La riforma del contratto a tempo determinato di Marco Marazza e Walter Palombi
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LA RIFORMA DEL CONTRATTO A TEMPO
DETERMINATO
di MARCO MARAZZA, WALTER PALOMBI
Approfondimento del 03 marzo 2015
ISSN 2420-9651
Utente: GIUSTIZIA CIVILE UTENZA EDITORgiustiziacivile.com - n. 3/2015
© Copyright Giuffrè 2015. Tutti i diritti riservati. P.IVA 00829840156
Approfondimento di Marco Marazza, Walter Palombi
Il d.l. n. 34 del 2014 conv. in l. n. 78 del 2014, ha radicalmente innovato lefondamenta della disciplina del contratto di lavoro a tempodeterminato. L’elemento caratterizzante la riforma è certamentel’abbandono del principio della necessaria giustificazionedell’apposizione del termine mediante ragioni oggettive, comeoriginariamente prescritto dal primo comma dall’art. 1 del d.lgs. n. 368del 2001: è oggi pertanto legittimato, in via generale, il ricorso alcontratto c.d. “acausale” per qualunque tipo di rapporto a termine e per losvolgimento di qualunque tipo di mansione, pur se nel rispetto di specificivincoli in ordine alla quota di lavoratori flessibili utilizzabili, al numero diproroghe ed alla durata massima dei rapporti, e fermi restando itradizionali divieti previsti dalla vecchia disciplina.
SOMMARIO: 1. Premessa. - 2. La “acausalità” del contratto a termine. - 3. Il raccordo
tra la disciplina del contratto a termine e del contratto di somministrazione. - 4. I limiti
percentuali. - 4.1. Il difficile rapporto tra la legge e contrattazione collettiva. - 4.2. Il
criterio di computo. - 4.3. Le sanzioni. - 5. Le proroghe. - 6. I rinnovi. - 7. Il diritto di
precedenza. - 8. La compatibilità con le fonti comunitarie.
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1. Premessa.Il d.l. n. 34 del 20 marzo 2014 (“Disposizioni urgenti per favorire il rilancio
dell'occupazione e per la semplificazione degli adempimenti a carico delle imprese”),
convertito con modifiche dalla l. n. 78 del 16 maggio 2014, ha radicalmente innovato le
fondamenta della disciplina del contratto di lavoro a tempo determinato.
L’elemento caratterizzante la riforma è certamente l’abbandono del principio della
necessaria giustificazione dell’apposizione del termine mediante ragioni oggettive,
come originariamente prescritto dal primo comma dall’art. 1 del d.lgs. n. 368 del 2001:
è oggi pertanto legittimato, in via generale, il ricorso al contratto c.d. “acausale” per
qualunque tipo di rapporto a termine e per lo svolgimento di qualunque tipo di
mansione, pur se nel rispetto di specifici vincoli in ordine alla quota di lavoratori
flessibili utilizzabili, al numero di proroghe ed alla durata massima dei rapporti, e fermi
restando i tradizionali divieti previsti dalla vecchia disciplina.
Il decreto in commento costituisce, nella sua esteriorità, l’ideale compimento del
tormentato processo di (apparente) liberalizzazione dell’istituto del contratto a termine:
tuttavia è erroneo, celebrare – o accusare – il provvedimento di aver confezionato uno
strumento di accesso al mercato del lavoro perfettamente fungibile con il contratto a
tempo indeterminato, che ad oggi è e rimane la forma comune di rapporto di lavoro [1].
Tuttavia, a differenza del passato, per appurare la legittimità dell’apposizione del
termine non sono più richieste valutazioni di carattere qualitativo o indagini di merito
(la verifica della sussistenza delle ragioni oggettive), ma soltanto delle mere misurazioni
di indici numerico-quantitativi [2].
È ancora difficile dire se l’attuale assetto normativo possa, in qualche modo,
rappresentare un punto fermo e se, soprattutto, riuscirà a resistere alle prevedibili
censure di conformità con l’ordinamento comunitario [3].
Numerosi, comunque, sono i dubbi interpretativi che la giurisprudenza dovrà con
pazienza sciogliere. Quelli più significativi riguardano le modalità di applicazione del
nuovo contingentamento legale del venti per cento (in particolare per quanto riguarda il
rapporto tra legge e contrattazione collettiva) ed il regime sanzionatorio.
È plausibile ritenere che ciò sia la conseguenza di una tecnica normativa che risente
(forse troppo) di difficili compromessi politici e, più in generale, della difficoltà di
riannodare il senso degli incalzanti interventi legislativi che si sono succeduti in questi
ultimi anni, ondeggianti tra esigenze di flessibilità ed istanze di maggiore tutela del
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lavoro.
2. La “acausalità” del contratto a termine.La novità più rilevante consiste nel fatto che, per legittimare l’assunzione a tempo
determinato, non è più richiesta l’esistenza e la specificazione per iscritto di ragioni di
carattere “tecnico, produttivo, organizzativo e sostitutivo”, ritenendosi sufficiente, ai
fini della validità formale e sostanziale del contratto, la mera indicazione – in forma
diretta o indiretta – del termine di durata apposto al rapporto [4].
