LA SICILIA GRANAIO DI ROMA - TERRA IBLEA SICILIA GRANAIO DI ROMA.pdf · tale da definire la Sicilia...
Transcript of LA SICILIA GRANAIO DI ROMA - TERRA IBLEA SICILIA GRANAIO DI ROMA.pdf · tale da definire la Sicilia...
LA SICILIA GRANAIO DI ROMA
ROMA CONQUISTA LA SICILIA
LA SICILIA DIVENTA “IL GRANAIO DI ROMA”.
DOVE SI PRODUCEVA IL GRANO.
TRASPORTO DEL GRANO DALLE ZONE DI PRODUZIONE AI PORTI
I PORTI D’IMBARCO
I NAVICULARII
I TONNELLAGGI DELLE NAVI ROMANE
LE NAVI COMMERCIALI DA TRASPORTO
COME VENIVANO STIVATE LE ANFORE ED IL RESTO DEL CARICO?
I PORTI DI ROMA: OSTIA E POZZUOLI.
LE OPERAZIONI DI SBARCO CONCLUSIONE
ROMA CONQUISTA LA SICILIA.
La Sicilia, prima della conquista romana, era uno dei posti più ricchi e attivi della
storia di quei tempi. Essendo al centro del Mediterraneo, tutto il traffico
commerciale faceva capo ad essa. Merci di tutti i tipi vi arrivavano e merci di tutti i
tipi, prodotte localmente, vi partivano. I Greci e i Cartaginesi, oltre le popolazioni
autoctone, ne avevano fatto, coinvolgendola dei loro affari, un'isola libera, ricca, ed
importante nelle lettere, nelle arti, nelle scienze e nella cultura. A seguito della prima
guerra punica (264-241 a.C.) Roma conquistò la Sicilia, che divenne la sua prima
provincia, lasciando però ampia autonomia agli alleati siracusani. L’economia
dell’isola era basata sull’estensione del latifondo (appannaggio delle aristocrazie
cittadine) dove, grazie anche all’impiego di un’abbondante mano d’opera servile, si
producevano notevolissime quantità di grano, fondamentali per approvvigionare l’Urbe.
Con l’arrivo dei romani mutò anche la geografia del movimento delle merci, le stesse
città divennero "diverse" tra loro.
Ci furono due città federate, non sottoposte di norma al sistema di aggiudicazione
delle decime, Messina e Taormina (più tardi si aggiungerà anche Noto) che avevano sottoscritto con Roma un trattato (foedus) formalmente bilaterale che definiva con
molta precisione la situazione della città, i suoi obblighi e i suoi diritti, e postulava la
sua indipendenza.
Inoltre cinque città non federate immuni e libere, Centuripe, Halaesa, Segesta, Alicie, Palermo (la cui posizione dipendeva da un atto unilaterale di Roma, che
accordava dei privilegi, ma non li garantiva con un trattato).
Infine un numero imprecisato di città il cui ager è soggetto alla decuma, che cioè
dovevano versare una quota decimale dei prodotti del loro territorio (praeterea omnis
ager Siciliae civitatum decumanus). Le stesse etnie erano valutate differentemente
tra loro da Roma. Sopra a tutte vi era l'etnia greca, per l'importanza della loro
cultura, fino in basso dove si collocavano le etnie autoctone come Siculi e Sicani.
TORNA
LA SICILIA DIVENTA “IL GRANAIO DI ROMA”.
Vi si mantennero tuttavia, o vi si formarono, città federate (fra cui Siracusa, che
mantenne per alcuni
decenni una limitata
autonomia) e municipi
romani. L’economia
dell’isola era basata
sull’estensione del
latifondo
(appannaggio
delle aristocrazie
cittadine, anche se
non mancarono
esempi di piccola
proprietà) dove,
grazie anche
all’impiego
di un’abbondante
mano d’opera servile,
si producevano
notevolissime
quantità di grano,
fondamentalmente
per
l’approvvigionamento
dell’Urbe, al punto tale da definire la Sicilia stessa il granaio di Roma.
Celebre è il detto di Catone il Censore (234-139 a.C.), secondo cui la Sicilia era "il granaio della repubblica, la nutrice al cui seno il popolo romano si è nutrito”. È nel 227 a.C. che alle comunità siciliane venne imposto un tributo annuo in grano, con
una lex frumentaria.
