LA SCALA E LO SPECCHIO: CHIAVI DI LETTURA E RILETTURA …

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LA SCALA E LO SPECCHIO (SECONDA EDIZIONE ACCRESCIUTA) LA SCALA E LO SPECCHIO: CHIAVI DI LETTURA E RILETTURA DELL’ITINERARIO BONAVENTURIANO 1 Andrea Di Maio L’Itinerario della mente in Dio è l’opera di Bonaventura più citata e letta, non però la più comprensibile nei suoi molteplici aspetti. Pur essendo un testo medievale di teologia cristiana, continua ad avere molto da dire “qui e ora”, anche a chi non sia addentro alla sua cultura e visione religiosa. Proviamo ora a offrirne qui, in maniera semplificata, alcune chiavi di lettura e rilettura (attuale e filosofica), rinviando a precedenti studi specialistici per il metodo ermeneutico e lessicografico adottato 2 e per i contenuti affrontati 3 . 1 Questo testo riprende e arricchisce il capitolo La scala e lo specchio: l’Itinerario bonaventuriano riletto in chiave umanistica odierna, in Davide Riserbato (ed.), La scala e lo specchio. L’originalità di San Bonaventura a otto secoli dalla nascita, Atti del Convegno Pensiero e attualità di Bonaventura da Bagnoregio a otto secoli dalla nascita (Milano, 31 maggio 2017), IF Press, Roma 2018, p. 13-48. I testi bonaventuriani sono citati da Sancti Bonaventurae Opera omnia, Ad Claras Aquas (Quaracchi) 1882-1902, 10 vol., tranne che per le seguenti opere: l’altra reportatio delle Collationes in Hexaëmeron, tratta da Collationes in Hexaëmeron et bonaventuriana quaedam selecta, ed. F. Delorme, Ad Claras Aquas 1934; il sermone Unus est magister vester, Christus, tratto da Renato Russo, La metodologia del sapere nel sermone di S. Bonaventura «Unus est magister vester Christus», Grottaferrata 1982, p. 99-133; i Sermones de diversis, tratti da Sermons de diversis, ed. JacquesGuy Bougerol, Paris 1993, 2 vol. Le citazioni sono perlopiù riprese dalla Library of Latin Texts (Series A and B), Turnhout (Brepolis Database on line) 2018. Si tengamo presenti queste convenzioni: tra virgolette a sergente («») sono riportate le citazioni ad litteram; tra virgolette semplici (“”) sono riportate le citazioni ad sensum o in traduzione o in citazione, come pure alcune espressioni tipiche; tra apici (‘’) i lemmi o le forme linguistiche; i corsivi in citazione sono redazionali, per evidenziare qualche termine ai fini dell’interpretazione. 2 Cf Andrea Di Maio, Comprendere Bonaventura: Concordanze, Dizionari,contributi a un Lessico, in “Antonianum” 93 (2018), p. 255-282; Id., Elementi di Lessicografia filosofico-teologica per lo studio dei “Lemmata Christianorum”, Roma 2009 (excerptum di Il Concetto di Comunicazione, Gregoriana, Roma 1998). 3 Cf Andrea Di Maio, La divisione bonaventuriana delle scienze. Un’applicazione della lessicografia all’ermeneutica testuale, in “Gregorianum” 2000 (81), p. 101-136 e 331-351; Id., Lettura di Bonaventura, “Collationes in Hexaëmeron” 3.2, in Giulio d’Onofrio (ed.), La divisione della filosofia e le sue ragioni. Lettura di testi medievali (VI-XIII secolo), Avagliano (“Schola Salernitana”. Studi e testi, 5), Cava de’ Tirreni 2001, p. 157-184; Id., “Secundum dictamen legum politicarum…, sicut philosophus loquendo”. Ermeneutica dei testi e del lessico di Bonaventura da Bagnoregio sulla comprensione della dimensione politica fra eredità classica, innovazione cristiana e peculiarità francescana, in Alessandro Musco (ed.), I Francescani e la politica, Officina di Studi Medievali, Palermo 2007, t. 1, p. 307-341; Id., Piccolo glossario bonaventuriano. Prima introduzione al pensiero e al lessico di Bonaventura da Bagnoregio (Lemmata Christianorum Bonaventuriana, 1), Aracne, Roma 2008 (anche per la bibliografia); Id., Il problema della Storia in San Bonaventura, in “Doctor Seraphicus” 2015 (63), p. 45-75; Id., Conoscenza, riconoscimento, riconoscenza. Una triplice chiave per intendere la “speculatio” bonaventuriana, in “Miscellanea Francescana” 2017 (117), p. 388-401; Id., “Sacra Scriptura, quae theologia dicitur”, in Amaury Begasse de Dhaem et alii (ed.), Deus summe cognoscibilis, Peeters, Leuwen 2018, p. 121-151; Id., Animalitas, Spiritus, Mens. Antropologia tripartita e struttura dell’Itinerario bonaventuriano, in: Irene Zavattero (ed.), L’uomo nel pensiero di Bonaventura da Bagnoregio, (Flumen Sapientiae), Aracne, Roma 2019, p. 93-128; Id., Bonaventure on Evil and “Nothingness”, in: Timothy Johnson et alii (ed.), Frater, Magister, Minister et Episcopus. The Works and the Worlds of Saint Bonaventure, Proceedings of the International Conference

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LA SCALA E LO SPECCHIO (SECONDA EDIZIONE ACCRESCIUTA)

LA SCALA E LO SPECCHIO:

CHIAVI DI LETTURA E RILETTURA

DELL’ITINERARIO BONAVENTURIANO1

Andrea Di Maio

L’Itinerario della mente in Dio è l’opera di Bonaventura più citata e letta, non però

la più comprensibile nei suoi molteplici aspetti. Pur essendo un testo medievale di

teologia cristiana, continua ad avere molto da dire “qui e ora”, anche a chi non sia

addentro alla sua cultura e visione religiosa. Proviamo ora a offrirne qui, in maniera

semplificata, alcune chiavi di lettura e rilettura (attuale e filosofica), rinviando a

precedenti studi specialistici per il metodo ermeneutico e lessicografico adottato2 e per i

contenuti affrontati3.

1 Questo testo riprende e arricchisce il capitolo La scala e lo specchio: l’Itinerario bonaventuriano

riletto in chiave umanistica odierna, in Davide Riserbato (ed.), La scala e lo specchio. L’originalità di San

Bonaventura a otto secoli dalla nascita, Atti del Convegno Pensiero e attualità di Bonaventura da

Bagnoregio a otto secoli dalla nascita (Milano, 31 maggio 2017), IF Press, Roma 2018, p. 13-48. I testi

bonaventuriani sono citati da Sancti Bonaventurae Opera omnia, Ad Claras Aquas (Quaracchi) 1882-1902,

10 vol., tranne che per le seguenti opere: l’altra reportatio delle Collationes in Hexaëmeron, tratta da

Collationes in Hexaëmeron et bonaventuriana quaedam selecta, ed. F. Delorme, Ad Claras Aquas 1934; il

sermone Unus est magister vester, Christus, tratto da Renato Russo, La metodologia del sapere nel sermone

di S. Bonaventura «Unus est magister vester Christus», Grottaferrata 1982, p. 99-133; i Sermones de

diversis, tratti da Sermons de diversis, ed. Jacques–Guy Bougerol, Paris 1993, 2 vol. Le citazioni sono

perlopiù riprese dalla Library of Latin Texts (Series A and B), Turnhout (Brepolis Database on line) 2018.

Si tengamo presenti queste convenzioni: tra virgolette a sergente («») sono riportate le citazioni ad litteram;

tra virgolette semplici (“”) sono riportate le citazioni ad sensum o in traduzione o in citazione, come pure

alcune espressioni tipiche; tra apici (‘’) i lemmi o le forme linguistiche; i corsivi in citazione sono

redazionali, per evidenziare qualche termine ai fini dell’interpretazione. 2 Cf Andrea Di Maio, Comprendere Bonaventura: Concordanze, Dizionari,contributi a un Lessico, in

“Antonianum” 93 (2018), p. 255-282; Id., Elementi di Lessicografia filosofico-teologica per lo studio dei

“Lemmata Christianorum”, Roma 2009 (excerptum di Il Concetto di Comunicazione, Gregoriana, Roma

1998). 3 Cf Andrea Di Maio, La divisione bonaventuriana delle scienze. Un’applicazione della lessicografia

all’ermeneutica testuale, in “Gregorianum” 2000 (81), p. 101-136 e 331-351; Id., Lettura di Bonaventura,

“Collationes in Hexaëmeron” 3.2, in Giulio d’Onofrio (ed.), La divisione della filosofia e le sue ragioni.

Lettura di testi medievali (VI-XIII secolo), Avagliano (“Schola Salernitana”. Studi e testi, 5), Cava de’

Tirreni 2001, p. 157-184; Id., “Secundum dictamen legum politicarum…, sicut philosophus loquendo”.

Ermeneutica dei testi e del lessico di Bonaventura da Bagnoregio sulla comprensione della dimensione

politica fra eredità classica, innovazione cristiana e peculiarità francescana, in Alessandro Musco (ed.), I

Francescani e la politica, Officina di Studi Medievali, Palermo 2007, t. 1, p. 307-341; Id., Piccolo glossario

bonaventuriano. Prima introduzione al pensiero e al lessico di Bonaventura da Bagnoregio (Lemmata

Christianorum – Bonaventuriana, 1), Aracne, Roma 2008 (anche per la bibliografia); Id., Il problema della

Storia in San Bonaventura, in “Doctor Seraphicus” 2015 (63), p. 45-75; Id., Conoscenza, riconoscimento,

riconoscenza. Una triplice chiave per intendere la “speculatio” bonaventuriana, in “Miscellanea

Francescana” 2017 (117), p. 388-401; Id., “Sacra Scriptura, quae theologia dicitur”, in Amaury Begasse

de Dhaem et alii (ed.), Deus summe cognoscibilis, Peeters, Leuwen 2018, p. 121-151; Id., Animalitas,

Spiritus, Mens. Antropologia tripartita e struttura dell’Itinerario bonaventuriano, in: Irene Zavattero (ed.),

L’uomo nel pensiero di Bonaventura da Bagnoregio, (Flumen Sapientiae), Aracne, Roma 2019, p. 93-128;

Id., Bonaventure on Evil and “Nothingness”, in: Timothy Johnson et alii (ed.), Frater, Magister, Minister

et Episcopus. The Works and the Worlds of Saint Bonaventure, Proceedings of the International Conference

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ANDREA DI MAIO 2

L’AUTORE: UN VERO “MAESTRO DEI DESIDERI”

Innanzitutto consideriamo l’attualità della figura dell’autore, Giovanni Fidanza: nato

a Bagnoregio nel 1217 (o più probabilmente nel 1221)4 e scampato miracolosamente da

piccolo a una grave malattia dopo che la madre aveva invocato l’intercessione di san

Francesco, divenne frate minore (francescano) col nome di Bonaventura; prima

“baccelliere” e poi “maestro” (professore) di teologia a Parigi, venne eletto nel 1257

settimo ministro generale del suo Ordine e infine, nel 1273, fu da Papa Gregorio X creato

Vescovo Cardinale con l’incarico di preparare il secondo concilio ecumenico di Lione,

convocato per l’anno successivo per discutere tra l’altro della riunificazione delle Chiese

Romana e d’Oriente; morto nel corso del concilio, nel 1274, e canonizzato nel 1588, fu

soprannominato dai posteri “Dottore Serafico”, ossia il Maestro (di teologia) con la

caratteristica dei Serafini.

Cosa può dire all’uomo comune di oggi un tale personaggio? Tanto, se guardiamo a

tre aspetti: la capacità di affrontare le disavventure (e la malattia), per trasformarle in

avventure; l’equilibrio tra ideale e reale e tra progresso e tradizione; l’esercizio del

desiderio.

TESTIMONE DELLA “BUONA VENTURA”: LA FILOSOFIA E LA TEOLOGIA COME TERAPIA

Bonaventura fu molto segnato dall’esperienza della malattia infantile5. Secondo una

tardiva leggenda, il nome “Bonaventura”, da lui ricevuto con la professione religiosa,

corrisponderebbe all’esclamazione con cui era stata accolta la sua guarigione: “o bona

ventura!”; cioè: “che fortuna!”. Se sia accaduto proprio così, non sappiamo, ma è vero

che per Bonaventura non c’è sventura che non si possa risolvere in una buona ventura.

Non sembri irriverente l’accostamento: Bonaventura come persona e come pensatore

ha molto in comune con l’omonimo personaggio dei fumetti (il Signor Bonaventura, di

Sergio Tofano, detto Sto); ogni storia di quest’ultimo comincia con il distico: “Qui

comincia la sventura del Signor Bonaventura”; la iniziale situazione negativa si trasforma

però in un beneficio per altri, che dimostrano la loro gratitudine compensando Bona-

ventura con il mitico dono di un “milione”. Così per Bonaventura, sebbene ogni male (sia

quello naturale, che subiamo, sia quello quello morale che liberamente facciamo) sia male

e non sia necessario, tuttavia l’esperienza del male ci conferma indirettamente che il Bene

(St. Bonaventure NY, July 12-15 2017), in via di pubblicazione.; Id., At the Crossroads between the Two

Biblical Trees: ‘Studiositas’ vs. ‘Curiositas’ according to Bonaventure, in via di pubblicazione su “Archa

Verbi. Yearbook for the Study of Medieval Theology”. 4 Per i medievali, non esistendo ancora i registri parrocchiali dei battesimi, perlopiù si conosce con

precisione solo la data di morte, ma non quella di nascita, che poteva essere calcolata approssimativamente

quanto al solo anno in base all’età raggiunta al momento della morte: nel caso di Bonaventura, dagli atti

del processo per la sua canonizzazione (avviato però ben due secoli dopo la sua morte) si evince che debba

esser nato nel 1121. Siccome però Bonaventura stesso, in uno dei rarissimi passaggi autobiografici dei suoi

scritti [nella Legenda minor, 7.8], dice di essere stato guarito ancora «puerulus» (cioè bambinetto di meno

di dieci anni) da malattia mortale dopo che la madre aveva formulato un voto a Francesco d’Assisi

(presumibilmente morto da poco, quindi nel 1226), convenzionalmente i biografi moderni avevano fissato

la data di nascita di Bonaventura nel 1217 (motivo per cui le celebrazioni dell’ottavo centenario si sono

svolte nel 2017). 5 Cf appunto Legenda minor, 7.8, dove la guarigione è qualificata come miracolosa e attribuita

all’intercessione di San Francesco.

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La scala e lo specchio. Chiavi di lettura e rilettura dell’Itinerario bonaventuriano 3

è maggiore e che il male non sarebbe tale, se non lo considerassimo una deviazione dalla

norma ideale, che, anche se il male sembra prevalere, alla fine vincerà6.

Alcune bellissime frasi di Bonaventura a tale proposito sono illuminanti: “il Verbo è

la verità per il cui mezzo tutti devono tornare”; “il diavolo pensava di avere sconfitto

Cristo, ma Cristo si prese gioco del diavolo”; e nel Giudizio finale di Cristo “le cose brutte

divengono belle; le belle, più belle; le più belle, bellissime”7.