È opportuno ricordare che, comunque, il nostro ordinamento non era estraneo al
fenomeno della “acausalità” [5]nell’ambito del ricorso al contratto a termine: tuttavia,
mentre in passato il ricorso al contratto acausale si atteggiava a fattispecie eccezionale,
ammessa ora per favorire l’ingresso (o il reingresso) nel mondo del lavoro, ora per
consentire a determinate aziende di mantenere gli standard qualitativi di servizio
imposti per legge, oggi il contratto “acausale” è diventato la forma “comune” del
rapporto a tempo determinato [6].
Il venir meno del tradizionale requisito di validità non esclude poi la possibilità, se non
addirittura l’opportunità, per il datore di lavoro di continuare ad indicare nel contratto
alcune specifiche causali [7]. È il caso del ricorso all’utilizzo delle ipotesi tipizzate
dall’art. 10, comma 7, d.lgs. n. 368 del 2001, che consente di beneficiare
dell’esclusione dai limiti quantitativi [8], oppure delle causali indicate dall’art. 2, co
mmi 28 e 29, della legge n. 92 del 2012 [9] che esimono dal versamento del contributo
addizionale dell’1,4%.
In tali casi, tuttavia, l’accertamento dell’insussistenza della causale, proprio in ragione
del venir meno del precetto imperativo che la imponeva quale condizione di liceità del
termine, non determinerà la automatica conversione del contratto.
L’unica conseguenza potrà essere, verosimilmente, solo l’applicazione dei limiti
quantitativi al contratto impugnato (con tutte le conseguenze previste in caso di
superamento del contingente [10]) e/o il versamento del contributo illegittimamente non
versato, con le relative sanzioni.
3. Il raccordo tra la disciplina del contratto a termine e del contratto disomministrazione.Le disposizioni di cui all’art. 1 del d.lgs n. 368 del 2001 sono oggi espressamente
applicabili anche “nell’ambito” di un contratto somministrazione a tempo determinato.
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Al pari del legislatore del 2012 [11], anche il d.l. n. 34 del 2014 si è premurato di
operare un coordinamento tra la disciplina del contratto a termine e della
somministrazione a tempo determinato [12].
E si potrebbe dire che la lettera dell’articolo 1, comma 1, d.lgs. n. 368 del 2001, come
modificata, sia espressione della volontà del legislatore di prevedere, anche per la
somministrazione a tempo determinato che: a) non è richiesta la sussistenza di una
specifica ragione giustificatrice a sostegno del ricorso alla somministrazione; b)
l’utilizzo dei lavoratori somministrati debba osservare il medesimo vincolo legale di
contingentamento imposto per i contratti a termine.
A ben vedere entrambe le soluzioni di cui sopra non appaiono soddisfacenti, lasciando
anzi intuire un certa ridondanza del contenuto della norma.
In primo luogo, l’introduzione del sistema “acausale” nell’ambito della
somministrazione di lavoro a tempo determinato non è attribuibile al primo periodo
dell’art. 1 del d.lgs. n. 368 del 2001.
Il d.l. n. 34 del 2014 è, infatti, intervenuto parallelamente anche sulle disposizioni del
d.lgs. n. 276 del 2003 che disciplinano la somministrazione di lavoro, modificando il
quarto comma dell’art. 20 – contenente le condizioni di liceità del contratto di
somministrazione – dove oggi non è più prevista la necessità di legittimare la
somministrazione di lavoro a tempo determinato attraverso l’indicazione delle stesse
ragioni giustificatrici imposte per l’apposizione del termine al contratto di lavoro
subordinato.
Inoltre, la precisazione operata dall’art. 1, comma 1, del d.lgs. n. 368 del 2001 non
appare del resto necessaria a giustificare la “acausalità” del contratto stipulato tra
l’agenzia del lavoro e il prestatore: tra tali soggetti, come noto, si instaura un ordinario
rapporto di lavoro subordinato che è disciplinato, in caso di apposizione di un termine,
dal d.lgs. n. 368 del 2001 ove compatibile. Pertanto, il rinvio alla disciplina del contratto
a termine comprende certamente anche il “nuovo” art. 1, nella parte in cui introduce,
appunto, il generale modello “acausale” del contratto a termine.
Va poi escluso che la riforma abbia inteso estendere le previsioni circa il limite legale di
contingentamento del venti per cento anche al ricorso a lavoratori somministrati.
In primo luogo, nella disciplina della somministrazione, giusta la previsione dell’art. 20,
comma 4, d.lgs. n. 276 del 2003, l’individuazione della soglia di contingentamento è
tuttora affidata, in via esclusiva, alla contrattazione collettiva in virtùdell’espresso
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rinvio al solo art. 10, comma 7, del d.lgs. n. 368 del 2001 [13].
Inoltre, la lettera del citato art. 1, comma 1, d.lgs. n. 368 del 2001 evidenzia una chiara
inconciliabilità delle previsioni sui limiti quantitativi ed il rapporto di somministrazione:
la norma, letta nel suo complesso, circoscrive infatti il vincolo di contingentamento ai
“contratti” stipulati tra un “datore” ed un “lavoratore” e non più ai rapporti
eventualmente intercorrenti tra un “lavoratore” ed un “utilizzatore”.
Superando le imprecisioni terminologiche contenute nel decreto legge, il legislatore, in
fase di conversione, ha chiaramente inteso escludere dall’applicazione del limite legale
i rapporti di somministrazione, attraverso la valorizzazione, da un lato, dell’aspetto
formale della stipulazione di un contratto tra il datore ed il prestatore, e, dall’altro,
abbandonando la formula, piuttosto ambigua, secondo cui entro il limite del venti per
cento dovesse essere compreso il “numero complessivo di rapporti”. Tale espressione,
infatti, insistendo su un piano di carattere sostanziale poteva ben indurre ad includere
nel calcolo non solo i contratti, ma anche i rapporti, ovvero i vincoli di carattere
fattuale, come appunto quello tra utilizzatore e prestatore [14].
