammo lungo tempo il punto piu adatto per la capanna fino che decidemmo il punto che domina l’arco della Saifnitzer Karnika e la valle Saissera piu a pochi passi ce un ruscello.

Dougan con Olga Bois de Chesne.

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Poi seguimmo il nostro cammino nel Karnit-zen Settel per ricercare tra i residui di guerra il materiale per il tetto… Discesi in fretta gia che volevo il medesimo giorno far tutte le strade necessarie per il ri-fugio. A Valbruna presi una carozza che mi trasportò a Tarvisio dal capitano Michelan-gelo e da lui otteni la concessione del taglio della legna. Contemporaneamente telegrafo a Chersich la conclusione del contratto. Via da Tarvisio vado ad Ugovizza e ottengo il permesso di ritirare la lamiere zincate per il tetto della sella Karnika e facio ritorno a Val-bruna. Il 9 luglio arriva Lea la sig.na Boi de Schen. Le vado incontro a Ugovizza.”

Il discorso inaugurale del presidente Chersi viene riportato sul giornale locale Il Piccolo

“Parlando ai presenti, il presidente avv. Cher-sich esalta la figura dell’eroe Luigi Pellarini e dice che quella di imporre il suo nome a questo ri-fugio è l’onoranza massima che poteva essergli

resa dall’Alpina. Questo rifugio infatti - egli dice - segna la realizzazione delle speranze di un ventennio dell’Alpina. Egli ricorda le varie vicende che portarono alla costruzione di esso, ideato dieci anni prima della guerra, quale unica casa alpestre per gli italiani nelle Alpi Giulie irredente. Ricorda l’opera dell’ing. Ziffer, col preparare progetti e piani e con l’animare i giovani alla ricerca del posto adatto; e di quei piani e di quelle ricerche ricorda il lungo calvario, che è pure una parte del calvario nazionale degli italiani già soggetti all’Austria. Si dice commosso di compiere, con

Rifugio Pellarini.

Plastico del Rifugio Pellarini.

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l’inaugurazione del rifugio, il voto dei maggiori dell’Alpina, ed è fiero di ricordare l’attività espli-cata in questo gruppo e per lo studio di questa zona da numerosi alpinisti delle Giulie. Cita tra i pionieri di queste Alpi, Piero e Napoleone Cozzi, Antonio Cramer, Graziadio Bolaffio, Holzner, Sapunzachi, Seppich, Zanutti, Dougan, ai quali tutti spetta l’onore di aver salito per vie nuove numerose cime di questo gruppo.”

È comprensibile l’imbarazzo di Dougan che aveva un’idea pragmatica della funzione del rifugio.Dougan resta presenza invisibile non solo per il rifugio Pellarini ma anche quando, in un arti-

colo del 1924 intitolato “Il nostro impegno per lo Jòf Fuart”, Chersi parla dei propositi dell’Alpina di riattare il ricovero di guerra sotto la cima del Jòf Fuart per offrire agli alpinisti la possibilità di un riparo in caso di bivacco. Era stato Dougan a soggiornare lassù l’intero inverno del ‘16-‘17 nella capanna Scotti. Se fosse stata ricostruita, difficilmente avrebbe conservato il nome originario.

Aggiungendo anche la proposta di far saltare con l’esplosivo il famoso blocco superato da Dougan e Pesamosca che sbarra l’accesso alla cengia degli Dei, per rendere agevole il passaggio lungo la cengia.

La vicenda ci offe una chiave per capire il tipo di rapporto esistente tra Dougan e l’Alpina; ri-spettato per le doti alpinistiche, vissuto con imbarazzo quando l’organizzazione si presenta come una società alpina di patrioti.

Capanna Scotti.

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Il Cimone

La parete nord del Cimone continua ad interessare Dougan che ritorna per un nuovo tentativo“Il 30 luglio di sera partimmo Hesse e io per Udine dove incontrammo Nisse che veniva da Biela. Il nostro piano era di tentare un altra volta la parete Nord del Cimone. Io ho passato una bruttissima notte a Udi-ne, avevo forte febbre. Al mattino partimmo tutti insieme per Dogna. Io mi recai a comperare Chinino mentre loro si interessavano per porta-trici per portarci i nostri pesantissimi sacchi sino al nostro bivacco… Pecato che non ho potuto godere di piu quella giornata bella a causa il mio malessere. Avevammo un splendido tramonto. La notte la passai male. Un po’ tardi partimmo dal bivacco alle 8 di mattina del 1 agosto e alle 9 eravamo nelle roccie. Già qui si accorse Nisse dei sui facili apprezzamenti su la salita. I suoi cammini non erano che sottilissimi tagli strapiombanti nella roccia, le sue cenghie era il contrario inca-vato di sotto. Prendemmo la via percorsa gia l’ultima volta cioe quella grande gola. Patimmo causa il sudore per il peso del grande zaino specialmente per i 60 m. di corda, i ferri di roccia e il martello. Lungo tempo perdemmo ancora sopra il cammino per raccogliere a gocie l’indispensabile acqua. La strada percorsa si prende un po’ a destra della neve che sta nel fondo del canalone superando subito una placa di 2 m. poi una cengia stretta coperta di rocce friabili e verdi. Per un altra cengia verso sinistra e per terreno più facile fino a traversare un altra cengia strettissima (sino qui io da primo, poi Hesse) L’unico modo di sorpassare una salto che chiude ogni avanzata lungo in fuori è un bellissimo camino di 16 m. Fuori di questo si sorte sopra una stretta crestina e con altri cinque m. di rampicata con buoni apigli si è su un terreno più facile che si inripidisce sempre di più. Si sale per 100 m. arrivando sopra una cresta. Sino qui eravamo gia l’ultima volta. Un 20 metri più sopra siamo stati batuti percio tentammo prendere il grande canalone che ragiungemmo mediante una larga cenghia. Sico-me tutto è ripido sopra di noi 20 m. piu in alto non si vede piu la parete.

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Sperando che il canale porti in cresta tentammo in tutti i modi di forzare questo passaggio. Come primo sale una placca liscia Hesse seguito da noi due, poi tenta un liscio colatoio ma in mancanza di ogni appiglio deve abbandonare questa via. Poi Nisse e io lavoriamo sopra difficili roccie piu a destra. Inutilmente si tenta battere un chiodo per assicurarsi o si rompe la roccia o si storge il chiodo. Anche qui non c’è una via d’uscita. Nisse fa un sforzo e tenta invece a sinistra per un taglio nella rocia a scavalcare il salto. Per un espostissima e difficile rampicata si alza 20 metri circa, li mancano ancora 3 metri per sovrapassare il salto, ma gia gli mancano le forze. “Avanti è impossibile” dice. Fa un paio di passi per una cenghia appena accentuata non vuole ritornare subito gli manca pero l’appiglio. Cer-ca ma tutto immobile cio lo rende nervoso e un momento dopo grida “Attenzione!” Vedo come sta perdendo l’equilibrio. Prendo presto una buona posizione ma comprendo che il strappo dei 40 metri di caduta (20 m. sopra e 20 m. giù) mi sarebbe impossibile a sostenere. Per un miracolo trova l’appiglio e discende cautamente giù. Ancora non ci la diamo per vinta, torniamo per la cenghia sino alla crestina verso destra. Da qui assicuro io Hesse al di la della crestina verso destra in un ripido canalone che a 10 m. più in basso finisce in un strapiombo. Questo e un canalone secondario. Nisse assicurato di nuovo da Hesse si spinge oltre una seconda sella e finisce nel grande canalone principale. (Son due canaloni principali, quello per il quale siamo saliti che si trova a sinistra e l’altro tentato ora che si trova verso destra) ma torna batuto anche qui. Tornando scivola per 5 metri ma viene fermato a tempo con la corda da Hesse che si trova verso destra). Io racomando di tornare perché gia tardi ma non vengo ascoltato. Si torna a tentare il nostro ultimo tentativo fatto l’ultima volta con Pesamosca. Ora ci acorgiamo che la notte e vicina e stanchi rotti, spe-cialmente per l’enorme peso del sacco, discendiamo in tutta fretta. Al cammino ci prende l’oscura notte… sembra che siano strapiombi e gia perdiamo ogni direzione. Per fortuna o per combinazione sotto un sasso troviamo un pezzo di carta, è un segnale lasciato ancora l’anno precedente che ci assicura di essere su la giusta via Poco dopo siamo di nuovo in contrasto, mentre io che mi sono ben marcato nella mente durante la salita ogni minimo particolare, e percio ero sicuro del fatto mio, insisto per discendere verso destra Nisse ed Hesse sono per la via a sinistra. Finisco per aver ragione io. Hesse è stanco e si lagna di rimanere come ultimo allora cambiamo e resto io ultimo. La nostra grande imprudenza era di restare legati con quell’oscurita alla corda giacche nessuno di noi era sicuro del suo passo come nepure sapeva se l’apiglio che prendeva tastando era buono o cattivo… Finalmente arrivammo alla placa che ci assicurava che la mia via presa era la giusta e con cio fummo fuori dalle rocie. Erano le 9.30. Ma anche qui non era ancora terminata la no-stra peripezia di quella agitata giornata. Presto perdemmo lo stretto sentiero e arrivammo in un groviglio di pini mughi poi ovunque piccole pareti. Dopo lunghe ricerche, tornando indietro trovammo il nostro punto di bivacco. Un allegro fuoco ci riscaldava e poco dopo si dormiva. L’indomani alle 8 quando il sole era gia alto ci levammo… Facemmo il giro fin sotto il Zabus, poi contornando il Clapblancs, qui incontrammo un vecchietto che ve-dendoci improvvisamente sortire rimase tutto spaventato, appena con un offerta di una mia zigaretta si avvicino a noi. Quando alla sua domanda rispondemmo “dalle pareti del Cimone” con un sarcastico sorriso rispose che lì non passa anima viva. Interminabilmente

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lunga è la strada sino alla sella Somdogna. Arrivammo stanchi per il lavoro del giorno precedente ancora in sella. Una chichera di latte e una pezzo di polenta è ristoro alquanto e mezz’ora più tardi eravamo sul fienile a dormire. L’indomani il 3 di agosto scendemmo con una pioggia fitta fitta cantando a Valbruna, dove Lea e la sig.ra Niederhorn ci attendevano. Dopo un buon pranzo partimmo da Ugovizza per Trieste.”

Dougan proverà sette volte a salire la parete nord del Cimone. Ci riuscirà l’ottava. In discesa e dopo aver studiato a lungo la parete

“Durante il mio pelegrinaggio in montagna ho avuto ocasione di studiare tutti i suoi fian-chi cosi osservare passando le diverse volte per il canale di Dogna mi interessava sempre guardare la facie selvaggie del Montasio e del Cimone… Studiai dal Cuc del Boor da dove si presenta con un imponenza straordinaria e rimasi scetico nel credere accessibili le sue pareti… Al Dott. Kugy che non è ignoto il più remoto angolo delle Giulie, e che di quando in quando vuole farmi un regalo, svelandomi generosamente nuovi piani di osservazione. Non solamente ma per questa cima mi presento un perfetto scrutato di roccia assicurando-mi con cio la vittoria…Il 10 giugno arrivammo Hesse e io a Piani dove pernottammo e l’indomani 11 giugno Hesse io Pesamosca e una portatrice ci inviammo durante una calda giornata alla Vien-na dove depositammo tutto il nostro bagaglio. Così allegeriti raggiungemmo la cima, poi scendemmo per la cresta e infine per un ripido ghiaioso terreno verso la gola che nel ultimo tentativo con Hesse e Nisse invano tentammo di conquistare. Fra la grande larga gola e la seconda stretta -tutte due da noi tentate e studiate- c’è un torrione che termina 100 m. sotto la cresta in un stretto sporgente cucuzzolo verde. Su questo ci spingemmo e ci calammo a destra e sinistra in cerca di una possibile discesa nei suoi precipizi. Con poca o nessuna speranza tornammo in cima alle 6 speculando ancora da qui l’impossibile. Rapidamente tornammo scivolando nella neve alla Vienna ove ci preparammo per il bivacco. Appena tramontato il sole venne un ventisello freddo e ci cacio nei nostri sacchi letto e seguiva una notte delle più belle. Dimenticavo dire che alla sera stessa e venuto un certo Pezzana cacciatore di camosci di una frazione vicino Saletto al nostro bivacco, uomo esile che non mi dava molta fiducia quale arrampicatore invece quando lo provammo si dimostrò grande nella rocia… Alle 7.30 fummo in cima e ci recammo subito sul cucuzzolo verde del giorno precedente. Una piccola sosta, un marendino nel sole e poi al lavoro… Allora attaccammo la parette destra del nostro cucuzzolo che finisce nel grande canalone a destra. Un trenta metri più in basso si trova una cengetta coperta di ripidi verdi dove principiava a sporgere il canalone e precisamente dove finisce il grande canalone Per questo direttamente giu qualche metro e prendendo la cengia che va obliquamente scendendo. Da questa cengia si separa una parette che casca in un precipizio e che finisce nella grande gola dove noi ultimamente tentammo di salire. Questa cenghia finisce su un altro verde secondario cucuzzolo che forma una spece di altro piccolo torrione. Questo va sempre assottigliandosi che lo si fa a cavalcioni. Da qui in poi sta la chiave per giungere su la grande cenghia che fummo già altre volte. O prendere il cammino che ha un salto in mezzo e troppo largo e per di più e tutto friabile

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e umido o sender alla fine del camino che sarebbe veramente una larga fessura per una parettina di 25 m. quasi perpendicolare, con rarissimi pessimi apigli. In questo caso biso-gna non discendere direttamente ma bensi mentre si discende traversare lentamente sino entrare nel sboco del camino. Lungo ci consigliammo sul da farsi finalmente visto che un ritorno nel medesimo giorno, come nostra intenzione, era impossibile, mandammo Pesamosca di ritorno con l’incarico di attenderci per il bivacco l’indomani sino a mezzogiorno… Come via ci decidemmo per la parettina. Hesse assicura Pezzana e io Hesse. Lungo tempo su questa posizione espo-stissima Pezzana lavora con la piccozza spazzando tutta l’erba e il muschio che stano con inganno come un scalino e che al minimo urto si rompono piu tutte le pietre friabili. Poi discende assicurato da Hesse ma quella assicurazione serve poco o niente perché la corda sta quasi orizzontale e nel caso scivolasse andrebbe a sbattere chi sa in che modo. Finalmente giunge per questa espostissima e pericolosissima parettina nel camino. Non gli basta la corda piu e deve molarsi da questa. Ancora un paio di metri giu per il camino poi per una strettissima cenghia sino a giungere su una crestina. Ansiosamente attendiamo la risposta da Pezzana come va avanti la cenghia? Ci grida Vedo ma prima c’è una salto. Dobbiamo sendere ora noi due. Prima va Hesse, ma non ha preso bene la posizione di discesa e deve tornar due volte poi come un scoiatolo va giù infine vengo io e quando sono

nel camino do un grande sospi-ro ma alla cenghia io piu grosso dei altri due non riesco a passa-re, deve venire Hesse a aiutar-mi. Siamo sulla crestolina tutti e tre facendo una piccola sosta e mangiando con appetito. Hesse e Pezzana… vanno a guardare se e piu facile l’ascesa da sinistra, per la prossima salita prendere-mo questa via migliore. Durante questa manovra io che mi trovo a cavalcioni su la crestina, mancò poco che non venissi colpito da un sasso caduto rasente a me dal alto, fisciando come una palla di fucile!Ora si tratta di raggiungere la lar-ga cengia. Temiamo che causa il salto dovremmo tornare indietro. Entriamo nel canaletto che non è altro che il prolungamento del camino che prima avevamo in-tenzione di farlo ma che invece di Cimone parete Nord. Il percorso in discesa parte superiore.

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esso sceliemmo piutosto la parettina. Per questo canaletto che era parzialmente riempito di neve scendiamo qualche metro e da qui vediamo con nostra grande gioia che ripiegando verso sinistra, vediamo quel salto che ci dava pensieri, raggiungiamo sicuri la cengia. È una specie di colatoio d’acqua coperto di un limo. Facendo grande attenzione superiamo anche questo, un salto e siamo sulla cengia. Oramai tutto il terreno e di nostra conoscenza. La gioia e grande. Il Cimone ha finalmente ceduto non senza metterci altri ostacoli per la via. Traversiamo al nostro bene conosciuto buco da dove in poi giace ripida neve. Due volte dobbiamo traversarla. Io e Pezzana battiamo dei grandi scalini nella neve visto che uno solo di noi possiede la piccozza. Arrivammo al cammino che lo faciamo per la quinta volta. Poi le diverse cenghie e piccole arrampicate sino che arrivammo fuori dalle rocie. Ormai in questo terreno gia tante volte battuto da noi ci pare sempre più facile. Una breve corsa e siamo al nostro vecchio bivacco. Contemporaneamente cala la notte. Ci tocca passare la notte quasi senza provviste e senza cose per coprirsi. Per nostra fortuna ce qui legna per fare fuoco. Il fuoco veglio tutta la notte io avendo disturbi allo stomaco e perciò non potevo dormire. Pecato che questo male mi guastò alquanto la gioia della vittoria. Al primo farsi del giorno Hesse e Pezzana decidono di tornare sul Cimone. Quando partono il Montasio ha già il suo capucio. Io stavo male perciò non trovai prudente di andare con loro. Erano forsi passati ¾ d’ora dalla loro partenza che in fondo dietro il Zuc del Boor si inalzava un nuvolone nero. Già si sentiva lontani tuoni che lasciavano preveder il rapido avicinarsi di un temporale. Facevo conto che loro dovrebbero essere già nelle roccie e se non se ne acorgono a tempo di

discendere gli andrebbe male. Mi facevo seri pensieri per loro. Con un enorme muralione nero pauro-samente con grande fracasso si avvicinava il temporale. Già arri-vò messaggero il vento e contem-poraneamente il cielo si oscurì che sembrava venisse la notte poi seguiva un lampo dietro l’altro infine si scatenò un vero diluvio. Io in una corsa pazza raggiunsi la casera che si trovava poco più in basso non senza essermi prima bagnato. Accesi qui un fuocherel-lo per asciugarmi le vesti, ma se da una parte mi asciugavo dall’al-tra mi bagnavo perché il teto vec-chio lasciava penetrare ovunque acqua. Quando il tempaccio un po’ si calmo andai subito in cerca dei miei amici. Li ho visti sotto le rocie - per loro fortuna non sono CimonepareteNord.Paretedifficile,dettaglio.

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arrivati prima del temporale su le rocie - e mi facevano di moto che vogliono traversare verso la sella tra il Cimone e il Ciuc di Vallisetta. Discesi percio tranquilamente per il bosco bagnandomi ancora di piu. Per ogni albero tocato involontariamente era il castigo di una nuova doccia d’acqua. Prima di arrivare al torrente di Dogna sta una piccola casera. En-trai. Era abitata da un vecchio 70enne, sua figlia e un bimbo. I miei calzoni erano a brandeli e speravo di farmeli cucire qui, cosa che non mi riuscì per mancanza di filo. Grande era la meraviglia del vecchio e perciò subito mi chiese da dove vengo in simile stato e con simile tempo. Quando gli dissi “dal Goliz” - Goliz viene chiamato nella val Dogna il Cimone - non voleva credere. Mi spiego allora che in 50 anni da che si trova in quelle malghe sotto il Cimone, uno solo è venuto giu per la e quello era il cadavere del militare fotografo getato dal fulmine dalla cima nel precipizio. E che neanche i camosci passano per lì fatto si è che sempre quando lui li caciava se gli era possibile di portali in alto nelle rocie erano come in trapola perché ogni via era chiusa in alto e con cio nessunno gli sfugiva. Non voleva a nessun costo che li pagassi il latte consumato quel buon vecchio. Quando passai lo stretto ambulante ponte, la valle selvaggia del Dogna sorrideva nel piu bel sole. Quando arrivai nel vilaggio di Dogna era giusto radunata la gente per andare in chiesa. Era un gran guardarmi con compassione cosi straciate erano le vie vesti. Poco dopo giunse anche Hesse e Pezzana che non hanno trovato il modo di passare nella val Raccolana. Con una carrozza andiamo a Chiusaforte a telegrafare a Kugy la lieta notizia.”

Notizia che doveva essere attesa da Kugy tanto che scriverà“L’incantesimo che copriva le muraglie Nord e Sud del Monte Cimone è stato infranto da Dougan e Hesse nel 1927 e ’28. Li seguì, in imprese nuove, sempre difficilissime, il trion-fante gruppo degli eccellenti e audaci rocciatori triestini.”J. Kugy, Le Alpi Giulie attraverso le immagini, Tamari, Bologna, 1970 pag. 205

Appare su “Alpi Giulie” una monografia con le nuove ascensioni compiute da Dougan del 1927, un anticipo della futura Guida Dougan-Marussi del Montasio.

Le differenze tra i due racconti pongono un problema che si proverà ad esaminare più avanti.

Monte Cimone (m. 2580) per la parete Nord (l percorso)“Il Monte Cimone è la vetta più alta nella catena che va dallo Zabus al Monte Jovet; e divide

il Canal di Dogna da quello di Raccolana. II dottor Kugy gli dà l’appellativo di “vetta panoramica” io vorrei chiamarlo più particolarmente “il belvedere per il Montasio”. Quando l’alpinista avrà faticosamente superato il fianco sud del Cimone, che presenta un dislivello di circa 2000 metri e non offre alcun conforto di boschi o di acque, - non rimpiangerà la fatica fatta, perché gli si pre-senterà un quadro di tanta grandezza, quanta forse poche altre vette delle Giulie possono offrire. Si eleva infatti di fronte al Cimone, sorgendo da immensi abissi, il Montasio, altissimo, simile ad un colossale bastione. Ed a questo signore delle due valli, al Montasio, lo sguardo ritornerà ancora, affascinato, dopo percorsa rapidamente la lunga catena del Canin ornata di ghiacciai e nevai, le Alpi Carniche tutte comignoli, i lucidi ghiacciai dei lontani Tauri.II dottor Kugy, cui si può dire nessun segreto delle Alpi Giulie è sfuggito, ci ha informati che la parete nord del Cimone era ancora invitta. Decidemmo l’attacco, e partimmo per il romantico Canal di Dogna.

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Nel Canal di Dogna ci si presentò ad un tratto la muraglia del Cimone, uscente diritta da gole selvaggie ed appoggiata a torrioni che davano in iscorcio l’impressione di una fuga di colonne.Su questo versante - ben diversamente da quello sud - dalle scure gole e dalle alte conche, piene di neve, sgorgavano dappertutto rivoli d’acqua, vero ristoro, che più giù si univano in torrentelli alpini dall’armoniosa voce; e le correnti d’acqua di quei torrentelli scendevano poi, vivacissime, in cascatelle dai riflessi d’argento, di terrazza in terrazza, finché misteriosamente scomparivano inghiottite dalla gola che esse stesse avevano profondamente incavata. Con questa vita piena d’incanto armonizzavano in una perfetta intonazione i boschi di abeti e di faggi dalle tinte contra-state, i prati invasi dal sole, le conche nevose lucenti e splendenti, e le grigie muraglie tutte abissi e burroni. È questa una delle zone alpine nelle quali quasi mai arriva l’uomo. Di esseri viventi, nelle nostre ripetute visite, lassù abbiamo incontrato solo alcune pecore.Dei nostri otto assalti al versante nord del Cimone molti fallirono per il cattivo tempo, altri per l’impervio terreno.”

Segue un’altra lode al Montasio “Un altro nostro tentativo lo eseguimmo in una domenica tutta sole. Arrivammo ancora per

tempo ai nostro usuale bivacco, e godemmo alcune indimenticabili ore nella sovrana quiete di quel pomeriggio.Il Montasio appariva avvolto nel pomposo manto purpureo del tramonto, ed accanto, dopo la profonda gola delle Clapadorie, sfolgorava in una luce d’oro carico la parete ancora intatta degli Scortisoni.”

I Curtissons furono saliti il 24 agosto 1930 da Dougan con la moglie Lea, Deffar e Orsini. Una via mai ripetuta e sconsigliata dalla Guida del Buscaini per la pessima qualità della roccia dell’in-tera parete. Classificata molto difficile, in alcuni punti estremamente difficile. Deffar e Orsini che erano stati con Fabjan compagni di Comici il 6 luglio 1930 sulla parete Ovest del Cimone dove-vano avere cognizione sul come valutare le difficoltà di una salita

“Quando lasciammo il nostro bivacco, carichi dei nostri sacchi, il sole era già abbastanza alto sull’orizzonte. Un’ora più tardi attaccammo Ie roccie della grande gola di sinistra. E già aveva-mo raggiunto e superato, dopo Iungo vagare per le cengie tappezzate di verde, un magnifico, pronunziato camino alto 18 metri, quando dopo pochi passi in facile terreno ci arrestò un salto di roccia di una ventina di metri. Là non valsero nè l’astuzia né la forza; ogni tentativo fu inutile.Visto respinto il nostro attacco in quel punto, attraversammo la parete, dirigendoci ad una gola scura, bagnata dallo stillicidio superiore. Niese scomparve dietro ad una forcelletta, ma fu presto di ritorno, anche là, respinto. Mentre traversava, scivolò verso un burrone gigantesco e fu trattenuto a tempo con una vigorosa manovra di corda. Allora ci avvedemmo, con timore, che ormai sopravveniva il crepuscolo; quantunque appena 150 metri di terreno difficile, e un breve tratto di facile terreno ci separassero dalla vetta, - dovemmo iniziate con lesto passo, accorati, la ritirata. Per quanto ci affrettassimo, subito dopo il camino ci trovammo in piena te-nebra. Gli abissi divennero orridi; le forme delle roccie ingigantirono. Per puro caso trovammo una segnalazione da noi stessi lasciata l’anno precedente; ma subito dopo avuto il conforto di saperci sulla via buona, ci trovammo a discutere se si dovesse andare a destra o a sinistra. Ci scambiammo nell’ordine di marcia, ed io poco dopo toccai un lastrone che ci sembrò ricordare prossimo il luogo del nostro bivacco; ma fu una consolazione passeggiera; per lungo spazio di tempo vagammo ancora nella tenebra fitta fra i pini mughi, finché ad un tratto ci si presentò dinanzi il nostro posto di bivacco.

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Commossi dalla magnificenza di quel mondo alpino tutto luce e tutto sole dimenticammo il gior-no seguente l’amarezza del non riuscito tentativo; e per lunghe ore rimanemmo sul posto, senza potercene staccare. Appena verso mezzodì fummo in piedi per il ritorno; e passando per una gigantesca galleria di neve, raggiungemmo prima iI piede dello Zabus, poi il fondo valle e verso sera la Sella di Somdogna.”

A questo punto Dougan tenta di aprire la via in discesa per trovare l’uscita da quel labirinto di cui in salita non era riuscito a venirne a capo. Oggi la soluzione sarebbe affidata all’accrescimento della potenza arrampicatoria. Diciamo che la forza di Achille ha superatol’astuzia di Ulisse.

Dougan ha seguito la via della goccia cadente, quella che lavora la pietra, non quella che cade nel vuoto e che Benedetti rammenta a Comici dai ghiaioni della Civetta. Uno scambio di battute non privo di una sottile ironia che forse gli entusiasti del nuovo ideale non hanno colto“- Lo sai, caro Giulio, la via ideale, la via elegante è…- È quella della goccia cadente- Da dove l’hai rubata questa bella frase?- Non è mia: l’ha detta un famoso alpinista inglese.Tosto feci partire una goccia dalla vetta, cioè non la vera vetta ma il culmine della parete: la goccia partì, scese giù, giù… e toccò la ghiaia. Qui, però non ci trovammo d’accordo. Io sostenevo che era caduta più a sinistra, lui più a destra; ed avrà avuto forse ragione dato che in ufficio non faceva che tirar righe!”E. Comici, Alpinismo eroico, Hoepli, Milano, 1942-2014, pag. 71

“Hesse ed io allora pensammo di tentare la parete in discesa. Salimmo perciò due volte dalla valle Raccolana al Cimone ma fummo ambedue le volte respinti dalla pioggia, e dovemmo ritor-nare senza neppure aver toccato la cima. Una terza volta giungemmo sulla cima troppo tardi per poter fare un serio tentativo; pure, in quel giorno vedemmo molte cose che ci giovarono poi per il successo del nostro attacco.Nel tardo autunno tornai ancora una volta sul posto; ma le roccie erano già gelate; sicché ridiscesi senza poter nulla imprendere.Era passato così un inverno, quando Hesse ed io, questa volta accompagnati dalla guida Pesa-mosca, dal villaggio dei Piani, rannicchiato nel fondo della valle Raccolana, salimmo alla vetta del Cimone, e scendemmo poi per breve tratto sul versante di Dogna, raggiungendo un promontorio roccioso verde. Di là, per più ore vagammo cercando invano fra gli abissi una via di discesa. E già sera ci raccogliemmo nuovamente in alto, bivaccando nella conca della Viena. Si unì a noi lassù un giovane cacciatore di camosci della val Raccolana, di nome Pezzana.Era una notte magnifica. Sopra i neri contorni della montagna lucevano innumerevoli stelle nel cielo. Ma quando fu giorno, un vento freddo ci investì, svegliandosi bruscamente: ci affrettammo a correre sulle creste per cercare il tepore del sole.Il Montasio, ancora nella sua ombra, era di fronte a noi gigantesco; ma non avemmo il tempo di contemplarlo, perché, già il terreno non facile ci obbligava a procedere cautamente. Dopo esa-minate dal verde promontorio tutte le possibilità, ci sembrò di dover tentare a destra. La nostra prima meta ci apparve perciò segnata abbastanza chiaramente: uno sperone esile, ripido e sco-sceso che fu raggiunto passando per un canalone slavato, poi percorrendo una esposta e stretta cornice che si allargava a cengia ripida ed erbosa.

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Pesamosca si fermò là, ed ebbe da noi l’incarico di ritornare in cima per portare in valle Raccolana il nostro bagaglio rimasto sul posto del bivacco.Conveniva ora attraversare, scendendo obliquamente, una parete alta 28 metri, terribilmente ripida, provvista di pochi appigli; seguiva un colatoio umido. Pezzana fece prima cadere tutte le pietre che potevano staccarsi; poi il pericoloso tratto fu oltrepassato felicemente impiegando la massima prudenza. Una breve, stretta cengia ci condusse ad un dosso roccioso esilissimo, dove riposammo seduti a cavalcioni.Mentre io - ultimo della cordata - mi riposavo, Hesse e Pezzana si misero alla ricerca di una via migliore per l’eventuale risalita, e la trovarono raggiungendo - quasi - il promontorio roccioso er-boso. In quel frattempo un sasso caduto dall’alto mi passò accanto col sibilo di una palla di fucile.Ma il problema della discesa non era risolto ancora, sebbene vedessi già più in basso la cengia da noi altre volte percorsa. Ci doveva essere ancora in mezzo un difficile costone. Senonché quando riuscimmo scendere nella prolungazione del nostro canalone, ci fu possibile di piegare a sinistra per alcuni lastroni umidi, coperti di musco e di evitare con ciò il costone. E felicemente raggiun-gemmo così la nostra cengia: la vittoria era nostra.Il Cimone tentò ancora di contenderci il passo con alcuni ripidi nevai, i quali ci diedero alquanto da fare, perché avevamo in tre una sola piccozza ma non ci fermammo più, e senza altre peripezie raggiungemmo finalmente il nostro caro, vecchio bivacco.Il tempo si era fatto minaccioso. Hesse e Pezzana si prepararono tosto a risalire alla vetta del Ci-mone; io non potei unirmi a loro perché molto sofferente allo stomaco.Senonché poco dopo la partenza dei due scoppiò un furioso temporale. Sul Cimone tuonava e lampeggiava continuamente. Ero già in pensiero per i due compagni, e pensavo di andare a cer-carli, allorché essi dall’alto, dai nevai, mi salutarono con grida. Scendevano essi pure.Pesamosca ci raccontò più tardi che durante il temporale egli era stato scaraventato parecchie

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volte a terra dalle scariche elettriche. In tutta prossimità egli aveva sentito ben 27 volte il fulmine: è da notare che Pesamosca si trovava in quel momento quasi sulla vetta del Cimone.Io scesi solo a valle, e trovai molto più in basso una piccola baita dove mi potei riparare dalla pioggia. Un vecchio settantacinquenne mi vi accolse e mi domandò da dove venivo e che cosa volevo fare. Quando sentì che venivo dal Cimone (che egli chiamava come i valligiani di Dogna: Goliz), egli fece gli occhi grandi, e non voleva sulle prime credermi: mi disse che era già da 50 anni viveva da pastore e cacciatore a Sot Goliz, e che mai una creatura umana era passata per quel versante: neppure i camosci, che egli appunto spingeva nella caccia verso I’alto, perché così non gli potevano sfuggire.Intanto il tempo si era schiarito, e il sole era riapparso mentre io scendevo per Ia val Dogna, sel-vaggia e pittoresca. Nella piazza di Dogna i valligiani erano raccolti per assistere alla messa. Tutti guardavano sorpresi le mie vesti, in più punti a brandelli per la dura discesa compiuta.Quasi contemporaneamente arrivarono Hesse e Pezzana, coi quali assieme feci il viaggio in ferro-via fino a Chiusaforte. A Chiusaforte ci separammo. Hesse tornò a Trieste, il bravo Pezzana nella sua patria valle, io a Valbruna, dove altre montagne mi attraevano.Ora da lontano io ti saluto, Cimone obliato dal mondo! Se anche in avvenire conserverai il fascino della tua solitaria esistenza, in te voglio godere ancora molte ore di serena pace.”Cfr. A.G. 1927, pagg. 9-13

Dougan ritorna a parlare della sua passione per la montagna e come questa si ritrova anche in una semplice e schietta amicizia. Se Kugy ha scritto un intero libro su Oitzinger, le parole di Dougan in qualche modo lo completano

“Non esiste albergo abbastanza lusuoso e di massimo confort che potrebbe farmi cosi felice come la semplice ospitale casa di Oitzinger. Probabilmente mentre i Hotel distrugono tutto quello che ha senso alpino, nella casa di Oitzinger tutto presenta e parla della montagna. Si potrebbe avere un miglior rappresentante della montagna di Oitzinger stesso? Con lui si rievoca dolci ricordi di bivacchi e imprese e quando tutto è esaurito mi raconta le comiche o teribili aventure brigantesche passate in Bulgaria e Turchia. Parlate con un albergatore vi dirà sciochezze perché lui non conosce non ha mai salito e non si è mai interessato della montagna che lo circonda. Avere simili amici e una fortuna.”

Poi è la volta della parete nord del Foronon del Buinz. Riportiamo la relazione del tentativo di salita perché come quello del Cimone è indicativo della selvatichezza di quel bastione delle Giulie alla cui sistematica esplorazione Dougan si è speso di più

“a m. 2400 circa sul Foronon. Tentativo prima salita della parete Nord. Il 27 giugno giungemmo a Valbruna dopo aver fermato a cenare a Chiusaforte gia col scuro, col automobile guidata da Hesse in grande compagnia. Pezzana lo imbarcammo a Chiusa-forte. Tutt’altro venne a stare la serata di quello che noi ci rallegrammo. Al nostro caro Oizinger è sucesso una grave disgrazzia. Mentre conduceva il suo toro a casa venne da questo senza alcun motivo agredito ben per due volte conficando le corna nella polpa della coscia e getandolo oltre il suo corpo in aria un 3 m distante. Col automobile an-dammo incontro al medico questo trovò grave la ferita e realmente stentava lungo tempo a guarire. Il nostro programma di partire la medesima notte venne per questa causa trasportato all’indomani.”

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L’episodio del ferimento di Oitziger è ricordato anche da Kugy, evidentemente anche lui face-va parte della “grande compagnia” che viaggiava sulla macchina di Hesse

“Una volta era stato vicino alla fine, quando fu gravemente ferito dal suo toro. Ma la sorte propizia fece sì che arrivassi da lui insieme con Dougan e Hesse. Insieme riuscimmo a sal-vare dall’infortunio il nostro valoroso compagno.”J. Kugy, La mia vita, Eurograf, Tarvisio, 2011, pag.214

“Dopo il pranzo siamo partiti con un tempo che non prometteva il più bello Lea, Hesse, io, Mikosch e Pezzana. Quando salimmo nella Spranja il cielo era gia tutto chiuso. Il nostro posto di bivacco abbiamo destinato di prendere alla quota 1722 ma prima cercammo un posto riparato dalla pioggia per potersi eventualmente in questo caso cambiare bivacco. Poco distante fra i ultimi larici preparammo un grande fuoco e un comodo bivacco. Non fummo neanche ben scivolati nei nostri caldi sacchi di piume che pioviginava, per nostra fortuna non duro a lungo. Nuvoloni neri passavano di continuo provenienti dal sud, mentre nel grande silenzio si sentiva solamente il scroscio del legno che ardeva, e strano, un ucelli-no nella notte che cantava. Un freddo venticello ci acolse quando al mattino del 29 Giugno uscimmo dai nostri sacchi, questo ricaciava i nuvoli, ma non completamente. Alle 5 ½ ci incamminammo verso le ormai vicine rocie. Al punto del attaco stava la neve vecchia (1) da uno a due metri stacata dalla rocia oltre circa 10 m. Dove più si avvicinava con un largo

Foronon del Buinz. 1. Nevaio; 2. Attacco; 3 Cenghia; 4 Canalo-ne;5DifficilePunto;6Camino;7Galeria; 8 Grande cenghia.

