La stagione delle piogge

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Non saprei dire da dove scaturisca l’emozione che si prova quando si viaggia. So solo che si frantuma in milioni di pezzi che riempiono il petto e che una ventata di nuovo sferza la mente. Il viaggio per me è una partenza senza data di ritorno, un vivere la giornata nell’incertezza, un sognare a occhi aperti. Questa è la storia del mio vagabondare per il mondo, un viaggio per assaporare la libertà, per cadere e rialzarsi, per crescere.

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Servizi Culturali è un'associazione di scrittori e lettori nata per diffondere il piacere della lettura, in particolare la narrativa italiana emergente ed esordiente. L'associazione, oltre a pubblicare le opere scritte dai propri soci autori, ha dato il via a numerosissime iniziative mirate al raggiungimento del proprio scopo sociale, cioè la diffusione del piacere per la lettura.

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DESCRIZIONE:

Non saprei dire da dove scaturisca l’emozione che si prova quando si viaggia. So solo che sifrantuma in milioni di pezzi che riempiono il petto e che una ventata di nuovo sferza lamente. Il viaggio per me è una partenza senza data di ritorno, un vivere la giornatanell’incertezza, un sognare a occhi aperti.Questa è la storia del mio vagabondare per il mondo, un viaggio per assaporare la libertà, percadere e rialzarsi, per crescere.

L'AUTORE:

Cristian Martini è nato a Parma il 27 novembre del 1979. Attualmente vive aMilano. Ha già pubblicato “Occhi profondo mare” (Casa Editrice Kimerik, 2009).

Titolo: La stagione dellepiogge Autore: Cristian Martini

Editore: 0111edizioni Collana: Opera PrimaPagine: 172 Prezzo: 14,00 euro11,90 euro su www.ilclubdeilettori.com

Leggi questo libro e poi...- Scambialo gratuitamente con un altro [leggi qui] - Votalo al concorso "Il Club dei Lettori" e partecipa all'estrazione di unPC Netbook [leggi qui] - Gioca con l'autore e con il membri della Banda del BookO (che silegge BUCO): rapisci un personaggio dal libro e chiedi un riscatto perliberarlo [leggi qui]

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E' la nostra web tv, tutta dedicata ai libri. Se hai il video della tua presentazione, oppure un videotrailer del tuo libro, prima pubblicali su YouTube, poi comunicaci i link. Dopo aver valutato il materiale, lo inseriremo nel canale On-Demand di TeleNarro.

Se hai in programma una presentazione del tuo libro nel Nord Italia e non hai la possibilità di girare il filmato, sappi che c'è la possibilità di accordarsi con Mario Magro per un suo intervento destinato allo scopo. Contatta Mario e accordati con lui.

PARLANDO DI LIBRI A CASA DI

PAOLO ogni mercoledì alle 21 in diretta su TeleNarro

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La trasmissione di Paolo Federici dedicata ai libri. Ogni mercoledì alle 21 in diretta su TeleNarro. E' possibile vedere le puntate già mandate in onda sul canale On-Demand

BOOKINO il CONTASTORIE

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"Bookino il Contastorie" ti racconta un libro in una manciata di minuti. Poi, potrai proseguire la lettura online, su EasyReader.

E se il libro ti piace, potrai richiederne una copia in omaggio con l'iniziativa Adottaunlibro. Clicca su Bookino...

IL CASSETTO DEI SOGNI

(prima trasmissione prevista a FEBBRAIO 2010)

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A differenza di "Parlando di libri a casa di Paolo", questa trasmissione, condotta da Mario Magro e sponsorizzata dalla nostra associazione, tratterà solo libri della 0111edizioni. Anche in questo caso, i libri presentati sono scelti dal conduttore, che li seleziona fra una rosa di titoli proposti dalla casa editrice.

E' però possibile richiedere una puntata dedicata a un libro specifico, non compreso nell'elenco di quelli selezionati, accordandosi direttamente con il conduttore, Mario Magro.

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Con EasyReader puoi dare un'occhiata ai nostri libri prima di acquistarli. Sono disponibili online in corpose anticipazioni (circa il 30% dell'intero volume), che ti consentiranno di scegliere solo i libri che preferisci, evitando di acquistare "a scatola chiusa".

In più, con l'iniziativa Adottaunlibro, puoi richiedere in regalo il libro che sceglierai.

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(L'iniziativa Adottaunlibro è legata all'iniziativa EasyReader)

CONCORSO IL CLUB DEI

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Se hai letto un libro di un autore italiano (edito da qualunque casa editrice), votalo al concorso Il Club dei Lettori e partecipa all'estrazione di numerosi premi. La partecipazione al concorso è gratuita.

Gioca con la Banda del Booko

(che si legge BUCO)

all'ANONIMA SEQUESTRI

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In questo gioco a premi avvengono rapitimenti un po' anomali: le vittime sono personaggi di romanzi, che verranno poi "nascosti" in altri romanzi a discrezione dei rapitori e per la liberazione dei quali è richiesto un riscatto all'autore. Qui entra in gioco la "Squadra di Pulizia", che tenterà di liberare il personaggio per evitare all'autore il pagamento del riscatto. In questa fase sono anche previsti tentativi di corruzione da parte dei Puliziotti nei confronti dei rapitori... ma non è il caso di spiegare qui tutto il funzionamento del gioco... per il regolamento è meglio fare affidamento all'APPOSITA PAGINA. E' possibile giocare e andare in finale nei ruoli di RAPITORE, VITTIMA, PULIZIOTTO, GIUDICE e PENTITO.

In palio c'è un premio per ognuna delle 4 categorie. Il premio, di cui inizialmente viene specificato solo il valore massimo, viene scelto dai rispettivi vincitori dopo il sorteggio.

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CRISTIAN MARTINI

LA STAGIONE DELLE PIOGGE

www.0111edizioni.com

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www.0111edizioni.com

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LA STAGIONE DELLE PIOGGE 2009 Zerounoundici Edizioni

Copyright © 2009 Zerounoundici Edizioni Copyright © 2009 Cristian Martini

ISBN 978-88-6307-256-3 In copertina: Immagine Shutterstock.com

Finito di stampare nel mese di Marzo 2010 da

Digital Print Segrate - Milano

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Bello è avere dimora, dolce il riposo sotto il proprio tetto, bambini, giardino e cane. Ma ecco, appena dall’ultimo girovagare ti riprendi già la distanza t’incalza con nuovi allettamenti. Meglio soffrire la nostalgia ed essere solo sotto impervie stelle col proprio struggimento. Possedere e sostare può solamente chi abbia un cuore dal tranquillo battito, mentre il viaggiatore reca fatiche e affanni di una speranza sempre delusa. Pure più lieve è ogni penoso errare, più lieve della pace nella natia valle, dove tra la fida cerchia di amici e di timori solo il saggio costruisce la sua felicità. Meglio è per me cercare e mai trovare, non stringermi a vicinanze anguste e calde, perché sulla terra anche nella felicità sarò soltanto un ospite e mai un cittadino.

Hermann Hesse

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A Nicola Fiore, compagno di viaggio

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LA STAGIONE DELLE PIOGGE Non saprei d ire da dove scaturisca l’emozione che si prova quando si viaggia. So solo che si fr antuma in milioni di pezzi che ri empiono il petto e che u na ventata di nuovo sferza la mente. Il viaggio per me è una partenza senza data di ritorno, un vivere la giornata nell’ incertezza, un sognare a occhi aperti. Conobbi Nicola nell’estate del 200 0, lo vidi davanti alla porta d ella re-ception del prestigioso Chichester College m entre c hiacchierava con due suoi amici, Maurizio e Luca, nell’attesa di entr are nell’aula magna per il test di ingresso. Ci trovavam o in Inghilterra pe r trascorrere due mesi di vacanza-studio; era la prima volta che mi allontanavo così tanto da casa e così a lungo. Avevo vent ’anni e tutta la voglia di libertà che l’età pompava nel sangue. Mi avvicinai e mi presentai ai tre che mi accolsero subito nel gruppo. Ci assegnarono classi separate a seconda del livello di conoscenza della lingua (il mio era piuttosto basso), ma avevam o tutto il tem po necessa-rio per stare insieme e divertirci. Passammo u n’estate meravigliosa che segnò profondam ente le nostre vite. Quello fu per noi un incrocio , ognuno prese poi l a propria strada e non avrei mai pensato che la mia e quella di Nicola si sarebbero unite di nuovo.

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CINQUE ANNI DOPO Era da alcuni anni che m i ero conformato alla vita che la società i mpo-ne. Reduce da qualche scappata all’estero piena di avventure, avevo de-ciso di “mettere la testa a posto” con un lavoro d’uf ficio a tempo inde-terminato presso una grande società. Reprimendo la mia voglia di libertà sentii lentamente qualcosa morirmi dentro. Mi trascinavo ogn i giorno nella speranza che l’ indomani fosse migliore, ma senza fare qualcosa affi nché ciò avvenisse. Aspett avo gli eventi, ma nulla di im portante veniva a travolgermi. Tutto ciò c he più avevo cercato di rif uggire, quotidianità e m onotonia, mi stavano lenta-mente avvolgendo rende ndomi apatico e scontroso. Per lungo tem po trascurai il fatto che i sogni hanno bisogno di sapere che siam o corag-giosi. Riuscivo a guardarmi dentro ma non trovavo il coraggio di af-frontare la vita. Purtroppo si è perso il vero significato della parola “vi-vere”, probabilmente proprio a causa della paura inconscia che abbiamo nell’affrontarla, nel giocar ci. Quanti so gni, aspettative, speranze rele-ghiamo nell’angolo più nascosto del nos tro cuore? Le poche vol te che vi accediamo ci lasciamo andare in un lungo sospiro e spesso ci odiamo per non aver la forza di essere i prot agonisti nelle nostre vite, invece d i semplici spettatori. Un giorno, stanco di sopra vvivere, mi recai dal capo per parlargli; en-trai nel suo ufficio e mi sedetti di fronte a lui. - Ho un problema - gli annunciai. - Cosa succede? - - Non mi sento bene. Mi manca qualcosa e quel qualcosa non posso trovarlo qui - risposi senza entrare nei dettagli. Immediatamente intuì che non si trattava di un malessere fisico. - Sei sempre stato un valido collaboratore, dimmi cosa posso fare per te - m i disse c omprensivo, quasi incuri osito da quello che avrei potuto chiedere. - Sei mesi. Ho bisogno di sei mesi di aspettativa - Corrugò la fronte, forse poco convinto che quella sarebbe stata una so-luzione. - E cosa faresti di tutto questo tempo? -

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- Un viaggio. Ho bisogno di avere tempo per pensare - Alzò le sopracciglia, la richiesta era senz’altro inconsueta. - Non è facile che te la concedano ma proverò a chiedere all’ufficio del personale, perorerò la tua causa - Ringraziai profondamente grato per come aveva preso la notizia e per il fatto che voleva aiutarmi. Svolgevo un lavoro delicato e sostituirmi per qualche mes e poteva esser e difficile. Difficile ma n on impossibile, in fondo siam o tutti utili , m a nessuno è i ndispensabile. Qualche giorno dopo mi convocò per annunciarmi il verdetto. - Niente da fare - mi disse - mi dispiace - aggiunse. La mia reazione fu composta e dosata. Inconsciamente avevo già un pi-ano di riserva nella mia testa. Una di quelle sere presi la cornetta e composi un numero. - Pronto? - - Nico ho un progetto, devo parlarti - - Di cosa si tratta? – chiese il mio amico. - Di un viag gio. Di un lungo viaggio - sottolineai dopo un secondo di pausa. - Allora dobbiamo vederci - Nel fine settimana ci inco ntrammo a metà strada circa, essendo lui di Rimini e vivendo io a Mi lano, avev amo optato per vederci nella casa dei miei genitori sull ’Appennino tosco-emiliano. Arrivammo nel tardo pomeriggio, con qualche mappa e un atlante come unico bagaglio. Rivedere Nicola dopo ann i mi fece balzare indietro nel tempo, quando spensierati e liberi correvamo dietro all e ragazze e viveva mo alla gior-nata sui verdi prati inglesi. Sono fermamente convinto che quel periodo all’estero aveva fatto vacillare in noi tutti quei capisaldi che i nostri ge-nitori ci avevano insegnato. Credo che una vita fatta esclusivam ente di doveri no n valga la pena di essere vissuta. Quell’assaggio di libertà ci aveva creato un bisogno ch e presto o tardi avremmo dovuto soddisfare: dipendeva tutto da quanto ci avremmo messo a trovare la forza. La trovammo quando io avevo 25 anni e Nico la tre in più. Un buon momento per cimentarci in un’impresa che ci avrebbe fatto diventare uomini. Oggigiorno si diventa uomini senza superare alcuna prova, solo perché si raggiunge una certa età. Non è più un traguardo, qualcosa per cu i combattere. Noi volevamo uscire a llo scoperto, vedere il mondo e vi-verlo con tutte le sue emozioni. Vole vamo esser e travolti dalle espe-rienze e convincere noi stessi e gli altri che meritiamo molto di pi ù di quello che ci passa la vita. Soprattutto volevamo conquistarci il titolo di

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“uomo”, sentirlo dentro a ogni respiro, avere la consapevolezza di es-sercelo guadagnato. - Da dove partiamo? - gli chiesi aprendo il planisfero. - E’ uguale, ancora devo vedere tutto - rispose ridendo. Nicola aveva lasciato il lavoro qualche mese pri ma per iniziare un vi-aggio in m oto per l’Euro pa con un suo am ico. Purtroppo l ’avventura era finita con una brutta caduta sul bagnato che aveva causato la frattu-ra della clavicola del suo compagno di viaggio e il conseguente rientro dopo quindici giorni. Da allora non cercava lavoro, forse nell’attesa che qualcosa si sm uovesse. Entrambi avevamo sete di vita, di esperienze e di avventure. Entrambi volevamo credere che la vita non fosse solo un elenco di doveri bensì un unico e prepotente diritto di cui noi avevamo deciso di avvalerci. - Perfetto allora partiamo dal Sud America. Da domani cerchiamo il vo-lo più econo mico per una capitale qua lsiasi, va bene? - dissi allu ngan-dogli la mano. - Ci sto - rispose stringendomela per suggellare l’accordo. Trovammo immediatamente un’offerta per Caracas, in Venezuela. Solo andata, ovviamente. Pochi giorni dopo consegnai la lettera di dimissioni e mi parve la cosa più spontanea che avessi mai fatto. Il capo sembrò rassegnato alla mia decisione, mi conosceva abbastanza da non cercare di farmi cambiare idea. Dopo un paio di giorni venni chiamato dal capo di un altro ufficio. - Cristian, cosa mi combini? – mi chiese appena mi accomodai davanti a lui. Mi sem brò m olto strana quella preoccupazione, an che perché fino ad allora non avevo mai avuto contatti con lui. - Mi sono dimesso - risposi. - Hai trovato altro? Non stai bene nel tuo ufficio? – indagò. - Nulla di tutto ciò. Parto per un lungo viaggio - - Caspita, non ci si può lasciar scappare un lavoro come il tuo di questi tempi – Ecco un’altra persona che temeva di vivere. - Ho chiesto sei mesi di aspettativa, ma non m i sono stati concessi – dissi più per infierire che per giustificarmi. - Perché non ne sei venuto a parlare con me? - Volevo rispondergli “Perché non la conosco e non c’entra quasi nulla con il mio lavoro”ma mi limitai ad alzare le spalle. - Non ci vuoi ripensare? - insistette. - Ormai ho consegnato le dim issioni ed è meglio che le cose seguano il