Tale tributo consisteva in una decima parte del raccolto. La decima (decuma) veniva
appaltata al miglior offerente (a chi potesse cioè garantire la maggior quantità di
modii) e decumani erano denominati gli appaltatori.
Pare che questa lex frumentaria risultasse "non eccessivamente gravosa per le città
della Sicilia arresesi e per i piccoli proprietari italici, presenti nell'isola.
È stato calcolato che se sotto Augusto, a Roma, circa 750.000 persone potevano
contare sul frumento distribuito gratuitamente dalle Autorità, aggiungendo quello
consumato dal ceto più elevato, dovevano annualmente raggiungere la Capitale circa
270.000 tonnellate di grano, pari a circa 40.000.000 di modii. TORNA
DOVE SI PRODUCEVA IL GRANO.
Non si conoscono tutte le località siciliane che nel I° secolo a.C. pagavano la decima al
popolo romano: la nostra sola informazione è data dal “De frumento” di Cicerone. Delle
città sottoposte alla decima molte di esse si trovavano all’interno dell’isola, altre si
trovavano sulla costa, altre invece si trovavano vicino alla costa e godevano comunque
di uno sbocco sul mare come: Agrigentum, Apollonia, Haluntium e Tauromenium. Sulla
base di recenti ritrovamenti archeologici, alla lista delle città produttrici di grano
occorre aggiungere anche Kamarina che si presuppone era ancora esistente tra la fine
dell’età repubblicana e gli inizi di quella imperiale. Alla lunga lista occorre aggiungere
altre 7 città dall’incerta ubicazione: Aceste, Herbita, Hybla, Petra, Schera, Tissa,
Tyracium. La consegna della decima doveva essere effettuata in un luogo da cui il
frumento confluito sarebbe poi stato imbarcato per raggiungere i granai della capitale
dell’impero. Molte delle località costiere elencate da Cicerone saranno state
verosimilmente scelte come punti d’imbarco per il grano delle decime che dalla Sicilia
doveva giungere a Roma “….ut….omnes decumas ad aquam deportatas haberent”.
TORNA
TRASPORTO DEL GRANO DALLE ZONE DI PRODUZIONE AI PORTI
D’IMBARCO.
Per trasportare il grano dalle zone produttive ai porti d’imbarco non c’erano molte
scelte, si utilizzava la forza degli animali e se le vie lo permettevano anche l’uso dei
carri.
ANIMALI.
Gli animali domestici utilizzati per trasportare il grano verso i porti d’imbarco erano
principalmente gli asini, che venivano utilizzati anche per il trasporto di legumi, olio,
frutta, sale, vino e anche pane. L’asino era meno esigente in fatto di alimentazione e
anche se nutrito in modo mediocre era più resistente del mulo; inoltre era molto
adatto ad inerpicarsi per
i sentieri, spesso
tortuosi e talvolta anche
ripidi.
I muli potevano, invece,
in condizioni ottimali di
alimentazione,
sopportare un peso
maggiore rispetto agli
asini e ai cavalli.
Non è infine da
escludere che venissero
utilizzati per il trasporto
degli alimenti anche
cavalli (considerati però animali nobili, utilizzati soprattutto in battaglia) e buoi,
quest’ultimi capaci di trasportare carichi molto pesanti.
VIE.
Per quanto riguarda il trasporto via terra
dai centri di produzione alle città
portuali, poiché i romani ebbero uno
scarso interesse a costruire strade
nell’isola, si presume che si facesse uso di
mulattiere, e delle cosiddette “trazzere”
per lo più risalenti all’epoca greca anche
se non è da escludere che qualcuna sia
stata creata dai Romani appositamente
per questo scopo; un esempio fu la via consolare Valeria che congiungeva Messina con
Marsala, in uso fino al XIX secolo. Fu la spina dorsale del versante ionico della Sicilia.
CARRI.
Se le vie di comunicazioni da percorrere erano sufficientemente ampie allora il
trasporto delle derrate alimentari e quindi anche del grano avveniva tramite carri tirati da buoi, asini e muli.
Esistevano diversi tipi di carri:
Il “plaustrum”, carri a due ruote.
