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1 LA TRASPARENZA DELL’ATTO AMMINISTRATIVO 1. La disciplina del procedimento prima della Legge 241/90 Nel nostro ordinamento la Pubblica Amministrazione non agisce ponendosi sullo stesso piano dei soggetti privati, al contrario di altri ordinamenti come quello anglosassone, ma fa ricorso (anche) a strumenti autoritativi. Questa circostanza ha determinato, fin dai primi anni successivi all’unificazione del paese, la necessità di creare meccanismi atti a garantire il cittadino di fronte all’uso di questo potere amministrativo. Un potere (pubblico o privato che sia) in tanto può essere assoggettato a controllo in quanto venga “procedimentalizzato”, venga cioè sottoposto a regole precise nel suo esercizio il cui rispetto diventi condizione di legittimità. Ma prima dell’emanazione della Legge 7 agosto 1990, n. 241 (nel testo: legge 241), vale a dire per oltre un secolo dall’unificazione italiana, non esisteva nel nostro ordinamento una normativa generale sul procedimento amministrativo, anche se la legge 25 giugno 1865, n. 2359, in materia di espropriazione previde la necessità di una concatenazione di atti affinché un bene appartenente ad un privato passasse coattivamente nelle mani di una Pubblica Amministrazione. In questa concatenazione erano previsti diversi passaggi amministrativi, quali ad esempio le comunicazioni, che consistevano in attività preparatorie rispetto all’effetto ablativo finale ed erano privi dei caratteri tipici del provvedimento, vale a dire l’autoritarietà (capacità di intervenire in una sfera soggettiva altrui anche in assenza di consenso del destinatario) e l’efficacia (creazione di un effetto permanente in conseguenza dell’emanazione del provvedimento). Questa normativa era posta a tutela di un interesse legittimo “oppositivo”, caratterizzato dal fatto che un soggetto privato (nel nostro caso il proprietario del fondo da espropriare) si oppone a che l’Amministrazione lo privi di un suo bene. L’espropriazione venne sottoposta a vincoli procedurali, all’interno di uno schema garantistico per il destinatario, a causa della rilevanza che, all’epoca, assumeva il diritto di proprietà. Il successivo emergere dell’interesse pretensivo, caratterizzato dalla pretesa del privato a che l’Amministrazione ampli la sua posizione giuridica con una concessione, un beneficio economico ecc., portò alla formazione delle basi per la disciplina complessiva del procedimento amministrativo. Avendo l’interesse legittimo perduto il carattere esclusivo di opposizione al potere di supremazia della Pubblica Amministrazione, la subordinazione del privato a quest’ultima venne ad attenuarsi, con la conseguenza che la partecipazione allo svolgersi del procedimento amministrativo cominciò ad essere richiesta non più, soltanto,

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LA TRASPARENZA DELL’ATTO AMMINISTRATIVO 1. La disciplina del procedimento prima della Legge 241/90 Nel nostro ordinamento la Pubblica Amministrazione non agisce ponendosi sullo stesso piano dei soggetti privati, al contrario di altri ordinamenti come quello anglosassone, ma fa ricorso (anche) a strumenti autoritativi. Questa circostanza ha determinato, fin dai primi anni successivi all’unificazione del paese, la necessità di creare meccanismi atti a garantire il cittadino di fronte all’uso di questo potere amministrativo. Un potere (pubblico o privato che sia) in tanto può essere assoggettato a controllo in quanto venga “procedimentalizzato”, venga cioè sottoposto a regole precise nel suo esercizio il cui rispetto diventi condizione di legittimità. Ma prima dell’emanazione della Legge 7 agosto 1990, n. 241 (nel testo: legge 241), vale a dire per oltre un secolo dall’unificazione italiana, non esisteva nel nostro ordinamento una normativa generale sul procedimento amministrativo, anche se la legge 25 giugno 1865, n. 2359, in materia di espropriazione previde la necessità di una concatenazione di atti affinché un bene appartenente ad un privato passasse coattivamente nelle mani di una Pubblica Amministrazione. In questa concatenazione erano previsti diversi passaggi amministrativi, quali ad esempio le comunicazioni, che consistevano in attività preparatorie rispetto all’effetto ablativo finale ed erano privi dei caratteri tipici del provvedimento, vale a dire l’autoritarietà (capacità di intervenire in una sfera soggettiva altrui anche in assenza di consenso del destinatario) e l’efficacia (creazione di un effetto permanente in conseguenza dell’emanazione del provvedimento). Questa normativa era posta a tutela di un interesse legittimo “oppositivo”, caratterizzato dal fatto che un soggetto privato (nel nostro caso il proprietario del fondo da espropriare) si oppone a che l’Amministrazione lo privi di un suo bene. L’espropriazione venne sottoposta a vincoli procedurali, all’interno di uno schema garantistico per il destinatario, a causa della rilevanza che, all’epoca, assumeva il diritto di proprietà. Il successivo emergere dell’interesse pretensivo, caratterizzato dalla pretesa del privato a che l’Amministrazione ampli la sua posizione giuridica con una concessione, un beneficio economico ecc., portò alla formazione delle basi per la disciplina complessiva del procedimento amministrativo. Avendo l’interesse legittimo perduto il carattere esclusivo di opposizione al potere di supremazia della Pubblica Amministrazione, la subordinazione del privato a quest’ultima venne ad attenuarsi, con la conseguenza che la partecipazione allo svolgersi del procedimento amministrativo cominciò ad essere richiesta non più, soltanto,

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nell’evitare la perdita di un bene, ma per vedere realizzato un certo assetto complessivo di interessi ad opera dell’azione amministrativa. In questo senso, l’emanazione della Legge 241 non è solo l’esito di una evoluzione ordinamentale o dell’applicazione piena delle norme costituzionali, ma sancisce soprattutto un mutamento della figura dell’interesse legittimo, da posizione oppositiva a posizione pretensiva verso la Pubblica Amministrazione. L’evoluzione fu lenta, ed in una prima fase si cominciò a distinguere tra le diverse fasi in cui si svolge l’attività amministrativa procedimentale, alcune delle quali si concludono con provvedimenti impugnabili, altre con atti non (ancora) impugnabili. Da qui la distinzione tra atti endoprocedimentali, che non sono impugnabili autonomamente poiché non determinano una lesione a posizioni giuridiche del privato, ed atti finali che invece sono impugnabili. E’ il caso di un provvedimento la cui emanazione interessa al privato e deve essere preceduta obbligatoriamente dall’acquisizione di un parere non vincolante: se questo è negativo, non può essere immediatamente impugnato dal privato interessato poiché l’Amministrazione se ne può discostare (ma ne deve dare adeguata motivazione) ed emanare egualmente il provvedimento finale. Se, viceversa, l’emanazione di questo viene rifiutata proprio in riferimento al parere negativo, quest’ultimo potrà essere impugnato congiuntamente al diniego. La situazione cambia se il parere negativo, oltre che obbligatorio, è anche vincolante per l’Amministrazione: in questo caso il privato deve impugnarlo non appena ne ha conoscenza, poiché la sua emanazione produce immediatamente una lesione, non potendo l’Amministrazione discostarsene. Tornando all’evoluzione nella disciplina del procedimento amministrativo, in una seconda fase emerse la necessità di assicurare l’imparzialità non solo del provvedimento finale, ma anche nella fase procedimentale, il cui corretto esplicarsi iniziò ad essere considerato come condizione di legittimità del primo. Si cominciò ad affermare il diritto al giusto procedimento nella stessa giurisprudenza della Corte Costituzionale, inteso nel duplice senso che da un lato, il procedimento non deve essere complicato o farraginoso; dall’altro, deve rispettare canoni di imparzialità. Questa è l’ultima fase in cui i principi in materia di procedimento nacquero dalla giurisprudenza; d’ora in poi sarà la normativa ad individuarli.

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Prima di analizzare i principi del procedimento posti dalla Legge 241 dobbiamo ricordare che la Pubblica Amministrazione, nel corso degli anni novanta, ha subito numerose trasformazioni organizzative la cui sostanza si può riassumere nel passaggio da una amministrazione “per atti” ad una “amministrazione per obiettivi”. All’operatore pubblico non si chiede più la confezione di un provvedimento perfetto: la perfezione e la completezza dell’atto diventano importanti in tanto in quanto sono strumenti per raggiungere i risultati che il potere politico ha indicato all’Amministrazione stessa. L’attenzione viene quindi concentrata sull’intero svolgersi dell’azione amministrativa ed in particolare, sulla concatenazione degli atti il cui “sommarsi” porta ad un certo risultato, cioè sul procedimento. Visto dal lato dell’Amministrazione, ciò comporta una maggiore attenzione al momento organizzativo, per rendere più celere ed efficiente l’azione amministrativa eliminando duplicazioni procedimentali e passaggi inutili di carte. Vista dal lato del soggetto privato, questo comporta una pretesa di tutela non solo e non tanto in relazione al singolo provvedimento, ma con riguardo all’intero svolgersi dell’azione amministrativa in ordine a un determinato affare. Si reclama che i principi di legalità, imparzialità e buon andamento devono informare tutti i passaggi in cui si articola l’operato degli enti pubblici. Da qui la concezione della trasparenza amministrativa come “controllabilità di tutte le fasi in cui si articola l’operato della Pubblica Amministrazione” e che, fino all’emanazione della Legge 241, trovava riconoscimento solamente a livello programmatico nella Legge quadro sul pubblico impiego n. 93/1983 (ora abrogata). E’ discusso il fondamento costituzionale di tale principio: secondo alcuni, sarebbe da ricollegare ai principi di imparzialità e buon andamento; altri affermano invece che abbia fondamento solo nella legge ordinaria. Nella lezione odierna vedremo come il legislatore abbia cercato di dare risposta a questa esigenza da un lato, emanando una disciplina compiuta del procedimento amministrativo; dall’altro, imponendo di motivare tutti i provvedimenti. Si tratta di due facce della trasparenza amministrativa. Grazie all’intervento degli interessati nel procedimento, l’organo pubblico può meglio comparare e valutare tutti gli interessi in gioco e giungere, con il provvedimento finale, ad un assetto di questi che sia non solo rispettoso delle norme vigenti, ma anche il più conforme possibile a tutte le esigenze pubbliche e private in gioco. L’obbligo di motivazione, poi, costringe le Amministrazioni a rendere conto in modo preciso delle proprie scelte, in modo tale che tutti gli interessati possano assumere le decisioni più opportune di fronte ai provvedimenti che li riguardano.