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passo montammo nella rocia. Per una stretta appena marcata cenghia (2) di 3 - 4 metri poi per una altezza di 2 uomini, liscia e fangosa rocia innalzammo. Questo brutto passo ci rubo parechio tempo. Altri pochi metri per un traversale camino umido che il terreno permette di stare in piedi. Una specie di cenghia larga che si inclina sempre piu cambiando in plache ripide, traver-sammo ancora sino vicini al canalone (4) poi prendemmo piu in alto pochi metri di una stretta cenghia. Qui sta la chiave. Hesse e Pezzana spariscono subito e dura lungo tempo sino che trovano un posto sicuro per assicurare. A questo scopo una corda non basta biso-gna legare la seconda. La distanza che ci divide è di 50 m. Segue Lea poi io. Sino la prima cenghia che è strettissima ci si inalza quasi perpendicolarmente con pochissimi lisci appi-gli (5). Questo è il punto peggiore. Poi si traversa verso destra in una stretta cenghia (fra 5-6) infine una spece di camino (6) si raggiunge la seconda piu larga cenghia. Tutti unani-mi decidemmo di non tornare a qualunque costo a questo pessimo passo. Una altra erta ed esposta rampicata e siamo su un ulteriore cenghia che traversa alzandosi obliquamente. A un certo punto si entra in una galeria e si sorte per un buco cosi stretto che col sacco non si passa. Da qui in poi la cenghia si restringe sino ad arrivare sopra un bloco taliente e malsicuro che sta sopra una cantonata e fuori di questa stiamo sopra una larga cenghia.È gia tardi credo l’una del pomeriggio siamo molto bassi ancora e il tempo non promette nulla di buono. Senza perdere tempo prendiamo una direzione retta alla cresta. La salita aviene sempre più ripida gia montiamo nella neve bagnata, i scarpetti sono anche bagnati e non fano presa sulle roccie, Hesse scivola, io pure, sempre più ripido, sempre più neve. Ancora un cantone, poi un ripido canalone riempito di neve ci divide dall’ultima alta cen-ghia su la quale sta molta neve. Tentiamo il canalone anzi Hesse se ne accorge che sotto la neve fresca, nella qual s’afonda sino a metà corpo e neve vecchia e dura. Traversare vuol dire stacare una valanga e nessuna altra possibilità di salita ovunque rocie perpendicola-ri. Siamo a 100 m. dalla cresta e non resta altro che ritornare. Il spauracchio dell’ultimo pericoloso passo ci fa stare in seri pensieri. La montagna tenta di vendicarsi con noi e per la mal’ora lascia nevicare. Ogniuno di noi e preocupato. Se in salita era così difficile cosa sara la discesa con le rocie bagnate. Gia stiamo prospettando di bivaccare nella galeria, se ci ragiunge la note in ogni caso. Adesso presto giu. Non siamo nemeno legati per non per-dere tempo. In un momento a l’altro vedo Lea cadere giu scivola sulla neve e rapidamente va aumentando di velocita. Hesse che sta sotto di lei arriva a fermarla. Che spavento! Avanti presto giu, siamo sulla grande cengia e entriamo nella galeria. Sospiriamo almeno il tempo è un pochino clemente con noi, cessa di nevicare e la rocia s’asciuga presto. Ora stiamo passando il peggio. Io discendo per primo e non è andato tanto male come temevo. Poi vengono i sacchi. Devo scendere sotto fino a un nevaio (B) tanto che la corda (dal A al B) arriva coi sacchi legati a me. Questa manovra dura un tempo perché spesso i sacchi s’impigliano nelle rocie. Piu che qualche sasso cade e uno mi colpisce. Torno alla cenghia (C) aiuto la Lea e la accompagno abbasso, cosi arriva maestralmente con la corda doppia Pezzana. Siamo salvi, ancora qualche difficoltà al passo (2 e 1) e siamo fuori del tutto. E quasi notte che arriviamo al posto del nostro bivacco. Col fermo proposito di non tornare a questa brutta impresa che ci avrebbe potuto costare a qualcuno di noi la vita, scendiamo

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a marcia forzata nella scura notte lungo la valle a Valbruna. Oggi che scrivo mi viene la tentazione e credo questo anno di fare. Cosi e la montagna come una bella donna, piu si si vuole stacarsi piu atacati si si sente. Hesse per quanto stanco e non perfettamente pratico ancora nel guidare l’auto vuole a tutti i costi tornare quella stessa notte oltre il Predil a Trieste. Credo che se abbiamo rischiato la vita in montagna consciamente, in automobile l’abbiamo inconsciamente, giacche Hesse mi confesò che se io non lo avrei chiamato a far piu attenzione lui esausto della stanchezza e del sono si addormenta al manubrio. A Solca-no faceva giorno e con tutta la nostra stanchezza ci siamo divertiti sino a Trieste. Io sono arrivato a andare puntualmente in ufficio.”

Dougan poi salirà quella parete pubblicandone il resoconto su “Alpi Giulie” resoconto non presente nei diari che terminano l’anno prima. Nell’articolo troviamo anche la descrizione del tentativo precedente e questo offre un ulteriore spunto di riflessione sulla differenze presenti tra le due redazioni; senza i Diari avremmo incontrato quel Dougan ”schietto, quieto, modesto” che i contemporanei avevano conosciuto?

“L’alpinista diretto a traversare la Forcella del Lavinal dell’Orso sosterà, certamente qualche minuto nella Spragna superiore, sull’ultimo molle prato erboso, prima di iniziare la risalita faticosa dell’erto ghiaione immettente nella Forcella. In quel punto, nella corona di gigantesche monta-gne che circondando I’alto circo egli vede eccellere in una severità di linee quasi opprimente Ia verticale scura parete del Foronon. E su quella parete uniforme e grigia vede disegnarsi due bellissime, verdi, attraenti cengie molto larghe, dove una volta indisturbati pascolavano i camosci. Dal dottor Kugy ho appreso che questa parete attendeva ancora chi la salisse.Già era il crepuscolo, quando il 28 giugno 1925 mia moglie, l’amico Hesse, Pezzana della Racco-lana, sempre tutto passione per la caccia, la guida Mikosch ed io ci disponemmo ad un bivacco accanto agli ultimi larici della Spragna. Nuvole scure strisciavano lente per il cielo venendo da sud e ci avrebbero messo indosso pensieri e malumore, se il nostro fuoco di bivacco non avesse provveduto a distrarci.Alla mattina seguente raggiungemmo in breve ora il crepaccio marginale del nevaio, e attraver-satolo con un largo salto ci inerpicammo su per la roccia umida e lubrica, dove subito trovammo un difficile passaggio per arrivare ad una cengia che si sviluppava a sinistra. La difficoltà principale consisteva nel superare una parete rocciosa alta circa 40 metri, liscia, ripidissima, che ci portò via molto tempo specialmente per issare i nostri pesanti sacchi. Seguì una breve facile rampicata, che ci portò in una cengia obliquante a sinistra, coperta nel bel mezzo da una galleria lunga una diecina di metri, il cui sbocco era tanto angusto, che vi si poteva passare soltanto liberandosi del sacco. Presto fummo sulla prima larga cengia verde, e non trattenemmo un grido di gioia, perché ci sembrò di avere ormai superate tutte le difficoltà. Pezzana, colla sua solita esuberanza vedeva orami la cengia tanto facile a percorrersi che sosteneva di potervi far transitare un’intera mandria di armenti. Ma, c’ingannavamo.Al grido di gioia tenne dietro lo studio accurato delle roccie che in alto portavano resti di neve re-centemente caduta. Tanta neve, che dovemmo presto cambiare le scarpe da roccia con le scarpe chiodate, sulle cui suole la neve umida si raccoglieva in massa, attaccaticcia. Quanto più si saliva, tanto più ripida diventava la roccia, tanto più profonda la neve molle; e tanto più lentamente noi progredivamo, finché ad un roccione dovemmo fermarci. Di là, restava da superare solo un ripi-

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dissimo colatoio per raggiungere la cengia superiore. Ma in quel colatoio il fondo era neve dura, la superficie era di molle neve in cui si affondava fino al ginocchio. Il pericolo di una valanga era tanto imminente ed evidente, che preferimmo - quantunque sentissimo non assai lontana la vetta - troncare I’impresa e ritirarci. Intanto fitte nebbie calavano sempre più, si indugiavano attorno ai torrioni, incappucciavano le cime, e proditoriamente per gole scendevano fino a noi. Cominciò anche a cadere una lieve neve, finissima. Quei momenti, nei quali tutto sembrò cospirare contro la nostra impresa mi sono impressi nella memoria. Vedo ancora la nuvola grigia, minacciosa, le grigie roccie umide, la neve floscia e traditrice. Sento ancora I’impressione di desolazione e di tristezza che ci penetrò in quel istante di sopraffazione. Mi par di provare ancora la tensione dei nervi e I’interna inquietudine ormai di me impadronitasi per i lastroni che sapevo imminenti, umi-di, difficili. E ricordo il silenzio che fu mantenuto da tutti noi durante la cauta discesa, e ricordo anche il senso di liberazione dal pesante incubo, il sospiro di soddisfazione che demmo quando all’imbrunire uscimmo dalle roccie. Eravamo stati fortunati.Per essere più sicuri, io mi recai, prima del nostro secondo attacco, il 24 luglio 1926 sulla grande cengia inferiore nord-est del Jòf Fuart, per osservare di là, meglio la parete del Foronon. Molte ore indimenticabili ho passato lassù, in quella romita altitudine, nella vivida luce del sole, avvinto dalla grandezza delle opposte immense muraglie. Da lassù in tra quelle muraglie ho appreso più di quanto avrebbero potuto insegnarmi due giorni di esplorazione.”Cfr. A.G. 1927, pag.5

Studiare le pareti da posti di osservazione lontani per trovare la linea da seguire è una carat-teristica dell’alpinismo di Dougan, molto lontana dal metodo Veni, Vidi, Vici. La preparazione è una nota caratteriale presente anche nella sua scrittura come ha fatto notare la grafologa Marcella Meng che ha esaminato i diari.

Kugy ci parla di questo approccio anche in un diverso contesto“E finalmente anche l’ultimo interrogativo che lasciai sulle pareti delle Giulie occidentali ha trovato una risposta: il grande segreto della possibilità di salire al Montasio dai primi remo-ti angoli della Clapadorie, l’orrido più selvaggio delle Giulie… Riccardo Wittine, tenace e valoroso rocciatore si assunse l’impegno. In base ai miei piani si diresse con Spanyol verso i piedi dei grandi imbuti… Anche un secondo tentativo della medesima cordata fallì… allorché l’occhio esperto di Dougan, dalla cima del Jòf di Miez, notò il punto debole della parete ed ebbe quindi in pugno la chiave: ma naturalmente lasciò la precedenza all’amico. Wittine questa volta col dottor Basilisco attaccò la terza volta… e riportò la sua ben meri-tata vittoria.”J.Kugy, La mia vita, Eurograf, Tarvisio, 2011, pag. 211

Nelle storie dell’alpinismo gesti così sono rari perché è l’agone con la categoria vincitore-vinto ad orientare la morfologia del racconto. In questo senso la figura Dougan è dis-allineata e non riportata perché avulsa dalla pedagogia della rivalità di cui la storia dell’alpinismo, così come l’abbiamo conosciuta, sembra essere una declinazione.

“Ed allora, qualche giorno dopo Mikosch ed io, grevemente carichi, risalimmo il ripido sentiero fra i cespugli fragranti dei mughi, e fra i prati multicolori di flora alpina, passando accanto a rumo-rose, spumeggianti cascate, e fresche fonti, lievemente mormoranti fra l’alto tappeto muscoso, e raggiungemmo un posto elevato dove predisponemmo un bivacco. Ma senza sostare colà più di

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La lente sulla scrittura di Dougandi Marcella Meng - Grafologa, ONC-CAI

Nell’era digitale, in cui stiamo perdendo la capacità insieme al piacere di scrivere a mano, acquisire dei diari manoscritti può sembrare un mero capriccio da collezionisti. Scorrere le pagine di questi taccuini ingialliti, dove la mano dell’alpinista, intingendo il pennino nell’in-chiostro, ha vergato i suoi segni, è invece una grande opportunità di relazionarsi direttamente con lui. Gli scritti possono essere interessanti non solo dal punto di vista dei contenuti, ma anchedellacalligrafia,chepuòfornireinformazionisultemperamentodelloroautore.

La scrittura del giovane Dougan nel 1914 è molto accurata e leggibile, non fosse per la pre-senza di tratti iniziali delle parole molto lunghi e rigidi, per la mancanza di trattini sulle lettere t operalcunevocalilasciateaperte(segniperaltroriconducibilialmodellocalligraficodiallora).Le lettere, di dimensione ridotta sia nel corpo centrale che negli allunghi superiori e inferiori, sono angolose e strette, come pure lo sono i collegamenti fra una lettera e l’altra; l’inclinazione prevalentedellagrafiaèperpendicolarealrigo.Nontuttelelettereall’internodelleparolerisul-tano collegate fra loro; i puntini delle i sono ben presenti.

Nello scritto del 1925, il tracciato è più spontaneo e quindi meno regolare, anche se sempre molto compatto e incalzante; si notano in qualche riga dei cambi di andatura e la scrittura a mo-menti prende un orientamento leggermente inclinato a destra. A volte la grandezza delle let-tere aumenta, per poi ridimensionarsi progressivamente. Rimane qualche tratto iniziale diritto.

Lo scrivente è una persona sensibile e reattiva, ma molto controllata e con forte senso del dovere. Agisce in modo determinato e con ostinazione, difettando, per troppo coinvol-gimento, di una visione più ampia e distaccata sulle cose che fa. Porta avanti i suoi impegni con costanza e rigore e con l’orgoglio di aver agito con scrupolo. E infatti attento ai dettagli e preciso, si muove con cautela, smorzando il proprio entusiasmo nella concentrazione. Ha un’intelligenza pratica acuta, ma non di approfondimento, poiché in lui la componente affetti-varisultasacrificata.Sulpianopersonalenonamamettersiinmostra,èunintroverso,capacedi comprendere gli altri, ma non troppo aperto al dialogo.

I taccuiniscritti inetàmatura(1935)contengonounagrafiapiùscioltaepiù inclinataadestra, con una maggiore strutturazione negli spazi della pagina. Nel tratto è meno marcata ladifferenziazione fra i filetti ascendenti e i pienidiscendenti. I collegamenti fra le letterepresentano angoli smussati. La rigidità delle forme si stempera in un ritmo meno cadenzato. Rimangonoglierroridiortografiatipicidichiscrivetraducendoilsuodialetto(comel’assenzadi doppie e gli accenti omessi).

Qui il latosentimentale,precedentementesacrificato,haguadagnatoterrenoeoriental’azione; l’esigenza giovanile di obbedienza al dovere si è trasformata in un dovere percepito come senso di necessità. L’energia di autoaffermazione è diminuita, ma a vantaggio di una visionechehaacquisitounmiglioresensoprospettico.Lametodicitàoperativaèaffidatadipiùall’intuizione.Anchelaspigolositàcaratterialesièattenuatainunamaggiorefiducianelprossimo.

NellafirmaappostasullasuaguidadelMontasio:lazonacentraledellagrafiahamaggiorvigore che negli altri scritti - segno questo di buona stima di sé; la lettera D del cognome, am-manierata da una forma a convolvolo, rivela che l’uomo pragmatico non rinuncia a concedersi unacertadosediautocompiacimento,rafforzatodalgestomarcatodelparaffofinale.

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quanto necessario per deporvi la nostra roba proseguimmo in ricognizione fino all’attacco, a noi or-mai ben noto. Ma quell’attacco era questa volta impraticabile. Una parete verticale alta 4 metri, che non avevamo vista l’altra volta perché mascherata dalla neve, ci impedì subito il passo. Dovemmo spostarci molto a sinistra fino ad un colatoio di neve, interrotto a metà da un salto di roccia. Per una breve cengia, un piccolo camino ed un facile spigolo roccioso potemmo girare l’ostacolo. Dopo il colatoio vennero roccie slavate, senza appigli, dalle quali uscimmo per toccare la parete, a noi già nota, dei 40 metri. La ricognizione era riuscita: il lavoro del primo giorno era compiuto, e per I’indo-mani era assicurata una rapida e decisa salita.Ben in alto, in un posto dove un ultimo larice è riuscito a crescere malgrado tutti gli elementi a lui avversi, in un piccolo ripiano circondato da mughi dall’odor di resina, su un breve spiazzo che è anche un magnifico belvedere provveduto di un rivoletto d’acqua sgorgante da un rimasuglio di valanga ci fermiamo per preparare il nostro bivacco. In quel piccolo paradiso improvvisiamo coi rami dei mughi per noi e per i compagni, che attendiamo, i giacigli soffici e fragranti. E se anche più tardi ci accorgiamo di qualche sasso che fra ramo e ramo arriva a indolenzirci le membra, e se anche le nostre scarpe ci sembrano-dopo- un capezzale un po’ duro, gustiamo il sonno in quell’al-tezza e in quella montagna con un godimento profondo. Terminato il lavoro mi collocai accanto al fuoco che ormai scoppiettava vivace, mentre cominciava lo spettacolo del tramonto. La larga val Saisera era nell’ombra azzurra, mentre dalle vicine vette rapidamente sparivano le ultime luci. La notte colle sua tenebra si approssimava. Come giganti dormienti si elevavano attorno a noi i colossi alpini rigidi e severi ma sembrò che in loro si manifestasse, appena lambiti dai primi pallidi raggi della luna sorgente, una vita nuova, fantasticamente animata.Da questo succedersi di sogni fui scosso quando i compagni, che ci seguivano, ebbero lanciate alte grida di gioia scorgendo il nostro fuoco di bivacco. Erano mia moglie, Hesse e Pezzana che in breve furono sul posto. Alle 5 antimeridiane abbandonammo il nostro bivacco, mentre ancora la valle era tutta un mar di nuvole. Rapida fu questa volta la rampicata e solo nel punto più difficile ci fu necessario perdere molto tempo per la manovra del ricupero dei sacchi. Ed intanto dal mar di nuvole si alzavano grandi pennacchi di nebbia e minacciavano di coprire il nostro monte se una brezza leggiera non fosse sorta a spazzarle e il sole non le avesse disciolte e assorbite. Dalla grande cengia noi passammo al colatoio situato a destra, e presto fummo su certe roccie friabili e sfaldabili, che dopo una difficile e pericolosa rampicata ci obbligarono a spostarci sul canalone di sinistra già da noi percorso nell’anno precedente. Le condizioni però vi erano questa volta in

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tutto migliori. Facile apparve il colatoio di neve. La cengia attigua, a galleria, era ancora coperta di alta neve; da quella cengia si elevava ancora un ultimo ripido bastione di roccie, ma un cana-lino proprio sotto la vetta permetteva di superare le roccie con un’agevole salita. Pieni di gioia per la nostra vittoria ci stringemmo la mano quando alle 11 toccammo la cima. Pareva quasi che il tempo avesse voluto mostrarsi benigno a noi soli. Tutte le altre vette erano avvolte nella fitta nebbia; solo il nostro gruppo era illuminato dal limpido sole. Lungo fu il ritorno. A circa 2300 metri girammo attorno al Modeòn del Buinz, e alla Cima delle Portate, salimmo la Punta del Plagnis e raggiungemmo per gli Scialins e per la Forcella del Lavinal dell’Orso la val Saisera.Prima di passare dal bianco greto della Saisera nella scura e fitta boscaglia gettai un ultimo sguar-do pieno di muta riconoscenza al Foronon. Riconoscenza per la magnificenza alpina che esso mi aveva svelata e per il tesoro di ricordi avventurosi che riportavo ancora una volta dalla montagna.”Cfr. A.G. 1927, pag.6

Durante il ritorno lungo la Saisera, Dougan incontrerà casualmente Giorgio Brunner. Un veloce saluto ma per noi, l’occasione di leggere su “Alpi Giulie”, in un articolo riportato più avanti, l’ultima testimonianza pervenutaci di una persona che aveva conosciuto direttamente Vladimiro Dougan.

I diari riportano ancora la salita di Dougan con Lea sul monte Bianco dove lui ha la spiacevole avventura di cadere in un crepaccio nella zone dei Grand Mulets:

“Cosi avenne che il portatore che passava come primo passo felicemente un ponte di neve senza veramente acorgersi che si trovava sopra un crepaccio, invece io piu pesante, quan-do pare ero sul orlo per uscire da un momento a l’altro sono sparito nel crepacio. Il buco prodotto da me era tanto quanto grossa la persona. Con un piede ero ataccato coi ferri Eckenstein agrapato sulla parete di ghiaccio e col resto del corpo sospeso alla corda. Il crepacio era profondo da 15 a 20 metri largo circa 2 ½ m. Le pareti di ghiaccio erano liscie e finivano restringendosi in un buio verde, solamente sotto di me in fondo era un terrazzino di neve. Pensavo sul da farsi. Qualora la corda non mi tenesse sarei finito sul terazzino e questo non sarebbe stato male. Conservavo il sangue freddo e ero tanto calmo forse come mai solamente un momento quando di fuori il portatore per avvicinarsi all’orlo e prestarmi aiuto mi lasco la corda forse per 1 m. avevo la sensazione di cadere nel abisso ho preso un attimo di paura poi mi sentivo nuovamente sicuro. Studiavo di poter allargare le gambe o con la picozza prendermi sull’altra parete di ghiaccio ma era troppo largo. Intanto mi sentivo tirare alla corda. A strapi di corda arivai a fare a fare 3-4 m. Lea ha preso molta paura e nella mia caduta la feci cadere anche essa ma fu fermata vicino all’orlo superiore dalla guida. Senza commentare minimamente l’accaduto andammo avanti…Arrivammo a Bossons dove entrammo in un locale. Io stavo a far ordine nei miei sac-chi quando finito mi voltai la vidi circondata forse da 50 persone specialmente signorine, quanto pare vileggianti che l’amiravano e si congratulavano che come donna fece il monte Bianco in un sol giorno. Davanti a tanta gente era impaciata.”

La figura alpinistica di Lea viene ricordata da Daniela Durissini“Lea condivideva la passione del marito, che seguiva molto spesso, ed anche il suo modo

di andare in montagna. Si adattava alle fatiche e ai disagi, tanto da suscitare l’unanime ammira-zione dei compagni di arrampicata e anche degli altri alpinisti che frequentano le Giulie e che la

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incontravano accanto al marito, con lo zaino pesante, mentre si apprestavano a salire quei monti selvaggi e semisconosciuti che entrambi amavano moltissimo.”Daniela Durissini, Montagne per passione, Lint, Trieste, 2003, pag. 108

Con la frase “Il 31 luglio a malincuore ripartimmo per Trieste” terminano i diari.

Considerato che i diari e i taccuni iniziano assieme nel 1908 e se questi ultimi arrivano al 1936, perché i diari terminano undici anni prima?

È strano che un’attività importante con tre spedizioni, dove Dougan ha strizzato la sua energia come il dentifricio da un tubetto, non siano state ritenute degne di scrittura.

Il lungo racconto sul Caucaso uscito a puntate su “Alpi Giulie”, può essere scaturito solamen-te dalle brevi note dei taccuini?

Inoltre se diari raccontano il Dougan aperto all’avventura perché tacere esperienze così signi-ficative?

Il desiderio di conoscere spinge la mente ad avventurasi in ipotesi anche in assenza di prove certe, ignorando la famosa frase con cui di Wittgenstein conclude il suo Tractatus: Su ciò, di cui non si può parlare, si deve tacere.

Sapendo di trasgredire, l’ipotesi di un terzo diario non è una boutade per attirare l’attenzione. Quel diario avrebbe raccontato il Dougan all’acme della sua attività alpinistica e forse avrebbe detto qualcosa del suo complicato rapporto con il GARS.

Un diario perduto per incuria o distrutto? O forse mai scritto o perlomeno non nella forma degli altri due? Domande senza risposta.Spesso è solo il caso a salvare qualcosa dall’ecatombe di Chronos. Come il profeta Amos

nell’ottavo secolo a.C. - citato da Sergio Quinzio nel suo “Dalla gola del leone” - aveva detto: Come un pastore salva dalla gola del leone due zampe o un brandello d’orecchio, così saranno salvati i figli d’Israele.

Non tutto si è salvato della vita di Dougan. E malgrado la presenza dei diari, dei taccuini e degli album, Dougan continua a nascondersi. L’Alpina si è battuta per strappare dalla bocca dell’oblio un brandello di storia facendo ciò che era giusto fare.

Malgrado questo, ritorna il messaggio del film Domandando di Dougan, uscito prima che venissero alla luce i diari, dove s’individuava nella mancanza, la cifra caratteristica della storia di Dougan.

Dougan s’identifica in quella parte di vita divorata dal tempo non senza guardare verso di noi, che pensiamo da spettatori esterni, per mostrarci ciò a cui si va incontro e quanto difficile sia prenderne coscienza.

Il desiderio, alla notizia del recupero dei diari era di ribaltare questa tesi e fare di Dougan un alpinista come gli altri inquadrarti nella storia senza residui.

Non è così. Dougan resta una traiettoria sgradita a ogni spirito tecnico-matematico per la vertigine che provoca il camminare sulle scalinate di Escher senza la rassicurante balaustra della scienza, dove non è in gioco la corretta derivazione di una frase da un postulato ma quella del tutto a partire da ciò che non ha fondo.

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DOPO I DIARI

C on la fine dei diari finisce la possibilità di conoscere i fatti direttamente da Dougan. Il racconto, continua nelle parole di chi lo ha conosciuto:

Kugy, Pollitzer, Botteri, Chersi, Brunner e attraverso gli articoli di “Alpi Giulie” sapendo che potrebbero essere stati rivisti da un’altra persona.

Dougan in quegli anni completa l’esplorazione del gruppo del Montasio e pubblica la guida del gruppo.

Questa guida, tra le prime ad essere pubblicate in Italia, segna il riscatto di un uomo del popolo, che ottiene un risultato insperato. Su “Alpi Giulie” appare questa recensione

Guida dei Monti d’Italia: Il gruppo del Montasio“Anche il Dougan e il Marussi hanno voluto fare una guida; hanno invece

licenziato alle stampe un inno in onore della montagna… I due autori sono ben noti negli ambienti alpinistici: Dougan, dura tempra di scalatore, compa-gno di Pollitzer nel Caucaso, conoscitore come pochi delle Giulie, il giovane dottor Marussi, alpinista silenzioso e tenace, cartografo di rara abilità. Ambe-due innamorati di un medesimo ideale: la montagna… La “Guida dei Monti d’ Italia” si è arricchita così di una nuova opera e, per la seconda volta a breve distanza di tempo, per merito della Sezione triestina del CAl, la Società Alpi-na delle Giulie. La “Collana” si allunga e questa volta di una perla.” Cfr. A.G. 1932, pag. 23

In questa fase Dougan lascia ai suoi compagni Hesse, Pezzana, Deffar, il

compito di salire da capocordata i tratti più impegnativi. Lui studia il problema, spesso indirizzato da Kugy e individua il percorso

di salita portando a compimento quel lavoro sistematico di esplorazione così caro al Cantore delle Giulie.

Anche Dougan ha fatto delle Giulie il suo gruppo d’elezione. Visita i grup-pi dolomitici famosi per turismo ma non arrampica.

Unica eccezione le Dolomiti Clautane dove si reca più volte, nel 1928 e nel 1930 aprendo anche delle vie nuove. Fu una scelta in linea con la prefe-renza di Dougan per i monti poco frequentati e non è detto che questa scelta non sia stata orientata ancora una volta da Kugy

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“Un regno fantastico che, chiuso nell’anello fatato dell’ignoto e del mistero, sbarrate le porte, aspettava in purità verginale, il rivelatore: le Alpi Clautane.”Kugy, Dalla vita di una alpinista, Lint, Trieste, 1985-2000, pag. 190

Nella relazione firmata da Dougan e Botteri su quei monti, si leggew“I nostri portatori ci attendevano, avendoci premurosamente acceso un buon fuoco, e noi

soddisfatti della nostra prima rampicata, prendemmo possesso di questo simpatico “Blockhaus”. Licenziati i portatori, rimanemmo soli a godere dell’immensa solitudine allietati dal fasto dei colori autunnali”Cfr. A.G. 1929, pag. 18

La guida Dolomiti Orientali del Berti, vol. II riporterà alcune delle nuove salite illustrate nell’ar-ticolo.

Della successiva campagna dolomitica non ci sono articoli su “Alpi Giulie” e il caso ha voluto che per un biglietto ritrovato sulla cima Sud della Cresta del Leone possiamo vedere una via di Dougan nei famosi disegni di Alfonsi che caratterizzavano le guide di Antonio Berti.

Oggi le guide rispondono a mutate sensibilità. Nelle relazioni delle salite non ci sono più le descrizioni di cui parlava Giani Stuparich

“Ma lo sport è stato per noi anche poesia. Leggete qualcuna delle relazioni di Comici su certe sue prime salite delle Dolomiti: poesia delle alte solitudini, dove il cuore trema sotto l’espressione serena e trasparente come l’aria.“Giani Stuparich, Trieste nei miei ricordi, Il ramo d’oro, Trieste, 2004 pag. 32

Ramo del Leone, disegno di Alfonsi.

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Cima D’Auronzo. Si traversa decisamente a d. per una tipica strettissima cornice gialla, orizz. a tratti interrotta che porta alla base di una fessura verticale e strapiombante, incisa sulla som-mità del pilastro d. Si traversa (6°; 3 ch.).

“Leggete qualcuna delle relazioni di Comici su certe sue prime salite delle Dolomiti: poesia delle alte solitudini, dove il cuore trema sotto l’espressione serena e trasparente come l’aria” R.M. 1951, N.11-12 Foto Angelino

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Gli articoli per “Alpi Giulie”

Letti i diari; gli articoli di Dougan pubblicati su “Alpi Giulie” fanno pensare ad una revisione dei suoi testi prima della pubblicazione.Gli articoli, pur riportando gli stessi fatti descritti nei diari, non riescono

a farci conoscere la persona al di là delle frasi, fino a cogliere il momento in cui il pennino sta per essere intinto nel calamaio dopo quelle parole scritte più in chiaro perché l’inchiostro stava esaurendo. Un’altra emozione perduta assieme alle altre causa le nuove tecniche di scrittura.

In alternativa si può pensare un Dougan Mr. Hyde nei diari privati e Dr. Jekyll nella scrittura pubblica, ipotesi scherzosa fino ad un certo punto per-ché nei diari a volte dà l’impressione di giocare con i suoi errori, difendendo il dialogo interiore dalle intrusioni delle uniformanti regole ortografiche. Per questo oggi i diari sono una trasgressione più espressiva della correttezza formale degli articoli.

Nelle ascensioni pubblicate su “Alpi Giulie” e ricopiate nel diario ritrovia-mo ancora alcune idiosincrasie caratteristiche del suo scrivere per cui l’ipotesi di un tutoraggio non è da rigettare completamente.

Difficile individuare con certezza l’autore o gli autori, tranne i casi in cui la sua firma è accompagnata da quella dei compagni di cordata come Deffar e Botteri.

Kugy conosceva benissimo l’italiano ma scriveva in tedesco pertanto è assurdo cercare negli articoli affinità lessicali con i suoi libri.

Un piccolo segno a favore di questa ipotesi sta nella grafia del cognome di un compagno di cordata di Dougan quel Nisse dei diari che diventa Niese nell’articolo, e tale è riportato da Kugy anche in un suo libro

“Che Hesse e Niese avevano scavalcato già prima la forca Disteis dalla Clapadorie a Nevea, è detto nel mio libro.”J.Kugy, La mia vita, Eurograf, Tarvisio, 2011, pag. 206

È possibile invece ritrovare qualche tematica ricorrente, una su tutte: le lodi al Montasio.

Sappiamo quanto fosse caro a Kugy questo monte e quanto spingesse af-finché altri continuassero la sua esplorazione sulla base delle sue indicazioni.

A sostegno di questa ipotesi ci sono due motivi, uno ideale l’altro prag-matico.

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Il primo riguarda la possibilità per l’autore di “Dal tempo passato” di una seconda giovinezza e di partecipare al nuovo che fioriva nel solco della sua esperienza.

Poteva per un momento dimenticare quella pietas per le cose che passano, motore immobile della scrittura kughiana: si parli di montagne, piante, animali, persone, a tutto conviene il mede-simo destino.

Gli esempi sono numerosi, ne cito uno preso dal libro su Oitzinger dove questa struggimento non viene da una riflessione ma dalle cose stesse

“Lo accompagnarono al cimitero. Lasciai che il corteo mi superasse, volevo che i compae-sani e i familiari andassero avanti e restare solo ad una certa distanza, senza trovarmi stret-to tra la gente. Ma un’altra creatura, sconsolata, col capo basso e un’andatura lenta, come se fosse ammalata, mi si affiancò: Wolfis, il fedele cane di Oitzinger. Era commovente con quel suo muto dolore. Soltanto un cane, vero? Eppure toccava il cuore.”J. Kugy, Anton Oitzinger, Vita di una guida alpina Lint Trieste 1985 p.137

Un ulteriore motivo potrebbe nascere dal fatto che quegli articoli potevano fornirgli l’occasio-ne di rimettere in circolo il suo nome in un ambiente alpinistico diffidente verso chi si era arruolato volontario nell’esercito A.U. Il nome di Kugy ritorna in molti articoli di Dougan. In quello sulla Forca della Val

“Quando nell’estate si passava attraverso il pittoresco villaggio di Valbruna, spesso si poteva trovare colà il dott. Kugy, grande maestro d’alpinismo, attorniato da una piccola folla di giovani alpinisti che si rivolgevano a lui per consiglio in oggetto di montagna. Così lo trovammo anche noi quando il 13 agosto 1927, mia moglie, l’amico Hesse, ed io arrivammo lassù diretti alla forca del Val. C’erano colà anche il dottor Tominsek, primo scalatore della parte Nord dello Spik e il Signor Čop.“Cfr. A.G. 1927, pag. 27

in quello della forca del Palone “Molti anni addietro il dott. Kugy, il meraviglioso conoscitore delle nostre Alpi Giulie, ha in-

trapreso un’avventurosa traversata sul versante Nord della catena del Montasio, sotto la Forca del Palone, in una zona inesplorata, ma la neve profonda e molle gli impedì ad un certo punto di avanzare.” A.G .1927 pag. 42

Difficile non immaginare nell’articolo di Dougan sulla Forca del Vadul la longa manus di Kugy nel preambolo in cui sono presenti le impressioni del Findenegg quando, affacciatosi per la prima volta alla forca, guardò giù verso la val Dogna. Impressioni descritte in un articolo pubblicato sul D.Oe. A.V. del 1877, cioè quattordici anni prima che Dougan nascesse e riportate da Kugy a sua volta, nel suo libro “La mia vita”.

Anche nell’articolo sul Cimone, troviamo Kugy con la sua cima prediletta, il Montasio“II dottor Kugy gli dà I’appellativo di “vetta panoramica”; io vorrei chiamarlo più particolar-

mente “belvedere per il Montasio”… II dottor Kugy, cui si può dire nessun segreto delle Alpi Giulie è sfuggito, ci ha informati che la parete nord del Cimone era ancora invitta. Decidemmo l’attacco, e partimmo per il romantico Canal di Dogna…Si eleva infatti di fronte al Cimone, sorgendo da immensi abissi, il Montasio, altissimo, simile ad un colossale bastione. Ed a questo signore delle due valli, al Montasio, lo sguardo ritornerà ancora,

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affascinato, dopo percorsa rapidamente la lunga catena del Canin ornata di ghiacciai e nevai, le Alpi Carniche tutte comignoli, i lucidi ghiacciai dei lontani Tauri… Il Montasio appariva avvolto nel pomposo manto purpureo dei tramonto; ed accanto, dopo la profonda gola delle Clapadorie, sfolgorava in una luce d’oro carico la parete ancora intatta degli Scortisoni…Il Montasio, ancora nella sua ombra, era di fronte a noi gigantesco; ma non avemmo il tempo di contemplarlo, perché già, il terreno non facile ci obbligava a procedere cautamente.”Cfr. A.G. 1927, pag. 9

L’articolo parla della salita del Cimone ma ricorda anche che la parete dei Curtissons non è stata ancora salita, per concludere

“Ora da lontano io ti saluto, Cimone obliato dal mondo! Se anche in avvenire conserverai il fascino della tua solitaria esistenza, in te voglio godere ancora molte ore di serena pace.”