Spesso poi nelle sue opere Bonaventura parla della malattia: non solo quella fisica,

ma quella che affligge l’umanità e che i filosofi percepiscono oscuramente senza poterla

né diagnosticare, né guarire8: la filosofia è pertanto una terapia, inefficace sì, ma

necessaria a prendere coscienza della malattia e ad una terapia di altro genere: la fede9 e

i sacramenti della Chiesa10, finalizzati appunto a curare le piaghe dell’umanità. La

teologia stessa si presenta come una scienza della terapia, perché il suo scopo è che

“diventiamo buoni”11 e che quindi stiamo bene.

EDUCATORE E ANIMATORE ALLA RICERCA DEL GIUSTO MEZZO

Un secondo motivo di attualità di Bonaventura è la sua concezione degli studi e del

governo alla ricerca sempre del giusto mezzo tra scienza e sapienza, tra progresso e

tradizione, tra idealità e realismo12. Tutta la sua opera di studioso prima e di guida

spirituale poi è stata caratterizzata dall’intento di ritessere, far progredire, condurre per

mano, mettere in ordine, con un grande senso della storia e del suo progresso13.

Come filosofo, nonostante ancor oggi erroneamente si ritenga che sia stato contrario

alla filosofia greca, in realtà egli apprezzava tantissimo i filosofi antichi, esaltando

Socrate e i filosofi antichi e nobili, leggendo Platone e Aristotele come complementari e

6 Cf Di Maio, Bonaventure on Evil, cit. 7 Rispettivamente, In Hexaëmeron, 1.17 («omnes redire debent»), 1.28 («illusit diabolo») e 1.34

(«deformia facit pulcra, pulcra pulcriora et pulcriora pulcherrima»). 8 Cf In Hexaëmeron, 7.8-9: «Non sanatur autem aliquis, nisi cognoscat morbum et causam, medicum

et medicinam. Morbus autem est depravatio affectus. Haec autem est quadruplex, quia contrahit ex unione

ad corpus anima infirmitatem, ignorantiam, malitiam, concupiscentiam; ex quibus inficitur intellectiva,

amativa, potestativa; et tunc infecta est tota anima. Has omnino non ignoraverunt, nec omnino sciverunt.

Videbant enim hos defectus, sed credebant, eos esse in phantasia, non in potentiis interioribus. [...]; et tamen

decepti fuerunt, quia hae infirmitates in parte intellectuali sunt, non solum in parte sensitiva: intellectiva,

amativa, potestativa infectae sunt usque ad medullam. 9. Morbum nescierunt, quia causam ignoraverunt.». 9 Cf In Hexaëmeron, 7.13: «Fides igitur, purgans has tenebras, docet morbum, causam, medicum,

medicinam; sanat animam, ponendo meritorum radices in Deo, cui placeat; et sic proficit per fidem in spem

certam per meritum Christi, non praesumtuose.» 10 Così la sesta parte del Breviloquium si intitola «De medicina sacramentali». 11 Cf Breviloquium, prologus, 5: «haec doctrina est ut boni fiamus et salvemur»; 3.7.22: Collationes in

Hexaëmeron (nell’altra recensione, edita da Delorme): «Neque enim in sacra Scriptura ut sciamus

tantummodo scrutamur, sed ut boni fiamus.». 12 Cf De diversis, 54, collatio, 5: «Ut homo caveat praesumptionem et pusillanimitatem; praesum-

ptionem debet homo cavere ne nimis alta dicat et inquirat [...]. Item, debet cavere pusillanimitatem quia

quidam habent ita viles et pedestres cogitationes quod non possunt aliquid altum considerare.»; Di Maio,

Between the Two Biblical Trees, cit. 13 Cf Di Maio, Il problema della Storia, cit. Per una presentazione retrospettiva della decisiva opera

interpretativa di Josef Ratzinger, cf Marianne Schlosser, Bonaventuras Beitrag zur einer Theologie der

Offenbarung: Ein Blick auf die Bonaventura–Studien Joseph Ratzingers, in: Begasse, Deus summe

cognoscibilis, cit., p. 175-192; Letterio Mauro, Joseph Ratzinger interprete di Bonaventura, ibid., p. 193-

204.

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ANDREA DI MAIO 4

rileggendo in particolare i platonici perché ammettevano le ragioni ideali14; e pur

criticando i filosofi in alcuni punti e rilevandone l’insufficienza, era indulgente al riguardo

e ne utilizzava con originalità un metodo aristotelico alla teologia senza snaturare l’uno e

l’altra15. Invece era contrario a quei filosofi cristiani del suo tempo che pretendevano di

far filosofia come Aristotele: questo sarebbe stato infatti un tornare indietro (un “ritornare

alle cipolle d’Egitto”16, secondo la metafora tratta dall’Esodo), mentre invece proprio per

il carattere filosofico (amativo della sapienza) della filosofia occorre sempre andare

avanti17.

Come teologo, dichiarava di “non voler inventare novità”, ma di “voler ritessere” (in

maniera nuova) le opinioni tradizionali18: diceva che è proprio delle grandi opere (in

particolare nel cristianesimo) “crescere e non decrescere”19.

Come superiore dell’Ordine francescano, è stato capace di tenere la barra al centro,

di unire tradizione e progresso, di accogliere le istanze più autentiche delle ali estreme

del suo Ordine, senza però l’estremismo che le rendeva inaccettabili all’altra parte.

Ha avuto (pur con tutti gli enormi limiti del suo tempo) un anelito che oggi potremmo

definire dialogico ed ecumenico: ha mantenuto unito l’Ordine dei Frati Minori, dilaniato

da tensioni interne; ha cercato, sebbene senza successo, di riunificare le Chiese cristiane

divise dallo scisma.

14 Cf Unus est Magister vester, 18-19 (ove si riconosce a Platone il “discorso di sapienza”, verso l’alto,

cioè verso le ragioni ideali, e ad Aristotele il “discorso di scienza” verso il basso, cioè verso le ragioni

naturali (tale complementarità si ritroverà nella rappresentazione della Filosofia nel celebre affresco di

Raffaello nella Stanza della Segnatura in Vaticano, commissionata da Papa Giulio II, che era stato

presidente della commissione per il processo di canonizzazione di Bonaventura); De diversis, 33.18: «[...]

Plato totam cognitionem certitudinalem convertit ad mundum intelligibilem sive idealem, ideo merito

reprehensus fuit ab Aristotele; non quia male diceret ideas esse et aeternae rationes, cum in hoc eum laudet

doctor maximus Augustinus; sed quia, despecto mundo sensibili, totam certitudinem cognitionis reducere

voluit ad illas ideas.». Sul primato di Socrate e sulla superiorità dei ‘philosophi antiqui et nobiles’

neoplatonici cf In Hexaëmeron, rispettivamente, 5.33 e 6.1. 15 Cf Letterio Mauro, Bonaventura da Bagnoregio. Dalla Philosophia alla Contemplatio, Accademia

Ligure di Scienze e Lettere, Genova 1976; Marco Arosio, Aristotelismo e teologia da Alessandro di Hales

a San Bonaventura, Liamar, Monaco – Roma 2012, p. 316-373; Di Maio, La divisione..., cit. 16 In Hexaëmeron, 1.9: «Non itaque redeundum est in Aegyptum per desiderium vilium ciborum,

alliorum, porrorum et peponum, nec dimittendus cibus caelestis.»; e 19.12: «Non amplius revertendum est

in Aegyptum. [...] Noli comedere pepones Aegypti et porros et allia, sed manna de caelo» 17 Cf Di Maio, Between the Two Biblical Trees, cit.: «‘Philosophus’ means someone who searches for

wisdom (so, their search is finalized to something else); ‘philosophans’ means someone who practices

philosophy for its own sake, not looking for something beyond. Besides, the plural term ‘philosophantes’

recalls the term ‘iudaizantes’, used to mean people who, born as Jews, accepted to be baptised, but

continued to practice Judaism hiddenly. In the mentality of the Middle Ages, they were turning back to an

old and outdated cult. Analogously, philosophantes were officially Christian masters of the University who

expected to practice philosophy as they had in the ancient age before Christ. ‘Philosophantes’ normally has

a negative sense but here in Bonaventure’s response to the Unknown Master, he does not use the term

‘philosophi’, but ‘philosophantes’ [cf De Tribus Quaestionibus, 12]. [...]. Bonaventure plays with the

etymology: philo-sophi meant as ‘amatores sapientiae’ (in a fully positive sense) are welcome. [...]. The

readers of the Itinerarium are required to be sapientiae amatores [Itinerarium, prologus, 4]. [...]. In short,

if a philosopher remains a mere philosopher and does not become a real lover of wisdom, he changes

himself for the worse into a philosophans, according to this taxonymy: Philosophi – going back =

Philosophantes; – going forward = Amatores sapientiae». 18 In Sententiarum libros, 2, praelocutio: «Non enim intendo novas opiniones adversare, sed communes

et approbatas retexere.». 19 De Tribus Quaestionibus, 13: «opera Christi non deficiunt, sed proficiunt».

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La scala e lo specchio. Chiavi di lettura e rilettura dell’Itinerario bonaventuriano 5

Molto attuale è il suo approccio di educazione e animazione. Non basta insegnare:

occorre “condurre per mano” lo spirito non solo nel suo ragionamento20, ma nella sua

stessa direzione per così dire esistenziale21. E per governare occorre mettere in ordine.

In ambito ecclesiale, Bonaventura ha sviluppato il concetto di “gerarchia”, nel senso

di “ordinamento” di Dio o a Dio, da realizzare “tramite conoscenza e azione”: in altre

parole, di comunione ordinata di persone distinte22. Ma come realizzare una “gerarchia”

o comunione interpersonale? “Gerarchizzando”, ossia rendendone comunionale, ogni

appartenente. Formare una comunità di persone è quindi possibile solo formando ogni

persona, da coinvolgere in una comune conoscenza e volizione23.

In ambito propriamente politico, Bonaventura, consapevole della necessità di

elaborare una nuova filosofia politica, oltre i limiti di quella ereditata dal passato, ha

lasciato pochi ma significativi spunti: la comunità politica si sviluppa, a partire dalla

regola iscritta nella coscienza (“fare e non fare ad altri ciò che, rispettivamente, si vuole

o non si vuole sia fatto a sé”), nella “pullulazione” di leggi positive e statuti particolari,

nell’opera di presidenza di governanti eletti, piuttosto che di prìncipi ereditari, e

nell’esercizio dell’attività giudiziaria24.

Alcune frasi di Bonaventura sono indicative della sua attitudine educativa: “questa è

tutta la mia intenzione: che voi concepiate in voi il dono della pietà”25; “a questo Albero

di Vita ho voluto condurvi”26.

MAESTRO DEI DESIDERI (“DOTTORE SERAFICO”)

Questo ci porta a capire l’attualità del terzo aspetto di Bonaventura, quello che oggi

sembrerebbe il più lontano dalla nostra cultura: il “Dottor Serafico”. Sbaglieremmo a

considerarlo una persona compleatamente estranea al mondo, pacifica perché distaccata.

Intanto cerchiamo di capire di più sull’origine e sul significato di questo titolo. I

Serafini sono le creature angeliche più misteriose, che nella celebre apparizione al profeta

20 In Sententiarum libros, 3.24.2.3 co: «scientia manuductione ratiocinationis, licet aliquam

certitudinem faciat et evidentiam circa divina, illa tamen certitudo et evidentia non est omnino clara,

quamdiu sumus in via.»; cf anche Unus est magister vester. 21 Cf ad esempio In Sententiarum libros, 1.34.1.4 co. 22 Tale comunione interpersonale è come quella esistente, secondo la dottrina cristiana, nella Trinità

divina. Il termine ‘hierarchia’, tratto dalle traduzioni latine di Dionigi; a differenza che in Dionigi, e in

continuità con il commento di Ugo di San Vittore, ha un senso di comunione ordinata e non necessariamente

di subordinazione: cf In Hexaëmeron, 21.17 (per la definizione dionisiana), e 2.16 (per la distinzione, con

Ugo, di tre gerarchie – quella umana della Chiesa, quella angelica e quella divina della Trinità): «Hugo

dicit ista vocabula: hierarchia caelestis, supercaelestis, subcaelestis. Quidam dicunt, quod improprie

dicantur; sed falsum est, quia utrobique est sacer principatus.». 23 Tale opera si realizza per Bonaventura nella Chiesa a partire da un centro o un vertice (che è Dio o

rappresenta Dio), in una dinamica di dono (grazia) e risposta (lavorìo personale di rettificazione,

illuminazione e disposizione all’unione di intelletto e volontà). In particolare, la contemplazione del

modello ideale in Dio. A questo è dedicata tutta la visio quarta (collationes 20-24) in Hexaëmeron. Sulla

grazia che purificante (nel senso di rettificante), illuminante e perficiente (nel senso di unificante), cf

Itinerarium, 1.8. 24 Cf In Hexaëmeron, 5.19 (Bonaventura non pensava necessariamente a un suffragio universale); Di

Maio, Secundum dictamen..., cit. 25 De septem donis, 3.2: «Videte tota intentio mea est, quod concipiatis donum pietatis in anima et

discatis, quid sit esse pium.». 26 In Hexaëmeron, 23.31: «ad hoc lignum vitae volui vos adducere».

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Isaia sono descritti come esseri con sei ali, di cui due chiuse sul volto, due chiuse sui piedi

e due perpendicolari al corpo per volare. In questo modo, i Serafini volavano raffigurando

una Croce. Ebbene, san Francesco, secondo i biografi, sulla Verna aveva avuto la visione

di un Serafino come crocifisso, dalle cui piaghe gli furono impresse le stimmate27.

Secondo la tradizione dionisiana, i Serafini sarebbero inoltre le creature dedite all’unione

più intima con Dio tramite l’amore28. Il loro volo con le ali di mezzo ricordava l’equilibrio

nella ricerca della sapienza: non presumere troppo, ma neanche rinunciare ad osare29!

Quindi, definendolo “Dottore Serafico”, i posteri considerarono Bonaventura

innanzitutto il teologo che più aveva riflettuto sull’esperienza di Francesco sulla Verna e

che quindi poteva essere il maestro per antonomasia della mistica francescana; ma in

senso più ampio (poiché Francesco è un modello e una guida anche per tutta l’umanità),

possiamo considerare Bonaventura come il maestro dell’amore mistico, il maestro dei

grandi desideri unitivi, che elevano la persona. Solo una persona di grandi desideri, può

ricevere grandi visioni, come Daniele nella Bibbia30. Ecco perché Dante (nel canto XII

del Paradiso) fa dire all’anima di Bonaventura: «L’amor che mi fa bella mi tragge a

ragionar»…

La via che Bonaventura propone è quella del primato del desiderio profondo, che è

l’affetto del cuore: non parliamo quindi né dei desideri superficiali, né delle scelte che

facciamo, ma di quella volontà profonda che riscontriamo in noi e che è in qualche modo

una “passione”, in quanto attratta, come da calamita, dal Bene in sé31.