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Un ulteriore pilastro della trasparenza amministrativa è infine costituito dal diritto di accesso alla documentazione amministrativa. Uno dei problemi più evidenziati nel passato era infatti costituito dalla difficoltà (o, addirittura, impossibilità) di conoscere tutte “le carte” di una pratica amministrativa il cui esame precedeva l’adozione delle decisioni in merito. Questo è venuto meno quando il legislatore ha garantito il diritto di accesso alla documentazione amministrativa, istituto che costituisce condizione indispensabile per garantire la trasparenza. Nella lezione odierna vedremo anche le numerose modificazioni subite dalla Legge 241 ad opera sia della legge 11 febbraio 2005, n. 15 (nel testo: “legge 15”) i cui effetti incidono principalmente nel rapporto tra accesso e riservatezza, nonché dal d.l. 14 marzo 2005, n. 35 convertito in legge 14 maggio 2005, n. 80 (cd. “decreto sulla competitività”, nel testo “d.l. 35”). 2. La disciplina del procedimento amministrativo posta dalla legge 241 2.a Definizione di procedimento amministrativo La dottrina tradizionale definisce il procedimento amministrativo come “una pluralità di atti, eterogenei tra loro, ma preordinati al raggiungimento di uno stesso fine costituito dal provvedimento finale del procedimento stesso”. Si tratta di una concezione del procedimento legata all’amministrare (appunto) per atti, che risente l’influenza dei più tradizionali modelli organizzativi degli enti pubblici. La dottrina più moderna identifica invece il procedimento come il luogo in cui l’Amministrazione acquisisce tutti gli interessi (pubblici e privati) coinvolti in una determinata pratica, e ne effettua la ponderazione con l’interesse pubblico primario che essa persegue. Si distinguono procedimenti attivati per iniziativa della stessa amministrazione (d’ufficio) o su iniziativa di soggetti esterni (a istanza di parte). Va ricordato che in alcuni casi il procedimento può mancare, come per l’emanazione delle ordinanze di urgenza. 2.b I principi generali del procedimento amministrativo Il procedimento è espressione di attività amministrativa, consistente nella cura concreta degli interessi pubblici identificati ed assunti dagli organi di indirizzo

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politico. Le sue regole sono state prima individuate dalla giurisprudenza e poi sistematizzate dall’art. 1 della Legge 241. Esaminiamole in dettaglio Nominatività e tipicità. Tradizionalmente venivano intesi come numero chiuso dei provvedimenti. E’ una tesi criticata, perché ciò cui attiene la tipicità non è il tipo di provvedimento ma la funzione esercitata con esso. Il provvedimento, cioè, deve essere conforme e coerente con la funzione pubblica in concreto esercitata. Questo non deve però essere inteso come un vincolo assoluto per l’Amministrazione, ma come necessità di adottare quei procedimenti (e quei provvedimenti) adeguati alla potestà pubblica che viene in gioco. Così, nel caso dell’impiego pubblico non privatizzato, non si può adottare un provvedimento di trasferimento coattivo al posto del provvedimento disciplinare per punire un dipendente. In applicazione di questi principi è ammissibile l’apposizione di clausole accessorie, termini o condizioni, purché siano in linea con il potere esercitato. Per gli atti di controllo è ammissibile la condizione, intesa come momento da cui decorrono gli atti controllati. L’atto diventa così un atto di controllo positivo condizionato. La giurisprudenza li considera validi solo se le condizioni consistono in comportamenti e non in condizioni di fatto. Articolazione del procedimento: significa suddivisione in fasi diverse dello stesso procedimento (subprocedimenti). Un esempio è costituito dall’espressione di un parere: si tratta di un subprocedimento rispetto ad un altro procedimento principale, nel corso del quale il parere stesso viene richiesto. Tale principio implica la diluizione del potere, vale a dire un minor impatto del provvedimento finale che si svuota parzialmente del proprio contenuto. Pensiamo al decreto di esproprio, che ha un contenuto discrezionale limitato perché viene preceduto dall’emanazione dagli altri atti del procedimento di espropriazione. Ciò comporta per l’Amministrazione, la diluizione dell’onere di motivazione poiché questa in parte viene riferita agli atti precedenti, e per il privato, l’onere di impugnare immediatamente gli atti terminali dei vari subprocedimenti che siano immediatamente lesivi. Inoltre va ricordato che tutti i procedimenti di secondo grado devono seguire il principio del contrarius actus, devono cioè essere emanati con lo stesso procedimento adottato per quello su cui intervengono.

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Impegnatività per cui ogni procedimento deve giungere al termine, e partecipazione. La legge 241 ha cristallizzato in legge principi che erano stati individuati in sede processuale, il cui mancato rispetto ora costituisce violazione di legge (onere della motivazione, principio dell’impegnatività, principi dell’istruttoria). Ha aggiunto i principi dell’onere di comunicazione dell’inizio del procedimento e l’istituto della partecipazione, con il quale il bilanciamento degli interessi in gioco viene anticipato dalla fase contenziosa a quella procedimentale, offrendo agli interessati la possibilità di presentare fin da subito le proprie osservazioni. In questo modo è nata una nuova categoria di interesse legittimo, l’interesse “partecipativo” che è indipendente dalla lesione di beni giuridici specifici. Esso si sostanzia, infatti, nella pretesa a partecipare al procedimento e consiste in un’utilità strumentale per il privato, vale a dire nella possibilità di influire sull’azione delle Amministrazioni in vista del conseguimento di un determinato assetto degli interessi in gioco. La violazione dell’interesse partecipativo determina l’illegittimità del provvedimento finale e può anche influire sul risarcimento dei danni, laddove il privato riesca a dimostrare che il contenuto dell’atto finale sarebbe stato diverso se avesse potuto presentare proprie memorie o documenti. I poteri dei titolari dell’interesse partecipativo sono stabiliti dall’art. 7 della Legge 241, che vedremo tra breve. Principio di legalità, per cui l’Amministrazione deve agire nel rispetto non solo dei limiti esterni di liceità previsti per qualunque soggetto giuridico, ma anche dei limiti interni che le impongono di rivolgere la propria azione unicamente alla tutela dell’interesse pubblico (art. 1, comma 1, legge 241: “L’attività amministrativa persegue i fini determinati dalla legge”). Principio di economicità che impone l’uso ottimale delle risorse a disposizione delle amministrazioni al fine di evitare sprechi. Principio di efficacia che impone il raggiungimento, per quanto possibile, di tutti gli obiettivi posti dal potere politico all’azione amministrativa. Rientra in questo ambito il principio di “speditezza”, per cui l’azione amministrativa deve procedere senza interruzioni inutili, non giustificate da ragioni di interesse pubblico.

Principi di pubblicità e trasparenza che impongono la facile controllabilità di tutti i momenti in cui si articola l’azione amministrativa. Espressione di questi principi sono l’obbligo di rendere noti i termini di conclusione dei procedimenti, di comunicarne l’avvio e di consentire la partecipazione ad essi, nonché quello di consentire agli interessati l’accesso ai documenti amministrativi.

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Divieto di aggravare il procedimento che vieta alle amministrazioni di imporre ai soggetti privati oneri o obblighi che non siano previsti dalle norme di disciplina del singolo procedimento, o non siano effettivamente necessari, nel caso concreto per “esigenze straordinarie”, delle quali l’amministrazione procedente dovrà dare conto all’interno della motivazione del provvedimento, a pena di illegittimità del medesimo.

Principi dell’ordinamento comunitario: la nuova legge sul procedimento, legge 11 febbraio 2005, n. 15 (nel testo: “legge 15”), ha introdotto l’obbligo di rispettare anche questi principi, per rendere sempre più stretta l’integrazione tra ordinamento nazionale ed europeo. Tra i principi del diritto comunitario riveste particolare importanza quello di proporzionalità dell’azione amministrativa, che impone di misurare i poteri pubblici da esercitare nel caso concreto in relazione agli obiettivi da raggiungere, senza imporre ai privati obblighi od oneri eccessivi. Altro principio importante è quello del legittimo affidamento, in base al quale ove l’Amministrazione Pubblica abbia creato una posizione di vantaggio a favore di un soggetto privato, non potrà privarlo di tale posizione senza dare conto dei motivi di pubblico interesse connessi. Divieto di utilizzare poteri pubblici per adottare atti non autoritativi (art. 1, comma 1 bis): anche questo principio è stato posto dalla legge 15, ed inverte il tradizionale principio per cui le Amministrazioni agiscono con norme di diritto pubblico salvo che sia disposto diversamente dalla legge. Questo nuovo principio impone loro di limitare l’uso dei poteri pubblici ai soli casi in cui esistono interessi pubblici da tutelare, che giustificano l’utilizzo di poteri, appunto, pubblici. Ove invece l’Amministrazione agisca per tutelare interessi propri, e non della collettività, deve porsi sullo stesso piano dei soggetti privati. Così, per esempio, se è stato locato uno stabile (non demaniale) dell’Amministrazione con un normale contratto di diritto privato, a fini di lucro e non per scopi pubblicistici, lo sfratto dovrà essere intimato con le procedure del diritto privato, senza ricorrere a procedure di diritto pubblico.

