La vita è un palcoscenico Fornasetti CHRISTIAN BAHIER ET ...¨-un... · così s’intitola...

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n. 83 DOMENICA - 25 MARZO 2018 Il Sole 24 Ore 33 Tempo liberato La vita è un palcoscenico È sparito il mondo di chi frequentava le librerie non per bere il caffè e comprare i peluche. E sparisce anche il teatro che rompe schemi, spezza abitudini e disancora conformismi di Paola Mastrocola parade Il sipario realizzato da Pablo Picasso per il balletto su soggetto di Jean Cocteau (1917) La prima graphic novel di Bruno Bozzetto Bruno Bozzetto pubblicherà per Bao Publishing il suo primo graphic novel. Il libro intitolato «Minivip & Supervip - Il mistero del Via Vai», in uscita a giugno, è firmato dal leggendario fumettista milanese con il disegnatore francese Grégory Panaccione. Protagonisti dell’albo dai contorni ecologisti saranno i supereroi Minivip e Supervip - già protagonisti di un lungometraggio animato uscito 50 anni fa Fornasetti dialoga con l’antico mirabilia di Stefano Salis — paginette — S ono andata a teatro, qualche giorno fa. Dovrei dire sono tor- nata a teatro, dopo anni. È stato un vero shock: il teatro esiste an- cora. Attori sul palco, scenogra- fia, costumi, musiche. E attori che non si limitano a raccontare una storia o a leggere: recitano una parte, entrano in un personaggio e dicono le parole che il personaggio deve dire, in tempo reale, in consonanza alla situazione in cui è immer- so in quel preciso momento. In una parola, rappresentano! Lo so che il teatro ha continuato a esiste- re anche se io non ci ho messo piede per an- ni e che, almeno nei Teatri Stabili, ha conti- nuato a esistere in quella sua forma tradi- zionale e classica di teatro che è la rappre- sentazione. Però intanto, intorno, negli anni, teatro è diventato tutto: danza, mimo, soprattutto narrazione, reading… E a que- sto ci siamo abituati, a un teatro che è lettu- ra e racconto, non rappresentazione. Di qui la mia sorpresa, giorni fa. Una cosa è dire a teatro: Giovanni e Tere- sa s’incontrarono un mattino di maggio; e un’altra è “far vedere” in scena Giovanni e Teresa che s’incontrano, i gesti che fanno, le parole che si dicono; “far vedere”, anche, per quanto è possibile, in modo scenico, che è mattino ed è maggio. In quest’epoca di assurda egemonia to- tale della narrativa, abbiamo accettato che anche il teatro sia soltanto una delle possi- bili forme di narrazione. Il teatro ci «mette davanti» a un’azione, invece di raccontarcela. E ci mette davanti all’azione che deliberatamente vuole che ci stia davanti. Nulla è casuale o indifferente; tutto è voluto, studiato apposta per noi spet- tatori: per questo il teatro è sempre politico. Espressione della polis, di una comunità. A teatro si va apposta per guardare, spectare. Ma per guardare qualcosa che è stato composto per un fine: per dirci qual- cosa di specifico e preciso che riguarda tutti noi come esseri umani, e in particolare noi esseri umani riuniti in una collettività, per esempio una città. Si va a teatro per vedere se stessi rappresentati. Se stessi in uno specchio. Non è come «guardare» la televisione, che è fatta non per metterci davanti a uno specchio, ma esattamente al contrario per intrattenerci, per farci uscire da noi stessi. E nemmeno è come «guardare» diretta- mente una rissa al bar, o un incidente stra- dale. Lì non c’è finzione, è davvero un pezzo di vita, in cui siamo capitati per puro caso, senza un senso, senza un fine che ci abbia previsti. A teatro invece è tutto finto, e la finzione è necessaria affinché si attivi il no- stro sguardo interiore. *** il teatro è parola È vero, è anche movimento, danza, musica, scenografia, costumi. Può essere anche so- lo una di queste cose. Solo gesto, per esem- pio. D’accordo. Ma essenzialmente, origi- nariamente, è parola. Un tempo lo era per- fettamente, solo parola. L’attore se ne stava quasi immobile al centro della scena. Anzi, il suo costume doveva assomigliare il più possibile a una marmorea colonna, la stof- fa della tunica doveva fare pieghe che ricor- dassero le scanalature delle colonne che reggevano i templi. E sul viso c’era una ma- schera con una sola espressione, tragica o comica. Abolito il viso e tutte le sue infinite sfumature di senso che l’attore riesce a dar- gli. Zero. Solo parola. Grandi autori che scrivevano parole per il teatro, perché il te- atro fosse parola. Dunque a teatro, se teatro è rappresenta- zione