27 Cf Legenda maior, 14.1. Tale esperienza di Francesco diviene paradigmatica per ogni cristiano: cf

Itinerarium, prologus, 2 e 7.3: «illud miraculum quod in praedicto loco contingit ipsi beato Francisco de

visione scilicet seraph alati ad instar crucifixi.»; «Quod etiam ostensum est beato Francisco, cum in excessu

contemplationis in monte excelso, ubi haec, quae scripta sunt, mente tractavi, apparuit Seraph sex alarum

in cruce confixus, [...] ubi in Deum transiit per contemplationis excessum.». 28 Cf In Hexaëmeron, 8.8-9 e 22.22 (ove ai serafini Bonaventura fa corrispondere nella Chiesa l’ordine

serafico “sursumattivo” di chi, come Francesco, è perfettamente e simultaneamente contemplativo e attivo;

i frati minori francescani devono aspirare a questo grado di unione, ma rimanendo come ordine un gradino

sotto, a somiglianza dei “cherubini”, come i frati predicatori domenicani, ma, rispetto a questi, devono

tendere più all’unzione [cf 1Jo 2,20], o conoscenza unitiva, che alla speculazione). 29 Cf De diversis, 54, collatio, 5 (citato sopra). 30 Cf Itinerarium, prologus, 3: «Non enim dispositus est aliquo modo ad contemplationes divinas, quae

ad mentales ducunt excessus, nisi cum Daniele sit vir desideriorum.»; e In Hexaëmeron, 20.1: «hanc

visionem nullus habet, nisi sit vir desideriorum, nec potest eam habere nisi per magnum desiderium.». Il

riferimento biblico è a Dan 9,23: i latini intendevano l’espressione ebraica “uomo dei desideri” come

“soggetto di desideri”, anziché (più correttamente) come “oggetto di desideri” (ossia desiderato o prediletto)

da parte di Dio. 31 Così è ad esempio descritta la dinamica del desiderio del bene in Itinerarium, 3.4. La conoscenza di

Dio è definita inoltre in Breviloquium, 1.1 come oggetto e compimento di ogni desiderio: «Ipsa etiam sola

est sapientia perfecta, quae incipit a causa summa, ut est principium causatorum, ubi terminatur cognitio

philosophica, et transit per eam, ut est remedium peccatorum et reducit in eam, ut est praemium meritorum

et finis desideriorum. Et in hac cognitione est sapor perfectus vita et salus animarum, et ideo ad eam

addiscendam inflammari debet desiderium omnium christianorum.».

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La scala e lo specchio. Chiavi di lettura e rilettura dell’Itinerario bonaventuriano 7

L’OPERA E LA SUA GENESI: UN ITINERARIO IN MOLTI SENSI32

Pochi oggi conoscono Bonaventura: ma quei pochi sanno almeno che è l’autore

dell’Itinerario della mente in Dio.

Si tratta di un’opera fortunata, soprattutto perché è molto breve (un prologo e sette

capitoletti) e sistematica, molto ben architettata33; d’altra parte, è un’opera talmente densa

e piena di riferimenti alla cultura del suo contesto storico, da essere oggi quasi

incomprensibile per un lettore non specialista. Molti sono i commentari anche recenti che

lo presentano34: qui proviamo a proporre alcune chiavi di rilettura lessicografica ed

ermeneutica.

Un primo problema che ci si presenta è che non è chiaro quale sia il vero titolo

dell’opera, perché il titolo comunemente usato è Itinerario della mente in Dio, ma, come

vedremo tra poco, ‘itinerarium’ non è un termine altrimenti usato da Bonaventura, e per

di più all’inizio del libro, tra la lista dei capitoli e il primo capitolo, troviamo invece

l’indicazione: “inizia la Speculazione del povero nel deserto”35.

È possibile che Bonaventura abbia pensato a questa seconda espressione come titolo,

e che siano stati i primi lettori a formulare il primo? Comunque sia, entrambi i titoli sono

molto suggestivi e ci offrono una chiave di attualizzazione.

L’Itinerario è un’opera ben riuscita? Non del tutto: da una parte, è stata e continua

ad essere l’opera bonaventuriana più letta nella storia; dall’altra, non riesce ad offrire al

lettore una guida concreta alla vita interiore36. Ad esempio, il primo passaggio (la

contemplazione delle vestigia di Dio nel mondo esteriore) non è certo la cosa più facile!

L’impressione è che il primo a non esserne rimasto soddisfatto sia stato proprio

Bonaventura, che successivamente ha elaborato l’idea di un ciclo di conferenze che

accompagnasse concretamente il cammino delle persone nelle varie fasi della vita

spirituale37.

32 Si riassume qui quanto trattato diffusamente in Di Maio, Animalitas, Spiritus, Mens, cit., in

particolare p. 96-102. 33 L’opuscolo, redatto nel 1259, era stato concepito da Bonaventura durante la sua visita alla Verna da

nuovo ministro generale dell’Ordine dei Frati Minori. Pur centrato sull’esperienza mistica di Francesco e

della sua stimmatizzazione, era stato scritto quasi come manifesto di rinnovamento della Chiesa. 34 Tra i commenti esistenti, ci limitiamo a segnalare i principali recenti: Bonaventura, Itinerario

dell’anima a Dio, a cura di Letterio Mauro, Bompiani, Milano 2002; Bonaventura, Der Pilgerweg des

Menschen zu Gott, a cura di Marianne Schlosser, Eos Verlag, Sankt Ottilien 2010; Bonaventura, La

perfezione cristiana, a cura di Claudio Leonardi, Fondazione Lorenzo Valla –. Mondadori, Milano 2012;

Bonaventure, Itinéraire de l’esprit jusq’en Dieu, a cura di Laure Solignac, Vrin, Paris 2019; inoltre Ernesto

Dezza, Itinerarium mentis in Deum. Una lettura guidata, in “Forum” – Supplement [on line] to “Acta

Philosophica” 4 (2018). 35 Itinerarium, tra il prologus e il capitolo primo: «Incipit speculatio pauperis in deserto». 36 Qualcuno pensa che le tappe dell’Itinerario non siano necessariamente sequenziali, ma è invece

proprio quello che l’autore dichiara: cf Itinerarium, prologus, 5: «speculationum progressus». 37 Saranno le collationes parigine De decem praeceptis (predicate nel 1267), De septem donis Spiritus

Sancti (predicate nel 1268) e In Hexaëmeron (predicate nel 1273 e incomplete) di cui abbiamo due

reportationes. Il disegno è chiaro: tracciare prima il progetto ideale che si deve realizzare (la Legge, riletta

in senso cristiano), e poi il percorso di esercizio progressivo della grazia (che si dirama simultaneamente

nelle virtù, nei doni e nelle beatitudini e frutti, ma che si esercita progressivamente), con un’attenzione

maggiore all’esercizio dei doni; infine, l’approfondimento del passaggio più delicato, ossia dall’esercizio

pieno del dono di intelletto a quello del dono di sapienza, nelle sei fasi della vita spirituale: la pratica delle

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ANDREA DI MAIO 8

Ricostruendo congetturalmente le intenzioni dell’autore da alcune sue affermazioni,

l’Itinerarium doveva essere un trattato di teologia negativa e ascensiva, complementare

al Breviloquium, pensato invece come un trattato di teologia affermativa e discensiva38.

L’Itinerarium è però un’opera dalla genesi complessa e inconclusa, preceduta da

abbozzi e seguita da riprese e ritrattazioni.

Già in altre opere Bonaventura aveva provato ad abbozzare percorsi analoghi con

finalità diverse39.

Quasi alla fine della sua vita, nel 1273, nelle conferenze sui sei giorni della creazione

(reinterpretati come le sei illuminazioni o fasi progressive della “vita spirituale”)40,

Bonaventura ci ha offerto nella seconda conferenza una magnifica ripresa dei contenuti

dell’Itinerario come una sintesi magnifica della stessa sapienza cristiana41; ma poi, nella

quinta e sesta conferenza ne ha fatto come una ritrattazione (nel senso di seconda

virtù cardinali (nella ricerca di ragione svolta da cristiani) e delle virtù teologali (nella professione di fede),

la meditazione della Scrittura, la contemplazione, la profezia e il rapimento mistico. 38 Cf De Triplici Via, 3.7(11); cf anche In Hexaëmeron, 2.33: «per affirmationem, a summo usque ad

infimum; per ablationem, ab infimo usque ad summum; et iste modus est conveniens magis. […]

Ablationem sequitur amor semper. […]. Qui sculpit figuram nihil ponit, immo removet». In effetti, il

Breviloquium tratta in sette parti tutta la materia teologica “dalla cima – che è Dio, l’Altissimo – al fondo

– che è il supplizio infernale”, e “dall’inizio, che è il primo principio, alla fine, che è il premio eterno”

[Breviloquium, 1.1]; invece l’Itinerarium ripercorre in sette gradi (tre tappe sdoppiate, più la meta) tutto il

compito della teologia come “ascesa non del corpo, ma del cuore” dall’infimo al sommo [Itinerarium, 1.1]. 39 Il primo abbozzo significativo di “itinerario” sembra essere il chiarimento di Bonaventura, ancora

baccelliere sentenziario, su un dubbio su un’affermazione del Lombardo: saldando tradizione agostiniana

e dionisiana Bonaventura descrive il processo di riconoscimento di Dio progressivamente nel suo vestigio,

nella sua immagine, nell’effetto della sua grazia e in Dio stesso; cf In Sententiarum libros, 3.24 ad db 4:

«[…] Augustinus hic loquitur de cognitione experimentali, quam quis habet de Deo sive in patria, sive in

via [...]. Unde haec scientia sapientia est, quia se cum habet iunctum saporem; et per hanc illuminatur

intellectus, et stabilitur affectus. Et ideo dicit, quod Deum scire non est aliud quam mente conspicere

firmiterque percipere. [...]. Cognoscitur enim Deus in vestigio, cognoscitur in imagine, cognoscitur et in

effectu gratiae, cognoscitur etiam per intimam unionem Dei et animae, iuxta ritus est.».

Il secondo abbozzo, già più esteso, di “itinerario” è nelle questioni che il neodottore Bonaventura

disputò sui tipi e modi di conoscenza avuti da Cristo stesso (in tal modo tutta la teologia veniva riletta come

una cristologia dal punto di vista di Cristo stesso); cf De scientia Christi, 4: «Creatura enim comparatur ad

Deum in ratione vestigii, imaginis et similitudinis. In quantum vestigium, comparatur ad Deum ut ad

principium; in quantum imago, comparatur ad Deum ut ad obiectum; sed in quantum similitudo, comparatur

ad Deum ut ad donum infusum.».

Il terzo abbozzo di “itinerario” è in De Mysterio Trinitatis, 1.2 co: «Omnis enim creatura vel est ad Dei

vestigium tantum, sicut est natura corporalis, vel est ad Dei imaginem, sicut est creatura intellectualis.».

Qui il contesto è la trattazione dei tre libri in cui consiste la manifestazione divina: il libro della Natura

esteriore ed interiore (in cui rientrano vestigio e immagine), quello della Scrittura (distinto in Antico e

Nuovo Testamento, a cui corrisponderanno, nell’Itinerarium, i Nomi Essere e Bene) e quello della Vita (a

cui corrisponderà in via l’esperienza mistica).

Una variante abbreviata di questo approccio la si può ritrovare in Breviloquim, 2.12, nella trattazione

del creato: «creatura mundi est quasi quidam liber, in quo relucet, repraesentatur et legitur Trinitas

fabricatrix secundum triplicem gradum expressionis, scilicet per modum vestigii, imaginis et

similitudinis». 40 Cf In Hexaëmeron, 4.4.31. 41 In Hexaëmeron, 2.20: «Item, tertia facies sapientiae est omniformis in vestigiis divinorum operum.».

La sapienza infusa per dono dello Spirito Santo si manifesta progressivamente come uniforme (nei dettami

della legge divina iscritti nella coscienza), multiforme (nei sensi della Scrittura), onniforme (nelle vestigia

e nell’immagine di Dio nel creato) e nulliforme (nella conoscenza mistica).

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La scala e lo specchio. Chiavi di lettura e rilettura dell’Itinerario bonaventuriano 9

trattazione, complementare) in ambito strettamente filosofico, come percorso di ricerca

razionale della sapienza.

Alla luce di tali evoluzioni, l’Itinerario potrebbe essere inteso sia come un trattato di

vita spirituale e di introduzione alla contemplazione; sia come un trattato di antropologia

teologica e di cristologia (sui modi e gradi di conoscenza di Cristo); sia come un trattato

di teologia trinitaria, in quanto la Trinità si rispecchia nel creato42; sia, infine, come una

trattazione originalissima della Filosofia, nel suo senso più profondo. Retroproiettando

quest’ultimo approccio sull’opuscolo e tralasciandone le applicazioni ai riflessi della

Trinità, potremo ora ri-leggerlo e riattualizzarlo filosoficamente e umanisticamente.

L’“ITINERARIO DELLA MENTE IN DIO” (RILETTURA DEL TITOLO)

L’“ITINERARIO”

Esaminiamo la prima parola del titolo comunemente dato all’opera e che già da sola

basta a identificarla; Itinerario. Cosa significa? Il lemma ‘itinerarius’43 in latino era

originariamente un aggettivo che significava “relativo a un iter”, ossia a un viaggio; usato,

come facciamo noi, in maniera sostantivata (‘itinerarium’ in latino), indica la descrizione

di un viaggio già fatto o la prescrizione di un viaggio da fare; in particolare, nel Medioevo,

era chiamato così un libro che fungesse da guida per il pellegrino; eccezionalmente, nel

latino cristiano del tredicesimo secolo, il termine poteva essere utilizzato anche per

indicare l’esodo di Israele e la vita stessa di Gesù, intesa come un “transito” da questo

mondo al Padre.

Ma cosa intende Bonaventura per ‘itinerarium’? Qui abbiamo una grande sorpresa:

nei suoi scritti (almeno quelli finora censiti elettronicamente) Bonaventura non usa mai

questa parola (eccetto una volta nel titolo di un’opera citata)44. Piuttosto, nell’Itinerario

Bonaventura parla (in senso metaforico) di ‘iter’, viaggio, transito, ascesa…, alludendo

al pellegrinaggio verso la Gerusalemme ideale, come metafora di tutta la vita umana: la

stessa filosofia è la ricerca (necessaria ma impossibile) della Sapienza; l’Esodo è il

viaggio di Israele verso la Terra promessa; la vita di Cristo e del cristiano è un Transito

da questo mondo al Padre45. La creatura deve compiere un vero e proprio “cerchio

intelligibile”46, mediante Cristo (che il Filosofo coglie appena come Medio Esemplare),

il quale “è uscito dal Padre e ritorna al Padre”: e in questo circolo consiste tutta la

Metafisica47.

42 Questo approccio (che sviluppa quello del De Trinitate di Agostino), molto apprezzato in passato,

invece al lettore odierno risulta un po’ forzato e desueto. Vedremo però che anche la filosofia moderna e

contemporanea (con Kant, Peirce, Dumézil e Brandt) ha sviluppato un’attenzione alle triadi, sia pure intese

come strutture della mente e della cultura, piuttosto che della realtà. 43 Come risulta dalla Library of Latin Texts, cit. 44 Cf In Sententiarum libros, 2.8b1.3: è il riferimento a un antico racconto romanzato e apocrifo,

abbastanza popolare nel Medioevo: l’Itinerario di Clemente o di San Pietro, descrizione o narrazione del

viaggio di San Pietro a Roma, attribuita apocrifamente a San Clemente. 45 Cf Itinerarium, 1.1, 1.7, 1.9, 7.5. 46 Breviloquium, 2.4 e 5.1. 47 In Hexaëmeron, 1.17: «Verbum ergo exprimit Patrem et res, quae per ipsum factae sunt, et

principaliter ducit nos ad Patris congregantis unitatem; et secundum hoc est lignum vitae, quia per hoc

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ANDREA DI MAIO 10

Bonaventura insiste che il viaggio di cui si parla nel suo opuscolo non è “del corpo”

ma “del cuore” e che quindi le ascensioni di cui si parla sono “ascensioni mentali”48. Ecco

perché in questo caso il viaggio (“iter”) e la descrizione del viaggio (“itinerario”)

coincidono. Si tratta di un approccio molto attuale, vicino a quello della moderna

psicologia. Riuscire a cogliere e ad esprimere ciò che abbiamo dentro equivale a far

progredire la nostra vita interiore.

