LA RISCRITTURA OLTREPASSANTE

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Potente polo di attrazione intellettuale, l’opera di Ernesto De Martino, dopo la «riscoperta» provocata dalla comparsa de "La fine del mondo", non ha più cessato di dominare la scena ermeneutica e di esigere cospicui investimenti di energia da parte dei suoi interpreti. Il tema affrontato dall'autore è quello del «ritorno» al Mondo magico realizzato a poco a poco dalle opere della fine. Confermando la natura quasi inesauribile della miniera-De Martino, i cinque scritti proposti qui continuano a scavare nelle sue viscere e a inseguire filoni perduti o tracce rimaste inosservate. Ne risultano approdi imprevisti e rovesciamenti di prospettiva che riescono a restituire a De Martino qualche tratto importante tra quelli lasciati in ombra dalla vulgata.

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Placido Cherchi

La riscrittura oltrepassanteErnesto De Martino e le dialettiche del «ritorno»

Cinque studi

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Edizioni KurumunySede legaleVia Palermo 13 – 73021 Calimera (Le)Sede operativaVia San Pantaleo 12 – 73020 Martignano (Le)Tel. e Fax 0832801528

www.kurumuny.it | [email protected]

ISBN 978-88-95161-94-5

© Edizioni Kurumuny – 2013

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Indice

9 Introduzione

15 Mondo magico-Fine del mondo andata e ritorno: le dialettiche di una riscrittura oltrepassante

66 Intorno ad alcune perplessità critiche sull’«ethos del trascendimento»

135 Il rapporto cultura-natura in Ernesto De Martino: una riflessione sulla «realtà dei poteri magici»

158 Latitanze e affioramenti. Qualche ipotesi sul rapporto De Martino-Freud / De Martino-Jung

189 Magia e civiltà: un libro quasi dimenticato

Appendice: 205 Intervista su Ernesto De Martino

219 Nota bibliografica

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A Ruggero,nel suo primo compleanno,

e al fratellino Giaime,qualche anno dopo.

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Introduzione

Col proporsi di riprendere su De Martino alcuni percorsi di let-tura poco o nulla toccati nei lavori precedenti, la forma «studio»dominante in questo libro si rifà esplicitamente all’idea di «varia-zione» già presente ne Il signore del limite 1 e ne ripete, su scalameno ampia, la cadenza. Anche adesso, come allora, una certa ad-dizione di articoli lunghi dà come somma un volume e cerca dicompensare sulle sintassi del metasenso il sapore di isolamentoparatattico che i singoli testi della silloge, a tratti, fanno sentire.Anche qui, come là, ogni singolo «studio» è una sorta di camminataatelestica per luoghi insoliti o un excursus sempre pronto a con-cedersi alle accezioni del «variare» più corteggiate dalle angolazionidifficili e dalle incognite dei sentieri non mappati. Lo spazio delleanalogie con le «variazioni» di allora ha, in realtà, molte confermee finisce col configurare un insieme di rassomiglianze strutturalitutt’altro che fortuite.

Il metasenso a cui la sintassi interna della raccolta si affida è na-turalmente quello indicato dal titolo. Il problema della «riscritturaoltrepassante», che occupa quasi per intero il primo e il terzo stu-dio, finisce per essere, di fatto, il problema-crinale inseguito in variaforma dagli aspetti portanti del libro e non ho dubbi sulla possibi-lità che, malgrado l’andamento inevitabilmente tortuoso di certisuoi passaggi, esso riesca a farsi percepire come centro. È facile

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1 Placido Cherchi, Il signore del limite. Tre variazioni critiche su Ernesto De Mar-tino, Liguori, Napoli 1994.

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constatare, per esempio, che ne restano riverberati in modo più omeno accentuato anche gli studi che sembrano essere nati sul-l’onda di altre sollecitazioni e che di fatto si dispongono su versantiintenzionali diversi. In realtà il problema della «riscrittura oltrepas-sante» (o, se si vuole, il problema delle dialettiche del «ritorno») èinnanzitutto il problema della circolarità che lega il Mondo magicoe la Fine del mondo – ovvero è il problema che contiene le spintepiù segrete della produzione demartiniana – e sarebbe impossibilenon pensarlo come un alveo di ampie confluenze. A cominciare –si vedrà – da quelle che nascevano nelle pieghe reversorie diun’«autocritica» precocemente volta a produrre il suo contrario eda quelle che si ingeneravano nel «ri-morso» sempre vivo di un per-corso teorico rimasto interrotto. Tornare al Mondo magico, e tor-narvi ridimostrando con argomentazioni nuove le tesi poste alcentro delle sue straordinarie metanoie, non avrebbe potuto esseresolo l’esito delle altezze raggiunte dalla Fine del mondo: il processoche andava preparando la loro riaffermazione doveva essere, perforza di cose, un processo lento e graduale, un movimento a spi-rale crescente, destinato a trascinare con sé anche gli aspetti che,dall’esterno, nessuno avrebbe detto in qualche modo coinvolgibilinelle strategie del «ritorno» coltivate dal metasenso in questione.

Senza dubbio, il modus legendi adoperato adesso può far emer-gere qualche differenza di registro fra il tipo di approccio domi-nante in questi Studi e il tipo di approccio che caratterizzava le«variazioni». Se Il signore del limite aveva privilegiato la dimensionedell’ascolto, mantenendosi frontalmente all’esterno del dire demar-tiniano, i testi di questa Riscrittura preferiscono passare alle spalledi quello stesso dire e interrogarsi, qua e là, sulla natura delle suepresupposizioni trascendentali. In un certo senso, dall’esterioritàoggettiva delle cose che il corpus demartiniano offriva al lettore,essi si spostano tendenzialmente verso la fascia degli entroterramotivanti, non senza accorgersi che il «verso cui» del loro frammen-tato procedere, piuttosto che un certo ventaglio di temi selezionati

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in quel corpus, è in fin dei conti la coscienza riflessa che De Mar-tino ne ebbe, nel pensarli «prima» e «al di qua» della loro oggettiva-zione. Non occorre precisare che, una volta divenuta oggetto quasiesclusivo dell’inquirere, questa coscienza riflessa non avrebbe po-tuto avere sviluppi paragonabili a quelli provocati dai suoi temi diriferimento o dar luogo a trattazioni altrettanto estese. Le differenzesu questo piano discendono in qualche modo dalle differenze ditaglio e ne spiegano, bene o male, gli effetti.

A parte il primo e il terzo studio, che riattraversano tutto DeMartino tentando di leggere i lavori dell’«epilogo» come una «riscrit-tura» dei lavori apparsi nella fase degli esordi, gli altri aderisconoin modo più stretto al carattere contratto della forma-«studio» messain onda qui e si immergono volentieri nel mondo delle lateralitàsopravvissute alle zone d’ombra ingenerate dalle traiettorie tema-tiche vincenti. Includerei tra questi «altri» anche il secondo, mal-grado la contiguità che lo lega strettamente al primo e malgrado lasua insistenza sulle «oltrepassanze» poste al centro della «riscrittura».A farmelo considerare tutto immerso nelle lateralità del particolarepuntiforme è la forma prevalente del suo sviluppo, troppo a lungocatturato da questioni di dettaglio non sempre sostanziali e troppoa lungo interessato al gioco polemico delle contestazioni opposteda alcuni interpreti all’idea demartiniana di «ethos del trascendi-mento». Lo avrei fatto passare con sicurezza negli spazi dell’appen-dice, se la sua estensione non avesse minacciato di far diventareeccessivo il peso della «coda», sbilanciando a suo favore l’assettodi un libro visibilmente già a rischio nella distribuzione interna deipropri equilibri.

Il quarto e il quinto studio, invece, non pongono problemi dicollocazione. Rispetto al primo e al terzo, sono decisamente «glialtri». Autonomi quanto basta per non avere nulla da chiedere alsenso visibile delle strutture portanti, essi sono soprattutto se stessi,essendo insieme anche luoghi del riverbero: per esempio, accet-tano facilmente di essere più che sfiorati dalle ali del metasenso,

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quando si voglia restare nell’ambito delle logiche individuate comeperimetro dell’insieme: e, di fatto, qualche triangolazione calcolatabene può essere sufficiente a farli ricomprendere senza forzaturenegli sfondi creati dalle necessità della «riscrittura».

Dei cinque scritti, il secondo, il quarto e il quinto sono inediti.Non lo sono, invece, il primo e il terzo. Il primo è il testo della re-lazione presentata al seminario «Lavori in corso», tenutosi a Romanel 2009 in occasione del centenario della nascita di Ernesto DeMartino (esso è stato pure incluso in un recente volume colletaneodedicato a lui dall’Istituto di Antropologia culturale dell’Universitàdi Cassino e curato da Floriana Ciccodicola);2 il terzo, senza i pas-saggi su Gentile aggiunti adesso (2011), è invece il testo della re-lazione presentata a Napoli nel 1995, all’interno del convegno«Ernesto de Martino nella cultura europea» (come tale esso è statoparzialmente riprodotto negli atti di questo convegno, pubblicaticon lo stesso titolo, nel 1997, dall’editore Liguori di Napoli, a curadi Clara Gallini e Marcello Massenzio).3

Ringrazio Floriana Ciccodicola e Clara Gallini, per aver rispetti-vamente acconsentito alla ripresa, qui, dei testi corrispondenti, ap-punto, al primo e al terzo «studio».