e sguardo e parola, si va a “guardare le parole”. Mi piace, come definizione. Guar- dare le parole che esseri umani come noi si dicono, quando sono coinvolti in una certa situazione: moglie e marito che litigano, un padre che perde un figlio, un figlio che ven- dica il padre. C’è un innato senso politico, nel teatro. In origine era il governo della città che offri- va ai cittadini una serie di spettacoli in cui potessero guardare-guardarsi: rispec- chiarsi; e anche imparare qualcosa di sé in quanto esseri umani. Ma l’abbiamo perso, questo senso politico. Gabriele Lavia ha scritto ultimamente un libro per dire il suo amore per il teatro, e per i classici. A un certo punto scrive: «Ognuno viene a teatro per ragioni diverse: cultura, svago, moda, noia. L’unica certez- za è che nessuno viene per la sola ragione per la quale il teatro è stato inventato: ve- dersi rappresentato». *** il teatro espressione della polis Vorrei che il teatro tornasse a essere politi- co. Naturalmente, politico com’era una volta. Espressione della polis. Il modo mi- gliore che i governanti avevano di parlare al popolo. Oggi invece il modo sono i talk show. Pensate un po’, una volta erano i poe- ti, i filosofi, i tragediografi. Perché oggi non si potrebbe riprovare? Il popolo non po- trebbe andare normalmente a teatro? Per- ché non ci va? Non ci va perché va alle partite di calcio? O ai concerti delle pop star? O sta a casa a chat- tare, a guardare video, film o serie televisive scaricandosele da internet? Sky? Netflix? *** se l’autore è un classico Se vuoi essere contemporaneo leggi i classici: così s’intitola l’ultimo libro di Lavia di cui dicevo (Piemme, 2017).In questo libro La- via parla dei classici, dei suoi classici, quelli che ha letto, amato, rappresentato per una vita: Shakespeare, Cechov, Sofocle, Mo- lière, Goethe, Dovstoevskij… Dice anche perché si dovrebbero ancora leggere i clas- sici. Prova a dirlo, collocandosi così nella lunga scia di tutti gli autori che ci hanno va- namente provato. Nessuno può veramente dire che cosa sia un classico e perché mai si dovrebbe continuare a leggerlo. Calvino al- la fine del suo saggio concluse solo così, che era meglio leggere i classici che non legger- li. Il punto centrale di quel che scrive Lavia a me pare sia che, intanto, è classico l’autore e non l’opera. Ed è classico l’autore che scen- de in se stesso, entra nel profondo della sua anima. Scendere. Nel sottosuolo, nel leta- maio, nelle zone più oscure e degradate dell’anima umana e del mondo. Un classico ci conduce a «scendere». Ed è per questo che leggiamo ormai molto poco i classici. «È chiaro – scrive Lavia - che nella moderna civiltà dell’immagine molto di “noi stessi” si trova proiettato all’infuori di noi, per cui “noi” non siamo più totalmente ’noi stessi’. Tutti imitano tutti: a partire dal- la moda, dalle mode, dai modi. Vogliamo essere, appunto, “moderni”. Bisogna però sforzarsi di trovare l’istante della propria ipseità, della se-stessità e questo è “con- temporaneo”» (p. 43). Sarebbe bello farlo, questo sforzo. E pro- prio attraverso il teatro visto che nulla più del teatro è «istante», perché in-sta: davan- ti agli occhi, appunto. Ma bisogna essere capaci di guardarsi. Di vedersi rappresen- tati. Bisogna averne voglia, avere questa di- mestichezza con la propria interiorità, l’abitudine all’intro-spezione. Spectare in- tus. Ritrovare l’uomo interiore. Difficile. I classici ci mettono in crisi, ci fanno sentire «a disagio nel mondo». I libri che scriviamo e leggiamo oggi no. Lavia di- ce: “Quando oggi uno gira per una libreria e apre a caso un saggio o un romanzo, anche di successo, e ne legge un paio di pagine, si accorge che non succede nulla, che non c’è scritto niente che lo metta in crisi o gli pro- vochi alcunché. La sua vita non cambia, il suo pensiero non muta. Se invece apre a ca- so Molière, troverà sicuramente qualcosa che potrà cambiare la sua vita, smuovendo le sue certezze” (p. 20). Il libro di Lavia ci mette in crisi, a sua vol- ta. Come lettori e innanzi tutto come scrit- tori, dal momento che scriviamo (e leggia- mo) libri che non cambiano, non spostano, non «smuovono». Siamo, tutti quanti, insi- gnificanti. «In ogni lettura classica c’è sem- pre una balena bianca che dobbiamo cerca- re, da cui lasciarsi trascinare fin giù, nel profondo» (pag. 32). Nei nostri libri di oggi non c’è più nessuna balena bianca. *** il padre Lo spettacolo che sono andata a vedere