LA “MENTE” CHE FA L’ITINERARIO

Ma cosa è la mens che compie l’itinerario? Sebbene coincidente con l’anima, non si

identifica con essa (ossia denotano lo stesso, ma lo connotano diversamente, anche se

talvolta sono intercambiabili). Mentre infatti ‘anima’ indica il soggetto ontologico (che

ha la funzione di animare il corpo, ma poi sussiste anche senza di esso), ‘mens’ ne indica

piuttosto l’esercizio della funzione49. La mente è distinta in tre fasce o tre cerchi concentrici, ossia animalitas, spirito e

mente (in senso stretto)50. C’è la parte della mente che riflette il mondo esterno, c’è la

parte della mente che riflette sé stessa ossia il mondo interiore, c’è la parte della mente

che riflette il mondo ideale. L’animalitas è la mente rivolta, attraverso il corpo, al mondo

esterno, e dunque è (per dirla oggi) il corpo fenomenologicamente inteso, oppure come

la coscienza sensibile di Hegel. Lo spiritus è la mente rivolta al proprio interno, verso il

mondo minore o interiore, quindi una sorta di autocoscienza nel senso odierno. La mens

in senso stretto è lo sguardo verso l’Assoluto, una sorta di coscienza spirituale e morale

o religiosa. Il fatto che quest’ultimo sguardo si chiami mens come tutta la mens è indice

medium redimus et vivificamur in ipso fonte vitae. Si vero declinamus ad notitiam rerum in experientia,

investigantes amplius, quam nobis conceditur; cadimus a vera contemplatione et gustamus de ligno vetito

scientiae boni et mali, sicut fecit Lucifer. [...]. Sic Adam similiter. –Istud est medium faciens scire, scilicet

veritas, et haec est lignum vitae; alia veritas est occasio mortis, cum quis ceciderit in amorem pulcritudinis

creaturae. Per primariam veritatem omnes redire debent, ut, sicut Filius dixit: Exivi a Patre et veni in

mundum; iterum relinquo mundum et vado ad Patrem; sic dicat quilibet: Domine, exivi a te summo, venio

ad te summum et per te summum. –Hoc est medium metaphysicum reducens, et haec est tota nostra

metaphysica: de emanatione, de exemplaritate, de consummatione, scilicet illuminari per radios spirituales

et reduci ad summum. Et sic eris verus metaphysicus.». 48 Itinerarium, 1.1. 49 Cf In Sententiarum libros, 1.3b ad db 2: ««mens dicitur ab actu essentiali. Propterea est

intelligendum, quod quo est dat animae esse generalissimum, et sic dicitur essentia; vel inquantum dat esse

generale, et sic dicitur vita, quia anima est in genere viventium; aut inquantum dat esse spirituale, et sic

mens. Mens enim non dicitur nisi quod vivit vita intellectiva. - Vel anima in se dicitur essentia, ut actus

corporis vita, ut perfectibilis a Deo mens». In contesto di teologia trinitaria, Bonaventura distingue vari

sensi di mens: ciò che dà all’anima di essere nel senso più generale (cioè di esistere) è detto essenza; ciò

che le dà di essere in senso generale, ossia di vivere, si dice vita; ciò che le dà di essere in senso spirituale

(diremmo noi oggi: di esistere in prima persona) si dice mente. La mente indica sempre la vita intellettiva.

Inoltre, l’anima in quanto perfettibile da Dio si dice mente. Di conseguenza potremmo dire che il concetto

di mens indica non tanto il soggetto ontologico, quanto la sua attività, soprattutto quella più perfetta. 50 Cf In Sententiarum libros, 1.3b.2.1: Bonaventura dice che mente indica l’anima in quanto è soggetta

a mutamento (da ‘mene’, ossia luna); o in quanto è dotata di capacità di giudizio (da ‘metiendo’); o in

quanto è la parte superiore della ragione (da ‘eminendo’); o in quanto sta per la memoria (da ‘meminisse’).

Bonaventura non è d’accordo con quest’ultima accezione. La triade “mente, notizia, amore” non consiste

in potenze dell’anima, né in tre abiti, dato che “la mente non può indicare un abito, in quanto si intende

come agente”. Ma consiste in una triade costituita “quanto alla sostanza dell’anima in ragione della mente

che si conosce e si ama, e quanto agli abiti, in ragione della notizia e dell’amore”.

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La scala e lo specchio. Chiavi di lettura e rilettura dell’Itinerario bonaventuriano 11

che per Bonaventura la mente stessa è fatta essenzialmente per conoscere Dio e non solo

altre menti o cose.

LA DESTINAZIONE E L’ORIZZONTE “IN DIO” E LA PACE

L’itinerario della mente è “in Dio”, o meglio «in Deum»: il senso di questa

espressione in latino (con la preposizione ‘in’ seguita dall’accusativo) è che il movimento

figurato della mente è un addentrarsi progressivo all’interno del mistero di Dio: un po’

come quando ci si sprofonda in un mare.

Questo movimento della mente è piuttosto paradossale perché come sta sempre

dentro Dio, così sta sempre dentro sé stessa. Solo alla fine, la mente è invitata a

trascendere sé stessa (mediante l’estasi mistica) e a sprofondare nella Pace51.

D’altra parte la Pace (intesa come nucleo del Vangelo e di tutta la predicazione di

Gesù, e di conseguenza di Francesco), identificata con la requie a cui mira,

agostinianamente, ogni ricerca umana, è il tema del Prologo dell’Itinerario52.

In altre parole, Dio e la Pace sono l’orizzonte in cui si muove e si risolve l’itinerario.

IL RISPECCHIAMENTO (RILETTURA DEL TITOLO ALTERNATIVO E DEL PROLOGO)

LA “SPECULAZIONE” DEL VOLTO ALLO SPECCHIO53

Esaminiamo il secondo possibile titolo dell’opuscolo: “Speculazione del povero nel

deserto”. ‘Speculatio’ è l’atto di ‘speculare’, ossia di guardare attentamente: viene dalla

radice ‘-spec-‘ o ‘-spic-‘, che indica il guardare e da cui derivano tantissime parole54.

L’atto di ‘speculare’ però può essere ricondotto tanto a ‘specula’ (osservatorio), quanto a

‘speculum’ (specchio). Nel primo caso la speculazione sarebbe l’osservazione attenta dei

corpi celesti, oppure, per metafora, la considerazione di un qualsiasi oggetto, o in

particolare la contemplazione delle realtà più nobili. Nel secondo caso invece la

speculazione sarebbe il guardare qualcosa allo specchio. Nell’Itinerario questi due sensi

sono collegati: ogni considerazione e contemplazione avviene tramite un rispecchia-

mento. Più precisamente, Bonaventura qui usa la parola speculazione per intendere il

“riconoscimento” di Dio come attraverso uno specchio e in uno specchio.

51 Itinerarium, 7.1: «De excessu mentali et mystico, in quo requies datur intellectui, affectu totaliter in

Deum per excessum transeunte.». 52 Cf Itinerarium, prologus, 1: «In principio primum principium, a quo cunctae illuminationes

descendunt tanquam a Patre luminum, a quo est omne datum optimum et omne donum perfectum, Patrem

scilicet aeternum, invoco per Filium eius Dominum nostrum Iesum Christum, ut intercessione sanctissimae

virginis Mariae [...] et beati Francisci ducis et patris nostri, det illuminatos oculos mentis nostrae ad

dirigendos pedes nostros in viam pacis illius, quae exsuperat omnem sensum. Quam pacem evangelizavit

et dedit Dominus noster Iesus Christus. Cuius praedicationis repetitor fuit pater noster Franciscus, in omni

sua praedicatione pacem in principio et in fine annuntians, in omni salutatione pacem optans, in omni

contemplatione ad ecstaticam pacem suspirans, tanquam civis illius Ierusalem, de qua dicit vir ille pacis,

qui cum his qui oderunt pacem erat pacificus: Rogate quae ad pacem sunt Ierusalem.» 53 Cf Di Maio, Conoscenza, riconoscimento, riconoscenza, cit. 54 Come anche in italiano ‘specie’, ‘spettacolo’, ‘specola’, ‘specchio’, ‘ispettore’ e così via; perciò la

speculazione finanziaria è detta così perché lo speculatore guarda il proprio tornaconto e quindi osserva

bene il mercato prima di vendere o comprare.

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ANDREA DI MAIO 12

Infatti, per Bonaventura lo specchio è una metafora che indica o la sapienza divina,

o la mente o la natura del mondo55. Qui c’è quindi un gioco di specchi: lo specchio di cui

si tratta nell’opera è proprio la mente che rispecchia il mondo e sé stessa e il senso del

mondo; attraverso questo complesso rispecchiamento, la mente può alla fine riconoscervi

Dio.

Perché però lo specchio è un simbolo così importante? Dobbiamo ricordare che la

vista non è solo il senso più sviluppato per l’umanità, ma è anche quello più riflessivo.

L’occhio cerca di guardare un altro occhio. In qualche modo, diceva già Platone

(nell’Alcibiade primo), il primo specchio è la pupilla di un altro occhio.

In effetti il viso (già nell’etimo latino di ‘visus’) indica tanto gli occhi che guardano

quanto quelli che sono guardati. Addirittura, come ci insegnano gli psicologi della

percezione, non solo il nostro sguardo in una folla va subito a cercare un altro volto, ma

tende a vedere volti persino dove non ve ne sono: sulla luna, sulla facciata di una casa…

Ecco perché lo specchio è un grande simbolo. Nella cultura del tempo, lo specchio

era non solo quello che riflette, ma anche ogni “specchietto” illustrativo (schemi

riassuntivi di una disciplina) e ogni manuale enciclopedico (come quello famoso

realizzato da Vincenzo di Beauvais). Se vogliamo rendere oggi il valore dello specchio,

pensiamo al nostro cellulare o terminale portatile. Non a caso lo schermo del cellulare è

paragonato a uno specchio e una delle serie televisive più inquietanti degli ultimi anni,

sui pericoli dei nuovi mezzi di comunicazione telematica, si intitola Black Mirror.

E qui comprendiamo anche la nostra difficoltà: non sapendo più cosa e chi guardare,

teniamo sempre lo sguardo sullo schermo del cellulare, che però ci riporta nell’esteriorità

e nella dispersione. Invece, abbiamo bisogno di uno specchio per cercare il vero volto

delle cose, di noi stessi e degli altri e dell’Altro. Nelle conferenze sui Sei Giorni,

Bonaventura avrebbe spiegato che non sarebbe saggio guardare allo specchio il volto di

qualcuno che mi fosse davanti56. Dunque il fine dello Specchio è di metterci in rapporto

con un Volto 57.

55 Cf Breviloquium, 1.8: «Est igitur liber vitae respectu rerum ut redeuntium, exemplar ut exeuntium,

speculum ut euntium, lux vero respectu omnium.». La metafora dello specchio in teologia è evidenziata

anche nel Prologo. 56 In Hexaëmeron, 17.25: «Si ego viderem faciem tuam et rogarem te, ut apportares mihi speculum

clarum, ut ibi viderem faciem tuam; stulta esset ista petitio.». 57 Cf In Sententiarum libros, 2.8b.1.6 ad 5: «5. Ad illud quod obiicitur, quod speculum repraesentat

aliud speculum et quae sunt in eo contenta; dicendum, quod duplex est speculum, quoddam naturale, et

quoddam voluntarium. Speculum naturale, sicut naturaliter suscipit, ita et naturaliter reddit, et ita nihil

occulat; ideo speculum sibi oppositum non solum ipsum, sed etiam omne quod lucet in eo, repraesentat.

Speculum autem voluntarium non est in actu manifestationis eorum quae in se continet, nisi cum hoc facit

voluntas; et tale est speculum spirituale.». Alla domanda se sia possibile ad altri (in particolare ad entità

sovrumane e maligne come i demoni) conoscere i segreti della nostra mente, Bonaventura risponde che in

effetti, la mente è uno specchio, e se mettiamo uno specchio davanti a un altro specchio, tutto vi si riflette.

Eppure l’analogia non vale, perché mentre lo specchio naturale non può non riflettere, lo specchio spirituale

riflette solo in quanto può e vuole farlo. Certo, ci sono segni esterni che rivelano i segreti del cuore (del

resto, nella tradizione popolare, attestata dal Pinocchio, le bugie si riconoscono dai loro effetti), ma non è

possibile penetrare nelle menti altrui (se non a Dio solo).

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La scala e lo specchio. Chiavi di lettura e rilettura dell’Itinerario bonaventuriano 13

IL DUPLICE PUNTO DI PARTENZA: PRINCIPIO (ESSENZIALE) E INIZIO (TEMPORALE)

Il prologo dell’Itinerario si apre e si chiude con due frasi emblematiche. Si apre con

le parole: “In principio, invochiamo il Primo Principio…”; si chiude con una frase che

può essere sia il motto dell’opera, sia l’indicazione del suo titolo originario: “Comincia

la speculazione (ossia il rispecchiamento, il percorso di riconoscimento) del povero nel

deserto”58. Dunque, vi è un duplice inizio: l’inizio temporale è l’esperienza e coscienza

della propria indigenza; il principio eterno è il Bene che è desiderato e attrae in quanto si

comunica.

Chi è questo povero che si ritrova all’inizio nel deserto? È ciascuno di noi, e siamo

tutti noi insieme, come umanità: il povero è la Mente stessa che comincia il suo iter.

Siamo poveri per condizione, ma dobbiamo diventare poveri per atteggiamento: del resto

il modello proposto nel prologo era Francesco d’Assisi, di cui viene esaltato il tratto più

fondamentale, che non è la povertà, ma la Pace.

Il “deserto” è riferimento biblico all’esodo e soprattutto all’inizio del pellegrinaggio

del pio Israelita a Gerusalemme, descritto dai salmi graduali.

In altri scritti, Bonaventura spiega meglio questa condizione di indigenza. Ogni cosa

materiale è “da altro, secondo altro e per altro”, ma la mente in particolare si rende conto

di questa sua condizione finita: siamo da altro, perché non siamo padroni della nostra

esistenza; siamo secondo altro perché ci regoliamo sempre secondo modelli esterni

(pensiamo alle leggi naturali); siamo per altro perché siamo sempre alla ricerca di uno

scopo, che quindi non possediamo già; ecco dunque che questa nostra condizione ci

proietta verso Qualcosa o Qualcuno che sia “da sé, secondo sé e per sé”, ossia verso un

“Principio originante e Medio esemplante e Fine compiente”59. Anche quando non

sappiamo se questo esista, sappiamo almeno che la mente lo concepisce.

A questa indigenza ontologica, questo essere finiti (essere “da nulla”) si aggiunge la

miseria, ossia l’annullamento proprio del male60.

Come Bonaventura dice in altri scritti, nessuno di noi è come dovrebbe essere;

almeno in qualche circostanza io non ho fatto ciò che avrei potuto e dovuto fare (anzi ho

fatto ciò che avrei potuto e dovuto evitare di fare); non so se potrò ancora essere come

sarei dovuto e potuto essere61.

Posso se e solo se davvero voglio, ossia (dicevamo già) se sono “persona di grandi

desideri”. Pian piano però l’Itinerario ci mostrerà che possiamo desiderare proprio in

quanto siamo già desiderati da Qualcuno. Cosa desideriamo e cerchiamo? La Pace.