Cfr. A.G. ibid.

Un congedo che ricorda quello con cui Kugy termina il capitolo sul Montasio“Il mio ringraziamento viene ancora a te, prima del commiato, o Montasio regale. Nessuno capirà mai, nessuno saprà che cosa tu sia stato per me.”J. Kugy. Dalla vita di un alpinista, Lint, Trieste, 1985-2000, pag. 181

Kugy appare anche nell’articolo della salita invernale del Campanile di Villaco. Dougan scrive“Così si esprime il dott. Kugy nel suo libro “Dalla vita di un alpinista”: Io restringo di molto il

tempo delle salite invernali. Non bastano le condizioni della neve ma bensì anche la durata del giorno, che dovendo essere una giornata di durata invernale ha un valore di massima importanza. Quindi io limito il periodo delle salite invernali fra il 15 dicembre a tutto febbraio. Il mese di marzo anche se può offrire condizioni di neve ben peggiori che in dicembre o gennaio, presenta però il grande vantaggio della prolungata durata della giornata”.(Si tratta di una versione dal tedesco di un brano del libro di Kugy. L’edizione italiana con la traduzione di Pocar del 1932 ovviamente non è uguale ndr)Infatti quanto dice il dott. Kugy io l’ho appreso già, quando giovanetto facevo le mie prime salite con lui e della reale importanza della sua teoria ebbi, negli anni che seguirono, spesso occasione di persuadermi. Pertanto accetto fedelmente questo suo principio in particolar modo quando si tratti delle nostre Alpi Giulie.”Cfr. A. G. 1930, pag. 36

Accanto al nome dell’autore appare la scritta -Sez. C.A.I di Trieste - C.A.A.I. L’anno prima, la rivista si era complimentata con lui per essere entrato a far parte del Club Alpino Accademico Italiano

“Il nostro consocio sig. Vladimiro Dougan, noto per le sue nuove ascensioni nelle Giulie, venne nominato recentemente membro del C.A.A.I. Anche da queste pagine - cui Egli valorosa-mente collabora - gli rinnoviamo i più vivi e sinceri rallegramenti.”Cfr. A. G. 1929, pag. 31

Pollitzer e Botteri riportano che Dougan era anche membro del G.H.M. Groupe de Haute Montagne. Una ricerca sull’elenco del GHM francese, non ha avuto un riscontro positivo. (http://

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ghm-alpinisme.fr/annuaire.php). La presenza di Emilio Comici nell’elenco sta comunque ad indi-care la presenza di un canale aperto in quella direzione.

Forse nel caso di Dougan, l’iter non è andato a buon fine.

A far pensare invece a Chersi sono le descrizioni di paesaggi ricche di aggettivi ricercati che ricordano la sua prefazione alla guida del Montasio. Rielaborare in modo anonimo gli articoli po-trebbe essere stato un modo per testimoniare un’amicizia senza dover render conto a chi riteneva la storia di Dougan incongrua con gli ideali societari.

Se è nota la stima di Kugy, quella di Chersi per Dougan non fu inferiore sebbene silenziata dal ruolo di presidente di una società che aveva dedicato molti dei suoi rifugi ai soci caduti combat-tendo nell’esercito italiano.

Comunque Chersi farà pubblicare dall’Alpina delle Giulie la guida del Montasio non senza chiedere a Dougan qualche equilibrismo come quello di contrassegnare con la categoria nemico l’esercito in cui aveva combattuto.

Infine lo ricorderà nella sua guida “Itinerari sul Carso triestino” che con le sue sette edizioni ha avuto il merito a far circolare il nome di Dougan quando la produzione letteraria di Kugy non aveva la diffusione iniziata dal presidente del CAI di Gorizia, Mario Lonzar.

Ricordando Dougan nella sua guida, Chersi sembra chiedere ad altri di compiere quel passo che non è stato compiuto: far sì che la Società lo ricordi con un belvedere sul promontorio sotto-stante il bivio di Aurisina, luogo dove Dougan soleva bivaccare come riportato nei suoi taccuini a partire dal 1930.

Nel caso del belvedere, auspicato da Chersi, va detto che sul sentiero dei Pescatori ora c’è un posto per ricordarlo

“Dopo un breve tratto parallelo alla linea ferroviaria il sentiero abbandona gli altri itinerari nei pressi del panoramico Belvedere Dougan Oliščica con bella vista sul sottostante porticciolo di Canovella.”A. Ambrosi, Guida ai Sentieri del Carso, Transalpina, Trieste, 2015 pag. 432

Conoscendo la storia di Dougan e il suo rispetto per la toponomastica dei luoghi credo con-forme al suo pensiero che il nome originario venga conservato senza l’aggiunta di ulteriori tabelle. È meglio ricordarlo nello spirito delle parole usate da Kugy per la cengia degli Dei dove non ci sono epigrafi a ricordare ciò che il cuore dovrebbe sentire.

Per quanto riguarda il passaggio dalla scrittura dei diari alla scrittura degli articoli di Dougan presenti su “Alpi Giulie” la questione rimane aperta.

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Dougan e il GARS

I rapporti tra Dougan e il GARS non sono di facile interpretazione. Una vicen-da intricata, complessa, probabilmente destinata a rimanere tale.

Dougan nel ’29 è tra i fondatori del GARS, nato dalla confluenza in Alpina di altri alpinisti attivi nel Dopolavoro portuale come Comici, Deffar, Mazzeni, Fabjan

“Per conservare una certa autonomia e omogeneità il gruppo si dà un regolamento interno ed assume il nome GARS Gruppo Alpinisti Rocciato-ri e Sciatori, non potendo utilizzare il termine “Alpinista Accademico” che all’interno del CAI individuava un gruppo ben definito. Viene nominato Ca-pogruppo il vicepresidente dell’Alpina Renato Timeus, segretario Narciso Zaller, cassiere Giovanni Forni,consiglieri Vladimiro Dougan, Emilio Comici e Riccardo Deffar … Entrano nel GARS anche delle alpiniste come Lea Dougan, la signora Manzutto, Bruna Bernardini, le sorelle Cernuschi, le sorelle Zuani, Germana Ugosich, Edvige Muschi e Linda Barisi.”Cfr. A.G. 2010, pag. 25

Non piccola era la pattuglia delle alpiniste. Il frontespizio del libro di at-tività riportava

Il dovere e l’orgoglio di ogni socio del G.A.R.S. dev’essere:Collaborare all’attività con relazioni, foto-grafie, schizzi, quote,indicazioni, varie con-dizioni del tempo e del terreno, lo stato dei rifugi ecc. ecc.

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Ma Dougan, di suo pugno, scrisse una sola salita

Dougan pur frequentando con assiduità la montagna ha partecipato di rado alle iniziative sociali promosse dal Gars.

Se qualcuno avesse voluto conoscere la sua attività alpinistica attraverso quel libro - che è una testimonianza storica importante per la storia del sesto grado - vi avrebbe trovato appena una decina di salite, e nemmeno riportate da lui ma dai suoi compagni.

Così nell’articolo di “Alpi Giulie” per il trentennale del GARS, di Dougan si ricorda la sola salita dei Curtissons e di conseguenza la ricostruzione della storia alpinistica ne risente

“La prima guerra mondiale aveva allora da poco concluso le due prime fasi dell’alpinismo triestino sulle Alpi Giulie; alla prima esplorativa, che aveva visto giganteggiare la poderosa opera di Kugy, s’era sostituita la seconda, a carattere accademico; i senza guida di Napoleone Cozzi avevano operato lungamente e proficuamente sulle pareti ancora inesplorate delle Giulie, finché la loro opera fu interrotta dalla lunga ma gloriosa parentesi della prima guerra mondiale. Ora, riportati i confini allo spartiacque alpino, l’opera del GARS inizia la terza fase, quella che, sfruttan-do tutte le risorse della tecnica di roccia, affronta e risolve problemi rimasti insoluti, perché con-siderati insolubili dai predecessori. La montagna esige dedizione e entusiasmo, ma vuole anche preparazione e allenamento; perciò il GARS riscopre la Val Rosandra che già aveva visto la tenace e seria preparazione della “squadra volante” di Napoleone Cozzi; sulle sue brevi ma ripide pareti i garsini affinano la tecnica, allenano i muscoli, iniziano i novellini all’arte dell’arrampicamento; e poi, alle prime occasioni, partono per le Giulie a studiare, tentare e scalare le sue ripide, impervie pareti… Eccelle su tutti Emilio Comici.”Cfr. A.G. 1959, pagg. 35-36

Questo riassunto storico è un indicatore della distanza che ci fu, da subito, tra Dougan e il GARS. La sua figura a quattro anni dalla scomparsa era già dimenticata.

Dougan aveva una differente concezione della montagna rispetto ai giovani del tempo come risulta, in parte una sua considerazione del 19 settembre 1924

“Di notte con gran strepito e con un comportamento sconcio arrivarono i soci della Sucai, che ci svegliarono. L’indomani era anche una bella giornata e si voleva salire il Monta-sio, ma preferimmo abbandonare questa salita perché anche la Sucai saliva la medesima cima… Così questa gita ci venne rovinata da questa onorata società “Sucai”.”

Così viene presentata da “Alpi Giulie” la Sucai“Sistemazione della S.U.C.A.l. In base ad accordo promosso da S. E. Turati, la S.U.C.A.I. venne

ricostituita su nuove basi, venendole attribuito il carattere di sezione del C.A.I. - In seguito al detto

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accordo le sezioni del Club Alpino accetteranno gli studenti universitari quali soci solo nel caso facciano già parte della S.U.C.A.I; restando però stabilito che alla S.U.C.A.I. possono appartenere solo studenti universitari.”Cfr. A.G. 1927, pag. 17

Non sappiamo quale fosse l’aria che, a quel tempo, si respirava al GARS.Negli scritti di Kugy e di Comici leggiamo parole di reciproca stima. Ma nella realtà come

stavano le cose?Kugy scriveva a proposito della nomenclatura dei monti “Alcuni monti minori si fecero avanti e dichiararono vergognosi che non erano stati ancora scalati e nemmeno battezzati… Prima li battezzai con nomi sonanti che sono diventati molto popolari. Non si avverte nemmeno che sono nomi nuovi, inventati da me; sembrano antichi tanto fui cauto nell’adattarli a quelli già esistenti. O non sono forse, i seguenti, nomi bellissimi che devono far piacere a chi li porta e a concedere a me di menarne vanto?”J.Kugy, La mia vita, Eurograf, Tarvisio 2011, pag.155

Nell’elenco che fa troviamo il Campanile degli Orsi e il Campanile degli Altari, due torri salite da Comici nel ‘29 rispettivamente con Orsini e con Slocovich e dedicate a Dario Mazzeni e a Vit-torio Lazzara, un alpinista e uno speleologo scomparsi. Kugy poteva gradire questo cambiamento di criterio e di nome?

Dougan nella nota toponomastica della sua Guida del Montasio ricorda“Torre degli Altari e Torre degli Orsi le due denominazioni sono state introdotte da Kugy e si

riferiscono ai nomi di località prossime. I primi salitori imposero rispettivamente i nomi di Torre Lazzara e Torre Mazzeni.”Dougan- Marussi, Il gruppo del Montasio, SAG, Stabilimento Tipografico Nazionale, Trieste, pag. 25

Il verbo ”imporre” è indicativo di come fu vissuto il nuovo criterio di denominare le cime di-ventato in seguito abbastanza comune. Ciò dimostra che l’epoca del sesto grado non fu sempli-cemente un’asettica ricerca della difficoltà insita nella natura umana ma una nuova Weltanschung che non ha sviluppato quella precedente, l’ha semplicemente cancellata.

Sappiamo che fu Dougan a percorrere per primo la Forca del Vandul in discesa e in salita. Qualche anno dopo su “Alpi Giulie” tra le nuove salite compiute nel Gruppo del Montasio, nel 1932 appare questa nota

“Ia traversata della Gola Forca Vandul, compiuta da Deffar e Orsini.Dall’alto verso il basso. Nella parte superiore roccia estremamente friabile a metà della gola un salto di 35 metri, (devesi far uso della corda doppia con chiodo). Durata ore 4. Via non consiglia-bile, causa enorme pericolo di cadute di sassi, dei quali si è bersaglio per più di metà percorso, senza alcuna protezione; 1 chiodo.”

Probabilmente avranno seguito un percorso diverso, forse per un errore tipografico la prima ripetizione è diventata prima traversata ma di fatto Dougan fu completamente ignorato.

Mentre Kugy, ritiratosi dall’alpinismo attivo, da vecchio saggio esprimeva la sua irenica opi-nione sul nuovo mondo

“C’era poi per me che ho sempre considerato l’alpinismo una questione di sentimento, un’altra cosa: la mia profonda avversione contro la concezione puramente sportiva dell’al-

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pinismo. Questa si è diffusa, con le sue esagerazioni ora buffe, ora disgustose, proprio nelle Dolomiti, più che in nessun altra zona delle Alpi. La relativa brevità delle escursioni, la ripidezza e le singolari gradinate delle pareti dolomitiche che rendono possibile “l’aiuto della corda” spesso decisivo, il frastagliamento delle creste in centinaia di guglie e pinna-coli: tutto ciò è favorevole a quella concezione. Qui si possono trovare tipiche “rampicate” e ogni dente sopra un crestone può passare per una cima vergine.”J. Kugy, Dalla vita di un alpinista, Lint, Trieste, 1985-2000, pagg. 187-188

Dougan, ancora in attività, sentiva invece nella propria carne i morsi di questo cambiamento. La sua attività non era fissata dalla storia come quella di Kugy, era in fieri e per i cambiamenti in atto, le sue salite nascevano indifese e nulla poteva proteggerle.

Questo in generale, poi la realtà è più intricata. È la storia ad essere selettiva e il quadro che traccia Felice Benussi lo conferma

“In un angolo della trattoria ad un tavolo non ancora sparecchiato, fra piatti, posate, bicchieri, ramponi e cordini rovistava nel suo zaino Riccardo Deffar, dal profolo di medaglione rinascimen-tale; più in là Giovanni Forni ed Umberto Tarabocchia erano ancora alle prese con un piatto di piccioni arrosti di cui sembravano assaporare in silenzio ogni boccone; ad un terzo tavolo, immersi nello studio di una carta topografica erano il biondo e poderoso Riccardo Wittine con un compa-gno in un ben tagliato abito blu da sciatore, di cui non ho ricordato il nome negli appunti tracciati allora, subito dopo questa memorabile gita, conservati, non so come, attraverso tanti eventi ed oggi ingialliti, sbiaditi, quasi illeggibili. A questi due si accostò Vladimiro Dougan, dall’occhio lu-minoso, dal volto abbronzato e segnato come d’un lupo di mare, Dougan, allora all’apogeo della sua fama dopo aver compiuto nel 1928, suo anno di grazia, ben quindici prime salite, Dougan il prediletto di Kugy. Più in là sedeva Emilio Comici, ilare, in animata conversazione con Lea, moglie di Dougan e con Alberto Hesse. Li guardavo questi alpinisti, che avevano già tanto nome, con profonda ammirazione e tanta inti-ma soddisfazione d’essere stato ammesso al loro margine, che stentavo a credere di non sognare. Appunto che c’entravo con questo autentico estratto dell’Almanacco di Gotha dell’alpinismo

triestino degli anni ’20 -’30, io ragazzino imberbe, goliardica-mente “minus quam”?”Cfr, A.G. 2010 pag.49

Riccardo Deffar, uno dei gio-vani del gruppo fu compagno di cordata di Dougan in diverse salite.

Negli articoli scritti da Deffar per “Alpi Giulie” il modo in cui parla di Dougan rivela una certa confidenza tra loro. Della salita invernale del Foronon, 6 genna-io del 1930 scrive

“Dougan confeziona all’alle-gro scoppiettio del fuoco - una

…si accostò Vladimiro Dougan, dall’occhio luminoso, dal volto ab-bronzato e segnato come d’un lupo di mare… Nell’immagine Dou-gan a destra.

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minestra che contiene di tutto persino limoni ed è così salata da non riuscire a calmare lo stimolo della sete nemmeno con bicchieroni d’acqua.Sono le due, quando Dougan, che assolve ottimamente il compito della sveglia, fa sentire la sua voce che in quel momento non ci riesce davvero gradevole.“

E della traversata invernale della Lavinal dell’Orso “Quando arrivammo al Kopez, così battezzò Dougan quello spuntone di roccia in fondo alla

gola, calzati gli sci volammo quasi attraverso il grande circo fino ai primi abeti della Spragna su-periore”

Dougan ricambia la stima. Nell’articolo sulla salita invernale del Campanile di Villaco, tesse le lodi a Deffar

“In questa salita poi ebbi campo di ammirare l’abilità del mio compagno di cordata Deffar sia in ghiaccio che sulla neve. Per la sua resistenza ed esperienza è veramente tra i più quotati e valenti amatori di salite invernali.”Cfr. A.G. 1930, pag. 36

La capacità tecnica di questi giovani è lodata, ma è una familiarità fragile, non durevole perché manca un’affinità di sentire al di là del mero salire.

Così di questa ascensione e della successiva traversata della Lavinal dell’Orso - fatta per rag-giungere gli amici al rifugio Grego e festeggiare il Natale - non c’è traccia nei taccuini di Dougan; che passa direttamente al 28 dicembre giorno in cui se ne va a sciare sui campi di Oitzinger nella Val Saisera.

Stupisce che Deffar nel ’31 relazionando su “Alpi Giulie” di due vie aperte con Dougan, sulla cima della Scala e sulla cima Vallone, non lo nomini affatto.

Poi della via nuova al Ciuc di Vallisetta del 2 agosto 1931 di Dougan, Deffar, Orsini, Milena Volpich classificata estremamente difficile, non c’è traccia né sul libro di ascensioni del GARS, né su “Alpi Giulie” ed è strano che di questa via, segnalata come importante e impegnativa, su una grande parete vergine, manchi un articolo.

La relazione si trova nel bollettino del CAAI e ovviamente sulla guida di Dougan del Montasio. Questa salita - come quella di poco precedente dei Curtissons, (Dougan, Lea Kulot, Deffar, Orsini) pure giudicata estrema - viene classificata di terzo grado sulla guida Alpi Giulie del ‘56 di Botteri.

Botteri, compagno di cordata e di spedizione di Dougan, grande appassionato delle Giulie e come Dougan lo ha dimostrato scrivendo a sua volta una guida ma Botteri era ingegnere, aveva due lauree, mentre fu la sola passione a spingere Dougan, che aveva frequentato quattro scuole popolari e tre reali, a superarsi pubblicando la guida del gruppo del Montasio dopo averlo esplo-rato per anni.

Quella di Botteri è una svalutazione indotta dalla scala di Monaco che aveva ormai messo nell’angolo l’alpinismo di Dougan. Una valutazione fatta a tavolino, se come scrive Buscaini nella sua guida delle Giulie (1972), la via al Ciuc di Vallisetta non risultava ripetuta.

Comici e Benedetti avevano salito qualche giorno dopo, il 4-5 agosto 1931 la parete N.O. del-la Civetta; questa via di fatto aveva annichilito la salita di Dougan, aperta nel cuore selvaggio delle Giulie, con un approccio lungo, difficile, senza punti di appoggio, con una roccia ora marcia, ora liscia, ora umida con muschio, ora verticale con erba; difficoltà inclassificabili e così indeterminate da creare imbarazzo con la loro stessa presenza.

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Così grazie alla via al Ciuc di Vallisetta il terzo grado ritornava capace di tenere alla larga gli alpinisti come ai vecchi tempi

Una via che non rientrava tra quelle esaltate dalle teorie di Rudatis“Le nostre incomparabili Dolomiti che pure il grande geografo francese E. Reclus dichiarò le

più strane e le più belle fra tutte le montagne, con le loro guglie multiformi, gli infiniti inverosimili pinnacoli, le arditissime torri, gli spigoli vertiginosi, le pareti immani, col fascino delle loro acropoli titaniche e dei prodigiosi castelli rosseggianti nel fuoco di tramonti, con la poesia delle più sug-gestive leggende e la storia delle più sorprendenti audacie costituiscono veramente il paradiso, o come dicono benissimo i Tedeschi, la “Wunderland” - terra delle meraviglie - degli arrampica-tori… esaminare in quale misura e con quali condizioni le ascensioni di montagna possano essere suscettibili di valutazione, di misura, di confronto, vale a dire possano essere considerate dei valori concreti delle performance, di modo che abbia un significato positivo parlare di performan-ce, parlare di valori maggiori o minori, di progresso, di superamento, di record; e in un secondo luogo stabilire quelle norme esecutive dell’attività alpinistica che eliminando quanto è possibile ogni indeterminatezza, fissando l’omogeneità dei mezzi, l’uniformità delle condizioni, permettano di seguire la massima precisione nella valutazione dei risultati dell’attività stessa.”D. Rudatis, Lo sport dell’arrampicamento, in Lo Sport Fascista, 1930, pag 34-35

Cambiava il punto di vista: al centro non c’era più la realtà della montagna ma il potenziamen-to e l’accrescimento della soggettività umana.

E ad un Kugy, che così chiudeva il capitolo del Montasio “ Quando non ci sarò più, concedi al mio nome un posticino sulla superba fronte setten-trionale delle tue pareti e tieni in alto il mio cuore fra i tuoi picchi meravigliosi!”J. Kugy, Dalla vita di un alpinista, Lint, Trieste, 1985-2000, pag. 181

Un Comici rispondeva dopo la solitaria la sua via alla Nord della Grande di Lavaredo “Gioia di vivere; soddisfazione, intimo orgoglio di sentirmi così forte da dominare il vuoto e

lo strapiombo. Che voluttà!”E. Comici, Alpinismo Eroico, Hoepli, Milano, 1942-2014, pag. 140

Queste due diverse esternazioni ci mostrano che non si tratta di una questione di forma ma di sostanza.

Se prima era la realtà della montagna ad assicurare la realtà della passione dell’alpinista, ora è l’alpinista che deve dimostrare di non essere preda di passioni illusorie ma dentro una realtà che lui può soggiogare. Questo fu possibile con la scala di Monaco, che rese le prestazioni confronta-bili, valutabili, storicizzabili, e quindi vere.

La passione che - nell’alpinismo ante sesto grado - aveva la stessa realtà della montagna, era collocata fuori dal sistema che costituiva il mondo condiviso degli alpinisti.

Dougan non ha mai scritto niente su questo problema. Lo ha ignorato continuando in silenzio, ad arrampicare come aveva sempre fatto.

Comici nell’agosto del ‘30 realizzando il giro completo delle cenge degli Dei, la via Eterna scrive

“Il ricongiungimento della cengia è prossimo. Passiamo ancora oltre quel famoso masso sotto la cima dell’Innominata, che una volta terrorizzava gli alpinisti, e poi eccoci nella gola Nord-Est

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del Jòf Fuart, nel punto stesso dove nove ore e mezzo prima eravamo partiti alla conquista della Cengia degli Dei.”Emilio Comici, Alpinismo Eroico, Hoepli, Milano,1942-2014, pag.68

Poi scende di corsa a Valbruna per non perdere il treno e per raccontare a Kugy l’impresa: “discendevamo a rotta di collo dal rifugio “Pellarini” in Valbruna per il timore di perdere il

treno, e, ancor di più, per la smania di annunciare al dottor Kugy che avevamo realizzato il suo sogno…Ecco il premio più ambito per un alpinista giuliano: essere lodato da Lui che è stato il pioniere di queste Montagne.” Cfr. A.G. 1931, pag. 61

La soddisfazione di essere davanti al realizzatore dell’anello delle cenge, sembra far dimenti-care al sognatore Kugy di aver trovato un alpinista capace di attraversare spazi dove di cenge non c’era nemmeno l’ombra. Se nel superamento del Blocco i segnavia erano stati i camosci, nella via dell’anello la Natura non era più seguita ma soggiogata.

Iniziava un mondo che bruciava i sogni; un alpinismo disincantato, asciutto e matematizzato forse perché attraversando la brughiera del tempo ha incontrato a qualcosa di simile alle streghe del Macbeth

“Voglio ridurlo secco come fienoe far che mai sulle sue stracche cigliadiscenda sonno, né giorno né notte”Si stava preparando l’oblio di Dougan che non avrà nemmeno quel ruolo di padre nobile

dell’alpinismo che i giovani avevano riconosciuto a Kugy.

Vladimiro Dougan, sullo sfondo il gruppo del Canin.

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Le spedizioni

Se la permanenza sullo Jòf Fuart dal 27 settembre 1916 al 25 aprile 1917 può considerarsi un prodromo delle sue future esplorazioni così nell’eco

che accompagna le spedizioni di Dougan - Caucaso ‘29, Atlante ’32 e Lappo-nia ’33 - c’è una ricapitolazione della sua storia.

Molto documentata la prima, abbastanza la seconda, difficile da ricostru-ire la terza.

Kugy dedica un capitolo del suo ultimo libro alla scalata solitaria dell’El-brus da parte di Dougan. La cosa più interessante è che Kugy ad un certo punto scrive “Conviene che lo stesso Dougan ci narri l’avvenimento” cui se-gue il racconto del drammatico arrivo in vetta, pubblicato su “Alpi Giulie”.

Questo è il solo scritto non frutto del suo ingegno che Kugy inserisce in un libro autobiografico. Un onore per Dougan. A meno che non fosse Kugy il Ghostwriter di Dougan e saremo di fronte all’ironia sotterranea di Kugy.

O fu uno scambio? Tu mi fai viaggiare nello spazio fino all’Elbrus, io ti faccio viaggiare nel tempo col mio libro.

Comunque se gli articoli di Dougan fossero stati revisionati da qualcuno, questo fu un modo per allontanare i sospetti conferendo a Dougan la com-pleta paternità degli articoli scritti per “Alpi Giulie”.

Oltre al racconto di Dougan della spedizione sul Caucaso, il suo com-pagno Andrea Pollitzer scriverà una relazione sulla Rivista Mensile del CAI dell’agosto del 1930, e nel luglio 1931 pubblicherà un libro su quell’evento, dove apprendiamo come fu concepita l’impresa

“Nel Marzo 1922 salendo in treno a Valbruna incontrai Miro Dougan.Era una domenica ed il sole che tramontava, illuminava le montagne delle Giulie così care ai nostri alpinisti.Gli sciatori che salivano nel carrozzone si raccontavano l’un l’altro le loro im-prese.Era l’ora che “volge al desio”. Sedetti vicino a Dougan mentre egli narrava di albe, di tramonti, di rocce, di fate e di streghe e delle montagne svizzere molto più alte, molto più bianche delle nostre.Narrava poi del Caucaso ove ci sono montagne più alte ancora, più bianche ancora, torri più selvagge assai delle torri dolomitiche e, parlando, si illumina-va il suo volto come se egli le vedesse con la fantasia vere e reali innanzi a sé.

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Nella vita umana spesso un incontro con una persona coraggiosa, fiera, leale, è decisivo.Ci sono degli incontri che non sembrano essere decisivi, incontri che il tempo fa dimenticare - ep-pure questi incontri gettano nell’animo umano un seme che non muore ma che lento germoglia e poi, dopo anni, fiorisce.L’autunno 1928, Dougan ed io intraprendevamo una gita in Carnia.Si scendeva per un sentiero dal Monte Toro, un sentiero lungo e pieno di ciottoli. Raccontavo a Dougan il mio viaggio negli Stati Uniti, e gli dicevo che da tre mesi non avevo visto le montagne.Poi il nostro colloquio si arrestò. Discendemmo senza parlare per qualche minuto. Nel silenzio si sentiva soltanto il fruscio dei pini mossi dal vento e dei sassi urtati dalle nostre scarpe ferrate.Quando due persone si vogliono bene, possono interrompere il loro colloquio e pensare in si-lenzio. Poi, più tardi, quando i loro pensieri hanno proseguito all’unisono, si incontrano sulla via della parola.E quando incominciammo a parlare, tutti e due dicemmo:“Andiamo al Caucaso”.Così fu deciso il viaggio, lì su due piedi.”A. Pollitzer de Pollenghi, Montagne Bianche e uomini rossi, Editoriale italiana Contemporanea, Arezzo-Mi-lano, 1932, pagg. 15-16

Il giornale locale, Il Piccolo, seguì l’evento con diversi articoli, una lunga intervista al presi-dente dell’Alpina Chersi che illustrava l’impresa e altri due articoli di contorno che permettono di vedere come l’uso propagandistico dell’alpinismo fosse realtà. Così viene descritta la partenza

“Qualche ora prima della partenza i due infaticabili soci dell’Alpina, accompagnati dal presi-dente avv.Chersi Carlo, dal dott. Rusca, dal sig. Boschian e da numerosi amici e compagni di alpi-nismo, si sono recati a bordo della nave, dove avvennero, in forma sobria e affettuosa, gli addii e gli auguri per la riuscita più completa degli intenti. Erano presenti anche gli alpinisti dopolavoristi Deffar, Comici, Zaller e Mazzeni…“l’alalà”gettato sul mare fu l’ultimo saluto ai due triestini che iniziano, sotto l’auspicio del Littorio, un atto che avrà certo il suo valore nella storia del grande alpinismo.”Cfr. Il Piccolo, 2 luglio 1929

Così viene festeggiato il ritorno“L’Alpina in onore ai reduci del Caucaso.

…In chiusura del suo brillante discorso il presidente consegnò ai due eslporatori due grandi medaglie d’oro portanti sul dritto lo stemma del CAI e sul verso una affettuosa dedica. Il dott. Pollitzer-Pollenghi anche a nome del camerata Dougan porse commosso con affettuosa parola l’espressione della sua riconoscenza per la gradita offerta, ricordando com’egli e il suo compagno durante tutto il periodo dell’esplorazione avevano affrontato disagi e pericoli per tener alto il nome dell’Alpina delle Giulie, alla quale sono fieri di appartenere.”Cfr. Il Piccolo, 19 ottobre 1929

Caduto il fascismo, Dougan vivente, nella bibliografia dell’articolo di M. Turk (www.gore-me-no-ljudje.net/nogosti/100978/) si segnala questa fonte: Oskar Reya, Privi slovenski vzpon na Elbrus (5.629 m), Planinskj zbornik, 1945 - Oskar Reya, la prima salita slovena all’Elbrus (5.629 m), Planinskj zbornik, 1945, in cui l’Autore s’incontra con il direttore dei rifugi dell’Elbrus che gli raccontava di essere entrato qualche anno prima in confidenza con Dougan, un italiano di Trieste cha parlava un

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buon sloveno e che aveva salito l’Elbrus.Con questa spedizione Dougan, bon gré

mal gré, raggiunge la massima esposizione mediatica.

Dougan salirà da solo nella tormenta la cima all’Elbrus e vagherà a lungo per trovare la cima.

A testimonianza dell’avvenuta ascensione porterà in Italia il biglietto lasciato sulla cima da Vittorio Sella nel 1889: un messaggio in bot-tiglia che dopo aver attraversato il tempo ha aspettato di essere ritrovato nella nebbia in un giorno di tempesta da un connazionale che, ostinato, non voleva dire di essere stato su una montagna senza aver toccato il suo punto più alto, sebbene la nebbia lo nascondesse. Sareb-be stata una mancanza di rispetto.

In seguito esploreranno la selvaggia valle del Tiu Tiu salendo diverse cime di 4000 metri:

Il Kajarta Bash m.4200, l’Oerelye Bash m. 4066, e Dougan da solo il Surun Tau m. 4090 e l’Andurski Bash m. 3989

Nel ritorno Pollitzer e Dougan prendono strade diverse. Il primo per Mosca dandone ampio resoconto nella seconda parte del libro mentre Dougan ritonò a Trieste. Oggi, dai suoi taccuini emerge un particolare. Il 3 settembre a Tiflis as-siste ad una “parata di 45.000 uomini nella tribuna del governo accanto al ministro degli esteri”

Il fatto che lo si sappia ora e non dai tanti articoli pubblicati allora dà la misura di quanto poco Dougan si mettesse in mostra.

Nella recensione al libro di Pollitzer fatta da Chersi per la Ri-vista Mensile si legge che l’ascen-sione dell’Elbruz

“compiuta da Dougan in quel-le condizioni è una dimostrazione della sua straordinaria energia”

A seguire una considerazione politica

“Gli elementi forniti da Pollit-zer danno da una parte la prova di un’immensa volontà degli ammi-nistratori dell’U.R.S.S. di portare il turismo a un grado elevatissimo di sviluppo, e dall’altro danno la

Biglietto di V. Sella da lui lasciato sull’Elbrus rinvenuto da Miro Dougan il 4 agosto 1929.

La dedica di Andrea Pollitzer alla moglie di Dougan sul libro della spedizione in Caucaso.

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Dall’Elbrus orientale a 5000 m 19 agosto 1929. Neg. Pollitzer

Dougan di spalle mentre Frolow tratta con i portatori. Neg. Pollitzer.

Verso L’Elbruz. Dougan con uno zaino enorme e un asciugameno in testa per proteggersi dal sole. Neg. Pollitzer.

Itinerario della spedizione. Neg. Pollitzer

Sul ghiacciaio Kugastu, Dougan e due portatori 14.08.1929. Neg. Pollitzer.

Incontro Frolow e Dougan. Neg. Pollitzer.

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precisa dimostrazione dell’enorme distanza che attualmente separa il popolo russo dai fi ni che esso vuole raggiungere.”Cfr. Rivista Mensile CAI n 11, 1933, pag.626

Tra i libri che ci sono pervenuti c’è anche il libro di Pollitzer con la dedica alla moglie LeaDella successiva spedizione in Alto Atlante, Pollitzer pubblicherà una relazione per la rivista

mensile del CAI - luglio del 1933 - terminando con il bilancio della traversata dei massicci del Toubkal e del Likoumt

“In totale dal T. n’Ougane al T. n’Likoumt abbiamo percorso circa 17 km per cresta. Per fare un confronto all’alpinista europeo dirò che questo percorso equivale per lunghezza al seguente percorso di cresta: Passo Sella - Sassolungo - Catinaccio - passo di Costalunga.Tutti gli ometti trovati lungo questo percorso sono elencati nella presente descrizione. Dove non abbiamo trovato un ometto lo abbiamo eretto. In tutto ne abbiamo eretti 23.”Rivista Mensile, luglio 1933, p. 417

Anni dopo, nel ’56, usciva il libro “Aspri Sentieri” di Vatta e Botteri. Il capitolo in cui si parla della spedizione, arricchisce la conoscenza con un particolare

“Nella notte abbiamo dormito poco per tema dei predoni del Sahara, che qui effettivamente non mancano. Durante la notte abbiamo avuto due allarmi; è andata così: si dormiva alla grossa quando il cane che il conducente si era portato prudentemente, si mette ad abbaiare a tutto spiano. Saltiamo fuori dai sacchi letto e alla luce lunare vediamo alcune ombre che si avvicinano. Solo allora mi ricordo della mia piccola brava Browning! Ai primi spari i predoni fi lano via come razzi ma a noi rimane intanto la fi fa! Naturalmente facciamo i classici quarti di turno: insomma una notte agitata. “ Vatta-Botteri, Aspri Sentieri, Del Bianco, Udine, 1956, pagg. 45-46

Di questa spedizione su “Alpi Giulie” apparirà solo una nota da cui si capisce che il rapporto con Dougan si era ormai defi nitivamente deteriorato “Andrea Pollitzer-Pollenghi percorse 16 km di cresta e raggiunse 2 vette oltre i 4000 metri e 22 di oltre 3600, correggendo il rilievo topografi co della cresta e raccogliendo materiale botanico.”

Ai piedi dell’Atlante.Spedizione in Alto Atlante: Pollitzer, Dougan, Bot-teri.

