la vendemmia - testo e foto - Annibale...

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Annibale Formica Quando la vendemmia era una festa 1 Le poche vigne rimaste sono state vendemmiate. Neanche una festa, però, per queste vendemmie, come era, invece, nel tempo in cui si viveva nelle campagne una straordinaria atmosfera di allegria legata al periodo della raccolta dell’uva. Sono le vigne “relitte” di una civiltà contadina viva e vegeta a San Paolo Albanese negli anni ’50 e ’60 e ancora negli anni ’70 e un po’ anche negli anni ’80. Quelle di oggi pare siano rimaste a testimoniare vicende remote di una vita di comunità, che intorno alla vigna, alla vite, all’uva, alla vendemmia aveva costruito un momento fondamentale dell’esistenza di ciascuna famiglia. Ogni famiglia aveva una vigna e in ogni casa c’era un tino e una botte. E ad ogni vendemmia in ogni famiglia si faceva una piccola festa; era un raduno di tutti i parenti, prima impegnati nel lavoro di taglio dei grappoli e di pulitura e di selezione degli acini, di raccolta dell’uva nelle ceste e di trasporto con gli sportoni, a dorso di asino, dalla campagna alla cantina, poi seduti attorno all’affollata mensa, imbandita per l’occasione, per godere di una buona minestra e del vino dell’annata passata. Rassicurati ed appagati dalla vendemmia, avvolti da odori, da fumi e dal loro stesso vociare, lasciavano che i bambini più piccoli, a piedi nudi puliti a dovere, eccitatissimi saltassero festanti nel gran gioco della pigiatura delle uve nel tino. Dalla vendemmia alla vinificazione, all’ebbrezza di una ubriacatura, scorre una metafora lunga quanto l’intero vissuto di una vita contadina ormai perduta, che rivive a stento in un paesaggio abbandonato dall’uomo, 1 Articolo pubblicato su il Quotidiano della Basilicata del 9 dicembre 2012

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  • Annibale Formica

    Quando la vendemmia era una festa1

    Le poche vigne rimaste sono state vendemmiate. Neanche una festa, però, per queste vendemmie, come era, invece, nel tempo in cui si viveva nelle campagne una straordinaria atmosfera di allegria legata al periodo della raccolta dell’uva. Sono le vigne “relitte” di una civiltà contadina viva e vegeta a San Paolo Albanese negli anni ’50 e ’60 e ancora negli anni ’70 e un po’ anche negli anni ’80. Quelle di oggi pare siano rimaste a testimoniare vicende remote di una vita di comunità, che intorno alla vigna, alla vite, all’uva, alla vendemmia aveva costruito un momento fondamentale dell’esistenza di ciascuna famiglia. Ogni famiglia aveva una vigna e in ogni casa c’era un tino e una botte.

    E ad ogni vendemmia in ogni famiglia si faceva una piccola festa; era un raduno di tutti i parenti, prima impegnati nel lavoro di taglio dei grappoli e di pulitura e di selezione degli acini, di raccolta dell’uva nelle ceste e di trasporto con gli sportoni, a dorso di asino, dalla campagna alla cantina, poi seduti attorno all’affollata mensa, imbandita per l’occasione, per godere di una buona minestra e del vino dell’annata passata. Rassicurati ed appagati dalla vendemmia, avvolti da odori, da fumi e dal loro stesso vociare, lasciavano che i bambini più piccoli, a piedi nudi puliti a dovere, eccitatissimi saltassero festanti nel gran gioco della pigiatura delle uve nel tino. Dalla vendemmia alla vinificazione, all’ebbrezza di una ubriacatura, scorre una metafora lunga quanto l’intero vissuto di una vita contadina ormai perduta, che rivive a stento in un paesaggio abbandonato dall’uomo,

                                                                                                                             1  Articolo pubblicato su il Quotidiano della Basilicata del 9 dicembre 2012

  • remoto nel tempo, indebolito nel suo valore di trama sociale, carico solo dei ricordi delle persone anziane, come i ricordi dei suoni dei vecchi attrezzi agricoli, del raglio dell’asino, del canto del gallo, delle campane a festa. Nel paesaggio, che si va sempre più inselvatichendo, le siepi di rovi e di arbusti, che ancora tracciano i confini dei vecchi poderi, sono sovrastate dai tentacoli rampicanti di viti sopravvissute ai tagli di alcuni decenni fa, incentivati da miseri contributi pubblici erogati da dissennate politiche agricole comunitarie, che hanno distrutto le vigne, il paesaggio agrario, la biodiversità e la trama sociale e culturale costruita nei millenni precedenti.

    Da quei rampicanti pendono, quest’anno, abbondanti grappoli di uva nera, che con la loro coraggiosa vitalità sembrano difendersi dall’oblio, reclamare attenzione e invocare salvezza, in nome dei tanti principi attivi che conservano per la sopravvivenza umana. La vite, infatti, è quella pianta di antichissima origine, presente nei nostri territori da milioni di anni, che ha accompagnato e poi tramandato nel tempo civiltà come quella dei sumeri, degli egiziani, dei greci, degli etruschi.

  • “Ogni cosa alla sua stagione”2, cito il libro di Enzo Bianchi. Nel capitolo de “i giorni degli aromi”, nella “lode al vino” Enzo Bianchi ci aiuta a ricordare che: “vite, vigna, vino sono parole che, pronunciate, suonano sempre come un canto, anche quando dicono fatica, lavoro, attesa: nella Bibbia come ancora oggi nella nostra vita quotidiana sono termini metaforici che significano e indicano sempre realtà bisognose di rapporti, di relazioni, di alleanza: tra l’uomo e la terra, tra l’uomo e Dio, tra l’uomo e la donna, tra l’uomo e l’amico”. Mentre alla festa del Salone del Gusto- Terra Madre, in questi giorni a Torino, si celebra “il cibo che salva la terra”, ci fa bene riflettere sul monito di Zygmunt Bauman: “oltre alla morte stiamo smettendo di pensare a tutti i valori di lungo termine”.

                                                                                                                             2  E. Bianchi, Ogni cosa alla sua stagione, G. Einaudi ed., Torino, 2010