La tana dell'odio di Giovanni D'Alessandro (estratto)

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Quanto a fondo possono scavare, nel cuore delle persone, le guerre e gli odi nazionalistici? Quanto possono cambiare, anche a distanza di anni, i progetti e le esistenze di chi ne è stato vittima? Giuseppe Vergagni, che un tempo si chiamava Jusuf Samirovic, è un giovane medico adottato da una coppia italiana, dopo essere sopravvissuto alle atrocità delle guerre che portarono alla divisione nella ex Jugoslavia. La sua crescita e la consapevolezza umana passano attraverso la riscoperta delle proprie radici. Per ritrovare pienamente se stesso, Peppe torna nei luoghi in cui ha visto, bambino, i genitori massacrati da un odio assurdo quanto violento. Il suo viaggio lo porterà ad affrontare un vortice di passioni in cui amore, odio, tenerezza e vendetta si daranno appuntamento in un unico e fatale luogo.

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Giovanni D’Alessandro

LA TANADELL’ODIO

Romanzo

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© EDIZIONI SAN PAOLO s.r.l., 2013 Piazza Soncino, 5 - 20092 Cinisello Balsamo (Milano) www.edizionisanpaolo.it Distribuzione: Diffusione San Paolo s.r.l. Corso Regina Margherita, 2 - 10153 Torino

ISBN 978-88-215-7808-3

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Alle nuvole rosse come fuoco– e poi rosa e poi oro, a poco a poco –

di quel tramonto del ‘59quando tutte le cose erano nuove

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The evil that men do lives after them,The good is oft interred with their bones.

Il male che gli uomini fanno vive dopo di loro.Il bene finisce spesso sotto terra con le ossa.

(William Shakespeare, Giulio Cesare, III, 2)

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Lui ha visto cose che nessun bambino dovrebbe vede-re. Cose dopo le quali si muore, perché chi le fa uccide tutti, affi nché nessuno le racconti. Cose dopo le quali, se anche l’odio non è arrivato a ghermire per uccidere, vi-vere non importa più, per essersi la vita spinta sino al punto dove continuarla era quasi uguale a fi nirla; il con-fi ne ultimo era a un passo, oramai, e bastava un soffi o per varcarlo, scivolando nel nulla.

Lui ha visto cose dopo le quali un bambino non è più un bambino e non avrà mai avuto nove anni. La sua in-fanzia s’interromperà, per dar corso a un’altra età senza nome. Tutti i successivi anni si avvolgeranno attorno a quel grumo di dolore, troppo grande anche per un adul-to e che sarà in agguato ogni anno, ogni mese, ogni gior-no. Non vi saranno più compleanni, dopo il maggio ‘92; lui crescerà, ma la crescita non avverrà per aggiunta, av-verrà per sottrazione, tentando di cancellare. E, pur non apparendo tale agli occhi altrui, già da bambino diven-terà un sopravvissuto senza tempo.

Perderà anche il suo nome. Imparerà a disimpararlo. Le sillabe ascoltate dalla nascita – Jusuf – che gli faceva-no girare gli occhi verso chi le pronunciava, gli diverran-

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no estranee. Come potrebbero non divenire tali, quando non esiste più una madre a pronunciarle, o un padre che con esse lo chiami sulle sue ginocchia, o un fratello più grande, che con quel nome lo inviti a giocare, mettendo-si a inseguirlo per le stanze di casa e minacciando di far-gli chissà cosa, quando lo prenderà?

Meglio non far esistere le sillabe di quel nome. Meglio non esistere. Anche quando la vita, dopo quei primi no-ve anni in Bosnia, è andata avanti quasi di altri venti.

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Peppe era partito presto per la montagna. Si era rita-gliato tre giorni per sé e, come faceva quasi ogni anno, aveva deciso di concederseli prima che iniziasse l’estate. Questa si presentava piena, con gli esami più impegna-tivi da affrontare per la specializzazione in Chirurgia nell’ospedale dove lavorava, il più grande della città. Tre giorni senza andare in ospedale rappresentavano una rarità per uno specializzando e infatti non erano capita-ti dall’inizio dell’anno o, se c’erano stati, li aveva passa-ti in città, nei dintorni, senza pernottare fuori, tranne un week end sulla neve a gennaio, in cui era andato a scia-re all’Aprica, non lontano da casa.