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È il canto del cigno non solo di Dougan ma di un approccio alla montagna. In quegli anni, nel 1932, usciva la traduzione italiana del libro di Kugy “Dalla vita di un alpini-

sta” pubblicato nel 1925. La prefazione di Ervino Pocar risuona come un accorato appello“leggano gli alpinisti, leggano i giovani questo libro in cui non so se sia più grande la forza o la bontà o se ambedue non si confondano in un unico ideale di umanità e poesia.”J. Kugy, Dalla vita di un alpinista, L’Eroica, Milano, 1932, trad. di E. Pocar, pag. 9

Non vi sarebbero più stata la convivenza delle due anime indicata da Pocar.Il teoreta del sesto grado Rudatis liquiderà il problema in questi termini“Vi sono ideali che sovrastano ogni espressione materiale della vita e la vita stessa. Le gioie,

le soddisfazioni, i valori puramente spirituali che l’individuo può trarre dalla contemplazione e dall’azione alpina sono immensi. Ma questi costituiscono la vita interiore dell’individuo; la sua vita esteriore, l’azione in se stessa, possiede, come tale, un valore concreto, una misura che è uguale e costante per la collettività. …Il movente è una cosa, l’azione, il risultato, un’altra.”D. Rudatis, Lo sport dell’arrampicamento, in Lo Sport Fascista, pag. 34

Il movente diventa argomento più adatto alle riviste di psicanalisi che a quelle alpinistiche.Segregando lo spirituale nell’interiorità si facilita la valutazione. Un passo necessario per ap-

plicare principi da psicologia del lavoro al tempo libero.Dell’ultima spedizione sappiamo poco: Dougan e Pollitzer con delle canoe smontabili (Faltbo-

ot) attraversano la Fennoscandia regione dove terra e acqua si mescolano dando origine ad un unico e complesso grande spazio.

Rimangono solo le scarne note riportate sull’ultimo dei taccuini di Dougan. Avremmo solo questo se l’Alpina delle Giulie e il suo bibliotecario Sergio Duda, non avessero salvato i positivi su vetro delle spedizioni di Pollitzer dalla cupio dissolvi del tempo, un recupero non meno signi-ficativo dei diari.

Poiché il contenuto del taccuino è l’unica testimonianza attualmente disponibile su quella spedizione, lo si riporta integralmente

“La spedizione nella LapponiaPrima traversata dal mar glaciale boreale con un Faltboat al lago Inari30 luglio Partenza da Trieste31 luglio Lipsia Berlino1 agosto partenza da Berlino2 agosto arrivo a Oslo3 agosto Oslo gita a Holmenhollen partenza da Oslo4 agosto arrivo a Trondheim5 agosto partenza con la Draming Mand da Trondheim 6 agosto sulla Draming Mand a BödǾ

7 agosto sulla Draming Mand a TromsǾ8 agosto sulla Draming Mand a Capo Nord9 agosto mattina arrivo a a Kirhenes. Nel pomeriggio partenza in Faltboat per Bøkfjord nel Kor-sfjord qui attendamento

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Tipi Lapponi.

Canotto montabile montato. Una rapida del Paatsjoki.

Montaggio dei canotti a Sondankyla.

Lapponia, itinerario della spedizione. Trasporto del canotto.

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10 agosto lungo il Korsfjord sino alla foce del Unnkälven 11 agosto per il Unnkälven attendamento al Polarzelt 12 agosto sempre lungo il Unnkälven - cado in acqua e per poco non mi annego13 agosto attendamento sotto la grande cascata14 agosto si traversa per terra intorno alla grande cascata15 agosto sempre per il Unnkälven poi per il lago Vuonisjärvi attendamento alla fine di questo16 agosto per il Nutuanjoki sino al lago delle renne inferiore17 agosto per il Nutuanjoki sino al lago delle renne superiore18 agosto giorno di riposo al lago delle renne superiore19 agosto per il Nutuanjoki e per un sistema di laghi al Pieggâjävri20 agosto da Pieggajärvi per un sistema di laghi a Järvenjaä21 agosto attraversato tutto il ago Tschuolisjärvi22 agosto attraversato fino il Tschuolisvuono attendamento nell’isola di Pisteriniemi (lago Inari)Attendamento nell’isola di Pisteriniemi (lago Inari)23 agosto lungo le isole Lyoviorari Taurissari sino all’isola Kuorppasaaret24 agosto lungo le isole Ahmasalmi Rahksaari Swovasaari Palhssaari Vibsaaret Vieni Kaamassaari sino all’isola Pieni Jääsaari25 agosto fra le isole Laitvaaranseare, Noossinasaaret e lungo la penisolaNanguniemi infine salin-do Ivalo Joki sino a Ivalo26 agosto per autobus da Ivalo a Sodankilä27 agosto da Sodankilä in faltboat per il Kitinen Tähtelä28 agosto per il Kitinen a Aska29 agosto per autobus da Aska a Rovaniemi1 settembre a Rovaniemi 2 settembre da Rovaniemi a Ikkola2 settembre salito il Annturmn Atkkavaara4 settembre a Rovaniemi5 settembre partenza da Rovaniemi ore 4 ant.6 settembre in ferrovia7 settembre ore 10 sera arrivo a Stoccolma8 settembre visita Stoccolma e dintorni. Alla sera partenza da Stoccolma9 settembre alla sera arrivo a Berlino10 settembre sera a Trieste”

Contemporaneamente in quei giorni, il 12-13 agosto Comici e il fratelli Dimai salivano la pa-rete Nord della Cima Grande di Lavaredo.

Quelli di Dougan e di Comici sono due approcci diversi alla montagna e non due gradi diversi del medesimo approccio, come si pensa.

Un compagno di cordata di Comici, Giorgio Brunner avendoli conosciuti entrambi, scrive su “Alpi Giulie”

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“5 luglio 1926. Cammino con un compagno nella Val Saissera. Un rumore di passi di scarpe ferrate sul sassoso sentiero, che rapidamente si avvicina. Sono 5 alpinisti con grandi zaini sulle spalle, scamiciati, accaldati.Uno è Vladimiro Dougan, lo conosco. Poi c’è sua moglie Lea e poi i suoi compagni Hesse, Pezzana e Mikosch.Mi saluta, si ferma mi racconta concitatamente che ritorna dalla prima salita della pare-te Nord del Foronon del Buinz. Sorride dalla gioia e i suoi occhi brillano d’entusiasmo. Poi subito si accommiata. E la comitiva si rimette in movimento…Un grande desiderio mi prende di compiere anch’io simili salite: prime salite, andare dove nessuno è mai andato! So che Dougan studia lungamente la montagna e ne scopre le “vie naturali” non cerca di forzarla. Mi piace questo modo di affrontare la montagna e vorrei compiere qualche salita con lui. Un giorno gli telefono, ma mi risponde che per la salita che ha in animo di intraprende-re sono già in troppi partecipanti. Sarà per un’altra volta.Quest’altra volta di salire con lui per nuove vie non è mai venuta: il destino ha voluto che io in-contrassi Comici.

Libro GARS: convegno estivo sulle Tre Cime di Lavaredo e la I salita per la Nord della Cima Grande.

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Tuttavia nel 1929, quando ancora I’inverno non era ben finito ma neppure l’estate principiava, - il 9 maggio - mi era riuscito di persuadere ad andare sul Jof di Miez sia Dougan che Comici. Era un po’ mio desiderio riunire due alpinisti che sentivano la montagna tanto diversamente…Ancora una volta mi è riuscito di portare insieme in montagna Comici e Dougan: il 27 aprile 1930 sul Canin…Sulla vetta la stretta di mano, Dougan ci tiene…Lo ho rivisto ancora spesso, fino poco prima della sua fine, quando la fibra del suo corpo era in-taccata dal male, in modo da ridurre e annullare ogni sua attività alpinistica. Ma il suo spirito non si lasciò vincere mai e rimase vivo e acuto fino all’ultimo giorno, in cui lo vidi.”Cfr A.G. 1960/61, pagg.26-27

Brunner sentiva questa scissione. Lui, compagno di arrampicata di Comici e una sensibilità vicina a quella di Dougan

“Con Comici mi incontro frequentemente anche in città… Facciamo lunghe chiaccherate as-sieme, ma non andiamo quasi mai d’accordo. È una delle caratteristiche della nostra amicizia, e forse per questo è durata tanto…Uno dei nostri argomenti preferiti sono le scuole di roccia ed in special modo la Val Rosandra. Comici ne è il propugnatore entusiastico. Io vorrei addirittura cancellarla dalla faccia della terra.Altri discorsi facciamo sulle scalate estremamente difficili, su vie “direttissime” che si svolgono a poca distanza da altri percorsi più facili, sulla graduatoria delle difficoltà, sull’impiego della tecni-ca e dei mezzi artificiali. Non andiamo mai d’accordo.”A.G. 2010, pag. 35 da: Giorgio Brunner, Un uomo va sui monti, Edizioni Alfa, Bologna, 1957

Quale sia stata l’ultima cima salita di Dougan non lo sappiamo, né abbiamo notizie di lui suc-cessive al 1936 anno in cui termina anche l’ultimo dei taccuini pervenutici. Più oltre un’estrema testimonianza

“In seguito anche quando i due (Vladimiro e Lea ndr) non compaiono più nelle cronache alpinistiche, continuano a frequentare le montagne, basti pensare che Alberto Bois de Chesne, ricorda le escursioni effettuate, ancora nel 1950, assieme all’amico Dougan.”Daniela Durissini, Montagne per passione, Lint, Trieste, 2003, pag. 110

Perché Dougan ha interrotto la scrittura? Come può prendere questa decisione chi ha scritto per anni?Forse la risposta è in una frase di Chersi

Libro Gars: salita del Canin Dougan-Comici-Brunner.

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“Ma dalla sua poesia era germinato un profondo misticismo. E negli ultimi anni ogni sua pa-rola era improntata a quel misticismo”. C.Chersi, Itinerari del Carso Triestino, Stabilimento Tipografi co Nazionale, Trieste, 1967, pag. 29

Scrivere è come seminare ma se nessuno raccoglie, seminare diventa inutile. Il misticismo per-mette di seminare e raccogliere nello stesso istante così la scrittura non serve. Questo è l’ultimo Dougan.

Dougan nel tempo

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Vie nuove aperte da Dougan e riportate nei taccuini

1. 4 Luglio 1914 Wischberg dal Kaltwasser Tal, per la via degli Dei, prima salita

2. 13 Settembre1915 Piccolo Jòf Fuart salito con nuova variante per la gola di sinistra

3. 27 settembre 1916 - 25 aprile 1917. Permanenza invernale sul Wischberg

4. 6 Ottobre 1917 Flitscher Grintovec, parete Nord, prima salita

5. 20 Luglio 1923 Torrione del Riobianco, prima salita

6. 24 luglio 1923 Punta Plagnis dalla Bärenlahn Scharte, prima salita

7. 12 Giugno 1925 Prima discesa della parete Nord del Monte Cimone

8. 15 Maggio 1927 Prima salita Jovet Blanc e Forchia delle Portate

9. 2 Luglio 1927 Forca del Palone, prima traversata

10. 7 Agosto 1927 Modeon del Buinc, parete Nord, prima salita

11. 14 Agosto 1927 Forca di Val, prima traversata

12. 10 Ottobre 1927 Monte Sart, Crestone Nord, prima salita

13. 12 ottobre 1927 Jof di Miez da Dogna, prima salita

14. 30 Ottobre 1927 Prima salita della parete Nord del Monte Cimone

15. 5 Agosto 1928 Forca del Vandul, prima traversata

16. 12 Agosto 1928 Chiastellat, prima salita

17. 15 Agosto 1928 Monte Cimone parete Sud, prima salita

18. 26 Agosto 1928 Modeon del Montasio, parete Nord, prima salita

19. 6 Ottobre 1928 Crodon di Brica, parete Nord

20. 7 Ottobre 1928 Torre Finta, prima salita

21. 7 Ottobre 1928 Punta Brica, prima salita

22. 9 Ottobre 1928 Cima Guerra, prima salita

23. 9 Ottobre 1928 Cima Ruina, prima salita

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24. 9 Ottobre 1928 Cima Castelletto, prima salita

- Spedizione in Caucaso25. 5 Agosto 1929 Monte Elbrus, prima solitaria

26. 15 Agosto 1929 Kajarta Basch, prima salita

27. 16 Agosto 1929 Orölie Basch, prima salita

28. 17 Agosto 1929 Sürün Tau, prima salita

29. 26 Agosto 1929 Andürsky Basch, prima salita

30. 15 Giugno 1930 Cima della Scala per la Gola Nord, prima salita

31. 15 Giugno 1930 Cima Vallone, parete Nord, prima salita

32. 29 Giugno 1930 Grand Osebnik, parete Ovest, prima salita

33. 21 Luglio 1930 Cima Leone, parete Ovest, prima salita

34. 21 Luglio 1930 Cima senza Nome, prima salita

35. 25 Luglio 1930 Cima Lescion, Parete Est, prima salita

Nella foto Olga, Lea, Dougan una guida in cima.

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36. 28 Luglio 1930 Torre Val di Guerra, prima salita

37. 29 Luglio 1930 Monte Pramaggiore, parete Nord, prima salita

38. 24 Agosto 1930 Cima Scortisoni, parete Nord, prima salita

39. 2 Agosto 1931 Ciuc di Vallisetta, parete Nord, prima salita

40. 24 Agosto 1931 Jof di Miez, parete Nord, prima salita

- Spedizione in AtlantePrima traversata per cresta dal Tisi Onagane al Tisi Jamatert

41. 11 Agosto 1932 Tour Ouanouns, prima salita

42. 12 Agosto 1932 Petit d’Imouszen, prima salita

43. 13 Agosto 1932 I e II Tour Tichki, prima salita

44. 15 Agosto 1932 Epaule, prima salita

45. 15 Agosto1932 Clocheton, prima salita

46. 15 Agosto 1932 Clochers, prima salita

47. 16 Agosto 1932 II Tour Aksoual, prima salita

15 agosto 1929, Kayar-ta Bash m. 4250. Nella lingua locale significa monte che si sgretola. L’ometto di pietre eretto da Dougan e Pollitzer contiene un biglietto da visita con i loro nomi.

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ALPI GIULIEAnno 112 - N. 2/2018 Parte Seconda

LA GUERRA DI MIRO

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Nella pagina precedente: Dougan e Kugy in discesa dal Mangart.

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Parte seconda

IL SOLDATO

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Nella pagina precedente: ospedale di Liebena u presso Graz. Dougan saluta con il berretto in mano.

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Miro Dougan, il soldato riluttante

di Lucio Fabi

26 luglio 1914. Ultima escursione di pace per il vecchio alpinista e i suoi giovani amici nel gruppo dello Jôf Fuart. Nei taccuini di Julius Kugy e di Vladimir Dougan il medesimo stupore per una vallata che si anima di voci e richiami. La guerra è dichiarata. Bisogna partire. Il gruppo degli escursionisti si divide, arriverà a combattersi, qualcuno morirà, altri sopravviveranno.

Quando viene richiamato, il 15 marzo 1915 a Pola, Vladimir inscena un attacco epilettico du-rante il giuramento, evitando così di seguire il suo reparto in partenza per la Galizia. In seguito, si procurerà volontariamente un’infezione invalidante agli occhi, il tracoma, e rimarrà tre mesi in ospedale.

Al contrario di Kugy, che seppur fuori età si arruola volontariamente per portare il contributo alla guerra che si stava combattendo sulle “sue” montagne, sembra che il giovane Dougan le abbia tentate tutte per sottrarsi al conflitto. Il fronte per lui non è la prova a cui tanti intellettuali dei paesi in lotta sembravano ambire – il cosiddetto “amore per la guerra rigeneratrice” che tra il 1914 e il ’15 fomentò ansie e aspirazioni tra i giovani – è semmai un luogo pericoloso da cui tenersi lontano. Un desiderio che all’epoca doveva animare tantissimi giovani e uomini fatti, che dovettero giocoforza obbedire al richiamo delle autorità. Dougan però è fortunato, evita il fronte orientale, scansa anche una probabile morte nelle trincee, sorte che toccherà all’amico e alpini-sta Erwin Poech. Grazie all’influenza che godeva presso la X Armee del generale Rohr, Kugy lo chiama assieme ad altri giovani alpinisti per costituire un gruppo di guide alpine all’interno della 184ª Brigata di fanteria, con compiti di ricognizione e pattugliamento del territorio alpino.

È noto, grazie ai taccuini di Kugy e di Dougan, il difficile lavoro di consolidamento del presi-dio dello Jôf Fuart, che nell’autunno del ’15 viene attrezzato con corde e scale per permettere la permanenza in sicurezza di una sessantina di uomini. In quei giorni avviene il contestato episodio del mancato incontro-scontro in quota tra una pattuglia capitanata da Dougan e un gruppo di italiani provenienti dalla cima di Riofreddo. Ingomar Pust, nel suo libro 1915-1918: il fronte di pietra, ipotizza che Dougan abbia volontariamente evitato lo scontro dopo aver intravisto, a capo della pattuglia italiana, l’amico Pesamosca. Chissà com’è andata. Dougan ovviamente nei suoi appunti cita tutt’altro, sarebbe stata infatti una grave infrazione alle regole, anche se a guerra fini-ta ne avrà parlato, e qualcuno avrà riferito, e così l’aneddoto è rimbalzato sulla carta stampata. Di questo fatto si è tratto anche un film, tanto l’episodio appare suggestivo. L’incontro di due amici divisi dalla guerra, che non vogliono sottostare alle regole della guerra: sparare, attaccare, neu-tralizzare l’avversario. Sono amici, e a queste regole oppongono l’universale “male non fare, pau-ra non avere”, il primordiale istinto animale di evitare il più possibile il pericolo, lo scontro fisico.

Le montagne non vogliono confini, questo è certo. Così come è certo che gli uomini di montagna sembrano legati da una fratellanza che va oltre la divisa. Anche se non mancano, nella letteratura della cosiddetta “guerra bianca”, episodi che dimostrano esattamente il contrario. Non vorrei enfatizzare dunque più di tanto il gesto – o il non gesto – di Dougan, che tuttavia, anche in questo caso, dimostra di saper agire autonomamente, quando la situazione glielo consente. Del resto, lo stesso Kugy, quando richiama nel suo gruppo i giovani alpinisti con cui era in contatto

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nel periodo prebellico, è conscio di offrire loro una maggiore probabilità di sopravvivenza, ri-spetto ai vari fronti a cui erano destinati. Non a caso molto si rammaricherà di non essere riuscito ad aggregare al gruppo, nell’estate del ’15, Erwin Poech, che morirà sul fronte dell’Alto Isonzo nel settembre di quello stesso anno. In un’altra occasione, dopo la sfortunata azione del 18 ottobre del ‘15, lo stesso Kugy, pur contento che i suoi giovani amici alpinisti, tra cui Dougan, siano riu-sciti a mettersi in salvo, non tralascia di rilevare che gli “alpinisti”, lui per primo, pur obbedendo agli ordini ricevuti, avevano disapprovato la manovra, giudicandola troppo pericolosa e, come avvenne, senza alcun risultato e con tanti morti, almeno un migliaio, secondo fonti italiane.

Nel giugno dell’anno successivo Kugy elabora, con il consenso del comando della Brigata al-pina, l’ardito progetto di un osservatorio sul Montasio, per il quale bisognava addestrare un certo numero di militari alla permanenza in alta montagna. Del gruppo, di un centinaio di elementi, fa parte anche Dougan in veste di istruttore, con altre guide alpine. Segue un periodo di ascensioni ed escursioni in quota, frammisto a più pericolose azioni per assicurare i collegamenti tra i diversi osservatori d’artiglieria, allo scopo di neutralizzare o quantomeno rallentare l’attività delle batte-rie dei grossi calibri italiani contro Tarvisio e zone limitrofe. Per queste azioni, Dougan riceve una medaglia e il grado di caporale, cosa che evita di menzionare nel suo diario.

Per il presidio invernale dello Jôf Fuart, il cosiddetto “Rifugio Scotti” in onore del generale che aveva promosso l’operazione, Kugy organizza addirittura una spedizione in grado di permanere diversi mesi in ambiente artico. Dougan si offre volontario non per spirito patriottico, ma perché aveva esattamente valutato la poca pericolosità della missione, e le sue capacità di resistenza in ambiente montano. Merita qui riportare le sue considerazioni: “Del resto fra tutti noi regnava il più perfetto comunismo, fatto si è che come tutti i lavori e così il più greve, il lavoro della caverna che è stato compiuto con l’entrata dalla parte del Seebach Tale e l’uscita nel Saissera Tal, 27 metri di lunghezza di caverna, venne eseguito da tutti noi sei”.

Per sostenere il gruppo Kugy aveva previsto un rifornimento impareggiabile di viveri e generi di conforto, che riuscì a far superare la rigidità dell’inverno in quota. Quale differenza con il mi-sero rancio che veniva consumato da migliaia di soldati a valle. E quale differenza, giustamente notata da Dougan, tra i panorami spettacolosi a cui ha il privilegio di assistere, rispetto la grigia quotidianità della vita di trincea: “…desideravo da anni passare un natale, lontano dal mondo, segregato su una cima dove impera la neve e il mal tempo. Trovandomi in questi elementi ho passato il più felice e rico [sic] dei più bei ricordi, Natale in montagna”.

Una volta ultimato il traforo della cima, da giugno un piccolo cannone comincia a sparare sulle linee italiane del Sompdogna e dello Jôf di Miezegnot, tenuto dalla 97ª compagnia del leggendario capitano Carlo Mazzoli e dai suoi “briganti”. Dougan però è in licenza, a Trieste, e dopo una noiosa malattia gengivale di nuovo in trincea, nel Seebachtal, questa volta sono i ratti a impensierirlo, quanta differenza con le albe e i tramonti invernali sullo Jôf Fuart. Nell’agosto del ’17 è di nuovo con Kugy, che lo vuole come sua guida personale, ad attrezzare vie, scoprire osservatori, accompagnare giornalisti per conto del comando d’armata. In seguito alla scuola di roccia di Soča, sempre voluta da Kugy, messo in qualche modo in disparte dal comando d’armata a causa del suo non accentuato spirito bellico, visto che in più di una occasione aveva preferito salvaguardare gli uomini a lui affidati piuttosto che impiegarli in rischiose azioni di guerra.

Sulle operazioni belliche sulle Giulie e in generale sulla guerra alpina si è scritto molto, e mol-to si sono esaltate le gesta di uomini spesso di fibra eccezionale, perché ancor prima del nemico bisognava guardarsi dalle condizioni atmosferiche e dal durissimo clima di alta montagna, che produsse più vittime dei combattimenti in quota. Mai prima e neanche in seguito si combatté più

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in quel modo eroico e assurdo, abbarbicati in quota, dentro baracche o gallerie di ghiaccio, in attesa di un nemico vicino ma invisibile, alle prese con gli stessi problemi di sopravvivenza. La guerra di Kugy, di Dougan e dei loro compagni rocciatori può forse apparire come un’impresa sportiva, ma non dobbiamo dimenticare che la morte era sempre in agguato, anche sulle più alte cime. E quando, in una operazione di recupero di aviatori italiani caduti con il loro Caproni a causa della nebbia, Dougan si trova ad accompagnare a valle con la sua squadra il più grave dei due, non può celare la pena per quel nemico ormai non più tale, a sua volta contento di poter parlare in italiano con il suo soccorritore. Qualche parola per sostenere lo spirito del ferito, diventato amico nella disgrazia, che volle regalargli la sua pipa. Dougan non l’accettò, forse già intuiva che quell’aviatore non sarebbe sopravvissuto al congelamento. Così fu, morì il giorno dopo all’ospedale.

Protagonisti sulle vette, comprimari nella più eclatante azione di guerra in montagna orga-nizzata dall’esercito austro-ungarico con il determinante appoggio dell’alleato germanico, Kugy e Dougan assistono da lontano alla preparazione e in seguito alla messa in atto dell’attacco au-stro-tedesco alle linee italiane dell’Alto Isonzo, che si concretizzò nello sfondamento del fronte tra Plezzo e Tolmino. È un’azione che non li riguarda, coinvolge ingenti reparti e mezzi prepon-deranti. Il colpo, pur annunciato, coglie di sorpresa la linea di comando italiana che ordina la ritirata prima al Tagliamento e poi al Piave. Kugy e Dougan seguono l’avanzata con le salmerie, qualche giorno dopo i primi combattimenti, e incontrano forse per la prima volta il volto della vera guerra: trincee disfatte piene di morti, cannoni, carri e masserizie abbandonate ovunque, soprattutto tanti prigionieri, ufficiali rattristati, soldati quasi contenti di aver momentaneamente finito la “loro” guerra. Non sanno che li aspetta un anno durissimo in prigionia. Sul totale di circa 600.000 prigionieri, oltre 100.000 moriranno di fame e di malattia, uno su sei non tornerà a casa.

Le pagine di Dougan al seguito dei reparti invasori risultano di grande interesse per la storia sociale dell’occupazione del Friuli e del Veneto, perché riportano lo sguardo disincantato di chi prima di militare si sente uomo. Si intende più con i civili spaventati che con i commilitoni del suo esercito che parlano diverse lingue, non tutte comprensibili. Dopo tre anni di guerra di trincea, tra pericoli e privazioni, senza cibo e vestiti a causa del blocco navale alleato, i soldati dell’impero hanno bisogno di tutto. Cercano di procurarselo nei territori occupati, e non fanno distinzione tra amici e nemici, Kugy e Dougan vengono addirittura derubati dei loro vestiti da un soldato bosniaco.

Lo sappiamo da diverse fonti storiche e memorialistiche: nel corso dei primi giorni dell’oc-cupazione del Friuli e del Veneto, le case vengono saccheggiate, molte donne vengono violate. Il numero degli stupri denunciati nel dopoguerra è impressionante, ancor di più quelli tenuti nascosti per pudore o vergogna. Dougan vede e annota tutto ciò, ma non solo. La sua etica gli impone di intervenire in difesa dei più deboli, del curato impaurito, delle donne terrorizzate dai nuovi arrivati. Giunge a minacciare con le mani e le armi i più riottosi, sembra impossibile, all’uo-mo abituato alla guerra sulle cime, che i suoi compagni d’arme possano dimostrarsi così prepo-tenti con i civili che, favoriti dalla parlata comune, gli chiedono aiuto. Sembra ergersi a paladino delle donne che incontra nel suo cammino, ne incontra più d’una che gli chiede protezione. Qualcuna s’innamora del giovane alpinista in divisa. Altre, più intraprendenti, lo concupiscono, con esiti anche esilaranti.

Percorre il Friuli e il Veneto, non senza aver apprezzato le belle cittadine come Vittorio (non ancora Veneto) e “la pittoresca marcia” verso Belluno. Nota le scritte proletarie e socialiste di Lentiai, si relaziona con i civili dei villaggi veneti, ma poi, nei pressi del Monte Grappa, in un paio

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di occasioni viene in contatto con il fuoco di artiglieria nemico, apprezza la tempra del principe di Schwarzenberg, ritto fra gli scoppi degli shrapnel, ma quasi subito si manifesta quel dolore al petto che gli farà terminare anzitempo la “sua” guerra.

Che genere di soldato è stato Dougan? Sicuramente particolare, non un cavernicolo delle trincee, come tanti milioni di uomini su tutti i fronti. Piuttosto un militare privilegiato grazie alla sua destrezza di alpinista, più utile come rocciatore e guida alpina che – mi si passi il termine – come carne da cannone. Nel suo diario “il nemico” viene rispettato, spesso consapevolmen-te evitato, mai disprezzato. Uomini dalle diverse divise, non nemici da combattere e uccidere. Sarà stato il suo spirito socialista forse ereditato dal padre ferroviere, o soltanto realista, che già all’inizio del conflitto lo aveva consigliato di tentarle tutte per evitare la trincea. In fondo, la chia-mata di Kugy e il ritorno sulle adorate Giulie altro non è che una sostanziale sospensione dalle crudezze della guerra, anche se non del tutto esente da pericoli. Un combattente forse atipico, Vladimir Dougan, tuttavia non troppo differente dai milioni di combattenti che, scaraventati nelle trincee di mezzo mondo, cercarono di sopravvivere al conflitto e ritornare alle loro case. Avesse avuto un’altra divisa, ad esempio quella del regno, sarebbe stato certamente tra i combattenti più celebrati dalla retorica patriottica. Avendo indossato quella perdente, subì nel dopoguerra l’inevitabile oblio riservato ai militari dell’ex impero. Certo se ne sarà crucciato, ma voglio credere non troppo. Ritroverà presto il vecchio maestro, una giovane moglie, altre avventure e soprattutto le sue montagne, senza armi e trincee questa volta.

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LA GUERRA DI MIRO La notizia dell’ultimatum

Dougan racconta il giorno in cui ebbe la notizia dell’ultimatum dell’Austria alla Serbia

“Sabato 26 luglio c’incontrammo a Wolfbach Kugy, Timeus, Erwin Poech e io e prosseguimmo nelle prime ora per la Saifnitzer Karnika alla sella Nabois. Il tempo era minacioso quando imboccammo la grande cengia che porta dalla sella Nabois all’imboco della sella Mo-ses. Questa era ancora parzialmente coperta ancora di neve. La sella Moses che per quanto ripida si trovava in buone condizioni la salimmo e prima che sortimmo su questa il cielo si è coperto completamente, pioveva e soffiava un vento freddo per la cui causa, invece di salire il Jòf Fuart dopo un riposo al riparo dalla pioggia e dal vento sotto le roccie, decidemmo di scendere alla ca-panna Findenegg. Quando sortimmo da questa per scen-dere ulteriormente a valle, tutte le circostanti montagne erano coperte con neve fresca caduta nel fratempo, cosa che presentava un singolare spettacolo per quella stagio-ne avanzata. Arrivati in fondo valle al punto di confine un gendarme ci diede la notizia del scopio della guerra con la Serbia e realmente quando arrivammo a Raibl tutto il paese era in subuglio. Il treno che portava a Trieste era già carico di richiamati. Erwin partì per Vienna e non l’ho più visto è morto in guerra sul Polovnik.”

Kugy, nel capitolo sulla guerra, il Kriegsbilder rimasto lun-gamente inedito in Italia, così racconta quel fatto

“Alla fine di luglio, quando l’ultimatum alla Serbia si levò su di noi come un fosco segnale, stavo guidando i miei giovani amici nel gruppo dello Jòf Fuart. Facevano parte della comitiva Vladimir Dougan, il primo che aveva per-corso la cengia degli Dei ed Erwin Poech mio compagno di cordata sulle pareti orientali e settentrionali della Cima di Riofreddo. Erano con noi anche Oitzinger e Osvaldo

Ritratto di Erwin Poech. Vidi così per l’ultima volta quel caro giovane. Da J. Kugy, La mia guerra nelle Giulie, cit.

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Pesamosca. Le condizioni atmosferiche erano decisamene avverse e non ci consentirono di intraprendere salite impegnative. Girammo quindi attorno allo Jòf Fuart, lungo le sue cenge nord occidentali dal Grande Nabois fino alla forcella Mosè, per poi superare la forcella stessa e raggiungere la Findenegg hűtte. Durante quella notte la temperatura si abbassò sensibilmente e cadde della neve fresca. Il mattino seguente quando scendem-mo a Rio del Lago, la trovammo completamente sommersa dall’acqua piovana. Ma alla furia degli elementi si uniscono ben presto i segni di un evento ancora più importante. In tutta la valle si udivano echeggiare voci eccitate. Il guardaboschi chiamava i suoi aiutanti, le donne cercavano i loro mariti che lavoravano nei campi o nei boschi in quota. Compren-demmo subito il motivo di quella agitazione e ne avemmo conferma dal finanziere che attendeva presso il Rio Torto anch’esso in piena: mobilitazione! Il quadro si faceva sempre più animato col procedere del nostro cammino. A Cave del Predil sventolavano le bandie-re. Erwin non seppe più resistere. Il richiamo della patria gli era penetrato nel cuore come viva fiamma. Ci abbandonò e proseguì subito per Tarvisio, dove si sarebbe arruolato come “volontario per un anno”. Noialtri invece, restammo in attesa dell’automobile da Plezzo. A Tarvisio i giovani del quinto Jäger erano già stati caricati sul treno. Partivano manifestando il loro entusiasmo con canti e grida di gioia. Vedemmo Erwin affacciato al finestrino dell’ul-timo vagone. Si sporse molto in fuori e con un braccio sollevato ci salutò inviandoci uno squillante Evviva. Vidi così per l’ultima volta quel caro giovane.” J. Kugy, La mia guerra nelle Giulie, Edizioni Saisera, Valbruna-UD, 2008, pag 15

E così ricorderà chi da quella guerra non è ritornato“La guerra riecheggia ancora ma alla fine la pace benedirà ogni valle… Allora potremo visitare le tombe dei nostri morti. Prima di tutto la tomba di Erwin (Poech ndr). Non sarà un cammino triste, Il percorso si snoda tra i fiori del giardino alpino meridionale, tra il canto degli uccelli, attraverso malghe solari. Un cammino attraverso il paesaggio fantastico dello Zlatorog dove troneggia il re Triglav, dove dominano soavemente le bianche Rojenice, dove il tesoro del monte Bogatin attende il fortunato scopritore. Lì c’è pace… Golobar Planina! Le cime delle Giulie meridionali ci salutano… Verso sud ovest si apre un azzurro lontano, nell’odore variegato dell’aria, intuiamo la vicinanza del nostro mare. Lui aveva difeso questi monti e questo mare… In luglio e nell’agosto del 1915 feci di tutto per averlo con me, ma non riuscii nell’intento, in quanto avevano bisogno di lui presso la sua sede. Forse avrei potuto salvarlo, chi può saperlo? Salute al tuo ricordo, o splendido giovane eroe radioso!” J. Kugy, La mia guerra nelle Giulie, Edizioni Saisera, Valbruna-UD, 2008, pag. 44

Kugy era molto affezionato ai Poech i due giovani fratelli alpinisti e nel suo ultimo libro rivolge un pensiero anche alla sorella di Erwin, Herma di cui aveva descritto la giovanile vitalità quando l’aveva incontrata per la prima volta ai piedi dello Jòf Fuart

“Io mi chiamo Herma Poech, sono viennese. Questo è mio fratello Erwin ( e indicò il biondino) e questo è il nostro amico Max Mauzer” e indicò il giovanotto bruno… saputo che era sullo Jòf Fuart, Le siamo corsi dietro e grazie al Cielo l’abbiamo trovato. Ora Le prepareremo con la neve una minestra e nello zaino abbiamo per Lei anche un melone. Salute! …

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Herma è stata una brava ragazza, forte e sicura, valorosa nella vita. Eppure ebbe un’esi-stenza difficile. In un momento disperato l’ha lasciata di sua volontà. “J.Kugy, Dal Tempo passato, Adamo, Gorizia, 1983, pagg. 52-53

Dougan che continua a frequentare la montagna con Kugy ha il presentimento dell’avvicinarsi della guerra

“In dicembre con Kugy e Bolaffio ci recammo sul monte Nero. La neve scendeva quasi sino in valle. La giornata era bella eppure era una tristezza in aria. Forse era la previsione della mia chiamata in guerra.”

Mentre la vita scorre e consuma gli ultimi momenti spensierati di un tempo di pace che sta per finire

“Per le feste di natale Kugy e io le passammo in allegra compagnia da Oitzinger che ci racontava le sue aventure col bandito bulgaro Koci Zigarin. Durante le tre giornate skiavo nei dintorni e nella valle Saissera.”

Nella sua biografia su Anton Oitzinger, Kugy farà un ampio resoconto di queste storie“Oitziger ricordava soprattutto uno di questi capi, un tipo terribile e crudele Kotzi lo zin-garo. Era un omaccione imponente e massiccio, con una forza eccezionale, una testa mo-struosa, lo sguardo tenebroso e penetrante. Aveva portamento ed espressione severi, cupi; nessuno mai l’aveva visto ridere. I suoi mustacchi, annodati a treccia erano così lunghi che se li passava oltre gli orecchi…Fu il tradimento a perderlo… La banda fu sbaragliata, alcuni briganti riuscirono a fuggire, la maggior parte fu uccisa. Le loro teste furono messe in mostra sulla piazza del mercato a Filippopoli. In mezzo ad esse quella gigantesca e terrificante del capo, con i lunghissimi baffi girati fin sopra le orecchie!” J.Kugy, Anton Oitzinger, Lint, Trieste, 1985-2001, pagg. 34-38

Erwin partì per Vienna e non l’ho più visto è morto in guer-ra… Poech e Dougan.

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Tra Montasio e Jòf Fuart

Sulle ragioni che lo avevano spinto a partire volontario Kugy scrive “A metà giugno del ’15 mi sono volontariamente arruolato per la guerra contro l’Italia. Lo consideravo un mio dovere… avevo appreso la notizia che Malborghetto veniva bombardato da oltre le montagne. Lo scenario erano quei monti che nessuno conosce meglio di me. Si trattava delle Alpi Giulie e dell’amato mare blu di casa mia che sta ai loro piedi. Tutto ciò doveva restare nostro.”J. Kugy, La mia guerra nelle Giulie, Edizioni Saisera, Valbruna-UD, 2008, pag.15

Dougan qualche prima mese era stato arruolato“Il 15 marzo 1915 mi dovetti presentar sotto le armi a Pola. Duran-te la funzione del giuramento in chiesa simulai un assalto epiletico il quale mi salvò dalla partenza per la Rusia. Poco dopo mi infettai volontariamente gli occhi col tracoma per cui causa rimasi 3 mesi nel ospitale. Un improvisa chiamata da parte di Kugy mi fece partire per Vilaco ma passando per Trieste mi fermai lì per tre giorni dal 17 - 20 luglio. Il 20 luglio a Vilaco. Il giorno seguente venni presentato al ge-nerale del Armata Ror e da questo nominato guida alpina. Il ventitre agosto vengo mandato a Tarvis e addebito al Comando Brigata.”