Non solo: le Amministrazioni dovranno evitare di utilizzare le potestà pubbliche nei casi in cui sia egualmente possibile raggiungere gli obiettivi di interesse collettivo mediante il ricorso a strumenti di diritto civile. Così, ad esempio, sarà da preferire l’affitto alla requisizione, o la compravendita all’espropriazione.

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Uso degli strumenti telematici: l’art. 3 bis, a fini di speditezza, impone alle Amministrazioni di incentivare l’utilizzo di strumenti telematici sia nei rapporti interni, che in quelli esterni, anche con soggetti privati. Pertanto è necessario utilizzare il più possibile le e-mails al posto del fax e delle ormai obsolete raccomandate con avviso di ricevimento. Questi principi hanno trovato applicazione concreta con l'emanazione del Codice dell'amministrazione digitale, il quale ha tra l'altro sancito il diritto dei cittadini e delle imprese all'uso delle tecnologie informatiche nei rapporti con le pubbliche amministrazioni, in particolare per quanto attiene all'intervento nel procedimento, ed il principio di interscambiabilità dei dati tra gli enti pubblici1. Le amministrazioni sono inoltre obbligate, ai sensi dell’art. 12 della Legge 241, a predeterminare i criteri per decidere su richieste di sovvenzioni, contributi, sussidi, ausili finanziari ed in generale di qualsiasi vantaggio economico a persone sia fisiche che giuridiche, pubbliche e private. La violazione dei criteri determina l’invalidità del provvedimento per violazione di legge.

2.c Obbligo di conclusione del procedimento (art. 2, Legge 241)

Le Amministrazioni devono concludere i procedimenti in un termine preventivamente determinato; se esse non lo individuano, il termine è stabilito per legge in novanta giorni, e decorre dall’inizio di ufficio del procedimento; nei procedimenti a istanza di parte, decorre invece dal ricevimento della domanda da parte dell’Amministrazione. Il decorso dei termini è sospeso, per un periodo non superiore a novanta giorni, se per la conclusione del procedimento é necessario acquisire valutazioni tecniche; può essere sospeso (ed in questo caso occorre quindi una determinazione del responsabile del procedimento) laddove sia necessario acquisire informazioni o certificazioni che non sono possedute né dall’amministrazione procedente, né da altre amministrazioni. La riforma dell’art. 2 della legge 241 operata dal d.l. 35 ha previsto che i termini di conclusione dei procedimenti debbano essere stabiliti secondo due parametri, la natura degli interessi pubblici tutelati e la situazione organizzativa degli uffici. Quanto più importanti sono i primi, e quanto più difficile la seconda, tanto più lunghi dovranno essere i termini per l’emanazione dei provvedimenti finali. Ne segue che gli atti con i quali detti termini saranno modulati dovranno dare conto

1 Il codice è stato emanato con il d. lgs. 7 marzo 2005, n. 82 e successivamente modificato con il d. lgs. 4 aprile 2006, n. 159. Il testo coordinato è pubblicato nel Supp. Ord. G.U. 199 del 29 aprile 2006.

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del rispetto di tali parametri e, pertanto, sia pure entro tali limiti, dovranno essere motivati. Spunti di riflessione: il comma 2, primo periodo, dell’art. 2 della legge 241 sancisce la natura regolamentare degli atti con i quali le amministrazioni devono individuare i termini per la conclusione dei loro procedimenti. Ma il regolamento è un provvedimento a motivo libero (art. 3, comma 2, legge 241), mentre, come visto sopra, tali atti devono essere, sia pure sommariamente, motivati in riferimento alla natura degli interessi pubblici tutelati ed alla situazione organizzativa degli uffici. Possiamo quindi ancora dire che gli atti con i quali le amministrazioni devono individuare i termini per la conclusione dei loro procedimenti hanno natura di “regolamenti”?

Per i procedimenti i cui termini di conclusione non siano stabiliti espressamente vale il termine legislativamente indicato di novanta giorni (art. 2, comma 3, legge 241 come modificato dal d.l. 35)

L’obbligo di concludere il procedimento con un provvedimento espresso viene meno a fronte di richieste sulle quali l’Amministrazione si sia già espressa con una decisione non impugnata, o a fronte di richieste manifestamente assurde, totalmente infondate o illegali2. La legge 15 prima, e successivamente il d.l. 35, hanno profondamente modificato l’istituto dell’autorizzazione tacita o “silenzio assenso”. Con questa espressione si indica la fattispecie nella quale l’inutile decorso del termine previsto per la conclusione del procedimento, sia quello previsto legislativamente che quello diverso determinato dalle singole Amministrazioni, comporta l’accoglimento dell’istanza presentata dall’interessato. Il d.l. 35 ha infatti modificato l’art. 20 della legge 241 generalizzando l’istituto: pertanto, il silenzio dell’amministrazione su un’istanza equivale ad accoglimento della stessa, senza necessità per il privato di presentare ulteriori domande o diffide. Le amministrazioni possono evitare il formarsi del silenzio assenso solo comunicando, nei termini, il provvedimento di diniego (preceduta dal preavviso di diniego ex art. 10 bis legge 241), oppure 2 C.d.S. sez. IV, 11.6.2002 n. 3256 in Giust.it n. 6/02.

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convocando una conferenza di servizi entro trenta giorni dalla presentazione dell’istanza. Anche dopo la formazione del silenzio assenso, l’Amministrazione rimane titolare del potere di autotutela e potrà quindi annullare o revocare i silenzi così formatisi. Fanno eccezione alla regola del silenzio assenso i procedimenti indicati dal comma 4 dell’art. 20, legge 241, nei quali sussiste una connessione ad interessi pubblici particolarmente rilevanti quali la tutela del patrimonio culturale e paesaggistico, l’ambiente, la difesa nazionale ecc., nonché i casi di silenzio rigetto e le fattispecie per le quali la normativa comunitaria richiede un provvedimento finale espresso. Con disposizione di chiusura, la stessa norma prevede che il Presidente del Consiglio dei Ministri possa individuare (deve ritenersi solo per amministrazioni statali od enti pubblici nazionali), con proprio decreto, altri atti e procedimenti per i quali è esclusa l’applicazione del silenzio assenso. Spunti di riflessione: si può ritenere che alle amministrazioni locali spetti un analogo potere, di individuare, con gli strumenti previsti dai rispettivi ordinamenti, altri atti e procedimenti per i quali è esclusa l’applicazione del silenzio assenso? Per i procedimenti esclusi dall’applicazione del silenzio assenso vale la regola di cui all’art. 2, comma 5, legge 241, introdotta dalla legge 15, in base alla quale l’azione per fare constare il silenzio inadempimento dell’amministrazione, ex art. 21-bis della L. n. 6 dicembre 1971, n. 1034, può essere proposta senza alcuna previa diffida dopo l’inutile decorso dei termini di conclusione del procedimento. Per ovviare ai rischi che il privato possa, incolpevolmente, farsi sfuggire il breve termine decadenziale di sessanta giorni, per la proposizione dell’azione in esame è previsto il più lungo termine di un anno dalla scadenza del termine di conclusione del procedimento. Il ricorso può essere proposto “fin tanto che perdura l’inadempimento” dell’Amministrazione procedente: se ne deduce che, trascorso il termine di conclusione del procedimento, essa può comunque provvedere tardivamente, senza che l’inutile decorso del termine cagioni alcuna decadenza. Inoltre il procedimento può concludersi anche con accordi tra amministrazione ed interessati. Esistono due tipi di accordo: procedimentale, con il quale l’Amministrazione si impegna a formare un certo contenuto del provvedimento finale, e sostitutivo, che invece sostituisce il provvedimento finale. Il responsabile

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del procedimento può predisporre un calendario di incontri con gli interessati per arrivare alla conclusione degli accordi. In tal modo viene superato il concetto dell’unicità del provvedimento finale come fonte lesiva per il privato, poiché la fase preparatoria condiziona l’atto finale e l’esito del procedimento può essere un atto diverso dal provvedimento. Non è ammessa la conclusione di accordi nell’ambito di procedimenti volti ad emanare provvedimenti finali con contenuto normativo, generale, pianificatorio o programmatorio, né per procedimenti tributari. 2.d Il Responsabile del procedimento (artt. 4, 5, 6, 7, 8 Legge 241)