Compimento di ogni desiderio, ma anche oltrepassamento dei desideri nell’unione tra

desiderante e desiderato. Così, ci può dar pace scoprire che cerchiamo perché siamo in

realtà da sempre cercati.

58 Cf Itinerarium, prologus, 1; e tra il prologo e l’inizio dei capitoli. 59 Cf In Hexaëmeron, 1.12 e 5.29. 60 Cf De perfectione evangelica, 1.1 co; De regno Dei, 43. Cf anche Di Maio, Evil..., cit. 61 De perfectione vitae, 1.5.

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ANDREA DI MAIO 14

LA SCALA E LO SPECCHIO PER RIORIENTARSI, RICENTRARSI, RIALLINEARSI

(RILETTURA DELL’INTRODUZIONE)

Nei primi nove paragrafi del primo capitolo (e nei cenni di anticipazione e

ricapitolazione che troviamo costantemente in ogni parte dell’opera), Bonaventura

definisce l’articolazione del percorso. Proviamo a ricostruire da quanto dice qua e là una

piccola trattazione sistematica62.

RIORIENTAMENTO ED ELEVAZIONE: LA METAFORA DEL MONTE E DELLA SCALA

Disporre di un buon itinerario è fondamentale per compiere l’iter della vita. Ci serve

di capire da dove partiamo (dalla povertà nel deserto) e dove vogliamo arrivare (alla

Pace), ma anche quali sono i movimenti mentali: dall’esteriorità all’interiorità e

dall’interiorità all’ulteriorità.

Questo riorientamento coincide con una elevazione: infatti questo pellegrinaggio è

simbolicamente una salita del Monte Sion (al tempio di Gerusalemme) e anche, con

Francesco, una salita sul monte della Verna. La metafora della montagna (come quella

della scala) ha un duplice valore: da una parte indica la ricerca di una visione più

panoramica (e quindi totale), ma dall’altra indica anche lo sforzo di andare in direzione

opposta a quella a cui naturalmente tendiamo per gravità (verso il “basso”).

Come si è detto, mentre l’anima spirituale indica il soggetto ontologico, la mente

invece ne indica l’attività consapevole, a tre livelli, ossia verso l’esterno (attraverso i sensi

del corpo), verso l’interno ossia sé stessa (attraverso l’“occhio” della ragione) e verso ciò

che è ulteriore e superiore (attraverso l’“occhio” dello spirito, che è la mente in senso più

eminente). Oggi forse possiamo capire meglio intendendo per “mente” ciò che comune-

mente diciamo “coscienza”, che pure si dice a tre livelli: la coscienza sensibile (cioè

l’essere consapevole delle mie sensazioni), l’autocoscienza e la coscienza morale e

spirituale.

Attraverso lo specchio tripartito della mente scopriamo tre mondi: esterno o

maggiore (ossia il mondo fisico della Natura), interno o minore (ossia il mondo mentale

da cui si sviluppa quel mondo nel mondo che è la Cultura), superiore o archetipo (ossia il

mondo ideale dei Valori supremi).

La realtà si rispecchia nella mente e la storia riecheggia nel racconto, in una

fenomenologia ante litteram63 che però, come vedremo, intende uscire dalla mente

tramite l’amore.

La distinzione dei tre mondi, quello fisico, quello mentale e quello ideale, pur

radicata nella tradizione neoplatonica, è forse il contributo più originale di Bonaventura

alla storia del pensiero. Si tratta di una concezione molto attuale: si pensi che uno dei

maggiori cosmologi contemporanei, Roger Penrose, nel suo monumentale libro La strada

verso la realtà, ripropone, senza nulla sapere di Bonaventura, questa distinzione! Ma

possiamo trovare notevoli analogie in vari pensatori moderni: Cusano (che aveva però

letto Bonaventura) distingue, nella Dotta ignoranza, Dio, Mondo e Uomo-Dio; Kant

62 Itinerarium, 1.1-9 (che non richiameremo più nel corso del paragrafo). 63 Cf Emmanuel Falque, Saint Bonaventure actuel ou intempestif? Le “poème” du Breviloquium, in:

Begasse, Deus summe cognoscibilis, cit., p. 11-38.

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La scala e lo specchio. Chiavi di lettura e rilettura dell’Itinerario bonaventuriano 15

distingue le tre Idee (del Mondo, dell’Anima e di Dio); Hegel distingue Idea (ossia Dio),

Natura, Spirito (nel senso di umanità e Cultura); Popper distingue un Mondo 1, 2, 3…

Non dobbiamo pensare questi tre mondi come giustapposti: essi sono, per così dire,

coimplicantisi. È a partire dal mondo fisico che scopriamo il mondo mentale e

supponiamo quello ideale; ma è a partire da quest’ultimo che il mondo mentale e quello

fisico possono essere fondati.

I tre mondi sono concatenati per il triplice livello di esistenza delle cose: ogni cosa

(materiale) ha infatti propriamente una esistenza “in materia” o “in natura propria”

(potremmo dire: una esistenza “qui e ora”); ma prima ancora di esistere così, tale cosa

pre-esiste intelligibilmente (quanto alle sue strutture matematiche) in ogni mente

razionale; inoltre, pre-esiste (quanto alle sue strutture metafisiche) in quella che

Bonaventura chiama “arte eterna” e che identifica con il progetto creativo di Dio. Ogni

livello di esistenza si trova in una diversa dimensione di durata: l’esistenza materiale è

temporale (continuamente modificabile), l’esistenza mentale è eviterna (ha un inizio, ma

è capace di decisioni definitive e quindi di non finire mai), l’esistenza in Dio è eterna

(nella perfetta e beata simultaneità).

Come ognuno confusamente sa (e come Kant ha provato a spiegare a suo modo), le

cose materiali rispondono a leggi fisico-matematiche e metafisiche che noi non ricaviamo

dall’esperienza; quando facciamo calcoli sulle cose, riusciamo a prevedere e anticipare

l’esperienza.

Detto in termini moderni, l’esistenza naturale è la piena manifestazione di una

pre-esistenza trascendentale (nella struttura matematica della nostra mente) e una

pre-esistenza trascendente (nella struttura metafisica). Anche qui Bonaventura ha avuto

intuizioni molto attuali.

Torniamo alla mente considerata come uno specchio a tre livelli: il livello più basso

la mette in comunicazione col mondo fisico, quello più alto col mondo ideale.

Considerandolo come attraversata da un movimento in ingresso e in uscita, ogni livello

si sdoppia, così che la mente si presenta come una scala senaria, ossia a sei gradi o gradini:

la sensibilità (attraverso cui il mondo fisico esterno affètta la mente) e l’immaginazione

(in cui il mondo esterno si rispecchia e si ricostituisce nella mente), la ragione (per cui la

mente si conosce verso le realtà inferiori) e l’intelletto (in cui la mente si conosce verso

le realtà superiori), l’intelligenza (per cui il mondo ideale è intuito, o meglio è “co-intuito”

implicitamente in ogni nostra conoscenza) e apice della mente (in cui il mondo ideale si

rispecchia). I primi cinque gradi erano già stati distinti in un opuscolo del secolo

precedente su spirito e anima, erroneamente attribuito ad Agostino; ma il sesto grado è

aggiunto proprio da Bonaventura, che lo identifica con la “sinderesi”64.

Questo apice della mente (che corrisponde a quello che spesso i mistici chiamano

cuore o spirito o fondo dell’anima…) è la porta nascosta e la sorgente segreta che ci mette

in contatto con l’assoluto: trovare questa porta e aprirla, o scovare questa sorgente e

attingervi, significa realizzare la più grande pace.

64 Parola nata dalla storpiatura della parola greca ‘syneidesis’, normalmente tradotta a calco in latino e

nelle lingue neolatine come ‘conscientia’ (“scienza con”, o consapevolezza concomitante). Nel lessico

teologico medievale, mentre la coscienza è la consapevolezza della qualità buona o malvagia di ogni nostro

atto libero (nel senso che oggi diamo alla coscienza morale), la sinderesi è l’attrattiva profonda che abbiamo

verso il Bene.

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ANDREA DI MAIO 16

Descrivendo il mondo ideale, Bonaventura individua un’altra triade, più originaria:

quella di Principio (“da cui” si trae origine), Medio (“secondo cui” ci si modella) e Fine

(“a cui” si tende)65. Tale triade però si può riconoscere di riflesso anche nel mondo fisico

(come le tre cause, efficiente, esemplare, finale) e nel mondo mentale (come memoria,

intelligenza e volontà, o come il soggetto da cui emanano intelletto e affetto, a cui si

aggiunge l’effetto fuori di sé). Componendo insieme la triade verticale e quella

orizzontale otteniamo quella che Bonaventura in altri testi chiama la “Croce intelligibile”,

che è forse meglio visualizzabile come una T (o un tau francescano)66.

Ci rendiamo però conto che la scala naturale che avevamo descritto è sgangherata.

Da una parte comprendiamo che la nostra mente debba essere strutturata scalarmente,

dall’altra constatiamo che non è così. Noi non siamo come dovremmo essere. La nostra

buona condizione originaria e costitutiva si coniuga misteriosamente con una cattiva

condizione originale (che ci appartiene già dall’inizio della nostra esistenza, ma che non

ci costituisce).

Per Bonaventura, la nostra malattia più grave è quell’atteggiamento possessivo che

ha fatto “ricurvare su di sé” l’essere umano67: in tal modo è come se le nostre facoltà si

accartocciassero (per così dire) su sé stesse; lo “sguardo” dei sensi corporei rimane sì in

pieno vigore, ma lo “sguardo” della ragione si offusca e lo sguardo dello spirito rimane

del tutto accecato68. Riprendendo una frase di Anselmo d’Aosta, Bonaventura enuncia un

principio che, se lo intendiamo bene, è ancora molto attuale: “la volontà corrotta corrompe

la natura umana e la natura umana corrotta porta la volontà a corrompersi”69. La

corruzione colpisce infatti le tre nostre capacità di intendere, volere e fare e si esplica

nella ignoranza, nella concupiscenza e nella debolezza; e colpisce persino la nostra

dimensione corporea, attraverso la mortalità, infermità e indigenza.

La corruzione diviene anche sociale: quei beni che se tutti fossero generosi e

distaccati potrebbero essere comuni e condivisi, debbono ora essere invece spartiti; e

quelle norme di comportamento che se tutti fossero rispettosi sarebbero spontaneamente

accettate, ora devono essere imposte da un’autorità coercitiva70.

Insomma, dobbiamo non solo riorientarci ed elevarci, ma dobbiamo innanzitutto

raddrizzarci nella nostra stessa mente, così che in essa (come dirà quasi tre secoli dopo

Ignazio di Loyola al principio degli Esercizi) ciò che è inferiore sia davvero sottomesso

a ciò che è superiore. È l’apice della mente a dover dirigere la nostra vita verso l’alto; non

le sensazioni e le passioni, che ci disperdono nell’esteriorità!

Siamo in grado di riparare da soli la scala delle nostre facoltà? Siamo in grado di

congiungere insieme tutti e tre i mondi e i tre livelli di esistenza della realtà? In realtà no,

ma il tentativo è comunque necessario e utile. Ci servirebbe però un’altra scala (ne

65 Cf In Hexaëmeron, 16.9: «Iste autem septenarius sive in mundo sensibili, sive in mundo minori ortum

habet a mundo archetypo, ubi sunt rationes causales secundum rationem septenarii. Deus enim habet

rationem triformis causae: originantis, exemplantis, finientis, nec potest esse pluribus modis; unde

Apostolus: Ex ipso et per ipsum et in ipso sunt omnia.». 66 Breviloquium, prologus 6; per l’interpretazione, cf Di Maio, La divisione..., cit. 67 Cf Breviloquium, 5.2; De septem donis, 5.8. 68 Cf In Hexaëmeron (Delorme), 1.2.24. 69 Breviloquium, 3.6 «Et sic persona corrumpit naturam et natura corrupta corrumpit personam, salva

in omnibus divina iustitia, cui nullo modo potest imputari infectio animae, licet eam creando infundat et

infundendo uniat cum carne infecta.». 70 Cf In Hexaëmeron, 18.7; e De perfectione evangelica, 1.1; 2.1; 4.1-2.

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La scala e lo specchio. Chiavi di lettura e rilettura dell’Itinerario bonaventuriano 17

riparleremo alla fine): Bonaventura si ispira al simbolo della scala di Giacobbe evocato

da Gesù nel suo dialogo con Natanaele.

Siccome nel sogno Giacobbe aveva visto gli angeli salire e scendere sulla scala tra

cielo e terra, Bonaventura precisa che “bisogna prima salire e poi ridiscendere”,

intendendo che al percorso della riflessione e della contemplazione deve seguire sempre

un percorso di aiuto agli altri71. L’itinerario descritto quindi si conclude alla meta, ma la

mente deve continuarlo con un’azione di educazione e animazione. Perciò anche per

quanto riguarda la corruzione globale, dice Bonaventura, la storia deve puntare a una

guarigione sociale, a tendere cioè a un progresso. Ad esempio, lo stile di umiltà, sobrietà

e condivisione predicato e attuato da Francesco è un contributo al superamento di quei

rimedi sociali che però sono solo come mali minori.

RICENTRAMENTO E RACCOGLIMENTO: LA METAFORA DEL TEMPIO A TRE STANZE

Il tempio di Gerusalemme era una imponente costruzione con elementi uno dentro

l’altro. Dopo la seconda distruzione operata da Tito ne erano rimaste solo le rovine e

Bonaventura ne conosceva molto vagamente la struttura architettonica originaria solo

tramite le descrizioni bibliche. Innanzitutto c’era un grande cortile recintato ma all’aperto

che era l’atrio (in realtà vi erano tre atri successivi, ma Bonaventura li considera come un

unico ambiente) dove potevano entrare i pellegrini; poi un edificio coperto chiamato

Santuario (o “Santo”), dove potevano entrare solo i Sacerdoti; e all’interno di questo,

un’ambiente protetto e separato da un sipario (il “Velo del Tempio”) chiamato “Santo dei

Santi” (in latino: “Sancta Sanctorum”), dove poteva entrare una volta all’anno il solo

Sommo Sacerdote. All’interno del Santo dei Santi, fino alla prima distruzione del tempio

ad opera di Nabucodonosor, era custodita l’Arca dell’Alleanza, ossia la cassa contenente

le tavole dei comandamenti e altri oggetti che testimoniavano l’Esodo dall’Egitto,

poggiata su due statue rappresentanti i Cherubini, e con una lastra di rame su cui andava

asperso il sangue del sacrificio chiamata propiziatorio.

Per Bonaventura, questi tre ambienti del tempio simboleggiano tre ambienti della

mente che riflettono tre mondi: innanzitutto l’atrio, delimitato da un portico, ma a cielo

aperto, simboleggia la parte più bassa della mente che è aperta al Mondo esterno e che

oggi chiameremmo “coscienza sensibile”; poi il santuario, in cui può entrare solo la mente

stessa, rappresenta quella che oggi chiameremmo “autocoscienza” e che è come un

Mondo interno; ma all’interno di questa c’è il santuario più segreto, quello che oggi

chiameremmo “cuore” o “spirito” o “coscienza morale” e dove c’è il punto di contatto

con il Mondo trascendente dei Valori e di Dio.

Una bella conseguenza72 di questo approccio è che tutto è Tempio di Dio, tutta la

realtà è sacra, anche se meno o più: la suprema sacertà è nel Santo dei Santi, ma anche

l’Atrio del mondo esteriore è santo. Solo il male morale ne è al di fuori.