Accanto ai cinque studi compare, in appendice, la forma origi-naria dell’Intervista su De Martino che, nel 1990, Pietro Angelinifece allo scrivente per «Lares», in vista di un articolo – De Martino:grandi spazi, tempi angusti 4 – che ne avrebbe allargato di molto ilsenso. Tornare vent’anni dopo alla forma-prima di quell’intervista

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2 Si tratta di Aa.Vv., Ernesto de Martino: storicismo critico e ricerca sul campo, acura di F. Ciccodicola, Domograf, Roma 2010.3 Aa.Vv., Ernesto De Martino nella cultura europea, a cura di Clara Gallini e Mar-cello Massenzio, Liguori, Napoli 1997.4 Pietro Angelini, De Martino: grandi spazi, tempi angusti. Conversazione con Pla-cido Cherchi, in «Lares» 2, 1991.

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non è forse inutile: fornisce qualche traccia sugli anni cagliaritanidi De Martino, rimasti oscuri e quasi del tutto sconosciuti alla mag-gior parte dei suoi biografi. E di questo ringrazio ancora una voltal’intervistatore.

Avvertenza

Da un po’ di tempo, nell’uso della critica, il nome di Ernesto De Martino, dalpunto di vista grafico, non è più lo stesso. Molti autori, seguendo l’esempio olo-grafo messo in copertina dalle edizioni demartiniane della Argo di Lecce, prefe-riscono far passare in minuscolo la preposizione patronimica De e scrivono ormaiErnesto de Martino. Nel testo e nel corpus delle note, quando è stato bibliografi-camente necessario, ho di volta in volta rispettato questa scelta. Ma, in continuitàcon i miei libri precedenti (sempre conformi alla originaria consuetudine editorialedi scrivere De Martino), questo lavoro non rinuncia alla vecchia grafia e si ostinaancora sulla forma Ernesto De Martino. La disomogeneità che ne risulta non è ef-fetto di reiterate sviste, ma esito anch’essa di una scelta e dell’attuale coesisteredelle due grafie.

Inoltre, nel testo e nel corpo delle note – quando non sia necessario tenerconto delle esigenze bibliografiche – i titoli demartiniani, secondo un’abitudinerintracciabile nello stesso De Martino, vengono di solito abbreviati o adattati gram-maticalmente al tessuto del discorso. Così, per esempio, Il mondo magico può fi-gurare come «il (al, dal, del, nel, col) Mondo magico»; La terra del rimorso come«la (alla, dalla, della, nella, con la) Terra del rimorso»; La fine del mondo come «la(alla, dalla, della, nella, con la) Fine del mondo». Mentre, dopo una prima indica-zione completa, i testi dal titolo più lungo vengono abbreviati e indicati solo conla parte iniziale. È il caso, per esempio, di Angoscia territoriale e riscatto culturalenel mito achilpa delle origini o di Crisi della presenza e reintegrazione religiosa,che diventano rispettivamente Angoscia territoriale e Crisi della presenza. Salvoindicazioni specifiche o casi particolari, questi criteri vengono applicati a tutta laproduzione demartiniana utilizzata nel corso del presente lavoro.

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Mondo magico-Fine del mondo andata e ritorno:le dialettiche di una riscrittura oltrepassante

La metafora «ferroviaria» che intitola questo testo non è solo ungioco di assonanze. È anche il tentativo di trovare una formula sin-tetica per cominciare a introdurre il discorso sul rapporto di circo-larità che lega a livelli poco visibili Il mondo magico5 e La fine delmondo.6 Nelle dilatazioni che portano l’opera incompiuta a ripie-garsi continuamente sul libro del ’48 e a tentare di riproporne sottoaltra forma gli ardimenti, c’è – la si veda o no – una circolarità co-gente, una logica di rimbalzi ripetuti, che varrebbe la pena esplo-rare e proporsi di rendere esplicita.

Se si continua con la metafora, è naturalmente scontato che ilmovimento di «andata» debba esser fatto coincidere con la progres-sio fisiologica raccontata dallo sviluppo della produzione demarti-niana e dai ritmi cronologici del suo divenire: meno scontato,

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5 Ernesto De Martino, Il mondo magico. Prolegomeni a una storia del magismo,Einaudi, Torino 1948. La seconda edizione è del 1958: riproduce inalterata laprima, ma vi aggiunge una seconda prefazione, un saggio del 1951 (Angoscia ter-ritoriale e riscatto culturale nel mito achilpa delle origini), le recensioni di Croce,Paci, Pettazzoni, Eliade e le “Note conclusive dell’autore” (generalmente notecome “Postilla conclusiva”). Le edizioni successive (la terza, del 1967, e la quarta,del 1973) riprendono per intero la seconda ed escono con la Boringhieri. La quartasi segnala per la prefazione di Cesare Cases. È peraltro la sola a restare in circo-lazione e a risultare facilmente rintracciabile.6 Ernesto De Martino, La fine del mondo. Contributo all’analisi delle apocalissiculturali, a cura e con introduz. di Clara Gallini, Einaudi, Torino 1977. La secondaedizione è del 2002. Ma l’introduzione, notevolmente ridotta rispetto alla prece-dente, risulta cofirmata da Clara Gallini e da Marcello Massenzio.

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invece, è che si possa parlare tout-court di un movimento di «ri-torno» del libro del ’77 e vederlo senza mediazioni come un segnodella continuità tensionale che ancorerebbe la ricerca sulle apoca-lissi culturali ai nodi storicistici ingenerati dal libro del ’48, in unasorta di ripresa allargata e risolvente delle loro metanoie. Certo,parlare del libro postumo come di un libro che, in alcune sue parti,«ritorna» con insistenza al libro sul magismo è scelta che rischia dioperare molte forzature e di apparire già per questo infrequenta-bile: non saprei dire se il normale lettore potrà restare interdetto ese, al di là di questa «normalità», anche i lettori più avvertiti possanoprovare sconcerto. So che l’angolatura privilegiata qui è una miavecchia ossessione e che essa domina fin dagli inizi i lavori mieidedicati al «maestro». Non ignoro, naturalmente che, fin dagli inizi,questa angolatura ha suscitato perplessità e che ha dato luogo adissensi e ad argomentate obiezioni. Nella misura del possibile, neho preso atto, cercando di essere più preciso. Non tanto per ab-bandonare un’ottica che continuo a ritenere feconda, quanto perattrezzare meglio la convinzione della sua applicabilità. Anche seimpalpabile e sfuggente, la circolarità tra le due opere è idea checontinua a corteggiare il pensiero e a imporsi con certa evidenzaalla percezione quando diventa prevalente l’interesse a guardareda lontano l’insieme del corpus demartiniano.

Tutto diventa forse più trasparente se si cerca di ricostruire icontorni di questa circolarità entrando nelle vicende dell’«autocri-tica» e tentando di ritrovare la figura di una linea che ritorna su sestessa in cerchio, secondo una dinamica di ripresa-rilancio volta ariammettere i passaggi inizialmente ritrattati e via via sottoposti a«ri-considerazione». Si potrebbe facilmente cominciare a vedere chela Fine del mondo torna davvero al Mondo magico e ai suoi nodipiù importanti, rovesciando le forme iniziali dell’«autocritica» edando crescente consistenza agli aspetti controdeduttivi che ave-vano cominciato a modificare in modo sostanziale il segno depres-sivo di quell’autodiscutersi. In effetti, la questione della circolarità

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si connette in modo molto stretto alla questione dell’«autocritica»7

e seguire quest’ultima per tutto il corso del suo divenire dialetticosignifica trovarsi coinvolti a poco a poco nella spirale del pensieroche torna sui propri passi, accennando in modo sempre più chiaroal cerchio. Poco importa che l’opera postuma resti in qualchemodo esterna alla processualità di questo farsi e intervenga sull’in-sieme come un suggello finale, molto interessato a chiudere da unpunto di vista prospettico diverso le tensioni tematiche dell’«auto-critica»: quel che conta è che, grazie alla Fine del mondo, il pro-cesso si concluda in modo circolare e che il Mondo magico ne escapienamente riabilitato.