La Legge 241 stabilisce che ogni procedimento venga assegnato ad una specifica “unità organizzativa”, in modo che il cittadino abbia sempre un interlocutore identificabile. Il dirigente di ciascuna unità organizzativa deve assegnare a sé o ad altro dipendente addetto all’unità stessa la responsabilità del procedimento; se non lo fa, è considerato egli stesso responsabile di procedimento. Non è indispensabile che il responsabile sia competente anche all’adozione del provvedimento finale: vi sono infatti casi in cui questo è di competenza di organi politici, come avviene per i provvedimenti programmatori o di indirizzo, (piano regolatore, criteri per la concessione di benefici economici, ecc.) ed in tal caso l’unità organizzativa (dirigente o altro addetto) svolgerà solo l’istruttoria; in altri casi, il dirigente dell’unità organizzativa potrà riservarsi l’adozione del provvedimento finale ed assegnare l’istruttoria ad un dipendente. La legge 15 ha modificato la lett. e) dell’art. 6 della Legge 241, prevedendo che se l’organo competente ad adottare il provvedimento finale intende discostarsi dalla proposta formulata dal responsabile del procedimento, deve indicarne la motivazione. Il nome dell’unità organizzativa competente e del responsabile del procedimento devono essere comunicati d’ufficio ai soggetti che possono intervenire nel procedimento e, a richiesta, agli altri soggetti che ne abbiano interesse. I compiti del responsabile del procedimento sono: 1) verificare se sussistono le condizioni per iniziare il procedimento (esistenza della legittimazione del richiedente e dei presupposti per l’avvio del procedimento). 2) Comunicare l’inizio del procedimento, ai sensi degli artt. 7 ed 8, ai soggetti destinatari del provvedimento, a quelli che per legge debbono intervenirvi e a tutti

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gli altri soggetti, individuati o facilmente individuabili, nei cui confronti il provvedimento inciderà. La comunicazione può essere omessa unicamente se vi sono ragioni, straordinarie, di celerità che devono comunque essere motivate. L’amministrazione può adottare, anche prima di inviare le comunicazioni di avvio del procedimento, i provvedimenti cautelari che si rendessero necessari. La comunicazione deve essere “personale”, e solo quando siano troppo numerosi i suoi destinatari può essere effettuata con forme di pubblicità diverse. Deve contenere i seguenti elementi: a) nome e sede dell’ente competente, b) oggetto del procedimento, c) indicazione dell’unità organizzativa e della persona responsabile del procedimento e dell’ufficio ove possono essere visionati gli atti dello stesso. d) la data entro il quale il procedimento deve terminare e l’indicazione dei rimedi in caso di inerzia dell’Amministrazione; e) la data di presentazione dell’istanza; f) in base all'art. 41, comma 2, del Codice dell'amministrativa digitale, le modalità con cui effettuare l’intervento procedimentale con strumenti telematici. Oltre che in caso di urgenza, la comunicazione di avvio del procedimento può essere evitata se questo è stato attivato su iniziativa dell’interessato, o quando questi abbia comunque avuto notizia del suo inizio ed è quindi in grado di presentare le proprie osservazioni (la prova incombe sull’Amministrazione). Pensiamo al caso in cui il privato abbia presentato osservazioni ancor prima dell’inizio del procedimento, o a quello in cui lo scopo della comunicazione sia stato comunque raggiunto perché è già avvenuto uno scambio di scritti. La giurisprudenza afferma che la consegna del verbale di accertamento dell'infrazione equivale a comunicazione di avvio del procedimento per l'irrogazione della relativa sanzione amministrativa. La giurisprudenza si è interrogata se l’Amministrazione sia obbligata a comunicare l’avvio dei procedimenti destinati a concludersi con un provvedimento vincolato. A fronte di un orientamento che afferma tale obbligo, un’altra dottrina sostiene che la comunicazione non é necessaria qualora la partecipazione dell’interessato non possa in alcun modo influire sull’esito finale del procedimento. Una dottrina estende questo concetto fino a sostenere che la mancata comunicazione non deve essere causa di illegittimità del provvedimento in tutti i casi in cui la partecipazione del privato non sarebbe stata, comunque, idonea ad influire sul contenuto del provvedimento finale poiché, se le norme in materia di partecipazione tutelano l’interesse (non formale al mero intervento ma) sostanziale a che sia definito

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dall’Amministrazione un certo assetto degli interessi in gioco, annullare il provvedimento nel caso suddetto per la mancata comunicazione di inizio procedimento significherebbe imporre un onere del tutto inutile in capo alle Amministrazioni, che si vedrebbero costrette a ricominciare il procedimento per giungere ad un assetto identico degli interessi coinvolti. Questa dottrina è stata fatta propria dalla legge 15, la quale ha stabilito che la mancata comunicazione di avvio del procedimento non costituisce causa di invalidità del provvedimento finale, se il suo contenuto non avrebbe potuto essere diverso, anche in caso di atti non vincolati. La prova spetta all’Amministrazione. L’obbligo della comunicazione non sussiste per l’inizio di procedimenti volti ad emanare provvedimenti finali con contenuto normativo, generale, pianificatorio o programmatorio, né per i procedimenti tributari. L’erronea indicazione del responsabile del procedimento genera solo responsabilità disciplinare, ma non incide sulla validità del provvedimento finale.

La legge 15 ha inserito l’art. 10 bis nella Legge 241, in base al quale l’organo procedente, prima di adottare un atto di diniego, deve comunicare al richiedente i motivi che impediscono l’accoglimento della domanda. Il compito spetta al responsabile del procedimento o, se diverso, all’organo competente per l’adozione del provvedimento finale. Entro i successivi dieci giorni gli interessati possono presentare le proprie osservazioni, delle quali la motivazione del provvedimento finale dovrà dare conto. La comunicazione del preavviso di diniego sospende3 i termini per la conclusione del procedimento, che riprendono a decorrere dalla data in cui le osservazioni vengono presentate o, in mancanza, dopo il periodo di sospensione di dieci giorni. L’omissione del preavviso rende illegittimo il successivo diniego. In questo modo si anticipa sempre più il contraddittorio processuale alla fase procedimentale, in qualche modo delimitando la futura materia del contendere, con l’intento di deflazionare il contenzioso giurisdizionale. Resta comunque ferma l’impugnabilità del provvedimento finale da parte di chi non presenta alcuna osservazione.

3 La legge usa il termine “interruzione” dei termini di conclusione del procedimento, ma deve ritenersi che l’espressione sia impropriamente utilizzata in luogo di “sospensione”, poiché è questo istituto che viene in rilievo nel caso di specie.

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L’ultimo periodo dell’art. 10 bis della legge 241 esclude l’applicazione dell’istituto ai “procedimenti in materia previdenziale ed assistenziale sorti a seguito di istanza di parte e gestiti dagli enti previdenziali” ed ai “procedimenti concorsuali”, nella quale ultima categoria, a mio parere, stante l’identità della ratio acceleratoria, devono essere ricomprese tutte le procedure selettive, non solo i concorsi a pubblici impieghi ma anche le gare di appalto, le selezioni interne nel pubblico impiego non privatizzato, ecc. Spunti di riflessione: l’art 21 octies, comma 2, secondo periodo, della legge 241 non fa menzione dell’omissione del preavviso di diniego: questa forma di sanatoria é applicabile anche in tale caso? Logica vorrebbe che, dato che si tratta di una disposizione tesa a salvare il provvedimento adottato senza intervento dell’interessato, essa possa valere anche nel caso in cui l’amministrazione non abbia inviato il preavviso di diniego; però a questa interpretazione osta il fatto che la norma in esame ha carattere eccezionale e non può pertanto essere applicata fuori dei casi espressamente previsti.

3) Acquisire tutti gli interessi rilevanti per il procedimento, mediante richiesta di dichiarazioni e rettifica di dichiarazioni o istanze erronee o incomplete (cd. “dovere di soccorso istruttorio”), mediante lo svolgimento di accertamenti tecnici, ispezioni od esibizioni documentali nonché con l’indizione delle conferenze di servizi. In questo contesto il responsabile del procedimento appare più come “arbitro” che come parte, tant’è che le sue conclusioni possono anche essere sfavorevoli alla stessa Amministrazione. Un’applicazione specifica di questo istituto alle procedura contrattuali è prevista dall’art. 46 del Codice dei Contratto pubblici. 2.e L’intervento degli interessati nel procedimento (art. 9, 10 Legge 241) La moderna concezione del procedimento come luogo di acquisizione degli interessi coinvolti nell’affare presuppone che i portatori di questi siano messi in grado di esprimerli. Pertanto, la Legge 241 consente a qualunque soggetto, non solo privato ma anche pubblico, di “intervenire” nel procedimento. L’intervento si

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realizza con due strumenti. Anzitutto, con l’accesso agli atti del procedimento stesso: questa forma di accesso, cd. “interno”, differisce da quella disciplinata dagli artt. 22 ss. della legge 241 (cd. accesso “esterno”) poiché riguarda i soli soggetti che potranno essere incisi dal provvedimento finale e, pertanto, non é subordinata alla presentazione di una specifica istanza motivata. In secondo luogo, l’interessato ha diritto di presentare memorie e documenti, che l’amministrazione procedente è obbligata a prendere in considerazione. Essa dovrà quindi motivare il provvedimento finale anche in relazione alle memorie e documenti presentati dagli interessati. Possono intervenire nel procedimento anche associazioni e comitati per fare valere interessi collettivi.

Con la garanzia dell’intervento nel procedimento di formazione dell’ atto amministrativo, quest’ultimo non si presenta più come manifestazione della volontà unilaterale dell’Amministrazione e diventa, invece, il prodotto del concorso di tutti i soggetti partecipanti e riepilogo dei loro diversi contributi. Il principio di partecipazione consente quindi di soddisfare i seguenti criteri informatori dell’azione amministrativa: - trasparenza, perché i suoi destinatari ne hanno conoscenza e possono influire sul suo svolgimento; - economicità, poiché l’Amministrazione è in condizione di meglio valutare gli interessi in gioco e giungere, così, a determinare col provvedimento un equilibrato assetto di interessi in modo da evitare successivi ricorsi giudiziari con i relativi costi; -efficacia, poiché in tal modo l’Amministrazione può individuare la strada migliore per centrare gli obiettivi assegnati dal potere politico.