Era il tipico carro utilizzato per il
trasporto delle merci non troppo
pesanti, specialmente per i
prodotti che ogni giorno venivano
trasportati dalle campagne vicine
per sfamare la popolazione delle
città. Le ruote erano composte da
massicci dischi di legno ed era
trainato da buoi e da asini.
Il “serracum”, carro simile al “plaustrum” ma con ruote piene più basse, adatti al
trasporto di carchi
molto pesanti, come
botti di vino e delle
piramidi di grano.
I “carrus”, carri a quattro
ruote radiate. Questi mezzi di
trasporto erano sicuramente
più vantaggiosi nel caso di
carichi ingombranti e pesanti, ma
presentavano maggiori problemi di circolazione
rispetto alle sole bestie da soma. TORNA
I PORTI D’IMBARCO.
Il trasporto per via d’acqua permise durante tutta l’epoca antica di far viaggiare
prodotti voluminosi e pesanti su lunghe distanze, senza un aumento proibitivo dei
costi. Qualsiasi fossero gli inconvenienti della navigazione, i viaggi per mare
presentavano, nonostante tutto, dei vantaggi rispetto ai trasporti terrestri, lenti, non
confortevoli e pericolosi. Senza parlare della capacità di carico: qualche centinaia di
chili per un carro, centinaia di tonnellate per un’imbarcazione.
Molte delle località costiere elencate da Cicerone nel “De frumento” saranno state
sicuramente scelte come punti d’imbarco per il grano delle decime che dalla Sicilia
doveva giungere a Roma. “ut ….. omnes decumas ad aquam deportatas haberent”.
Il termine “ad aquam” può essere inteso come “via mare”, ma non esclude la
possibilità dell’utilizzo dei corsi d’acqua siciliani, alcuni dei quali allora certamente
navigabili: si pensi ad esempio al Simeto e al Terias, l’odierno San Leonardo.
Se con il termine “ad aquam” si vuole intendere solo il trasporto “via mare”, allora
le attività di trasporto per grandi carichi dovevano fare capo solo ad alcuni porti
privilegiati quali: Siracusa, (La più importante città siciliana, era la sede del pretore e
del questore reggente l’amministrazione tributaria della Sicilia orientale) e Lilibeum
(sede del questore reggente l’amministrazione tributaria della Sicilia occidentale).
Per il trasporto del grano il governo romano richiedeva imbarcazioni di capacità superiore a 70 tonnellate, più utili ai fini dell’approvvigionamento, e visto che le navi
impiegate in età imperiale avevano una capacità variabile tra i 10.000 e i 50.000
“modii” (rispettivamente 68 e 340 tonnellate circa), si presume che anche in epoca repubblicana le navi con 70 tonnellate di stazza potessero con facilità salpare ed approdare da diversi porti siciliani, quali: Catina, Messana, Tyndaris, Lipara, Halaesa, Thermae, Panhormus e Drepanum. Se invece il termine “ad aquam” stava a significare anche il trasporto del grano da un porto più piccolo ad uno più grande, e da questo poi verso Roma; oppure il punto d’imbarco (fluviale o costiero) più vicino alla regione produttrice, allora il
numero dei porti aumentava considerevolmente e l’elenco delle città, fornito da
Cicerone è da ritenere incompleto. In questi casi però il grano non veniva spedito direttamente ad Ostia, ma faceva prima scalo nei porti siculi più grandi e da questi poi salpava alla volta di Roma. È inoltre possibile che i punti d’imbarco del grano, almeno di quello proveniente da
alcuni territori, non siano stati sempre gli stessi, ma che variassero in base a
particolari esigenze (data, luogo e oneri di trasporto). TORNA
I NAVICULARII
In entrambi i casi (trasporto diretto o trasporto da scali più piccoli a quelli più grandi)
i costi del viaggio via mare fino a Roma erano interamente a carico del governo
romano, che non
disponendo di
imbarcazioni
commerciali o di una
flotta di trasporto,
faceva ricorso ai
“Navicularii”, cioè agli
armatori titolari di
compagnie di
navigazione , che dietro
compenso effettuavano
il trasporto per suo
conto. Roma si affidava
anche ai “Pubblicani “, cioè intermediari che per conto dello Stato stipulavano i
contratti di aggiudicazione degli appalti con gli armatori (che poi erano quelli che
effettivamente avrebbero operato la spedizione delle derrate). Questi armatori,
riuniti in società, si affidavano ad un magister che curava i loro interessi. I “corpora
naviculariorum” erano ammessi dal diritto romano: nessuna autorizzazione era
necessaria per la loro costituzione e godevano di veri e propri privilegi. Per esempio
per agevolare i trasporti degli armatori lo Stato si addossava generalmente i rischi
della traversata e accordava loro agevolazioni e privilegi, come l’esenzione del
prestare servizio militare durante le guerre per tutto il tempo del trasporto. TORNA
I TONNELLAGGI DELLE NAVI COMMERCIALI ROMANE.