Sappiamo che il processo autocritico viene innescato dalle obie-zioni mosse da Croce e da Paci a quest’ultimo8 e non si esagera sesi afferma che tutta la storia dell’«autocritica» può essere letta comela lunga risposta data da De Martino ai suoi interlocutori. Parlo di«risposta lunga», perché si tratta di una risposta che si articola nel

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7 Come ho cercato di chiarire nel corso di “L’«autocritica» come problema” (lo siveda in appendice al mio Il cerchio e l’ellisse. Etnopsichiatria e antropologia reli-giosa in Ernesto De Martino: le dialettiche risolventi dell’«autocritica», Aìsara, Ca-gliari 2010), è soprattutto il momento iniziale a far pesare anche sugli sviluppisuccessivi l’idea di un’autocritica tendenzialmente ripiegata sulla ritrattazione dellegrandi metanoie del Mondo magico. Malgrado i capovolgimenti controdeduttiviche si incontrano più tardi, il concetto, nelle valutazioni degli interpreti, resta for-temente segnato dagli aspetti acquiescenti delle prime formulazioni. È probabileche, col rendere poco esplicite le dinamiche controdeduttive della «ripresa-rilan-cio», De Martino abbia contribuito in modo consistente agli equivoci che avvol-gono tutte le pieghe del «problema». Certo è, però, che, dopo La fine del mondo,il senso complessivo dell’«autocritica» si chiarisce nelle sue intenzioni di fondo, eche piuttosto improprio risulta considerare «autocritici» anche i momenti specifi-camente impegnati nel riscatto teorico delle metanoie ritrattate.8 A partire dalla seconda edizione (1958) de Il mondo magico, gli scritti di Crocee di Paci a cui sto facendo riferimento sono rintracciabili fra i testi raccolti in ap-pendice.

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lungo periodo e perché passa attraverso fasi differenti. Ma è benetener presente che, formalmente, essa – salvo che nella fase delleammissioni acquiescenti – non è quasi mai una risposta esplicita ediretta e che la funzione-risposta viene perlopiù affidata alla capa-cità assertiva delle cose. Che si tratti tuttavia – e comunque – diuna risposta, viene detto bene dalla natura quasi puntualmentespeculare del ventaglio tematico-argomentativo scelto da De Mar-tino nel suo lungo e controdeducente ripensare i termini della di-scussione sorta allora, quando il Mondo magico era ancora frescodi stampa: questo ventaglio sembra essere rimasto sintonizzato peranni sulle tensioni autodifensive messe in movimento da quegli sti-moli lontani e non c’è difficoltà a convincersi che il punto di par-tenza non è stato mai dimenticato o che, sia pure sottotraccia, ildialogo con gli interlocutori di allora non è mai venuto meno.Qualche notazione-spia presente nella Fine del mondo 9 continuaa confermarlo in modo meno indiretto nella fase più tarda, seb-bene, a quel punto, non esista più la necessità del contendere e letensioni autodifensive abbiano ceduto il passo, già da un po’, allapiena consapevolezza del «rilancio» realizzato.

Ma andiamo per ordine. Converrà ricordare, innanzitutto, qualierano i termini del punto di partenza a cui ci stiamo riferendo ea quali rilievi di Croce e di Paci le vicende – ritrattatorie e no –dell’«autocritica» abbiano cominciato da subito a rispondere. DelMondo magico, non erano piaciuti a quei primi lettori né il tenta-tivo di ricondurre alla storia la genesi del Sé, né il pensare il ma-gismo come l’inizio della storia, né la messa in causa del nostroconcetto di realtà. Se l’ultimo punto non emergeva in forma molto

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9 Si veda, per esempio, la nota 349 a p. 642.

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esplicita e andava a mescolarsi agli altri due, era poi sull’analisidi questi altri due che reagivano con forza le radicate convinzionisocio-etnocentriche dell’«Einstellung culturale dell’occidente» ri-producentisi nell’ottica ontologizzante dei due autorevoli lettori.Stranamente, proprio il creatore dello «storicismo assoluto» trovavainattendibile e teoreticamente poco giustificata la «storicizzazionedelle categorie», sostenendo che non si potesse mettere in causala dimensione del categoriale senza confermare l’apriorità dellastessa o senza portare acqua al mulino della sua necessità onto-logica. Tentare di «storicizzarla», facendola nascere nel caos ancorainformale della processualità empirica, voleva dire non aver te-nuto presente il valore del suo essere principio formante e dun-que finire in modo inevitabile nella pericolosa paradossia dellasua inversione logica. In forma non molto diversa, peraltro, l’as-sunzione del magismo come età storica presupponeva lo stessotipo di inversione e poteva essere considerata come la prima con-seguenza degli adynata illusoriamente osati sul piano delle cate-gorie.

A distanza di tempo, e dopo tanto parlare di questi nodi, è pro-babile che oggi non si abbia più la percezione del microdrammache stava accadendo. Sicuramente ci sfuggono la portata e la forzadi impatto delle obiezioni mosse allora da Croce, e forse ancor piùci sfugge la complessità dello sconcerto che De Martino può averprovato. Se nei suoi tratti prolegomenici il Mondo magico si eraproposto di radicalizzare lo «storicismo assoluto» e di ottenere daisuoi ardimenti metanoetici gli strumenti più adatti per rovesciarenel contrario la nozione di «realtà» prodotta dall’«Einstellung cultu-rale dell’occidente», le obiezioni di Croce si allineavano inaspettata-mente proprio con il formalismo razionalistico di quell’Einstellung,determinando lo snervamento degli aspetti «critici» più qualificantidel libro. In sostanza, venivano colpiti i tratti che erano molto piaciutia qualche solitario hegelo-marxista del momento (penso a RenatoSolmi, grande estimatore di quella lettura demartiniana del magi-

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smo),10 ovvero finivano per essere liquidate tutte le strutture por-tanti dello storicismo radicale posto alla base del progetto prole-gomenico. In effetti, nei rilievi di Croce, la straordinaria angolaturastoricistica dell’insieme si accartocciava attorno al vizio formale diun non-senso e non consentiva che qualcosa, del suo apparato,potesse continuare a sopravvivere in forma dignitosa. Era come sele pagine più oltrepassanti dell’opera appassissero di colpo e di-ventasse impensabile ogni tentativo di restituirle al loro slancio.Per De Martino il senso di solitudine e di abbandono deve esserestato sconfinato. Come nel caso delle sindromi deiettive messe inmovimento da quel «conflitto del profugo» di cui avrebbe parlatoHamer molti anni più tardi...11

Certo, se De Martino avesse avuto meno stima di se stesso,nulla lo avrebbe salvato dagli esiti marasmatici a cui quel conflittopuò dar luogo. Le condizioni c’erano tutte. A salvarlo può esserestata la reazione megalomanocentrica scatenata da quell’improv-viso sentirsi voce solitaria nel deserto. Ovvero il constatare diavere attorno a sé sordità e inadeguatezza o, a dirla in altri termini,di essere in anticipo sui tempi. Almeno su quelli, piuttosto vi-schiosi e lenti, della cultura italiana. Vergognosi, talvolta, persinodelle proprie potenzialità, come stava dimostrando la «salmodiante»regressione scolastica in cui aveva appena finito di prodursi ilpadre dello «storicismo assoluto». Secondo alcuni – Cases12 e, più

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10 Renato Solmi, Ernesto de Martino e il problema delle categorie, «Il Mulino», A. I(1952), n. 7, pp. 315-327 e, più tardi, Introduzione a Theodor W. Adorno, Minimamoralia, Einaudi, Torino 1954, p. LIII.11 Ryke Geerd Hamer, Il cancro e tutte le cosiddette «malattie». Breve introduzionealla Nuova Medicina Germanica, «Amici di Dirk» Ediciones de la Nueva Medicina,Alhaurin el Grande (Spagna) 2004.12 Cesare Cases, “Introduzione” a De Martino, Il mondo magico (1973), passim e,in particolare, p. XXXV.

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recentemente, Angelini13 – De Martino, nel suo rapportarsi aCroce, non si è mai posto in quella posizione di discepolato su-balterno che altri sono portati ad attribuirgli. Anzi. Si potrebbe par-lare semmai del contrario, e la probabilità che la reazione di cuisto parlando abbia qualche fondamento contribuirebbe, e nonpoco, a dimostrarlo. In tal caso bisognerebbe cercare proprio quila prima radice del lungo processo «riparatorio» (il termine è anchein questo caso di Hamer) messo in atto dalle dinamiche terapeu-tiche dell’«autocritica». A parte il traslato hameriano di cui mi stoservendo, molte altre cose potrebbero aiutare a tradurre in questosenso il controllo testimoniato dall’autore del Mondo magico nelgestire la situazione apertasi immediatamente a valle dei rilievicrociani. Il fatto che, in antitesi alla più normale tentazione mara-smatica di rinunciare a tutto, De Martino scelga la possibilità dia-lettica di non rinunciare a nulla, accettando naturalmente l’obbligodi mediare adeguatamente le condizioni di questa scelta, è già undato che parla in modo significativo del suo proposito di non de-mordere e di continuare a mantenersi all’altezza degli hasards teo-rici del libro sul magismo. Croce è certo un ingombro inaggirabilee, per il momento, la possibilità di procedere per la strada intra-presa passa in modo necessario attraverso la metis dell’acquie-scenza. Ma si tratta di un’acquiescenza sostanzialmente formale.Quando affiora, è solo ufficialmente dichiarata e di fatto non siaccompagna a qualche forma di acquiescenza in grado di condi-zionare le angolazioni storicistiche della ricerca. In realtà, nessunlettore demartiniano ha mai percepito il venir meno di qualchecosa o il flettersi dei registri che reggono il taglio metanoetico delMondo magico.