è Il padre di Strindberg, e la regia è proprio di Gabriele Lavia. Con Gabriele Lavia nella parte del Padre e Federica Di Martino nella parte della Moglie. Ne sono uscita come tra- volta da una forza dirompente. Il testo di Strindberg è un’accusa all’autoritarismo dei padri che diventa subito l’esatto contra- rio: un’accusa all’egemonico e distruttivo potere delle donne. La più commovente di- fesa che io abbia mai visto di quella giusta autorità dei padri che è andata oggi com- pletamente perduta, dissolta nell’aria, di- spersa chissà dove. Il padre vorrebbe man- dar la figlia a studiare fuori di casa, la madre vorrebbe che coltivasse in pace le sue vellei- tà artistiche. Lei si ribella al dispotismo di lui instillandogli il dubbio di non essere il padre, e conducendolo così alla follia. Cata- pultato nel nostro oggi, questo testo di Strindberg ci mostra quanto oggi le donne abbiano contribuito a indebolire, ridicoliz- zare, emarginare il ruolo del padre nella fa- miglia, il senso dell’essere maschile nella vita affettiva. Non so se sia l’idea di Strind- berg, la regia di Lavia o la mia personale let- tura. Ma mi è sembrato un testo in difesa degli uomini, in un tempo in cui si difendo- no sempre e soltanto le donne. Bizzarro, no? Molto in controtendenza, direi. Ma ben venga. Proprio per questo vorrei che il tea- tro fosse ancora appieno nelle nostre vite: perché rompe schemi, spezza abitudini, di- sancora conformismi. Più di un romanzo, che è solo racconto. Il teatro può di più, per- ché mette le cose davanti ai nostri occhi. *** il teatro popolare Cosa dovremmo fare per riportare il teatro e i classici dentro la vita della gente? I due partiti più populisti del nostro attuale mon- do, M5S e Lega, che sembrano così vicini al popolo e così legati alla (nella) rete, cosa pensano di fare rispetto al teatro? C’è qual- cosa nei loro programmi che riguarda il te- atro? Cosa potrebbero fare per far rinascere un teatro popolare «naturalmente politi- co» com’era il teatro tragico in Grecia? Si potrebbe, per esempio, per un anno so- spendere le partite di calcio? E oscurare la rete? Solo un anno. Per prova. Per vedere se così, in tale vuoto di mode e presunte «mo- dernità», il teatro avrebbe una chance di ri- tornare. O almeno di non estinguersi. So- prattutto per vedere se, attraverso il teatro che ci fa da specchio e ci affonda in quel che siamo portandoci nel nostro personale «sottosuolo», diventeremmo migliori: più profondi, più sprofondati in noi, nella no- stra essenza di esseri umani, recuperando finalmente un senso. Se queste forze politi- che fossero davvero così vicine al popolo, dovrebbero tentare. L’altro giorno a teatro ho visto un pubbli- co la cui età media era sui sessant’anni. For- se perché era domenica pomeriggio. Ma non vorrei che, estinti noi, le platee restas- sero vuote. Andare a teatro dovrebbe esse- re la norma, nella vita quotidiana. Ma non saprei in che altro modo favorire tale nor- ma se non azzerando il resto, o almeno ri- ducendolo. Sono convinta che certi generi (letterari, artistici) siano morti solo perché sommersi da troppo altro. È l’eccesso di of- ferta che porta all’estinzione: non ci può stare tutto, nel mondo, nella nostra vita. Non abbiamo uno spazio infinito a nostra disposizione, siamo armadi che straborda- no. O facciamo una cosa o ne facciamo un’altra, o andiamo in un posto o andiamo in un altro. Il nostro problema è l’eccesso. L’accumulo, il troppo pieno. Troppe cose, troppe varianti di una cosa, troppe alterna- tive: birilli che finiscono per buttarsi giù a vicenda. Per questo bisognerebbe sceglie- re, decidere cosa vogliamo. Sono andata a cercare Il padre di Strind- berg in libreria. Non l’ho trovato. Se va bene ci sono tre mensoline dedicate al teatro, nelle grandi librerie. Chi legge più opere te- atrali? Eppure i testi scritti per il teatro han- no una loro piena leggibilità, anche se sono nati per essere recitati in scena. C’è un pia- cere che chiamerei immaginifico, nel leg- gere teatro: il piacere di immaginarsi le pa- role sul palco, in bocca ai personaggi, farle risuonare nella propria camera interiore, aprendo il sipario dell’anima. Una volta lo facevamo, era bello. In compenso oggi nelle librerie troviamo biscotti, vino, matite, pennarelli, porta- chiavi, pennelli, peluche, tazzoni dipinti e teli da mare. Siamo reduci di un mondo sparito? © RIPRODUZIONE RISERVATA CHRISTIAN BAHIER ET PHILIPPE MIGEAT - CENTRE POMPIDOU