Per rispondere alle
diverse esigenze del
commercio, i tonnellaggi
erano molto variabili.
Secondo le fonti scritte,
le navi con una capacità
di 10.000 modii di grano,
cioè circa 70 t., costituivano il limite
inferiore delle imbarcazioni il cui tonnellaggio era giudicato sufficiente per essere messo al servizio dell’approvvigionamento di Roma e quindi di godere dei vantaggi concessi. Si trattava delle più piccole tra le navi di tonnellaggio medio.
La maggioranza delle imbarcazioni impiegate per il commercio, come ci testimoniano i
numerosi rinvenimenti sottomarini, avevano un tonnellaggio che oscillava da 100 t.
(per 2.000 anfore), fino a 150 t. (per 3.000 anfore).
Potevano esistere, però, anche navi
con tonnellaggi più elevati, da 300
t. (per 6.000 anfore); da 500 t.
(in grado di trasportare 10.000
anfore,dette “myrioforoi) ed anche
da 1.200 t (in grado di trasportare
oltre 180.000 moggi di grano), come
l’Isis (vedi sopra e accanto). L’Isis
era una nave granaria romana che
oltre a essere eccezionalmente
grande aveva forse un’attrezzatura
velica più efficiente, era lunga 53
metri, larga 14 e alta circa 13 metri
dalla chiglia al ponte. TORNA
LE NAVI COMMERCIALI O DA TRASPORTO.
Le navi commerciali romane in latino “naves onerariae “ (da carico), possedevano una
sezione capace con una
carena tondeggiante; la
loro lunghezza
corrispondeva a circa tre
volte la loro larghezza,
che era a sua volta il
doppio del pescaggio (nella
media una nave era lunga
19 metri, aveva una
larghezza di circa 6 e un
pescaggio leggermente
inferiore ai 3 metri). Le
differenti imbarcazioni
commerciali spesso possedevano anche nomi diversi, corbita, gaulus, ponto, cladivata,
etc., che variavano a seconda della loro origine geografica e della forma dello scafo. La
forma dello scafo, per esempio, poteva essere simmetrica o asimmetrica. Nel primo
caso, la poppa e la prua erano identiche mentre nel secondo la prua si trovava ad
un’altezza inferiore. La ruota di poppa, spesso, terminava in una testa di cigno rivolta
all’indietro ed era contornata da una galleria a sbalzo. La prua talvolta era concava per
la presenza di un tagliamare, non un rostro ma un dispositivo destinato a migliorare le
qualità nautiche dell’imbarcazione. Le murate erano protette da cinte e presentavano
una cassa laterale, l’ala, per difendere il sistema di governo. La cabina, di solito, era
collocata a poppa e sul suo tetto prendeva posto il timoniere. Il sistema di governo era
costituito da remi-timoni laterali, situati a poppa. Essi potevano essere regolati con un
sistema di cavi e funzionavano per semplice rotazione attorno al loro asse. Il comando
della manovra avveniva attraverso l’intermediario di una barra perpendicolare al fusto,
il clavus. Infine, la maggior parte delle navi da carico erano velieri munite di uno, due o
tre alberi. Le vele erano quadre ed erano regolate da un complesso sistema di
manovre. Esisteva, poi, su alcune navi una piccola vela triangolare, il supparum,
collocata al di sopra del pennone.
COSA TRASPORTAVANO?
La maggior parte delle navi onerarie trasportava merci di varia natura. I generi
alimentari, soprattutto i liquidi come vino, olio, o semiliquidi come le conserve di pesce,
di frutta ecc… erano contenuti in anfore impilate nelle stive a formare diversi piani.
Il vasellame da cucina e da mensa costituiva spesso il carico supplementare di queste
spedizioni, di cui spesso facevano parte anche suppellettili pregiate ed opere d’arte.