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loro corso - - Va bene, vedo che sei deciso. Ascolta almeno la mia proposta: revoca le dim issioni e ti concediam o un periodo di aspettativa, quando torni vieni a lavorare per me con un nuovo contratto che ti lascer à libero per minimo due, massimo tre mesi all’anno - Non ci potevo credere. L a mia mente cominciò a elaborare tutte l e in-formazioni ricevute concludendo che era l’occasione della mia vita. - Il problema è che avevo in mente di viaggiare per un anno - dissi stor-cendo il naso e rischiando tutto. Il capo prese il calendario aziendale e lo scorse fino alla fine dell’ anno. Poi lo girò e guardò quello seguente. - Otto mesi. Che ne dici? - - Si può fare, ma devo chiedere al mio compagno di viaggio, i n questo modo anche i suoi piani cambierebbero - - Non c’è problema, intanto andrò a parlare con chi di dovere - Nicola non ebbe nessun rim provero da farmi, otto mesi erano più che sufficienti per lui. - Accetta - mi disse - è un’ottima occasione - Già, era proprio un’ ottima occasione. Ero su di giri, quell’opportunità non solo m i avrebbe reso il viaggio più rilassante, ma mi mostrava quanto fossi importante per la ditta per cui lavoravo. La brutta notizia arrivò dopo una settimana. L’ accordo non si poteva fare. All’ufficio del personale era no tutti disponibili a darmi ciò che mi era stato proposto, m a il mio capo più stretto non digeriva il fatto che all’altro concedessero tutti quei poteri che a lui avevano negato. Per una questione di orgoglio personale andò su tutte le furie e bloccò ogni trat-tativa prom ettendo dura l otta. Così si videro costretti ad accettare le dimissioni. - Buon viaggio. Quando torni passa dal mio ufficio, vedrai che le acque si saranno calm ate - disse strizzandom i l’occhio l’al tro capo l’ult ima volta che lo vidi. Forse era meglio così. Il r itrovarmi senza quel tipo di certezza avvalo-rava il viaggio, lo rendeva più vero. Poco tempo prima avevo conosciuto Veronica una s tupenda ragazza di origini siciliane la cui intelligenza era qualcosa di più unico che raro. Mi ci ero affezionato subito, ma dentro di me pensavo che la sto ria a-vesse una data di scadenza . Il progetto di viaggiare ormai occupava to-talmente la mia mente non lasciando spazio per altri piani; era un sogno che da tempo volevo realizzare e nessuno avrebbe pot uto impedirmi di

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mettermi lo zaino sulle spa lle. Sentivo la necessità di crescere, e pensa-vo che quell’esperienza mi avrebbe reso migliore, un uom o, appunto. Più frequentavo Veronica e più crescev a il rammarico per averla cono-sciuta in quel frangente passeggero; s e il destino avesse l asciato che quella scintilla fosse scoccata a viaggio ultim ato avrei potuto conse-gnarle una persona migliore e più completa. Non le dissi nulla dell’imminente partenza, p ensavo di andar mene silenziosamente, come se non dovessi dar conto ai nostri cuori. Ma il fuoco della passione co minciò ad ardere con una potenza incon-tenibile e no nostante le nostre menti cercassero di ragionare le nostre anime si erano ormai unite. Fu durante una delle tante litigate che carat-terizzano le storie quando nascono, quelle litigate che possono decreta-re la fine di un giovane rapporto se non fosse sempre tanto bello fare pace, che le comunicai il tutto. - Ormai non ha più senso litigare - le dissi. - Cosa intendi dire? - mi chiese con sospetto. In quel momento si avverò il suo incubo peggiore. - Parto - le risposi. - Quando … dove? - chiese disorientata dalla mia risposta. - Il 16 novembre, fra due settimane - - Per quanto tempo? - Alzai le spalle, non lo sapevo nemmeno io. Quando seppe che avevo già il biglietto in tasca la sua rabbia sprofondò nella tristezza. Incominciò a singhiozzare, grosse lacrime le solcarono il viso. - Perché non mi hai mai fatto partecipe di questo tuo progetto? - - Perché non ho mai visto un futuro per noi e anche tu sei della stessa opinione - dissi. Era vero: viv evamo la giornata senza mai alzarci sulle punte dei piedi per scorgere più in là; in più le frequenti litigate causate dai nostri carat-teri granitici non facevano sperare in nulla di duraturo. - Almeno avremmo potuto provarci. Io ti amo – disse. Qualcosa si ruppe dentro di me. Qualcosa di solido, come la certezza di bastare a se stessi. - Ri maniamo insiem e. No n posso accettare che non sarai più mio, fa troppo male - - Non è possibile, sarebbe una tortura per entrambi - le risposi. - Ne varrebbe la pena, non credi? - Mi soffermai un istante a pensare a quanto brutta sarebbe stata la mia vita senza le sue attenzioni. Il nos tro era un rapporto difficile, fatto di

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alti e bassi, dove i bassi sfioravano l’inferno ma gli alti toccavano il pa-radiso. - Sarebbe troppo dura - ripetei. - Non voglio perderti - disse sprofondando in un pianto disperato. No, in realtà nemmeno io volevo perderla. - Proviamoci! - esclamai. Immediatamente smise di piangere per guardarmi negli occhi e cogliere la verità. - Ce la faremo, vedrai. Noi siamo speciali - disse asciugandosi il viso. - Tu lo sei sicuramente - le risposi sorpreso da quanta forza avess e den-tro quella ragazza. Gli ultimi giorni passati insiem e furono meravigliosi. Sapere che entro poco non ci saremmo rivisti per lungo tem po ci portò a capire qu anto importante fosse lo stare i nsieme e vivere ogni attim o co me se fosse l’ultimo, proprio come farebbe un ma lato terminale nei confronti della vita. Riempimmo la nostr a testa di innumerevoli momenti trascorsi in-sieme da cui attingere una volta lontani. E’ inconcepibile quanto le per-sone non diano il giusto peso a ciò che hanno intorno, pensando che sia eterno. Basta un attimo, a volte uno scherzo del destino, per perdere tut-to e passare la vita disperati per non aver vissuto intensamente, per aver lasciato tutto nel non detto e nel non fatto. Arrivò l’ultimo giorno. Una mano fatta di tristezza cominciò a stringere il mio cuore fino a lasciar mi senza fiat o. La salutai guardandola il più intensamente possibile per cogliere ogni minimo dettaglio del suo viso, con la terribile paura che il tem po mi avrebbe portato ad a vere un’immagine confusa di lei. Dopo averla salutata andai a prendere Nicola alla ferm ata della metro-politana. Arrivava da Ri mini con mezz’ora di ritardo, lo aspettai e quando lo vidi con il suo i mmenso zaino militare realizzai che stavamo davvero per partire. Ci recammo a casa dei m iei dove completammo il mio zaino, poi ci vede mmo per una p izza con Mau rizio che ci guardò incredulo per questa decisione tanto folle quanto affascinante. Avre m-mo voluto venisse con noi, ma aveva altri progetti. Fa cemmo una scap-pata al locale gestito da Veronica dove ad attendermi c’era un regalo. - Hai detto che non volev i portarti il cellulare perch é volevi isolarti da tutti, giusto? - mi domandò dopo avermi preso in disparte. - Sì, preferisco non avere contatti telefonici - - Bene, questo è un mio regalo e devi accettarlo – di sse consegnandomi un telefonino - Dentro c’è una scheda con un mio vecchio numero. Solo noi due sappiamo che ce l’hai -

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- Come facevi a sapere che sarei tornato a trovarti? – chiesi sorpreso. - Immaginavo - Misi il cellulare in tasca e le diedi un ultim o bacio. In pochissimo tem-po era arrivat a a conoscer mi meglio di chiunque altro, certo non sape-vamo molto l’uno dell’altra, ma era come se possedessimo una bussola per guardarci dentro e orientarci senz a mai perderc i. La salutai per l’ultima volta. Tornammo a casa dei miei e ci mette mmo a letto co n qualche birra in corpo, giusto il m inimo per attenuare la malinconia. Anche Nicol a la-sciava a c asa una persona special e, Silvia. Si erano conosciuti poco tempo prima e ora si er ano separati. Par tivamo già con qualcosa in co-mune. Quella notte faticai ad ad dormentarmi, il pensiero c he stes si buttando via tutte le sicurezze che mi ero guadagnato m i assaliva provocandomi giramenti di testa. Ultimamente i dubb i mi tormentavano, cercavo di non dare loro spazio ma la mente a volte è ingovernabile. In realtà sap evo che dove vo cam biare qualcosa dentro di m e ed ero pronto a iniziare il mio cammino. Il viaggio è la ricerca di qualco sa che esattamente non si sa. E’ u n calpestare terreni sconosciuti, allontanan-dosi da quella che chiamiamo casa per avvicinarci al luogo do ve mai avremmo pensato di poter arrivare: la nostra vita. La strada è impervia e quando si pensa di esser e arrivati ecco cominciare un nuovo sentiero. Rispondere a una dom anda serve spesso a scoprire che dietro ce ne so-no altre dieci. Ma probabilmente non è una ricerca infinita e anche se lo fosse una vit a spesa nella ricerca è una vita che vale la pena di es sere vissuta. Da troppo osservavo la mia esistenza come si può osservar e un giorno di pioggia; era diventato tutto ripetitivo e noioso e pensavo che l’unico modo per contrastare la monotonia fosse continuare a spostarsi lascian-dosela ogni volte alle spalle. Se qu esto m i fosse costato sofferenza e malinconia, allora ero pronto a pagare lo scotto. Mia madre mi aveva sempre detto che dovevo godere delle piccole gioie ed essere feli ce con quello che a vevo. Io le a vevo sem pre risposto che non m ’importava nulla delle piccole gioie, ne volevo di grandi, di quelle che lasciano senza fiato. Lei aveva ra gione, ma for se anch’ io ne avevo un po’ . In realtà la “virtù sta nel mezzo”; bisognerebbe sem pre cercare il g iusto equilibrio, cosa che speravo di trovare lungo il tragitto.

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PARTENZA La mattina suonò la sveglia, ci alzammo intontiti e facemmo un’abbondante colazione. Mi sentivo spaesato, milioni di emozioni nuove mi bombardavano da ogni lato e non sapevo come governarle. Poi arrivò il momento dei saluti, mia madre aveva gli occhi lucidi. - Prendetevi cura l’uno dell’altro - ci disse. L’abbracciai, le chiesi di non preoccupa rsi, anche se sapevo essere una richiesta stupida. Sapevo di tradire le sue aspettative e sebbene il delu-derla mi creava una voragine nello stomaco, non potevo agire in manie-ra diversa. Avevo provato a vivere per gli altri, ma farlo rendeva me in-felice; ero stanco di essere circondato da certezze e doveri che rendeva-no la v ita noiosa, avevo bi sogno di cambiare, di resp irare libertà. Que-sto avrebbe portato sofferenza ai miei cari e sapevo che ciò si sar ebbe riflettuto su di me assumendo forma di malinconia. Mio padre ci ac-compagnò alla fermata della metropolitana, abbracciai anche lui che mi guardò torvo. Non aveva mai apprezzato che me ne andassi in posti lon-tani. Probabilmente per il fatto che vedeva ogni v olta mia madre così preoccupata. Con un paio di mezzi di trasporto arrivammo all’aeroporto di Malpensa dove inco ntrammo la prima difficoltà. Dopo aver emesso le carte di imbarco l’hostess ci chiese il biglie tto di ritorno o ppure uno di uscita dal Venezuela. - Viaggeremo per l ungo t empo, non s appiamo esat tamente da dove e quando torneremo - le risposi. Quando le vidi strappare le nostre carte, un lampo d’ira mi annebbiò il cervello. - Mi scusi, qual è il problema? - chiesi cercando di rimanere calmo. - Dovete avere un biglietto di uscita, altrimenti non potete partire - Sapevo che l’unico modo per uscirne era firmare una carta per scaricarli da ogni responsabilità. La co mpagnia aerea non im barcava persone senza un biglietto d’uscita, poiché te meva che quest e ri manessero nel paese di arri vo per un te mpo superiore a quello previsto dal vis to per turismo. Il governo riteneva responsabili le co mpagnie aeree ch e per-mettevano a tali persone di imbarcarsi.

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- Mi faccia parlare con un responsabile - chiesi immediatamente. - Non è disponibile, ora per cortesia spostatevi dalla fila - Senza il capo non potevamo aggrapparci alla possibilità di firmare quel-la maledetta carta. Imprecai, ma non insistett i per non ric hiamare l’ attenzione della sicu -rezza. Ero avvilito dal fatto che il mondo intero non accettasse l’idea del viaggio, del non avere progetti. In fondo m unirsi di un’uscit a non significava affatto che la si sarebbe poi utilizzata. Ritenevo quella buro-crazia un’inutile perdita di tem po pr ezioso, un fregarsi a vicenda ma con il sorriso sulle labbra. - Che cazzo facciamo, ora? - dissi rivolgendom i a Nicola che era stra-namente calmo. - Che vuoi fare? Dobbiamo comprare un biglietto di uscita - Si allontanò e tornò con due biglietti a erei rimborsabili entro un anno: Caracas - Bogotà. Sorrisi, aveva anticipato i soldi e ci aveva tolti dall’impiccio. - Tutti i problemi che si possono risolvere con il denaro che abbiam o in tasca non si possono in realtà chiamare problemi - disse. Sventolammo i biglietti in facci a all’acida hostess che per non darci soddisfazione non ci degnò di uno s guardo. Salimmo sull’aereo e dopo uno scomodissimo viaggio, arrivammo a Caracas nel tardo pomeriggio. Superati i controlli, cambiammo i soldi e dopo aver messo qualcosa sot-to i denti, cercammo un angolo isol ato dell’aeroporto dove sdraiarci e dormire. Girare di notte per la capita le non era per nulla raccomandabi-le. Avremmo atteso la mattina per buttarci in strada.