Ma andiamo al centro del Santo dei Santi. I due cherubini rappresentano i due modi

con cui Dio si è manifestato (come essere che fa essere ogni cosa e come amore e bene

che si comunica) e con cui noi possiamo parlarne e soprattutto parlargli; il propiziatorio

71 Cf Legenda Maior, 13.1; De diversis, 46.7 e 54.2: «[…] in scala Iacob aut ascendebat in Deum aut

descendebat ad proximum»; cf anche In Hexaëmeron, 9.10. 72 Cf Marco Moschini, Sapienza e bellezza: un’estetica teologica per leggere la creazione, in: Begasse,

Deus summe cognoscibilis, cit., p. 295-302.

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ANDREA DI MAIO 18

rappresenta Gesù Cristo; arrivati al centro di tutto il Tempio, non si è però rintanati, ma

ci si apre al Tutto.

Nella prima conferenza sui Sei Giorni, Bonaventura aveva elaborato una bellissima

metafora: la nostra vita è come un cerchio di cui abbiamo smarrito il centro. Come fare a

ritrovarlo? Come in geometria euclidea il centro di un cerchio si ritrova all’incrocio delle

diagonali del quadrato ad esso circoscritto, così per noi il centro della nostra vita si ritrova

attraverso la Croce di Cristo73. Fuor di metafora: solo l’amore davvero gratuito

(dimostrato dalla disponibilità a sacrificarsi) ci fa trovare il senso della nostra vita.

L’itinerario consiste quindi nell’attraversare la l’Atrio per entrare nel Santuario e

infine per penetrare nel “Santo dei Santi”. Si tratta quindi di un esercizio di

“raccoglimento”, che dovremmo fare costantemente, o almeno di tanto in tanto; perlopiù

infatti noi viviamo “fuori noi stessi”, ma dovremmo almeno ogni tanto spostare

l’attenzione al centro: percepire che percepiamo, pensare che pensiamo, per finalmente

cogliere “che siamo” e che siamo amati.

Attenzione: questo entrare sempre più in noi stessi non è però un isolarsi. La vera

intimità non è mai intimismo. La mente non è una monade: quando io entro in me stesso

scopro ciò che mi accomuna a tutte le altre menti, ossia capisco il carattere cooperativo

della mente: il Mondo interiore è intersoggettivo, attraverso la cultura e il sapere e la

comunione.

Alla fine dell’itinerario il rientrare pienamente in sé coincide con l’uscire da sé

tramite l’amore: Bonaventura parla di “eccesso mentale” (estasi, cioè di uscita da sé). A

differenza di una moderna fenomenologia, qui alla fine la mente deve trascendere sé

stessa e tramite l’amore entrare pienamente nella realtà.

RIALLINEAMENTO DELLA VOLONTÀ ESPLICITA E DI QUELLA PROFONDA; RIAPPROPRIAZIONE, RICONOSCIMENTO E RICONOSCENZA

Chi è povero cerca il bene; la mente cerca in particolare la Pace. Ora, per cercare

dobbiamo desiderare e per accendere il desiderio abbiamo due leve: il fulgore della

speculazione e il clamore dell’orazione. In altre parole, la speculazione ci fa vedere

qualcosa di bello che accenda il desiderio; il non conseguire subito questo desiderio ci fa

gemere, chiamare, bussare, ossia cercare più profondamente. Questo esercizio ci porta a

riequilibrare il rapporto tra impegno attivo e recettività del dono.

Se la mente è come uno specchio, allora come ogni specchio deve essere polito e

terso, dice Bonaventura74: l’impegno nostro sarà quello di renderlo tale; dopo di che

rifletterà con chiarezza quello che ci interessa. Guardare allo specchio quindi sarà un

riconoscervi un Volto.

Tra l’inizio e la fine dell’itinerario notiamo un riallineamento di passività e attività75:

all’inizio si dice che servono sia l’impegno che la recettività; progressivamente si capisce

che l’impegno consisterà nel favorire la recettivà; ma alla fine dell’itinerario la mente del

73 Cf In Hexaëmeron, 1.24. 74 Cf Itinerarium, 4.9; In Hexaëmeron (Delorme), 1.2.25. 75 La dinamica di dono e risposta è interpretata con le categorie di industria e grazia (ossia di attività e

passività), rielaborazione di categorie usate da Tommaso Gallo nei suoi commenti dionisiani. Cf In

Hexaëmeron, 22.24: «Abbas Vercellensis assignavit tres gradus, scilicet naturae, industriae, gratiae. Sed

non videtur, quod aliquo modo per naturam anima possit hierarchizari. Et ideo nos debemus attribuere

industriae cum natura, industriae cum gratia, et gratiae super naturam et industriam.».

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La scala e lo specchio. Chiavi di lettura e rilettura dell’Itinerario bonaventuriano 19

lettore è invitata a sbilanciarsi nella recettività fino al punto di abbandonare ogni impegno

per sprofondare nella fruizione del dono76. Dunque tutto l’itinerario è un percorso di

educazione alla gratuità. Non si capisce il dono se non passando attraverso lo scacco: se

pur facendo tutto il possibile, non posso avere quello che desidero, ma poi lo ritrovo,

questo è solo per dono.

All’inizio c’è il desiderio. Possiamo dire oggi che il nostro desiderio esplicito (che

che altrove Bonaventura chiama volontà deliberata) non è allineato al nostro desiderio

più profondo (che altrove Bonaventura chiama volontà naturale e, nell’Itinerario,

sinderesi). Sicuramente cerco: ma cosa cerco, cosa voglio veramente? E quello che

voglio, è veramente quello che nel più profondo voglio? Questa volontà più profonda è

in realtà non un mio volere arbitrario, ma come il risultato di un’attrazione, ossia un essere

voluto, o forse “benvoluto”. Dobbiamo andare a indagare a fondo nei nostri desideri per

scoprire quello che è fondamentale, accoglierlo, riconoscerlo come un desiderio ricevuto

(un essere desiderati) e quindi liberare la meraviglia, l’esultanza, la gratitudine.

Per concludere, possiamo dire oggi che l’itinerario consista nel riappropriarci della

nostra vita, ossia nel riconoscerla, passando subito però alla riconoscenza. Attenzione

quindi a dare il giusto senso a questa opera di riappropriazione della nostra vita.

Bonaventura, fedele alla vocazione francescana di vivere la forma del Vangelo “senza

alcunché di proprio”, esclude ogni appropriazione che blocchi i beni a sé: se già secondo

Agostino il male è una privazione di bene, secondo Bonaventura il male è una

privatizzazione del bene di per sé comune o comunicabile!

LA PRIMA TAPPA: IL MONDO ESTERNO O MAGGIORE O MACROCOSMO

CHE È LA NATURA (RILETTURA DEI CAPITOLI 1-2)77

Della prima tappa, basti dire che il mondo esterno viene ricostituito dalla percezione

dentro il Microcosmo stesso che è la mente. Ciò che noi percepiamo come esistente al di

fuori di noi, lo vediamo rispecchiato in noi, cioè abbiamo ricostituito nella parte “più

bassa” e “verso l’esterno” della nostra mente.

76 Cf Massimo Tedoldi, L’intellectus si consegna all’affectus: la ricerca di Dio nell’Itinerarium mentis

in Deum, in: Begasse (ed.), Deus summe cognoscibilis, cit., p. 93-110, che mette acutamente a confronto

questi tre testi dell’Itinerarium.

Per l’iniziale bilanciamento di attività e passività, cf Itinerarium, prologus, 4: «primum quidem

lectorem invito, ne forte credat quod sibi sufficiat lectio sine unctione, speculatio sine devotione,

investigatio sine admiratione, circumspectio sine exsultatione, industria sine pietate, scientia sine caritate,

intelligentia sine humilitate, studium absque divina gratia, speculum absque sapientia divinitus inspirata.».

Per il finale sbilanciamento verso la passività, cf Itinerarium, 7.5: «Quoniam igitur ad hoc nihil potest

natura, modicum potest industria; parum est dandum inquisitioni et multum unctioni. Parum dandum est

linguae et plurimum internae laetitiae. Parum dandum est verbo et scripto et totum Dei dono, scilicet Spiritui

sancto. Parum aut nihil dandum est creaturae et totum creatrici essentiae, Patri et Filio et Spiritui sancto

[...]».

Per il totale superamento dell’attività nella passività, cf Itinerarium, 7.6: «Si autem quaeras quomodo

haec fiant, interroga gratiam, non doctrinam; desiderium, non intellectum; gemitum orationis, non studium

lectionis; sponsum, non magistrum; Deum, non hominem; caliginem, non claritatem; non lucem, sed ignem

totaliter inflammantem et in Deum excessivis unctionibus et ardentissimis affectionibus transferentem.». 77 Cf Itinerarium, 1-2 (a cui si rimanda per tutto il capitolo).

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ANDREA DI MAIO 20

Proviamo a catalogare innanzitutto quanto percepiamo. Vediamo cose che esistono

e basta (e che sono quindi solo inerti e passive), cose che esistono e vivono (che quindi

godono di una qualche attività), cose che esistono e vivono e distinguono (e quindi

sembrano godere di un’attività addirittura eccedente, autonoma o libera). Possiamo quindi

concludere che in questo mondo fisico si trovi anche un mondo mentale irriducibile al

precedente; possiamo perfino supporre che oltre a questi due mondi esista un mondo

totalmente spirituale e trascendente.

Normalmente noi viviamo totalmente proiettati all’esterno: percepiamo oggetti ed

eventi e li correliamo e interpretiamo costantemente, senza pensarci; ogni tanto però è

utile spostare la nostra attenzione dalle cose percepite alla nostra percezione delle cose.

Facciamo attenzione, allora, non più a ciò che sento, ma al mio sentirlo. In questo,

Bonaventura precorre la moderna fenomenologia e psicologia della percezione.

Percepiamo continue trasformazioni (generazioni e rigenerazioni), che sono possibili

solo ammettendo che i fenomeni complessi (“generati”) siano il risultato della

ricomposizione di materiali “generanti” e di forze “governanti”.

Alla singola percezione si accompagna una connotazione di piacere o dispiacere che

è fondamentale per l’elaborazione del giudizio. In particolare, il sentimento di piacere

offertoci da gusto e tatto ci insegna a riconoscere ciò che “ci fa bene” (pur con tutti i

possibili “falsi positivi” che il giudizio può correggere) e ci offre un simbolismo da usare

anche in chiave spirituale. Non a caso, infatti, il vero sapere (la sapienza) è così chiamato,

in quanto è il sapore della vita, gustato interiormente.

Il mondo maggiore ricostituito internamente è un po’ un mondo inconscio che però

affiora alla nostra coscienza attraverso dati memorizzati e attrattive o repulsioni.

In generale, tutto il mondo naturale si presenta come una riserva di simboli per la

mente, ossia di realtà sensoriali che cogliamo come rimandi a qualcosa di non sensoriale.

LA SECONDA TAPPA: IL MONDO INTERNO O MINORE O MICROCOSMO

CHE È LA CULTURA (RILETTURA DEI CAPITOLI 3-4)

UN MONDO NEL MONDO: L’AUTOCOSCIENZA E LA “CULTURA” 78

La mente ama, conosce, riconosce sé stessa nella volizione, intelligenza e memoria

che ha di sé.

La memoria non è qui intesa come facoltà sensoriale, ma come il recesso di quanto

sappiamo senza mai averlo imparato; ciò che la filosofia aristotelica chiamava nozioni

prime e primi princìpi del sapere la filosofia odierna chiamerebbe “certezze precate-

goriali” e che in Agostino prende il posto della reminiscenza platonica. Pensiamo anche

a come oggi sappiamo considerare l’istinto del linguaggio: non si sviluppa solo per

imitazione, ma per attivazione di strutture profonde.

L’intelligenza è la capacità di concepire, giudicare e inferire.

La volontà si nutre di tre momenti: il consiglio (ossia la distinzione tra bene e

meglio), il dovere, il desiderio di felicità.

78 Cf Itinerarium, 3 (a cui si rimanda per tutto il paragrafo).

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La scala e lo specchio. Chiavi di lettura e rilettura dell’Itinerario bonaventuriano 21

Molto interessante è l’approccio bonaventuriano alla vita morale: prima ancora di

scoprire i nostri doveri, noi scopriamo le preferenze (il discernimento che ci fa distinguere

tra alternative più o meno buone), ma non potremmo cogliere questa gradazione se non

avessimo in mente almeno confusamente un ideale di sommo bene, rispetto a cui

giudicare qualcosa come migliore o peggiore… Solo a questo punto, cerchiamo di

regolarci con un giudizio certo, che è quello della legge morale, il cui primo dovere, che

esprime implicitamente tutti gli altri, è (secondo le Conferenze sui Sei Giorni) la celebre

regola aurea di fare e di non fare agli altri ciò che nel profondo rispettivamente si vuole o

non si vuole sia fatto a sé79. Ma alla fine, tutto questo si compie nel desiderio supremo di

felicità, che ci porta ad amare (e quindi a cercare il Sommo Bene, il che, se ci pensiamo,

equivale a riconoscere che amiamo perché siamo amati).

Fin qui la considerazione della vita interna della nostra mente. Ma a questo punto

Bonaventura aggiunge che la considerazione del mondo interno “si dilata” alla

considerazione di tutto quell’ambito che oggi chiameremmo Cultura, la cui conoscenza

riflessa oggi chiameremmo Sapere80.

Per capire questo passaggio dall’esteriorità all’interiorità, dobbiamo esplicitare

alcuni cenni che Bonaventura fa nella sua quarta conferenza sui Sei Giorni: a partire dal

mondo naturale delle cose, e anzi al suo interno, si forma un duplice “mondo nel mondo”,

cioè quello del linguaggio e quello delle istituzioni81. Da questa articolazione deriva il

sistema delle scienze: le scienze naturali, ossia delle cose; le scienze razionali del

linguaggio; le scienze morali dei comportamenti umani.

In particolare, le cose sono considerate nella loro materialità dalle scienze naturali

vere e proprie; sono considerate poi nella loro struttura intelligibile, nelle scienze

matematiche; sono considerate infine nella loro struttura ideale, in quelle scienze ideali

che oggi chiameremmo logica e ontologia: invece, come Bonaventura dirà nelle

conferenze sui Sei Giorni, quella che noi intendiamo come Metafisica in senso eminente

è una scienza ulteriore, che in realtà è sapienza, tanto necessaria, quanto (parados-

salmente) impossibile. Tutte le scienze quindi sono intrinsecamente filosofiche, ossia

tendenti alla Sapienza: il Sapere esige infatti il passaggio dalla considerazione degli

oggetti (o, in senso moderno, da una considerazione oggettivante) alla riflessione sul

soggetto stesso e soprattutto alla contemplazione del Principio, la sola che si possa dire

“sapienza saporosa”, conoscenza esperienziale del gusto o senso della vita. Per dirla

infatti con una metafora: “Sapere senza Sapore, a che giova?”82. Questa ricerca rimane

naturalmente inconclusa. “Giustamente perciò i filosofi promisero la Sapienza, ma non

poterono mantenere la promessa”83.