Le opere d’arte, come le statue e la suppellettile di lusso, erano trasportate
probabilmente entro imballaggi di paglia e avvolti da tessuti pesanti per attutire i
colpi ed evitare danneggiamenti nel corso della navigazione.
C’ERANO ANCHE NAVI SPECIALIZZATE.
Il commercio marittimo romano conobbe anche navi specializzate per particolari merci
quali le naves lapidariae, per i marmi lavorati e semilavorati; le frumentariae come
quelle della flotta granaria che riforniva periodicamente Roma di grano egiziano.
C’erano poi speciali navi vinariae per il trasporto del vino dentro grandi vasi di
terracotta detti dolia, capaci di contenere fino a 2.550 – 3.000 litri di vino ciascuno.
Le bestiariae, erano le navi che provvedevano al trasporto degli animali per i giochi del
circo, come si vede nei mosaici della Villa del Casale di Piazza Armerina.
Da ricordare le navi per i trasporti eccezionali, come quelle che trasportarono a Roma
gli obelischi. E’ interessante osservare che, fra tutte le specializzazioni, non è dato di
conoscere navi esclusivamente dedicate al trasporto passeggeri, come si intendono
oggi.
QUALI VELOCITÀ POTEVANO RAGGIUNGERE? Per quanto riguarda la navigazione, con vento favorevole, si può stimare che la
distanza percorsa in una giornata diurna di navigazione equivalesse a 700 stadi per una
velocità media dell’ordine di 4 e 5 nodi. In caso di traversate particolarmente rapide,
si potevano raggiungere anche i 6 nodi.
Plinio ci fornisce alcuni esempi: due giorni per andare da Ostia in Africa (capo Bon),
sei giorni per raggiungere Alessandria attraverso lo Stretto di Sicilia, sette giorni per attraversare tutto il Mediterraneo occidentale da Cadice a Ostia.
Ma i viaggi potevano
essere molto più lunghi:
Strabone ci racconta di
una traversata Spagna-
Italia durata tre mesi!
Le navi da guerra, per
la loro forma, vengono
genericamente chiamate
“naves longae”. Il nome di queste navi dipendeva dal numero dei rematori (vedi trireme
sopra). TORNA
COME VENIVANO STIVATE LE ANFORE ED IL RESTO DEL CARICO?
Una volta arrivato nei porti di destinazione il grano veniva caricato in appositi vasi che
venivano sistemati nella stiva con una particolare tecnica per garantire la stabilità non
solo dell’imbarcazione, ma
anche delle merci trasportate .
Schema della sovrapposizione dei vari livelli di
anfore nel carico di una nave oneraria
Le anfore erano disposte nella stiva della nave a scacchiera su più livelli, quelle del livello inferiore erano fissate con il puntale in uno strato di sabbia o ghiaia, le anfore degli strati superiori venivano incastrate con quelle dello strato inferiore e lo spazio fra le anfore colmato con
l’inserimento di paglia, giunchi o piccoli rami che ammortizzavano eventuali urti. Oltre alle anfore, le imbarcazioni, potevano trasportare grossi recipienti di forma sferica detti dolii con una capacità di carico di circa 1.500 – 2.000 litri, adibiti prevalentemente al trasporto del vino. I dolii erano di solito sistemati nella parte centrale dell’imbarcazione. A prua era sistemata la ceramica che a quei tempi andava più di moda: patere, vasi e coppe. Lo stivaggio risultava così elastico, non sensibile al rollio né al beccheggio; le anfore
viaggiavano senza urtarsi o rompersi, perché - con la sabbia - creavano un insieme
assai compatto. Come zavorra oltre alla sabia, venivano utilizzate anche pietrame di
varia pezzatura e, in qualche caso, anche i legumi, come le 800 tonnellate di lenticchie
che furono utilizzate come zavorra per la nave che trasportò l’obelisco per il Circo di
Caligola (Plinio, N.H. 16, 201).
Le anfore ricolme venivano chiuse con un tappo di sughero o di legno, o anche di
terracotta, ben aderente, munito nel centro di una sporgenza prensile ad ombelico.
Per ottenere una chiusura ermetica, era sufficiente versare all'esterno del tappo, che
penetrava molto al di sotto del collo dell'anfora, la pece fusa.