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13 Pietro Angelini, Ernesto de Martino, Carocci, Roma 2008, p. 50.

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Credo che si possa capire tutto questo se si entra un istantenello spazio della metis e tra le pieghe che nascondono le sue astu-zie.14 Entrare qui vuol dire, peraltro, entrare tout-court negli spazidell’«autocritica» appena avviata e imbattersi subito nella fase chealtrove chiamo «depressiva». Si tratta della fase iniziale, ovvero dellafase che ha fatto pensare a un De Martino remissivo e molto pro-penso a rientrare senza resistenze nei territori dell’ortodossia cro-ciana di provata fede. Non è un caso che i segni di tale «autocritica»,quando appaiono, abbiano proprio il sapore autosacrificale degliauto da fé e consentano di parlare di una resa senza condizioni.Sebbene in modo ancora implicito, vi si imposta la decapitazionedelle metanoie più avanzate della radicalità storicistica di quei «pro-legomeni» e cominciano a dispiegarvisi le ritrattazioni apertamentericonosciute più tardi da alcuni testi appartenenti alla fase succes-siva. Accanto e al di là delle tesi che assumevano la magia comeinizio della cultura e della storia, è sicuramente la «storicizzazionedelle categorie» il nodo metanoetico più sottoposto ai processi dismantellamento messi in cantiere da questo sacrificale ritrattare.

La fase di cui stiamo parlando può essere fatta partire dall’intro-duzione a L’origine dei poteri magici di Durkheim, Hubert eMauss,15 uscito nella «collana viola» nel ’51, e può essere data perchiusa nel ’56, anno di apparizione di Crisi della presenza e reinte-

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14 Il termine metis ricorre con frequenza nelle mie letture demartiniane. Con essoho sempre inteso riferirmi agli aspetti aggiranti e, in qualche modo, «astuti» delletessiture argomentative che strutturano la maggior parte della produzione sorta avalle del Mondo magico. Non a caso lo traggo da Marcel Detienne e Jean-PaulVernant (Le astuzie dell’intelligenza nell’antica Grecia, Laterza, Roma-Bari 1978)che mostrano come, nel linguaggio dei classici, la parolametis, accanto alle «astu-zie dell’intelligenza», designasse anche accortezza, senno, capacità di destreggiarsicon abilità nelle situazioni difficili.15 Emil Durkheim, Henri Hubert e Marcel Mauss, Le origini dei poteri magici, Ei-naudi, Torino 1951.

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grazione religiosa,16 che segna l’inizio di un’altra fase. Non è dun-que una fase breve: anzi, proprio perché è la fase che va prepa-rando in silenzio il piano strategico delle fasi successive, essa ènecessariamente lunga e laboriosa, oltre che tormentata. È per ec-cellenza la fase della metis, o almeno la fase in cui la metis parla illinguaggio ufficiale dell’abiura e, implicitamente, della «depressività».Qui De Martino investe molto sul piano tattico: a parte i mea culpaindiretti espressi nell’introduzione del ’51, direi che egli ricorre senzamezzi termini a forme di acquiescenza molto esplicita, mostrandodi aver fatto tesoro di quel surplus di ortodossia storicistica impar-titogli da Croce. È quello che accade, per esempio, nel tessuto diFenomenologia religiosa e storicismo assoluto,17 del ’53-’54. Difficilenon vedere quanto, in questo testo, De Martino tenda a collocaresotto il segno della più pura tradizione crociana le pieghe del pro-prio storicismo. Addirittura le fa coincidere con quelle dello «stori-cismo assoluto». Dubito molto, infatti, che la presenza di questalocuzione nel titolo voglia essere un rimando solo a Croce e nonanche alle posizioni che egli va mostrando di sé. Rinunciare al pro-prio radicalismo, al fine di ritrovare credito sul piano di quella or-todossia, non è cosa che abbia da restare segreta: direi anzi che,all’interno di queste pieghe, è la funzione manifesta più destinata adiventare ufficiale.

Ora però, se nei passaggi ritrattatori che stiamo attraversando lafunzione manifesta più visibile ha da essere questa, è innegabile cheil suo senso debba essere rintracciato più in là. Senza una ragione

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16 Ernesto De Martino, Crisi della presenza e reintegrazione religiosa, in «Aut-aut»,6, 1956, pp. 17-38.17 Ernesto De Martino, Fenomenologia religiosa e storicismo assoluto, in «Studi eMateriali di Storia delle Religioni», 24-25, 1953-54, pp. 1-25. Lo si veda ora in Er-nesto de Martino, Storia e metastoria. I fondamenti di una teoria del sacro, intro-duzione e cura di Marcello Massenzio, Argo, Lecce 1995.

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«altra» – decisamente altra da quella ufficialmente dichiarata – reste-rebbero enigmatiche (e abbastanza prive di direzione) le premureche De Martino mostra di avere nei confronti di quel suo mettersi inposa accanto a Croce. Tanto più che ci si potrebbe immediatamentechiedere perché mai, in vista di un obiettivo così modesto, l’autoredel Mondo magico, accetti di pagare un prezzo così alto. In realtà,la cosa che veramente conta non sta in questo dar da vedere di es-sere rientrato nei ranghi: sta semmai nella ragione che rende strate-gicamente necessaria questa visibilità dell’apparire. Dietro lafunzione manifesta di cui stiamo parlando, c’è di fatto la funzionelatente delle sue ragioni più vere, lo scopo inespresso di questo sa-crificale allinearsi. Esso è dato dal bisogno di evitare il naufragio diquella parte del Mondo magico che era uscita stranamente indennedalle letture recensorie dei suoi primi interpreti e che sopravvivevaal naufragio di tutto il resto, in una situazione di buona autonomia,ancora suscettibile di sviluppi fecondi. Non si trattava, certo, di unaparte inequivocabilmente «blindata» e tale da allontanare da sé le oc-chiute ronde della critica. Intrisa com’era di apporti fenomenologicie di suggestioni heideggeriane, De Martino sapeva bene quantopoco bastasse per ritrovarsela tra le mani come oggetto incriminatoe messo in causa in quanto prova di irrazionalismo: nel clima di cac-cia alle streghe che avvolgeva la cultura italiana di quel secondo do-poguerra (e lui stesso, non meno di Vittorini, ne aveva già fattoesperienza), non era pensabile l’idea di lasciare senza adeguata tutelaun insieme ermeneutico così delicato. Occorreva trovargli subito unricovero sicuro, uno scudo protettivo di provata efficacia: soprattuttooccorreva cercare di battere sul tempo i possibili detrattori: che po-tevano essere molti e nient’affatto imprevedibili: oltre che dagli spazidella sinistra zdanovista, le accuse di irrazionalismo potevano arri-vare dagli spazi dello stesso crocianesimo.

Da questo punto di vista, Fenomenologia religiosa è un testoesemplare: oltre che paradigma della fase «depressiva», esso è unaeccellente dimostrazione della dialettica che si viene a instaurare

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tra la funzione manifesta di quel ritrattatorio ritorno a Croce e lafunzione latente che esso mira a realizzare. Le prove di crocianitàesibite qui hanno lo scopo di proteggere le posizioni ermeneutichedi De Martino dal rischio di poter apparire come una posizione fe-nomenologica assimilabile al fenomenologismo delle posizioni divan der Leeuw, che costituiscono l’oggetto-pretesto del saggio. De-vono cioè costituire la sponda di appartenenza teorica in grado dilegittimare il gioco di distanziamenti che il discorso tende a metterein luce tra un «capire fenomenologico» storicisticamente consape-vole (quello che De Martino attribuisce a se stesso) e un «capirefenomenologico» esposto al rischio della «partecipazione mistica»(quello che viene attribuito, invece, al fenomenologismo di cui vander Leeuw è sostenitore). La funzione latente di quel «crocianeg-giare» demartiniano risponde dunque al bisogno di stornare dallaparte del Mondo magico rimasta incolume (a cui implicitamente siallude) quelle stesse accuse di irrazionalismo che l’autore del sag-gio sta muovendo a van der Leeuw.

Ma qual è la parte del Mondo magico di cui stiamo parlando edi cui, in concreto, non abbiamo detto ancora nulla? Che cosaspinge De Martino a ritenerla irrinunciabile e a tentarne a tutti icosti il salvataggio?