Qui si vede la differenza tra i sentimenti del borghese Kugy e Dougan uomo del popolo, nei confronti di un conflitto che avrebbe sconvolto l’esi-stenza di tutti.

Sicuramente Kugy si adoperò affinché Dougan entrasse nella X Armee del generale Rohr.

“In un primo momento, nell’ambito della brigata avevo scelto tutti coloro che mi sembravano adatti e nel frattempo chiesi che tutti i gio-vani alpinisti che mi frequentavano già in tempo di pace, in qualsiasi luogo si trovassero impegnati nella guerra, venissero convocati presso di me. (in questa circostanza fui molto sostenuto e compreso dalla 184a Brigata fanteria. Purtroppo non accadde altrettanto più tardi con la 59 a Brigata di montagna).” J. Kugy, La mia guerra nelle Giulie, Edizioni Saisera, Valbruna-UD, 2008, pag.34

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Così i due si ritrovano assieme anche in questa situazione. La prima azione di pattuglia descrit-ta da Dougan è un sopralluogo sul Gran Nabois per un osservatorio d’artiglieria. La sistemazione degli osservatori nei punti più impensabili fu una delle attività a cui Kugy si dedicò, mettendo a disposizione la sua grande conoscenza alpinistica

“20 agosto partono Kugy , cap. Walter, un altro capitano in automobile a Kaltwasser e con un’altra seguivano dott. Maier, Ing. Horn, Dibona, Oitzinger e io tutti addebiti al gruppo guide. Tutti insieme ci recammo alla sella Prasnik dove pernottammo. Il 21 agosto proseguimmo oltre la sella Karnica per risalire la sella Nabois e infine in vetta del grande Nabois. Io guidavo il cap. Walter il quale camminava molto male soffrendo da capogiro. Lo dovetti legar alla corda. Il ritorno venne da noi passato per la medesima via del andata, solamente nel fondo del Kaltwassertal ci attendevano tanti cavalli coi quali trottammo a Kaltwasser infine in automobile a Tarvisio.”

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L’attrezzatura della gola NE

“Le Kastreinspitzen vennero ocupate il 21 agosto dalle truppe ita-liane minaciando così anche la caduta del Jof il quale era allora

occupato di 12 uomini. Ogni via di socorso e provigionamento era con ciò resa impossibile e non restava altro che la gola N. Ost. Il 23 Ago-sto, dietro consiglio e direzione di Kugy fummo inviati con un autocar-ro, carico di funi e chiodi, Oitzinger, la rinomata guida delle Dolomiti Angelo Dibona, un nipote della celebre guida Sepp Innekofler, io e un paio di portatori a Kaltwasser. Da Kaltwasser alla sella Praschnik salimmo a cavallo e pernottammo. L’indomani mattina ci trasportia-mo con tutti gli atrezzi alpini nella Saifnitzer Karnica sino ai piedi del piccolo Jof Fuart. Per fare più presto possibile abbiamo composto in due squadre l’una Oitzinger, Innerkofler, l’altra Dibona e io… Arrivati alla cengia degli Dei Oitzinger e Dibona ci attendevano mentre Inner-kofler e io salimmo in cima a portare ai 12 uomini la lieta notizia che il socorso e approvvigionamenti sta per arrivare. Non è facile descrivere la gioia di quei dodici, che già si davano per persi, al nostro apparire. Io credo che questo era il record di un assicurazione di una via così ripida giaché per tutto il lavoro impiegammo solamente 4 ore. … di-scendemmo rapidamente e a metà strada incontrammo già Klauer con 68 uomini che andavano a ocupare la cima. Al piede del piccolo Jof bivaccammo. Oitzinger era un po’ troppo allegro per causa del rum bevuto.”

Kugy ricorda con grande entusiasmo quell’operazione“Più tardi durante la guerra, vi ho costruito con scale di legno, gradini scolpiti, chiodi di ferro e corde, un buon sentiero di roccia, sul quale le nostre colonne di portatori, non viste e protette, poterono rifornire di provviste e munizioni la guarnigione appostata sulla vetta. Nel tardo autunno del 1915, in un periodo molto minaccioso per lo Jòf Fuart ciò avvenne assai velocemente: in 24 ore provvisoriamente, in 3 giorni definitivamente. Tracce di quel sentiero di guerra si possono vedere anche oggi, e così gradini scolpiti e forse qualche chiodo ormai ten-

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tennante. Questa è la storia dell’origine dell’odierna e molto frequentata salita di NE del Jòf Fuart. Non vorrei essere dimenticato”J.Kugy, Dal tempo passato, Adamo, Gorizia, 1982 pag. 118

Il racconto è meglio dettagliato nel Kriegsbilder. Eventi importanti ma non ripresi negli altri suoi libri per non nuocere a chi, come Dougan, quella guerra l’aveva combattuta nell’esercito A.U. Silenzio opportuno in quel momento storico che però non ha favorito il passaggio del “Non vorrei essere dimenticato” da Kugy a Dougan.

“Era certamente un momento difficile per lo Jòf. Per un pelo allora non andò perduto: io penso che sia stato salvato da noi alpinisti…. Alle tre del pomeriggio una squadra formata in tutta fretta e composta da Oitzinger e Dibona come caposquadra, poi Dovgan, Inner-kofler e Kirchweger, munita delle necessarie istruzioni, di 15 chiodi da muro, ancora 200 metri di fune già si apprestava a partire in macchina da Riofreddo. La mattina seguente io portai altri 50 chiodi, ancora 200 metri di fune, tavole e legname per le scale, 23 ore dopo aver ricevuto l’incarico dalla sella Prasnig fu possibile comunicare telefonicamente che la nuova attrezzatura provvisoria era ultimata. La sera dello stesso giorno l’aspirante Klauer, sebbene con molta fatica e con l’impiego di tutte le sue forze, riuscì a portare su attraverso la gola N.E. la nuova guarnigione per il presidio dello Jòf Fuart. La sera del terzo giorno vi erano saliti già 64 uomini fra militari, operai e portatori, senza il minimo incidente… Il nemico si era accorto che lo Jòf Fuart si stava trasformando in un vero caposaldo. Co-minciò a lanciarvi granate di grosso calibro e il 14 settembre aumentò l’intensità della sua azione bombardando la cima dello Jòf Fuart con granate ancor più pesanti. Avrò sempre il rammarico di non esser stato presente di persona a questa grandiosa vicenda. Dovgan, che quel giorno era di servizio come guida, mi raccontò che la vetta aveva ripetutamente tremato per effetto dei colpi che l’avevano centrata.” J. Kugy, La mia guerra nelle Giulie, Edizioni Saisera, Valbruna-UD, 2008, pag.23

Sulla Cengia degli Dei, in un punto non precisato sarebbe accaduto un fatto riportato da Ingomar Pust nel suo libro. Di quell’episodio è stato girato anche il film-documentario “ Vie di pace” di Samantha Faccio

“Norbert Nau ricorda un colloquio avuto al Rifugio Pellarini con la guida alpina Mikosch di Val-bruna. Mikosch disse che la guida slovena Vladimiro Dougan gli raccontò dopo la guerra un epi-sodio accaduto nell’estate del 1915, mentre saliva con altri due soldati la gola N.E. del Jòf Fuart. Arrivati alla cengia degli Dei, videro una pattuglia italiana di quattro uomini che, senza sospettare la presenza di soldati austriaci, stava percorrendo quella via dalla cima di Riofreddo. I suoi due ca-merati avrebbero voluto aprire il fuoco ma Dougan lo proibì. Non volle neppure far avvicinare gli italiani in modo da sorprenderli e catturarli. Ammise egli stesso di averli fatti passare indisturbati per poi riprendere la sua ascensione allo Jòf Fuart… Erano entrambi uomini di Kugy e Dougan non considerava Pesamosca un nemico anche se indossava la divisa di alpino. Naturalmente Dou-gan non raccontò mai di aver incontrato gli italiani ma potrebbe averlo detto solamente a Kugy.” I. Pust, Fronte di pietra, Mursia, Milano, 1987, pagg. 111-112

Dopo la spedizione per attrezzare la gola N.E. Dougan ritornerà altre tre volte quell’estate sullo Jòf. Una volta da solo e le altre con l’ing. Kalab:

“Il 27 agosto Ebbi l’incombenza di esaminare le corde e ulteriori lavori sullo Jof. Sono

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partito solo da Tarvis a Kaltwasser e poi a Kaltwassertal, che al contrario del tempo di pace come era solitario e passato rare volte da qualche singolo contrabandiere, ora era tutto un formicolio di soldati. Ragiunsi i piedi dello Jof Fuart oltre la sella Karnica dove ho bivaccato. L’indomani ho salito il Jof Fuart ritornando per la medesima via… il 2 set-tembre partimmo col automobile per Kaltwasser col ing. Kalab. Arivati al Prasnik Satel nevicava perciò attendemmo qui il bel tempo una intera giornata. Il 4 settembre guidai il Dott. Kalab per la N.Ost Schlucht in cima del Jof. Discendemmo per la medesima via a Kaltwasser.”

Dougan così riporta la salita attraverso una nuova via di accesso alla gola N.E. dello Jòf Fuart “il 12 settembre con Ing. Kalab partimmo da Tarvis a Kaltwasser in automobile. Salim-mo per il Kaltwassertal alla sella Karnica scendemmo nella Saifnitzer Karnica e sotto il piccolo Jof bivaccammo. Le salite effettuate con l’ing. Kalab erano le più belle tanto perché era buono e un grande idealista come scienziato in materia sua che con pazienza grande mi istruiva in litologia. L’indomani 13 Settembre salimmo per la gola sinistra del Piccolo Jof Fuart, (nuova variante d’attacco alla gola NE) poi per la salita della N. Ost in cima. In quello la cima venne bombardata fortemente e non era dove ripararsi. Alquanto impressionato per questa causa l’ing. volle discendere ma essendo già notte e senza fanali era pericolosa la discesa, per fortuna conoscevo molto bene la salita. Quando arrivammo alla via degli dei ricusava di scendere avanti. Sotto un riparo decidemmo a bivaccare. Non tardò molto che a pochi passi da noi, nell’oscurità passarono una pattuglia di 14 uomini.Il 14 settembre alle prime luci del mattino scendemmo nella Saifnitzer Karnica e poi oltre la sella Karnica a Kaltwasser e Tarvis.”

Questo è quanto dice o non dice Dougan nel diario. Nei taccuini dove riporta i dati essenziali delle ascensioni, quella del 12 settembre con l’ing. Kalab non viene nemmeno riportata.

La pattuglia avvistata sulla cengia degli Dei era austriaca o italiana? Dougan tacendo, confer-ma o smentisce?

Successivamente venne attrezzata la nuova via di accesso alla gola N.E. trovata da Dougan “Il 1 ottobre da Saifnitz oltre Wolfsbach nella Saifnitzer Karnica. Lì mi attendevano sette uomini che avevano l’incarico, sotto la mia direzione, di assicurare e lavorare la via della gola a sinistra del Piccolo Jof Fuart. Bivaccammo sotto la mia tenda nella Saifnitzer Kar-nica e ogni giorno dal 1 al 4 ottobre salivo e scendevo dal Piccolo Jof finché finito tutto il lavoro tornai oltre Wolfsbach a Saifnitz il 5 ottobre.”

L’ osservatorio era una postazione da cui controllare di nascosto l’attività del nemico sebbene i segnali ottici e i cavi telefonici per la comunicazione delle informazioni potessero essere scoperti. Si pensò di risolvere il problema con la radio. Questo avrebbe permesso di mimetizzare meglio i posti di osservazione

“Pensammo alla apparecchiature radio. Ma siccome era impossibile stendere l’antenna tra le rocce accidentate, era necessario realizzare apparecchi che funzionassero senza l’an-tenna rigida. Il tenente Scheuble si assunse il compito di approntarne. Quando questi

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apparecchi furono pronti… cominciammo a collaudarli con una serie di prove. La mia pattuglia con l’apparato ricevente (6 soldati, 3 ufficiali, Oitzinger e io) si avviò sulla prima montagna; il dr. Mayer, che guidava invece la seconda pattuglia (il tenente Scheuble, il tenente Chiaris, Dibona e Dougan)… Alle 10 avevamo l’appuntamento con gli apparecchi radio… Funziona, trasmette ripeté eccitato cominciando a scrivere.” J. Kugy, La mia guerra nelle Giulie, Edizioni Saisera, Valbruna-UD, 2008, pag.30

Dallo scritto di Dougan si può capire che la soluzione presentava dei problemi, che fanno da contraltare alla soddisfazione espressa da Kugy, che per altro, non ritornerà sull’argomento

“Alle 5 nel pomeriggio del 9 settembre, dopo aversi, alla Brigata diviso esatamente il peso di un nuovo apparato radiotelegrafico tra Maier, Dibona e io, siamo partiti e con noi ancora l’inventore del apparto, col automobile a Weisserfels. Per quanto cercammo di camminare presto, con tutto ciò ci sorprese la notte quando eravamo poco più avanzati dai laghi. Nel oscurità lungo tempo cercammo il sentiero smarito ai piedi del Travnik. Era una notte scura e bisognava fare molta attenzione dove si pogiava il piede. Quando arrivammo al Travnik, tutti eravamo stanchissimi per il grande peso del nostro zaino, se non sbaglio 32 chg. Dibona bestemmiava come un turco e ci voleva molto a smuoverlo dalla sua decisione di dormire sul Travnik. Qui per sfortuna consumammo tutte le candelle. Quando Dio vole arrivammo alla capanna. Nella notte stessa, poco più in su sotto il Piccolo Manhart abbia-mo fatto delle prove radiotelegrafiche. A buon ora del mattino seguente andammo col radio apparato a telegrafare su Rudeci Rob. Verso mezzogiorno scendemmo a Predil, la strada vene tenuta costantemente sotto il fuoco di schrapnel. Passammo quel punto felicemente partindo ogni 5 minuti l’uno da una casa dirocata. Quando arrivammo a Raibl anche que-sta venne bombardata. Giungemmo a Tarvis in autocarro.”

…Alle 10 avevamo l’ap-puntamento con gli ap-parecchi radio… Fun-ziona, trasmette ripeté eccitato cominciando a scrivere...

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L’inverno del 1915

Kugy fu sempre molto attento ai pericoli oggettivi cui andavano incontro i soldati che operavano in ambiente alpino“In uno dei primi giorni di ottobre 1915, nella gola NE, quando questa non si sarebbe dovuta percorrere, una valanga travolse dieci uomini. Due vittime riposano lì, le altre giacciono ancora insepolte in una zona quasi inaccessibile del ramo meridionale della gola. Difficilmente le persone e gli affetti a loro cari in vita potranno arrivare fino lì. Come potrebbero immaginare? Certamente non li cercherebbero tra rocce e gole innevate talmente imponenti o all’ombra oscura di siffatta la-pide.” J. Kugy, La mia guerra nelle Giulie, Edizioni Saisera, Valbruna-UD, 2008, pag.25

Vladimiro Dougan ha partecipato al tentativo di soccorso al presidio dello Jòf Fuart arrivando fino alla Götterband 2200 m

“Il 5 ottobre dopo una forte nevicata una carovana di portatori bo-sniaci che tentava portare viveri e legna ai militari in cima del Jof Fuart, venne travolta da una valanga e precipitati da questa per 500 m. nel burrone a sinistra del Piccolo Jof Fuart dove tutti perirono. Al 10 di ottobre, dopo 5 giorni di mancato soccorso al presidio del Jof Fuart, tentammo Maier, Dibona, Innekofler, Schofeni (Tschofenig? ndr) e io di vegnir a loro in aiuto.Fornitici del minimo necessario i nostri zaini di mezzi di riscaldamen-to, viveri e medicinali partimmo da Saifnitz (Bartolo graben) alla sella Karnica e nella Saifnitzer Karnica dove la neve era già abbondante. La giornata era cupa sciroccale e all’altezza della Götterband sostava un denso nuvolo che imprimeva un’impressione più triste ancora. Il pericolo delle valanghe dopo la disgrazia se mai ancora aumentato e consci di questo decidemmo di partire lo stesso ma con grande pruden-za. Montammo sul nevaio a destra del Piccolo Jof Fuart, tutto coperto da un’enorme valanga che ha trasformato completamente la via di accesso del Jof. Del ponte di legno non c’era più tracia, le corde del Piccolo Jof in gran parte strapate via o coperte di neve. Con grandi difficoltà giungemmo così al Piccolo Jof Fuart. Soste non erano am-

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messe, ognuno lavorava silenzioso e pronto di ogni aiuto. In quello si staccavano parechie Staublavinen dalle pareti delle Gamsmutter ma nessuno per questa causa esitava di salire avanti. Trovammo giusto di non legarsi perché in caso di una valanga la corda avrebbe trascinato tutti giù. Nella catena che formammo primo era Dibona che quando stanco si cambiava con me poi Maier, Schofeni infine Innerkofler. Subito all’imboco della gola N.Ost vedemmo tracie rosse di sangue, poi qualche zaino, un vaso di spirito e più tardi un cadavere. Faticosamente avanzammo ai due salti che erano tutti riempiti di neve. Ma le vere fatiche incontrammo apena sortimmo dalla gola sulle pareti delle Gamsmutter. La neve giaceva attaccata alla roccia come il bombaso e spesso quando si sondava col piede questa si stacava, rimanendo così col piede nel vuoto. Certi tratti dove si scavava la neve con la piccozza dopo grande perdita di tempo, questi venivano subito riempiti da altra neve che veniva da sopra in modo che quando anche il primo riusciva ad avanzare al secondo, al terzo ecc. tocava il medesimo lavoro della sgombro della neve. L‘ultimo tratto al Götter-band lo feci io per primo che era il più brutto, tanto nella traversata della cengetta scavata artificialmente nella rocia, che era coperta di ghiaccio e su quella stretezza, facilmente , per battere gradini era di perdere l’equilibrio; e gli ultimi 20 metri pendeva si la corda ma il ghiaccio che la copriva la rendeva così grossa da non poterla abbraciare con la mano. Giunti sul Götterband sostammo per conciliarsi per avanzare o scendere. Sepure per per-correre il Götterband ci bastavano 300 passi, il tratto più pericoloso da compiersi perché sulla cengia oltre la neve fresca vi era sotto uno stratto di neve vecchia, dal quale l’ultima neve fresca al più leg-gero peso scivolava nel precipizio. Era quasi garantito che con ogni ulteriore avanzare nascesse a noi una disgrazia. Dunque era assurdo forzare e di que-sto parere eravamo Dibona e io, Maier voleva proseguire e gli altri due che naturalmente pensavano di essere già sortiti dalle difficoltà a malincuore si decidevamo per il brutto ritorno. De-cidemmo di ritornare nella maggior fretta possibile restando come ultimo Dibona, come penultimo io, ma la di-scesa non proseguiva come volevammo noi. Schofeni per la grande paura non veniva avanti e non servivano tutti i moniti. Come si scendeva così spesso si voltammo a guardare in su la gola dove stava la grande minacia parendo-ci sempre di vedere precipitare la va-langa. Quando arrivammo al Piccolo

... Realmente quando oggi giorno voglio raffigurami il pa-radiso penso a quel candido boschetto...

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Jof Fuart sepure nessuno si esprimeva ma ognuno aveva la speranza di salvezza e quando fummo nella Saifnizer Karnica, fuori da ogni pericolo, di tutti si rasserenò e si vide come l’incubo era da tutti sparito. Una forte stretta di mano e di congratulazioni reciproche per il scappato pericolo ci demmo la mano e tutti eravammo concordi di dichiarare questa la più pericolosa impresa compiuta; persino Dibona, così rinomata guida con tante imprese fatte, disse che quella era la sua più pericolosa. Oltre la sella Praschnik e per il Kaltwassertal tornammo a (Bortolo) Saifnitz.”

Kugy venuto a conoscenza del tentativo, così lo valuta“Alla fine di settembre e gli inizi di ottobre cadde talmente tanta neve fresca da porre in grave difficoltà i nostri uomini di presidio sulla vetta dello Jòf Fuart. A causa dell’eccezio-nale pericolo di valanghe erano rimasti completamente isolati avevano viveri sufficienti soltanto per pochi giorni e pativano molto freddo: avevano per ricovero solamente delle tende leggere. Non erano stati adottati provvedimenti invernali. Con le loro sole forze non avrebbero potuto sopravvivere… Quando arrivai il Dr. Mayer con una piccola schiera dei nostri migliori uomini avevano appena compiuto un ardito tentativo di raggiungerli attraverso la gola di nord ovest (sic). Era però fallito per il rischio di congelamento totale e per il rischio di valanghe. Apprezzai la diligenza e la temerarietà della guida e dei suoi uo-mini, ma ancor più grande fu la loro fortuna di essere usciti tutti quanti indenni da questo temibile passaggio minacciato da valanghe. Guidai un secondo tentativo di soccorso… attraverso il pendio meridionale e nel giro di 24 ore ebbi la soddisfazione di riportare a valle sane e salve sia la squadra dei soccorritori che l’intera guarnigione.” J. Kugy, La mia guerra nelle Giulie, Edizioni Saisera, Valbruna-UD, 2008, pag.26

Brdograt ( Grosser Schwamm) m.2061“Da parecchi giorni prima vennero fatti dei preparativi per una grande offensiva dal Mon-tasio al Mittagskofel. Alle ore quattro del giorno 17 ottobre partimmo Dibona e io da Bar-tolo a Wolfsbach sino nel precipizio della Saisera. Dopo lunga attesa sino alla mezzanotte siamo chiamati Dibona e io dal cap. di brigata Scotti (Ludwig ndr) che un mese più tardi morirà in Tirolo travolto da una valanga (a cui Kugy dedica un capitolo del suo Kriegs-bilder a noi noto con il titolo: La mia guerra nelle Giulie ndr) che ci dava gli ordini per un finto assalto alle posizioni sotto il Montasio e con l’augurio, Buona fortuna Dibona e Dougan, ci salutava. Dibona e io formammo la prima pattuglia, poi seguiva a un quarto d’ora di distanza Klauer con 5 uomini, poi così avanti sempre ingrosandosi tutto l’esercito. Vicino all’ex Saisera Hűtte attendemmo Klauer ma per un falso alarme poco mancò che fra la pattuglia di Klauer e noi due non sucesse un combattimento. Chiaritosi il malinteso ci unimmo e andammo nella Spranja dove, dopo grandi titubanze passammo sopra un tronco d’albero l’acqua perché ci constava che al di là del torrente vegliasse spesso una pattuglia italiana. Nella completta oscurità e per il silenzio tutto possibile che si doveva tenere, perché vicini alle trincee italiane, lungo tempo cercammo l’entrata nella Cianerca. Nell’ar-rampicarci le mie due granate a mano mi battevano contro la roccia e per non correre in un serio pericolo le ho dovute lasciare lì, visto anche che ero carico di munizioni da fucile. Arrivato sopra nella Cianerca dove scorre l’acqua trovammo tutto uno strato di ghiaccio e

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con le corde ci aiutammo per passare e per prudenza abbiamo lasciato lì una per il ritorno. Nota bene, per assicurare le nostre spalle venne tenuta una battaglia nella altra Spranja che chiudeva l’accesso alla Bärenlahn Scharte. I primi indizi che ci fece sospettare che il Brdo Grad fosse occupato dalle truppe italiane trovammo avanti la Sella dell’Enzianturm in molte sparse munizioni.Era allora giusto il levar del sole quando siamo giunti in quel punto e proseguindo al di là della sella del Enzianturm incontrammo già neve tutta battuta da armi del militare italiano e di un cane. Con la massima prudenza quasi strisciando avanzavamo, e qual grande solie-vo quando trovammo la cresta non occupata. Dal nostro punto dominavamo tutto l’assalto dal Mittagskogel sino al Brdograt. Ai piedi del nostro crestone stavano le trincee italiane. Presto fummo scorti dal presidio della Cima Rossa e per probabile comunicazione telefo-nica osservammo come nella trincea sottostante al Brdograt erano avisati della nostra pre-senza. A Klauer parve di scorgere un alpino e voleva fare questo prigioniero. Visto dopo un attesa mezz’ora che l’alpino non avanzava siamo andati ad osservare dove è finito, invece abbiamo dovuto constatare che non uno ma bensì la presenza di diversi alpini che ci cir-condavano. In quello fummo presi sotto il fuoco del artiglieria nemica. La nostra posizione era insostenibile anche perché fino dal Montasio scendevano alpini e quando l’artiglieria scemava il fuoco decidemmo di evacuare in tutta fretta abbandonando sul posto gran parte delle munizioni e zaini. In men che si credesse eravammo scesi nella sella tra Enzianturm e Brdograt. Per fortuna abbiamo scoperto che al di là della sella stavano alpini attenden-doci e cioè giusto al punto dove noi per passare dovevamo arrampicarci. Klauer voleva forzare quel passaggio ma avrebbe dovuto passare prima lui perché noi non se prestavimo per lasciarsi così stupidamente ammazzare. Dibona trova la felice soluzione di scendere per un canalone nella parte oposta della Cianerca. Ma quando fummo a metà del canalo-ne incontrammo una pattuglia di alpini che però non ci hanno attaccato. Noi li abbiamo schivati inoltrandosi per una cenghia nelle pareti dell’Enzianturm. Quando arrivammo più in basso un salto di 50 metri ci divideva. Uno alla volta scivolava per la corda giù l’ultimo salto e poi di corsa si spariva nell’ultimo bosco e sopra ogniuno di noi durante quel breve tratto veniva sbarato, ma nessuno di noi è stato colpito. Una volta in bosco erimo salvi e con tutta calma andammo nella caserma poco avanzata di Wolfsbach dietro le trincee. Strada facendo ho trovato una granata italiana da 12 e oltre la stanchezza l’ho trascinata a Wolfsbach per farla in regalo a Kugy.”

“La notte del 18 l’ho passata nella fortezza di Wolfsbach. La mattina seguente il medico di campo ci avvisava che sullo Schwarzenberg ci sono dei gravemente feriti che se non hanno pronto soccorso periranno. Ad onta la stanchezza e l’esaurimento nervoso per le emozioni provate nel giorno precedente Dibona ed io salimmo sullo Schwarzenberg. Nel frattempo furono portati dei feriti nella trincea. Vi era uno ferito con sei palle di mitraglia nella pancia. Lo legammo saldamente alla barella e con tutte le cautele trasportamo il gemente per un difficile sentiero con curve e scale, fra grandi difficoltà sino giù dove il sentiero si allarga di molto e lo consegnammo ai soldati della croce rossa. Strada facendo incontrai un altro ferito, un viennese che gridava dai dolori che con grandi stenti non riusciva ad

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avanzare. Preso dalla compasione me lo caricai sulle spalle e a tratti lo trasportai fino all’ospitale da campo. La riconoscenza di questo povero fu infinita voleva darmi tutto quel-lo che possedeva e mi ocoreva molto per persuaderlo di non aver io bisogno. Infine prima di lasciarlo mi baciava. Ma le mie forze erano completamente esaurite, una tale stanchezza mi prese che per due ore non mi sono mosso dal punto in cui ho lasciato il ferito, ad onta che qualche granata esplodeva nelle mia iminente vicinanza. La stanchezza mi rendeva completamente apatico. A Kugy era giunta la falsa notizia che tutta la spedizione di Klauer era persa e quando improvvisamente mi presentai la gioia del buon vecchio era visibile.“

Kugy fa questa annotazione“In quei due giorni che purtroppo per noi non furono coronati dal successo tutti i miei ragazzi corsero seri pericoli. Klauer, Dibona, Dovgan, Innerkofler e alcuni altri migliori sulla Cresta Berdo del Montasio si trovarono in una situazione disperata e riuscirono a sfuggire all’accerchiamento nemico solo grazie alla loro abilità di rocciatori. Il Dr. Mayer attaccò il Kuglic ma cadde in un imboscata nemica. Josef Purkovitzer rimase ucciso. Noi alpinisti avevamo espresso un parere diverso, ma obbedimmo agli ordini ricevuti.”J. Kugy, La mia guerra nelle Giulie, Edizioni Saisera, Valbruna-UD, 2008, pag.27

Questi giudizi di Kugy finiranno col pesare nel suo trasferimento nel ’17 da Saifnitz a Soča.

Da parte italiana quello scontro cruento viene così ricordato“Il 18 ottobre 1915, con un massiccio attacco, il nemico tentò di strapparci la sella Somdo-

gna. Dopo un violentissimo fuoco d’artiglieria, dalla Val Saissera salirono alcuni battaglioni di Kaiserjäger, guidati dal principe Rupprecht di Baviera. D’impeto essi giunsero fin quasi alla sella, dove le nostre difese erano state sconvolte, ma la 97 a compagnia del “Gemona” che teneva il Jof di Miezegnot e che meno delle altre aveva sofferto gli effetti del bombardamento, intervenne tempestivamente e con grande efficacia…La lotta infuriò per tre giorni, alla fine gli attaccanti ripiegarono con grandissime perdite. Furono sepolte sul posto 508 salme di austriaci che sicuramente ebbero più di un migliaio di uomini messi fuori combattimento.” R. Timeus, M. Galli, La Grande Guerra sulle Alpi Giulie, SAG Trieste, 1968, pag.50

Nella guida del Montasio che Dougan scriverà successivamente c’è un breve capitolo sulla guerra. Nella prefazione ringrazia Renato Timeus vicepresidente della sezione di Trieste del CAI per il contributo dato alla redazione delle note di guerra. Sono redatte nell’ottica dell’esercito italiano ma vi troviamo inframmezzate azioni a cui Dougan aveva partecipato sotto una bandiera di altro colore

“Io stesso giorno una pattuglia nemica si spinse per un’azione dimostrativa sin sulla cresta Berdo da dove poté a mala pena fuggire… Una grande offensiva austriaca fu sferrata il 18 ottobre del 1915 contro Sella Somdogna, ma si risolse per l’esercito austroungarico in una grande perdita di soldati.” Dougan, Marussi, Il gruppo del Montasio, SAG, Stabilimento Tipografico Nazionale, Trieste, 1932, pag. 18

Questa doppia lettura ci mostra che le grammatiche con cui vengono redatte le storie sono strutturate in modo tale da riversare sui singoli il peso della loro unilateralità.

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Immaginiamo il disagio di Dougan provocato dalla lacerazione che la distinzione amico-nemi-co protratta a lungo nel tempo comporta, dall’altro troviamo anche la sua determinazione di far conoscere il suo gruppo prediletto malgrado questa difficoltà.

Solo conoscendo la storia nella sua interezza è possibile vedere il legame presente in ricordi sparsi e giungere a una visione più completa.

Questo vale anche per Kugy. Nella Prefazione al libro “Dalla vita di un alpinista” incontriamo questa frase:

“E un ramo d’alloro sia deposto sulla tomba prematura di Joseph Klauer”. (16/12/1889 - 21/10/1922 ndr)J. Kugy, Dalla vita di un alpinista, Lint, Trieste, 1985-2000, pag.12

Anche dopo la lettura del libro è impossibile sapere i motivi che hanno spinto Kugy ad inserire questa frase in assenza, appunto del Kriegsbilder, le note di guerra.

Dougan, l’8 giugno 1916, è a Saifnitz - Bartolo Graben“venni adibito quale istruttore alpino. Il corso alpino durava un mese. Venivano scelti soldati delle regioni alpine che venivano istruiti per guide alpine. (Questo brevetto venne riconosciuto anche dall’Alpenverein) Circa l’80% veniva scartato e solamente circa il 20% era adatto per guide. Giornalmente si arrampicava nelle rocie del Bartolo Graben. Natu-ralmente ho raggiunto con ciò il mio massimo trenaggio e la più grande sicurezza sulle rocie. Rimasi in questa qualità sino al 27 settembre 1916.”

Successivamente Dougan viene coinvolto in un’altra iniziativa di Kugy, che aveva scorto la possibilità di trovare sul Montasio un osservatorio verso la val Dogna e Sella Nevea.

L’idea, chiamata da Kugy sogno del Montasio, aveva trovato consenso presso lo stato mag-giore della Brigata alpina. Per la sua realizzazione era necessario disporre di uomini ben addestra-ti. Da qui l’idea di organizzare una scuola di alpinismo

“È per questo motivo che nella val Bartolo presso Camporosso, venne fondata una scuola di roccia. Non esagero se dico che in quella palestra si formarono gli uomini con il migliore addestramento per l’alta montagna che l’Esercito austro-ungarico avesse mai posseduto. La buona sorte mi fece incontrare, nell’ordine il Dr. Mayer, Josef Klauer e più tardi Ludwig Enzenhofer nei quali trovai compagni e collaboratori ideali. Era nata così una pattuglia di guide alpine che mi si poteva invidiare. Questa era la base di partenza…Quando il 15 febbraio 1916 venni arruolato definitivamente come Referente alpino a Cam-porosso, trovai la scuola di roccia già in piena attività, sotto la direzione del Dr. Mayer e di Enzenhofer, il successo era meravigliosamente evidente…. I tirolesi Angelo DIbona, Rizzi, Sepp Innerkofler Junior, i carinziani Tschofenig, Miggittsch Kirchweger e poi Otto Lorentz e Otto Schwarz furono i primi istruttori. (Lorenz e Schwarz assieme a Dougan, nell’inverno successivo faranno parte del presidio dello Jòf Fuart ndr) Ma già erano emersi i primi allievi che potevano collaborare bene all’insegnamento… In breve diventarono 60, 80, 100 uomini: il reparto “Guide Alpine”J. Kugy, La mia guerra nelle Giulie, Edizioni Saisera, Valbruna-UD, 2008, pag. 34

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Alpinisti soldati o soldati alpinisti?

Dougan, opera come guida nella scuola alpina di Bartolo Graben“Spesso durante questo periodo feci quale guida delle assensioni alpine. Il 16 giugno tutta la Hochgebirgscompagnie venne mandata a trenarsi sul Luschari. Era una stupenda giornata che coi zaini carichi salimmo da Saifnitz per il sentiero ripido che porta attraverso il bosco quasi sino al Luschari. Giunti in cima vedemmo il disastro che l’artiglieria italiana ne ha fatto del Santuario. A me però più interessava la stupenda vista che si godeva sulla vicina catena del Wischberg e del Montasio. Per due ore riposammo nella morbida erba e tutto era silenzioso, nessun tiro, sembrava di trovarsi in tempo di pace. “

“Il 12 luglio con Klauer abbiamo salito per la prima volta quest’anno la Nord Ost Schluch per esaminare le corde. Siamo saliti da Wolfsbach in un tempo rapido ragiungendo la cima nel record più breve battuto sino allora ed anche ad onta che Kaluer stava poco bene. Klauer era un magnifico e svelto arrampicatore ciò lo doveva alla sua statura snella legero com’era e tutto muscoloso. Era maestro di ginastica. Ne-anche ben arrivati in cima scendemmo subito alla sella Moses, poi tra-versammo la Obere Karnica dove venimmo presi in bersaglio da una mitragliatrice italiana. Dalla Obere Karnica salimmo alla Koscharte m 2239 e scendemmo per il Weissenbach Tal a Raibl. Al nostro arrivo Raibl venne questa fortemente bombardata dalle artiglierie italiane.”

Dougan ritorna sulla gola NE per riparare i danni rilevati durante la perlu-strazione fatta alcuni giorni prima con Klauer

“Il 20 luglio mi venne consegnato 6 uomini con l’incarico di riparare i danni fatti dalle valanghe alle corde, scale e filo telefonico della N. Ost Schluch. Partimmo il 20 luglio alle due pomeriggio. Con una pioggia dirotta da Wolfsbach nella Saifnizer Karnica. Salimmo a una cenghia sotto il piccolo Wischberg dove sotto una rocia preparammo il nostro bivacco che risultò alquanto umido. L’indomani il 21 salimmo sino

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alla Götterband. Passando dal Piccolo Jof nella gola N.Ost guardammo nell’abisso che cade a sinistra. Nel fondo scoprimo i cadaveri travolti l’anno scorso dalla valanga. Era orendo a guardare quei corpi mutilati. Più impressione faceva uno che pogiato alla rocia come sedesse e senza testa. Pioveva di continuo e perciò poco si è potuto lavorare. Il 22 tornammo a salire con la piogia sul Götterband e tornammo ogni sera al nostro bivacco nel mezzo del Piccolo Jof Fuart. Il 23 visto che la piova persisteva decisi di tornare a Sai-fnitz. Dato notizia al comando della scoperta dei cadaveri, questo mandò giorni dopo altri uomini per il sepelimento. Ma nulla hanno potuto fare ad onta che hano doprato maschere per difendersi dal fettore, giacché i cadaveri in tal avanzata putrefazione, pieni di vermi.”