Le anfore erano di diverso tipo, ve n'erano di panciute con collo breve e tozzo e manici
piccoli, e di snelle dal lungo collo e dalle belle anse, di tipo italico. Venivano costruite
da chi si intendeva bene dello stivaggio per la navigazione, con tanto di marchio di
fabbrica "SAB". Le anfore venivano in genere prodotte nei luoghi di provenienza delle
merci e la costruzione era, per così dire, a “produzione di massa”. Si suppone che lo
scaricatore di allora afferrasse questi contenitori per le anse e per il piede e le
caricasse in spalla, oppure l’anfora veniva legata a un palo e trasportata da due
persone. Lo Stato controllava e bollava alcuni di questi contenitori come oggi vengono
bollati i litri o mezzi litri da mescita, garantendo così la loro capacità di misura.
Talvolta le navi onerarie, cioè da trasporto (dal latino onus, oneris, peso), nonostante
una navigazione tranquilla, venivano liberate dal carico, perché deteriorato, oppure in
altri circostanze un cattivo stivaggio causava la rottura di molte anfore che pertanto
finivano in mare. Anno dopo anno, secolo dopo secolo, il Mediterraneo si è sempre più
arricchito di questi contenitori e conserva nei suoi abissi relitti di antiche navi
affondate con i loro carichi: anfore in primo luogo, vasellame, bronzi, marmi, pani di
metallo. TORNA
I PORTI DI ROMA: OSTIA E POZZUOLI
I carichi di grano avevano come destinazione: Ostia o Pozzuoli considerati i principali
porti annonari dell’Urbe. Pozzuoli offriva un approdo a navi di grandi dimensioni e a
quelle imbarcazioni cariche del grano alessandrino e in genere a quelle proveniente dal
Mediterraneo orientale; mentre Ostia a quelle navi provenienti dal mediterraneo
occidentale e meridionale ed in particolare dall’Africa e dalla Sicilia.
IL PORTO DI OSTIA. Il porto d'Ostia, iniziato da Claudio nel 42 d.C. e terminato da Nerone nel 54 d.C., non fu al riparo da disastri naturali come quello del 62 a.C. quando una tempesta distrusse
circa 200 navi alla fonda. Sotto l’imperatore Traiano fra gli
anni 100 e 106
d.C., fu costruito un bacino più interno ed un canale che collegava il nuovo porto alla foce del Tevere.
Attorno al nuovo porto fu costruita una nuova città: Portus.
Così già dalla fine del II secolo
d.C. navi provenienti da
Alessandria erano in grado di
approdare anche nel porto di
Ostia. Fino al 410 d.C. (sacco di
Alarico) 200.000 “accipientis”
(plebei poveri, incapaci di
procurarsi il necessario per
vivere) maschi, adulti, sotto la
supervisione del “praefectus
urbis” e del “praefectus annonae” usufruivano di una razione di pane (circa Kg 1,5 al
giorno). Era una razione abbondante sufficiente per una famiglia formata da quattro
persone delle quali due adulte. L’imperatore Aureliano nel 270/275 d.C. aveva aggiunto
alla razione di pane anche olio ispanico ed africano distribuito nelle “mensae olearie”
(circa 2.300) ed anche vino a prezzo ridotto e soltanto per i mesi invernali circa 7/8
Kg di carne di maiale. Tutte queste merci dovevano confluire con continuità e non
potendo sopperire al bisogno solamente con i trasporti statali ci si appoggiava al
contributo dei privati. Inoltre per integrare la dieta quotidiana si commercializzavano
anche verdure e legumi. Per
questi prodotti si ricorreva
al commercio non
monopolizzato
dall’intervento statale ed i
prezzi, determinati dal
libero mercato, servivano a
calmierare il costo dei viveri
annonari. A tutte le navi che
trasportavano derrate
alimentari, bisognava
aggiungere quelle che
trasportavano il vino, i
derivati del pesce, le naves
lapidariae, specializzate nel
trasporto dei blocchi di
marmo e pietra, quelle che
trasportavano le bestie per
il circo, senza contare quelle
adibite al
commercio locale. Le navi
commerciali, se
superavano le
3.000 anfore
(circa 150 t.) non
potevano risalire il
fiume. Dovevano
ancorarsi al largo
ed essere
scaricate da
imbarcazioni più
piccole che
facevano la spola
con le banchine
del porto fluviale
di Ostia. Si
trattava di una grande flottiglia, circa novanta imbarcazioni soltanto per il grano.