Ma sciare signifi cava un’altra montagna. Voleva dire neve in quota. Bella, certo, ma annegata in una pratica di massa, scandita dalle attese e dall’organizzazione – con l’arrivo, il parcheggio, la fi la agli impianti di risalita, il pranzo in affollati locali, di cui avrebbe fatto volentie-ri a meno – e insomma tutta un’altra cosa coi riti e i ritmi di una cultura urbana trasferitasi lassù.

La montagna, per lui, era l’opposto. Era fuga dagli al-tri verso sé. Nudo approccio all’altezza, per amarla dove nessun altro c’era a guardarlo mentre la amava, ansiman-

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do su di lei; esplorazione della sua fi sicità, perlustrazio-ne delle sue vie più nascoste e sensibili, dove il respiro diventava un’entità a sé che, evocata dallo sforzo, emer-geva e prendeva a parlargli, trasmettendogli ispirazioni profonde. Gli occhi si concentravano in trance sugli scar-poni, scegliendo i passi più sicuri. E, quando era affati-cato, se la ferrata approdava a un punto panoramico, dopo essere salito poteva sedersi su una roccia, a fi ssare un punto lontano. Senza ospitare alcun pensiero. Ricac-ciando indietro il pensiero. Tenendolo a bada lassù dove la rabbia del vento mugghiava storie di altre vite.

Si conquistava il premio della solitudine. Era salito fi n dove nessuno poteva raggiungerlo, poteva stipulare una transitoria tregua col mondo. Non doveva rispondere, essere educato o sorridere. Non doveva fi ngere d’essere felice, fi ngere di ascoltare gli altri, fi ngere di essere lì, quando era in un altrove molto lontano. Per questo ama-va la montagna nelle stagioni in cui la trovava deserta.

Aveva letto il verso di una famosa poesia di Thomas Stearns Eliot, che diceva In the mountains, there you feel free, Sui monti, là ti senti libero. Non era un lettore tecni-co di poesia – non si riteneva all’altezza: da medico, pen-sava che ognuno avesse la sua specializzazione –, ma si accostava a essa con riverenza, come a un distillato del-la mente umana, ricercandovi le parole che avrebbe vo-luto trovarvi, scritte per lui da qualcun altro. Leggeva quindi ogni tipo di poesia, narrativa e saggistica dedica-te alla montagna col rispetto di un profano avventurato-si in un territorio non suo. Cercava in Buzzati, Chatwin, Corona, De Luca, ma anche Petrarca e Wordsworth, e tanti altri che in ogni tempo avevano dedicato pagine al-la montagna, tracce della magia che trasmetteva. Erano

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gli scrittori, no? Toccava a loro afferrare e rendere le pa-role ch’essa materializzava nella mente.

Non era d’accordo con la traduzione di quel verso di Eliot: «Sui monti, là ti senti libero». Cioè lo era in parte. Secondo lui, Eliot aveva voluto dire: sui monti, là ti sen-ti te stesso, che non voleva dire libero, voleva dire “ri-consegnato a ciò cui appartieni” o sei convinto di appar-tenere e, se appartieni, per defi nizione non sei libero, dal momento che il primo verbo contraddice il secondo. O forse, ecco, il feel free del poeta signifi cava «liberarsi dal fi ngere di essere liberi». Riconsegnarsi ai propri pensie-ri e ricordi. Rientrare nella casa del silenzio per sfuggire all’alienazione delle parole. In questo senso forse la tra-duzione era giusta.

E quindi fi nalmente, dopo tanto studio e lavoro, si prendeva tre giorni. «Finalmente» sarebbe stato l’avver-bio giusto, solo che non si adattava a lui. Considerava il dovere come la dimensione normale della sua esistenza e il resto una variante: essere impegnato, essere preso era una realtà che lo accompagnava da sempre. Fosse stata sua abitudine voltarsi a guardare gli anni alle spalle, avrebbe detto che erano stati tutti una tirata.