Infine, l’esclusione dal limite legale di contingentamento è avvalorata dal fatto che
l’art. 22, comma 2, del d.lgs. n. 276 del 2003 è stato modificato nel senso di non ritenere
applicabili alla somministrazione le previsioni di cui all’art. 5, commi 3 e seguenti, ivi
dunque incluse le nuove sanzioni introdotte per la violazione delle norme sul
contingentamento.
Ciò posto, va chiarito se il richiamo contenuto nell’art. 1, comma 1, del d.lgs. n. 368
del 2001 costituisca un mero pleonasmo o se, in effetti, conservi una sua utilità
nell’ambito del raccordo tra la disciplina del contratto a termine e della
somministrazione.
L’unica previsione contenuta nel novellato art. 1 del d.lgs. n. 368 del 2001 non
superflua e non in contrasto con l’impianto del d.lgs. n. 276 del 2003 sembra essere
quella che limita la durata del singolo contratto “acausale” a trentasei mesi, comprensivi
di eventuali proroghe.
Estendendo tale previsione, nell’ambito di un rapporto di somministrazione (dunque
tanto con riferimento al contratto commerciale, quanto con riferimento al contratto
individuale concluso tra utilizzatore e prestatore) può ritenersi che la riforma abbia
inteso vincolare la durata massima della “missione” del singolo lavoratore a soli
trentasei mesi complessivi, bilanciando in questo senso la sostanziale libertà delle parti
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di prorogare i successivi contratti senza alcun limite [15].
L’applicazione della norma nel senso sopra prospettato, pur se ne giustifica la presenza
nell’ordinamento, non introduce comunque, sul piano concreto, alcun un effettivo
irrigidimento nella disciplina del ricorso alla somministrazione.
Ed infatti, non va trascurato che, pur circoscrivendo il singolo contratto in un termine
massimo di trentasei mesi comprensivo di proroghe, resterebbe sempre salva la
possibilità per datori e somministratori di stipulare, successivamente e senza soluzione
di continuità, un ulteriore contratto, anziché prorogarlo, avvalendosi dell’esclusione
dall’obbligo di rispetto dei periodi di interruzione di cui al comma 3 dell’art. 5 del
d.lgs. n. 368 del 2001, come sancito dall’art. 22, comma 2, del d.lgs. n. 276 del 2003.
Vero è che la contrattazione collettiva per il settore delle Agenzie di Somministrazione
prevede la possibilità di prorogare il contratto individuale tra lavoratore ed Agenzia per
un massimo di sei volte: tuttavia, mancando una specifica disciplina sui “rinnovi” la
norma pattizia di cui sopra si presta a facili elusioni, mediante la reiterazione dei rinnovi
in luogo delle proroghe.
4. I limiti percentuali. - 4.1. Il difficile rapporto tra la legge e contrattazionecollettiva. - 4.2. Il criterio di computo. - 4.3. Le sanzioni.Il numero complessivo dei contratti a termine non potrà eccedere il venti per cento dei
lavoratori a tempo indeterminato in forza al 1° gennaio dell’anno di assunzione, “fatto
salvo” quanto previsto dall’art. 10, comma 7. Tale norma, rimasta immutata, affida(va)
alla contrattazione collettiva nazionale il compito di individuare le soglie di
contingentamento, ed indica(va) inoltre alcune ipotesi di esenzione da tali limiti (i
contratti a termine conclusi per l’avvio di nuove attività per i periodi definiti dalla
contrattazione collettiva, per esigenze sostitutive o di stagionalità, per specifici
spettacoli ovvero specifici programmi radiofonici o televisivi ed i contratti stipulati con
lavoratori di età superiore a 55 anni). Per i datori fino a cinque dipendenti sarà poi
sempre consentito stipulare un contratto a termine, con ciò di fatto impedendo, con
disposizione dal tenore inderogabile, alla contrattazione collettiva di intervenire,
imponendo ad esempio limiti talmente bassi da impedire la stipulazione, in tali casi, di
almeno un contratto a termine [16].
Immuni da limiti quantitativi sono inoltre i contratti di lavoro a tempo determinato
stipulati tra istituti di ricerca e lavoratori chiamati a svolgere attività di ricerca.
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4.1. Il difficile rapporto tra la legge e contrattazione collettiva.
Alla luce del combinato disposto delle norme sopra citate, è necessario comprendere in
che misura l’autonomia collettiva, che ha perso quel ruolo di fonte esclusiva affidatole
dall’art. 10, comma 7, del d.lgs. n. 368 del 2001 [17], sia oggi autorizzata ad intervenire
sulla materia del contingentamento.
La sostanziale differenza rispetto al passato riposa nel fatto che il rispetto dei limiti
quantitativi costituisce oggi una vera e propria condizione di validità del contratto, in
quanto precetto contenuto in una norma di legge, e non più materia lasciata alla
completa disponibilità delle parti sociali.