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n. 83 DOMENICA - 25 MARZO 2018 Il Sole 24 Ore 33

Tempo liberato

La vita è un palcoscenico

È sparito il mondo di chi frequentava le librerienon per bere il caffè e comprare i peluche.E sparisce anche il teatro che rompe schemi,spezza abitudini e disancora conformismi

di Paola Mastrocola

parade Il sipario realizzato da Pablo Picasso per il balletto su soggetto di Jean Cocteau (1917)

La prima graphic novel di Bruno BozzettoBruno Bozzetto pubblicherà per Bao Publishing il suo primo graphic novel. Il libro intitolato «Minivip & Supervip - Il mistero del Via Vai», in uscita a giugno, è firmato dal leggendario fumettista milanese con il disegnatore francese Grégory Panaccione. Protagonisti dell’albo dai contorni ecologisti saranno i supereroi Minivip e Supervip - già protagonisti di un lungometraggio animato uscito 50 anni fa

Fornasettidialogacon l’antico

mirabiliadi Stefano Salis

— paginette —

Sono andata a teatro, qualchegiorno fa. Dovrei dire sono tor-nata a teatro, dopo anni. È statoun vero shock: il teatro esiste an-cora. Attori sul palco, scenogra-fia, costumi, musiche. E attori

che non si limitano a raccontare una storiao a leggere: recitano una parte, entrano inun personaggio e dicono le parole che ilpersonaggio deve dire, in tempo reale, inconsonanza alla situazione in cui è immer-so in quel preciso momento. In una parola,rappresentano!

Lo so che il teatro ha continuato a esiste-re anche se io non ci ho messo piede per an-ni e che, almeno nei Teatri Stabili, ha conti-nuato a esistere in quella sua forma tradi-zionale e classica di teatro che è la rappre-sentazione. Però intanto, intorno, neglianni, teatro è diventato tutto: danza, mimo,soprattutto narrazione, reading… E a que-sto ci siamo abituati, a un teatro che è lettu-ra e racconto, non rappresentazione. Di quila mia sorpresa, giorni fa.