Grosse Schlichtel m 1958“Il 10 agosto con Kugy i cap. Schemach e Walter scendemmo in automobile alla fortezza di Raibler See.Dopo 3/4 d’ora di cammino nel Seebachtal prendemmo nel bosco la direzione della Jama. Io solo sono salito in cima della Grosse Schlichtel. Ritornato alla Jama mentre tutti pranza-vano scopiò una granata nella cucina e combinazione grande giusto nella caldiera. Vittime non vi erano ma il brodo è andato perso. Tornammo al Lago e poi in automobile a Tarvis.”

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Sull’Enzianturm

Scrive Kugy“Sospettai che il nemico stesse predisponendo pezzi di grosso calibro per bombardare più efficacemente la stazione di Tarvisio… Cominciai a prendere in considerazione la torre Genziana (1931 m) come osser-vatorio più occidentale da noi raggiungibile… il dr. Mayer … creò le condizioni di sicurezza presso la base della torre facendola sorvegliare dalla Spragna verso il Kuglic e il Lavinal dell’Orso dagli uomini migliori e più fidati del nostro reparto d’alta montagna, per quanto fosse pos-sibile e consigliabile e raggiunse la cima accompagnato solo dal suo fedele Marak.” J. Kugy, La mia guerra nelle Giulie, Edizioni Saisera, Valbruna-UD, 2008 pag.29

Schaumann nel libro La grande guerra 1915/18, Alpi Carniche Orientali, riporta il rapporto del s.ten Mayer in cui si sottolinea

“Partenza da San Bartolo il 12 Settembre con 61 uomini… la scalata supe-ra per difficoltà tutti gli altri giri di esplorazione effettuati finora. La vicinanza del nemico, il peso dell’attrezzatura e delle armi da trascinarsi dietro lungo le pareti, la discesa sotto un temporale, hanno messo a dura prova gli uomini partecipanti all’azione. Si segnalano in particolar modo: Oberjäger TNEGG, Unterjäger ENGELE, e SCHMEISSER, Gefreiter TSCHOFENIG e LORENZ, Ka-nonier HOHENBERG, e gli Jäger DOVGAN e MARAK.“Schaumann W, “La grande guerra 1915-18. Vol. 5, Alpi Carniche Orientali”, Ghedina Tassotti, Bassano, 1984, pag. 192

Una delle poche testimoninaze dirette di Mayer che ci sono pervenute, citato ampiamente da Kugy nel suo Kriegsbilder. Pust indica quale potrebbe essere stata la ragione

“Norbert Nau… si rivolse anche a Guido Mayer, invitandolo a collaborare, specie con l’esatta descrizione delle sue imprese alpinistiche. Il dottore rispo-se con un rifiuto. Il motivo deve essere certamente individuato nelle infauste tensioni politiche e nell’antisemitismo di quel tempo.”I. Pust, Fronte di pietra, Mursia, Milano, 1987, pag. 61

Dougan fa parte degli uomini mandati a copertura della squadra che

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avrebbe salito in notturna la Torre Genziana; precauzioni che Mayer prese facendo tesoro di quanto era successo precedentemente alla pattuglia di Klauer.

Nei diari di guerra la datazione è abbastanza spannometrica se incrociata con altre fonti. Pertanto nessuna delle conclusioni di questo scritto si basa sulle evidenze temporali annotate da Dougan.

“Il 19 settembre, dopo l’imbrunire partimmo da Saifnitz una pattuglia di 15 uomini nel principio della Spranja dove ci dividemmo. Majer con altri due saliva la Enzianturm per esplorare un cannone italiano che tirava su Tarvis. Io con 5 uomini avanzavo sotto il En-zianturm poco distante dalle trincee italiane con il compito di non lasciare passare even-tuali pattuglie italiane nella Spranja. Tre notti e due giorni passai lì con 5 soldati tutti giovanissimi e pieni di paura. Di notte piovigginava e faceva freddo, di giorno sortiva per qualche ora il sole. Il secondo giorno ci mancava acqua, cibo e zigarette. Finalmente la terza notte venivano a chiamarci per ritornare tutti insieme a Saifnitz (Bartolo).”

“Marak, mein „Putzfleck“ il prescelto dal Leutnant Guido Mayer - così venivano volgarmente chiamati gli attendenti dagli ufficiali - secondo quanto il Kaserjäger Thadeus Tschofenig riferisce di quell’azione.

Il giorno 12 settembre, anche secondo l’articolo del nipote della guida carinziana Tschofenig che partecipava alla squadra di punta comandata da Mayer: https://www.alpenverein.at/villach/bibliothek/berichte/enzianturm.php.

Successivamente Mayer mette a frutto i rilievi fatti sulla Torre Genziana e va a direzionare i colpi di artiglieria contro il cannone che bersagliava Tarvisio

“Il 23 settembre ci recammo dott. Majer, Dibona un altro uomo e io da Bartolo oltre la Sainfzer Karnica alla Nabois Scharte dove abbiamo pernottato. L’indomani sendemmo per la grande cengia Nord West del Wischberg.Il 24 settembre dalla grande cengia Nord West del Wischberg per la gola e poi per una seconda cengia portandosi in fuori, in direzione della Cima degli Scodis in cima. Durante tutto il tratto della Nabois Scharte in cima poggiammo un cavo telefonico. Di là dirigemmo il fuoco dell’artiglieria austriaca e cioè un cannone da 30 ½ , un cannone di marina e una batteria belga contro un cannone italiano che si supponeva che tiri su Tarvis. Alla sera scendemmo alla Nabois Scharte dove abbiamo di nuovo pernottato. Il 25 settembre rifam-mo la medesima strada su la Cima degli Scodis fatta il giorno precedente, col medesimo obiettivo. Questa volta venne in pieno colpito il cannone italiano.”

Kugy così ricorda quell’evento“Il nostro mortaio da 30,5 cominciò ad essere operativo. Pochi giorni dopo, con alcuni colpi quel colosso venne ridotto in frantumi. Non potemmo controllare i tiri dalla torre Genziana. Ma l’occhio infallibile di Mayer aveva già individuato l’esatta ubicazione della posizione dalla quale incombeva il grande pericolo; per tutto il resto era sufficiente la Torre Spragna. Il cavo telefonico di collegamento con l’osservatorio venne steso dalla Forcella Nabois attraverso la gola di nord-est. Al sopraggiungere delle prime granate pesanti, il nemico cominciò a bersagliare violentemente tutti i nostri osservatori d’artiglieria… non aveva individuato il vero osservatore, nascosto fra le rocce della torre Spragna (Lis Codis)

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Credo che in quell’occasione risparmiammo gravi danni alla città, alla stazione ferroviaria e al comando di Brigata di Tarvisio. Per questa azione, l’amico Mayer venne insignito di una decorazione. A me, l’ideatore dell’impresa non venne rivolta la minima parola di rin-graziamento.” J. Kugy, La mia guerra nelle Giulie, Edizioni Saisera, Valbruna - UD, 2008, pag. 29

Questo rincrescimento di Kugy ricorda per qualche aspetto quello, del medesimo tenore, espresso da Dougan a proposito del rifugio Pellarini; entrambi sono tenuti in disparte, uno dalla casta militare, l’altro dal filone celebrativo successivo alla guerra.

Dougan viene insignito della medaglia commemorativa riservata a sottufficiali e soldati distin-tisi per atti di eroismo davanti al nemico.

“Il 28 Dicembre fui decorato con la piccola Tapferkeit medaile di argento”

Nei diari non riporta nemmeno di aver ottenuto il grado di Gefrieter (caporale).

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La Capanna Scotti

Un’altra idea di Kugy fu il presidio invernale dello Jòf Fuart“Già a metà luglio del 1916 d’accordo con il Dr. Mayer, avevo riferito le mie proposte inerenti i lavori da compiere per la prossima occupa-zione invernale sulla cima dello Jòf e avevo raccomandato di iniziarli il più presto possibile.Il progetto si basava su due principi1) l’occupazione invernale dello Jòf Fuart doveva essere concepita come una spedizione artica: gli uomini dovevano essere del tutto au-tosufficienti quanto ad approvvigionamenti; 2) in quota si sarebbe dovuto creare non il classico deposito di viveri militari bensì un “negozio di cibi prelibati”, sufficiente per abbondanti sette mesi di permanenza.Queste idee ebbero effetto, soprattutto la seconda, presso i giovani che si offrirono volontari per l’im-presa.”J. Kugy, La mia guerra nelle Giulie, Edizioni Saisera, Valbru-na-UD, 2008, pag. 26

Così racconta Dougan la lunga permanenza sullo Jòf Fuart dal 27 Settembre 1917 al 25 Aprile 1917

“Già nel Luglio mi sono volontariamente annuncia-to di far parte al presidio invernale sul Jof Fuart. Savevo che questa era la miglior scelta, principal-mente dal mio punto di vista alpino come anche alla sicurezza personale giacché il Jof Fuart se pure era la prima linea, ma distante dalla linea italiana e quasi esclusa da un assalto nemico. Principale obiettivo era la stazione metereologica installata in cima per la stazione aeronautica di Villach, punto osservatore e anche stazione radiotelegrafica. Il pre-sidio si componeva di: Klauer (comandante), Lorenz (amministratore), Schwarz (si ocupava con la stazio- Radilovich, il fabbro del presidio.

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ne metereologica, Slatko (cuoco), Radilovich (operaio e fabbro), io (guida alpina). Alcuni mesi era con noi anche Paier (osservatore di artiglieria). Del resto fra tutti noi regnava il più perfetto comunismo, fatto si è che come tutti gli altri lavori così il più greve, il lavoro della caverna che è stato compiuto con l’entrata dalla parte del Seebach Tal e l’uscita nel Saissera Tal, 27 metri di lunghezza di caverna venne eseguito da tutti noi sei.

Gioco degli scacchi all’interno della Ca-panna Scotti.

Kugy che pensava mol-to per noi si è recato appositamente al Co-mando del Armata pro-ponendo della capan-na Scotti (così venne nominata) venga fatto un negozio di delica-tezza.Schizzo di Dougan del-la Capanna Scotti.

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Kugy che pensava molto per noi si è reca-to appositamente al Comando del Armata proponendo della capanna Scotti (così venne nominata) venga fatto un negozio di delicatezza. E realmente mi spiegherò come e cosa venne portato in cima. In primo luogo 10 metri sotto la cima venne fatta una caverna nella quale stava più di metà della capanna. Venne costruito con due pareti di legna fra le quali venne messa sabbia e una terza parete di lata. Sulla cima stavano 8 parafulmini con un intrecio di una grande rete metallica che copriva tutta la cima e finiva sul posto della Findenegg in terra. (la gabbia di Faraday, l’impianto antiful-mini, venne affidato al Dr. Benndorff dell’Università di Graz all’epoca ufficiale di fanteria presso l’unità di Raibl. ndr) Di più venne impiantata una banderuola.Vi erano i seguenti ambienti un atrio, la cucina e una stanza da pranzo con una separazione per i letti, una stanzetta quale deposito viveri e istrumenti, una cantina sottotetto deposito di viveri, fra tetto e tetto di valanghe deposito carbone, un cesso e a 10 metri distante dalla capanna una ghiacciaia scavata nella neve. Nella vecchia capanna tenevamo un deposito di generi non di prima necesita. Per il trasporto del materiale per la capanna viveri e carbone per 10 mesi calcolato per il consumo visto che durante l’inverno non era possibile altri trasporti vennero addebiti 100 uomini che trasportavano giornalmente per 4 mesi. Quanto bene approvvigionati che eravamo lo dimostra il menù nostro.Alle 8 ant. Caffè o tè o cacau col burro e pane biscotato a volontà. Merenda lingua salmi-strata. Pranzo brodo con verdure, schnitzel viennese, carne fresca e omlet e vino. Alle 5 pom. tè o cacao con burro. Cena golash e vino. Sabato e la domenica durante la partita di tarocco cognac. Zigarette quante se ne voleva. Inoltre si aveva un cannocchiale prismatico Zeiss 40 ingrandimenti col quale erano visibili anche le case di Pirano. L’orario alle 7 ½ ci

Sulla cima stavano 8 parafulmini…

Di più venne impiantata una banderuola.

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si alzava dal letto e veni-va fatta pulizia, poi ogni 1/2 ora in cima sul oser-vatorio. Sino alle 12 la-voro in caverna e sino le 2 riposo e infine sino alla 5 ½ di nuovo in caverna.Alla sera lettura. Venerdì sviluppo delle fotografie. Sabato e domenica giuo-co.Equipagiamento: doppie calze di lana, stivali e trombini di feltro, bian-cheria di lana, doppi guanti e berretto di pelle. Pellicia, se vento costu-

me di tela russa. La biancheria non veniva lavata ma cambiata con la grande riserva con nuova. Oltre alla stufa di ferro avevamo di riserva una a acetilene e una a petrolio. Molte belle ore passamo cantando e Klauer ci accompagnava con la chitara e qualche volta dava concerti col violino. La festa del natale l’abbiamo solennemente festegiato. Dopo la generale pulizia venne adobato ricamente l’albero di natale. Vi erano una massa di regali inviati da amici e parenti ancora nel mese di ottobre. Il numero più grande di bellissimi regali avevo io. Alla mezzanotte siamo andati tutti in cima ad accendere fuochi d’artificio.

Alle tre di notte alquanto brilli siamo andati a letto. Non meno piacevolmente abbiamo passato l’anno nuovo. L’unico incidente era nel giorno della presa di Buca-rest. Un bengala esplodeva sui piedi di Lorenz produ-cendo un grande gonfiore. Allora ci abbiamo acorto che il soggiorno in cima sarebbe stato un grande guaio se qualcuno si avebbe seriamente amalato. Un trasporto in valle sarebbe stato impossibile. Per fortuna nessuno si ammalò un giorno solo. Dimenticavo una grande bal-doria e cioè nel giorno del traforo della caverna. Per dire il vero tutti, chi più chi meno ci abbiamo ubriacati.Ma quello che difficile è a descrivere, quello che di più grande e indimenticabile abbiamo goduto era lo spetta-colo giornaliero che generosamente ci offriva la natura. Le varie levate del sole con o senza nuvole che indora-vano cima per cima. Quei tramonti con tutte le variazio-ni di colori dal grigio blu in fondo della valle alle pareti strapiombanti del Montasio che passavano al violetta e

Interno della Capanna Scotti; da destra Dougan, Lorenz, Schwarz. Sullo sfondo la caricatura del comandante del presidio s.ten Klauer.

Caricatura del s.ten Camoscio Klauer.

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finivano in cima con l’ultimo chiaror giornaliero. Giornate chiare da veder l’Istria e sino le più lontane cime dolomitiche.Il mare di nubi che copriva tutto salvo qualche cima che spicava come un isolotto isolato. Notti al chiaro di luna da distinguere cima per cima quasi come di giorno solamente con tutt’altri colori freddi Stimmungen delle più variate sino alla tormenta di neve. Tutto questo non è che una palida idea di un grande ricordo del periodo più bello della mia vita.Ricevemmo due dispaci dal comando di divisione, l’uno per Natale:Der edlen Adlerhorst wunscht Gut Heil Divisionskommando ScottiAl nobile nido d’aquila si augura Buona Fortuna Comando di Divisione ScottiL’altro:In Bewundernung der heldenmutigen Standhaftigkeit der Wischberg Besatzung gewindmet ScottiAvvolto nell’ammirazione per l’eroica risolutezza della squadra del WischbergQuesto venne scritto personalmente da Scotti sulla propria fotografia della Sua Eccellenza”

Kugy aveva coinvolto il generale Carl Scotti in prima persona nell’organizzazione di questa impresa

“Il 10 di ottobre accompagnai sullo Jòf Fuart il nostro comandante d’Armata Carl Scotti, tutto il lavoro era già a buon punto… La graziosa baracca dal tetto spiovente era già bella e pronta, ancorata sulle rocce della cima all’ingresso della prima caverna. Quel giorno la battezzammo Rifugio Scotti.”J. Kugy, La mia guerra nelle Giulie, Edizioni Saisera, Valbruna-UD, 2008, pag. 26

Dougan racconterà così la visita di Scotti“Ai 8 di ottobre Kugy e Scotti vennero a trovarci sul Jof Fuart. Grande pulizia quel giorno. Il generale aveva grande fortuna perché oltre alla splendida giornata non un tiro è caduto tutto il giorno. Dopo pranzo, quando Kugy e Scotti se ne sono andati, Paier e io discen-demmo per la gola che discende sopra la Moses Scharte e poi a destra per la cenghia sulla cima degli Scodis. Tornati sul Jof Fuat per il sentiero”

Con il bel tempo era ancora possibile scendere dallo Jòf e prendersi un po’ di svago“Il 16 Ottobre scendemmo Klauer e io dal Wischberg per il Findeneggweg nella Krnica e risalimmo alla Korscharte sortindo per il Weissenbachgraben nel Seebach Tal. Non ramento più in quanto tempo che abbiamo battuto questo record ma so che nessuno ci voleva credere. Non si camminava, si saltava. A Raibl montammo in un autocarro che ci portò a Tarvis. Poi col treno giungemmo a Lubiana dove rimasi da Rudi 5 giorni. Al 20 di ottobre tornammo a Raibl, traversammo la Korscharte m 2239 e salimmo alla nostra dimora sul Jof Fuart”.

“il 12 novembre dopo aver sofferto parechi giorni il male di denti discesi alla Moses Schar-te e nella Krnica poi attraversato la Korscharte e infine nel Seebachtal a Raibl. Levatomi caninescamente da un detto cane di dottore il dente feci ritorno oltre la Korscharte - Krnica

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- Mosesscharte in cima del Jof Fuart. Ma il male pegiorò, quel cane mi ha infettato e per 15 giorni con pazienza Klauer mi medicò”.

“Era il 16 dicembre alla 3 ½ pom. quando Stayel ci telefonò che per noi è arrivato un vaso di uova ma di non poter inviarcele perché pericolo di valanghe. Le preghiere di Klauer non servivano neanche a mandarle a metà strada. Allora Klauer e io abbiamo deciso di scen-dere. Nel discendere ci abbiamo acorto che il pericolo realmente esisteva, tanto che in certi punti si sprofondava nella neve metà corpo. Ciò non toglie che noi arrivammo a dispetto di Stayel alla Moses Scharte. Preso la posta e le nostre uova ripartimmo subito. Sopra le ro-cie della sella fummo visti dagli italiani e seriamente presi di mira. Con sforzi sovraumani dibattendoci nella neve mole, dopo aver inteso parecchie palle fisciare vicinissime ai nostri orecchi arrivammo al punto di non essere più visti ma allora erimo già esausti di forze. Durante una piccola fermata principiava fortemente a nevicare, tanto che a pochi passi uno dall’altro non ci si vedeva e nel medesimo tempo calò la più oscura notte. Per nostra fortuna avevammo con se una lunga corda. Klauer andava avanti più intuendo la direzione. Dai grandi canaloni che stanno fra le torri dello Jof Fuart veniva giù la neve in forma di piccole valanghe, quando l’uno si trovava in un punto sicuro, l’altro avanzava e avvenne così che io, carico come che ero non riuscivo abbastanza presto a passare quei divenuti pericolosi punti, a un certo momento una più forte di quelle piccole valanghe mi premeva in giù senza però riuscire a farmi perdere l’equilibrio. La situazione diventava così seria che io già mi ritenevo perduto finendo giù per le roccie che sottostavano a me. Gridai a Klauer di tirare la corda e in grazia questa e il suo forte braccio mi è riuscito di svincolarmi da quel brutto mostro bianco che mi ha preso nei suoi laci. Avanzammo ancora ma disorientati a momenti persuasi di trovarsi su la giusta via a momenti persuasi di essere entrati in uno

In osservazione: Dougan primo a sx steso.

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di quei canaloni. Finalmente arrivammo in sella e poco più tardi incontrammo i nostri ami-ci che con torce accese, preocupati per la nostra lunga assenza andavano in cerca nostra.Alla capanna fu fatta una festiciuola e dopo cena tutto era dimenticato al gioco del tarocco. Erimo invasi da quella simpatica sensazione di trovarsi al sicuro mentre fuori nel fratempo aumenta fortemente la tormenta fisciando e scuotendo la capanna. Forse era la bile che sprigionava per averci lasciato scapare”

“N.B. Dagli ultimi di novembre veniva qualche raro portatore in cima con piccoli pesi e l’ultimo era il 14 dicembre e a questo siamo andati incontro a metà strada a prendere l’albero di natale. Che gioia a veder spuntare tra tutto quell’immenso bianco un verde alberello!”

“Dopo la discesa alla Moses Scharte è entrata una fase di pessimo tempo forti venti e tor-mente di neve, hanno durato sino a natale. Una sera mentre si giocava il taroco vedemmo come le finestre erano blocate con la neve. Per l’uscio non era possibile sortire e temendo altrettanto per le finestre abbiamo cercato di spazzare via la neve. Sortimmo dalla finestra legati, ma il vento era così forte da prendere il respiro. Più di tre minuti all’aperto non si resisteva. In quella medesima notte abbiamo sofferto di più chi meno il male di montagna, cioè quando ero disteso nel letto una mancanza di respiro mentre in piedi non avevo alcun disturbo… In simili circostanze desideravo da anni passare un natale, lontano dal mondo, segregato su una cima dove impera la neve e il mal tempo. Trovandomi in questi elementi ho passato il più felice e rico dei più bei ricordi, natale in montagna.”

Dougan di sentinella nella neve.

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Questa confessione con altre di pari tenore ci rivela il carattere riservato di Dougan che si apriva alla Natura anche più selvaggia, trovandosi a suo agio in compagnia di pochi fidati amici. Un carat-tere che non ha favorito la trasmissione della me-moria di un uomo che ha vissuto i propri ideali con strenua appassionata coerenza.

“1 Aprile. Durante il mese di Marzo forzammo coi lavori della caverna e un bel giorno dopo l’esplosione di una mina, per esaminare l’effetto prodotto da questa, una corrente d’aria ci ha spento la candela. La nostra gioia era indescrivibile. Subito preparammo una grandissima mina con 50 patrone di ecrasite poi siamo andati in cima. Con l’esplosione partiva un amasso di pietra delle dimensioni di una persona come sortiti da una boca di un cannone. Le nostre fatiche con ciò erano terminate e perciò quella sera venne fatta una grande festa con esplosione di bombe fabbricate da noi stessi. Al 1 aprile ( credo che la data combini) con una stupenda notte lunare scendemmo alla Moses Scharte. Nel fratempo vennero con una funicolare portati i due pezzi, il fusto e la canna del cannone sopra la sella. I due pezzi vennero caricati su due slite e con 30 di noi, trascinati in cima. Io assi-curavo di sopra cioè in parte. Era un cannone insidioso che disturbava ovunque le trincee italiane.”

Norbert Nau così descrive l’utilizzo del cannone“Il 24 aprile l’artiglieria era pronta a far fuoco ma solo il 1 Giugno furono sparate le prime

granate. Per primo venne quasi distrutto, con 13 granate, il picchetto dell’avamposto nemico sulla cresta Berdo nella parete Sud. Nelle settimane successive, quando la visibilità lo per-metteva, venne assiduamente sparato sullo Jòf di Somdogna, principalmente sulla sua cima, sullo Jòf di Miezegnot e sull’osservatorio della cima del Montasio. Il risultato era abbastanza soddisfacente e dato il piccolo calibro del cannone, più che danni materiali, influiva molto sul morale delle truppe nemiche.”N. Nau, Der Krieg in der Wischberggruppe, Leykam-Verlag, Graz,1937, pagg. 24-25

La Capanna Scotti coperta dalla neve.

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Scrive Kugy“rividi questi ragazzi il 27 aprile 1917. Erano vispi e lieti e ovunque trovassero dell’erba verde vi facevano delle capriole, tanto grande era la loro felicità!” J. Kugy, La mia guerra nelle Giulie, Edizioni Saisera, Valbruna-UD, 2008, pag. 27

Gioia comprensibile poiché come è unanimemente riconosciuto quell’inverno cadde un’enor-me quantità di neve con bufere che infuriarono per giorni interi

“Da parecchi giorni che col canocchiale si poteva osservare a Tarvis chiazze verdi. Una forte nostalgia s’invase in noi per goder un po’ di verde dopo tanti mesi vissuti nella na-tura morta. Una bella mattina giornata di primavera scendemmo allegramente noi sei. Ma meno Klauer e io che sempre qualche moto si faceva o per fotografare o per restare in esercizio, gli altri quattro camminavano malissimo tanto che Klauer e io avevammo cosa fare per portarli alla Moses Scharte. Una volta traversata la Korscharte Kaluer e io scivolammo per la neve dura un bel tratto giù nel Weissenbachgraben, poi marciammo al suono della chitara allegramente a Raibl dove un autocarro ci trasporto prima a Tarvis poi a Törl nel ospitale. Da Tarvis venne anche Kugy con noi che era felicissimo a rivederci. Nel ospitale ci venne esaminando cuore polmoni e sangue per vedere se in causa dell’altitudine abbiamo sofferto qualcosa, siamo stati trovati tutti sanissimi. ”

Infine arriva una licenza “1-20 Maggio a Trieste, dopo lungo e sospirato desiderio”21 Maggio ritornato a Tarvis mi amalai con una fortissima sto-matite (infezione alle gengive). Li incontrai Tonello e altri trie-stini passando una vita realmen-te oziosa e bella. Anche da Trie-ste venne a trovarmi Amelia.”

Dougan non dice nulla riguardo ad Amelia, ma finita la guerra anno-ta sui taccuini

“nell’agosto 14 andammo Ame-lia e io a Fiume restando lì 4 giorni e passandoli discreta-mente.Il 12 novembre coi Calin an-dammo a Padova fermandosi 2 giorni poi proseguimmo per Milano con una permanenza di 5 giorni e nel ritorno un altro giorno a Padova.”

... Venni mandato a Törl in ospitale dove rimasi 10 giorni poi a Klagenfurt sino a tutto Luglio ...

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Rientrato nei ranghi, Dougan è comandato dall’1 al 4 agosto nel Seebachtal sotto la Deutsche Kanzel

“1 Agosto In principio ero addebito alla funicolare poi dopo il ritorno a Tarvis, in trincea. Durante la mia permanenza non venne eseguito alcun assalto da ambedue le parti pero vi era un attivita di pattuglie e fuoco di artiglieria. Spesso avevammo dei morti per l’impro-viso bersaglio d’artiglieria.Qualche notte sul più bello che si prendeva sonno veniva aperto un violentissimo fuoco d’artiglieria.Si aspettava allora un assalto italiano. Dopo un’ora di attesa visto che nessuno avanzava ritornammo tutti dalle caverne nelle nostre capanne. Ma dopo un’altra ora seguiva altro fuoco d’artiglieria, altro allarme e così di seguito due, tre volte qualche sera. E quando re-almente cessava il fuoco non si trovava riposo per la tensione di nervi. Una piaga erano la massa di ratti che invadeva la trincea. Persino il pane che avevo sotto il capezale mi veniva portato via dai ratti mentre dormivo. Una notte un ciu ciu sentivo sopra la capanna e mi rallegravo che venisse il mattino per vedere il nido degli uccelli, cosa era invece - dei ratti.

I componenti del presidio invernale: Klauer a capotavola, Dougan a destra.

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4 - 7 Agosto a Tarvis nel ospitale per piombarmi i denti. Al 5 agosto mi lagnai di fortis-simi dolori di ventre. Siccome in quel epoca era un epidemia del colera mi si sospettava per coleroso e venni perciò getato ad onta delle mie proteste in un baracone di colerosi. Passai una notte d’inferno, con l’incubo di realmente infettarmi. Tutta la notte non era che un gemer di amalati. Durante la stessa notte l’ammalato che era a canto di me spirava. Al mattino salii dietro il baracone dove era una piccola capella. Entrai. In mezzo stava un cadavere nudo, tutto il corpo non era che pelle e osa meno la pancia che era enormemente gonfia. Era orendo a vederlo. Sepure il dolore di ventre non mi ha ancora cessato, feci un tanto credere al infermiere pregando di lasciarmi sortire dal ospidale. Rimasi ancora due giorni per la cura dei denti poi ritornai nel Seebach Tal.”

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Una cengia di guerra

Se Dougan, alpinisticamente parlando è stato dimenticato, il suo nome è invece abbastanza familiare fra quanti si sono interessati delle vicende

dell’ esercito A.U. sul fronte delle Giulie.Un episodio molto dibattuto è la vicenda della corda danneggiata. Corda

che era stata fissata attorno al Blocco sotto l’Innominata sulla cengia degli Dei per semplificare il passaggio.

C’è un’ipotesi di Pust circa il possibile coinvolgimento di Dougan nel dan-neggiamento della corda

“Klug e il suo camerata avevano profanato la via degli dei con il martello i chiodi e la corda. Avevano rimosso il blocco di roccia dalle sue funzioni di custode e sconsacrato l’intera cengia, offrendo una sicura presa ai profani. Era un sacrilegio. Basterebbe ricordare la reazione di Kugy al dispiacere che gli venne arrecato attrezzando la via di salita sulla parete nord del Montasio. La notizia di questa nuova profanazione sulla cengia degli Dei si era certo diffusa fra gli alpinisti della brigata: ne venne a conoscenza anche Vladimiro Dougan che era stato il primo a percorrerla?”I. Pust, Fronte di pietra, Mursia, Milano, 1987, pagg. 113

Credo vadano distinti i comportamenti tenuti in guerra da quelli tenuti in tempo di pace.

La reazione negativa di Kugy riguardo al Montasio è difficile applicarla, per analogia, a questo caso.

Lo testimonia il fatto che per rifornire in modo sicuro la guarnigione sulla cima dello Jòf Fuart, Kugy non esitata a proporre di rendere accessibile me-diante chiodi, funi e tavole la via della gola N.E. una sua via aperta nel 1901 con Oitzinger, Komac e Bolaffio. A questo progetto partecipa tra gli altri an-che Dougan, come abbiamo visto.

Prosegue Pust“Non lo sappiamo, ma il 17 agosto 1917 accade un altro fatto singolare. Il

dottor Kugy, il capitano Ahsbach, il dottor Grüttehin, il sottotenente Klauer e quattro Jäger, tra cui Dougan, pernottarono alla sella Nabois e raggiunsero il giorno dopo la cengia degli Dei lungo la gola Nord Est. Lì fecero una sosta di parecchie ore. Dalla cima dello Jof un ufficiale stava seguendo col binocolo i

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loro movimenti e vide che i quattro Jäger si erano allontati dal resto del gruppo, dirigendosi lungo la cengia verso la Cima di Riofreddo. Rimasero assenti per diverso tempo. Quando raggiunsero, nuovamente riuniti, la cima del Jòf Fuart, l’ufficiale chiese meravigliato a Kugy il motivo di quella lunga sosta e il grande alpinista rispose all’incirca: “riposavamo, mentre i giovani percorrevano la cengia”. Ma cosa fecero quei giovani?”I. Pust, Fronte di pietra, Mursia, Milano, 1987 pagg. 113

Kugy nel Kriegsbilder specifica che le sue presenze sul Wischberg durante la guerra furono

quattro. Tempi e persone non sono sempre sovrapponibili al racconto di Dougan, per cui la que-stione rimane aperta

“Personalmente durante la guerra mi sono recato in cima allo Jòf Fuart per quattro volte. La prima volta come guida del mio comando attraverso la gola nord-est.”J. Kugy, La mia guerra nelle Giulie, Edizioni Saisera, Valbruna-UD, 2008, pagg. 23-24

Kugy non riporta né la data né il nome di chi l’accompagnava. Potrebbe essere la stessa visita che Dougan racconta così

“Il 24 agosto Kugy, Schemanch, Walter e un altro capitano e io da Wolfsbach salimmo nella Saifnitzer Karnica e poi alla Sella Nabois dove pernottammo. L’indomani scendemmo fino ai piedi del Piccolo Jof per risalire la N Ost Schlucht. Al Götterband abbiamo fatto una lunga sosta e una serie di fotografie. In cima del Jof siamo rimasti più di tre ore poi scesi alla Moses Scharte dove abbiamo atteso l’imbrunire per non essere visti dal nemico. Infine scendemmo nella Obere Karnica per risalire la Korscharte m. 2239 e notte tempo giun-gemmo per il Weissbachtal nel Seebachtal da dove con l’automobile partimmo per Tarvis.”

Questa data, 24 agosto è quella di una delle due foto riportate a pag. 96 dell’edizione italiana del Kriegsbilder con la dedica di Kugy a Lorenz in cui sono ritratti sia Kugy che Guido Mayer che Otto Lorenz. In questa occasione Dougan parla di pernottamento alla sella Nabois e di una lunga sosta sulla cengia degli Dei ma la corda per agevolare il passaggio del blocco, secondo il raccon-to di Klug, fu fissata un anno dopo, il 3 agosto del 1917.

La seconda è sempre nel 1916, Nau nel suo libro “Der Krieg in der Wischberggruppe” riporta la data del 10 ottobre così Kugy vedi sopra

“con il Luogotenente il generale Scotti nel 1916, in una giornata autunnale di rara bellezza che si era levata splendida, fra due notti scintillanti di luna piena.”J. Kugy, La mia guerra nelle Giulie, Edizioni Saisera, Valbruna-UD, 2008, pag.25

Anche Dougan ricorda quell’ evento, avvenuto durante il presidio invernale dello Jòf di cui abbiamo parlato sopra.

Poi arriviamo al periodo incriminato. Difficile stabilire il giorno preciso, Kugy è generico “La terza volta fu per i festeggiamenti del 1917 in onore dell’ imperatore come guida a un giornalista tedesco Grüttenfien, che su ordine dell’armata condussi dal Jòf Fuart al Rombon.“J. Kugy, ibid.

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Così Dougan“Il 20 agosto tornai a Tarvis dove era arrivato un giornalista germanico, poco simpatica persona (Grüttenfien ndr). Questo, Kugy , Walter, come guide Innerkofler io e un altro sa-limmo da Wolfsbach per il Saissera Tal nella Saifnitzer Krnica e per la Nord Ost Schlucht sul Wischberg. Questo individuo senza cuore aveva il coraggio di farsi portare il sacco che conteneva oltreché diverse cose affato non ocorenti per la montagna anche stivali per cità. Scendemmo alla Moses Scharte traversammo la Korscharte e nel Weissenbach Tal visto che era tardi di notte, in una baraca. Lindomani alla fortezza del lago ci attendeva un automobile in quel ci portò a Tarvis.”

Quel giorno non risulterebbero soste lunghe sulla cengia inoltre sembra che il peso del baga-glio del giornalista portato dalle tre guide fosse consistente. Poi continua

“Il 22 agosto, il giornalista, Walter, Kugy e io in automobile ci recammo da Tarvis a Raibl. A Raibl scendemmo nella miniera dove il trenino della miniera ci portò a Mittelbruch. A Mittelbruch con una carrozza fino oltre la Flitzschersperre, e da qui ci mettiamo in cammi-no prima per la quota 1313 Planina Rob. Lentamente si avanzava causa il gran caldo. Poi il sentiero va un lungo tratto orizontalmente e finisce per un canalone alla quota 1826. Su questo tratto siamo stati scoperti e bombardati da un canone che stava sul Polonick. Biso-gnava correre a tratti poi fermarsi dietro qualche rocia. A pochi metri sotto la quota stava nella roccia un baracamento. Era quel medesimo giorno la 11esima offensiva italiana. Da quel baracamento credevamo di essere difesi mentre continuamente esplodevano dei schrapnell, granate e colossi di mine. Poco piacevole fermata, con tutto ciò tutti facevamo visi come se nulla fosse, mentre una buona dose di paura aveva ogniuno. Discendemmo alla quota 1313 dove si pernottò. Lindomani discendemmo in valle con la funicolare. In meta del cavo che partiva dalla quota sino in valle l’altezza del precipizio era di un cento metri. Ritornammo a Bretto e col trenino della miniera a Raibl infine in automobile a Tar-vis, io poscia nel Seebach Tal”.