Queste operazioni erano molto lunghe e pericolose: la costa, infatti, era inospitale,
bassa e sabbiosa.
POZZUOLI L'occupazione romana della Campania, avvenuta nel 338 a.C., segnò la romanizzazione
della città greco-sannitica. Il suo nuovo nome latino di Puteoli che significa piccoli
pozzi, forse a causa delle
numerose sorgenti di acque
termo-minerali che vi si
trovano, ne è la prova. Roma,
che durante la seconda guerra
punica (218-201 a.C.) aveva
sperimentato l'importanza
strategica del porto di Puteoli,
nel 195 a.C. vi fondò una
colonia marittima, che pian
pianino divenne il maggior
porto d’Italia. La fortuna di
Puteoli cominciò a declinare
lentamente dopo la creazione
del porto di Ostia. Il suo porto
comunque rappresentò fino al
tempo di Antonino Pio (138-161 d.C. che nel 139 d.C. ne riparò il molo dissestato da una
mareggiata), lo scalo
principale della
Campania. Il porto
di Pozzuoli non ebbe
presso i romani
soltanto una
importanza
strategica ma
soprattutto
commerciale. I moli
puteolani videro
mercanti di ogni paese, navi siriane, tirie, cipriote, ebraiche, egiziane. Il tragitto
Pozzuoli-Ostia era compiuto in due giorni. TORNA
LE OPERAZIONI DI SBARCO
Una volta giunte alla foce del Tevere, le navi cariche di frumento venivano alleggerite
in tutto o in parte del loro carico dai battellieri di apposite imbarcazioni dirette al
porto di Ostia dove i cereali venivano momentaneamente immagazzinati negli “Horrea”
cittadini.
GLI HORREA.
Gli horrea di Roma e del suo
porto (Ostia antica) avevano
generalmente uno o due piani, con
il piano superiore raggiungibile da
rampe, piuttosto che con scale.
Gli ambienti (tabernae) si
articolavano intorno ad un cortile
interno, che in alcuni casi (Ostia
antica) venne sacrificato nelle
realizzazioni più recenti per
realizzarvi altre file di ambienti disposte schiena contro schiena. Molti horrea
servivano anche da piccoli centri commerciali, raggruppando file di negozi negli
ambienti disposti intorno a dei cortili (tabernae).
Allee operazioni di carico e
scarico si assommavano altri
tre giorni per risalire il
Tevere. Il traino, dalla riva
destra del fiume, era
effettuato da animali da
soma oppure da schiavi.
(Imbarcazione che serviva da rimorchiatore).
A questo proposito, esisteva una particolare categoria di imbarcazioni che erano
impiegate per il trasporto fluviale delle merci trasbordate dalle navi commerciali fino
all’Urbe che rimontavano la corrente per alaggio (traino di una imbarcazione da una
postazione su terraferma, allo scopo di imprimere il moto o controllare la direzione
del natante). Chiaramente questo tragitto, i cui costi dovevano essere rilevanti,
considerate le operazioni di trasbordo del carico dalle imbarcazioni marine a quelle
fluviali, era anch’esso a carco dello stato. TORNA
CONCLUSIONE.
In conclusione la Sicilia, pur essendo lontana da Roma, rappresentava per la plebe
dell’urbe la principale risorsa di grano. Roma dipendeva quasi del tutto da essa per il
proprio approvvigionamento.
Il ruolo di “granaio di
Roma”, fu assunto
dall’Egitto (che Ottaviano
si assicurò dopo la
vittoria di Anzio
conseguita nel 31 a.C.
contro Antonio e
Cleopatra) e in seguito.
Ma in età tardoantica si
verificò un notevole passo
avanti: la Sicilia divenne, nell’ambito del riassetto dell’Impero
attuato da Diocleziano, una delle province dell’Italia suburbicaria e conobbe una nuova crescita anche l’economia latifondista, con ricchissimi proprietari di grandi tenute che risiedevano in ville di notevole ampiezza (o forse sarebbe meglio dire palazzi) quasi sostituendosi all’autorità del potere centrale. L’isola recuperò, a questo punto, anche
un ruolo di primo piano nell’approvvigionamento dell’Urbe. TORNA