Nel vigore della previgente disciplina, infatti, non sono mancati commenti volti a
sottolineare come l’individuazione dei limiti di contingentamento costituisse una mera
facoltà attribuita alla contrattazione collettiva e non una conditio sine qua non alla
validità del contratto [18], con la conseguenza chel’eventuale carente previsionedi tali
vincoli, da parte dei contratti collettivi, non avrebbe impedito la stipulazione di contratti
a termine [19]. Del resto non sono rari i testi contrattuali oggi applicati ove non è
presente – almeno per il momento – alcuna disciplina legale del contingentamento [20].
Nel nuovo assetto normativo vediamo che tale norma di carattere generale, è stata
sostanzialmente calata in un contesto ove permane la precedente delega in favore della
contrattazione collettiva per la disciplina la medesima materia.
Può ritenersi pertanto che la norma legale abbia un carattere suppletivo, trovando
applicazione solo qualora manchi una specifica disciplina collettiva o quando, ad
esempio, il datore non applichi alcun contratto [21]: la locuzione “fatto salvo” e la
sostanziale identità del testo dell’art. 10, comma 7, del d.lgs. n. 368 del 2001, sembrano
infatti voler mantenere fermo il ruolo che la contrattazione ha svolto sino ad oggi
nell’individuazione delle percentuali di utilizzo del contratto a termine, e inducono a
ritenere chel’autonomia collettiva deve ancora oggi essere considerata libera di
individuare limiti anche differenti da quello di legge [22].
A complicare il quadro interpretativo delineato vi sono tuttavia le norme transitorie
dedicate specificamente ai limiti quantitativi, contenute nell’art. 2-bis del d.l. n. 34 del
2014, introdotto dalla legge di conversione n. 78 del 2014.
Il comma secondo della citata norma prevede infatti che, in sede di prima applicazione
del limite percentuale del nuovo art. 1 del d.lgs. n. 368 del 2001, conserveranno
efficacia i limiti previsti dalla contrattazione collettiva “ove diversi”.
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La previsione di una disciplina transitoria di tale tenore induce a ritenere che,
inconsapevolmente, il legislatore del 2014, modificando l’art. 1 del d.lgs. n. 368 del
2001 abbia inteso introdurre una riserva legale nella disciplina della individuazione
delle percentuali di contingentamento, proprio perché una interpretazione letterale della
norma transitoria conduce alla conclusione per la quale, terminata la fase di prima
applicazione, i diversi limiti previsti dall’autonomia collettiva dovranno
necessariamente perdere efficacia, dovendo lasciare il posto – inevitabilmente – a quello
legale.
Tuttavia, come sopra ricordato, è invece pacifico che la contrattazione collettiva possa
individuare limiti maggiori e minori rispetto a quelli indicati dal novellato art. 1 del
d.lgs. n. 368 del 2001. Ed altrettanto incontestabile è l’affermazione per la quale,
qualora la contrattazione collettiva fosse già intervenuta sulla materia del
contingentamento, nulla osterebbe al mantenimento in vigore di tali disposizioni, pur se
antecedenti al d.l. n. 34 del 2014, posto che le previsioni di cui all’art. 10, comma 7, del
d.lgs. n. 368 del 2001 sono rimaste immutate.
Pertanto, sembrerebbe priva di senso l’applicazione della disciplina transitoria anche
per le ipotesi in cui già vige un diverso limite di contingentamento di fonte negoziale, e
cioè in tutti quei casi in cui la contrattazione abbia già adempiuto al compito affidatole
dalla precedente disciplina, e oggi ribadito, seppur individuando limiti percentuali
diversi.
Una lettura alternativa, ed in linea con la natura transitoria dell’intervento, potrebbe
però essere quella secondo cui viene ammessa la temporanea efficacia – e dunque il
futuro venir meno – solo delle clausole che individuano limiti di contingentamento
secondo criteri incompatibili con il nuovo regime.
In questo contesto i limiti “diversi” devono essere intesi in senso non quantitativo ma
qualitativo [23]: si pensi ad esempio a quelle che prevedono soglie di contingentamento
solo in relazione a determinate tipologie di contratti a termine, legate a specifiche
causali [24], oppure quelle clausole che prendono come base di computo l’organico
presente in una determinata unità produttiva. Tali clausole, traendo origine da una
disciplina ormai abrogata, sono destinate naturalmente a perdere di efficacia, ma di
fatto, almeno nella fase iniziale, possono ancora trovare applicazione nei confronti di
quelle forme contrattuali, ancora in corso di esecuzione, legate alla vecchia disciplina.
Il vero problema, tuttavia, è legato all’interpretazione dell’inciso «In sede di prima
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applicazione», che circoscrive l’ambito cronologico di efficacia di tali clausole.
Una possibile esegesi suggerisce di ritenere che la “sede di prima applicazione” dei
nuovi limiti di contingentamento di cui all’art. 1 sia il periodo di vigenza del contratto
collettivo applicato, in base ad una interpretazione analogica delle previsioni dell’art.
11, comma 2, del d.lgs. n. 386 del 2001. Tale norma, all’indomani della promulgazione
del d.lgs. n. 368 del 2001 ebbe infatti la funzione di armonizzare le disposizioni dei
contratti collettivi attuative dall’art. 23 della l. n. 56 del 1987 – con particolare
riferimento all’individuazione di nuove specifiche ipotesi di legittima apposizione del
termine – con il nuovo regime introdotto dalla novella del 2001, disponendo che le tali
clausole avrebbero conservato efficacia sino alla scadenza del contratto collettivo che le
prevedeva [25].