L’intervento non è ammesso nei procedimenti attivati per emanare provvedimenti finali con contenuto normativo, generale, pianificatorio o programmatorio, né per i procedimenti tributari. Per questi ultimi la ragione della deroga è evidente; per gli altri, va ricordato che nelle leggi di settore esistono disposizioni specifiche atte a garantire la partecipazione degli interessati, che in tali procedimenti si presentano in numero molto alto, e richiede, pertanto, una disciplina specifica.

2.f La conclusione del procedimento (artt. 2, comma 4 bis, 3 e 11 Legge 241)

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Ogni procedimento si deve concludere con l’emanazione di un provvedimento motivato. La motivazione deve indicare le ragioni di fatto e di diritto che hanno determinato la decisione. La motivazione non è richiesta solo per gli atti normativi (regolamenti) e per quelli a contenuto generale (es. piano regolatore, atti di indirizzo). Se le ragioni della decisione risultano da altro atto dell’Amministrazione richiamato dalla decisione stessa, insieme alla comunicazione di quest’ultima deve essere indicato e reso disponibile anche l’atto cui essa si richiama. In ogni atto notificato al destinatario devono essere indicati il termine e l’autorità cui è possibile ricorrere: l’omissione di queste indicazioni però non comporta l’illegittimità dell’atto, ma il mancato decorso del termine decadenziale per l’impugnazione al T.A.R.. Il procedimento può però concludersi non solo con provvedimenti autoritativi, ma anche con accordi tra Amministrazione ed interessati. Esistono due tipi di accordo: procedimentale, con il quale l’Amministrazione si impegna a formare un certo contenuto del provvedimento finale, e sostitutivo, che invece sostituisce il provvedimento finale. Il responsabile del procedimento può predisporre un calendario di incontri con gli interessati per arrivare alla conclusione degli accordi. Quanto alla disciplina di questi accordi essi, sia procedimentali che sostitutivi, devono essere stipulati per iscritto, a pena di nullità, e sono soggetti ai princìpi del codice civile in materia di obbligazioni e contratti, nei limiti della compatibilità reciproca. Gli accordi sostitutivi sono soggetti ai medesimi controlli previsti per i provvedimenti che sostituiscono. Può accadere, però, che mutamenti della situazione facciano venir meno le ragioni di pubblico interesse sottostanti all’accordo: in tal caso all’Amministrazione, poiché ha il compito istituzionale di perseguire l’interesse pubblico, è riconosciuto un diritto di recesso che può essere esercitato a due condizioni: a) esplicitazione delle ragioni di pubblico interesse al recesso; b) corresponsione (non di un risarcimento ma) di un indennizzo per limitare l’effetto di eventuali pregiudizi a danno del privato. Il giudice amministrativo ha giurisdizione esclusiva in materia di formazione, conclusione ed esecuzione degli accordi.

Va ricordato che la dottrina è divisa sulla concezione “pubblicistica” o “privatistica” di questi accordi: una parte di essa ritiene che siano veri e propri negozi di diritto civile; altra parte ritiene invece che siano istituti di diritto pubblico. L’adesione all’una o all’altra concezione non è irrilevante sotto il profilo pratico, poiché se si aderisce alla prima tesi, si riterranno ammissibili gli strumenti civilistici di tutela delle parti contraenti (azione di condanna, eccezione di

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inadempimento ecc.); mentre nel caso opposto, dovranno essere attivati gli strumenti di tutela pubblicistica, e il privato dovrà così ricorrere al silenzio rifiuto in caso di mancata emanazione del provvedimento concordato, e all’impugnazione, nel caso di emanazione di un provvedimento con contenuto diverso da quello concordato. Non è ammessa la conclusione di accordi nell’ambito di procedimenti volti ad emanare provvedimenti finali con contenuto normativo, generale, pianificatorio o programmatorio, né per procedimenti tributari.

La legge 15 ha introdotto l’art. 21 bis della Legge 241, in base al quale i provvedimenti che dispongono limitazioni nella sfera giuridica dei terzi diventano efficaci solo ad avvenuta comunicazione, con ciò sancendone legislativamente il carattere recettizio che la dottrina aveva loro già attribuito. La comunicazione personale può essere sostituita da forme diverse di pubblicità, che l’Amministrazione procedente deve individuare volta per volta, quando risulti eccessivamente gravosa a causa del numero dei destinatari. I provvedimenti cautelari, invece, sono immediatamente efficaci, ancor prima della comunicazione. L’esecuzione del provvedimento può essere sospesa, e in tal modo l’atto resta inefficace in attesa delle decisioni definitive dell’Amministrazione, che devono sopraggiungere in tempi ragionevoli, poiché l’istituto della sospensione ha carattere cautelare. L’art. 21 quater della Legge 241, introdotto dalla legge 15, al comma 2 afferma il generale principio della sospendibilità degli atti amministrativi, subordinandolo all’esistenza di “gravi ragioni” che devono essere indicate nella motivazione dell’atto di sospensione. La sospensione stessa, inoltre, deve essere limitata al tempo “strettamente necessario” all’Amministrazione per assumere una decisione definitiva, da indicare anch’esso nell’atto di sospensione. Il termine di sospensione può essere prorogato per una sola volta, e può anche essere ridotto, qualora l’Amministrazione riesca ad assumere una determinazione definitiva in un lasso di tempo minore rispetto a quello programmato.

3. I pareri e le valutazione tecniche Gli organi consultivi devono rendere i pareri obbligatori entro quarantacinque giorni dalla richiesta; per i pareri facoltativi, devono comunicare alle amministrazioni richiedenti il termine entro il quale il parere sarà pronunciato, che può essere interrotto per una sola volta se l’organo consultivo necessita di elementi

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istruttori (documenti, chiarimenti, ecc.); avvenuta l’acquisizione di detti elementi, il parere deve essere reso entro i successivi 15 giorni. Se trascorre il termine senza che sia stato comunicato il parere (obbligatorio o facoltativo che sia) e senza che siano state evidenziate esigenze istruttorie, l’amministrazione richiedente può procedere indipendentemente dall’acquisizione del parere. Queste disposizioni non si applicano ai pareri che devono essere rilasciati da Amministrazioni preposte alla tutela ambientale, paesaggistica, territoriale e della salute dei cittadini: in tal caso l’amministrazione richiedente deve attendere il parere. Diversa è la disciplina per le valutazione tecniche. L’organo competente ad effettuare la valutazione deve provvedere entro il termine stabilito dalla norma di legge o di regolamento che prevede la sua acquisizione; se nessuna norma prevede un termine, questo è stabilito legislativamente in novanta giorni dalla richiesta. Se il termine decorre senza che la valutazione sia stata effettuata, il responsabile del procedimento deve rivolgersi ad altre amministrazioni competenti o ad istituti universitari. Anche queste disposizioni non si applicano in caso di valutazioni che debbano essere prodotte da amministrazioni preposte alla tutela ambientale, paesaggistico-territoriale e della salute dei cittadini: in tal caso l’amministrazione richiedente deve attendere la valutazione tecnica. Il termine può essere interrotto per una sola volta se l’organo consultivo necessita di elementi istruttori (documenti, chiarimenti, ecc.); avvenuta l’acquisizione di detti elementi, la valutazione deve essere fornita entro i successivi 15 giorni. 4. La denuncia in luogo di autorizzazione (d.i.a.) Il d.l. 35 ha innovato profondamente anche l’istituto della dichiarazione di inizio attività mediante la novellazione dell’art. 19 della legge 241. Nella versione attuale, questo stabilisce che quando un soggetto privato intende iniziare un’attività per la quale è necessaria un’autorizzazione, una licenza, una concessione non costitutiva, un permesso o un nulla-osta comunque denominato, il cui rilascio dipende dall’accertamento dei presupposti stabiliti da leggi o provvedimenti amministrativi generali (deve intendersi anche da regolamenti), e per il quale non é previsto alcun contingente, il provvedimento viene sostituito da una dichiarazione di inizio di attività (nel seguito: “d.i.a.”) che l’interessato deve produrre alla pubblica amministrazione, con autodichiarazione del possesso delle certificazioni e delle attestazioni necessarie. In questi casi il privato può iniziare l’attività decorsi trenta giorni, salva la previsione di un termine diverso da parte di una legge di

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settore, dalla presentazione della d.i.a., e deve darne comunicazione all’amministrazione. Entro tale termine, che viene sospeso se è necessario acquisire pareri obbligatori, questa deve verificare d’ufficio la sussistenza dei presupposti e dei requisiti necessari all’esercizio dell’attività in questione, e in caso negativo disporne il divieto di prosecuzione e la rimozione degli effetti a meno che, ove possibile, l’interessato provveda a conformare alla normativa l’attività svolta entro un termine stabilito dall’amministrazione stessa, che comunque non può essere inferiore a trenta giorni. La conformazione, in base all’art. 21, comma 1, legge 241, non è ammessa se la d.i.a. è stata corredata da false autodichiarazioni.

La d.i.a., analogamente all’istituto del silenzio assenso, non trova applicazione nei procedimenti connessi ad interessi pubblici particolarmente rilevanti quali la tutela del patrimonio culturale e paesaggistico, l’ambiente, la difesa naturale ecc. e le fattispecie per le quali la normativa comunitaria richiede un provvedimento finale espresso. L’elenco delle eccezioni, contenuto al comma 1 dell’art. 19 della legge 241, è più lungo di quelle previste rispetto al silenzio assenso, a causa della delicatezza dell’istituto in esame.