Infine Kugy conclude“La quarta come accompagnatore di Karl Müller, il direttore del Museo alpino di Monaco, in cammino lungo l’intero fronte alpino dalla Piccola e dalla Grande Forcella Nabois, attra-verso lo Jòf Fuart, verso la Forcella Mosè, le Cime di Castrein e la forcella Vallone e dalla Konigshütte al Col Cizilian, Jama e Mogenza Piccola.”J. Kugy, La mia guerra nelle Giulie, Edizioni Saisera, Valbruna-UD, 2008, pag.25

Kugy non precisa la data che sembra successiva a quella dei festeggiamenti per il genetliaco dell’Imperatore. Il Tenente Jan Milac segna che la visita del Direttore del Museo di Monaco alla sua postazione è avvenuta il 3 Settembre 1917 (Riportato in N. Nau, Der Krieg in der Wischberg-gruppe)

“Quest’ ultima volta io da solo presi per la gola NE mentre Müller guidato dal sottotenente Klug e dalla guida alpina Sepp Innerkofler, attraversò in coraggiosa arrampicata le pareti nord, sulla via collegata da poco nella sua parte superiore, partendo dalla Grande For-cella Nabois. Dalla forcella li osservammo fino a che non scomparvero dietro allo scoglio

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verticale. Dall’alto della Cengia degli Dei li vedemmo sbucare sul versante nord-orientale. Erano arrivati lungo la grande fascia della parete nord. Un’ora dopo, in un tempo sorpren-dentemente breve, avevano raggiunto la cima. Quella volta, accolto e festeggiato, con commovente affetto dai compagni, dormii per la prima volta sulla vetta di una delle grandi Giulie. Fu molto emozionante.”J. Kugy, ibid.

Però la data con cui Dougan annota questo evento è diversa e inverte l’ordine di Kugy“Il 13 agosto venni chiamato dal mio posto in trincea nel Seebachtal, nuovamente a Tarvis dove c’erano il direttore del museo alpino di Monaco (Carl Müller ndr) Kugy, Innerkofler. L’indomani tutti insieme ci recammo per il Saissera Tal nella Saifnitzer Krnica da dove Kugy e io salimmo la Nord Ost Schlucht, mentre Innerkofler e il direttore del Museo saliva-no il Wischberg per la diretissima dalla sella Nabois. Scendemmo il medesimo giorno alla Moses Scharte, traversammo la Korscharte e per il Weissenbach Tal nel Seebach Tal. Nella nostra posizione sotto la Deutsche Kanzel abbiamo pernottato. Il 14 venne anche Kaluer con noi sulla Deutsche Kanzel. In quella che stava parlando con il cuoco Slatko in cucina venne per combinazione una palla di mitragliatrice francese confiscarsi nel suolo della cucina. Scendendo tornammo alle nostre posizioni sotto la Deu-tsche Kanzel da dove accompagnammo ancora i signori sino a Tarvis. Il direttore era una persona molto socevole e simpatica.”

Queste descrizioni s’intrecciano con quella di Hans Klug. Una volta terminato il presidio inver-nale dello Jòf da parte di Dougan e compagni, Klug assieme ad Hans Stagl e Carl Zobek conti-nuano a frequentare l’osservatorio dello Wischberg e la Götterband.

Hans Klug in una monografia pubblicata nell’agosto del 1930 sulla rivista Bergsteiger riper-corre tutta la storia della cengia degli Dei a partire dall’ascensione di Kugy alla parete est della cima di Riofreddo

“La cengia degli Dei. Questa scorre dalla gola NE tutte le pareti nord delle Madri dei Camosci e la grande cengia circolare rappresenta anche un accesso allo Jòf Fuart e precisamente dal circo della valle di Riofreddo.Il dr. Kugy con Erwin e Herma Poech salì il 30 agosto 1913 lì dove la gola che viene dal Riofreddo improvvisamente s’interrompe e i camini e i lastroni delle Madri dei Camosci salgono ripidi fino alla cengia degli Dei, la raggiunsero ma non troppo lontano dalla forcella la connessione pur-troppo è interrotta. Attraverso una breve cengia si arriva a una ripida costola rocciosa in salita, si sale, poi si gira a destra in un camino alto 40 metri. Lo stesso è seguito fino alla fine, quindi si attraversa a sinistra in salita su parete molto esposta, raggiungendo nuovamente l’alta costola per una lastronata fino una terrazza detritica. Da qui circa 5 metri in verticale verso l’alto su una cen-gia stretta che scende un po’ a destra e conduce avanti nella parete. Poi avanti per rocce molto difficili. Quindi si raggiunge per ripide bianche placche una grande cengia, la cengia degli Dei. La cengia degli Dei conduce ora con una comoda cengia detritica alla parete nord del Riofreddo, dopo che, diventata più stretta, con una curva conduce agli strapiombi dell’Innominata.Qui c’è la parte più bella ma anche più selvaggia della via delle cenge, dove nel Blocco sul lato

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nord dell’Innominata c’è il più grande ostacolo del percorso. Dopo il Blocco, la stretta cengia con-duce sotto un poderoso strapiombo in un grande anello a forma di S con arco ombroso e umido fino al pulpito precipite della parete nord del Gamsmutterturm, la vetta occidentale vicina all’In-nominata. Dal pulpito la cengia conduce, coperta di resti di neve e terrazze ghiaiose, alla gola NE.Il percorso di almeno 1000 metri di cengia conduce attraverso un magnifico paesaggio di roccia selvaggia sopra il fondovalle e permette una vista in lontananza sulle vette dei Tauri. Se la neve a luglio non riempisse l’intera lunghezza della cengia, il suo percorso sarebbe da dire quasi facile a parte il Blocco. Tuttavia essa rimarrà dominio dei camosci e degli alpinisti esperti. Oltre all’enorme impressione causata dalla parete liscia che precipita per centinaia di metri sotto la cengia degli Dei, ciò è dovuto principalmente all’ostacolo che il Blocco offre.Durante i due primi percorsi delle cenge Dougan-Pesamosca e dr. Renken-Sturm (nel Luglio 1914) i suddetti alpinisti andarono dalla valle di Riofreddo al Wischberg. Alla terza ascensione, il 3 set-tembre 1916, io venni dal Wischberg, fui sorpreso dalla grandezza del paesaggio roccioso, ma non mi aspettavo troppo grandi difficoltà lì. Quando sono arrivato al Blocco, ho trovato una brutta sorpresa rispetto alle attese. Una roccia marcia e inaffidabile, una terribile esposizione, mette in guardia dal pericolo in agguato. La parete s’interrompe bruscamente oltre la stretta cengia sab-biosa e precipita per centinaia di metri sul fondo innevato della Carnizza in modo che con una caduta il corpo si sfracellerebbe giù nella valle. Immediatamente sopra la cengia, la roccia balza liscia e rossastra, come un tetto a strapiombo.La stretta cengia è bloccata per quasi tutta la sua lunghezza da un Blocco friabile di circa sei metri, quasi ad altezza d’uomo in modo che nella parte inferiore rimane solo una lista mentre la parte superiore del blocco per la sua sporgenza lascia solo una stretta nicchia che non può essere usata per strisciarci sopra. Ho superato il punto passando sulla lista intorno allo spigolo del Blocco poi lentamente mi sono inginocchiato e ho usato la sporgenza sottostante per strisciare. Io ho avuto l’impressione, ripetendolo più tardi che una grande sicurezza e cautela possono eliminare qui il pericolo. La possibilità di assicurarsi con la corda non è desiderabile come sarebbe opportuno.La parete liscia non presenta fessure, per cui mettere un chiodo, risulta estremamente difficile. Nella direzione opposta mi è sembrato più facile. Nei mesi invernali successivi ho avuto l’idea di fissare una corda di sicurezza attorno al blocco che è l’unica straordinaria difficoltà della cengia degli Dei e quindi eliminare qualsiasi pericolo. Il 3 agosto 1917, l’ho fatto insieme a Neumann e Mayer (Enrich August Mayer, non Guido Mayer ndr). A causa della roccia cattiva ai lati del Blocco ho infisso nel terreno, solo dopo lunghi sforzi, quale partenza dei chiodi unendoli poi con una corda di canapa nuova. Con la corda così fissata e afferrandola con le mani potevamo facilmente andare avanti e indietro.Il 23 agosto 1917 Zobek voleva andare lì solo per scattare alcune fotografie. Hans Stagl era suo compagno. Dopo il loro ritorno, hanno riportato la seguente strana esperienza. Quando furono nei pressi della fune del blocco si scambiarono alcune considerazioni sull’affidabilità della corda, e Stagl esprimeva qualche preoccupazione. Già sul punto di fare il primo passo, lanciata un’occhia-ta nella nicchia sopra il blocco e si mise di nuovo in allarme. A portata di mano della sua posizione, la nuova corda solida era completamente tagliata, con solo poche deboli fibre che avrebbero potuto strapparsi alla prima presa...”

Il capitolo termina con dei puntini di sospensione. Un’indeterminatezza che ha colpito suscitando conseguenti sforzi interpretativi sulle cause e

sull’eventuale autore del danneggiamento della corda.

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Questa curiosità si è concretizzata nell’ipotesi che la presenza di Dougan e di Kugy sul Wisch-berg, quali accompagnatori nell’intervallo di tempo compreso tra la posa in opera della corda e la scoperta del danno, non potesse essere estranea al fatto. Essi avrebbero avuto anche il movente dell’irritazione per la profanazione del passaggio del blocco con mezzi artificiali.

Chiaramente questo movente non è sufficiente a definirli colpevoli, li rende sospettabili.La premessa implicita del ragionamento è che Dougan fosse passato oltre il blocco senza

ricorrere ad artifici.Ma nel suo diario Dougan racconta di averlo superato con corda, chiodi e allargando la cen-

gia a colpi di scalpello, per strisciarvi sopra e appendersi ad una corda bloccata in due punti per superare l’ultimo tratto.

Quindi, alla luce di questo fatto riportato nei diari, si dovrebbe pensare perlomeno a un mo-vente diverso da quello della presunta purezza del passaggio del blocco, profanato dalla posa in opera della corda fissa.

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Una nuova destinazione

Scrive Dougan“Al 31 agosto venni chiamato a Tarvis da Kugy che mi avviso di essere stato addebito, quale sua personale guida, da parte del commando del armata e che ambedue siamo commandati alla divisione di Soča in vi-sta di una prossima offensiva. Così il 1 settembre il treno ci portava da Tarvis a Kronau dove Kugy fece diverse visite alle sue vecchie guide. Era il sole gia alto e faceva molto caldo quando ci inviamo per la valle Velika Pišenka al Moistrovka Pass. Non so perché ma quel giorno ci sentimmo di un umore speciale. Alla funicolare in Sella abbiamo pran-zato. Discesi in val Trenta a S.ta Maria da Tošbar ci abbiamo un po’ fermati. Poi Kugy è andato sulla tomba di Andrea Komac. La stessa sera siamo scesi a Na Logu dove abbiamo pernottato. L’indomani 2 settembre siamo entrati a Soča.”

La visita alla tomba di Komac è un segno della grande ammirazione di Kugy per Andreas

“Più tardi pensai molte volte che dev’essere stata la Montagna a man-darmelo allora e a dirmi: Eccoti la tua guida!”J. Kugy, Dalla vita di un alpinista, Lint, Trieste, 1985-2000, pag.47

La situazione a cui tornava utile l’esperienza di un Alpiner Referent come Kugy era la guerra di posizione con azioni di pattuglia anche molto ardite per controllare i movimenti degli avversari e l’individuazione di osservatori utili a guidare i colpi dell’artiglieria. Attività che da sole, per la conformazione del terreno, non avrebbero potuto colpire il fronte avversario in modo tale da consentirne lo sfondamento.

Anche per questo, presso il comando d’armata, i giudizi sull’importanza della “Hochgebirgscompagnie” non erano sempre lusinghieri.

Ad agosto del 1916 la 59a compagnia d’alta montagna, sottolinea Kugy, possedeva 16 medaglie al valore d’argento di prima classe, 32 al valore d’ar-gento di seconda classe, 31 medaglie al valore di bronzo, tuttavia

“Non mancavano però coloro che guardavano a questa scuola di roc-cia con una certa diffidenza. Il loro giudizio affrettato era Compagnia Turistica.” J. Kugy, La mia guerra nelle Giulie, Edizioni Saisera, Valbruna-UD, 2008, pag. 34

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Con la preparazione della grande offensiva dell’ottobre 1917, che era già nell’aria, la strategia cambia radicalmente. Si punta allo sfondamento del fronte italiano con sistemi diversi cioè con un grande dispiegamento di mezzi e uomini.

Kugy non era più essenziale, per il generale von Dietrich di fatto inutile, e con una lettera del 6 settembre 1917 ne richiede l’allontanamento proponendo di sostituirlo con un militare, tra l’altro uno dei pupilli di Kugy

“Proprio al momento attuale ci sarebbe l’occasione di impiegare un ufficiale davvero special-mente adatto allo scopo indicato, il sottotenente Klauer, che è stato decorato con la medaglia d’oro, ma deve comunque essere tolto dal servizio in prima linea…Faccio ancora presente che non mi sembra opportuno trattenerlo qui anche per ragioni pretta-mente militari. Egli mantiene sempre una grande influenza, basata sulla sua fama alpinistica, su tutti gli ufficiali e uomini di truppa interessati all’alpinismo, ed egli la sfrutta - solo per mancanza di senso militare e completa inesperienza nelle questioni militari - non proprio sempre a favore della disciplina e dello spirito militare.” Cfr. Alpinismo Goriziano, Luglio-Settembre 2007, pag.5

Questo contrasto tra logica militare e logica alpinistica è un problema che emerge nei diari di Dougan in qualche occasione.

In azione di pattuglia, in caso di pericolo estremo, tra la volontà dell’ufficiale e l’esperienza della guida a prevalere è la seconda, cosa non prevista dal codice militare.

È avvenuto, abbiamo visto sulla gola NE con il s.ten Guido Mayer e successivamente sulla cresta Brdo con il s.ten Klauer. Le guide, pur inquadrate militarmente, ritenuti i comandi incongrui con la situazione, la risolvono diversamente. Il pericolo lo affrontavano, ma non si buttavano a capofitto per spirito militare.

L’esperienza ha prevalso sul grado risolvendo la situazione diversamente da quanto previsto dalla disciplina militare. Va notato nei due casi era presente Angelo Dibona che aveva aperto le vie che allora erano considerate le più difficili portandosi spesso dietro i fratelli Mayer come clienti. Kugy però nel Kriegsbilder non si sofferma sulla differenza esistente tra l’attività di Dibona e quella delle altre guide.

Kugy accetta il suo trasferimento senza mostrare risentimento“Attorno alla metà del settembre del 1917 mi giunse dal Comando della X Armata la richiesta se mi fosse gradito il trasferimento alla 93a compagnia di stanza a Soča. Vi si aggiungeva che vi si contava in modo particolare… Considerata la mia età chiesi solo che mi venisse assegnata come “Guida Alpina” un elemento giovane e fedele come Vladimir Dovgan… organizzai subito una scuola di roccia per la quale mi furono assegnati 28 uomi-ni tra cui un eccellente gruppo di bosniaci del 4° Reggimento molto alti di statura. Poi mi dedicai allo studio del terreno e del rischio valanghe.”J. Kugy, La mia guerra nelle Giulie, Edizioni Saisera, Valbruna - UD, 2008, pag. 38

Dougan scrive“A Soča, Kugy organizò una scuola di guide prevalentemente da bosniaci magnifici ar-rampicatori tutti. Così ogni mattina e dopopranzo si passava il tempo in questa scuola. Ai 25 di settembre ebbe Kugy di esaminare tutte le montagne appartenenti alla divisione sul pericolo delle valanghe del prossimo inverno. Alla mattina del 26 Settembre partimmo Kugy e io da Soča alla Planina Crni Vrh per es-

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sere in cima del Kalnder alle ore 10. Arrivammo prima delle 10 in cima attendendo come avvisatoci alle 10 in punto.Vedemmo, mentre tutto il cielo era sereno su la cresta del Peski inalzarsi una colona di fumo che sembrava un nuvolo, per un prolungato lunghissimo rombo, poi subito dopo un intensa fucileria. Da tempo che dalle ambedue trincee veniva fatta una grande mina, ten-tando di far saltare le trincee per poi dare un assalto. Si trattava di chi prima arrivera e questa volta eravamo noi.”

Una di queste esercitazioni alpinistiche risulta particolarmente impegnativaFlitscher Grintovec“Pure a scopi militari effettuammo questa salita partindo credo il 4 Ottobre da Soča coste-giando il pitoresco Isonzo a S.ta Maria Pri cerkvi da Tošbar dove abbiamo pernottato. Il giorno dopo Kugy Tošbar e io salimmo tutta la val Trenta, fermandosi di quando in quando a qualche fresca sorgente, contornata da muschio, segno di acqua ecelente. Avanzai più presto di Kugy e quando arrivai a un ruscello o a una sorgente mi fermai attendendo Kugy e contemplando i colori già autunali del bosco e ascoltando il gorgoglio dell’acqua che era la musica accompagnatoria al canto degli uccelli. Il sole era gia tramontato quando arri-vammo alla povera malga Zapotek. Un sporco malghese ma molto ospitale ci offriva latte e formaggio. Le pecore si calavano alla malga. Noi cercammo un ripostiglio piu possibile riparato del vento e poco dopo si sentiva ancora qualche suono di campanella delle peco-re, infine silenzio perfetto, era caduta la notte. Un vento fredo ci svegliò era l’annuncio di buon tempo. Riscaldatici con un cosidetto caffè di guerra si mettemmo in moto. Prima per un terreno facile per verdi poi traversammo due nevai dei quali uno più ripido che ci portò verso la cresta del Kranja senza arrivare a questa. Cambiammo di nuovo direzione puntando verso la cima del Grintovec per rocce friabilissime ed esposte. Presto ci accorgiamo di non essere sulla giusta via. Tornare sarebbe stata troppa perdita di tempo percio siamo avanzati forzando cer-cando una via d’uscita. Giungemmo così a un punto su una piccola gulia dalla quale bisognava ben alargare le gambe per pren-dere la roccia vis a vis. Stando così le gam-be formavano un ponte sopra il burone. Poi fatto presa con le mani nella marcia rocia, con pessimi appigli e staccandosi dalla gu-lia bisognava fare un paio di passi trasver-salmente e superato ancora un salto di 4 metri si arrivò in terreno più facile. Questo punto descritto lo superai io per primo, poi presi alla corda Tošbar. Ma quando veniva

Ma Kugy, come un giovanotto, senza bisogno dell’a-iuto della corda tanto che non arrivavamo incontro a ritirarla, in un attimo era presso di noi (salita del Grin-tovec).

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il turno di Kugy temevo che col suo peso per quella pessima rocia poteva non superare questo punto. Ma Kugy, come un giovanotto, senza bisogno dell’aiuto della corda tanto che non arrivavamo incontro a ritirarla, in un attimo era presso di noi. Ma questo sforzo gli è costato caro, provocandogli due forti ernie, era perciò l’ultima sua grande salita. Presto dopo eravamo in cima. Stupenda era la vista. Dopo ½ ora passati in cima scendemmo per la vera via che Kugy molti anni prima fece la prima salita.”

Così Kugy“La mia prima spedizione alpina si rivolse al Grintouc di Plezzo. Dougan mi accompagnò e il figlio di Anton Tožbar fece la guida. Dormimmo sulla alpe di Zapotek... giungemmo a un punto molto difficoltoso - Dougan arrampicava stupendamente davanti a me - affrontai con grinta. Si trattava di una “uscita di servizio”. Alla mia età, se si fosse trattato di una ”ispezione personale”, avrei certamente rinunciato a quel passaggio. Un ulteriore passag-gio a gambe divaricate su una parete ripida e alta, un’arrampicata verso sinistra, molto esposta, in su, lungo una cengia che conduceva a uno stretto camino, poi su in verticale verso altre cenge detritiche. Ogni più piccola sporgenza era liscia e rivolta verso il basso. E tutto era tremendamente friabile”. J. Kugy, La mia guerra nelle Giulie, Edizioni Saisera, Valbruna-UD, 2008, pag.38

“ultima azione sui monti della val Trenta fu il recupero di un aviatore nemico, che ingan-nato dalla nebbia, era finito su uno dei circhi glaciali orientali del Pelc nella cosidetta Srednjica… Il pilota nonostante le fratture subite agli arti era sceso al fondovalle della Val Trenta…mentre l’ufficiale addetto all’osservazione, ferito altrettanto gravemente e mezzo assiderato venne portato a valle lungo quegli impervi sentieri. Durante il trasporto facem-mo di tutto per consolare e sostenere il povero giovane che era anche di buon umore. Nonostante ciò, in seguito, mi venne riferito che era morto in ospedale.”J. Kugy, La mia guerra nelle Giulie, Edizioni Saisera, Valbruna-UD, 2008, pag. 39

Così Dougan narra questo episodio“nel pomeriggio del 10 ottobre venivo mandato nella valle Trenta in cerca di un aviatore. Successe che un Caproni, per controllare il movimento delle nostre truppe entrava in una giornata piovosa nella valle Trenta. Sembra che e entrato nella nebbia senza sapere la presenza della catena del Jalovec e Grintavec che chiude la valle andò percio cozzare su le pareti del Pelc. L’aviatore ad onta le braccia e gambe rote, dopo due giorni si trascinò fino in valle Trenta. Completamente disorientato non sapeva dire dove lasciò l’osservatore. Con una marcia forzata io con 8 uomini giunsi in fondo della valle Trenta sotto il Pelc. Princiapiavammo salire e arrivati forse a 1000 o 1200 metri incontrammo gendarmi che trasportavano il disgraziato. Ogni 10 metri si cambiavano gli uomini 4 a 4 per portare la barella quasi di corsa. In una casera gli abbiamo dato latte invece di cognac come egli de-siderava. Era felice a sentirmi parlare italiano. Disse di essere veneziano e per le premure che ho avuto per lui in riconoscenza voleva regalarmi la sua pipa, che non accetai… attese un automobile lo trasportò in ospitale. Il giorno dopo spirava il povero, in quelle due notti gli si ha ghiacciato gambe e braccia.”

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Caporetto

In questo evento epocale e documentatissimo troviamo un’incongruenza tra date dei diari e la storia. Nei diari c’è un’anticipazione di diversi giorni

dell’avanzata austro-germanica forse dovuta alla tensione e alla concitazione del momento, forse alla memorizzazione di una data fatta circolare anche artatamente, tra i soldati di stanza a Soča: il 18 ottobre. Data in cui iniziò, non l’offensiva ma si andava completando l’ammassamento delle truppe a ridosso del fronte in vista dell’attacco.

A partire dal 18 ottobre, Dougan inizia a numerare le tappe che lo porte-ranno da Soča a Fonzaso. Molte situazioni descritte trovano riscontro in Kugy, il quale nelle sue memorie di guerra riporta correttamente l’inizio dell’offen-siva, il 24 ottobre.

Questo induce a pensare che Dougan non fece leggere i diari a Kugy, né Kugy il suo Kriegsbilder a Dougan.

È un’ulteriore indicazione sul modo in cui vanno letti i diari: testimoniano le esperienze dell’uomo, non sono un documento burocratico.

L’incipit di quell’offensiva viene così descritto e ci spiega anche l’origine della data che sta alla base del racconto di Dougan. Partenza ancora più ritardata perché avvenuta al seguito non dei reparti combattenti ma delle salmerie

“La grande avanzata di Caporetto1

Da due settimane che influivano continuamente truppe austriache e germaniche oltre il passo della Mojstrovka. Kugy ci informava della venuta di un generale germanico il quale dirigeva la avanzata. Informò la divisione che ai 18 principiava l’offensiva e l’avanzata era garantita ma lo disse con tanta sicurezza che ordinò di impacare per il 18 tutto essere pronti e avanzare, dandosi le località di fermarsi giorno per giorno.Nel pomeriggio del 18 dopo aver messo in sella tutte le nostre cose, Kugy e io andammo su un prato a Na Skali. Alle 4 principiava un fuoco a tamburo i sei 30 ½ postati vicino al co-mando a Soča tiravano continuamente. La medesima notte affluivano masse di prigionieri a Soča.”

1. Vedi “Carta di mobilitazione” in A.G. n. 2/2014 Mario Galli, Cento anni, pagg. 24-25.

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Così racconta Kugy quella partenza avvenuta due giorni dopo lo sfondamento al seguito delle salmerie

“Arrivò così il 23 ottobre, il giorno dell’inizio dell’offensiva. Noi aspettavamo con ansia negli alloggiamenti del Versnjik, io dormii nella segheria ad est, poiché era stato ordinato di sgomberare Soča. Infatti c’erano i mortai da 30,5 e una se-rie di obici pesanti che facevano fuoco quasi ininterrottamente. Si aspettava una reazione da parte del nemico che invece mancò… Il mattino del 25 dalla sede del comando tattico del nostro generale di divisione il Principe Schwarzenberg giunse l’ordine di marcia. Salim-mo i ripidi pendii boscosi del Kozji attraverso Za Potoke giungemmo a Golobar Planina.” J. Kugy, La mia guerra nelle Giulie, Edizioni Saisera, Valbruna-UD, 2008, pag 40

I tappa Da Soča a Golobar Planina“Alla mattina del 19 tutto si metteva in moto. Non una montura restava a Soča. Alle 9 partimmo noi. Al imboco della Valle Lepenje dovevammo attendere il turno per salire con i cavalli l’erto trozzo. Spettacoloso era quel movimento sembrava la Volkerwanderung. Era notte scura quando arrivammo a Golobar. Una cosa non era in questo accampamento un infinità di fuochi e fuocherelli attorno al quale il militare si riscaldava. Gridi comandi, lagni di feriti, un grandioso movimento di truppe e prigionieri. Io trovai un baracamento dove in terra ho pernottato.”

Del secondo giorno scrive DouganII tappa 20 Ottobre Da Planina Golobar oltre il Mali Homec 1.289 m. a Ladra“Col primo chiaror del sole abbiamo insellato li cavalli e metemmo in moto verso il Mali Homec. Poco prima di arrivare al Mali Homec, mentre caminavammo in gruppo di 5 mi-litari improvvisamente mi era venuto il desiderio di menare il nostro cavallino bianco, pregai percio il conducente di lasciare la bestia in mani mie. Questo lo fece ben volentieri e andò unirsi al gruppo col quale io prima camminavo. Avrò fatto forse 100 passi sino al punto tra le trincee italiane e austriache che improvvisamente scopio una fortissima de-tonazione. Contemporaneamente io e il cavallo fummo coperti di una massa di terriccio. A stento arrivai a trattenere il cavallo che dal spavento voleva sfugirmi. In quello sentivo disperatamente gridare. Due soldati del nostro gruppo vennero lanciati un venti metri di-stante. Uno lo vidi disteso con la schiena, grondante di sangue, sui reticolati, l’altro an-che tutto insanguinato poco discosto in terra. Io o il mio cavallo involontariamente siamo montati su un filo che fece esplodere la mina. Non avrei preso qui pochi minuti prima il cavallo in consegna probabilmente sarebbe tocato a me la sorte di quei due disgraziati, dei quali uno era rimasto gravemente ferito, e l’altro prima di arrivare in ospitale moriva … Poco lontano da questo punto era Kugy che ci attendeva, anzi il primo a portargli la noti-zia era un tizio che gli disse che tutti siamo andati per aria. Naturalmente era felicissimo quando mi ha visto sano e salvo. Dietro il Mali Homec abbiamo fatto 1 ora di sosta. Visitai le trincee italiane che erano in maggior parte distrute ma che lasciavano vedere quanto più comode e belle delle nostre. Entrai in una di queste trincee dove mi toco la sorpresa di vedere 5 morti senza che avessero alcuna ferita, deve essere stata pressione d’aria prodotta da qualche granata che gli ha uccisi. In contro che avanzammo vedemmo il disastro della

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ritirata italiana. Cannoni di ogni grandezza, mortai, mitragliatrici, munizioni, cavalli tutto abbandonato dalla grande fretta. Infinita di prigionieri demoralizzati che sfilavano. Mi ricordo di due cannoni 24 pronti al tiro che nella fuga non arrivarono piu a trasportali in giu. A Ravni sotto il Krn era gia verso l’imbrunire che entrai nella chiesa che era deposito di viveri. Casse di galette stivatte fin sotto il soffitto la riempivano… Tutto questo e solo una pallida idea del disastro italiano, ho inteso mentre discendevo il discorso di un capitano ferito portato in barella, dopo aver chiesto il permesso a un nostro ufficiale di parlare con il maggiore. Erano gli ultimi ordini che ha eseguito e che gli rendeva conto al maggiore. Gli chiesi come è successo questo disastro, mi rispose che non sa ma che gli sanguinava il cuore vedere questo disastro. Era notte tardi che arrivammo a Ladra. Aeroplani italiani giravano sopra di noi lanciando bombe e un nostro cannone di lunga portata bombardava tutta la notte. Volevo andare a prendere del acqua vicino il pozzo, era una tal massa di pantigane che camminando più che una si colpiva col piede”.

Anche Kugy riporta quel drammatico momento“La mattina del 26 ottobre iniziò in maniera splendida… Tutte le posizioni in quota dal Vršič fino al monte Nero ritenute inespugnabili dal nemico e da noi stessi, erano ora nelle nostre mani.Gran parte degli uomini che erano di presidio sfilavano ora davanti a noi come prigionie-ri… Solamente gli ufficiali di grado elevato passavano seri e silenziosi. Un Capitano ferito, che veniva trasportato dai suoi uomini, guardava con tristezza le scene di questo terribile crollo: Mi creda, disse, mi sanguina il cuore! Ovunque il nemico stava ritirandosi disordina-tamente. Ancora una volta fu dimostrato che se un’idea è valida e se viene messa in pratica in modo corretto tutto fila liscio e in modo semplice. Se invece l’idea non è valida, sono inutili anche tutti i miracoli che l’eroismo può compiere…Verso le 10 ci raggiunsero i nostri animali da soma. Una mina esplosa tra le posizioni aveva posto in serio pericolo la piccola schiera. Tre dei nostri erano rimasti feriti. Preoccupato per Dovgan ero corso indietro, ma per fortuna mi stava venendo incontro sano e salvo… Il bottino che vedemmo accumulato su ambo i lati della strada non si può né descrivere né stimare. Avevano abbandonato tutto su posto dandosi ad una fuga precipitosa … passam-mo per Rauna e per Dresenza… Non potemmo proseguire direttamente per Caporetto ma dovemmo compiere un giro lungo per Ladra e Idersco. A Ladra, sulla sponda sinistra dell’Isonzo pernottammo in un ospedale da campo italiano. Per tutta la notte un pezzo di artiglieria di grosso calibro indirizzava i suoi colpi verso il Matajur… Gli aerei nemici ci sorvolavano, dovemmo far spegnere i fuochi dell’accampamento. Fu una notte terribile.” J. Kugy, La mia guerra nelle Giulie, Edizioni Saisera, Valbruna-UD, 2008, pag. 41

Dougan descrive la terza tappa III tappa 21 Ottobre da Ladra oltre Karfreit a Borjana“Curioso la popolazione sapeva un giorno prima della grande offensiva che venne effet-tuata… Come spiegava Kugy l’offensiva venne fatta specialmente a un punto a Tolmein e a Flitsch. Rotte queste due barriere invece che seguire il nemico venne mandato un batta-glione di ciclisti da Tolmino e un altro da Flitsch in direzione ambedue a Karfreit, facendo prigionieri tutti i comandi alti italiani. A Karfreit puntarono i fucili i soldati germanici

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oltre le finestre della sala dove era pacificamente aggruppato il commando facendoli tutti prigionieri. I austriaci erano già al Tagliamento che i soldati italiani dal Krn al Vrsich te-nevano ancora le posizioni. Arrivati i nostri in pianura giravano rapidamente verso Sud e così venne fatto il più gran numero di prigionieri, 350.000, di tutta la guerra. In contro che avanzammo incontro si presentavano militari italiani con le mani in alto. Il morale di loro era bassissimo. Sentii gridare “Per me la guerra e felicemente terminata”, oppure “Evviva l’Austria”. Queste espressioni schifava persino la ufficialità austriaca. Quanto male diffeso che era il fronte, basta dire che dalla trincea al Mali Homec sino al monte Asolone non vidi altre trincee. In un grande casale vicino alla chiesa a Borjana abbiamo pernottato.”

IV tappa 22 Ottobre Da Borjana a Platischis“Quando partimmo da Borjana pioveva fortemente e non cessava sino all’indomani. Pas-sammo Sedlo e Borgogna dove ci abbiamo fermato a mangiare. Dopo Borgogna avanzam-mo asai lentamente la causa era che avanti Platischis e stato rotto un ponte e perciò tutto l’esercito ha subito un incaglio. Ogni dieci minuti bisognava aspettare. Interessante era vedere la valle del Natisone. Lungo tutta la strada era acceso un fuocherello vicino l’altro. Scendemmo in fondo della valle del Natisone per poi risalire dall’altra sponda. … Bisogna-va a questo punto lasciare la strada e andare per prati alla quota 785. Per questo terreno bagnato dalla pioggia e dopo esser passati migliaia e migliaia di uomini si sprofondava nel fango sino oltre gli ginochi e delle volte alla cintola. Che inferno quella notte! Vento, pioggia, lampi, tuoni, bestemie, gridi, commandi e notte buia. I cavalli ansavano e cadeva-no, quanti con tutto il carico finivano giu in valle. Non era più possibile andare avanti. Ci

Vista verso il Monte Nero.

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fermammo lì al aperto sotto la pioggia. Si tentava fare qualche fuoco e dopo grandi stenti riuscimmo farne uno grande. Si era stanchi e batteva i denti dal freddo, non un posto per riposare, dappertutto fango e per di più sparse granate a mano per terra. Le ore non pas-savano mai, finalmente faceva un po’ di chiaro”.

Scrive Kugy“Qui si procedeva nella melma che arrivava fino alle caviglie e in alcuni punti fino alle ginocchia. Erano stati gli innumerevoli passi e zoccoli, assieme alla pioggia che l’aveva inzuppata a ridurre così quella strada. Quanti animali da soma e cavalli la percorsero docili e pazienti e vi trovarono la morte!Il mio cappotto inzuppato sembrava pesare mezzo quintale. Dovgan era rimasto indietro con gli animali da soma. Era notte, io non conoscevo la zona, non vedevo niente, dovevo seguire la pista battuta nel fango… finché all’improvviso nel pendio sottostante apparvero le luci liberatorie di Platischis… Uno dei miseri fuochi sul Notberg, prima di Platischis, in quella notte amara aveva invece rinfrancato il buono e bravo Dovgan, con gli animali da soma sfiniti e i bagagli bagnati, tra il vento furioso, la grandine e la pioggia.” J. Kugy, La mia guerra nelle Giulie, Edizioni Saisera, Valbruna-UD, 2008, pag. 41-42

Il mattino successivo Dougan riparteV tappa 23 Ottobre Dalla quota 785 vicino Platischis a Nimis“Discendemmo al paese di Platischis con una piccola fermata e proseguimmo per un mezz’ora, sotto le falde del Montemaggiore ci fermammo… Li femmo un po’ di pulizia io trovai un paio di calzoni borghesi in una casa abandonata che li cambiai coi miei inzuppati e infangati. In quello si mostrò un momento il sole che ci riscaldava un pochino. Un paio di militari si occupavano con un porcino allo spiedo. Dopo qualche ora di cammino causa un altro ponte rotto dovemmo discendere per un altra ripida china. Un cavallo avanti di me andò anche a finire giù per la valle, mentre il mio bianco cavallino si comportava magnifi-camente. Purtroppo quando passammo la valle di Cornappo era già notte. Deve essere una bellissima valle. Tardi arrivammo a Nimis.”