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RODAGGIO All’alba, dopo una sco modissima notte trascorsa per terra con gli zaini come cuscini, uscimmo nell’aria afosa e prendemmo un taxi per la città. Optammo di muoverci verso la costa occidentale e salimmo su un “col-lettivo”, mezzo di trasporto m olto usato in Venezuela, che per pochi dollari ci scaricò a Maracay . Da lì un bus ci condusse fino a Valencia che usammo come trampolino per raggi ungere Coro, un tranquill o vil-laggio sprof ondato nel fango a causa d ella stagione delle pio gge. Vi giungemmo nel pomeriggio, stanchi, affamati e delusi. Nulla fino a quel momento aveva attirato la nostra attenzione e il luogo in cui ci trova-vamo non aveva nulla da offrire. Passeggiammo per le vie del centro cercando di non im pantanarci e ci sedemm o presso un chiosco per mangiare qu alcosa. Comprai un pacc hetto di sigarette, generalmente non fumavo, ma saltuariamente ne sentivo la necessità. Eravamo di po-che parole, forse un po’ amareggiati. - Domani andrà meglio - dissi a Nicola consapevole del fatto ch e ogni viaggio ha bi sogno di un periodo di ro daggio. La mente deve adattarsi al nuovo ambiente e alla nuova con dizione e questo richiede qualche tempo. Ogni emozione che nel nostr o focolare non ci avrebbe minima-mente toccato, lì ci faceva sobbalzare. Eravamo più sensibili e ricettivi, sembrava che i nostri sensi si stessero svegliando d opo un lungo letar-go. Una volta nella stanza dello squa llido albergo dove ci sistemammo, prima di andare a letto guardai fisso Nicola. - Ti manca? - gli chiesi. Con il capo annuì e capii che eravam o completamente sulla stessa bar-ca. Spensi le luci e mi abbandonai ai m iei pensieri che inesorabilmente erano tutti per Veronica. Sentivo il cuore pesante e non conoscevo altra cura se non i l tempo che scorre per lenire quella sofferenza. Avev o fi-nalmente il t empo per pe nsare e da dedicare a me stesso, ma era dura. Mi investì una valanga di sensazioni e ricordi che mi mozzarono il re-spiro poiché il viaggi o mentale è sempre più ard uo di quello f isico. Chiusi gli occhi e mi sforzai di affrontare un’emozione per volta, per-ché tutte insieme erano imbattibili. Poi finalmente il sonno mi dette tre-

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gua. Quando ci svegliammo ci caricammo i pesanti zaini sulle spalle e ci di-rigemmo verso i Medanos, dune di sab bia bianchissima che entravano in profondità nel cuore delle acque azzur re dell’oceano. Ci inoltrammo in quella strana zona desertica salendo e scendendo dalle dune fino a quando non ci stancammo. Bagnati dal sudore tornammo verso la via principale do ve attendemm o un bus notturno per P uerto la Cruz , che raggiungemmo dopo una notte di viaggi o infreddoliti da un’aria condi-zionata che gelava il sangue. Avevamo deciso di visitare l’isola Marga-rita e pazientemente attendemmo l’immenso e sporco traghetto che sal-pò in ritardo. Solcando le scure acque, splendidi delfini sguazzavano salutando incu-riositi quell’enorme massa che tagliava il loro territorio. Dal ponte la gente del posto contraccambiava gettando in acqua ogni tipo di immon-dizia. Tenevo il cellulare a portata di mano e spesso mi nascondevo, lo accendevo per verificare se Veronica mi avesse inviato un m essaggio e poi lo spegnevo immedia tamente. Non volevo tenerlo se mpre ac ceso perché se avesse suonato avrei rivelato cosa portavo con me e in certi posti è meglio passare inosservati, inoltre non potevo permetter mi di consumare inutilmente l a batteria visto che spesso non avevamo a di-sposizione pr ese elettri che. Al tram onto arrivammo a Porlamar, dove sbarcammo e cercammo una sistemazione. Un tizio sulla barca ci aveva consigliato un alloggio econom ico e ci aveva accompagnato per mo-strarcelo. L’unico inconveniente era l’assenza di acqua, che però ci dis-sero sarebbe arrivata in mattinata; così non fu. Spor chi e infastid iti la-sciammo l’albergo m a non prim a che Nicola avesse preso co me risar-cimento una cartina detta gliata espost a in bacheca . In Plaza B olivar (notai in seguito che ogni città medio grande del Sud America aveva una piazza dedicata al f amoso eroe liberatore) pre ndemmo un bus che ci portò a Play a el Agua dove passammo un paio di giorni in spiaggia, ricaricando le batterie dopo gli ultim i giorni passati prevalentem ente in movimento. Mi accorsi che stavam o correndo, il non darci tregua er a dovuto al fatto che volevam o tenerci occupati per pensare il meno pos-sibile. O meglio, volevamo affrontare i pensieri poco alla volta per non venirne investiti e sepolti. La località era turistica ma non affollata. Era la bassa stagione, quella delle piogge, perciò potevamo godere di infini-te spiagge bianche se mideserte con e normi pal me che si stagli avano verso il cielo, ma dovevamo anche a ffrontare il malumore della stagio-ne, con i suoi improvvisi annuvolamenti e i fastidiosi acquazzoni. Da lì visitammo Playa la Restinga; in canoa percorremmo le strette in-

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senature orlate di mangrovie della sua laguna, ammirando bellissime stelle marine di colori intensi ch e abbracciavano le lunghe radici delle piante d’ acqua e grossi pellicani ch e s trizzavano gli occhi al sole. I l pomeriggio tornammo a Porla mar, qui lo stesso enorme barc one ci condusse nuovamente sul continente, d ove sbarcammo in tarda serata. Decidemmo di passare la notte al por to per non spendere soldi in una stanza d’albergo. La mattina presto mi svegliai e notai che un tizio sulla panca di fianco alla nostra si stava masturbando. Lo fissai sperando che imbarazzato smettesse di mungersi, ma non accadde. Svegliai Ni cola e con un bus ci dirigemmo a Ciudad Bolivar, una piccola e polvero sa cit-tadella. Trovammo alloggio in un albergo nei pressi della stazione, do-ve la ragazza alla reception si mise a ridere quando domandamm o i prezzi delle stanze, matrimoniale inclusa. - Non pensi male - l e dissi – a noi interessa solo spendere il meno pos-sibile – - Non ho pensato male – rispose continuando a sorridere e sen za guar-darci negli occhi. Durante il viaggio cerca mmo spesso di risparmiare soldi sull’alloggio. Due viaggiatori non han no problemi nel dividere un letto, viven do go-mito a gom ito per lungo t empo cessa ogni tipo di i mbarazzo. Alcun e volte ci sia mo visti rifiutare delle st anze perché rit enevano che foss e sconveniente per la loro immagine e andasse contro i loro princi pi cat-tolici. Tutte le volte furono irre movibili nonostante spiegassimo loro che era esclusivamente per un m otivo econom ico: preferivano tenere una stanza sfitta piuttosto che darla a noi. Girando per la città trovam -mo un’agenzia che ci propose un tour di tre giorni per visitare il famoso Salto Angel, la cascata più alta del mondo. Senza in dugio decidemmo di partecipare.

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INIZIA L’AVVENTURA Partimmo da Ciudad Bolivar con un volo su un piccolo e traballante ae-reo. Eravam o gli unici pas seggeri e ci intrattenemm o a parlare con il pilota fino a raggiungere Canaima, un villaggio sperduto nel mezzo del-la giungla. Una volta atterrati ci unimmo ad altre persone che già si tro-vavano sul posto e proseguimmo con canoe di legno per risalire la cor-rente del Rio Carrao. Essendo la stagio ne delle piog ge appena iniziata, il fiume non aveva ancora gonfiato le s ue acque, perciò a volte dove-vamo scendere e proseguire per un tratto a piedi affinché la barca non si incagliasse sul basso fondale. Solo un ragazzo poteva rimanere a bordo, poiché disabile. Girava per il Sud America su una sedia a rotelle. Pensai a quanto foss i fortunato ad avere tutte le normali funzioni e a qu anto fosse doveroso sfruttarle, anche per ri spetto a persone co me lui che si-curamente le avrebbe utilizzate per uno scopo molto più nobile che la pura sopravvivenza. Lentamente raggiungemmo il cam po base, dove tirammo a riva le canoe e ci accampammo. La cascata più alta del mon-do era visibile in lontananza, im possibile non vederl a con i suoi mille metri di altezza. Era magnifica, finalmente dopo giorni pressoché inutili ci riempimmo gli occhi con quella meraviglia. Ne avevamo bisogno per allontanare la tristezz a che ci acco mpagnava, per distrarci dai ric ordi che non davano tregua. Per quanto ci fo ssimo allontanati per cercare la solitudine, ancora non eravam o pronti per accoglierla nei nostri cuori. Sapevamo che solo il tempo ci avre bbe donato la forza per accettarla, ma per il momento non potevamo fare altro che stringere i denti e co m-battere la maledetta nostalgia. La sera mangiammo dello squisito pollo alla brace e poi ci stendemmo sulle amache. Mi lasciai cullare dai rumori della notte. Cominciò a pio-vere. Il ticchettio dell’acqua mi svuotava il petto, le ntamente il sonno prese il sopravvento, l’ultimo pensiero era sempre per lei. Ci alzammo di buon’ora e ci dirigemmo verso la cascata. Guadammo il fiume ed entrammo nel fitto della giungla. Grosse e aggressive zanzare volevano banchettare con il nostro sang ue, alcuni avevano il repellente, ma noi stu pidamente l o aveva mo lasci ato nello zaino presso l’accampamento. La guida afferrò una manciata di termiti che a miliardi

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uscivano dai tronchi di alcuni alberi e s trofinandosi le mani ce le fece annusare. - Cosa vi sembra? - Odorava di repellente. - Funziona? - chiesi incredulo. - Certo! - Presi una manciata di termiti e un po’ dispiaciuto mi sfregai l e mani, uccidendone a centinaia. Con le mani unte mi cosparsi le parti del corpo non coperte dai vestiti. Nessuna zanzara mi si avvicinò più. Il Salto Angel visto dai suoi piedi era qualcosa di sensazionale. Stando attenti a non scivolare facemmo il bagno i n un fondale qualche metro più sotto. Nonostante le infinite racco mandazioni un ragazzo si procurò una profonda ferita all’ arcata sopr accigliare scivolando su una rocci a viscida e un altro perse un’unghia di un piede per u n tuffo azzar dato. L’acqua marrone a causa dei sali minerali e della flora acquatica re nde-va impossibile vedere cosa ci fosse sotto la superfici e; nel suo cas o ad attenderlo c’era una roccia, simile a quella dalla quale si lanciava. Tor-nammo all’accampamento e ci prepara mmo per sc endere il fiume e ri-entrare a Can aima, dove avremm o pernottato nell’unico e sem plice al-bergo di cui il minuscolo villaggio era dotato. Mi se ntivo sollevato, a-vere tutta quella natura intorno riusciva a distrarmi dalla malinconia che passo dopo passo seguiva instancabile ogni m io movimento. Era lì, la percepivo, ma riuscivo a ignorarla. Dopo cena il rum oroso gruppo cominciò a far baldo ria intorno a qual-che bottiglia di birra. Io e Nicola cercav amo solo tranquillità, avevam o abbandonato posti chiassosi per cercare il silenzio e ascoltarci, non era-vamo ancora pronti per feste. Le stelle ingioiellavano il cielo reg alan-dogli un valore senza tempo. Anche se il cielo appartiene a tutti volevo credere che quello fosse esclusivamente venezuelano, poiché visibile in quel modo solo da quella terra. Ass onnati ci ritirammo in stanza, dopo aver accuratamente verificato che la tarantola vicino alla nostra finestra non potesse entrare grazie alla zanzari era. Mi sdraiai contemplando le immagini di quella giorna ta con gli oc chi fissi al soffitto bianco che l’umidità stava scrostando. - Mi sa che ho intasato il cesso - disse Nicola tornando in stanza in mu-tande. Andai a cont rollare e nota i che l ’acqua nella tazza non scendeva. Parti di escrementi e carta igienica vi galleggiavano. - Cosa c’è scritto qui? - chiesi a Nicola indicando un chiaro cartello po-sto di fronte al water.

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- Non gettare cara igienica nel water - lesse. - E allora perché l’hai fatto? - - Mi prendeva male buttarla sporca nel cestino - Scoppiai in una risata e gli dissi che ci avremmo pensato l’indomani. Dopo una colazione a base di frutta, pa ne e marmellata ci dirigemmo al Salto Sapo, un’enorme cascata la cui particolarità era il tunnel che le acque formavano cadendo e in cui si pot eva tranquillamente passeggia-re attraversandolo da par te a part e. Tonnellate di acqua scendevano proprio davanti a n oi, allungando la m ano si poteva sfiorarne la poten-za. Rientrammo nel tardo pomeriggio e mi sedetti nel giardino di f ronte agli alloggi. A un tratto mi sentii chia mare, era Nicola, affacciato alla porta della stanza. - Mi sa che la situazione del cesso è grave - disse storcendo la bocca. Andai a vedere e l’acqua sporca arriva va fino all’orlo. Mi grattai la te-sta. - Lasciala così, piano piano scenderà. Stai a vedere che ci faranno paga-re la manutenzione – sospirai. Ma Nicola ormai aveva preso a cuor e la situazione. Quando m i chiamò la seconda volta l’acqua putrida arrivava fin sotto ai letti. - Cos’hai combinato ancora?! - - Ho visto che l’ acqua lentamente scendeva e ho pensato che si stess e liberando, così ho tirato lo sciacquone, ma è uscito tutto - Decidemmo di usare il cesso in comune. L’indomani abbandonammo la stanza in uno stato pietoso e ci recammo frettolosamente all’aeroporto. I sobbalzi dell’aereo che riportava alla civiltà causarono malessere a più persone, soprattutto a Nicola che s udato e bianco come un cencio ri-schiò di vuotare lo stomac o a 4000 m etri di altezza. Tornati a Ciudad Bolivar aspet tammo alla s tazione che partisse il bus per Boa Vist a, in Brasile. Contavamo di recarci in Guyana ma la frontiera venezu elana era chiusa a causa di conflitti ar mati tra i due paesi, perciò dove vamo attraversarla dal Brasile. Il giorno prima avevamo conosciuto una cop-pia di italiani che ci dissero avre bbe fatto il nostro stesso tr agitto. Si presentarono in stazione appena in tem po e diven tarono per qualche giorno i nostri nuovi compagni di viaggio. La tratta fu abbastanza comoda, ci svegliammo due volte per i controlli di frontiera e infine giungemmo a Boa Vista, una sparpagliata cittadella dalle case basse. Non sapendo parlare portoghese i mprovvisammo chiacchierate che all a ge nte del posto risultavano co miche t anto da scoppiare in fragorose risate.

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Quando si viaggia è necessario pianificare un giorno alla volta. Avere gli orari di p artenza del mezzo di tra sporto, sapere dove pr ocurarsi il necessario per il giorno successivo può aiutare a non perdere tempo in posti che hanno poco da offrire. Fatto ciò ci si può ri lassare per il resto della giornata. Tutti e qu attro andamm o in un su permercato a fare la spesa, decidemmo di approfittare del fatto che l’ostello avesse la cucina per prepararci un bel piatto di pasta alla carbonara. Seduti a tavola ci conoscemmo meglio. Giorgio era un ragazzo di trentatre anni che aveva girato per il m ondo fin da giovane, il suo bagaglio c ulturale era molto vasto e conversare con lui era istru ttivo. Lavorava il minimo indispen-sabile per avere i soldi per viaggiare, suo unico scopo nella vita. La sua ragazza, Elena lo aveva raggiunt o per passare un periodo i nsieme. Era-no molto diversi, più volte guardandoli mi chiedevo cosa ci f acessero insieme. Cenamm o abbondantem ente e stanchi ci mettemmo sotto le coperte, il mattino dopo avevamo intenzione di attraversare la frontiera ed entrare in Guy ana. Le c ose cominciavano a girare nel verso gi usto, sentivo che il viaggio lentam ente co minciava a prendere forma, il ro-daggio era definitivamente concluso.