Una cosa è dire a teatro: Giovanni e Tere-sa s’incontrarono un mattino di maggio; eun’altra è “far vedere” in scena Giovanni eTeresa che s’incontrano, i gesti che fanno,le parole che si dicono; “far vedere”, anche,per quanto è possibile, in modo scenico,che è mattino ed è maggio.

In quest’epoca di assurda egemonia to-tale della narrativa, abbiamo accettato cheanche il teatro sia soltanto una delle possi-bili forme di narrazione.

Il teatro ci «mette davanti» a un’azione,invece di raccontarcela. E ci mette davantiall’azione che deliberatamente vuole che cistia davanti. Nulla è casuale o indifferente;tutto è voluto, studiato apposta per noi spet-tatori: per questo il teatro è sempre politico.Espressione della polis, di una comunità.

A teatro si va apposta per guardare,spectare. Ma per guardare qualcosa che èstato composto per un fine: per dirci qual-cosa di specifico e preciso che riguarda tuttinoi come esseri umani, e in particolare noiesseri umani riuniti in una collettività, peresempio una città. Si va a teatro per vederese stessi rappresentati. Se stessi in unospecchio.

Non è come «guardare» la televisione,che è fatta non per metterci davanti a unospecchio, ma esattamente al contrario perintrattenerci, per farci uscire da noi stessi.E nemmeno è come «guardare» diretta-mente una rissa al bar, o un incidente stra-dale. Lì non c’è finzione, è davvero un pezzodi vita, in cui siamo capitati per puro caso,senza un senso, senza un fine che ci abbiaprevisti. A teatro invece è tutto finto, e lafinzione è necessaria affinché si attivi il no-stro sguardo interiore.

***il teatro è parola

È vero, è anche movimento, danza, musica,scenografia, costumi. Può essere anche so-lo una di queste cose. Solo gesto, per esem-

pio. D’accordo. Ma essenzialmente, origi-nariamente, è parola. Un tempo lo era per-fettamente, solo parola. L’attore se ne stavaquasi immobile al centro della scena. Anzi,il suo costume doveva assomigliare il piùpossibile a una marmorea colonna, la stof-fa della tunica doveva fare pieghe che ricor-dassero le scanalature delle colonne che reggevano i templi. E sul viso c’era una ma-schera con una sola espressione, tragica ocomica. Abolito il viso e tutte le sue infinitesfumature di senso che l’attore riesce a dar-gli. Zero. Solo parola. Grandi autori chescrivevano parole per il teatro, perché il te-atro fosse parola.

Dunque a teatro, se teatro è rappresenta-zione e sguardo e parola, si va a “guardare leparole”. Mi piace, come definizione. Guar-dare le parole che esseri umani come noi sidicono, quando sono coinvolti in una certasituazione: moglie e marito che litigano, unpadre che perde un figlio, un figlio che ven-dica il padre.

C’è un innato senso politico, nel teatro.In origine era il governo della città che offri-va ai cittadini una serie di spettacoli in cuipotessero guardare-guardarsi: rispec-chiarsi; e anche imparare qualcosa di sé inquanto esseri umani. Ma l’abbiamo perso,questo senso politico.

Gabriele Lavia ha scritto ultimamenteun libro per dire il suo amore per il teatro, eper i classici. A un certo punto scrive:«Ognuno viene a teatro per ragioni diverse:cultura, svago, moda, noia. L’unica certez-za è che nessuno viene per la sola ragioneper la quale il teatro è stato inventato: ve-dersi rappresentato».

***il teatro espressione

della polisVorrei che il teatro tornasse a essere politi-co. Naturalmente, politico com’era una volta. Espressione della polis. Il modo mi-gliore che i governanti avevano di parlare alpopolo. Oggi invece il modo sono i talkshow. Pensate un po’, una volta erano i poe-ti, i filosofi, i tragediografi. Perché oggi nonsi potrebbe riprovare? Il popolo non po-trebbe andare normalmente a teatro? Per-ché non ci va?

Non ci va perché va alle partite di calcio? Oai concerti delle pop star? O sta a casa a chat-tare, a guardare video, film o serie televisivescaricandosele da internet? Sky? Netflix?