Questa parte, come verrà chiarito dalla «postilla conclusiva»18 chechiude la seconda edizione del libro (quella del ’58), è l’insiemedell’apparato ermeneutico che accompagna il nesso «crisi della pre-senza-riscatto»: anzi, è tout-court quest’ultimo. De Martino, per di-stinguerlo dalle parti ritrattate, lo chiama il «nucleo valido», ovverola parte ufficialmente ancora futuribile di quel progetto prolegome-

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18 Quelle che si usa ormai chiamare «postilla conclusiva» sono le «Osservazioniconclusive dell’autore» che chiudono la seconda edizione (1958) de Il mondo ma-gico. Le si veda qui, alla p. 313.

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nico. È sicuramente il versante più nuovo e più spiccatamente de-martiniano del libro, e anche dal punto di vista terminologico apparecome una creazione straordinariamente ricca di risorse analitico-in-terpretative: non stupisce che, già per questo, l’autore potesse vo-lerne in modo strenuo la durata. Del resto, la problematica della«presenza», che verrà dispiegandosi senza sostanziali mutamenti sullamaggior parte della produzione data alle stampe, incontra proprioqui la messa a punto che la ha resa celebre, o almeno la definizioneche comincia a proporla nella forma più organizzata. È evidente chechiamarla solo «nucleo valido» significherà limitarsi a designarla soloin rapporto alle cose che cadono e schermirsi sul valore reale dellasua portata: ma certo non è senza senso che, nella critica, tale desi-gnazione sia riuscita a sopravvivere alla banalità della propria formae a diventare tout-court l’equivalente del contenuto che designa:vuol dire che la pregnanza del contenuto ha avuto il potere di im-pregnare di sé quell’involucro e a caricarlo di una forza evocativain grado di oltrepassare le dissimulazioni riduttive dell’originarioschermirsi. Forse non è inessenziale notarlo, se ci preme far risaltareanche in modo indiretto l’importanza di questi aspetti. Tuttavia sifarebbe torto proprio a questa importanza nel caso non si portasseil discorso sul terreno delle cose che la spiegano.

Il farsi magico della «presenza» è già dentro il nodo della «stori-cizzazione delle categorie» e anzi, dal punto di vista teorico, ne co-stituisce il presupposto di fondo, sebbene, sul piano pratico, siconfiguri come il primo effetto di quella impostazione metanoetica.Per poco che si entri tra le maglie dell’insieme, si capisce subito,per esempio, che nello schema fondamentalmente hegeliano dellibro esso funziona come il punto di inizio del racconto che mettecapo al Sé. In realtà, è proprio dalle incerte dinamiche di questo fa-ticoso «farsi» che incomincia il distacco dalla immersione coinonicanella natura. Tutto ruota attorno al fulcro di questa «presenza-pro-blema» e il «dramma magico» si dispiega per intero sotto il segnodelle sue vicende «critiche», fino a disegnarsi come l’incipit di qual-

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che elementare abbozzo di «storia». È l’incunabolo di una genesi: diquella dello «spirito soggettivo», se si torna alla Fenomenologia diHegel; di quella del «Sé in via di formazione», se si resta a De Mar-tino. Il suo ruolo nel progetto di «storicizzazione delle categorie» èevidente, e si capisce come i suoi primi interpreti possano aver coltoprima di tutto il senso proiettivo di questo ruolo, prestando pocointeresse alle condizioni «accidentali» del suo progettarsi. E non acaso. Va infatti notato, come aspetto importante, che il «problema-presenza» si sviluppa in modo sempre più intenso sui versanti delnesso «crisi-riscatto» e che i suoi tessuti costitutivi si formano di pre-ferenza nelle situazioni più caratterizzate dalle dialettiche reiterativedelle funzioni simboliche. Gli effetti più vistosi sono, da una parte,l’impressione di un relativo sganciamento del nesso «crisi-riscatto»dal piano teorico più direttamente convergente sul tema delle cate-gorie, dall’altra, l’impressione di una lateralità separata di tutta laparte dominata da un linguaggio che è già quello storico-religiosoriservato al mondo del mito (e poco importa che si tratti ancora dimicromitologie). Accade così che, se il processo del distacco meta-coinonico appare strettamente legato alla metanoia destinata a ca-dere, la vicenda messa in campo dalla «presenza-in-crisi» cominciainvece a svilupparsi in una sua autonomia, ritagliandosi spazi chenon verranno trascinati nel gorgo delle ritrattazioni.

Negli sviluppi della metis questa circostanza assume un rilievonevralgico. De Martino sfrutterà a fondo lo spazio-differenza checonsente ai due versanti del «problema-presenza» di non coinciderein toto. Affidandosi all’involucro di un’apparenza che nessuno haancora pensato di lacerare, egli cercherà di trasferire sul «nucleo va-lido» del Mondo magico le dinamiche storicizzanti delle metanoieche ha accettato ufficialmente di ritrattare. E si deve all’uso ininter-rotto di questo «nucleo» se gli effetti dell’«autocritica depressiva» nonarriveranno mai a diminuire la qualità decisamente alta delle cosedemartiniane apparse a valle di quelle ritrattazioni. Qualcuno haaddirittura sostenuto che la realtà di queste ritrattazioni sta solo nei

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passaggi demartiniani che ne parlano ufficialmente: per il resto,neppure i testi che avrebbero dovuto restarne più segnati ne con-servano qualche visibile traccia. La cosa, a mio avviso, è in granparte vera. Tuttavia, che l’operazione di trasferimento sia riuscitabene non deve appiattire in un eclissamento il gioco delle ritratta-zioni: la stessa operazione del trasferire le presuppone in modo ne-cessario. Dopo le notazioni critiche di Croce, esse non avrebberopotuto non esserci: sia dal punto di vista di un inevitabile dovertornare sui punti incriminati, sia dal punto di vista dei percorsi tatticiche la metis aveva cominciato a elaborare, il loro prodursi si erapresentato da subito in forma cogente. La sola via d’uscita, in quelmomento, poteva esser data dalla possibilità di trasformare in «virtù»le strette di un passaggio obbligato. Resta il fatto che il «nucleo va-lido», senza modificare nulla della propria struttura, diventa a pocoa poco un Ersatz o un provvisorio luogo di tramite-continuità inca-ricato di far passare sotto altra forma le cose che non potevano piùessere dette nel linguaggio delle metanoie messe al bando.

È dunque per questo che De Martino si precipita a metterlo insalvo e a rafforzarlo sui lati che avrebbero potuto esser presi d’as-salto. La sua funzione di ponte diventa insostituibile e tutta la fasedell’«autocritica depressiva» lavora con certa alacrità alla sorve-glianza armata di questo ponte.

A questo modo, dunque, cominciano a sbloccarsi le impassesdella prima ora e a diventare sempre più numerose le «fermate»che segnano il procedere del movimento di «andata». Tutta la sta-gione che va dal ’48 al ’56 è ricchissima di prepotenti affermazionidel «nucleo valido». Si pensi a cose come Note lucane,19 Angoscia

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19 Ernesto De Martino, Note lucane, in «Società», 5, 1950, pp. 650-667. Ora anchein Furore Simbolo Valore, Il Saggiatore, Milano 1962.

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territoriale,20 Note di viaggio,21 o a cose come quelle destinate aconfluire nel libro sul lamento funebre: delle metanoie rigettatenon c’è più traccia, ma non se ne sente neppure la mancanza:segno che la capacità di riempire quel vuoto, da parte del «nucleovalido», ha una consistenza reale. Ma, se il lettore non avverte di-sagio e vive questo «andare» come un prolungamento del Mondomagico, De Martino freme. Anche se generoso e ricco di risorsenel suo sforzo di traghettare il senso mutilato, il «nucleo valido», suquesto piano, è pur sempre un Ersatz. Gli mancano gli orizzontidella teoria. Allude più di quanto non dica e, in questo doversi li-mitare solo ad alludere per non poter anche dire, sta la sua debo-lezza.

Le cose cominciano a cambiare, però, nel ’56, quando appareCrisi della presenza e reintegrazione religiosa. Il testo della «svolta».Qui l’«autocritica» compie un salto di una certa importanza: dallafase «depressiva», passa a una fase che potremmo chiamare «con-trodeduttiva». Se è vero che il controdedurre è generalmente unopporre argomenti ad altri argomenti, è sicuramente di natura con-trodeduttiva il tipo di discussione che De Martino contrappone alladiscussione recensoria dei suoi primi interpreti. Dopo aver am-messo in termini espliciti (cosa del tutto nuova) la «fondatezza» deirilievi sollevati dai suoi recensori, dimostrando ancora una voltaacquiescenza e ampia concessività, l’autore del Mondo magico im-bocca un sentiero argomentativo che non è frontalmente contesta-torio, ma comincia ad avanzare considerazioni destinate a

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20 Ernesto De Martino, Angoscia territoriale e riscatto culturale nel mito achilpadelle origini. Contributo allo studio della mitologia degli Aranda, in «Studi e ma-teriali di Storia delle Religioni», XXIII, 1951-52, pp. 51-66. Lo si veda ora nella se-conda edizione einaudiana (1958) de Il mondo magico e nelle successivepubblicate dalla Boringhieri.21 Ernesto De Martino, Note di viaggio, in «Nuovi Argomenti», 2, 1953, pp. 47-79.