Ma ha senso mantenere temporaneamente efficace una disciplina collettiva – che
individua limiti di contingentamento di carattere particolare – di fatto implicitamente
abrogata dal nuovo assetto normativo, peraltro in un contesto ove è prevedibile che le
imprese, in caso di nuove assunzioni a termine, ricorreranno tutte al nuovo modello
“acausale”?
Proprio in virtù di tali dubbi interpretativi pare ragionevole opinare che la sede di prima
applicazione coinciderà con quella fase transitoria in cui, all’interno dell’azienda
coesisteranno, per periodi di tempo più o meno lunghi, entrambe le tipologie di
contratto a termine. Con la conseguenza che, in teoria, i contratti stipulati in base alla
precedente disciplina o comunque vincolati a “diversi” limiti di contingentamento nel
senso sopra indicato, saranno consentiti nella quota indicata dai contratti collettivi
applicati, mentre tutte le altre assunzioni a termine, ivi incluse quelle previste dal
novellato art. 1, saranno consentite sino al raggiungimento del venti per cento dei
lavoratori stabili presenti in azienda. Ciò è avvalorato dal fatto che la disciplina
transitoria ha precisato che i diversi limiti conserveranno efficacia “in sede di prima
applicazione” delle nuove disposizioni, ivi incluse quelle su contingentamento legale, il
che suggerisce non un differimento dell’entrata in vigore delle nuove disposizioni sul
contingentamento ma una ipotesi di concorrenza temporanea tra il vincolo di
contingentamento legale e quello di fonte negoziale, fenomeno anch’esso, già noto
all’ordinamento [26].
Tuttavia, questo potrebbe comportare effetti opposti rispetto al dichiarato obiettivo di
contenere l’utilizzo del lavoro a termine: quali conseguenze potrebbero esservi se la
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contrattazione collettiva continuasse a prevedere limiti di contingentamento “diversi” in
senso qualitativo – eventualmente incompatibili – anche successivamente alla fase di
prima applicazione?
Tale soluzione non appare lontana dalla realtà in quanto, l’art. 10, comma 7, del d.lgs. n.
368 del 2001 legittima l’autonomia collettiva all’individuazione di limiti anche non
omogenei.
Due, allo stato, sono le possibili soluzioni,:
a) avallando la tesi per la quale il d.l. n. 34 del 2014 abbia di fatto introdotto una riserva
legale sull’individuazione dei limiti di contingentamento (affidando alla contrattazione
collettiva solo il compito di fissarne la misura numerica, maggiore o minore del venti
per cento) le clausole di contingentamento incompatibili con la nuova disciplina (perché
ad esempio legati a particolari qualità dei lavoratori o dell’unità produttiva) saranno
sostituite ex lege dai limiti legali;
b) qualora si voglia invece sostenere la tesi della natura sussidiaria delle previsioni
legali, i limiti di contingentamento di carattere speciale troveranno applicazione nei
confronti delle fattispecie espressamente previste dalla contrattazione collettiva, mentre
quelli legali andranno a disciplinare, in via residuale le altre.
Il legislatore ha inoltre approntato alcune misure volte ad evitare all’azienda che,
all’entrata in vigore della riforma, non applichi alcun contratto collettivo, o applichi un
contratto che non prevede alcuna soglia di contingentamento, di trovarsi in una
immediata condizione di illiceità [27].
In tali casi, il datore sarà tenuto a rientrare nel limite di legge entro il 31 dicembre 2014,
salvo che un contratto collettivo applicabile nell’azienda non preveda un «limite
percentuale o un termine più favorevole». Sembra quindi offerta alle imprese la
possibilità di avvalersi di un accordo “ponte”, anche a livello aziendale, che preveda un
termine più lungo per rientrare nella soglia del 20% oppure che innalzi tale soglia di
rientro, per consentire le nuove assunzioni a decorrere dal 2015.
In caso di mancato adeguamento, il datore sarà di fatto inibito dall’assumere con
contratto a termine sino al rientro nei limiti.
Va infine affrontato il problema circa l’individuazione del livello contrattuale
legittimato ad intervenire sulla materia del contingentamento. L’art. 10, comma 7,
richiama chiaramente ancora oggi la sola contrattazione nazionale. All’indomani
dell’introduzione di tale norma l’opinione prevalente, che valorizzava la differente
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formulazione rispetto a quanto previsto dall’art. 23 della l. n. 56 del 1987 – che
demandava “ai contratti collettivi di lavoro” il compito di individuare i limiti di
contingentamento – era quella di escludere la contrattazione di secondo livello da tale
processo regolamentare. Tuttavia i profondi cambiamenti intervenuti nell’ambito delle
relazioni industriali nell’ultimo decennio inducono a ritenere superata tale
interpretazione, soprattutto alla luce dell’introduzione dell’art. 8 della l. n. 138 del
2011, che, come noto, consente la stipulazione di accordi a livello aziendale dotati di
efficacia derogatoria anche, come previsto dal comma 2, lett. c), nei confronti delle
norme sui contratti a termine [28].
4.2. Il criterio di computo.
Dopo le modifiche in sede di conversione, il limite riguarderà il numero di complessivo
di contratti rispetto al venti per cento dei lavoratori a tempo indeterminato in forza al 1°
gennaio dell’anno di assunzione.