***se l’autore è un classico

Se vuoi essere contemporaneo leggi i classici:così s’intitola l’ultimo libro di Lavia di cuidicevo (Piemme, 2017).In questo libro La-via parla dei classici, dei suoi classici, quelliche ha letto, amato, rappresentato per unavita: Shakespeare, Cechov, Sofocle, Mo-lière, Goethe, Dovstoevskij… Dice ancheperché si dovrebbero ancora leggere i clas-sici. Prova a dirlo, collocandosi così nellalunga scia di tutti gli autori che ci hanno va-

namente provato. Nessuno può veramentedire che cosa sia un classico e perché mai sidovrebbe continuare a leggerlo. Calvino al-la fine del suo saggio concluse solo così, cheera meglio leggere i classici che non legger-li.

Il punto centrale di quel che scrive Lavia ame pare sia che, intanto, è classico l’autore enon l’opera. Ed è classico l’autore che scen-de in se stesso, entra nel profondo della suaanima. Scendere. Nel sottosuolo, nel leta-maio, nelle zone più oscure e degradatedell’anima umana e del mondo.

Un classico ci conduce a «scendere». Ed èper questo che leggiamo ormai molto pocoi classici. «È chiaro – scrive Lavia - che nellamoderna civiltà dell’immagine molto di“noi stessi” si trova proiettato all’infuori dinoi, per cui “noi” non siamo più totalmente’noi stessi’. Tutti imitano tutti: a partire dal-la moda, dalle mode, dai modi. Vogliamoessere, appunto, “moderni”. Bisogna peròsforzarsi di trovare l’istante della propriaipseità, della se-stessità e questo è “con-temporaneo”» (p. 43).

Sarebbe bello farlo, questo sforzo. E pro-prio attraverso il teatro visto che nulla piùdel teatro è «istante», perché in-sta: davan-ti agli occhi, appunto. Ma bisogna esserecapaci di guardarsi. Di vedersi rappresen-tati. Bisogna averne voglia, avere questa di-mestichezza con la propria interiorità,l’abitudine all’intro-spezione. Spectare in-tus. Ritrovare l’uomo interiore.

Difficile. I classici ci mettono in crisi, cifanno sentire «a disagio nel mondo». I libriche scriviamo e leggiamo oggi no. Lavia di-ce: “Quando oggi uno gira per una libreria eapre a caso un saggio o un romanzo, anchedi successo, e ne legge un paio di pagine, siaccorge che non succede nulla, che non c’èscritto niente che lo metta in crisi o gli pro-vochi alcunché. La sua vita non cambia, ilsuo pensiero non muta. Se invece apre a ca-so Molière, troverà sicuramente qualcosache potrà cambiare la sua vita, smuovendole sue certezze” (p. 20).

Il libro di Lavia ci mette in crisi, a sua vol-ta. Come lettori e innanzi tutto come scrit-tori, dal momento che scriviamo (e leggia-mo) libri che non cambiano, non spostano,non «smuovono». Siamo, tutti quanti, insi-gnificanti. «In ogni lettura classica c’è sem-pre una balena bianca che dobbiamo cerca-re, da cui lasciarsi trascinare fin giù, nelprofondo» (pag. 32). Nei nostri libri di ogginon c’è più nessuna balena bianca.

***il padre

Lo spettacolo che sono andata a vedere è Ilpadre di Strindberg, e la regia è proprio diGabriele Lavia. Con Gabriele Lavia nella parte del Padre e Federica Di Martino nellaparte della Moglie. Ne sono uscita come tra-volta da una forza dirompente. Il testo diStrindberg è un’accusa all’autoritarismodei padri che diventa subito l’esatto contra-rio: un’accusa all’egemonico e distruttivopotere delle donne. La più commovente di-fesa che io abbia mai visto di quella giustaautorità dei padri che è andata oggi com-pletamente perduta, dissolta nell’aria, di-spersa chissà dove. Il padre vorrebbe man-dar la figlia a studiare fuori di casa, la madrevorrebbe che coltivasse in pace le sue vellei-tà artistiche. Lei si ribella al dispotismo dilui instillandogli il dubbio di non essere ilpadre, e conducendolo così alla follia. Cata-pultato nel nostro oggi, questo testo diStrindberg ci mostra quanto oggi le donneabbiano contribuito a indebolire, ridicoliz-zare, emarginare il ruolo del padre nella fa-