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TERRE SCONOSCIUTE Giungemmo con un bus al prim o paese di frontiera, da lì prende mmo un taxi per raggiungere il confine attraversando un paesaggio disabita-to, dom inato esclusiva mente dalla vegetazione. Arr ivati davanti a un fiume l’autista ci fece scendere e indicandoci l’ altra costa disse che era la Guyana. - Il timbro di uscita? - chiese Giorgio. Il tassista si era dimenticato di sostare per farci marcare l’uscita dal pa-ese, così ri montammo in mac china e t ornammo indietro qualche centi-naia di metri. L’ufficio imm igrazione era una struttura nuova, all’interno non c’erano che una scrivania e un grasso poliziotto che sta-va mangiando una m ela tagliandola a pezzi con un lungo coltell o. Ci accolse con un sorriso e s enza nemmeno controllare i passaporti li tim-brò velocemente e ce li restituì. In breve eravamo di nuovo davanti alle acque limacciose del fiu me. Pagammo il tassista che tentò inutilment e di spillarci pi ù soldi per quell’imprevisto e prendemm o una minuscola barca per raggiungere l’alt ra sponda. Una volta sbarcati ci guardammo intorno: nessun poliziotto, nessun ufficio immigrazione; eravamo soli in mezzo a una foresta e se nza saper e c osa fare. S eguimmo un piccolo sentiero sterrato che lentamente si fece più ampio. Appena avvistammo qualcuno lo avvicinammo per chiedergli dove avremmo dovuto dichia-rarci. Con un paio di gesti indicò uno spazio indefin ito, a n ulla servì il chiedergli di essere più preciso, a testa bassa continuò per la sua strada. Proseguimmo fino a trovare un piccolo ristorante d ove ci fermammo decisi a venirne a capo. Intanto avvistai un cartello che riportava il no-me del polveroso villaggio: “Lethem”. - Non ci posso credere che siamo in Guyana - dissi ad alta voce. - Finché non hai il ti mbro sul passaporto non ci sei ancora - disse Gior-gio scrollando la testa. - Perché non dovrebbero farci entrare? - chiesi dubbioso. - Possono trovare mille motivi, stai pur sicuro che se vogliono rispedirti al mittente trovano la soluzione in un minuto - rispose. Reduce da brutte avventure Giorgio parlava per esperienza. Dopo esserci fatti indicare l’ufficio apposito dalla padrona del ristorante

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ci incamminammo verso u n’insignificante abitazione dai muri imbian-cati di recente dove ad attenderci c’era un tizio nero vestito di una sem-plice tuta che scopri mmo esser e un poliziotto. Ci fece attender e che sbrigasse tutte le faccende che riteneva ovviamente più importanti e poi ci chiamò uno alla volta. Andai per primo. - Quanti soldi hai? - mi chiese subito. La domanda mi sembrava sospetta, in quel posto sperduto no n sapevo se volesse sa perlo per estorcer mi qualche dollaro o se fosse una do-manda di routine. - Un paio di centinaia di dollari - mentii. - Quanto tempo vuoi fermarti in paese? - - Non so. Quanto dura la permanenza per turismo? - A quella domanda mi guardò fisso neg li occhi, indispettito co me se lo avessi insultato. - Tu ti fermi quanto dico io, ok? - Mi limitai ad annuire, vidi che scriveva qualcosa sul passaporto e me lo restituì. Mi concesse due settimane, molto più di quello di cui avevamo bisogno. Probabilmente voleva il s uo momento di soddisfazione perso-nale che pensai bene di non aver di ritto di rovinare. In più non volevo rischiare di essere “rispedito al mittente”. Al termine ci chiese quanto volessimo rimanere nel villaggio. - Cercheremo un bus per la capitale - rispose Giorgio. - Un bus parte staser a, prenderete quello - disse come se voless e sba-razzarsi di noi. Alzò la cornetta e prenotò quattro posti. Ci condusse all’uscita e ci mostrò da dove il bus sarebbe partito. - Presentatevi alle 20.30, non più tardi - disse prima di rientrare. Tirando un sospiro di solli evo tornammo verso il ristorante e ci sedem-mo per mangiare qualcosa. Lethem era un villaggio con strade di sabbia rossa che si trasformava in fango colloso alla prima pioggia. Mi sembrò un posto tranquillo, la popolazione quasi esclusivamente nera, discen-dente dagli schiavi che dall’Africa furono condotti nelle Americhe, da-va una connotazione particolare a quel paese di cui non conoscevo as-solutamente nulla. Arrivammo alla fermata in anticipo. Il piazzal e era stracolmo di gente, ci face mmo l argo e nella biglietteria nota mmo con sorpresa che c’era anche il poli ziotto dell ’immigrazione. Quando ci avvicinamm o bisbi-gliò qualcosa all’impiegato che cercò i nostri bigl ietti che aveva messo da parte per poi consegnarceli. Pa gammo e ci rendemmo conto che in fondo quel poliziotto ci aveva reso un servizio: se ci fossimo recati alla fermata sprovvisti di bigli etto e senza prenotazione non saremmo saliti

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a bordo. Vedemmo numerose persone allontanarsi dispiaciute con i loro bagagli sotto braccio, ci avevano pr ovato e gli era andata male. Saliti sul bus cominciò il divertimento. L’ autista era un pazzo scaten ato, gui-dava così veloce sulla strada stretta e sterrata da farci temere il peggio a ogni frenata. Elena co minciò a gridare. a ogni curva, presa tr ascinando le ruote, urlava ispirando sorrisi e stupore sui visi degli altri passeggeri. Quando non urlava si aggrappava a Giorgio, seduto di fianco a lei, che con un cuscino dietro la testa cercava di dormire. - Smettila di gridare e lasciami stare - la ammoniva, ma non c’era verso di calm arla. Tentando di scrollarsela di dosso Gior gio cercava inutil-mente di prendere sonno. - Ora vado a parlare con il conducente, non può mettere a rischio le no-stre vite - disse Elena convinta. - Brava, vai - le rispose Giorgio per nulla interessato. Dopo pochi secondi era già di ritorno. - Cosa ti ha detto? - si informò lui. - Quello stronzo m i ha riso in faccia e mi ha detto c he se rallenta pren-diamo tutte le buche. Correndo sostiene di saltarne qualcuna - - Bene, allora stai qui bu ona e lasciami dormire – le intimò cercando di trattenere il sorriso. Ma non era tempo per riposarsi. Dopo mezz’ora il bus si fermò. Le por-te si aprirono e l’ autista scese. Un guasto al motore ci bloccav a nel mezzo del nulla. Scendemm o tutti e alzai gli occhi a l cielo. Milia rdi di stelle osservavano im perturbabili ciò che succedeva nell’universo. Era una notte m agnifica. Non avevam o fretta, non avevam o appuntamenti né tanto m eno scadenze, perciò era im possibile arrabbiarsi per l’accaduto. E poi sotto quel cielo stellato potevam o solo rim anere in contemplazione. In quei m omenti, quando il viag gio concedeva una pausa, il fiato m i si spezzava; la trist ezza buss ava alla mia por ta. Mi mancava casa, mi mancava Veronica. S apevo che quella scuola di vita un giorno avrebbe dato i suoi frutti, ma non riuscivo a non essere ma-linconico pensando a quanto lontano mi trovassi da coloro che m i vole-vano bene e a quanto m i amassero per quello che e ro e non per quello che sarei diventato. Mi sorse il dubbi o che fossi io a non piacermi, a non volermi bene. Mi trovavo esattamente dove volevo trovarmi perché non riuscivo ad accettarmi per ciò che ero e pensavo che quella fosse la strada giusta da seguire per scopr irmi un gior no una persona migliore: solo il tem po e il viaggio avrebbero potuto smentire o conferm are il mio pensiero. Dopo qualche tem po passò un furgonc ino pieno di passeggeri diretti

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anche loro alla capitale. Il nostro autista chiese di essere riaccompagna-to a Lethem per prendere il pezzo di ricambio per aggiustare il motore, ma l’altro si rifiutò. Lavorava privatamente e quella sosta avrebbe gene-rato polemiche tra i suoi passeggeri. - Vai, vai pure. Però hai la responsabi lità di lasciar e per strada tutte queste persone - disse indicandoci. Toccato nel vivo convi nse i suoi passeg geri ad attendere e li f ece scen-dere. I due filarono via sp arendo nella notte. Intanto qualcuno ar meg-giava accanto al motore ma senza ottenere alcun risultato. Sotto la luce di una torcia guardavamo incuriositi senza capirci nulla. All’improvviso quello che si definiva un meccanico se ne uscì con una domanda piutto-sto strana. - Qualcuno ha un preservativo? - La gente cominciò a fare battute e a ridere. I passeggeri di entram bi i mezzi erano serenamente rassegnati all’attesa. Qualcuno un po’ imba-razzato allungò un preservativo e dopo aver trafficato con la testa den-tro il motore, il meccanico ne uscì sorridente. Salì e girò la chiave. Fun -zionava. Tornammo a sederci e con il secondo autista andamm o incon-tro al furgo ncino che incrociamm o dopo qualche chi lometro. In b reve ripararono professionalmente il danno e sorrisero per la soluzione tem-poranea che avevano trovato. Dopo diciassette ore dalla partenza arri vammo nella capitale: George-town. Il post o era lugubre e la gente ci guardava con sospetto. Chie-demmo informazioni su dove si tr ovasse un albergo di cui Giorgio ave-va sentito parlare ma nessuno lo conos ceva e noi non riuscivamo a o-rientarci. Alc une strade erano com pletamente all agate a caus a dell e piogge, il canale che attrav ersava la citt à, in realtà una fogna a cielo a-perto, aveva strabordato ri versando liq uami maleodoranti che si m i-schiavano con l ’acqua piovana. Dopo un lungo cammino Elena com in-ciò a sentirsi stanca e a optare per prend ere un taxi ma Giorgio non vo-leva arrendersi sentendo che ci stav amo avvicinando all’obiettivo. Co-minciarono a litigare, urla ndo così forte da far girare le persone che in-crociavamo. La situazione stava de generando quando si accostò un m i-nibus e un tizio dal finestrino disse qualcosa che al momento non affer-rai. - Non abbiam o bisogno di nulla, grazie - dissi credendo volesse chie-derci soldi per accompagnarci. - Ascoltami - disse calmo - evidentemente avete bisogno di aiuto. Lavo-ro per un importante albergo della c ittà, perciò pos so darvi u na mano. Dove volete andare? -

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- Ostello Florencia - gli risposi. - Bene, non siete lontani - Ci indicò la strada, la coppia si calmò e in pochi minuti eravamo davan-ti a un fatiscente edificio. Entrammo e prendemmo due doppie che si presentavano buie e sporche. Il padrone era un piccolo ometto di color e che ci raccomandò di stare allerta e assolutamente non uscire di notte. Il posto era molto pericoloso e la nostr a pelle bianca attirava l’attenzione come il miele attira l’orso. Uscimmo per mettere qualcosa sotto i denti. Il sole era spuntato dalle nuvole, ma nonostante ciò l’aspetto torvo della città ri maneva intatto. La popolazione era prevalentem ente nera, ma c’era anche una buon percentuale di indiani, quasi tutti occupati in atti-vità commerciali. La lingua ufficial e era l’inglese, mi sorprendeva sco-prire che ci fosse un posto in sud Am erica dove non si parlava spagno-lo. Poi scoprii che anch e in Suriname e in Guy ana Francese le lingue comunemente parlate sono ben lontane dall’essere il castigliano. Rien-trammo per farci una doccia e decidemmo di uscire per cena. Quando il proprietario ci vide nuovamente alla porta si sorprese molto. - Dove state andando? - - A cena - rispondemmo. - E’ buio, è meglio se rimanete in albergo, potrebbero rapinarvi - Il rischio esi steva, ma no n potevamo vivere nel terrore. Benché fosse presente una ragazza, ci s entivamo abbastanza in ga mba per a ffrontare la situazione. Così ci diri gemmo verso uno squallido ristorante ge stito da un indian o. In realtà era una st anza con un paio di tavoli e qualche sedia. Da tre pentole sporche e a mmaccate poste su un tavolo ven ivano prelevati grossi mestoli di una strana poltiglia e versati in piatti sbe ccati ai pochi avventori presenti. Giorgio sbirciò dentro. - Carne e riso, io passo - Non mi dispi aceva ri manere, tanto dovevo solo riem pire lo sto maco. Nicola era d’accordo sul fermarci e Giorgio decise di cercare di meglio. Con mio grande disappunto, Elena si fermò con noi. Viaggiare con una donna può essere problematico, attira molta più attenzione e può far go-la a un genere di persone che preferirei non incontrare mai. In casi e-stremi avrei dovuto rischiare la mia vita per dovere morale, ma per una persona che non avrebbe dovuto essere con noi. Giorgio avrebbe dovu-to prendersi cura di lei e pr oteggerla ogni istante, per lo m eno io mi sa-rei comportato così se la mia ragazza fosse stata con me. Lasciarla con noi era per me una do ppia mancanza di rispetto. Torn ammo in albergo attraversando le buie strade del quartiere; a ogni angolo alcuni senzatet-to, incuriositi da facce straniere, ci punt avano addosso gli occhi mentre

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cercavano conforto al freddo della notte intorno a un fuoco improvvisa-to. Una volta dentro parlai con Giorgio e gli comunicai il mio pensiero, ma lui non fece caso alle mie parole. Quando si rientrava in stan za, sdraiati sul letto, i o e Nicola parlavamo della giornata trascorsa, ma molte volte ricordavam o c asa e le nostre ragazze. Il sapere che non le avre mmo riviste per lun go tempo ci sem-brava una tortura. Quando spegnevam o la luce rimanevo a occhi fissi sul soffitto, ad ascoltare il respiro di Nicola che si f aceva sempre più profondo, mentre la stanchezza aveva la meglio sui pensieri. Il giorno seguente ci recammo al consolato del Suriname per ottenere il visto, volevamo lasciare la Guyana il prima possibile. Dopo aver suona-to arrivò al cancello una brutta e scorbutica donna che ci guardò come se fossimo spazzatura. - Buongiorno, vorremmo fare domanda per ottenere il visto - - Primo: voi non potete entrare in ciabatte - disse rivolgendosi a Giorgio ed Elena che calzavano co mode ciabatte da mare. Secondo: i visti si ri-lasciano a giorni alterni. Tornate domani – disse senza tanti preamboli. - Senta, è urgente, ci faccia parlare con qualcuno - la pregammo. - Se avete urgenza forse avete qualche possibilità. Voi potete entrare - disse a me e Nicola. Attraversammo il cortile e aspettammo qualche minuto davanti alla por-ta dell’ufficio. All’improvviso ne uscì un viso tondo. - Ditemi - disse una donna dall’aria seccata. - Vorremmo fare domanda per il visto - - Domani - disse telegrafica richiudendo la porta. Ci fiondammo verso di lei pregandola di concedercelo in gi ornata per-ché l’ indomani avremm o voluto lasci are il paese, apportamm o come urgenza il fatto che fosse un luogo pe ricoloso e che avessi mo una ra-gazza con noi. - Domani - ripeté sbattendoci la porta in faccia. All’uscita ci attendevano gli altri due ansiosi di conoscere la risposta. - Nulla da fare - dissi. - Accidenti! Ma gli avete detto che avevam o frett a? Siete riusciti a spiegarvi? Mi se mbra strano che vi abbiano liquidato così rapidamente - disse Giorgio. Quella sua mancanza di fiducia mi lasciò interdetto. Mi alterai e gli feci notare che almeno noi vestivamo in modo idoneo per acceder e a un consolato. Da quel momento la loro compagnia cominciò a infastidirmi, volevo proseguire con l ’unico compagno di viaggio che mi ero scelto: Nicola. Ma Giorgio n on aveva nessuna intenzione di mollarci. In quat-