79 Cf In Hexaëmeron, 5.18: « Secundus modus est forma convivendi, ut: “Quod tibi non vis fieri, ne

facias alteri”. Hoc in corde scriptum est per legem aeternam. Ex hac naturali lege emanant leges et canones,

pullulationes pulcrae.». 80 Cf Di Maio, La divisione..., cit. 81 Cf In Hexaëmeron, 4.2: «Veritas rerum est indivisio entis et esse, veritas sermonum est adaequatio

vocis et intellectus, veritas morum est rectitudo vivendi.»; e 4.5: « Omne, quod est, aut est a natura, aut a

ratione, aut a voluntate.». 82 In Hexaëmeron, 22.21: «Multa enim scire et nihil gustare quid valet?». 83 In Hexaëmeron, 5.22: «Postmodum voluerunt ad sapientiam pervenire, et veritas trahebat eos; et

promiserunt dare sapientiam, hoc est beatitudinem, hoc est intellectum adeptum; promiserunt, inquam,

discipulis suis.»; e 5.33; cf anche In Hexaëmeron (Delorme), 1.2.22: «Promiserunt quidam discipulis dare

sapientiam per quam essent beati sed defecerunt.».

Page 22: LA SCALA E LO SPECCHIO: CHIAVI DI LETTURA E RILETTURA …

ANDREA DI MAIO 22

La dilatazione del mondo interno nella Cultura e nel suo Sapere è significativa: la

mente non può essere considerata una monade senza relazioni e cooperazione con

l’esterno e con altre menti: essa non solo ha quelle porte sul mondo che sono i sensi

corporei; ma essa è essenzialmente cooperativa e intersoggettiva. Il linguaggio e le

istituzioni, ossia la Cultura, sono la riprova che il Microcosmo interiore non è un Io

separato, ma è la stessa umanità, che in qualche modo precede e in qualche modo segue

ogni individuo umano.

UNA CULTURA CHE NON È SOLO PRODUZIONE DI SENSO: LA RELIGIONE84

Nel mondo della cultura umana troviamo però un fenomeno che non è riducibile a

produzione culturale di senso, ma che può anche arrivare a presentarsi come una

Rivelazione di senso. Si tratta di quella che oggi chiameremmo Religione e che

Bonaventura (nel quarto capitolo dell’Itinerario) identifica con la grazia presentata dal

Cristianesimo.

Come le Scienze (il Sapere) aiutano la mente a esplorare il mondo della Cultura, così

la Bibbia (intesa oggi come Rivelazione)85 aiuta a esplorare e descrive questo mondo

speciale che è la Religione.

Bonaventura ne individua il centro nel Verbo (ossia in quello che oggi chiameremmo

Senso della Vita). La peculiarità del Cristianesimo è di proporre che il Senso della Vita

esista e ci preceda (ossia che è Colui per cui tutto fu fatto ed è, in quanto Verbo increato)

e che tale Senso si sia “fatto” uomo (in quanto Verbo incarnato), ossia che si sia rivelato

pienamente in un Fatto, che è Gesù Cristo, e che è reso presente (in quanto Verbo ispirato)

mediante lo Spirito nel cuore dei fedeli86.

La triplice relazione personale che la mente (quanto alla sua triplice capacità di

intelletto, affetto ed effetto) ha con il Cristo è la fede, la speranza e la carità. Da questa

relazione emerge un nuovo livello di esperienza, o meglio un nuovo livello di

comprensione dell’esperienza: si tratta di “sensazioni spirituali” e di sentimenti o “frutti

spirituali”, descritti con metafore tratte dall’esperienza corporea, ma che hanno una

valenza spirituale. La fede fa per così dire “ascoltare”, “vedere”, “odorare”, “toccare”,

“gustare” cio che trascende ogni sensazione; ma fa anche produrre sentimenti di pace,

gioia, amore…, che pur simili ai sentimenti ordinari, se ne distinguono per la diversa e

misteriosa origine.

Anticipando in qualche modo l’intuizione di Kierkegaard sull’autopsia della fede e

sulla contemporaneità paradossale di ogni discepolo con il Maestro eterno nel tempo,

Bonaventura tratta dell’esperienza cristiana per cui tutti possono e devono esperire

(tramite la Scrittura e l’Eucaristia) il Verbo ispirato, anche se perlopiù non hanno

incontrato storicamente il Verbo incarnato87.

84 Cf Itinerarium, 4 (a cui si rimanda per tutto il paragrafo). 85 Cf Di Maio, Sacra Scriptura..., cit. 86 Cf Itinerarium, 4.3 «Anima igitur credens, sperans et amans Iesum Christum, qui est Verbum

incarnatum, increatum et inspiratum, scilicet via veritas et vita [...]». Cf Di Maio, Sacra Scriptura, cit., p.

127-130. Cf anche Amaury Begasse de Dhaem, Il triplex Verbum bonaventuriano: Cristocentrismo

trinitario e singolarità/universalità della salvezza, in: Begasse (ed.), Deus summe cognoscibilis, cit., p. 333-

352: il Verbo in quanto increato rimanda al Padre, in quanto incarnato rimanda a sé, in quanto ispirato

rimanda allo Spirito, in una perfetta integrazione di cristologia e teologia trinitaria. 87 Cf In Hexaëmeron (Delorme), 2.2.6: «Beati quidem qui audierunt Verbum incarnatum, sed nunc

omnes audiunt Verbum inspiratum»; cf In Lucam, 24.39-62 (il differimento accresce il desiderio).

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La scala e lo specchio. Chiavi di lettura e rilettura dell’Itinerario bonaventuriano 23

LA TERZA TAPPA: IL MONDO ULTERIORE O IDEALE O ARCHEOCOSMO DEI VALORI

(RILETTURA DEI CAPITOLI 5-6)88

Mentre il confine tra esteriorità e interiorità è chiaro e costitutivo per la mente, è più

complesso il passaggio alla dimensione della ulteriorità (alla realtà di sopra, dice

Bonaventura) e quindi a quel mondo che nelle Conferenze sui Sei Giorni è definito come

“archetipo”89.

Nel primo capitolo dell’Itinerario, Bonaventura ci arriva con questo ragionamento:

se esistono realtà esteriori e interiori, dovrebbero esserci realtà superiori; se esiste una

temporalità mutevole delle cose materiali ed esiste anche una “eviternità” (una capacità

di decidersi) nelle menti, ci deve essere anche una eternità simultanea e perfetta; se ci

sono in natura entità che esistono e basta, entità che esistono e vivono, ed entità che

esistono e sono capaci di discernimento; ossia ci sono realtà corporali, realtà miste e realtà

spirituali; allora, ci dovrebbero essere realtà spiritualissime.

Prescindiamo al momento dalla questione dell’esistenza di Dio. La mente comunque

riscontra un “al di là” costituito da quel mondo ideali di Valori.

Questi Valori supremi, da cui prende valore ogni cosa, sono fondamentalmente due:

Essere e Bene, li chiama Bonaventura riallacciandosi alla tradizione filosofica (aristo-

telica e platonica) e biblica (veterotestamentaria e neotestamentaria)90. Oggi forse

potremmo intendere meglio questi due Valori supremi come “Esistere” e “Amare”.

Ebbene, arrivato al centro del mio centro, cosa trovo? Sono da solo di fronte a me

stesso e all’enigma dell’essere e dell’amore, oppure trovo là Qualcuno? L’esperienza

cristiana è quella di trovare Qualcuno e di riconoscervi quello che alla fine della

precedente tappa era stato conosciuto, tramite la Bibbia e la Chiesa, come Gesù il Cristo,

il consacrato del Padre in Spirito Santo.

LA CONCLUSIONE: L’USCITA DA SÉ (RILETTURA DEL CAPITOLO 7

E DELLE SEZIONI SUL RICONOSCIMENTO DI DIO NEI PRIMI SEI CAPITOLI)91

Nell’Itinerario, tappa per tappa Bonaventura opera un riconoscimento teologico.

Nella nostra rilettura umanistica, riportiamo tutte le sue esplicazioni cristologiche e

trinitarie solo qui alla fine.

UNO SPECCHIO ANCORA, LA BIBBIA; UNA NUOVA SCALA E IL MEDIATORE

Abbiamo già parlato di tre specchi, ora ne dobbiamo introdurre un quarto. Il primo

specchio è la Natura, il secondo specchio è la mente stessa, il terzo specchio è la Sapienza

divina, che però noi cogliamo solo indirettamente in quanto riflessa nei primi due specchi;

vi è però l’aiuto di un quarto specchio, che è la Bibbia (di cui si parla nella terza sezione

88 Cf Itinerarium, 5-6 (a cui si rimanda per tutto il capitolo). 89 Cf In Hexaëmeron, 16.9. 90 Cf Alessandro Ghisalberti, “Ego sum qui sum”. La tradizione platonico–agostiniana in San Bona-

ventura, in: “Doctor Seraphicus” 40 (1993), p. 17-33. 91 Cf Itinerarium, 7 e delle seconde metà dei capitoli 1-6 (laddove si opera il riconoscimento trinitario

nelle strutture ontologiche e mentali individuate tappa per tappa).

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ANDREA DI MAIO 24

o visione delle Conferenze sui Sei Giorni). Antico e Nuovo Testamento sono come la

descrizione della duplice manifestazione di Dio, rispettivamente come Colui che è (e

quindi che fa essere, come Creatore) e come l’unico Buono (e quindi come Amore

trinitario e Salvatore). Ma i due Testamenti si riferiscono a qualcosa che è descritto al

loro interno, ma che esiste al di là di essi: ossia il Cristo, come mediatore e propiziatorio.

Bonaventura, alludendo al sogno di Giacobbe richiamato anche da Gesù a Natanaele,

identifica tale Scala con Gesù stesso, che avendo corpo, anima e divinità, è la perfetta

congiunzione dei tre mondi fisico, mentale e ideale nella sua stessa persona. Senza questa

scala (che appartiene alla fede cristiana) rimane al filosofo l’aspirazione all’ideale di

umanità perfetta, a cui perlomeno tendere indefinitivamente.

Il dogma cristiano dell’incarnazione garantisce che Cristo sia la nuova e definitiva

scala che non solo ripara la scala naturale sgangherata dal peccato, ma la perfeziona. Il

dogma cristiano della redenzione garantisce che Cristo sia il propiziatorio che consenta

la riconciliazione e l’unione con Dio. Cristo è quindi la “chiave di sistema” di tutto il

sapere e di tutto il reale.

RICONOSCIMENTO “PER” E RICONOSCIMENTO “IN”

Bonaventura distingue tra una speculazione “per” (ossia attraverso l’impronta,

l’immagine, il nome Essere, rispettivamente nei capitoli primo, terzo e quinto), e una

speculazione “in” (ossia nell’impronta, nell’immagine somigliante, nel nome Bene,

rispettivamente nei capitoli secondo, quarto e sesto). Questa distinzione sembra

macchinosa, ma se intendiamo la speculazione come il riconoscimento di un Volto allo

specchio, abbiamo due gradi del riconoscimento. Possiamo infatti inizialmente

riconoscere attraverso quanto vediamo allo specchio che ci deve essere un volto;

possiamo poi riconoscere proprio in quanto vediamo nello specchio il Volto cercato. Ad

esempio, un autista di autobus attraverso lo specchio retrovisore può riconoscere che alla

fermata sta salendo qualcuno dalla porta posteriore; però, facendo più attenzione, può

riconoscere che sta salendo proprio Tizio o Caio. Facciamo un altro paragone. Posso

riconoscere attraverso alcuni segni o suoni che essi non sono casuali ma costituiscono una

espressione linguistica; posso poi riconoscere in quei segni e suoni una frase

comprensibile.

Nella sua opera di commentatore biblico e di predicatore, Bonaventura aveva più

volte riflettuto sull’enigmatico preannuncio del Battista: “In mezzo a voi sta uno che voi

non conoscete”92. Il centro della realtà è implicitamente già noto a tutti, ma solo a partire

da alcuni “segni” può essere esplicitamente riconosciuto.

Riguardiamo in questa ottica il mondo fisico, quello mentale e quello ideale. Il

mondo fisico che si specchia nella nostra mente rispecchia a sua volta il mondo ideale e

quindi Dio stesso: possiamo riconoscervi quelle che, metaforicamente, Bonaventura

chiama le impronte di Dio (le sue vestigia). Come le impronte sul terreno indicano

attraverso una mancanza (il vuoto prodottosi nel terreno) una qualche presenza (il piede

che ha lasciato l’impronta), così nel mondo fisico il fatto che, ad esempio, i fenomeni

siano da altro, secondo altro e per altro rimanda a un principio originante, medio

esemplante e fine compiente.

A maggior ragione il mondo mentale che si specchia in sé rispecchia Dio. La mente

con la sua memoria, intelligenza e volontà è immagine di Dio: biblicamente, non bisogna

92 Cf In Hexaëmeron, 1.20; Sermo “Medius vestrum”.

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La scala e lo specchio. Chiavi di lettura e rilettura dell’Itinerario bonaventuriano 25

concepire Dio a immagine dell’umanità (questo infatti sarebbe un idolo), ma semmai

concepire l’umanità come immagine di Dio (e questo è quello che oggi diremmo icona)93.

Se poi la mente vive la vita spirituale delle virtù, questa immagine è anche somigliante

(la virtù è, biblicamente, ma anche platonicamente, imitazione di Dio).

Come Bonaventura spiega nella prima conferenza sui Sei Giorni, il peccatore non

perde mai l’immagine di Dio, bensì la sua somiglianza; ecco quindi la massima pena del

peccato: la contraddizione (oggi diremmo l’alienazione) insita nell’essere una immagine

non somigliante di Dio94. Il peccato è una imitazione caricaturale, una scimmiottatura di

Dio, non una sua verace imitazione.

Per concludere, i Valori supremi che costituiscono il mondo ideale possono essere

riconosciuti e usati come i Nomi di Dio: quelle relazioni esistenziali a lui ciò che ci

consentono di parlarne e soprattutto di parlargli. Chiamare Dio “Essere”, ossia “Colui che

è” e che fa essere, è il modo di rapportarsi a Dio di ogni monoteismo creazionista, come

in Mosè e come in alcuni filosofi antichi). Chiamare Dio “Bene” o “Amore” (e quindi

“Padre”, “fratello” in Gesù, “amico” come Spirito95) è il modo di rapportarsi a Dio proprio

del Cristianesimo.

RICONOSCIMENTO E RICONOSCENZA

Ma ora che guardiamo tutto allo specchio, dobbiamo riconoscervi un Volto. E una

volta riconosciuto questo Volto, non possiamo rimanere a guardare lo specchio96; quindi,

lasciando lo specchio, dobbiamo incontrarci con questo Volto misterioso e amabile in un

trasporto d’amore unitivo, come quello tra due sposi.

Bonaventura chiama ‘contuitus’ (“contuizione”) lo sguardo mentale che

progressivamente riconosce Dio in tutto o tutto in Dio: mentre nell’Itinerario alla fine di

ogni tappa (nei capitoli pari) si ha una contuizione di Dio rispettivamente nelle sue

vestigia nel macrocosmo, nella sua immagine somigliante nel microcosmo e nel suo nome

Bene nell’archeocosmo e infine nell’estasi finale, come pure nell’estasi finale, invece

nella trattazione filosofica dello stesso itinerario tale contuizione si ha solo alla fine, nel

93 Quindi, il discorso bonaventuriano risponderebbe alle istanze fatte proprie da Marion, per rispondere

alla critica heideggeriana all’ontoteologia. In effetti, per Bonaventura, Dio non è oggetto della scienza

metafisica, ma principio fontale da cogliere per contemplazione sapienziale [cf In Hexaëmeron, 5-6]. 94 Cf In Hexaëmeron, 1.26: «Diabolus enim paralogizavit primum hominem et supposuit quandam

propositionem in corde hominis quasi per se notam, quae est: creatura rationalis debet appetere

similitudinem sui Creatoris, quia scilicet est imago – unde in damnatis erit maxima poena, quia, cum imago

sit animae essentialis, similiter et talis appetitus erit essentialis in damnatis». 95 Cf Itinerarium, 4.8: «mens nostra repleta a divina Sapientia, tanquam domus Dei inhabitatur, effecta

Dei filia, sponsa et amica; effecta Christi capitis membrum, soror et coheres». 96 Cf In Hexaëmeron, 17.25.