Ove sia scaduto il termine di trenta giorni per effettuare le verifiche d’ufficio l’amministrazione non perde il potere di provvedere, ma può intervenire solo in autotutela per annullare o revocare il provvedimento, rispettivamente, illegittimo od inopportuno.

Infine, il d.l. 35 ha rimesso la cognizione di tutte le controversie sull’applicazione dell’istituto alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo.

La riforma dell’istituto in esame è orientata non solo ad uno scopo acceleratorio, come per la generalizzazione del silenzio assenso, ma anche ad una logica di estesa liberalizzazione delle attività private.

Spunti di riflessione - Le norme dettate dalla legge 241 per la d.i.a.

possono essere considerate quali norme di principio dirette alla tutela nei confronti dell’azione amministrativa, con conseguente applicabilità ai procedimenti di competenza delle amministrazioni regionali e locali?

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- Il decorso di trenta giorni concessi

all’Amministrazione per effettuare i controlli sulla d.i.a. inoltrata dal privato comporta il formarsi di un provvedimento amministrativo tacito di assenso oppure, essendo la d.i.a. una mera comunicazione privata circa l’intenzione di dare corso ad una determinata attività, costituisce un mero comportamento (omissivo) dell’amministrazione stessa? Il problema sembra risolto dal d.l. 35, che ha devoluto alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo la cognizione sulle controversie relative all’istituto in esame, con ciò indicando il suo carattere non provvedimentale. La presentazione della dichiarazione e l’inutile decorso del termine concesso all’amministrazione per controllare l’effettiva sussistenza dei presupposti per l’attività privata comporta la nascita di un diritto soggettivo in capo all’interessato relativamente all’esercizio della medesima, che può essere oggetto di affievolimento qualora tali presupposti, pur dichiarati dall’interessato, in realtà non esistano, ed a condizione che l’amministrazione agisca secondo i canoni e le regole proprie dell’autotutela.

- Quanto alla tutela del terzo può ritenersi, in

base alle attuali previsioni, che poiché l’inutile decorso del termine per la verifica della d.i.a. costituisce un diritto in capo al dichiarante all’esercizio dell’attività dichiarata, il terzo che contesti l’esistenza di tale diritto per la mancanza dei presupposti necessari potrà direttamente ricorrere al giudice amministrativo, che ne valuterà la sussistenza e procederà all’accertamento del contestato diritto del dichiarante.

5. Conferenza dei servizi ed accordi tra amministrazioni (artt. 14, 14 bis, 15) La Legge 241 ha istituito questo strumento, che consente di “mettere attorno ad un tavolo” tutti i soggetti pubblici portatori di interessi nell’ambito di un

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procedimento. Esistono due tipi di conferenza di servizi: istruttoria, per “effettuare un esame contestuale di vari interessi pubblici coinvolti in un procedimento amministrativo”, e decisoria, che consente di sostituire ogni atto di intesa con altre amministrazioni (intese, concerti, nulla osta, ecc.): in tale ultimo caso il provvedimento finale che sia conforme alla decisione favorevole della conferenza sostituisce ogni atto di assenso delle amministrazioni partecipanti o comunque invitate a partecipare alla conferenza. E’ facoltativa la prima, mentre la seconda deve essere convocata dal responsabile di procedimento quando siano trascorsi inutilmente trenta giorni dalla ricezione della richiesta di tali atti di assenso da parte dell’Amministrazione competente a rilasciarli. La conferenza può essere convocata anche su richiesta dell’interessato e diventa, allora, non solo strumento di semplificazione ma anche di partecipazione per stimolare lo svolgimento dell’attività amministrativa. La conferenza per le grandi opere (art. 14 bis) consente di conoscere in anticipo a quali condizioni le amministrazioni interessate rilasceranno gli atti di assenso all’esecuzione delle stesse. Viene convocata su richiesta dell’interessato; il suo svolgimento determina l’impossibilità per le amministrazioni coinvolte di negare gli atti di assenso per motivi diversi da quelli espressi in sede di conferenza di servizi. Ogni amministrazione partecipa alla conferenza dei servizi attraverso un unico rappresentante autorizzato dall’organo competente ad esprimere in modo vincolante la volontà dell’amministrazione stessa. Si considera acquisito l’assenso dell’amministrazione il cui rappresentante non abbia espresso definitivamente la volontà della stessa. Nelle conferenze per le grandi opere possono essere chiesti, ai privati interessati (proponenti dell’istanza o progettisti), chiarimenti o ulteriore documentazione. Se questi ultimi non sono forniti entro trenta giorni, si procede egualmente. La legge 15 ha abolito il principio di maggioranza: l’Amministrazione competente deve ora assumere la determinazione di conclusione del procedimento sulla base delle risultanze della conferenza “tenendo conto delle posizioni prevalenti” emerse nella stessa, e il provvedimento finale che sia conforme a detta determinazione (e non più alla determinazione conclusiva “favorevole” della conferenza stessa) sostituirà gli atti di assenso di tutte le Amministrazioni presenti o comunque invitate.

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La procedura si complica quando il dissenso sia espresso da amministrazioni preposte alla tutela di interessi pubblici rilevanti come quello alla tutela ambientale, paesaggistico-territoriale, del patrimonio storico-artistico, della salute o della pubblica incolumità. In tali casi, la decisione finale sarà assunta dal Consiglio dei ministri, se il dissenso interviene tra Amministrazioni statali; dalla Conferenza permanente per i rapporti tra Stato, regioni e province autonome di Trento e Bolzano se il dissenso coinvolge amministrazioni regionali o amministrazioni statali e regionali; dalla Conferenza unificata se il dissenso coinvolge enti locali. La decisione deve essere assunta entro trenta giorni, prorogabili a sessanta in caso di istruttoria complessa. Analogamente, se il dissenso riguarda materie di competenza regionale, la decisione finale dovrà essere assunta dalla Conferenza permanente per i rapporti tra Stato, regioni e province autonome di Trento e Bolzano, se il conflitto riguarda una regione e amministrazioni statali o regioni diverse in conflitto tra loro; dalla Conferenza unificata, se interviene tra una regione ed un ente locale. Il termine per la decisione è il medesimo. In caso di inerzia da parte delle Conferenze la competenza passa al Consiglio dei Ministri, se la materia rientra tra quelle attribuite alla competenza statale esclusiva; alla Giunta della Regione interessata negli altri casi, con la possibilità di un intervento statale sostitutivo ove questa non decida in trenta giorni. Al di fuori di queste ipotesi, le amministrazioni pubbliche possono comunque concludere tra loro (non con i privati) accordi per disciplinare lo svolgimento in collaborazione di attività di interesse comune. A tali accordi si applicano le norme previste per gli accordi sostitutivi e procedimentali contenute nei commi 2, 3 e 5 dell’art. 11.

6. La motivazione La Legge 241, all’articolo 3, ha stabilito che ogni provvedimento amministrativo deve essere motivato. La motivazione è composta da due elementi: - i presupposti di fatto, cioè quelle circostanze che hanno condotto l’Amministrazione ad attribuire un determinato contenuto al provvedimento finale,

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- le ragioni giuridiche di quest’ultimo, cioè le norme sia legislative che regolamentari sulle quali il medesimo è basato. Prima della legge 241 la dottrina e la giurisprudenza avevano individuato alcuni casi in cui i provvedimenti amministrativi dovevano essere obbligatoriamente motivati, per evitare che la venisse a diminuire la possibilità di tutela per i destinatari dell’azione amministrativa. Si trattava degli atti di valutazione e scelta comparativa, non solo i concorsi o le gare di appalto ma in generale tutti i provvedimenti con i quali l’amministrazione effettua una scelta per la concessione di benefici; degli atti di diniego a un’istanza presentata dal privato e di quelli che comportano il venir meno di benefici già concessi o, comunque, l’estinzioni di suoi diritti (cosiddetti atti sacrificativi). La legge 241 ha generalizzato l’obbligo: tutti i provvedimenti devono oggi essere motivati, con la sola eccezione degli atti normativi (i regolamenti) che, essendo fonte del diritto, hanno carattere politico, e degli atti generali i cui destinatari possono essere determinati solo dopo la loro emanazione, come i bandi di concorso e di gara. Va rilevato che la partecipazione procedimentale è esclusa nei procedimenti che si concludono sia con gli atti suddetti, sia con atti di pianificazione o programmazione: questi ultimi, dunque, devono essere obbligatoriamente motivati, a meno che abbiano un contenuto generale come il piano regolatore urbano. La deroga all’obbligo di motivazione, quindi, non coincide completamente con la deroga al diritto di partecipazione procedimentale degli interessati. Oltre a quelli esclusi espressamente dalla legge 241, non sono soggetti a motivazione obbligatoria gli atti di accertamento perché devono esporre i fatti accertati e gli atti di diritto privato posti in essere da Amministrazioni. Riguardo a questi ultimi, occorre ricordare che devono essere motivati i presupposti che hanno condotto all’emanazione dell’atto privatistico: così l’Amministrazione deve motivare il ricorso alla trattativa privata ma non il contratto che stipula. Si discute se debbano essere obbligatoriamente motivati gli atti vincolati: opinione dominante è che esiste un obbligo di motivazione ridotto alla sola indicazione del fatto e delle norme sulla base della quali il potere amministrativo viene esercitato. La giurisprudenza ritiene che debbano essere motivati anche gli atti di alta amministrazione quando comportano una scelta comparativa, come nel caso di nomina a cariche di alta dirigenza (es. direttori generali AUSL).