Secondo alcuni la legge avrebbe pertanto imposto l’onere di mantenere, all’interno
dell’azienda, una proporzione constante tra lavoratori stabili e flessibili.
Tuttavia, avendo il legislatore abbandonato il riferimento ai “rapporti”, il limite di
contingentamento sembrerebbe avere carattere rigido, predeterminando invece di fatto il
numero di contratti da stipulare ogni anno. Dunque, almeno stando al tenore testuale
della legge, il limite dovrà dichiararsi violato nel momento in cui l’azienda abbia
stipulato quel contratto a termine (anche con lo stesso lavoratore) che determini,
sommato agli altri contratti stipulati in precedenza, il superamento alla soglia legale del
venti per cento, indipendentemente dal fatto che il numero di rapporti a termine in corso
sia o meno inferiore a tale quota [29].
La base di calcolo non è più individuata nell’organico aziendale, ma nel numero di
lavoratori stabili: infatti, non parlandosi più di “organico”, entro tale parametro
potrebbero computarsi ad esempio, anche gli apprendisti, che ai sensi dell’art. 1 del
d.lgs. n. 167 del 2011 sono considerati a tutti gli effetti lavoratori a tempo indeterminato
[30]. Rimarrebbero invece esclusi gli assunti con contratto di reinserimento, per effetto
dell’art. 20 della legge n. 223 del 1991, nonché i lavoratori somministrati, per effetto
dell’art. 22, comma 5, del d.lgs. n. 276 del 2003, oltre che i lavoratori autonomi ed i
collaboratori a progetto.
La questione di maggior rilievo pratico è certamente quella del criterio di computo da
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adottare. Ad oggi, sia con riferimento ai limiti legali, sia riguardo a quelli di fonte
contrattuale, la giurisprudenza è sempre stata orientata verso l’utilizzazione del criterio
di cui all’art. 6 della l. n. 61 del 2000, che impone, in tutti i casi in cui sia richiesto di
valorizzare la consistenza dell’organico ai fini dell’applicazione di una determinata
norma, di computare i lavoratori in ragione del tempo lavorato (c.d “full time
equivalent” o “FTE”). A tale criterio viene assoggettata sia la quantificazione
dell’organico complessivo, che il conteggio dei rapporti a termine.
Nel nuovo testo dell’art. 1, tuttavia, il riferimento ai “contratti” ed al “numero di
lavoratori a tempo indeterminato” suggerisce tuttavia l’intenzione del legislatore di
calcolare il limite di contingentamento secondo un criterio “per teste”, ovvero
valorizzando puntualmente ciascun lavoratore [31].
Il criterio del full time equivalent, infatti, seppur tecnicamente applicabile alla
determinazione dell’organico (o meglio, del numero di lavoratori a tempo
indeterminato), tuttavia mal si attaglia all’obbligo individuato dalla norma, che è volta
ad includere nel computo non il rapporto od il lavoratore, bensì il contratto, che,
indipendentemente dal regime orario adottato, rileverà sempre e comunque come una
unità. Rimanendo ancorati ad una impostazione troppo rigida si finirebbe per applicare
– erroneamente – per la quantificazione dell’organico il criterio di computo il criterio in
full time equivalente, valorizzando invece, come previsto dalla norma, i contratti a
termine secondo il criteriopuntuale, rischiando di Con la illogica conseguenza di
adottare criteri tra loro non omogenei per la verifica del rispetto delle soglie di
contingentamento [32].
Il computo “per teste”, infatti, appare dunque il criterio più versatile e al contempo
compatibile con le previsioni del legislatore. Infatti, mentre l’ipotesi originaria del
decreto aspirava a vincolarestabilmente la quota di lavoro flessibile rispetto all’organico
[33], oggi la legge intendeprescrivere il contingentamento del numero annuo di
assunzioni a termine, con la conseguenza che, in teoria, ciascun datore potrà assumere
annualmente un numero pari al 20% (o altra percentuale autorizzata dalla contrattazione
collettiva) dei lavoratori stabili, che potranno assommarsi e coesistere nell’organico per
tutta la durata dei rispettivi contratti.
4.3. Le sanzioni.
Come sopra accennato, nella previgente disciplina, se il superamento del limite legale
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(v. ad es. quello previsto dall’art. 2 del d.lgs. n. 368 del 2001 per la disciplina
aggiuntiva per i servizi postali ed aeroportuali) conduceva senza dubbio alla
conversione del rapporto, la stessa conseguenza non era pacifica in caso di violazione
del contingente imposto dalla contrattazione collettiva, da cui poteva discendere solo il
diritto al risarcimento del danno [34].
Con la nuova disciplina, l’onere di rispettare determinati limiti quantitativi assurge
invece a norma imperativa di carattere generale, la cui violazione determinerà in ogni
caso la conversione del rapportoconcluso in violazione dei limiti [35].
Un fattore di assoluta novità risiede al comma 4-septies dell’art. 5: in caso di
superamento del limite di cui all’art. 1 il datore sarà passibile di una sanzione
amministrativa pari al 20% o al 50% (a seconda che la violazione riguardi uno o più
contratti) della retribuzione di ciascun lavoratore assunto in violazione della soglia di
contingentamento.
Nonostante la norma possa ingenerare confusione, va rilevato come le due “sanzioni”
intervengano in via concorrenziale sulla medesima violazione, pur se in ambiti
differentie non appaiono affatto alternative tra loro [36].