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tro gli tornava più comodo viaggiare, allentava la situ azione tesa tra lui ed Elena, rispar miava qualche sol do dividendo le spese per taxi o al-berghi (spesso prendendo due stanze e dietro op portune insistenze l’albergatore concede qualche sconto) e in più si stava affezionando a Nicola che, di caratter e molto più p acifico del m io, lasciava correre le sue esuberanze per il quieto vivere. Passammo la giornata oziando, un poliziotto mi rincorse perché voleva multarmi per aver buttato il mozzi-cone della sigaretta per terra. Aveva perfettamente ragione, ma vedendo immondizia ovunque e non trovando cestini avevo pensato che un m io mozzicone non avrebbe cambiato le cose. Era un ragionamento stupido e da persone ignoranti. Non sono il tipo di persona che crede che “se lo fanno tutti allora posso farlo anch’i o”. Me ne liberai chiedendo scusa e dicendo che non sarebbe più accaduto. Imparai che gettare i mmondizia (compreso il mozzicone di sigaretta) in un luo go d ove è risaputo che non verranno a raccoglierlo è dieci vo lte più sciocco che gettarlo per esempio a Milano, dove due volte alla settimana passano gli spazzini. Dopo cena, davanti all’ albergo, Elena chiese a Giorg io se la poteva ac-compagnare a prendere una birra da bere in stanza, ma lui rifiutò dicen-do che non era il caso. - Allora vado da sola - minacciò. Lui alzò le spalle e lei si incamminò. Dopo una manciata di secondi era già di ritorno , alcuni individui avevan o co minciato a molestarla ver-balmente e si era spaventata. - Non temi per lei? - gli chiesi incuriosito dal suo comportamento. - Certo, m a deve im parare. E visto che non mi ascolta lo deve provare sulla sua pelle - Il ragioname nto non era sbagliato , ma quelle potevano essere l ezioni che avrebbero lasciano il segno per t utta la vita. Quella sera ci fer-mammo a parlare sedendoci in corridoio. Ascoltare Giorgio era un pia-cere. Nonostante avessimo due caratt eri così diversi e spesso ci scon-trassimo, lo ritenevo un viaggiatore di grande esperienza ed ero conten-to di averlo incontrato. Mi perdevo nei suoi racconti di viaggio intorno al mondo, mi divertivo a dire nom i di paesi a caso e scoprire che c’era stato, che per ognuno di essi aveva un aneddoto. Lo ammiravo per aver avuto la forza di fare ciò che di più al mondo am ava senza lasciarsi scalfire dal giudizio degli altri, senza mai conformarsi alle leggi sociali, rimanendo al margine della “grande strada” da tutti percorsa e allun-gando la mano su di essa per cogliere solo ciò di cui aveva bisogno. In seguito più volte pensai che il nos tro non andare d’ accordo non fosse dovuto alle differenze caratteriali ma proprio al contr ario, forse av eva-

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mo dei punti in comune che io non avevo ancora maturato e questo por-tava a futili discussioni. Il giorno dopo ottenemm o il visto e quello succes sivo ci svegliammo alle tre del mattino per prendere un minibus per la frontiera. Giunti in loco l’autista pretese una cifra superiore a quella pattuita. - Quello che vi avevo chiesto era per arrivare in città, per la frontiera il costo è superiore, poiché è fuori mano - disse in modo aggressivo. Pensavamo ci volesse i mbrogliare e ci rifiutammo d i pagare. In aiuto dell’autista arrivò un energumeno grande quanto lui e minacciosi aspet-tarono il pagamento. Mi avvicinai a Elena e le dissi di andare a chiedere quanto avesse pagato una donna anziana che era salita e scesa con noi, così avremmo tagliato la t esta al toro. Una volta di ritorno ci confermò la cifra che chiedevano i colossi. - Non mi interessa, dovevano dircelo dall’inizio! - urlò Giorgio. - Sì, è vero - replicai - ma non cambia nulla, non ci stanno chiedendo più del dovuto - - Io non pago, vediamo cosa succede. C he chiamino la polizia o i mili-tari, non mi interessa - Rimanemmo così qualche minuto, i due che volevano i soldi e noi che non glieli volevamo dare. Poi mi stancai, cacciai la mano in tasca, tirai fuori neanche due dollari e glieli porsi. - Non darglieli - intimò Giorgio. - Stiamo perdendo tempo per una cifr a irrisoria che comunque gli spet-ta. Avrebbero dov uto dircelo prima, ma non cambia il fatto che quei soldi se li sono guadag nati. Com unque non preoccu parti, pago io per tutti se per te è un problema - Giorgio sbuffò, pagò la loro parte e dopo aver ottenuto il timbro di usci-ta ci recammo al molo dove un traghetto ci portò in Suriname. Sul largo e scuro fiu me Giorgio cominciò a parlare con un piccolo uom o dagli spessi occhiali con montatura nera. Aveva la faccia simpatica ma non ci incuriosì per questo, bensì per quello che raccontò. Andava a trovare i figli che si erano trasferiti al di là del fiume, lui viveva in un piccolo villaggio all’interno della Guy ana, era uno di quelli che chiamano “in-dio civilizzato”. Ricordava quando suo padre da piccolo insegnava a lui e ai suoi fratelli i versi degli anima li per poterli atti rare e poi uccidere. Eravamo sbalorditi e deve averlo notato. - Conoscendo il linguaggi o degli anima li si può co municare con loro. Ricordo da bam bino quando con un suono della bocca riuscivo a far scendere una scimmia dall’albero. Una volta allo scoperto era più sem-plice colpirla con la lancia. Ora i miei figli vi vono in città, non ha nno

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alcun interesse che gli venga tramandata la conoscenza dei miei antena-ti e tutto il mio sapere andrà perso quan do morirò. D’altra parte – pro-seguì con un’amara risata – che bisogno avrebbero di sapere come cac-ciare o pescare visto che esistono i supermercati?- Giorgio gli mise una mano sulla spalla, co me a rin cuorarlo. Conosce-vamo tutti il danno di perdere la sapienza di un te mpo, quel contatto con la natura che noi europei aveva mo spezzato ormai da se coli. Era-vamo testimoni di un passaggio che molti sostengono essere dovuto ma che a noi lasciava un po’ d i tristezza nei cuori, forse proprio perché sa-pevamo che una volta oltrepassata la linea non si poteva più tornare in-dietro. Passato l’ufficio immigrazione del nuovo paese proce demmo per P ara-maribo attraverso lagune e immensi cam pi coltivati dove enorm i e mo-derni trattori lavoravano la terra. Il Suriname è una ex colonia olandese, e l’olandese è ancora la lingua ufficialmente parlata, ma anche l’inglese è conosciuto. La popolazione è presso ché simile a quella della Guy ana. Entrambi i paesi sono ricchi di risorse naturali purtroppo non uti lizzate dalle popolazioni locali ma sfruttate da multinazionali straniere. La sera cenammo con una bella bist ecca. Mi sentivo inquieto, a gitato. In realtà erano alcuni gior ni che pensavo a qualcosa che sapevo di do-ver fare. - Nico un giorno dovremo separarci - gli dissi a bruciapelo. Alzò le sopracciglia. - Io ho bisogno di un periodo di solitudine e penso che a te farebbe bene viaggiare per conto tuo - - Quando accadrà? - - Non presto, non è una cosa immediata ma ho voluto parlartene perché so che ti trovi bene con Giorgio. Fra q ualche giorno loro prender anno un’altra direzione. Sappi che non avrei nulla in contrario se tu li seguis-si - continuai. - Dovremo separarci? - - Sì, questo a ccadrà sicuramente. Perciò se preferis ci aggregarti subito, io capirei - - Ma ci incontreremo di nuovo? - - Certo. Ho deciso di anda re in Colombia. So che lo avevamo escluso dai nostri piani perché è pericoloso, ma sento che devo an darci. Po-tremmo incontrarci in America Centrale, che ne dici? - - Non ho molta scelta. Perché hai deciso di andarci? - Era da qualche giorno che sentivo quel paese chiamarmi. Era un ri-chiamo a cui dovevo cedere, sentivo che mi ci dovevo recare e d imo-

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strare a me stesso che potevo affrontare le mie paure. La Colombia era per me una terra pericolosa e sconosci uta, l ’ostacolo da superar e per crescere e dimostrare a me stesso che tutto si può affrontare e che nulla poteva impedirmi di diventare un vero viaggiatore. - E’ importante che io vada – mi limitai a dire. - D’accordo, rispetto la tua scelta. Quan do sarai pronto allora prose gui-remo da soli. Fino ad allora rimarremo insieme - Gli strinsi la mano e con gli occhi lo ringraziai. Le case e gli edifici con i tetti spioventi in puro stile olandese erano an-cora più cara tteristici s e p ensavamo che ci trovava mo dall’ altra part e del mondo. Una pioggia leggera ci bagnò il viso, t utti e quattro tor-nammo in stanza attraversando una città deserta e buia. Ogni volta c he potevo m andavo no tizie a casa e a Veronica: mi sem-brava doveroso non fare p reoccupare la mia famiglia e avevo biso gno ogni tanto di leggere qualc he riga scritta da le i che con poche parole riusciva a calmar mi e a regalar mi una m omentanea serenità. Il nostro rapporto era fresco e ancora perso tra le nuvole, il tempo non era arriva-to a seminare zizzania infangando le nostre menti con sospetti e tim ori, vivevamo nei ricordi, prendendo il presente come una parentesi che un giorno si sarebbe chiusa senza per il momento renderci conto che quel giorno avrebbe tardato molto ad arrivare. Il giorno dopo ci recammo alla ferm ata dei minibus e concordamm o il prezzo per f arci portare al Bronwsberg National Park, una foresta plu-viale di cui avevamo sen tito parlare. Durante una delle tante ferm ate salì sul mezzo un uomo che dalla tasca estrasse un fazzoletto. Lo aprì e ci mostrò ciò che conteneva: tra le pieghe brillava una piccola pepita. Ci sorrise, voleva compartire la sua gioia. Il suo viso era stanco ma feli-ce, stava tornando dalla sua famiglia e grazie a quel metallo giallo a-vrebbe svolto il suo dovere di ca pofamiglia. Quando scese lo salutam-mo augurandogli altrettanta fortuna. Una volta giunti presso l’ultim o villaggio a una dozzina di chilometr i dal parco, l’autista fermò il mezzo. Eravamo gli ultimi passeggeri e dis-se che non p oteva portarci oltre. Le pi ogge avevano reso le strade sem i impraticabili e avremmo dovuto trovare un mezzo più adatto. Incredibi-le. Invece di avvertirci prima l’ imbroglione e il suo compare avevano pensato bene di farci credere che ci avrebbero porta ti fino all’ entrata. Andammo su tutte le furie, dal nervoso l itigammo anche tra di noi. La situazione degenerò quando l’autista ci chiese trenta dollari per provare ad arrivare fino al parco nazionale. Ci guardammo attoniti per la truffa che quel delinquente voleva perpetrarci. Dopo infinite discussioni deci-

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demmo di non scendere dal mezzo se non costretti ma in seguito a una breve chiacc hierata con Giorgio il tizio accese il motore e si diresse verso il Brownsberg. - Cosa gli hai detto? - chiedemmo incuriositi. - Il farabutto è credente, ho notato il rosario al collo. Gli ho riem pito la testa di quanto fosse malvagio quello che stava facendo e che da buon cattolico avrebbe dovuto ripensarci - Fu divertente; la dialettica e la conoscenza dell’ inglese di Giorgio ci avevano tolto dall’impiccio. In realtà la strada era davvero malandata, più volte dovemmo scendere a spingere, ma giungemm o pur sempre a un paio di chilometri dall’entrata; poi proseguimmo a pied i. La foresta er a immensa e cupa, le gigantesche chiome di a lberi secolari oscuravano il cielo i mpedendo alla luce di raggiungere il suolo. Trovammo posto nell’unico accampa-mento dotato di un minuscolo ristorante. Lasciammo gli zaini e cammi-nammo lungo un sentiero poco visibile che dopo qualche chilometro ci avevano assi curato sboccare in un ru scello dove volevam o fare il ba-gno. La discesa fu facile e divertente, il ruscello dall’ acqua limpida ci ritemprò e tolse un po’ della fatica accumulata. Verso metà pomeriggio Giorgio sentì il rum ore di una jeep a poche decine di m etri dal corso d’acqua, oltre un piccolo bosco. Andò a vedere e notò una strada sterra-ta. - Questa porta all’accampamento! - disse sicuro. - Torniamo per la stessa via, forse ti sbagli – suggerimmo. - Il sentiero è troppo ripi do e siam o già stanchi pri ma di com inciare. Questa strada non può portare che all’ accampamento e se abbia mo for-tuna passa qualche mezzo a cui possiamo chiedere un passaggio - Ma Giorgio si sbagliava e all’imbrunire, dopo aver percorso inutili chi-lometri senza incontrare anima viva , decide mmo di tornare indietro. Fortunatamente trovammo la zona di ac cesso al sentiero, ma comincia-va a fare sempre più scuro e tem evamo di perderci. Co me se non ba-stasse co minciò a piovere . Ci sem brò una risalita infinita, a un certo punto Nicola si ferm ò, le sue gam be non avevan o più i ntenzione di supportarlo. - Andate avanti, mi riposo e poi vi raggiungo - disse affaticato. Non avevamo nessuna in tenzione di abbando narlo, perciò dop o una breve sosta lo incitammo a riprovarci. Stanchezza e ansia stimolavano la vescica di Elena che si accovacciava ogni dieci minuti. Durante quel-le pause Nicola recuperava energie. Quando avvista mmo le luci dell’accampamento la foresta era stata inghiot tita dal buio. Tirammo un