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indebolire – e non poco – i presupposti teorici di quei rilievi. Uninnocente (in apparenza) e neutro «tuttavia», posto alla fine del di-scorso concessivo, avverte il lettore che il senso di marcia si sta in-vertendo. E per quanto De Martino lo faccia in modo attenuante emolto garbato («tuttavia», come avverbio avversativo, è semprequello che vorrebbe avversare di meno e smussare di più), la svoltache si determina assume già da subito il sapore di una virata deci-siva. Si modifica di molto, per esempio, lo scenario delle condizionientro cui la discussione sul Mondo magico si era svolta. Se Crocee Paci avevano prevalentemente parlato della categorialità del Sériferendola a un soggetto individuale assoluto (a un «soggetto senzamondo», avrebbe detto Heidegger), De Martino, senza abbando-nare del tutto l’ambito di questo soggetto individuale, sposta il di-scorso sui fronti della cultura e della storia, scegliendo di entrarecriticamente nel terreno presupposto all’ottica dei loro rilievi. Ov-vero lo fa convergere proprio sui luoghi in cui, ben più acquisitoe più consolidato che nella cultura magica, il Sé si sente realizzatoo, a dirla con Hegel, «si sente a casa propria».

Il primo passo «controdeduttivo» muove, naturalmente, in dire-zione di questo nodo. È un modo di dare continuità logica allaesposizione del contenzioso riguardante il libro del ’48 e di situareil discorso nello spazio delle sintonie frequentate dai due interlo-cutori. Sicuramente, però, è anche un modo di agganciare il temadel Sé per cominciare a fletterlo verso un altro punto di vista e sot-trarlo, così, all’angolatura prospettica dominante in quelle sintonie.

Nelle osservazioni di Croce e di Paci, una contraddizione delmodo demartiniano di porre il problema della «presenza» era datadalla sua «pretesa» di farla nascere come risultato del suo stessoagire, ovvero come sintesi a posteriori di un’esperienza che, perpoter essere tale, non avrebbe potuto fare a meno di presupporla.A vietare la possibilità di questa inversione e a farla diventare unaparadossia, c’era il fatto che l’unità della presenza non è separabiledalle forme del suo articolarsi e che impensabile sarebbe l’idea di

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un «taglio» fra il centro cosciente di questo articolarsi e le sue arti-colazioni. Anche se detto in modo implicito e dentro argomenti dinatura prevalentemente logica, il sostegno ontologico di queste os-servazioni non era certo dissimulato. Come lasciavano ben capirele insistenze sulle prerogative categoriali del Sé, esso finiva per es-sere – anzi – il dato teorico più rilevante di quell’argomentare esappiamo che il sacrificio delle «pretese» metanoetiche del Mondomagico si era in gran parte compiuto sull’altare delle istanze aprio-ristiche fatte valere dai due illustri lettori. Restava però nell’ombra,in tutta la fase «depressiva» dell’acquiescenza demartiniana, la que-stione del «taglio»: a essa la concessività degli episodi autocriticiche abbiamo attraversato non sembrava accordare una esplicita at-tenzione. È vero che in qualche passaggio indiretto (per esempio,nell’introduzione del ’51) De Martino aveva mostrato di essere ac-quiescente persino su questo punto, tuttavia il consenso alla tesisull’impossibilità di questo «taglio» sembrava essere tale solo sulpiano logico e non sembrava estendersi anche al piano delle sueimplicazioni ontologiche. Formalismo per formalismo, benché am-biguo e poco definito, il silenzio sull’impossibilità ontologica diquel «taglio» c’era e poteva essere constatato. In tutti i casi, qualeche fosse lo status del suo consistere, l’assenza di un pronuncia-mento esplicito in questa direzione era adesso la cosa che occor-reva di più: gli consentiva di non restare impigliato in un mea culpaimbarazzante e di tornare all’argomento quasi ex novo, come sequel punto non avesse mai fatto parte delle cose ritrattate. Glis-sando un po’ sulle vecchie compromissioni, De Martino deciderà,non a caso, di far partire da qui l’autodifesa «controdeduttiva», cer-cando di ribaltare a suo favore una delle argomentazioni a caricopiù stringenti.

Crisi della presenza fa dunque fulcro su questo particolare nodoe contrattacca gli argomenti dei due interlocutori, ponendo qualchedomanda. Ma il procedimento del contro-argomentare si presentasignificativamente rovesciato: dall’individualità della persona ma-

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gica si sposta all’individualità del soggetto messo in campo dagliapriorismi di Croce e Paci. È proprio vero che l’unità del Sé e dellasua autocoscienza non patiscono i «tagli» lamentati a proposito delMondo magico? O meglio, si è sicuri che, anche nelle situazionipensate come le più solide, non esista il pericolo della estraneitàdel Sé a se stesso? In antitesi alle sicurezze ostentate dalla sicumeradel Sé socio-etnocentrico, le scienze del psichico parlano propriodel contrario e lasciano capire quanta fatica costi mantenersi all’al-tezza dell’unità trascendentale dell’autocoscienza. Da Janet a Freud,l’ampiezza delle dissociazioni a cui si può essere soggetti è unacontinua smentita del linguaggio categoriale entro cui l’enfasi delSé-divenuto ama raccontarsi, e non c’è dubbio che, in luogo di una«presenza» rocciosamente stabile, si abbia perlopiù una «presenza»a rischio. Anche quando non si mostra palesemente in atto, il «ta-glio» continua a essere una minaccia incombente e nulla può ga-rantire l’approdo definitivo a una condizione di fuori pericolo. Difatto, se ci si guarda attorno, non occorre molto per accorgersi chela supposta solarità del Sé categoriale è più velata di quanto non sipensi, o per accorgersi che basta davvero poco per oscurare deltutto la sua luce. Del resto, al di là della malattia mentale vista comerischio accidentale, Hegel aveva già individuato nella normale fi-siologia dello Spirito la presenza di dinamiche dissociative e alie-nanti. La fissazione nella particolarità che può impigliare il«sentimento di Sé» (la «presenza»), impedendogli di oltrepassare lasituazione critica polarizzante, è già un «taglio» che interrompe lacomunicazione dialettica del Sé con se stesso e la rende impermea-bile al mondo. Perché stupirsi, allora, se nell’età magica la «pre-senza» in fieri viene vista come una condizione bilanciata tramomenti di precaria conquista e momenti di riflusso nel coinonico?

Quest’ultima domanda è nelle intenzioni di De Martino, ma nonviene posta. La strategia «controdeduttiva» del saggio non prevedepassaggi tattici di scontro frontale e preferisce tessere trame di lentoavvolgimento aggirante. Alla disontologizzazione dei termini coin-

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volti in quei problemi, il controdedurre sceglierà di arrivare a pic-coli passi, disinnescando e smontando dall’interno, piuttosto chetentando di trarre già da subito le conclusioni del suo tessere.

Fin qui, dunque, il problema della «presenza» e della sua stori-cizzabilità, oggetto, l’una e l’altra, del primo passo «controdedut-tivo». A questo punto, naturalmente, il secondo passo. Quello indirezione della storia e della cultura. Il paesaggio cambia in misurasensibile, ma il nodo da sciogliere non è diverso: continua a essereancora quello del «taglio» e della sua impossibilità ontologica.

Legate come sono alla dimensione-tempo, nemica irriducibiledella metafisica, la storia e la cultura non parlano quasi per nullail linguaggio dell’ontologia: in modo puntuale e inoppugnabile nesmentiscono anzi la sicumera, provando che il «passo eroico» dellastoria che avanza è un passo continuamente minacciato dal rischiodi possibili regressioni. Parlare della storia vuol dire parlare soprat-tutto della sua «debolezza» e neppure per le età notevolmente dive-nute o apparentemente esenti da problematiche drammatizzazionidell’«in-esserci» è possibile parlare di qualche ragionevole distanzadalle sindromi di questa «debolezza». Forse, l’idea di progresso cheaccompagna normalmente la nostra idea di storia ci aiuta a ma-scherare in qualche modo e a rimuovere gli elementi che parlanodella sua precarietà: né è forse un caso che la cultura occidentalesi sia attribuita apotropaicamente un destino di crescita lineare fattoapposta per accordare poco spazio alla possibilità del contrario: iltelos che nasceva sotto segno cristiano, prima che un segno ditrionfo, era forse già il segno di una necessità esorcistica. Di fatto,come prova l’ecumenicità del bisogno di metastoria che caratterizzale culture umane, il bisogno di compensare in cielo ciò che è ca-rente in terra non è cosa che possa deporre a favore dell’impossi-bilità ontologica di un «taglio». La ricerca di una protezionemitico-numinosa della condizione quotidianamente immersa nelleincognite del tempo dimostra, anzi, che l’Erlebnis più frequentedella mondanità è proprio quella che nasce dal senso di una fini-