Infatti, come noto,la conversione del rapporto a termine parzialmente nullo non
discende dalla sussistenza o meno di una espressa disposizione di legge, quanto
piuttosto dall’applicazione dell’art. 1419, comma 1, c.c., in virtù del quale la
disposizione inderogabile di legge (la previsione che il contratto a tempo indeterminato
è la forma comune) viene giudizialmente sostituita alla clausola appositiva del termine
di durata giudicata nulla [37]
Del resto già in precedenza potevano coesistere più livelli sanzionatori: si pensi al
divieto di assumere a termine per le imprese che non avessero effettuato la valutazione
dei rischi per la salute dei lavoratori, fattispecie idonea a determinare sia una sanzione
penale per il datore (ai sensi dell’art. 55 del d.lgs. n. 81 del 2008), sia la conversione del
rapporto [in quanto violazione dell’art. 3, lett. d), del d.lgs. n. 368 del 2001].
Inoltre, escludendo la possibilità di convertire il rapporto stipulato oltre il limite di
contingentamento, si priverebbe poi il lavoratore dello stesso diritto all’indennità di cui
all’art. 32 della l. n. 183 del 2010 che discende solo qualora il giudice accerti e dichiari
l’esistenza di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato, e in ogni caso si porrebbe in
contrasto coi principi espressi dalla giurisprudenza costituzionale, secondo cui «la
stabilizzazione del rapporto è la protezione più intensa che possa essere riconosciuta
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ad un lavoratore precario» [38].
In ogni caso, ai sensi dell’art. 2, comma 2,del d.l. n. 34 del 2014 come convertito dalla
l. n. 78 del 2014, le sanzioni non troveranno applicazione nei confronti dei contratti a
termine instaurati prima dell’entrata in vigore del decreto.
5. Le proroghe.Il contratto a termine potrà avere una durata massima di trentasei mesi, comprensiva
delle eventuali proroghe che, ai sensi dell’art. 4 del d.lgs. n. 368 del 2001, sono
ammesse in numero massimo di cinque, nell’arco dei complessivi trentasei mesi, ed
indipendentemente dal numero dei rinnovi.
È scomparso, per ovvie ragioni, sia il riferimento del requisito della sussistenza delle
ragioni oggettive per la proroga del rapporto, sia, il correlativo onere processuale in
capo al datore di doverne dimostrare l’obiettiva esistenza in giudizio.
Il contratto a termine, che non richiede più alcuna giustificazione oggettiva ai fini della
stipulazione, è dunque altrettanto liberamente prorogabile, dovendo solo osservare due
limiti.
Il primo è quello di riferire le proroghe alla stessa “attività lavorativa” per il quale il
contratto è stato stipulato.
A tal riguardo, secondo la giurisprudenza, la “stessa attività”, era identificabile con la
«dimensione oggettiva riferibile alla destinazione aziendale del lavoro e non riducibile
alle mansioni del lavoratore» [39]. I principi sino ad oggi elaborati richiederanno
probabilmente un aggiornamento in considerazione della sopravvenuta natura acausale
dei contratti a termine ed è ragionevole ritenere che il concetto di “attività lavorativa”
tenderà ad essere ampliato, e comunque sempre più identificato con le mansioni del
lavoratore. Ne deriva che, seppur con la necessaria prudenza, per effetto della proroga il
lavoratore potrà anche essere adibito a mansioni equivalenti ma non a mansioni diverse
[40].
Quanto al secondo limite, le proroghe potranno essere concluse in un numero massimo
di cinque, indipendentemente dal numero di rinnovi, nell’ambito dei trentasei mesi.
La volontà del legislatore sembra essere quella di contenere il numero massimo di
proroghe anche oltre il contratto cui ineriscono, limitandole anche nel caso in cui il
medesimo contratto sia rinnovato nell’arco temporale di cui sopra.
Ciò probabilmente per evitare che il numero massimo di proroghe potesse ritenersi
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riferito a tutti i singoli contratti conclusinei trentasei mesi tra le parti per mansioni
equivalenti. Ed in effetti così facendo può dirsi scongiurato il rischio di offrire
contemporaneamente al datore la possibilità di instaurare contratti brevissimi in un
numero praticamente illimitato (i rinnovi in sé non soffrono limitazioni quantitative) e
di prorogare ciascuno di tali rapporti fino a cinque volte, cosa che avrebbe portato al
risultato di atomizzare eccessivamente il rapporto a termine.
La disciplina della proroga deve comunque confrontarsi con un dato non irrilevante: alla
data di entrata in vigore della riforma è effettivamente in corso un numero elevatissimo
di contratti a termine, stipulati nel rispetto della previgente disciplina, in relazione ai
quali è verosimile che sussista l’interesse dei datori alla proroga degli stessi.
A differenza di quanto previsto dalle norme in tema di contingentamento (cfr. supra par.
4.3), non è stata prevista, per la proroga dei contratti in corso una specifica disciplina
transitoria. Vale pertanto la regola di carattere generale di cui all’art. 2-bis d.l. n. 34 del
2014, conv. in l. n. 78 del 2014, che al comma 1 prevede l’applicabilità delle modifiche
introdotte ai soli rapporti costituiti successivamente all’entrata in vigore del decreto,
fatti salvi gli effetti prodotti prima della conversione.