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Vi è incertezza circa l’ampiezza della motivazione in materia di concorsi ed esami: sembra prevalere l’opinione per cui, una volta predeterminati i criteri di valutazione, non è necessaria la motivazione del singolo punteggio perché il voto rappresenta di per sé motivazione. Negli atti negativi basta indicare la norma violata, che di per sé costituisce una motivazione. Se viene dato un parere non obbligatorio l’Amministrazione procedente se ne può discostare, ma deve motivare in proposito. Con riguardo agli atti emanati da organi collegiali una dottrina meno recente ammetteva la motivazione implicita, risultante cioè non dal provvedimento stesso ma dai verbali della seduta dell’organo collegiale. La dottrina e la giurisprudenza respingono questa tesi, ritenendola contrastante con il principio di trasparenza. Possiamo dire che la motivazione assolve alle funzioni seguenti: 1. funzione giuridica: permette il controllo giurisprudenziale sull’atto; 2. funzione metagiuridica: permette di dare conto delle necessità pubbliche del provvedimento e favorire, così, la sua accettazione (funzione di pacificazione sociale), 3. la necessità di motivare il provvedimento obbliga l’Amministrazione a ponderarne con cura il contenuto. La motivazione deve essere: congrua, deve cioè rispettare tutti gli elementi introdotti nel procedimento (memorie dei privati interessati, pareri di altre Amministrazione ecc.) indicando le ragioni del provvedimento in relazione a questi; logica, cioè deve dare esattamente contezza del contenuto del provvedimento sulla base dei presupposti introdotti nel procedimento a cura sia del privato, sia dell’Amministrazione procedente, che di altre Amministrazioni coinvolte; sufficiente, cioè deve consentire di comprendere le reali ragioni che hanno indotto l’Amministrazione ad emanare il provvedimento, non deve essere quindi né troppo sintetica, né ridondante, né sfumata. La motivazione deve essere contemporanea alla produzione degli effetti provvedimentali nella sfera giuridica del destinatario, per metterlo in condizione di

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controllare l’operato dell’Amministrazione, sicché finché il provvedimento non viene motivato, non inizia a decorrere il termine decadenziale per l’impugnazione. In caso di emanazione di un provvedimento non motivato il destinatario potrà subito impugnarlo per illegittimità, a causa della mancanza di motivazione; una volta prodotta la motivazione successiva, avrà a disposizione un nuovo termine di 60 giorni per produrre motivi aggiunti. A proposito della “motivazione successiva” va rilevato che dottrina e giurisprudenza hanno sempre rifiutato questo istituto, ritenendo che l’Amministrazione non possa essere ammessa a motivare un provvedimento dopo la sua emanazione, in corso di giudizio. La Legge 249/68 all’art. 6 consente la convalida (più propriamente definibile “ratifica”) in sede processuale degli atti viziati da incompetenza. Ma ciò che vale per tale vizio non può valere anche per gli altri, perché la mancata previsione legislativa della possibilità di riferire la convalida in corso di causa agli altri difetti formali, in particolare al difetto di motivazione, evidenzia la volontà del legislatore di (continuare ad) interdire alle Amministrazioni la correzione in corso di causa dei provvedimenti impugnati. Sugli atti vincolati, vedi il paragrafo successivo. Se questo è vero ai fini della validità dell’atto non vale, però, per il giudizio sul risarcimento dei danni. Per emettere un giudizio in proposito, infatti, il Giudice Amministrativo deve analizzare in sede processuale anche il rapporto amministrativo, non solo il provvedimento, e valutare se si sia verificata una lesione al bene della vita oggetto dell’azione amministrativa. Presupposto per il risarcimento non è, infatti, la sola illegittimità dell’atto, ma anche il danno che questo ha provocato nelle posizione giuridiche sostanziali dell’interessato. Questo implica una verifica sostanziale, e non meramente formale, dell’agire amministrativo nel corso della quale l’Amministrazione ben potrà dimostrare, a posteriori, la sussistenza di ragioni sostanziali a supporto dell’atto impugnato, pur affetto da vizi formali. Una volta verificata la presenza di tali ragioni il Giudice dovrà dichiarare l’assenza della lesione ad un bene della vita, e respingerà quindi la richiesta di risarcimento danni, pur obbligando l’Amministrazione a ricominciare il procedimento per emettere un nuovo atto privo di vizi formali. Il comma 3 dell’articolo 3 della legge 241 consente che la motivazione di un provvedimento possa essere desunta da un altro atto dell’Amministrazione, ma in tal caso quest’ultimo deve essere richiamato dal primo provvedimento e la comunicazione di questo deve indicare le modalità con cui l’altro può essere acquisito. La mancata indicazione di tali modalità non comporta, però, l’invalidità del provvedimento ma il mancato decorso del termine di impugnazione. La giurisprudenza ammette che la motivazione del provvedimento finale possa

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desumersi dalla lettura degli atti del procedimento: in tal caso è infatti irrilevante che le ragioni del primo non siano esplicitate completamente, se l’interessato è stato in grado di acquisire i secondi4

Il comma quarto dall’articolo 3 della legge 241 prevede che ogni provvedimento notificato al destinatario deve indicare sia il termine per ricorrere, che l’autorità, amministrativa e giudiziaria, presso la quale può essere presentato ricorso avverso il provvedimento stesso. L’omissione di questi elementi non comporta l’invalidità dell’atto, ma costituisce causa di errore scusabile a favore dell’interessato, che potrà quindi impugnare l’atto anche se i termini sono scaduti. 7. L’invalidità degli atti La legge 15 ha introdotto gli artt. 21 septies e 21 octies in materia di invalidità degli atti. Il primo regolamenta l’istituto della nullità, di creazione giurisprudenziale, e prevede che l’atto amministrativo sia nullo in caso di mancanza degli elementi essenziali, di difetto assoluto di attribuzione, di violazione o elusione del giudicato, ed infine nei singoli casi indicati specificamente da disposizioni legislative. Il secondo articolo prevede il mantenimento dei tradizionali motivi di annullabilità dell’atto per violazione di legge, eccesso di potere ed incompetenza, ma al secondo comma introduce modificazioni rilevanti. Al primo periodo del secondo comma esclude che il provvedimento possa essere annullato laddove: 1) abbia carattere vincolato; 2) il vizio consista nella violazione di norme che disciplinano la forma o il procedimento, compresa la mancanza o l’incompletezza della motivazione, e 3) sia palese che il contenuto precettivo non avrebbe potuto essere diverso da quello adottato, anche se la norma violata fosse stata rispettata. Le tre condizioni debbono sussistere congiuntamente. Al secondo periodo del secondo comma prevede che l’atto amministrativo non possa essere annullato in caso di omissione della comunicazione di avvio del procedimento, se l’Amministrazione dimostra in giudizio che il suo contenuto non avrebbe potuto essere diverso. 4 C.d.S. IV, 14.2.2005 n. 435 in “In Consiglio di Stato” n. 2/05, pt. I.

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Il primo periodo si riferisce in generale a tutti gli i vizi di procedimento o di forma, comprendendo quindi (e soprattutto) il difetto di motivazione. I casi di applicazione del disposto sono però limitati dal fatto che questa sanatoria processuale può intervenire solo su provvedimenti vincolati, rispetto ai quali sia anche “palese” che il loro contenuto non avrebbe potuto essere diverso: pertanto, ove il relativo accertamento richieda indagini complesse, la sanatoria non potrà operare. Il secondo periodo riguarda anche gli atti discrezionali, ma la sanatoria opera solo sul vizio consistente nella mancanza della comunicazione di avvio del procedimento. Ci si deve chiedere sia applicabile in caso di omissione del preavviso di diniego, poiché la norma in esame non fa menzione di quest’ultimo istituto. 8. Annullamento e revoca

8.1 Concetti generali Con questi istituti l’Amministrazione può porre nel nulla, autonomamente, i propri provvedimenti precedentemente emanati. La facoltà dellea Amministrazioni Pubbliche di eliminare i provvedimenti amministrativi viziati o inopportuni rientra nella generale prerogativa che l’ordinamento riconosce loro, di tutelare da sé la propria sfera di azione. E’, cioè, espressione di “autotutela amministrativa” posta in essere allo scopo di rivedere le scelte già compiute, per renderle coerenti in ogni momento con il pubblico interesse.

Questi provvedimenti, cosiddetti “di secondo grado”, sono discrezionali poiché l’Amministrazione non è obbligata a ritirare gli atti illegittimi ma deve valutare, di volta in volta, se esiste un interesse pubblico alla loro eliminazione, che sia diverso dal semplice ristabilimento della legalità violata; devono essere adottati con lo stesso procedimento e le stesse forme previste per l’atto da eliminare, sicché, ad esempio, se per l’emanazione di quest’ultimo era richiesta l’acquisizione di un parere, esso dovrà essere sentito anche per l’emanazione dell’atto di ritiro; sono recettizi, poiché diventano efficaci solo con la comunicazione al loro destinatario e sono soggetti alle regole della legge sul procedimento amministrativo in materia di comunicazione di avvio del procedimento e partecipazione.

Se l’atto di ritiro presenta vizi di illegittimità, può essere impugnato dinanzi al giudice amministrativo e, in caso di annullamento, l’atto ritirato riacquisterà efficacia. Il destinatario potrà godere anche della tutela risarcitoria per i danni che abbia nel frattempo subìto a causa dell’inefficacia dell’atto originario.