miglia, il senso dell’essere maschile nella vita affettiva. Non so se sia l’idea di Strind-berg, la regia di Lavia o la mia personale let-tura. Ma mi è sembrato un testo in difesadegli uomini, in un tempo in cui si difendo-no sempre e soltanto le donne. Bizzarro,no? Molto in controtendenza, direi. Ma benvenga. Proprio per questo vorrei che il tea-tro fosse ancora appieno nelle nostre vite:perché rompe schemi, spezza abitudini, di-sancora conformismi. Più di un romanzo,che è solo racconto. Il teatro può di più, per-ché mette le cose davanti ai nostri occhi.

***il teatro popolare

Cosa dovremmo fare per riportare il teatroe i classici dentro la vita della gente? I duepartiti più populisti del nostro attuale mon-do, M5S e Lega, che sembrano così vicini alpopolo e così legati alla (nella) rete, cosapensano di fare rispetto al teatro? C’è qual-cosa nei loro programmi che riguarda il te-atro? Cosa potrebbero fare per far rinascereun teatro popolare «naturalmente politi-co» com’era il teatro tragico in Grecia? Sipotrebbe, per esempio, per un anno so-spendere le partite di calcio? E oscurare larete? Solo un anno. Per prova. Per vedere secosì, in tale vuoto di mode e presunte «mo-dernità», il teatro avrebbe una chance di ri-tornare. O almeno di non estinguersi. So-prattutto per vedere se, attraverso il teatroche ci fa da specchio e ci affonda in quel chesiamo portandoci nel nostro personale «sottosuolo», diventeremmo migliori: piùprofondi, più sprofondati in noi, nella no-stra essenza di esseri umani, recuperandofinalmente un senso. Se queste forze politi-che fossero davvero così vicine al popolo,dovrebbero tentare.

L’altro giorno a teatro ho visto un pubbli-co la cui età media era sui sessant’anni. For-se perché era domenica pomeriggio. Manon vorrei che, estinti noi, le platee restas-sero vuote. Andare a teatro dovrebbe esse-re la norma, nella vita quotidiana. Ma nonsaprei in che altro modo favorire tale nor-ma se non azzerando il resto, o almeno ri-ducendolo. Sono convinta che certi generi(letterari, artistici) siano morti solo perchésommersi da troppo altro. È l’eccesso di of-ferta che porta all’estinzione: non ci può stare tutto, nel mondo, nella nostra vita.Non abbiamo uno spazio infinito a nostradisposizione, siamo armadi che straborda-no. O facciamo una cosa o ne facciamoun’altra, o andiamo in un posto o andiamoin un altro. Il nostro problema è l’eccesso.L’accumulo, il troppo pieno. Troppe cose,troppe varianti di una cosa, troppe alterna-tive: birilli che finiscono per buttarsi giù avicenda. Per questo bisognerebbe sceglie-re, decidere cosa vogliamo.

Sono andata a cercare Il padre di Strind-berg in libreria. Non l’ho trovato. Se va beneci sono tre mensoline dedicate al teatro,nelle grandi librerie. Chi legge più opere te-atrali? Eppure i testi scritti per il teatro han-no una loro piena leggibilità, anche se sononati per essere recitati in scena. C’è un pia-cere che chiamerei immaginifico, nel leg-gere teatro: il piacere di immaginarsi le pa-role sul palco, in bocca ai personaggi, farlerisuonare nella propria camera interiore,aprendo il sipario dell’anima. Una volta lofacevamo, era bello.

In compenso oggi nelle librerie troviamobiscotti, vino, matite, pennarelli, porta-chiavi, pennelli, peluche, tazzoni dipinti eteli da mare.

Siamo reduci di un mondo sparito?© RIPRODUZIONE RISERVATA

CHRISTIAN BAHIER ET PHILIPPE MIGEAT ­ CENTRE POMPIDOU