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sospiro di sollievo, se per caso aves simo perso le tracce del s entiero ci saremmo perduti. Giungemmo stanchi morti alla baracca che serviva da mangiare; passato lo spavento subentrò una fame da lupi. Spazzolammo tutto ciò che ci misero davanti e poi tornammo all’ accampamento. Ci cambiammo i vestiti inzupp ati che Nicola consigliò di asciugare sopra ai fornelli a gas di cui il posto era provvi sto. Esausto caddi in un sonno senza sogni. La mattina, dopo un’abbondante col azione, prendemmo un mezzo per tornare in città e da lì con un taxi pagato pochi spiccioli raggiungemmo Albina, al confine con la Guyana Francese, villaggio del tutto anonimo. Il sole era tornato a splendere, perciò decidemmo di lavare tutti i vestiti incrostati dal fango del Bro wnsberg. Poi andammo a fare la spesa e cu -cinammo presso la cucina dell’ostello in cui ci eravamo stabiliti. Quella sera pensai a casa con profonda nostalgia. Spesso mi chiedevo se vales-se la pena farmi travolgere da tutte quelle ingovernabili emozioni e non sempre riusci vo a risponder mi. Mi soffer mai a pen sare al te mpo che passa e a qua nto si apprezzi molto di più il passato che il presente. Le esperienze come semi, una volta deposi tatesi sul campo della mente, se trovano terreno fertile ge rmogliano. I frutti avranno il dolce sapore del ricordo, ma per questo ci vuole pazienza. Presto avrei appreso a guarda-re al presente in m odo molto più indulgente, consapevole del fatto che un giorno lo avrei ricordato con spirito diverso. Il mattino, d opo u na lung a contrattazio ne, riuscimmo a im barcarci su un’instabile canoa e attraversammo il confine. Giunt i a St. Laurent du Moroni ot tenemmo il visto d ’entrata. Il sole frustava con i suoi r aggi; visitammo il villaggio svuotato dal caldo, era il m omento della siesta. Alcune strutture coloniali rendeva no il luogo familiare, mi sedett i all’ombra di una chiesa e l asciai che gli altri andasse ro a cercare infor-mazioni su come inoltrarci nel paese mentre tenevo d’occhio i loro zai-ni. Un gr uppo di cani inc uriositi da una facci a nuova mi si avvicinò e dopo qualche car ezza si sdraiarono tutti accanto per godere dell’ ombra della chiesa e di qualche coccola. Arri vò anche un gruppo di ba mbini attirati dalla novità; alcuni di loro si avvicinarono per stringermi la ma-no e scappare via ridendo. Raccolte tutte le inform azioni prende mmo un m ezzo fino a K ourou, dove per sei dollari a testa ci offrirono uno sgabuzzino dove avremmo dovuto dormire stipati. Ce ne andammo indignati e ci sistemammo per la notte sott o una tetto ia in spiaggia. Il tizio che ci aveva propos to lo sgabuzzino arrivò minaccioso e ci urlò che quella tettoia era sua e per-ciò dovevamo andarcene. Giorgio an dò a parlarci e quando tor nò ci

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comunicò che l’uomo era infastidito perché eravamo entrati in casa sua e ne eravamo usciti come dei selvaggi. - Dovremmo andare a chiedergli scusa, così ci fa restare e magari ci cu-stodisce in casa gli zaini - propose. - ‘Fanculo, quell’ imbroglione ci voleva rubare sei dollari a testa p er un buco di stanza sporca e senza materassi e pretende a nche di avere ra-gione? - sputai. Presi lo zaino e mi allontanai accucciandomi dietro a un relitto arenato sulla spiaggia, affinché la brezza marina non mi disturbasse durante la notte. Nicola mi seguì, ma dopo qualche minuto Giorgio ci venne a dire che aveva convinto il tizio a concederci la tettoia. Dovette però convin-cere anche me, perché non volev o avere nulla a che fare con quell’uomo. Dopo un’ abbondante cena com prata in un baracchino in città ci sedemmo a parlare dei nostr i progetti. Avevamo piani di versi e sapevamo che quella sarebbe stata l’ ultima sera passata insi eme. Non ero affatto dispiaciuto, ormai i due erano diventati un peso e non perde-vo occasione per farglielo notare. Gior gio cominciò a denigrare i l no-stro piano di viaggio, sminuendo il valore delle mete che avremmo vo-luto toccare. Credo lo facesse perché gli dispiaceva separarsi da Nicola e perché l’idea di dover sopportare tutto il tempo la sua ragazza da solo non doveva essere facile. - Allora Nico? Sicuro che non vuoi andare con loro? - gli chiesi. - Sicuro - La mattina dopo ci salutammo. Ripren dere i nostri ritm i mi fece rina-scere. La Guyana Francese dipendeva totalmente dal la Francia e sebbe-ne fisica mente si trovasse dall’ altra parte dell’ oceano, cercava lenta-mente di abit uarsi ai ritm i di vita euro pei. Andamm o al porto dove trovammo un cata marano che per 40 e uro a testa ci avrebbe portato a visitare le isole St. Joseph, Roy ale e la leggendaria isola del Diavolo, tutte a brevissima distanza l’una da ll’altra ma inaccessibili a nuoto. Le acque di quella tratta erano grigio scuro, ai te mpi i n cui Papillon era stato spedito nelle carcer i delle isole, erano infestate dagli squali. Quando un prigioniero moriva veniva gettato in mare e gli squali si av-ventavano su di lui dilaniandone le carni appena toccava la superficie. Passeggiammo tra i ruderi delle carceri e l’atmosfera tetra ci fece venire la pelle d’oca. Sull’ isola c’era anche un vecchio cimitero a pochi passi dal mare, circondato da a lte palme. Dedussi fosse il cimitero del perso-nale delle carceri, visto che i cadaveri d ei prigionieri finivano in mare. Non potemmo approdare sull’isola del Diavolo, non ci sono moli e ci si sbarca solo con piccole imbarcazioni. Qualcuno sosteneva che nascosta

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dalla vegetazione vi fosse una base militare. Ci passammo vicino e la guardammo con rispetto. Sull’isola Royale aprimmo una noce di cocco; ci dissetammo con il suo latte e ci sfa mammo con la polpa. Sdraiati sul soffice prato, in riva ad acque così temibili, m i sentii com pletamente libero. Adoravo guardare il cielo e aver e il te mpo necessario per f arlo. In città lo si ignora com pletamente. Guardare le nuvole bianche sospin-te da un leggero vento restituisce a ll’animo quella serenità che i piccoli inconvenienti della vita cercano di turbare. Una leggera brezza mi acca-rezzò il viso e mi persi nel pensare a casa, a quanto la mia ragazza mi mancasse, a quanto poco ci fossimo vissuti prima di separarci. Mi con-vinsi di aver fatto la scelta giusta, viaggiare mi avrebbe reso una perso-na migliore, su questo con tavo. Quando dubbi e pens ieri si stavan o in-garbugliando troppo, la voce di Nicola mi destò. - E’ ora di tornare – disse facendo un cenno al capitano del catamarano. Tornati sul continente cerca mmo un ri paro per la n otte e una ferm ata del bus ci sembrò il posto più ada tto dove riposare. Ci sdraiammo pen-sierosi, avevamo scritto alle nostre belle e ai nostri familiari. Leggere di loro ci faceva sempre chiudere un po’ a riccio, forse per proteggerci dal mondo esterno oppure per conservare il più p ossibile al caldo le affet-tuose parole dei nostri cari. Verso le tre cominciò a piovere, ci coprim-mo come meglio potevamo e a ttendemmo sonnecchiando che arrivasse l’alba per iniziare un’altra giornata di viaggio. E così fu: prendemmo un taxi collettivo per Cay enne, poi un bus per St. George dove ci ti mbra-rono l’uscita. Una piccola barca ci fece solcare le acq ue di uno dei nu-merosissimi fiumi della zona per por tarci nuovamente in terra bra silia-na.

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INFINITO BRASILE Il nostro progetto era di raggiungere Manaus su un barcone lungo il rio delle Am azzoni e in qualche modo di scendere in Bolivia. Ci erano giunte voci però che la navigazione do po la prim a giornata diventava noiosa, perciò optamm o per attraversa re il delta del rio e inoltra rci in Brasile. Non potevamo seguire un pi ano preciso, ogni giorno rep eriva-mo informazioni nuove che modificavano la nostra rotta e sono convin-to che siano stati questi cambiamenti inaspettati a rendere il viaggio più brioso. Raggiungemmo Macapà in tarda serata e ci buttammo in un ostello do-ve l’assenza di luce non ci fece notare la sporcizia delle ca mere. Quan-do mi svegliai la mattina notai strisciate di sangue su tutto il m aterasso. Devo a mmettere che quasi m i dispiace va che non fosse il m io. Nel le docce co muni ci lavammo togl iendo lo sporco di giorni di viaggio, comprammo due amache per 20 dollari e con un bus arrivamm o a San-tana. Il barcone era ancora vuoto , credendoci furbi a ppendemmo le a-mache in posizione strateg ica, pensando in quel modo di evitare il con-tatto con gli altri. Dopo q ualche ora eravamo già centinaia, evitare il contatto era impossibile: avevamo gente di fianco, sopra e perfino sotto. Avevamo davanti trentadue ore di traversata e il proposito di non tocca-re cibo dalla mensa: se ci fosse venuta la dissenteria avremm o dovuto utilizzare dei cessi ripugnanti. La prim a notte dormii con a fianco i ru-gosi e solcati piedi di un vecchio, Nicola mi guardava e rideva, io cer-cavo di non entrare in traiettoria per non rischiare al primo beccheggio di ritrovarmeli in bocca. Ci sentivamo stipati come dei profughi, ma era piacevole stare tutti insieme. La perso ne cominciarono a sorriderci e a offrirci cibo, ma una volta finite le nostre e le loro scorte, la fame ci spinse a mangiare dalla mensa. Scesi io per entra mbi e fu meglio così, almeno risparmiai quella v isione al mio amico. Il luogo era sporco, gli scarafaggi giravano ovunque, ma il cibo che mangiammo non ci causò problemi. Due ragazze vicino a n oi cominciarono a parlarci, ma noi ca-pivamo poco o niente. Provai a comunicare con la più grande in france-se, e qualcosa riusci mmo a dirci. Le conversazioni erano lente, ma di tempo ne avevam o. La barca ogni tan to si fermava e c’era gent e che

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scendeva e saliva; spesso passavamo villaggi da cui partivano piccole canoe con a bordo al massimo due persone che ancorandosi a noi ven-devano pesce o gamberetti d’acqua dolce. Molti di questi erano bambini giovanissimi. Essendo il delta del rio delle Amazzoni frastagliato e pun-teggiato da n umerosissime isole avevam o la fortuna di p oter godere di una vista che ci teneva occupati per le lunghe ore di traversata. La ve-getazione degli argini pendeva sulle acque co me a volerle sfiorare, branchi di scimmie scuotevano rami come ad attirare l’attenzione delle loro compagne per mostrare il nostro passaggio, alte palafitte si affac-ciavano nel fiume e dai loro po nti alcuni bambini completamente nudi ci salutavano sorridenti. Trascorreva mo il te mpo così, chiacchier ando di quello che vedevamo, sorprendendoci per ciò che il viaggio ci r ega-lava e raccontandoci la n ostra vita. Tutt o ciò aumentava il nostro lega-me che diventava sempre più profondo e solido. La sera la più giovane della due ragazze che avevamo conosciuto tentò un approccio con me. Dic eva di avere diciotto anni e fisica mente li di-mostrava tutti; ma la sua faccia era ancora giovane. Mi stupii per la di-sinvoltura con cui si propose noncurante del fatto che fossimo in mezzo al mucchio e che i genitori con i quali viaggiava fossero sdraiati a pochi metri da me. Pensai a Veronica, a quanto avrei voluto che fosse al posto suo. Dopo diversi suoi tentativi e altrettanti rifiuti, in francese dissi alla sua amica di riferirle che per me era troppo giovane. Avessi dett o che ero fidanzato magari non le sarebbe importato, m a rifiutandola gentil-mente speravo demordesse. Mi andò bene, perché si ritirò sulla sua a-maca e non mi infastidì più. Mi addormentai guardando il cielo stellato, di cui credo mai un uomo si possa stancare. Ogni secondo sembrava diverso, più brillante e segreto. Mi svegliai con le prime luci, la palla rossa uscì dalle acque colorandole di arancione. Attraversar e quei territori m i fa ceva s entire privilegiato. Ero indignato da quanto la gente non a vesse rispetto per quella natura incontaminata; ogni gener e di imm ondizia veniva gettata nelle acque scure e placide del fium e che tristemente le accettav a inghiottendole e depositandole nei suoi abissi. Perché quel fiu me che rappresentava la vita per tutti coloro che vi vevano ai suoi lati doveva subire quelle umi-liazioni? Imparai quanto è stupido l’ essere umano che prende dalla na-tura, trasforma e poi restituisce, senza capire che ciò che tocca non po-trà mai più essere assimilato da lei. A mezzanotte una tremenda tempe-sta svegliò tutti i passeggeri. Enorm i onde lam bivano il secondo piano della nave; le amache sembravano prede di ragni sb attute dal vento e rivoli di vomito solcavano tutto il ponte. Sorrisi pensando che fosse una

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piccola punizione che il Rio voleva infl iggere a coloro che lo inq uina-vano. Approdati a Belem prendemm o un bus per Sao Luis, dove arri-vammo dopo quindici lunghe ore. Er avamo sporchi e assonnati, ma vi-sta la tarda ora decidemmo di dormire in stazione. Gentilmente il guar-diano attese qualche minuto prima di chiudere i bagni in comune così ci potemmo rinfrescare. Non mi inquietava più dorm ire per strada, ero pronto a difendermi convinto di avere la giusta aggressività per f ar de-mordere anche la persona più caparbia. La mattina ci svegliammo pre-sto e chiede mmo infor mazioni per raggiungere Barrerinhas, ma sem-brava che nessuno l ’avesse mai sentita . Era fam osa per le sue dune bianchissime punteggiate da piccoli l aghi dove si raccoglieva acqua piovana. Lo spettacolo doveva essere stupendo, occhi di acqua cristalli-na dove ci si poteva immergere e riprendere dalla calura della zona se-midesertica. Cercammo allora di avvicinarci alla prima grande città dei dintorni dove speravamo di incontrare qualcuno che potesse indirizzar-ci. Ci sedemmo su un bus che procedeva in quella direzione; una coppia di ragazzi si girò e ci chiese in italiano di dove fossimo. Risultarono es-sere vicini di casa di Nicola. Paolo possedeva in soci età un ristorante a Rimini. Per tre mesi all’anno lasciava tutto in m ano al socio e si mette-va in viaggio. La sua raga zza, F ederica era una parr ucchiera che rag-granellati un po’ di soldi cercava un futuro in giro per il mondo. Si era-no conosciuti da poco e avevano deciso di provare a viaggiare insieme. - Male che vada ognuno va per conto proprio - si dicevano sorridendo. Anche loro stavano andando a Barrer inhas, così cominciammo a viag-giare insieme. Vi giungemmo in tarda mattinata, ci sistemammo in una piccola pensione e prenotammo una jeep per visitare le dune. Cenammo tutti insieme e più li conoscevo più m i piacevano. Nicola era in estasi , poter parlare un po’ di casa er a per lui un toccasan a. Il giorno dopo vennero a prenderci, ma stranamente quelle che dovevano essere enor-mi pozze era no in realtà di dim ensioni ridotte. Ugual mente ci spo-gliammo e ci tuffammo. Mi sorpresi di scoprire che m olte di queste e-rano popolate da pesci. To lsi dallo zain o una noce di cocco che avevo prelevato in Guyana francese e con non poche difficoltà riuscii ad aprir-la e a berne il latte. Al ritorno ci insabbia mmo. L’autista si mise a sca-vare e noi a cercare dei rami da mettere sotto le ruote per non farle slit-tare. Il sole era severo, con i suoi raggi ci frustava viso e schiena che lentamente si coloravano di rosso. Una volta in albergo ci togliemmo la sabbia di dosso e prendemm o un bus per Paolino Neves, un paesello che in realtà ci s erviva comepunto d’appoggio per arrivare a Jericoacoara. Arrivammo a Neves la sera tar-