Laurea a tempo di record, con lode, in Medicina. Esa-me di Stato. Ingresso, in circostanze abbastanza fortuna-te, in Chirurgia per la specializzazione, con quel camice che sembrava aspettarlo da sempre come un’uniforme, da indossare anche prima di entrare in azione operando, come in una dimensione militare.

Ecco, se uno avesse voluto defi nirlo, avrebbe potuto dire questo del dottor Giuseppe Vergagni: un gran bel ra-gazzo dal look un po’ militare e poco sorridente: serio, Ge-sù, serissimo. Uno di quei giovani che con l’aspetto, il

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comportamento, il modo di essere trasmettevano un mes-saggio metaverbale da far involontariamente sgranare gli occhi a chi ci entrava in contatto, portandolo a sintoniz-zarsi sulla stessa interrogativa frequenza di attenzione. Che ha fatto questo bel ragazzo per essere così refrattario alla spensieratezza? – leggeva Peppe negli occhi degli al-tri, al primo contatto con lui; ci s’era abituato ormai.

Sembrava inconsapevole del suo fi sico. Molto alto, at-letico, bello di lineamenti, scuro di carnagione con occhi nerissimi – in cui scintillava una non aggressiva intelli-genza, ma da cui la gioia sembrava esser stata sfrattata come un’inquilina abusiva –, Peppe dava l’impressione di ruotare intorno a qualcosa di sconosciuto a tutti. Se ne accorgeva parlando con gli altri e allora emetteva segna-li, contrari, di comunicazione, come un natante che se-gnalasse il suo ingresso in porto suonando educatamen-te la sirena, e già rimpiangendo il mare alle spalle. Per questo contrasto tra l’aspetto e il comportamento, ispi-rava agli amici, quelli più in confi denza, un mix di tec-niche di rianimazione, fatte, sin dall’adolescenza, di schiaffi sulla nuca, cazzotti al petto, tirate di capelli e si-mulate o reali pacche in direzione del basso ventre, a in-dicare la parte che appariva più bisognosa di una scossa per tornare a vita, reclamando contro un fi sico tenuto così low profi led. Peppe sorrideva, ma non ricambiava. E quanto alla sfera attinente alla parte sollecitata, che non aveva bisogno di scosse, in effetti era oggetto d’inquie-tanti interrogativi tra le ragazze.

Il rapporto di Peppe con loro le lasciava sgomente. Faceva sesso rimanendo serio com’era sempre; usando il proprio corpo, senza inibizioni, per apprezzate mecca-niche, dopodiché stop. «Tutto sul fi sico», aveva detto la

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più disperata, fallita l’impresa di conquistarlo, «niente sull’emotivo, niente sul comunicare, e anche quando stia-mo insieme, aspetta che sia tu a prendere l’iniziativa; non dice una parola, mentre lo facciamo e dopo; anche se obiettivamente non ci stai a pensare, per come va, du-rante». Era così. Fare sesso, per Peppe, era una cosa che arrivati a un certo punto della serata, o nottata, o gita che fosse, bisognava fare, quale naturale seguito di perento-ri preliminari, come si offre a una ragazza di riaccompa-gnarla a casa o di condividere un ombrello se piove; a parte il tributo a una propria necessità naturale, dalla quale non sembrava disposto, tuttavia, a farsi condizio-nare oltre un certo limite. «Dopodiché, fi ne»; – aveva proseguito la leader delle disperate – «cala il silenzio, anzi peggio: sembra che non veda l’ora di lasciare il luo-go del delitto; non dice niente, ma ti guarda come se tro-vasse strano che tu non abbia la stessa voglia di andar-tene da lì... meno male che l’assassino torna sempre sul luogo del delitto»

A meno di non essere poco obiettivi, il rapporto di Peppe con le donne somigliava a un contratto a presta-zioni fi siche, con annesse fasi convenzionali di educazio-ne, premura, attenzione, tutte presidiate dall’implicita clausola di essere a scadenza e di mantenersi al di qua della soglia del coinvolgimento emotivo, pena l’imme-diata risoluzione.