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tudine «tagliata» e «gettata nel mondo», preda all’evenemenzialitàpiù rischiosa e alla morte. In fondo, con le sue risorse suturanti, lareligione è forse il documento più testimoniale dei «tagli» esistenzialisofferti dalla storia. La «reintegrazione religiosa» di cui parla il titolodel saggio ha il suo correlato più reale in una «crisi della presenza»,che non è più solo di natura soggettiva, ma si estende alle struttureintersoggettive della cultura e della storia. A patire la precarietàdell’«esserci» non è solo l’individuo isolato: prima di lui e attraversodi lui anche gli insiemi collettivi e comunitari fanno drammaticaesperienza della fondamentale insicurezza che inerisce al semplicetrovarsi trascinati senza difesa nel flusso del divenire. Non per nullagli approdi agli orizzonti della metastoria che hanno segnato le cul-ture umane sono sempre stati di tipo collettivo e hanno parlato illinguaggio, tutt’altro che privato, di un «male di vivere» di volta involta specifico e diverso solo per l’accento. Verrebbe da chiedersia questo punto se, piuttosto che della impossibilità ontologica del«taglio», non si debba parlare più propriamente della ontologia chelo fa essere, sempre e dovunque, un ineliminabile incombere. Ov-viamente, anche qui, come nel caso della possibile qualità esorci-stica del telos occidentale, De Martino non pone domande esplicite:ma certe valenze sporgono con forza dalle traiettorie del suo diree chiedono di trovare il loro completamento nella mente del let-tore. La tecnica di un suggerire che dica «più in là» della parolaaperta è parte sostanziale del regime tattico che accorda allo svi-luppo del saggio solo percorsi calcolatissimi ed essenziali.

Tutta la parte dedicata alla «reintegrazione religiosa» è, senzadubbio, sotto questo segno tattico e entra in campo come unaspetto di grande peso metaforico. Quanto più dice di sé (e sitratta, è bene notare, di uno dei luoghi demartiniani più riusciti perciò che riguarda l’esposizione del nesso «crisi-riscatto»), tanto piùessa dice del «taglio» che segna l’esperienza depressiva della stori-cità. E agli argomenti che, dalla «crisi della presenza» individuale,erano passati alla «crisi della presenza» della/nella storia, essa ag-

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giunge un surplus argomentativo particolarmente ricco di auto-noma pregnanza. Come se dovesse appartenerle il potere di riu-scire a tenere aperto il problema della «debolezza della storia»anche nel caso che una certa quantità di prove contrarie tentassedi riportare il discorso alla falsa coscienza di cui si è spesso nutrital’enfasi del «passo eroico». In realtà, il discorso storico-religioso sidiscosta di molti gradi dal discorso ingenuamente ontologico del-l’umanesimo più compiaciuto di sé e sa di potergli contrapporrequella consapevolezza della «criticità» del mondo che i retaggi an-tropocentrici della tradizione egemonica occidentale hanno messoin ombra. Probabilmente non è un caso che l’interesse di De Mar-tino per le problematiche religiose diventi, a partire da qui, semprepiù forte e si faccia determinante nella scelta disciplinare che loporterà a volersi più storico delle religioni che etnologo.

Di questa consapevolezza, il saggio demartiniano del ’56 è pro-fondamente permeato e certo non potrà sfuggire che le eccedenzedi questo surplus ricadono senza perdite sull’oggetto del primopasso «controdeduttivo». Che è un luogo importante – come ab-biamo visto – della strategia volta a ristabilire le condizioni legitti-manti della ritrattata «storicizzazione delle categorie». Malgrado laforma ancora ellittica, il cerchio di questo controargomentare sichiude, lasciando al lettore demartiniano un forte sapore di auto-difesa e, al tempo stesso, di riavvio.

Ma torniamo sui nostri passi. Sul piano dell’«autocritica», cheprospettiva si apre dopo questa svolta del ’56? Ovvero, sotto il suopeso, accade qualcosa di rilevante nel percorso di «andata» a cui facenno la metafora ferroviaria del nostro titolo? Direi di si. Qualcosadi importante comincia ad accadere. Per come si muove e per iltipo di intenzionalità che lascia avvertire, Crisi della presenza con-sente di affermare che la forma del suo «andare» è già un andareche volge al «ritorno». La forma, sappiamo, è ancora molto cauta eimplicita, ma non così cauta e così implicita da impedire che si in-

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travedano qua e là le céntine che annunciano il tornare su di sé,in «cerchio», del movimento lineare dell’«andata». La Fine del mondoè certo lontana, ma il percorso di «ritorno» su cui verrà a rovesciarsitutta la sua capacità di risarcimento è in gran parte già presentenelle dinamiche «controdeduttive» di questo saggio.

Uno strano documento indiretto dell’importanza reversoria diCrisi della presenza è la «postilla conclusiva» che chiude la secondaedizione (1958) del Mondo magico. La si ritiene, generalmente, unodei luoghi più «confessi» dell’«autocritica», soprattutto perché dra-stica e senza mezzi termini vi risulta la ritrattazione delle metanoiepiù importanti del Mondo magico, ma sorprendente appare e psi-cologicamente enigmatica l’assenza di dramma che si accompagnaa una dichiarazione così grave. È vero che De Martino sta rendendodiretta e ufficiale un’ammissione già più volte fatta in forma indi-retta e ufficiosa, tuttavia quell’assenza di trasalimenti continua aporre problemi e ad apparire essa stessa un movimento tattico dellametis. Senza le soggiacenze di quest’ultima, in effetti, sarebbe dif-ficile spiegarsi la «tranquillità» di un passaggio ritrattatorio di quellaportata. In realtà, i termini del nodo che complica la «postilla» sonogià in gran parte noti e andrebbero semplicemente richiamati daicontesti che li contengono. Da una parte, nel suo dare molta visi-bilità a un sacrificio destinato a proteggere il «nucleo valido», la «po-stilla» è una sintesi brachilogica di Fenomenologia religiosa;dall’altra, nel suo riferirsi senza dramma a questo sacrificio, essaha dietro di sé le sicurezze di Crisi della presenza. È come se i dueaspetti dell’autocritica – quello «depressivo» e quello «controdedut-tivo» – si combinassero qui in una sintesi-bilancio del processo incorso e cominciassero a chiarirsi l’uno dentro l’altro (non è un casoche sia stato proprio l’obbligo ermeneutico imposto dalla «postilla»a stimolare il tipo di lettura che abbiamo applicato a Fenomenolo-gia e a Crisi). Quel che cambia – e che costituisce la vera novitàdelle «Osservazioni» del ’58 (il titolo vero della «postilla» è appunto«Osservazioni conclusive dell’autore») – è il tono, l’aumento di vo-

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lume che lo fa salire sensibilmente. Perduta gran parte delle vela-ture che lo rendevano sommesso nei testi precedenti, esso ha orala chiarezza di una progettualità definita. L’impianto tecnico di que-sta progettualità deriva quasi per intero da Fenomenologia religiosae continua a parlare il linguaggio depressivo-aggirante di quellametis, ma la sicurezza dell’investire sull’Ersatz del «nucleo valido»ha dietro di sé le risorse «controdeduttive» di Crisi della presenza esa già di poter trovare altra via per tornare senza perdite ai luoghidi partenza. Da questo punto di vista, lo schema tattico della «po-stilla» sta nel ripiegare su Fenomenologia per poter proseguire me-glio Crisi e andare anche più in là delle sue posizioni. In sostanza,perciò, il rammarico dei lettori demartiniani della prima ora (sipensi a Solmi) non può essere anche un rammarico di De Martino.Il tutto, per lui, è già dentro una traiettoria aggirante – e al tempostesso di «ritorno» – e poco senso avrebbe esigere da lui un drammavero o diverso da quello di una compunzione che può essere util-mente recitata.

Dicevamo di un tono nuovo, ma dovremmo anche parlare diciò che lo rende tale e lo fa essere diverso. Dovremmo, per esem-pio, non trascurare la dimensione proiettiva che lo regge e che lomotiva nella sua progettualità. Direi che in quel Mondo magico1958, quasi contemporaneo peraltro all’uscita di Morte e pianto ri-tuale, i termini di un possibile movimento di «ritorno» sono giàqualcosa di più che un semplice abbozzo progettuale. È come secominciasse già a esistere l’attesa di un momento opportuno, diun kairòs ophélimos adatto alla ripresa-rilancio delle metanoie de-capitate e pronto a gettarsi senza vincoli sui sentieri del «ritorno».Rispetto a Crisi della presenza, è forse proprio questo senso di unkairòs intravisto la cosa che costituisce la vera novità. Esso ha certomolti debiti col testo del ’56 e sicuramente non sarebbe riuscito aingenerarsi se le pagine di due anni prima non gli avessero apertoil varco: ma, in decisione e determinatezza, lo scarto in avanti chesi viene precisando ora non è di poco conto: produce, se non altro,

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un’idea più nitida e più organizzata dei percorsi che è ancora ne-cessario fare per arrivare senza strappi clamorosi alla riabilitazionetotale delle parti ritrattate.