Page 26: LA SCALA E LO SPECCHIO: CHIAVI DI LETTURA E RILETTURA …

ANDREA DI MAIO 26

passaggio alla sapienza filosofica97; inoltre in ambito teologico retrospettivamente si

riconosce tutto in Dio98.

La terminologia è illuminante: si tratta di contuizione (“visione con”) e non di

intuizione diretta e immediata di Dio (come nell’ontologismo di Gioberti); non si tratta

nemmeno di cogliere il mondo come un tutto (come nel Tractatus di Wittgenstein il

mistico – nel senso di enigmatico ed ineffabile – è che il mondo sia, mentre è scientifico

come esso sia). Si tratta piuttosto di cogliere il mondo come un tutto che necessita di un

principio e risalire per risoluzione al suo principio datore dell’essere, che è Dio99.

Nella descrizione dei tre mondi esaminati e, parallelamente, nella descrizione delle

tre fasce della mente in cui questi tre mondi si riflettono, ritroviamo strutture triadiche, a

volte orizzontali, ossia sullo stesso livello (come “principio”, “medio”, “fine”), a volte

verticali (come “esteriorità”, “interiorità”, “ulteriorità”): se il filosofo li considera solo

come strutture reali o mentali, il teologo cristiano non può non notare una prima

corrispondenza tra la prima triade e la trinità del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo, e

una seconda corrispondenza tra la seconda triade e la costituzione ontologica di Cristo,

nella cui persona si uniscono corpo, anima umana e divinità100.

Ma l’articolazione in triadi non è una forzatura teologica101: la struttura triadica del

pensare è stata messa in luce anche da Kant, da Hegel, da Peirce… Inoltre, è

particolarmente suggestivo il ricondurre la molteplicità della realtà empirica non ad una

97 Il contuitus di Dio (o il contueri Dio) è menzionato in Itinerarium 2.11, 4.2, 6.1-2, 7.1: alla fine di

ogni tappa (in particolare nel grado dedicato al riconoscimento “in”) e poi alla fine di tutto l’opuscolo.

Invece, nella trattazione filosofica, si trova nel passaggio tra filosofia e sapienza [cf In Hexaëmeron, 5.24:

«Similiter operatio vel potentia divina duplex est: una, quae se convertit ad contuenda divina spectacula;

alia, quae se convertit ad degustanda divina solatia.»; ; 5.33: «Dum haec igitur percipit et consurgit ad

divinum contuitum, dicit, se habere intellectum adeptum, quem promiserunt philosophi; et ad hoc veritas

trahit.»]. Per la visione di Dio in tutto cf anche Maurizio Malaguti, La solarità originaria: La trasparenza

del contuitus in San Bonaventura, in: Begasse (ed.), Deus summe cognoscibilis, cit., p. 63-72. 98 Nella riconsiderazione per fede delle generazioni che fanno conoscere la generazione del Verbo,

abbiamo invece vedere tutto nel Verbo; cf In Hexaëmeron, 11.20: «Has duodecim conditiones aggrega, et

habebis speculum ad contuendum exemplar divinum sive Verbum, quod omnia repraesentat: ut splendor

procedens a luce cum perfectione aequalitatis». 99 La resolutio, operazione inversa alla compositio, può avvenire mentalmente attraverso una

intellezione (‘intellectus’ nel senso di atto, non di facoltà) in forma o piena o semipiena. Cf In Sententiarum

libros, 1.28 ad db 4: «Intellectu resolvente semiplene, potest intelligi aliquid esse, non intellecto primo ente.

Intellectu autem resolvente perfecte, non potest intelligi aliquid, primo ente non intellecto.»; In

Hexaëmeron, 11.10: «intellectus duplex est: perfectus et plenus et plene resolvens; et tali intellectu non est

intelligere sic; intelligere autem semiplene potest intellectus defectivus sic, quod resolvat in plura, quae in

Deo sunt unum, aliter non.». La forma piena è quella teologica, che arriva a cogliere nell’azione divina

l’opera delle singole persone della Trinità. 100 Cf In Hexaëmeron, 1.13: «Metaphysicus autem, licet assurgat ex consideratione principiorum

substantiae creatae et particularis ad universalem et increatam et ad illud esse, ut habet rationem principii,

medii et finis ultimi, non tamen in ratione Patris et Filii et Spiritus sancti.». De reductione, 20: «summa

perfectio et nobilissima in universo esse non possit nisi natura in qua sunt rationes seminales et natura in

qua sunt rationes intellectuales et natura in qua sunt rationes ideales simul concurrant in unitatem personae

quod factum est in filii dei incarnatione.» . In Hexaëmeron, 8.9: «sicut in Deo aeterno est trinitas

personarum cum unitate essentiae, ita etiam in Deo humanato sunt tres naturae cum unitate personae.». 101 Una delle cose che più sorprende nell’Itinerario è lo sforzo costante (e quasi eccessivo) a ritrovare

triadi nella struttura del Mondo esterno e di quello interno. Dobbiamo però capire che queste triadi (come

ogni “ennario” o struttura di n elementi) in Bonaventura è in buona parte un espediente retorico e non va

assolutizzato.

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La scala e lo specchio. Chiavi di lettura e rilettura dell’Itinerario bonaventuriano 27

unità solitaria, ma alla comunione tripersonale divina: questo comporta che né l’unità, né

la molteplicità siano l’ultima parola, ma che la uni-pluralità sia il valore supremo102.

Oggi, poi, grazie a quei filosofi comunemente definiti “maestri del sospetto”, ci

rendiamo conto che questa corrispondenza paradossale pone un dilemma: è la mente a

vedere tutto trino perché Dio è trino, oppure Dio è pensato come trino perché la mente ha

una struttura triadica? Più in generale, la nostra mente va alla scoperta del Senso della

Vita, che il Verbo di Dio, oppure questo senso è solo una proiezione della nostra mente?

Siamo noi a proiettarci un Dio a immagine e somiglianza nostra, o è Dio a creare noi a

immagine e somiglianza sua?

Inoltre, la “coincidenza degli opposti”103 di attributi in Dio e il duplice “paradosso”

o “scandalo essenziale” della coesistenza di eternità e tempo, infinità e finitudine,

immortalità e morte in Cristo104, è motivo di stupore, che oggi può risolversi o

nell’ammirazione della fede e della contemplazione o nel rifiuto e nello scandalo. Ma,

sempre oggi, possiamo con Kierkegaard, Blondel, Marcel… rileggere questo dilemma tra

assurdo nichilistico e mistero, in cui possiamo ragionevolmente optare per il mistero.

In tal caso, il riconoscimento si fa riconoscenza: riconoscimento di un Dono e quindi

gratitudine. Wittgenstein consiglia di gettare dietro di sé la scala dopo esservi saliti: ma

si riferiva alla “scala per noi” che è il linguaggio; invece Bonaventura parla di una “scala

in sé” che è il Dio-Uomo: questa è la struttura portante della realtà, pensata dall’eternità

e realizzata nella pienezza del tempo, essa non verrà mai meno e va risalita per giungere

all’unione con Dio105.

Quando riconosciamo l’impronta di Dio nel mondo naturale, la sua immagine nel

mondo interiore (e la sua immagine somigliante nella vita religiosa), i suoi nomi nel

mondo archetipo, allora abbiamo a disposizione tre libri, quello della natura, quello

dell’anima e quello della Scrittura. Leggere questi tre libri significa parlare di Dio

mediante i simboli (e questa sarebbe la teologia simbolica di Dionigi), mediante l’icona

(e questa sarebbe la teologia di Agostino, che noi potremmo chiamare iconica) e mediante

i suoi nomi propri (e questa è la teologia propriamente detta)106.

102 Significativamente, nel De reductione Bonaventura opera una reductio (operazione inversa alla

divisio) non all’unità e basta, come nel neoplatonismo pagano, ma alla Trinità: dunque l’unipluralità

comunionale è un valore originario, a differenza della molteplicità che è una pluralità derivata nel mondo

creato. 103 Come la chiamerà Cusano, lettore di Bonaventura, che li enuncia in Itinerarium, 5.7-8 e 6.3. 104 Come lo chiamerà Kierkegaard, consentaneo, pur senz’averlo letto, con Bonaventura, che li enuncia

in Itinerarium, 6.4-7 e li approfondisce nel famoso “sillogismo di Cristo”, In Hexaëmeron, 1.27. 105 Itinerarium, 1.3: «Haec etiam respicit triplicem substantiam in Christo, qui est scala nostra, scilicet

corporalem, spiritualem et divinam.»; e 4.2: «[...] nisi veritas assumta forma humana in Christo fieret sibi

scala reparans priorem scalam quae fracta fuerat in Adam.». Cf Breviloquium, prologus, 3; De reductione,

20. 106 Cf Itinerarium, 1.7: «Scientiam veritatis edocuit secundum triplicem modum theologiae, scilicet

symbolicae, propriae et mysticae; ut per symbolicam recte utamur sensibilibus, per propriam recte utamur

intelligibilibus, per mysticam rapiamur ad supermentales excessus.».

La teologia mistica è in qualche modo sviluppata progressivamente in tutta l’opera, ma in maniera

esplicita è trattata esplicitamente nel solo capitolo settimo; la teologia simbolica sembrerebbe riferirsi ai

soli primi due capitoli, in quanto finalizzata al retto uso delle realtà sensibili; la teologia propria corrisponde

a quella “piana” e “affermativa” e alla trattazione dionisiana de divinis nominibus, e dunque si riferisce ai

soli capitoli quinto e sesto. Mancherebbe quindi una specificazione della teologia per i capitoli terzo e

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ANDREA DI MAIO 28

Possiamo cioè non solo parlare di Dio, ma anche parlare a e con Dio107.

Così si realizza il passaggio spirituale. Infatti, “la preghiera è l’origine e la madre

della sursum-azione”108, ossia di ogni azione e riconduzione verso l’Alto: la preghiera

infatti fa sviluppare la vita della mente verso la trascendenza.

A questo punto l’amore ci fa uscire da noi stessi, dalla mente, in quello che

Bonaventura chiama “eccesso”, nel duplice senso di estasi e di transito pasquale109.

A questo punto, bisogna utilizzare la scala per “passare oltre”110, bisogna lasciare lo

specchio per guardare il Volto, bisogna tralasciare il parlare a Dio, per rimanere in

silenzio: e questa è la teologia misteriosa (o mistica).

quarto, che peraltro si riallacciano alla tradizione agostiniana e non a quella dionisiana; ma in senso lato

sarebbero assimilabili anche essi alla teologia simbolica.

Che gli intelligibili trattati dalla teologia propriamente detta siano proprio i nomi divini (ossia le

perfezioni divine conoscibili dagli effetti nel creato) è chiaro dai passi paralleli: cf In Hexaëmeron, 20.21:

«Haec est secunda pars contemplationis, considerare scilicet Ecclesiam, secundum quod est supervestita

figuris et theoriis, et secundum quod est illustrata a sole, et secundum quod est ordinata ad pugnandum; et

sic habetur luna in firmamento animae, ut consideratur per theologiam symbolicam, per theologiam

mysticam, per theologiam proprie dictam.»; In Hexaëmeron (Delorme): 4.1.20: «Itaque filius ecclesiae ut

assimiletur matri debet considerationem suscipere per theologiam symbolicam, per theologiam mysticam,

per theologiam planam, quae est theorica proprie dicta.».

Questa tripartizione della teologia si radica in una originaria bipartizione tra teologia negativa e

affermativa, resa più complicata dalla considerazione delle metafore, che sono come intermedie tra la

teologia catafatica e quella apofatica; cf In Sententiarum libros, 1.22.1.3 ad 3: «Ad illud quod obiicitur,

quod symbolica et mystica theologia nominant Deum translative; dicendum, quod quamvis mystica nominet

Deum translative quantum ad proprietates excellentiae, tamen non solum sic nominat, sed etiam per

abnegationem; et ideo non solum translative.».

Due secoli dopo, Dionigi il Certosino, commentando la nona epistola dello Pseudo–Dionigi, intenderà

per “teologia” delle proprietà quella affermativa trattata nel De divinis nominibus. 107 Cf Di Maio, Sacra Scriptura..., cit., p. 135-139. 108 Itinerarium, 1.1: «Oratio igitur est mater et origo sursum–actionis.». 109 Il versetto Psal 67,28, che menzionava la tribù di Beniamino che sopravanzava nello schieramento

dell’esercito di Israele, era stato erroneamente tradotto in latino come riferito a Beniamino stesso che era

nell’eccesso della sua mente: («ibi Beniamin adulescentulus in mentis excessu»): questa traduzione aveva

dato modo alla tradizione patristica e poi in particolare a Riccardo di San Vittore di riflettere sulla

conoscenza nell’eccesso della mente: l’excessus mentis è quindi una forma di conoscenza mistica: cf

Barbara Faes de Mottoni, Figure e motivi della contemplazione nelle teologie medievali, SISMEL -

Edizioni del Galluzzo, Firenze 2007; in particolare cf p. 38-39; Mary Melone, Introduzione a: Riccardo di

San Vittore, La grazia della contemplazione. Beniamino Maggiore, introduzione e note di Mary Melone,

trad. it. di Antonio Orazzo, Diogene, Campobasso 2016, p. IX-XLIX. Sempre per una questione di

traduzione, ‘excessus’ esprime (come fa notare Amaury Begasse de Dhaem) la dipartita di Gesù da questo

mondo. Cf In Lucam, 9,31.54: «“Et dicebant excessum eius, quem completurus erat in Ierusalem”. Excessus

recte nominat passionem, quia in ea fuit excessus humilitatis [...]. Fuit etiam excessus paupertatis [...]. Fuit

excessus doloris [...]. Fuit etiam excessus amoris [...]. Istum excessum complevit in Ierusalem, ubi

crucifixus est, in quo fuit consummatio nostrae redemptionis [...]». 110 Un problema dell’Itinerario è la mancanza di esplicitazione del tema della Resurrezione. Si

menziona appena la resurrezione spirituale (il risorgere dalla condizione di peccato) in Itinerarium 4.2. Al

culmine del percorso si ha un accenno alla Pasqua, ma con maggiore accentuazione della morte mistica per

cui si arriva a vedere Dio: cf Itinerarium, 7.2: «Pascha hoc est transitum cum eo facit [...] tamen quantum

possibile est secundum statum viae [...]. Quod etiam ostensum est beato Francisco cum in excessu

contemplationis in monte excelso [...]. In hoc autem transitu, si sit perfectus, oportet quod relinquantur

omnes intellectuales operationes et apex affectus totus transferatur et transformetur in Deum. Hoc autem

est mysticum et secretissimum, quod nemo novit nisi qui accipit nec accipit nisi qui desiderat, nec desiderat,

Page 29: LA SCALA E LO SPECCHIO: CHIAVI DI LETTURA E RILETTURA …

La scala e lo specchio. Chiavi di lettura e rilettura dell’Itinerario bonaventuriano 29

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nisi quem ignis Spiritus sancti medullitus inflammat, quem Christus misit in terram. Et ideo dicit Apostolus

hanc mysticam sapientiam esse per spiritum sanctum revelatam.».