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8.2 L’annullamento d’ufficio La legge 15 ha introdotto l’art. 21 nonies nella Legge 241, che disciplina il potere di annullamento d’ufficio. Questo potere deve essere esercitato entro un termine ragionevole, e a condizione che ne sussistano le ragioni di interesse pubblico. L’atto di annullamento dovrà dare conto, nella motivazione, del bilanciamento effettuato fra tali ragioni e gli interessi dei soggetti privati (destinatari dell’atto e controinteressati) coinvolti nell’affare. L’annullamento è quindi un provvedimento di secondo grado, che opera con efficacia retroattiva su atti affetti da invalidità. Può essere posto in essere dall’autorità gerarchicamente superiore, in attuazione del potere di vigilanza che le compete: si parla allora di annullamento gerarchico. E’ ancora in vigore, pur dopo la riforma della disciplina del rapporto di lavoro alle dipendenze delle Pubbliche Amministrazioni, il potere di annullamento ministeriale degli atti dirigenziali per motivi di legittimità (art. 14, comma 3, ultimo periodo del d. lgs. 165/01). Il Governo inoltre, per motivi di tutela dell’unità dell’ordinamento, può in qualunque tempo annullare gli atti degli enti locali viziati da illegittimità. Si tratta del cd. potere di annullamento governativo previsto dall’art. 138 del d.lgs. 18 agosto 2000, n. 267. L’annullamento d’ufficio è un atto discrezionale, ma la dottrina afferma che diventa doveroso quando l’illegittimità dell’atto da annullare sia stata dichiarata con sentenza, passata in giudicato, del giudice ordinario, che non dispone del potere di annullarlo, o da un’autorità di controllo che non disponeva del potere di annullamento. Questa normativa tradizionale deve ora essere raccordata con il non chiarissimo comma 136 dell’art. 1, legge 30 dicembre 2004, n. 311 (legge finanziaria 2005). Questo, al primo periodo, stabilisce che l’annullamento d’ufficio di provvedimenti illegittimi può “sempre” essere disposto per conseguire risparmi di spesa o minori oneri finanziari per le amministrazioni, anche se l’esecuzione dell’atto da annullare sia ancora in corso. Al secondo periodo introduce un’eccezione a questa regola relativamente ai provvedimenti che incidono su rapporti contrattuali o convenzionali con soggetti privati: in tali casi, l’annullamento può essere esercitato solo entro tre anni dal momento in cui l’atto da annullare è divenuto efficace, e comunque, i soggetti privati coinvolti devono essere tenuti indenni da ogni pregiudizio patrimoniale.

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L’esame di questa disposizione pone un primo interrogativo in ordine al suo rapporto con la legge 15: poiché quest’ultima è successiva, ci si chiede se ne abbia determinato l’implicita abrogazione. Ritengo che la risposta sia negativa, poiché la nuova legge 241/90 disciplina in via generale l’annullamento d’ufficio, mentre il comma 136 regolamenta casi di specie e, pertanto, può definirsi come norma speciale, inidonea ad essere implicitamente abrogata ad opera di norme generali posteriori. Le fattispecie particolari cui è applicabile il comma 136 sono quelle in cui dal provvedimento illegittimo derivano spese a carico dell’Amministrazione: in tali casi esso può sempre essere annullato, anche se la sua esecuzione sia ancora in corso. Peraltro nessuno ha mai dubitato che le pubbliche amministrazioni possano agire in autotutela anche in queste ipotesi, e se il comma 136 (primo periodo) dovesse essere interpretato nel senso di ribadire il concetto, la sua emanazione sarebbe stata del tutto inutile. Per attribuire un significato alla disposizione si deve ritenere che essa abbia legislativamente attribuito prevalenza all’interesse al risparmio di spesa rispetto agli altri interessi incisi dall’esercizio del potere di annullamento. Laddove cioè una pubblica amministrazione si avveda che un provvedimento illegittimo precedentemente emanato comporti un esborso finanziario essa, in base alla disposizione in esame, può ritenersi sempre autorizzata ad annullarlo d’ufficio, poiché il bilanciamento degli interessi coinvolti, pubblici e privati, è effettuato direttamente dalla disposizione legislativa in esame. L’interpretazione può suscitare dubbi di costituzionalità in relazione all’importanza che attribuisce alle ragioni di bilancio, anche se si ricollega ad una giurisprudenza che ritiene sussistere in re ipsa l’interesse pubblico all’annullamento d’ufficio, laddove dal provvedimento illegittimo derivino esborsi finanziari a carico dell’Amministrazione5. Il rigore del primo periodo del comma 136 viene però smentito dal periodo successivo della stessa disposizione, in base alla quale se dall’emanazione di un provvedimento legittimo è scaturito un rapporto contrattuale o convenzionale con un soggetto privato, l’annullamento (con conseguente travolgimento del contratto o della convenzione stipulata) non può essere effettuato oltre tre anni dalla data in cui è divenuto efficace l’atto da annullare e, comunque, i privati interessati devono essere tenuti indenni da eventuali pregiudizi patrimoniali. La norma disciplina un’ipotesi speciale all’interno della fattispecie, a sua volta speciale, di cui al primo periodo del comma 136. Questo è costituito da due cerchi concentrici, dei quali il 5 T.R.G.A Bolzano, 18.12.2002 n. 579

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più largo disciplina l’annullamento d’ufficio per le ipotesi in cui dal provvedimento illegittimo derivano esborsi finanziari per l’Amministrazione; il più stretto riguarda invece i casi in cui dal medesimo provvedimento siano sorti rapporti contrattuali o convenzionali. In quest’ultima ipotesi, l’annullamento d’ufficio non può essere effettuato dopo tre anni successivi all’acquisizione di efficacia del provvedimento illegittimo; ove poi l’Amministrazione agisca in autotutela entro tale termine, i privati interessati devono essere “tenuti indenni” da pregiudizi patrimoniali conseguenti. Ci si deve chiedere come vada quantificata tale indennità. La lettera della norma, se pure non usa il termine “risarcimento” (poiché l’attribuzione al privato consegue ad un atto lecito dell’Amministrazione), sembra abbastanza chiara nel senso di stabilire che essa debba corrispondere alla somma che copre l’intero pregiudizio subito dal privato a causa dell’annullamento. Se è così, ne segue che l’Amministrazione dovrà corrispondergli una somma pari non solo all’interesse negativo, ma comprendente anche l’interesse positivo all’integrale esecuzione del rapporto contrattuale o convenzionale. Ma a questo punto sfugge il senso della disposizione, perché non si vede come l’Amministrazione possa ottenere risparmi di spesa dall’annullamento d’ufficio (come prescrive il primo periodo del comma 136) se poi deve indennizzare integralmente il privato danneggiato dall’esercizio dell’autotutela. Per di più, la norma sembra esposta a censure di costituzionalità rispetto agli artt. 3 (sotto il profilo della ragionevolezza) e 97 (violazione dei principi di imparzialità e buon andamento) Cost. perché da un lato, il decorso del termine di tre anni comporta che atti illegittimi possano consolidarsi e continuare a produrre effetti non più eliminabili dall’ordinamento; dall’altro, prevede l’obbligo per l’Amministrazione di indennizzare il privato leso dall’esercizio (entro il suddetto termine) dell’autotutela senza tenere in alcuna considerazione l’eventuale contributo che questi possa avere fornito all’emanazione del provvedimento illegittimo, ad esempio con false dichiarazioni sostitutive6. 8.3 La revoca La legge 15 ha anche disciplinato l’istituto della revoca, al nuovo articolo 21 quinquies della Legge 241. La revoca è un provvedimento di secondo grado con cui la Pubblica Amministrazione provoca l’eliminazione con efficacia non retroattiva di un atto amministrativo (non illegittimo, ma) inopportuno, in base ad una nuova valutazione degli originari interessi in gioco od anche per il sopravvenire di nuove circostanze.

6 Forlenza, Sugli atti illegittimi scatta l’annullamento in Guida al diritto - dossier mensile n. 1/05

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E’ differente dall’annullamento poiché opera su atti viziati nel merito e presuppone, quindi, una nuova valutazione degli interessi in gioco; inoltre, ha efficacia non retroattiva.

L’art. 21 quinquies della Legge 241 prevede, in via generale, la possibilità di revocare gli atti amministrativi sia ove sopravvengano fatti nuovi, che non esistevano al momento dell’emanazione del provvedimento originario, sia anche per una nuova valutazione delle circostanze di fatto originarie. L’Amministrazione revocante ha però l’obbligo di corrispondere un indennizzo ai privati che siano danneggiati dalla revoca, ed attribuisce la cognizione delle controversie in materia di determinazione e corresponsione dello stesso alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo La revoca è, anch’essa, espressione del generale potere di autotutela riconosciuto alle pubbliche amministrazioni e presuppone una valutazione degli interessi in gioco nell’affare: il relativo potere è quindi strettamente collegato alla competenza dell’organo agente. Non è perciò ammissibile un generale potere di revoca governativo. Inoltre, la riforma del rapporto di lavoro alle dipendenze della pubblica amministrazione ha soppresso il potere di revoca ministeriale degli atti dirigenziali. Allo stato, pertanto, esiste solo la autorevoca da parte dell’organo che ha emanato l’atto originario e la revoca gerarchica operata dall’autorità gerarchicamente superiore, a condizione che questa abbia la stessa competenza di quella inferiore e possa sostituirsi ad essa nell’esercizio di una sua competenza, ciò che non è ammissibile laddove questa le sia conferita in via esclusiva.