Qui Kugy, si trattiene per una non precisata missione speciale“Arrivammo a Nimis e a Tarcento dove una via “Marinelli” mi ricordò il ricercatore dell’al-topiano friulano. In queste due cittadine fui trattenuto da una missione speciale che mi era stata affidata e soltanto dopo otto giorni potei seguire la mia Divisione.”J. Kugy, La mia guerra nelle Giulie, Edizioni Saisera, Valbruna-UD, 2008, pag. 42

riprende il racconto da Majano“il primo giorno a Majano, di nuovo sotto la pioggia battente, il giorno dopo davanti al tetro silenzioso forte di Osoppo, ormai caduto attraversammo le acque del Tagliamento in piena… pernottammo a Flagona presso una famiglia di contadini molto numerosa; seden-do davanti al fuoco aperto della stufa tutta la notte potemmo asciugarci. Il terzo giorno migliorato il tempo ci portò fino a Cavasso, il quarto, attraverso Maniago fino ad Aviano e il quinto fino a Caneva… il sesto giorno … pernottammo a Fadalto, il settimo… Belluno dall’incantevole stile veneziano, l’ottavo ci portò verso la cittadina di operai socialdemo-

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cratici di Lentiai. Il nono giorno finalmente … raggiungemmo la sede della mia Divisione, altre il Piave sovrastata dai monti: la città montana di Feltre”.J. Kugy, La mia guerra nelle Giulie, Edizioni Saisera, Valbruna-UD, 2008, pag. 43

Dougan racconta quella sostaVI tappa 27 Ottobre Da Nimis a Tarcento“A Nimis restammo 3 intere giornate con l’incarico di racogliere rame. Dopo tanti mesi di permanenza in montagna nelle valli povere che bella impressione mi fece la rica pianura, specialmente la collezione di viti era stupenda. Simpatici focolari friulani ne possedeva ogni casa, in cambio poco gradevoli sono le stanze fredde.Immaginarsi quando irruppe la soldatesca, dopo tante sofferenze e fame soportate nelle trincee, era impossibile frenarli. Così venne che un bel giorno un bosniaco ci rubò persino a noi, Kugy e a me, i nostri indumenti. Questo tale lo incontrai per strada con la sciarpa di Kugy, dopo averlo ben bastonato lo consegnai a Kugy che lo stordì con due schiaffi.Io ebbi l’incarico di impacare due farmacie e Kugy raccogliere tutto il rame del vilaggio. Con otto carri carichi il 27 ottobre ci trasportammo a Tarcento.Cercai di aiutare in tutti i modi la popolazione spaventata. Chi spesso mi chiamava per prestargli aiuto era il Monsignor Alesio. Una sera ero invitato da lui a cena in una stanza poco illuminata che entrò un maggiore il quale mi prese per ufficiale e mi chiese se dal par-roco era una casa libera. Io con sfaciatagine gli risposi che era ocupata dal Comando di divisione. Si scusò e andò via. Mi avrebbe, qualora mi avesse riconosciuto per un militare, e visto che confabulavo con il parroco in italiano, eventualmente arrestare per sospetto di spionaggio, come pochi giorni dopo mi toccò. Quando il monsignor Alesio seppe che me ne vado volle darmi la benedizione e un bacio. Arrivai a Tarcento in un momento in cui si svolgeva una curiosa scena. I militari avevano dato fuoco alla casa del prete che chiamava la gente ad aiutarlo mentre lui era cosi comico che inciampava nelle gonne vederlo portare l’acqua. Diedi aiuto anch’io e mentre la seconda volta sono andato a prendere l’acqua alla porta di una casa era una bella ragazza che pian-geva dirottamente. Le chiesi il perché del suo pianto e mi racontò che i militari germanici volevano violentarla. La quietai dicendo che verò ad abitare da lei e che con ciò la protegerò. Era una delle poche oneste, perché quando sono entrato vidi le donne di Tarcento accogliere festosamente i militari germanici persino baciarli su la pubblica via. Questa ragazza abitava insieme con una ostessa e per diffenderle mi costò molta fatica. In principio tentavano i sol-dati germanici entrare per il portone, li scaciai poi per un muretto e gli feci rispettare anche quell’entrata, seminando dove dovevano saltare giu, delle granate a mano, poi nella locanda di sotto hanno perforato un muro, infine sono calati dal teto ma era tutto vano. Li dovetti per-sino minaciare col fucile. Nel pianoterra della stessa case era un negozio di sellerie e calze e una sera hanno dato l’assalto. Approffitai, meglio che la merce vada straciata in mano dei soldati, le diedi alle due donne, senza tenere un sol pezzo per me. Un paio di giorni dopo mi recai nel paese vicino a Magnano col ordine di vedere se c’è nel paese grano da requisire. Quando tornai ebbi nel baretto castagne che strada facendo mangiavo. In quello mi si pre-senta un magiore di artiglieria a cavallo. Io avendo il baretto in mano e feci il saluto con la

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testa ma sembrò che con la giuba italiana e senza baretto che sembravo un militare italiano. Dopo avermi chiesto il magiore cosa che facio lì, poco persuaso della mia risposta mi arrestò facendomi piantonare da un soldato. Sembra che la mia calma lo ha reso incerto perché mi chiamò di nuovo e mi domandò se ho legitimazioni, gli diedi quella della medaglia d’argen-to… Tutto questo ha durato piu che un’ora prima che mi lasciò libero.”

VII tappa 31 Ottobre Tarcento-Maiano / VIII tappa 1-2 Novembre Da Maiano oltre il Taglia-mento a Flagogna

“Era una giornata piovosa che partimmo da Maiano dove abbiamo dovuto rimanere un giorno perche la strada era tutta ingombra di truppa e carri che dovevano passare il ponte ferroviario. Nel frattempo sono andato a vedere se ce qualche altra possibilità di passaggio ma sono tornato con esito negativo… Durante tutta la notte passavano oltre il ponte, coper-to solamente lo spazio tra i binari e questo ostacolato con delle traversine, parte erano dei lamerini che erano stati getati nel Tagliamento. Anche qui come a Platischis era un’enorme confusione di gridi e commandi. Un infinità di cavalli e buoi precipitarono nel sottostante fiume. A tutto questo si aggiungeva le persone civili con bambini e donne che sono scapa-te abbandonando le loro case e che sono state raggiunte dell’esercito avanzante. Questi volevano tornare alle loro case cosa che gli riusciva impossibile perché il ponte sempre occupato dalla truppa. Avevano famme, freddo erano bagnati e nessuno poteva aiutare. Appena fattosi giorno il 2 XI partimmo oltre il ponte con tutte le difficoltà immaginabili ma in conclusione i nostri carri passarono felicemente. Non una difesa, non una trincea aveva il Tagliamento. Sbaglio enorme delle stato maggiore italiano. Che differenza con noi che avevammo una trincea dietro l’altra fino a Klagenfurt… Alla sera arrivammo a Flagogna.”

IX tappa 3 Novembre Flagogna a Cavasso“Nella discesa verso Travesio incontrammo una amalata su un carro trasportato dai suoi stessi famigliari. Erano dei fugiaschi che tornavano alle loro case. Mi faceva pena vedere questa bellissima ragazza amalata. A Travesio, belissimo villaggio in piazza abbiamo fatto tappa. Erano spaventati li abitanti quando siamo venuti credendo che gli faremmo del male ma poi hanno quietato e sodisfato le nostre richieste.”

X tappa 4 Novembre Cavasso a Maniago“Il tratto di marcia di questo giorno era corto e non aveva nulla di particolare. Trovai alloggio per combinazione da una ragazza che per molti anni lavorava a Trieste da Ser-ravallo. Era contenta di sentir parlar di Trieste anche perché si sapeva, almeno per quella notte protetta.”

XI tappa 5 Novembre Maniago a Aviano“Da Aviano salimmo sino all’imboco della valle Cellina a Montereale anche un bellissimo villaggio. Da qui in poi avanzai solo lasciando un bel tratto indietro il mio gruppo. Quando nelle vicinanze di Ciais davanti a una casa isolata di contadini vidi come un militare che correva dietro, con la baionetta in canna, i contadini della casa. Quando mi vide si fingeva

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ubriaco e si scusava del suo agire, dicendo che i contadini non li volevano dare un po’ di polenta. La versione dei contadini invece era che dopo avergli dato la polenta voleva dei gioieli. Con due schiaffi e una pedata lo scaciai via. Quando dopo un tempo mi misi in cammino mi sono acorto ancora di lontano che dietro a una siepe si muoveva qualcosa. Era il militare che ho bastonato e che mi aspettava in aguatto, perche dopo che mi sono fermato attendendo il mio gruppo, lo vidi sortire dalla siepe e darsi alla fuga. Anche ad Aviano tornammo alla sera tardi.”

XII tappa 6 Novembre Da Aviano a Caneva“Un’altra lunga marcia fu compiuta questo giorno. A Caneva trovammo ospitalita da un ricco possidente che ci ha trattato come principi. I paesani pero lo accusavano come spione al sevizio del Austria.“

XIII tappa 7 Novembre Caneva a Fadalto“Alle 10 del mattino arrivammo a Vittorio una stupenda cittadella con bellissimi villini e viali purtroppo il militare ha fatto strage. Trovai per terra sparsi libri con pagine straciate appartenenti certo a qualche rica biblioteca. Entrato in un ricchissimo casato vidi tutte le tele dei quadri tagliate fuori dalla cornice.Da qui sino a Belluno era la piu pittoresca marcia. Avanzammo da Vittorio che sembrava Nizza e si inoltrammo nella montagna verso il lago morto. Morto realmente questa e l’im-pressione che mi face il lago tetro di un colore scuro con i pendii ripidi e nudi che cadono di una parte dal monte Pizzoc dal altra il Col Visintin e in fondo sta il lago desolante. Persino le case che sono acostate sul lago basso sono povere e misere. A Fadalto abbiamo pernottato in una sporca casetta. Che differenza con Vittorio.”

XIV tappa 8 Novembre Fadalto a Belluno“Quando alla mattina sono sortito di casa sono rimasto stupefato a vedere tante bellezze. Tutto aiutava a imbellire, il sole e persino il mio gaio umore. 100 metri sotto Fadalto sta il sorridente lago di Santa Croce, tutto circondato da montagne tutte imbiancate già dalla neve. Specialmente bene si presenta il Col Nudo alto 2500 m. La strada che mena da Fa-dalto costegiando il lago era in ombra e perciò faceva freddo. Sono corso perciò avanti fino alla fine del lago, mi sono messo nel sole, e ho goduto per un ora il spettacolo. Oltre che alla bellezza della natura osservai un interessante quadro che mi ricordavo di aver visto in un libro di storia, come quando Federico Barbarossa scese in Italia con il suo esercito. Doveva essere stato così come vidi io quel momento, una lunga fila di militari, carri, cavalli che lentamente si muoveva e interminabile sempre nuova truppa sorgeva da Fadalto.Ero asai curioso di vedere Belluno perciò mi misi di nuovo in marcia. A Cadola mi fermai a chiacherare con un prete, quando a noi due si presentò un soldato con una mucca do-mandando tabacco. Il prete negava di averne allora lui gli offriva in cambio al pacchetto la mucca. Pensai fra di me ecco “Hans im Glück” (fiaba dei fratelli Grimm ndr). Gli chiesi il perché del cativo affare. Disse “Cosa vuole delle mucche le trovo in ogni stalla, mentre tabacco no”. A Levago incontrai il mio collega Lodatti.

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Che bella città Belluno! Il ponte di ferro era rotto e improvisato uno di legno. Passato questo per una rivetta si entra a Belluno. Seppure in tempi così brutti ordine regnava nella città e aveva poco aspetto di guerra. Girai dappertutto e nella bella e storica piazza mi fermai più a lungo.”

XV tappa 9 Novembre Da Belluno a Lentiai“Oltre Mel arrivammo a Lentiai paese socialista, pieno di inserzioni rivolte al proletariato. Mi misi d’accordo di pernottare da una donna che era felicissima credendo così la sua casa salvaguardata. Ma nel fratempo chiese la figlia dell’oste all’ufficialità di lasciare dormire me nella sua stanza attigua. Venne soddisfatta e io con ciò non potevo adempiere la promessa a quel altra. La cosa portò a baruffa tra le due donne e gli ufficiali si divertivano un mondo.”

XVI tappa Da Lentai a Feltre“Passammo il ponte e entrammo a Feltre che aveva di nuovo un completto aspetto di guer-ra. Era pieno di militari. A Feltre ci fermammo fino al 20 novembre. Nel fratempo il tempo è diventato piovoso. Un giorno ricevetti ordine di andare a Lamen che è un paesetto in montagna a vedere se c’è qualcosa da requisire. Andai che piovigginava a Pren a Lamen e discesi oltre Norsen. Un’altra volta nella valle di Stizzon al Molino d’Avien. La terza par-timmo con Kugy a Santa Giustina e passammo dei simpatici villaggi uno più bello del altro, come Mean e Paderno a Maras pernottammo. Era curioso che questi tre bellissimi paesi non sono stati tocati dai militari ma la medesima sera entrarono dei soldati germanici mettendo in soquadro da un momento all’altro tutto il paese. Era penoso vedere il spavento che era in quel paese. Persino a Kugy hanno rubato un petine e un cucchiaio d’argento ma Kugy lo ha messo a posto. L’indomani andammo a Mas all’imbocco del Canale di Agordo. Lì il comando germanico ci proibiva di requisire. Noi abbiamo fatto finta di partire, mentre con un giro andammo a caricare in un molino del grano. Così gli abbiamo fatta. Tornammo oltre Mel dove abbiamo pernottato e l’indomani tornammo a Feltre.”

XVII tappa Da Feltre a Villabruna“A Villabruna ci siamo istalati a casa della signora Fanny. Fra tanti amorucci che mi tocò nella avanzata il più comico mi successe qui. Nella medesima casa della signora Fanny era una panetteria. Una sera me ne ho mangiato molto del pane confezionato con patate e qualche ora più tardi ebbi appuntamento con una bella bionda con un formosissimo petto. Come d’acordo alle 10 di sera quando tutto il villaggio dormiva io come un ladro con una scala che portai con me scavalcai due muri per arrivare sotto le finestre della mia bella. Due sassetti gettati nei scuri era l’aviso che sono arrivato. La luna era piena e rischiarava molto bene la finestra che in quel medesimo momento si apriva. Accertatomi essere lei salii per la scala ed entrai nella stanza. Un momento dopo ero anche in letto. Ma che disilusione quando volevo palpare quello che di più attraente aveva, il petto di questo non era neppure traccia. Il petto era finto. Con poco entusiasmo accontentai l’ostessa, la spianata figlia di S. Giuseppe. Ma la questione non ebbe neanche ben termine che mi sentiva un certo bron-tolio in pancia ... La questione si faceva seria e io non sapevo a che santo rivolgermi. Presi

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improvvisamente la decisione e in due e due quattro ero vestito mentre la mia bella mi dava del vigliacco per l’abandono del letto, io in fretta scapai… Nessuno mi ha visto, tranne la luna che certamente mi ha deriso.Per due giorni siamo stati a Cesio Maggiore. Mi toccò essere interprete per l’assunzione di un processo contro due militari per tentata violenza a una bellissima ragazza e per aver violentato una madre con due bimbi. Il processo avvenne a Fonzaso. Alla fine la ragazza, seppur vergognandosi mi confesò di essere innamorata di me.”

Questa è la sola finestra che Dougan apre su questo argomento. Sarà Andrea Pollitzer dodici anni dopo nel suo libro a riaprirlo con garbo raccontando di una giornata di riposo trascorsa sulle rive di un fiume frequentato da nudisti

“Non c’è negli uomini la malsana curiosità di voler vedere troppo da vicino i corpi nudi delle donne, né viceversa; ma ciò non toglie che ad una cinquantina di metri si vedano uomini e donne che fanno il bagno senza curarsi dei passanti. Educazione sessuale e morale sessuale della Russia d’oggi. Miro, l’europeo capita in mutande e lo guardiamo stupiti. Gli chiediamo il perché di quel costume. Si vergogna.Io cerco un refrigerio nell’acqua mentre Miro, Don Giovanni impenitente, continuava ad estasiarsi: Che seni vedo, che gambe… Poi ci sdraiammo sull’erba. Intravvidi una bella bionda che si avvici-nava sempre più a Miro; poi mi sono addormentato.” A. Pollitzer de Pollenghi, Montagne Bianche e uomini rossi, Editoriale italiana Contemporanea, Arezzo-Mi-lano 1932 pagg. 259-260

A parte l’episodio dei diari e il dire non dire di Pollitzer l’argomento viene lasciato cadere secondo il principio indicato da Kugy nella biografia di Oitzinger

“Di vicende amorose Oitzinger non mi ha mai parlato e ha fatto bene. Sono cose che si fanno e non occorre raccontarle in giro.”J.Kugy, Anton Oitzinger, Lint, Trieste, 1985-2001, pag.32

XVIII tappa 6 Dicembre Da Villabruna oltre Pedavena a Fonzaso“A Pedavena faceva molto freddo. Proseguimmo l’indomani a Fonzaso. Dopo lunghe ri-cerche di un quartiere per noi lo trovammo nella casa del carceriere. Era una numerosa famiglia. Tutti bigoti. Interessante come e dove trovavano nascondigli per scapare alla requisizione. Il rame lo mettevano nel acqua in un grande recipiente al aperto e lasciavano l’acqua turbida che si geli. I viveri li calavano con una corda dal sottotetto in un vecchio camino che non veniva più usato. Poco dopo il nostro arrivo mandato ad esaminare il pe-ricolo delle valanghe sulle nostre posizioni.”

Col dei Prai m 1286“Il tempo era poco favorevole per il mio scopo. La neve è caduta il giorno precedente sino in valle. Feci presto ritorno, fermandomi un solo momento a Arsia. Quanto poco simpatiche queste localita in confronto al nostro vecchio fronte delle Alpi Giulie.”

“Guidai questa volta il principe di Schwarzenberg in un attimo fummo da Fonzaso in au-tomobile a Insin.

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Quando arrivammo al paese di Rocca la strada in un punto era chiusa fra un 30 ½ e l’au-tomobile che scaricava munizioni. In quel medesimo momento volavano sopra di noi aero-plani getando bombe. Una era caduta vicino a noi, un 50 metri più vicino e avesse esploso tutta la munizione e con essa anche noi … Mancavano un paio di giorni per natale in un pomeriggio che andammo a visitare una chiesetta sopra Fonzaso. In quello vedemmo due aeroplani nemici e un nostro che lotavano in aria. Dopo un aspro duello che durò parec-chio fino all’imbrunire vedemmo come un aeroplano nemico colpito rapidamente scendeva. Prima lasciava una striscia di fumo dietro che man mano si ingrandiva, poi una striscia di fuoco infine quando l’aeroplano s’abbatté in terra una grande fiammata. Era spaventoso veder cadere questo aeroplano. Fu constatato che l’aeroplano era un francese. Quando e venuto il natale abbiamo fatto il nostro modesto alberello con piccoli regali per i figli del guardiano del carcere.”

“Anche questa volta andai in automobile con un capitano di stato maggiore, fino a Insin. Giunti sul Col dei Prai, scendemmo per il dorso ma fummo subito scoperti dall’artiglieria italiana ad onta dei nostri mantelli bianchi per la neve. Furono sparati contro di noi 7 schrapnel che fortunatamente non ci hanno colpito ma noi dovemmo ritirarci per avere la pelle sana. In quello giunse il principe di Schwarzenberg che sgridava aspramente il capi-tano per la paura. Ma nello stesso venne tutto il dorso bombardato dall’artiglieria pesante era un fuoco a tamburo. Nel medesimo momento l’artiglieria austriaca bombardava le posizioni italiane. Sembrava che il monte Grappa ardesse perche tutto era coperto di fumo. Diverse granate sono cadute vicinissime a noi facendo anche diverse vittime ma il principe stava fermo come se nulla fosse. Del resto non era cosa da fare perche su tutto il dorso non era una caverna. Nel fratempo è caduta la notte e io col capitano andammo per una seconda trincea più avanzata sul nord del monte Pertica. Camminando mi sintii un dolore di cuore, credetti in principio che nulla fosse e volevo resistere al dolore ma questo aumen-tava sempre più e ha finito che camminavo con piedi e gambe pur di non stare indietro a cio che il capitano non mi credesse un vigliacco. Infine non ne potevo più e sono caduto a terra dai dolori. Quando ho spiegato questo al capitano mi credette e fece ritorno. Ero tutto sudato quando siamo tornati dal automobile e io senza mantello con tutta quell’aria fredda incontro, non ne potevo più del freddo.”

Anno 1918 IXX tappa 13 gennaio Da Fonzaso a Villabruna“Il mal di cuore aumentava.”

XX tappa 28 gennaio Da Villabruna a Cesio Maggiore“Durante il soggiorno a Cesio Maggiore faceva molto freddo.”

XXI tappa 10 febbraio Da Cesio Maggiore a Ponte della Serra“Era una giornata rigidamente fredda che intraprendemmo questa lunga marcia Ponte della Serra c e una chiusa d’acqua dalla quale va presa l’energia elettrica per il Friuli. È uno stupendo luogo alpino e pecato che io soffrivo fortemente del male di cuore in modo

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che non ho potuto intraprendere nessuna delle vicine salite. Unica piccola escursione che ho fatto è Lamon che sta a 600 m.”

XXII tappa 17 Febbraio Da Ponte della Serra a Villabruna“Fra terribili dolori di cuore a stento arrivai da solo a Villabruna. Ero avilito e temevo che il male fosse molto grave. Al 25-II andai con Kugy al Menin dal medico, il quale d’accordo col Stadtartz mi consiglio di prendere un permesso per Vienna e andare là da un medico Specialista.”

Qui Dougan e Kugy dopo essere stati per quasi tre anni negli stessi reparti si separano.Kugy, partito il 29 giugno 1915 chiederà di essere congedato il 2 luglio 1918 annoverando tra

le sue soddisfazioni quella di

Dougan è all’acme della sua attività alpinistica quando riceve da tre suoi amici: Kugy, Pollitzer e Chersi, un grande album di fotografi e di montagna.Le loro dediche non elogiano la fama che per confronto nasce e per confronto fi nisce ma gli ricor-dano ciò che non può mai tramontare.

Traduzione dei versi:Nessuna preghiera, nessuna fede rende l’uomo più piocome la solitudine dello stormire del bosco, come la vicinanza al cielo sulle cime eminenti dei monti

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“restituire sani e salvi alle madri in attesa tutto quel gruppo di bravi giovani benché sette avessero ottenuto la medaglia d’oro al valore. Nessuno mancò. E a me giunsero molte benedizioni.” J. Kugy, La mia vita, Eurograf, Tarvisio, 2011, pag. 191

Nel suo Kriegsbilder Kugy fa l’elenco delle persone che furono decorate: Guido Mayer, Fer-dinand Horn, Josef Klauer, Ludwig Ezenhofer, Stokinger, Jaegher, Noisternig; aggiungendo poi Josef Purkowitzer che ricevette la medaglia alla memoria.

L’altro ricordo di guerra è il suo libro “Dalla vita di un alpinista” iniziato al fronte e concluso durante l’avanzata di Caporetto; un libro scritto in guerra, dove il capitolo sulla guerra non c’è.

Dougan parte per ViennaA Vienna 28-29 Febbraio“Il 28 febbraio mi incamminai a Feltre dove per combinazione trovai un autocarro che mi trasporto a Primolano… Alla sera il treno partiva per Trento con enormi fermate in ogni stazione. Alla mattina arrivammo a Trento. Sicome il treno aveva una fermata di un paio di ore scesi in città. Offre poco Trento, forse l’unico è il monumento di Dante. Proseguii il viaggio con una stupenda giornata traversando il Tirolo. A Innsbruck arrivammo alla sera ma la città era coperta di nebbia. Alla mattina ero a Salzburg e appena nel pomeriggio del 29 a Vienna… Con una raccomandazione del prof. Hostetter mi presentai dallo specialista Falta il quale mi costatò al cuore una nevrastenia di massimo grado.L’indomani presentatomi in ospitale venni subito accolto e tratato durante tutta la perma-nenza molto bene. La cura consisteva in tre differenti bagni, d’ossigeno, impacchi e getti d’acqua.L’ultimo mese lo passai a Müttel dorf dove eravamo solamente in 10 amalati. Era una specie di baracamento messo in pieno bosco modernamente instalato con massimo confort e lusso, fato è che oltre la comodità di luce e acqua si poteva levar i letti fuori dalla stanza su un terrazzo, per fare i bagni di sole. Non avevamo ne controllo ne superiori. Eravamo messi lì per godere tutta la quiete.Oltre alla grande simpatia che mi aveva preso per la città di Vienna, avendola percorsa in tutti i versi, persino nei dintorni. Sadei mi tratto da principe, con lui feci gite nel Wie-nerwald, visitai teatri, concerti e caffè concerti. Inoltre ebbi molte visite della signorina Trevani. Anche Amelia era venuta a trovarmi.”

A Trieste23 maggio Termine della mia vita militare“Con immensa gioia ritornai dopo tanto da Vienna oltre Graz a Trieste.”

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CONCLUSIONI Diari e tempo

Per quanto riguarda la guerra, i diari arricchiscono di particolari un periodo storico molto studiato e lo fanno con i pensieri di una persona lontana

da ogni patriottismo manicheo, che non ha mai scritto una sola parola ostile contro l’avversario; cosa non si può dire di Kugy con quel suo “Cave fidem italican!” che si sarebbe dovuto incidere a caratteri indelebili sulle cime dello Jòf Fuart.

Se Dougan aveva un nemico questo era la guerra. Successivamente, una visita a Oitzinger, riportata sui diari, è occasione

per vedere quanto profonda fosse questa la contrarietà “La vista è importantissima specialmente sui oridi colossi del Drachen-grat ma pecato che i segni di guerra disturbano ancora la montagna.”

Il giorno dopo andando con Mikosch ad arrampicare sulla Torre Carnizza“Prendemmo la direzione del Karnien Turm e sulla strada… incon-trammo gente che raccoglieva materiali di guerra. Speriamo che que-sti buoni uomini distruggano quei brutti ricordi di guerra.”

Pensieri di un combattente, decorato e in controtendenza con le idee del periodo postbellico quando quella guerra fu mitizzata. Ancora più apprezzati ora che ci giungono attraverso dei diari che sarebbero potuti finire in una discarica.

Uomo di pace, combattente dell’esercito austroungarico, appartenente alla minoranza slovena: non erano le credenziali migliori per essere accredita-ti nell’Italia che stava andando verso una nuova guerra mondiale.

Eppure come alpinista è riuscito ugualmente a conquistare la considera-zione degli altri anche senza avere le caratteristiche per essere cooptato tra gli eroi della montagna utili alla propaganda.

In questo senso il suo rimane fondamentalmente un alpinismo antieroico.Se già allora il suo alpinismo era in controtendenza rispetto alla linea vin-

cente, questi diari dopo un secolo cosa possono dire?Sicuramente sono inediti e suscitano interesse ma parlano del passato e

questo smorza l’attenzione che potrebbero destare in un contesto diverso.

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È possibile vedere in essi un Giano Bifronte, ovvero possono unire passato e futuro?La narrazione odierna si basa sull’idea di progresso che in alpinismo significa progredire lungo

la scala delle difficoltà. Ogni nuovo limite diventa un pezzo di passato incastrato negli ingranaggi del futuro.

L’ideale diventa raggiungere un nuovo orizzonte anche se questo si sposta continuamente come la tartaruga di Achille piè veloce.

Può capitare di raggiungerlo ma solo per ritrovarselo davanti in forma diversa. Paradossal-mente è il superamento del limite ad essere la nuova forma del limite.

Ad esso il destino riserva una nota della Marcia Trionfale e a seguire l’intera colonna sonora di Sunset Boulevard.

Lo ricorda Fabio Palma dei Ragni di Lecco che dopo aver aperto una via di grande difficoltà nel Wenden, lucidamente l’ha chiamata Coelophysis, nome di un dinosauro estinto per l’arrivo di predatori più forti di lui.

Lo ricorda la tormentata relazione di Comici della Cima d’Auronzo“L’Onorevole Manaresi ha modo di non mantenere la sua promessa tre anni dopo, quando

Comici invia alla Rivista Mensile del CAI la narrazione della salita alla parete sud della Cima d’Au-ronzo… Sono inutili anche le intercessioni di Antonio Berti, che non esita a giudicare il lavoro come ”la più bella pagina di letteratura alpina che abbia mai letto” ma l’impietosa introspezione viene giudicata disdicevole al mito superomistico costruito attorno alla sua figura.“Io che vissi con lui quella giornata - ha scritto Severino Casara - posso affermare che mai l’anima di Comici, apparve nuda come da quelle sue righe che sanno di dolore, di angoscia, di scoramen-to, di ribellione, di paura e di dominio, di sentimento altamente cavalleresco, di venerazione più che religiosa ma soprattutto di grande bontà e sincerità”.”Cfr. A.G. 2010, pag.116

Affinchè la caccia all’Off Limits non entri in crisi bisogna stare dalla parte della moltitudine che si scorda del campione al tramonto per un nuovo campione annunciante l’ennesimo nuovo mattino che sarà subito sera.

Il vero eroe per “i molti”, e per chi si prende cura del loro immaginario, non sarà mai l’uomo reale ma quello strano ente dal nome sempre nuovo che mutando di forma come Proteo continua a far girare la giostra.

Per favorire un nuovo giro di giostra accanto alla montagna reale si è aggiunta la montagna del grado, piccola fede laica del mondo secolarizzato.

La montagna reale, senza dire una parola può scuotere l’intero individuo mentre la montagna del grado è un piano cartesiano dove l’uomo si muove in base a regole che lui stesso scrive e riscrive.

Questo esorcizza il perturbante spaesamento provocato dalla Natura nei rari momenti in cui ne percepiamo l’incondizionata immensità: unico No Limits fuori da ogni misura, ripetibilità e confronto.

I diari possono dare il loro contributo alla questione.Dougan ha riempito pagine di nomi di cime andando in montagna in pace e in guerra, d’esta-

te e d’inverno, ha esplorato, accompagnato amici, amato la Natura.I diari sono una sfida: raccontano fatti di cui noi, oggi, proviamo a ricostruirne il senso. Potremmo dire che sono troppo datati per averne uno, oppure vedervi la denuncia del nuovo

idolo, quell’Off Limits pensato per non far pensare.

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Un viaggio attraverso i diari può far capire che per alzare la difficoltà non si può disporre di ogni anfratto di parete pur di arricchire il catalogo del “Grande Museo del Limite”.

Le vie di Dougan sono state ispirate dalle forme stesse della montagna reale; nella montagna del grado è la difficoltà ad imporre il percorso.

I diari pur non coprendo l’intero arco esistenziale di Dougan rivelano ugualmente il ruolo pe-dagogico della montagna.

Un ruolo formativo che per Dougan fu essenziale; attraverso la montagna ha realizzato il suo romanzo di formazione. Romanzo non surrogabile con l’addestramento selettivo come avviene per le performance che non vengono chiamate lavorative solo per una questione di stile.

Questo gli ha permesso di parlare con la montagna in molti modi. Ha ritrovato percorsi dimenticati, come la Semide dei Agnei:“Questa forca rappresentava un tempo un importantissimo passaggio per le greggi che dalla

val Dogna si mandavano a pascolare sull’erboso pendio meridionale del Plan della Ciavile; il sentiero che l’attraversa, chiamato Semidei dei Agnei gira sotto le pareti dello Jovet Blanc e del Jof di Miezdi.”V. Dougan - A. Marussi, Gruppo del Montasio, SAG, Stabilimento Tipografico Nazionale,Trieste, 1932 ,pag. 129-130

Sentiero riscoperto e descritto da Dario Marini“Cinquant’anni fa, quando Dougan ne raccolse la tradizione, il sentiero era già stato abban-

donato da tempo immemorabile. Sparito tra le mughere il tratto che portava alla cengia, questa era divenuta impraticabile per il crollo delle opere e l’erosione degli scrimoli, mentre nell’imbuto della Puartate la sottile pista battuta dagli zoccoli delle pecore era stata la prima a svanire sotto le fitte erbe. …L’impresa della Semide e altre che ignoriamo formano quel capitolo introduttivo che manca alla storia dell’alpinismo nel quale avremmo letto come un mondo di pietre e di valli deserte acqui-stò un popolo e un’anima, quell’anima di cui sentiamo talvolta una vicina presenza, un richiamo sommesso.”Cfr. A.G. 1976, pag. 74

Ha salvato gli originari nomi locali che stavano per cadere nell’oblio“Di questi monti poco ne sanno i valligiani dei dintorni. Chiedendo il nome del più alto, nes-

suno, all’ infuori di un cacciatore di camosci da Patoc, seppe darmi indicazioni. Egli crede che gli antichi chiamassero questo monte Iovet blanc; ciò corrisponderebbe perché vi sono in quella montagna delle tacche bianche, da cui probabilmente ne sarà derivato il nome. Comunque sia questo bel nome gli deve essere conservato.”Cfr. A.G. 1929, pag. 35

Ha raccolto antiche saghe, come quella del Sart, patrimonio culturale di una piccola comunità alpina

“Ed ecco il vecchio a raccontarci innumerevoli leggende di questa valle. Una, quella che ri-guarda il monte Sart, mi è rimasta particolarmente impressa nella mente e voglio qui ridirla:“Teatro dell’azione è il grande circo roccioso fra la Punta Rob (Rop) e il contrafforte orientale del monte Sart. Lassù -molti e molti anni addietro - dicesi sia stato il miglior pascolo alpino di tutta la vallata: lassù

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crescevano le erbe alpine più saporose, e fiorivano le più belle piante; colà cresceva l’erba più molle in quantità fantastiche; e lassù perciò pascolavano indisturbati i più nobili animali alpini. Ma durante una notte tremenda le streghe giunsero lassù e distrussero l’oasi meravigliosa. Il loro spiri-to di distruzione giunse a tanto che delle vie per le quali si saliva lassù non una minima traccia più rimase. Ed allora i valligiani fin ad un certo punto le ricostruirono, ma le lastricarono con bianche pietre disposte a croce, per esorcizzare le streghe.Allorché sembrò ritornata la quiete, un ardito cacciatore del villaggio di Sotmedons osò risalire fin al circo sconvolto dalle streghe. Per tutto il giorno si aggirò nel circo, senza poter aggiustare neppure una fucilata.Quando ad un tratto inattesamente fu sorpreso dalla notte nel vallone delle streghe. Ed ecco farglisi addosso repentinamente uno stormo di streghe: le quali in un baleno ebbero sconvolto furiosamente il terreno tanto che egli in un batter d’occhio si trovò circondato da uno sterminato numero di crepacci, simili a bocche di lupo. Invano tentò egli di uscire da quel terribile labirinto di buche. Appena dopo due giorni, quando egli dopo lungo vagare ormai era caduto completa-mente esausto, e già era certo che l’ultima sua ora stava per suonare, il suo sguardo cadde su una di quelle croci di pietra collocate dai valligiani nel rifare il lastrico delle vie della montagna, e così trovò il modo di ritornare e di salvarsi.”Alpi Giulie, 1929, pag. 35

Una passione che guarda alla montagna da un punto di vista diverso da quello specialistico del grado.

E senza contrapporsi ad esso rende tuttavia evidente l’abuso di posizione dominate compiuto dall’industria culturale interamente sedotta dalla prestazione.

E per proseguire tranquillamente su questa linea non è sufficiente affidare un ruolo ancillare alla regina, cioè alla Natura, per salvarsi la coscienza e fare le anime belle.

Di questo si preoccupava Dougan allora, questo denunciano i suoi diari ora.

Dall’Album fotografico di Kugy, Chersi, Pollitzer regalato a Dougan:Come un grande condottiero dell’antichità vo-gliono morire in piedi. Non c’è leggenda eroica che parli di loro, che tramandi le loro gesta ai posteri. Senza nome e senza gloria, solitari nel combattimento, obliati nella morte, trapassano nei millenni della montagna.J.Kugy, Le Alpi Giulie attraverso le immagini, Ta-mari, Bologna, 1970, pag.44

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Il mare del tempo e il cantiere della memoria.

Una pagina d’album senza la sua immagine:l’opera demolitrice del tempo non è stata completata. È rimasta una traccia. La memo-ria inizia ad interrogarsi per restituire a quel piccolo segno un signifi cato che lo riattualiz-zi. Non per tornare al passato ma per vivere il presente con rinnovata intensità.

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La guida del Montasio del 1932Neg. Andrea Orlini

Flavio Ghio è nato a Trieste nel 1951. Lau-reato in fi losofi a, si è specializzato in meto-dologie autobiografi che presso la Libera Università dell’Autobiografi a di Anghiari. Alpinista, ha ripetuto diverse vie classiche, aperto alcune vie nuove, tra cui la via dei Fachiri alla Cima Scotoni seguendo Enzo Cozzolino, e arrampicato in solitaria.

Vladimiro Dougan

ALPI GIULIEAnno 112 - N. 2/2018

Poste Italiane S.p.A. - Spedizione in Abbo-namento Postale - Tariffa pubblicazioni in-formative no-profi t - DL 353/2003 conv. in L. 27/02/2004 n. 46 art. 1, comma 2, DBC Trieste.

DAI DIARI DI DOUGANL ’ A L P I N I S T A - I L S O L D A T O

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La guida del Montasio del 1932Neg. Andrea Orlini

Flavio Ghio è nato a Trieste nel 1951. Lau-reato in fi losofi a, si è specializzato in meto-dologie autobiografi che presso la Libera Università dell’Autobiografi a di Anghiari. Alpinista, ha ripetuto diverse vie classiche, aperto alcune vie nuove, tra cui la via dei Fachiri alla Cima Scotoni seguendo Enzo Cozzolino, e arrampicato in solitaria.

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