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di, volevamo dormire per strada, ma l e stanze er ano così econo miche che non potemmo rifiutarle. Co minciai ad avvertire un’i nsolita fiac-chezza, ma non ci feci caso. Cenammo mentre a pochi passi da noi un gruppo di ragazzi di ogni età ball ava e lottava prat icando la loro stu-penda capoeira. Improvvisamente delle fitte allo stomaco mi costrinsero a rapide fughe al bagno. Gli attacchi di dissenteria mi tormentarono tut-ta la notte e insiem e alle scottature solari non mi diedero alcuna tregua. Il giorno seguente saremm o dovuti arrivare a Jericoacoara ma dopo la prima tappa capii che non ce l’ avrei fatta. Ero distrutto. La dissenteri a continuava a infierire, una febbre al ta mi tagliò le gambe causandomi forti dolori ai reni e all e o ssa. Pa ssata Tutoia arrivammo a Ca mocim, dove con un filo di voce consigliai agli altri di proseguire, li avrei rag-giunti appena rimessomi. Nessuno di loro m i voleva lasci are solo e la cosa mi fece piacere. Cercammo una stanza d’albergo e mandai Nicola a comprarmi qualche litro d’acqua e tanta frutta. Mi misi a letto e cercai di prendere una tachipirina ogni sei ore e ogni volta che mi svegliavo (il sonno era pro fondo ma non prolungato) bevevo il pi ù possibile e man-giavo della frutta. Sudai c ome se fossi in m ezzo al deserto e il giorno dopo ero debole m a pronto per ri partire. Con una je ep, l ’unico mezzo che potesse attraversare dune di sabbia, arrivammo a Jericoacoara, loca-lità famosa in tutto il m ondo per il s uo vento costante. Gli amanti del wind-surf e del kite-surf trovavano qui i l loro posto dei sogni. Io e Pao-lo rimanemmo a curare gli zaini, m entre Nicola e Federica, liberi di o-gni peso, potevano girare il posto e contrattare il miglior prezzo. Il vil-laggio non era grande ma tempestato da ostelli e alberghi di ogni gene-re. Senza alcun d ubbio il turismo era diventata la maggior fo nte di so-stentamento. I due fecero un ottim o lavoro: per quattro dollari a testa avevamo una stanza nuov a con bagno incluso e abbondante colazione. Decidemmo di rilassarci facendo un po’ di vita di mare. Ci iscrivemmo a un breve co rso di k ite-surf che pagammo 179 euro. La cifra era piut-tosto alta e sapevo che in realtà sa perci andare non mi sarebbe mai ser-vito. Comunque partecipammo tutti e risultò essere una bella esperien -za. Ci si abitua subito alle com odità, per colazione avevamo una ragaz-za che cucinava per noi fino a quando non eravam o sazi. Dopo il corso in spiaggia bighellonavamo per il villaggio e al tramonto salivamo sulla duna più alta per ammirar e quella magnifica palla r ossa che si nascon-deva all’orizzonte. Prima d i cena ci f ermavamo a gu ardare dei ragazzi che si esibivano in alcuni co mbattimenti di capoeira. L’ atmosfera er a gioviale e rilassat a, era sempre piacevole trovare posti si mili per spez-zare lunghi giorni di solo viaggio. Qual che giorno dopo lasciamm o i l

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villaggio a malincuore, ma sapevamo che rimanendo sulla costa a-vremmo trovato posti sim ili. Infatti Pr aia Pipa era uno di questi, f orse un po’ più movimentato. La vita si snodava intornoa una lunga via ch e costeggiava l a spiaggia, a ccessibile gra zie a nu merose r ampe di scale poste per superare l’ostaco lo della scogliera. Negozi e locali richi ama-vano con le loro luci colorate l’ attenzione di vacanzieri e viaggiatori. C’era un angolo di spiaggia nascosto dove si poteva nuotare con i delfi-ni e vederseli spuntare da ogni lato era fantastico. Quella sera controllai la mia posta elettronica e trovai un messaggio di mio fratello. La nonna era morta il giorno prim a alle sei di m attina. Mi bloccai per un momento, non sapendo cosa fare. Il suo declino era stato così rapido che quasi non me ne ero res o conto. Era se mpre stata auto-sufficiente, q uando all’improvviso un giorno si era sentita stanca e si era trasferita a casa dei miei zii. Una volta che l’andai a trovare la trovai molto invecchiata. Da lì al tracollo passarono pochi mesi. La portarono in ospedale e la andavo a trovare spesso. Mi riconosceva, ma straparla-va. Un pomeriggio mi chiese se sotto il suo letto ci fosse un bambino. - No nonna, non c’è nessuno - la rassicuravo. Mischiava il presente con fatti avvenuti durante la su a giovinezza. De-menza senile, dicevano i dottori. Lent amente si stava spegnendo. Il giorno prima di partire feci una corsa per andare a trovarla, c’er a mia zia con lei. Respirava male, il suo volto era scheletrico. La salutai acca-rezzandole la testa. - Torna a trovarmi - disse con un filo di voce. Gli occhi mi si inumidirono e un grop po mi bruciò in gola. Quella fu l’ultima volta che la vidi. Telefonai a casa e ri spose mio padre, era triste e serio. Sentivo il suo rancore nei miei confronti per non essere lì in un momento così im por-tante. Aveva ragione, anc he a me sarebbe piaciuto rivederla, ma non avrebbe cambiato nulla. Prima di salutarmi mia madre prese la cornetta. - Buon Natale, piccolo. Se non ci sentiamo ti auguro un Buon Natale - Non mi ero accorto che fosse quasi la vigilia. Non dissi nie nte dell’accaduto ai miei compagni di viaggio, non avrei saputo come sostenere la conversazione. Cominciai a bere fino ad an-nebbiarmi il cervello, era l’unica soluzione che trovai idonea. Quando mi sdraiai nel letto incroci ai le mani di etro la testa e la pensai int ensa-mente. “Buon viaggio, nonna. Ovunque tu stia andando”. Dopo due giorni nella caotica cittadella ci trasferi mmo a Maracaipe do-po aver scartato Porto de Gallinhas, località troppo turistica e affollata per i nostri gusti.

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Il posto era tr anquillo e non facemmo altro che ricaricare ulteriorment e le batterie. Chiacchierare con Paolo e Federica era piacevole e i strutti-vo. Ci scam biavamo le nostre esperienze, ed era un po’ come viverle. Paolo adorava viaggiare in moto e passavo ore a farmi raccontare le sue peripezie in giro per il sud America e l’Asia con il suo fedele mezzo. Passammo qualche giorno tra la spiagg ia e un local e di una coppia di argentini che ci avevano preso in si mpatia. Si er ano trasferiti qualch e anno prima aprendo u n bar ristorante che perm etteva loro di so pravvi-vere. Il Natal e lo passa mmo con loro, prendemm o carne da far e alla griglia e an naffiammo il tutto con vino e birra per passare poi all’immancabile caipirinha. Arrivò il momento di salutarci. Avendo vissuto u n po’ di vita da spiag-gia ora pianificavam o di addent rarci nel cuore del Brasi le e dell’Amazzonia. Paolo e Federica erano stati degli ottimi compagni di viaggio, mi dispiaceva doverci dividere, ma era inevitabile. Loro conti-nuarono a scendere lungo la costa, noi, dopo un giorno di viaggio arri-vammo a Lencois, porta d’ ingresso alla Chapada Diamantina. Il villag-gio si arrampicava su un colle, era pulito e anche se abbastanza turisti-co, riservava spazi isolati dove cercare un po’ di tra nquillità. Visitam-mo i dintorni, ma la Chapada non era quello che ci aspettavamo. Il turi-smo aveva invaso i luoghi d’osservazione di quella natura un tem po in-contaminata. Spesso ci ritrovavam o in decine di persone a percorrere uno stretto sentiero per recarcia una cascata piuttosto che in una vallata. Delusi dalla scoperta ma ormai prossimi al capodanno decidemm o di passare lì la festa per poi ripartire con l’ anno nuovo. Un pom eriggio una ragazza mi fermò per strada scambiandomi per qualcuno che aveva già visto. A breve ci ritrovamm o con altri suoi amici e provamm o a comunicare. Mi piaceva scoprire che d opo così poco tempo riuscivamo a capire e a farci capire. Certo, le conve rsazioni erano leggere, m a era un inizio. In quei giorni cominciarono gli screzi con Veronica che tra alti e bassi ci trascinammo fino alla fine. Malintesi, sospetti e mancanza di fiducia resero le nostre conversazioni scritte o telefoniche dei continui attacchi. Quando rimanevo da solo mi pentivo per tutto il male che ci stavam o facendo, perché in realtà sapevo quanto tenessi mo l’ uno all ’altra e quanto questo rendesse ancora più st upide le nostre discussioni. Litiga-re era orribile poiché non potevamo guardarci negli occhi per capire che c’era amore: tempo e distanza cercavano di sm ontare giorno dopo gior-no ciò che aveva mo costruito. Il ri cordo del tem po trascorso insie me andava affievolendosi e spesso perd evamo di vista il perché volevamo

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continuare a stare insieme, l’ essenza del nostro rapporto. Nella coppia si ha continu amente bisogno di dimostrazioni d’affetto e noi non pote-vamo donarci che poche parole ogni volta che avevo la possibilità . Ri-conoscevo che non era abbastanza e soffrivo nel pensare a quel che a-vrei perso se Veronica si fosse st ancata di aspettar mi. Ogni tanto mi sfiorava l’idea di tornare, ma i mmediatamente la soffocavo vergo gnan-domi per quella che io consideravo una debolezza: sapevo di percorrere la strada giusta e sapevo che tutte quelle sofferenze, nostalgia e malin-conia, mi avrebbero reso un giorno una persona diversa. L’ultimo giorno dell’anno andammo a mangiare una pizza nel ristorante di un bergamasco che sembrava reduce da una vita molto movimentata. Era scappato dall’ Italia e sosteneva che la televisione fosse dele teria. Diceva che n on era un passatempo, bensì un m odo per influenzare le nostre menti, portandoci a credere ciò che vogliono loro. - Loro chi? - gli chiesi. - Multinazionali! - rispose - Basta una notizia al telegiornale per of fu-scare la mente di milioni di persone . Ogni giorno che passa, grazi e al passaparola, l’intero mondo viene a conoscenza della notizia. Non pensi possa essere un modo per fare pubblicità? - - Cosa intendi? - - Se si sparg e la voce che c’è un’epidemia prevenibile con un com une vaccino, chi pensi che ci guadagni? - - La casa farmaceutica - - Esattamente - disse infornando una pizza. - Pensi davvero che siano capaci di mentire a livello m ondiale? – do-mandai dubbioso. - Non mentono affatto. Sicuramente l’epidemia esiste, ma è controllata e magari riscontrata in zone remotissime della terra. Agendo sulle paure delle persone riescono a rimpinguare le loro casse vendendo inutili vac-cini. L’essere umano vive nel terrore di soffrire e con l’angoscia di mo-rire - - Tu non hai di questi timori? - gli chiesi. - Certo. Per questo non ho la televisione - rispose sorridendomi. Usciti dal ristorante incontrammo Gina, la ragazza che mi aveva ferma-to per strada che ci invitòa unirci al suo grup po per brindare all’anno nuovo. La musica er a ovunque, non era necessario entrare in un locale o in una disc oteca. Le str ade co minciarono a gremirsi di persone che bevendo e danzando salutavano l’ anno vecchio. Persi di vista Nicol a che rincontrai dopo un’ora. Mi chiese le chiavi della stanza perché per lui era abbastanza. Io continuai a bere con i nuovi amici e a notte fonda,

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ubriaco e stanco, arrancai in direzi one dell’albergo. Mi svegliò il cellu-lare che suonava, credevo fosse un sogno. Era Veronica che cercava di fare pace. Era quello che volevo, non cercavo altro ma ero troppo orgo-glioso e ancora brillo per dare retta ai miei sentimenti. Il giorno seguente ripartimmo. Visto che la nostra stanza era abbastanza lontana dalla reception pensammo bene di rischiare e non pagare un pa-io di notti. Per viaggiare via terra in Brasile bi sogna dotarsi di tanta pazienza: le distanze da coprire sono sem pre immense e spesso i mezzi di trasporto sono in ritardo. Per arrivare a Cuia bà prendemmo, tra i m olti altri, un bus la cui condensa dell’aria condizionata continuava a gocciolarmi ad-dosso. Era notte, i posti erano tutti occupati e il non poter dorm ire mi faceva impazzire. Alla prima fermata scesi e vidi ch e la maglietta non solo era bagnata, ma lo scarico l’aveva anche macchiata. Chiesi di spo-starmi e visto che al cuni passeggeri erano scesi, mi diressi con N icola nei sedili posteriori. Prima di sedermi un tizio mi disse qualcosa ma ero troppo nervoso per ascoltarlo. Mi sedetti e appoggiando la mano toccai qualcosa di viscido. Mi annusai le dita pregando che non fosse ciò che pensavo. - Merda! - gridai. - Te l’avevo detto - ribatté l’uomo di cui non avevo colto il bisbiglio. Qualche bambino se l’era fatta addosso. Avevamo ancora un lunghissimo viaggio davanti, ero sporco, non pote-vo lavarmi e dovevo cercarmi un altro posto. Arrivammo a destinazione dopo quasi due giorni e per fortuna inco ntrammo Deise. Sperduti per la città venne in nostro aiuto una ragazza che lavorava per il comune. Dei-se aveva tren tadue anni e ci prese subito in sim patia. Ci acco mpagnò nell’ostello della città e noi la invitammo a cena. Cucinammo per lei ma quando arriv ò no n toccò nulla, sosten endo di aver già m angiato; u-scimmo a bere qualcosa e dopo qualche birra ci invitò a trasferirci a ca-sa sua. - Venite stasera stessa! - Non eravam o molto convinti, viaggiando bisogna essere sospett osi di tutto e tutti e quel suo ent usiasmo ci rendeva inquieti. Preferi mmo ri-manere in ostello per quella notte, visto che aveva mo già pagat o e di muoverci da lei il giorno seguente. - Vedremo che succederà - ci dicemmo. Ci venne a prendere con la sua piccola macchina bianca e ci portò da lei; ci mostrò la ca sa e ci mise tutto a disposizione, internet co mpreso, affinché potessimo proseguire le nostre ricerche utili al viaggio. Poi ci