L’attesa di un kairòs imminente è diffusa in tutta la «trilogia» e siaccompagna in modo molto stretto all’uso del «nucleo valido» comeErsatz. Per esempio, in risposta al bisogno di non far sentire lamancanza delle cose cadute, le prove fornite da Morte e pianto ri-tuale 22 e dalla Terra del rimorso 23 sono straordinariamente efficacie, anche se nel primo di questi due e in Sud e magia 24 non man-cano ritorni alla concessività, si avverte bene che la funzione dia-lettica della loro dinamica autocritica è sotto il segno delledisinvolture senza dramma che definiscono le consapevolezze della«postilla».

Tuttavia, la ricerca del kairòs è forse più presente nelle cose chela dichiarano di meno che non nelle cose interessate a renderla vi-sibile. Il caso dell’infittirsi degli aspetti tematici legati al problemadella «debolezza della storia» è, da questo punto di vista, esemplare.Sembrerebbe che il tratto dominante di questi versanti sia soloquello riguardante lo smantellamento dell’ontologismo che si eravoluto contrapporre alla «storicizzazione delle categorie», piuttostoche non anche quello riguardante il bisogno di trovare il passaggiopiù giusto per far esplodere la frontalità «controdeduttiva» del pro-getto «ripresa-rilancio»: ma, se ci si rifà ancora una volta alla distin-zione tra funzione manifesta e funzione latente, non è difficile

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22 Ernesto De Martino, Morte e pianto rituale nel mondo antico. Dal lamento pa-gano al pianto di Maria, Einaudi, Torino 1958. La seconda edizione è del 1975ed è boringheriana. Per espresso desiderio dell’autore, essa esce col titolo modi-ficato in Morte e pianto rituale. Dal lamento funebre antico al pianto di Maria.23 Ernesto De Martino, La terra del rimorso. Contributo a una storia religiosa delSud, Il Saggiatore, Milano 1961. Sono numerose le riedizioni, tra le quali va se-gnalata la terza, del 1976, per l’introduzione di Giuseppe Galasso.24 Ernesto De Martino, Sud e magia, Feltrinelli, Milano 1959.

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accorgersi che la dominanza della funzione smantellamento altronon è che il travestirsi della funzione latente aperta dal kairòs. Equesto potrebbe essere constatato facilmente anche per altri nodi.

Non può non apparire strano, perciò, che, nonostante la pre-senza di un kairòs sentito come imminente, la piena messa a fruttodegli argomenti «controdeduttivi» impostati nel ’56 venga ancora ri-mandata. Di fatto, nella situazione venutasi a configurare imme-diatamente a valle di quel Mondo magico 1958, l’operazione dirovesciamento sembrava poter essere già da subito tentata e nullasembrava opporsi all’impressione che il «rilancio» stesse per averluogo. Perché mai, invece del passo atteso, troviamo la lunga dila-zione che abbiamo sotto gli occhi? Che cosa potrebbe averla de-terminata? È forse questo il punto che, da qui in poi, ci cattureràdi più. La risposta a questi interrogativi non è per nulla semplice esicuramente finirà per voler essere anche una risposta alle do-mande che verranno a porsi a proposito della difficile collocabilità«autocritica» di tutta la fase compresa tra quel ’58 e le prime sogliedella fase-epilogo.

Intanto, però, è forse opportuno fermarsi ancora un istante neglispazi ermeneutici che la «postilla» si era creata attorno, per chiedercise davvero, in quel momento, le condizioni per l’avvento del kairòsfossero così mature e se davvero mancasse così poco per poter in-coccare tout-court le frecce del «rilancio». All’idea di un «rilancio»già possibile allora, può essere ragionevolmente contrappostaun’idea del contrario e, a parte le prove offerte dall’oggettività, nonmancano argomenti per sostenere che, se il ribaltamento era giànei fatti, sul piano teorico tutta la questione del contenzioso natoa ridosso del ’48 si presentava ancora irrisolta. Di fronte alla ne-cessità di cominciare a riempire questo vuoto, non era forse ines-senziale dare ancora sviluppo alle attenzioni volte a consolidare il«nucleo valido» e insistere sulle strategie della metis. Peraltro, dalpunto di vista delle dinamiche «controdeduttive», la «debolezza dellastoria», nella sua posizione di argomento nevralgico, avrebbe gua-

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dagnato in efficacia se lo si fosse portato anche più in là, spingen-dolo con decisione sul versante religioso. In sostanza, è assai pro-babile che, in quel momento, De Martino ritenesse tutt’altro checompiuta la tessitura delle precondizioni destinate a introdurre e arendere sufficientemente logici gli scarti ribaltanti del kairòs. Acompierlo in quella fase, senza aver allargato ulteriormente i mar-gini di sicurezza, il salto nella teoria avrebbe forse rischiato di ap-parire immaturo e precoce. E si spiega, allora, perché, sotto ilsegno della «postilla», i lavori della «trilogia» abbiano un costantesapore di prolungamento e lascino avvertire la presenza della linea-metis inaugurata dai testi teorici che precedono il ’58. Lo si puòdire per la linea-metis che rimanda a Crisi della presenza, ma lo sipuò dire altrettanto bene per la linea-metis che ha il suo puntod’origine in Fenomenologia religiosa: il fatto che le due linee sipresentino spesso intrecciate e rendano difficile il lavoro di distin-zione non è cosa che possa diminuire la percezione globale delloro peso: è anzi cosa che ha il potere di accrescerla-confermarla.

Se si guarda all’arco della «trilogia» – che è poi l’arco compresotra il momento della «postilla» e l’«epilogo» –, si direbbe che il «nu-cleo valido» ne campisce quasi per intero l’estensione, costituendosi– non meno che nel Mondo magico – come condizione insostitui-bile della corretta intelligenza degli oggetti di volta in volta esami-nati. Da Morte e pianto rituale alla Terra del rimorso, il lettoredemartiniano si imbatte di continuo in analisi che, sulle capacitàermeneutiche del «nucleo», riescono a dire cose straordinarie e ingrado di spostare anche più in là la soglia quasi insuperabile delMondo magico. Personalmente, per ciò che riguarda il nodo «crisi-riscatto», non esiterei a indicare la «trilogia» come il luogo demarti-niano più alto o almeno come il luogo dei discorsi, in tal senso,più riusciti. È importante notare, peraltro, come, nel suo proporsidi essere una «storia religiosa del Sud», essa non esiti a cercare isuoi campi d’indagine sui versanti folklorici più manifestamenteinclinati in senso religioso. È un modo di investire nella direzione

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indicata da Crisi della presenza e di lavorare a favore delle tesisulla «debolezza della storia», accumulando altre prove. Che si trattidel lamento funebre mediterraneo o della bassa magia cerimonialelucana o del complesso mitico-rituale tarantistico, al di là dell’im-mediato interesse storico-religioso per i singoli fenomeni c’è sem-pre, anche se in forma mediata, l’interesse disontologizzante perla «debolezza della storia». Il senso del prolungamento è chiaro, enon lo è di meno quello della dilazione. Anche qui, come in tuttii passaggi delle dinamiche «controdeduttive» che abbiamo attraver-sato, lo spaccato di questo procedere mette in luce un’idea del «ri-lancio» come cosa pensata nei termini di un ribaltamento specularedelle ritrattazioni dichiarate e come ripresa integrale delle metanoielasciate cadere. L’oggetto di questa complessa e delicatissima ope-razione di recupero, naturalmente, è sempre l’apparato storicisticodel Mondo magico.

A questo punto, però, attenzione. Se tutto questo vuol dire chei dintorni dialettici della «postilla» restavano ancora compresi nellospazio teorico del libro sul magismo, non può non colpire il fattoche, tra le cose che seguono, non siano poche quelle che sem-brano implicare uno scarto. Intanto, per esempio, è lecito chiedersiquale fosse (o quale potesse essere) la reale tenuta del progetto«rilancio» in una situazione che andava dilazionandolo indefinita-mente e spingendo sempre più in là l’avvento del suo kairòs. È le-cito chiedersi, cioè, se questa dilazione non implicasse qualcheperplessità e se, a partire da una certa data, l’idea del «rilancio» noncominciasse a essere pensata al di là del Mondo magico. Non èpossibile che – ferme restando le metanoie da rilanciare – il Mondomagico, come tessuto argomentativo, cominciasse ad apparire in-sufficiente e a esigere una riesposizione arricchita delle sue tesi?Rispetto alle ampiezze messe in luce da Crisi della presenza, la no-zione di «cultura» circolante nel libro del ’48 si presentava ancoramolto contratta e, in questa forma brachilogica, non sembrava

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