Ciò era qualifi cato dagli amici maschi, con ammira-zione, come «un comportamento da grandissimo stron-zo»; mentre dalle donne, le non molte in verità con cui aveva avuto una storia, lo stesso comportamento era de-fi nito con l’intonazione con la quale si rimanda qualcuno a uno psicologo.

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Comunque fosse, su una cosa si ritrovavano tutti, ami-ci e amiche e fi danzate: «Peppe era uno chiuso; ma pro-prio chiuso»; e la valutazione si fermava lì. Diffi cile infat-ti capire cosa s’intendesse per «chiuso», ne risultavano inadeguate tutte le declinazioni. «È uno molto riservato» era la più affettuosa. «Non parla mai di sé» ne isolava un aspetto, ma non spiegava. «Non vuole legarsi» era una sintesi a valle del suo comportamento, e veniva espressa tanto dalle femmine quanto dai maschi, i quali aggiunge-vano «e fa bene». «Ha paura di aprirsi» era un’altra frase, delle meno amicali, femminile di regola quanto a prove-nienza, e lo ascriveva alla categoria dei paurosi di farsi male. «Lo tormenta qualcosa dentro» segnava già un av-vicinamento più pericoloso al nucleo nascosto dentro di lui e muoveva domande che rimanevano senza risposta. Il che riportava al mistero iniziale del perché un pezzo di santantonio così bello e bravo, con tutti quei numeri, an-ziché darci dentro a godersela, si facesse assorbire da «qualche microchip fulminato che ha dentro la testa»

Peppe aveva sentito quest’ultima frase e, abbassando gli occhi, aveva annuito, dentro di sé. Era il minimo che potessero dire di lui e gli andava anche bene, come prez-zo da pagare; fosse dipeso da lui, avrebbe usato altre lo-cuzioni, su se stesso, meno generose.

Riguardo a un’altra cosa erano però tutti d’accordo: che fosse bravissimo sul lavoro. Possedeva quella parti-colare sintesi tra astrazione e manualità che fa la mecca-nica del chirurgo nato. Era una macchina silenziosa, in-capace di avvertire fatica, un atleta, quanto a presenza in sala chirurgica, che lo aveva fatto stimare dai medici più anziani già quand’era studente interno, perché non se ne vedevano molti così. Il massimo di disponibilità

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era per lui il minimo da dare. Andava incontro all’impe-gno cercandolo, e lo assolveva in un modo che stupiva. Cercava di stare in sala operatoria e in reparto più che poteva, come nei luoghi eletti della sua vita lavorativa. Ricettivo nella individuazione e veloce nell’elaborazione dei dati, era prudente nella diagnosi e nella prognosi, fa-cilitato, in questo ponderare il giudizio, dal non essere un parlatore, ma la scarsa comunicatività si sposava qui col camice, diventando sul lavoro prudenza nel pronun-ciarsi e anche altro: riservatezza, calma, autocontrollo.

Aveva insomma una vocazione per il suo mestiere, se mai se n’era vista una in Chirurgia e ciò spiegava perché ne stesse bruciando le tappe. Ma era modesto, e se sba-gliava o doveva correggersi, lo faceva accettandolo come se non avesse aspettato altro che di migliorare; né s’inor-gogliva dei risultati ottenuti e dell’apprezzamento riscos-so dai colleghi, i quali già si avviavano a considerarlo come un riferimento, pur giovane com’era. L’altro agget-tivo usato per descriverlo era, infatti: maturo. Molto ma-turo per la sua età, ventinove anni ancora da compiere.

* * *

Aveva preparato lo zainetto e il trolley dalla sera pre-cedente. Un altro dei vantaggi del partire da solo era fa-re in solitaria queste ascensioni, che non raccontava so-prattutto ai suoi genitori, per non allarmarli. A loro di-ceva soltanto: «Vado domani e dopodomani in monta-gna. Parto dopo pranzo, sto fuori due notti. Forse il te-lefonino non prende quando sono su». Laconico, com’e-ra nel suo stile, chiudeva così i contatti col mondo. «Ci vai da solo?», gli chiedeva la madre. «Solo per il viaggio»,

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