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diede le chiavi e ci disse che doveva correre al lavoro. Io e Nicola ci guardammo attoniti. Com e poteva fida rsi di due sconosciuti? Cer to, a-vevamo facce rassicuranti, ma arrivare a la sciarci le chiavi di ca sa era quasi una dimostrazione di incoscienza. Il giorno seguente ci portò a visitare parte della Chiapada dos Guimares. Giuntia un ruscello mi al-lontanai per fare qualche foto e mentre tornavo vi di una do nna nuda nell’atto di rivestirsi. - Cos’è successo? - chiesi a Nicola che sguazzava nell’acqua. - Mi ha chiesto se mi dava fastidio che facesse il bagno nuda e io le ho chiesto se a lei lo dava il fatto che tenessi il costume. Poi si è spogliata - Mi misi a ridere, era decisamente una ragazza particolare. Per il fine settimana ci inoltramm o nella Chiapada, alloggiamm o in un piccolo villaggio in cui aveva affitta to una stanza da una sua attempata amica. Per un pezzo guidai io, anche se avevo las ciato la patente nello zaino, a casa sua.A un posto di controllo incrociammo le dita e tutto filò liscio. Ci fermammo a far e la spesa, due bei polli da fare alla brace e una volta arrivati a casa della sua amica e dopo aver posato gli zaini, andammo tutti insiem e a f are il bagno i n una cascata che si trovava a una decina d i m inuti dall’abitazione. Quando Deise rim ase in top less pregammo c he la vecchia non seguisse l’ esempio, ma in un attim o s i era già spogliata. Io e Nicola avevamo un bel da fare a rimanere seri. - Dai, tu ti becchi quella stagionata - mi diceva. La sera cominciò a piovigginare, ma questo non ri uscì a rovinare il no-stro barbecue. Il pollo era squisito e ne mangia mmo a sazietà. Quando tornammo a Cuiabà, Deis e ci pres entò la sua picco la figlia. Ci rivelò che era separata e aveva p assato un brutto periodo ma che ora tutt o si era risolto. La sera ci accom pagnarono alla stazione dei bus, la salu-tammo e ci promettemmo di tenerci in contatto. Non la ringraziammo mai abbastanza, la sua ospitalità e disponibilità ci avevano permesso d i visitare quei luoghi nel migliore dei modi. Si dimostrò una persona en-tusiasta dell a vita, quello che fa ceva lo viveva con passione e il tanto amare il suo paese mi fece provare nostalgia per la mia terra, che ogni giorno sentivo allontanarsi. Viaggiammo tutta la notte con destinazione finale Cam po Grande, pun to di part enza per vedere una delle ri serve naturali più belle al mondo. Intanto i rapporti con Nicola co minciavano lentamente a farsi tesi, passare go mito a gom ito 24 ore su 24 no n era affatto facile. Rispettavamo i nostr i spazi e le nostre idee, parlava mo dei luoghi da visitare e prendevamo decisioni favorevoli per entram bi, insomma ci volevamo bene, ma se inizialmente la mia idea di separarci sembrava alquanto strana ora la trovav amo necessaria. Avevamo biso-

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gno di staccare la spina, vivere il nostro viaggio e poi rivederci. Pianifi-cammo che avremmo potuto dividerci in Perù, per poi incontrarci a Pa-nama, in America Centrale. Lui avre bbe visitato Perù ed Ecuador, per poi volare a Panama City , io mi sarei f ermato sulla costa peruviana a salutare degli a mici del p osto incontra ti durante un viaggio passato e poi avrei con qualche tappa interm edia raggiunto l ’Ecuador che avrei attraversato i l più velocemente possib ile, dato che lo avevo visitato l’anno precedente. Successivam ente av rei affrontato la Colo mbia e i n qualche m odo avrei raggi unto Pana ma. Sentivo l ’importanza di quel paese cre scermi dentro giorno dopo giorno, spesso invadeva anc he i miei sogni. Ero convinto di quel che volevo fare, l’unica remora era per la mia famiglia. Se mi fosse capitato qualcosa sar ebbero stati i pri mi a soffrire e sapere che me l’ero andata a cercare rendeva la cosa ancora più assurda. Arrivammo a Cam po Grande la mattina presto. F ortunatamente un a spedizione partiva dopo poche ore; coglie mmo al volo l’ occasione e ci aggregammo. Viaggiammo su minibus, camion e jeep e do po una deci-na di ore giungemmo all’accampamento in mezzo alla foresta. Ci diede-ro alloggio i n una grossa baracca su delle puzzolenti am ache, ma l’atmosfera era positiva e la voglia di inoltrarci in quel nuovo m ondo ci entusiasmava. La m attina partimmo a piedi per osservare qualche ani-male. In quella parte del Mato Gro sso ne vivevano settecento specie, perciò non era difficile imbattersi in qualche esemplare. La presenza di numerose lagune rendeva il posto misterioso e suggestivo. Avvistammo numerosi c apibara, cai mani, are blu, form ichieri, il fa moso Jabirù, l’enorme uccello simbolo del Pantanal , tucani, falchi, struzzi, s cimmie, cervi e molti altri animali. Dato il caldo afoso, decidemmo di tuffarci in una lagu na l e cui acque r iflettevano il cielo tinteg giato di nuvole. Le erbe ci sfioravano le gambe e devo ammettere che non mi sentivo molto tranquillo. Quando uscimmo notai che dei caimani erano accorsi a ve-dere chi facesse tutto quel baccano nel loro territorio. Con i soli occhi e parte della coda che affio ravano da lla superficie dell’acqua sem brava attendessero che tornassimo a tuffarci. Il pomeriggio la nostra guida ci diede u na canna da pesca di ba mbù e della carne cruda dall’o dore orrib ile, dicendoci che saremmo andati a pescare i piranha. Dopo un’ ora di cammino raggiungemmo un’ altra zo-na del parco. Quando però vidi che dovevamo entrare in acqua esposi la mia perplessità. - Non ti preoccupare, né i cai mani né i piranha attaccano l’ uomo - mi risposero.

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- In alcuni documentari ho sentito dire il contrario – ribattei. - Sei forse stato mangiato mentre ti rinfrescavi nella laguna? - - No, ma magari i piranha lo faranno - - Pensi che non fossero presenti nella laguna di questa mattina? - Mi convinsi ed entrai. L’acqua mi ar rivava alla vita, infilai la carne all’amo e cominciai a pescare. Presi qualche piranha e una specie di pe-sce gatto. La sera ce li cucinarono e fu un pasto squi sito. Per inte grare la cena ci diedero uno stufato con riso il cui odore mi era familiare: era la stes sa carne che aveva mo us ato per pescar e. Aff amati, ripulimmo comunque i piatti. Dopo aver cenato, prima di sdraiarmi nell’amaca, mi soffermavo in riva alla l aguna per a mmirare il sole che scendev a all’orizzonte. Ho sempre pensato che il tramonto è un momento specia-le in cui ci si può avvicinare di più a se stessi. Viaggiando, in modo par-ticolare insaporiva con un filo di malinc onia pensieri e speranze. Così lasciavo che la mia mente, cullata dalla meravigliosa natura, fuggisse verso casa, da Veronica. Il giorno dopo ci portarono alle stalle e ci assegnarono un cavallo. - Sai cavalcare? - mi chiese la guida. - Abbastanza - - Allora tu prendi questo, è molto veloce - Era un fulm ine. Se spronato quel cav allo raggiungeva velocità vertigi-nose, e quando pensavo andasse al massimo bastava un’ulteriore pacca per fargli prendere il volo. A Nicola invece assegnarono un ronzino che nemmeno picchiato a sangue si sarebbe messo a correre. Corremmo per il Pantanal, giocando con i nostri cavalli ed esplorando la zona che a ogni angolo riservava l’incontro con animali impauriti dalla nostra pre-senza che si rintanavano nel fitto. Al ritorno udii un vociferare sospetto nei pressi della cucina dell’accampamento. Un boa si era avvicinato e dei curiosi lo stavano osservando. Li ra ggiunsi e aspettai che se n e an-dassero tutti. Il serpente non voleva far altro che strisciare nella selva, ma io volev o guardarlo ancora. Adoro i serpenti e non volevo farlo scappare. Gli lisciavo la morbida pelle stando attento che non mi attac-casse. Non è velenoso, ma un suo morso è ugualmente doloroso. Quan-do si accia mbellò e co minciò a soffiare capii che l o avevo m olestato abbastanza. Il gior no dopo, sulla via del ritorno per Campo Grande ci attraversò la strada un anaconda. Dopo averlo catturato la guida c e lo mostrò da vicino. Era piccolo, forse un paio di m etri, ed era stu pendo. Facendo attenzione a tenergli bloccata la testa me lo misi intorno al col-lo. Fu una degna conclusione.

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PARAGUAY Da Campo Grande visitamm o in un gio rno Foz do Iguazù, l’immensa cascata la cui portata è una delle maggiori al mondo. Ci entrammo dalla parte argentina, che aveva mo udito essere quella da cui si pote va ap-prezzare meglio lo spettacolo. Questo ci si presentò lentamente con una serie di cas cate in altezz a cres cente, come s e Ma dre Natura volesse prepararci per m ostrarci la sua magnificenza. Nonostante ciò qu ando arrivammo alla Gola del Diavolo ci m ancò il fiato. Il fragore era assor-dante, la vista mozzafiato: l’acqua cadeva da un’altezza vertiginosa e si vaporizzava bagnandoci i vestiti. Dopo mezza giornata trascor sa nel parco, ripartimmo per Ciudad del Este, in Paraguay. Riuscii a scrivere a Veronica che non sapevo se sarei riuscito a co municare con lei nei giorni successivi, in quant o entravamo in un paese abbastanza scono-sciuto. Mi rispose che er a stufa di avere mie notizie sporadicamente e che se ci tenevo a noi dovevo trovare il modo. Spensi furioso il te lefo-no. L’avevo avvertita che non sarebbe stato sem plice, sapeva che non avremmo potuto sentirci t utte le vol te che volevamo, m a nonost ante questo facev a i c apricci e mi de concentrava dal viaggio. Consideravo quel suo comportamento dannoso, avevo già m olti pensieri in testa, sa-pere che lei mi era vicino e mi voleva bene mi aiutava ad affrontarli, ma se anche lei si metteva dall’altro lato, allora tutto si com plicava. Avere il suo suppor to era l’unica cosa che cercavo, quella ragazza poteva in -fondermi tutta la forza di cui avevo bisogno o ppure annientarmi lo spi-rito con una parola. Fui e goista, pensai esclusiva mente a me ste sso, a tenere a bada la mia tristezza, senza riconoscere che anche lei ne aveva la sua dose. Dovevam o stringere i denti, sopportare quei m omenti per-ché sentivo che quell’allo ntanamento forzato un giorno ci avrebbe uni-to, incollato. La frontiera del Paraguay era caotica e l’in quinamento insopportabile. Sbrigate le pratiche raggiungemmo a pi edi la città ap pena in tempo per schivare uno dei più potenti acquazzoni a cui avessi mai assi stito. Le strade si trasformarono in ruscelli che trasportavano immondizia di ogni genere, ci riparammo sotto un tendone su un marciapiede e attendemmo

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che la te mpesta si calmasse e l’ acqua per le strade diminuisse per poi procedere in cerca di una sistemazione per la notte. Ciudad del Este era sporca e sovraffollata, gli alti e l ugubri edifici sem bravano chiudersi sopra di noi, i mezzi di trasporto sgasa vano e i loro clacson eran o un perenne sottofondo. Fu un’accoglienza abbastanza brusca, in più era-vamo nervosi per il f atto di non esser e riusciti a procurarci qualch e in-formazione sul paese. No n essendo meta turistica n on avevamo incon-trato nessuno che ci fosse passato e ch e quindi ci potesse consigliare . Per fortuna trovammo un albergo dove alla receptio n lavorava un sim -patico ragazzo di nom e Josè. Ci diede un paio di dri tte e la mattina se-guente visitammo la prima meraviglia d’ingegneria al mondo, la diga Itaipù. Il Paraguay è così orgoglioso di questa sua realizzazione che of-fre visite guidate gratuite a tutti gli interessati che vi giungono. La diga produce tanta di quell’ energia idro elettrica da soddisfare il paese e l’enorme avanzo viene venduto al vicino Brasile. Da lì ci muovemmo verso Assuncion. Eravam o molto ind ecisi se pas sare da Encarna cion, dove Josè ci aveva accennato esser ci delle rovine Gesuite, ma non a-vendo le i dee chiare ci buttamm o nella capitale. La città era deser ta e molto tranquilla. La popolazione era in vacanza, il caldo era afoso e la temperatura superava i quaranta gradi. Girammo per le o mbrose vie os-servando coloro che non si erano mossi; la vita scorreva lenta, aver fret-ta significava disidratarsi. Dopo cena, seduti a un tavolo sulla strada che portava al Palazzo del Governo e mentre l’aria della sera ci rinfrescava il viso, un gruppo di turisti passò davanti a noi. Uno di loro era Giorgio. Ci abbracciammo e si fermarono tutti e quattro a parlare con noi. Elena era tornata a casa, aveva finito il suo periodo di vacanza. Ora lo vedevo più rilassato. Non mancai di fargli notare che i posti da noi visitati e che lui denigrava erano risultati davvero speciali; lui non si smentì storcen-do il naso incredulo. Chiacchierammo dei nostri viaggi in uno squallido locale; giocando una parti ta a bilia rdo e bevendoci un paio di bi rre ti-rammo fino a notte fonda. Lo incontrammo in città ancora un p aio di volte, ci i nvitò ad an dare in Argenti na dove avremm o noleggiato dei cavalli e saremmo ri masti a spassar cela per qualche tem po, ma i nostri progetti erano diversi: volevamo entrare in Bolivia d al Paraguay. Quel-la zona, chiamata Chaco, era cons iderata dalla sua popolazione u n luo-go affascinate e io ero curioso di vederla. Purtroppo però l’unic o bus che la attraversava viaggiava di no tte e non effettuava fermate. Deluso decisi di seguire l’idea proposta da Nicola: entrare in Argentina per vi-sitarne l’estremo nord e mentre scendevamo fermarci a visitare le rovi-ne Gesuite che anche in città ci avevano vivamente consigliato. Ci met-

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temmo in marcia e dopo ore di bus scendemm o a Encarnacion, dove prendemmo una stanza. Il giorno seguente visitammo Trinidad, le anti-che rovine Gesuite che ci apparvero ben conservate. Il posto era isolato, intorno c’erano solo campi dove cresceva una verde e giovane erba; più in lontananza, da alcune fattorie, arrivavano voci di contadini. Nessuno, a parte un ad dormentato guardiano sdraiato su una p anca all’ingresso, era nei parag gi. Purtroppo trovammo il museo chiuso, m a visto che un lucchetto ci separava dal visitarlo, pr ovai ad aprirlo con delle graffette. Nicola montava di guardia, ma dopo mezz’ora di inutili tentativi lasciai perdere. Tornati a Encarnacion ci recammo al con fine argentino e a Corrientes ci sistemammo per la notte. Controllai la mia posta e una e-mail di Veronica mi spiazzò. Dove ndo programmare un paio di setti-mane di ferie aveva avuto l’i dea di rag giungermi. Per me il rivederla avrebbe significato interrom pere il c ammino, deconcentrar mi dal mio obiettivo. Sentivo i n atto i l passaggio da ragazzo a u omo e non volevo mi vedesse in uno stadio interm edio. Un invisibile fabbro forgiava il mio carattere battendo con una mazza di nostalgia, malinconia e tristez-za su un’ incudine fatta di esperienze. Incontrarmi con lei sarebb e stato magnifico, ma il lavoro si sarebbe arrestato, sarebbe anzi regredito. Le dissi di no senza possibilità di controbattere. Solo in seguito capii che fin dall’inizio aveva sopportato il mio viaggio con la viva speranza che avremmo potuto i ncontrarci ogni tanto. Mi com portai da egoista e la feci soffrire terribilmente. L’Argentina si presentava più urbanizzata e co moda di quel che ci a-spettavamo, Corrientes p oteva ess ere benissi mo t rasportata al di là dell’oceano, i n Spagna, senza ch e nessuno notasse la differenza. Cer-cammo un ristorante tipico per gustarci una parrillada, lo trovammo e ci sedemmo. Affamati prendemmo ciascuno due bracieri pieni di carne, e sebbene non fosse roba di qualità, servì a riem pirci lo stom aco come non facevamo da tem po. Nicola offrì la cena, er ano due mesi che sta-vamo viaggiando e aveva superato il suo periodo massimo lontano da casa. Era un m odo per festeggiare un piccolo traguardo ma sapevamo entrambi di essere solo all’inizio. CONTINUA...