Tale specificazione potrebbe consentire di affermare che il nuovo regime della proroga
– sia con riferimento al numero che alle ragioni legittimanti il ricorso alla stessa – sia
neutrale rispetto ai contratti stipulati secondo la previgente disciplina non trova
applicazione, con la conseguenza che i citati contratti, qualora in corso, potranno essere
prorogati, in conformità con la precedente disciplina, soltanto una volta, ed a condizione
che la proroga sia richiesta da ragioni oggettive, che in caso di contestazione, dovranno
essere dimostrate in giudizio dal datore: tuttavia siffatta conclusione appare in palese
contrasto con l’abrogazione del vecchio testo dell’art. 4 del d.lgs. n. 368 del 2001 e con
l’art. 11 disp. Att. c.c. secondo cui «ogni atto va valutato secondo la norma vigente al
momento del suo compimento». E, paradossalmente, potrebbe dirsi che l’atto di proroga
di un contratto a termine stipulato secondo la previgente disciplina si privo di copertura
normativa.
Sul punto si ritiene più che mai necessario un ulteriore intervento del legislatore volto a
chiarire anche tale rilevante aspetto.
6. I rinnovi.Come in passato, i rinnovi determinano la conversione del rapporto, qualora le
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successive assunzioni a termine avvengano senza soluzione di continuità o non
rispettino i periodi di intervallo di dieci o venti giorni previsti dal comma 3dell’art. 5
del d.lgs. n. 368 del 2001.
In base al comma 4-bis, in caso di successione di contratti a termine per lo svolgimento
di “mansioni equivalenti”, la durata massima del contratto di lavoro a termine,
comprensiva di proroghe e rinnovi nonché dei periodi di missione in regime di
somministrazione, non potrà superare i trentasei mesi.
Resta da chiarire anche qui se i contratti ed i rinnovi stipulati ai sensi della vecchia
disciplina possano contribuire al raggiungimento del limite esterno di 36 mesi o se
invece, qualora il datore stipuli dei nuovi contratti in forza del nuovo art. 1, il citato
contatore debba ripartire da zero.
La risposta è sicuramente affermativa nella misura in cui il lavoratore venga adibito a
mansioni non equivalenti rispetto a quelle oggetto dei precedenti contratti e/o rinnovi.
Diversamente, tale contratto contribuirà a comporre il periodo massimo di durata, posto
che le norme in tema di successione dei contratti sono rimaste sostanzialmente
immutate [41].
7. Il diritto di precedenza.È stato introdotto l’onere dirichiamare per iscritto nel contratto il diritto di precedenza
riconosciuto dai commi 4-quater e 4-quinquies dell’art. 5 per le future assunzioni a
tempo indeterminato nei successivi dodici mesi.
È da escludere che l’inadempimento a tale obbligo di informativa possa determinare la
nullità del termine e, di conseguenza, la conversione del rapporto.
La violazione del diritto di precedenza non rappresenta un vizio inquadrabile nella fase
genetica del contratto, quanto piuttosto un inadempimento relativo ad una fase
extracontrattuale, che legittima solo eventuali pretese risarcitorie.
La violazione del diritto di precedenza peraltro è sanzionata solo con l’esclusione dal
beneficio degli incentivi all’assunzione (art. 4, comma 12, l. n. 92 del 2012), ragion per
cui appare irragionevole far discendere dalla violazione dell’obbligo di informativa una
sanzione – la conversione del rapporto – ben più grave di quella prevista per la
violazione del diritto oggetto, appunto, della informativa.
8. La compatibilità con le fonti comunitarie.Ci si chiede se l’introduzione del contratto a termine “acausale”, possa ancora far
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ritenere la normativa italiana conforme allo schema delineato dalla direttiva 1999/70/CE
del 28 giugno 1999 relativa all'accordo quadro CES, UNICE e CEEP sul lavoro a tempo
determinato.
Non va infatti sottaciuto che, rispetto allo schema precedente, l’introduzione del
sistema acausale costituisca un generale arretramento di tutela rispetto alla generalità
dei lavoratori a termine.
Come noto, lo scopo dell’Accordo Quadro, è quello di prevenire l’abuso dell’utilizzo
del contratto a tempo determinato, imponendo agli Stati membri, con la clausola 5,
l’adozione di misure tra loro alternative ovvero: a) l’indicazione di ragioni obiettive per
il rinnovo del rapporto, b) la previsione di una durata massima totale dei contratti
successivi c) la predeterminazione del numero di rinnovi. Tra le stesse, come noto, non
è però contemplata la previsione di ragioni oggettive per l’instaurazione del primo ed
unico contratto a termine [42].
Ed in effetti il mantenimento della necessaria giustificazione causale del primo contratto
ha sempre costituito un elemento di maggior garanzia rispetto alle previsioni del
legislatore comunitario, rappresentando più un segno di continuità con la disciplina di
cui alla l. n. 230 del 1962 che la diligente trasposizione dei principi comunitari, i quali
hanno avuto come principale obiettivo non tanto quello di vincolare il primo rapporto
tra le parti, quanto piuttosto di impedire la reiterazione illegittima di rapporti flessibili.
In ragione di ciò pertanto il nuovo art. 1 del d.lgs. n. 368 del 2001, al pari di tutte le altre
fattispecie di contratto acausale succedutesi nel nostro ordinamento, non sembra porsi in
contrasto con la clausola 5.
Neppure appare violata la clausola di non regresso di cui alla clausola 8 dell’Accordo
Quadro, che impedisce di introdurre nell’ordinamento, attraverso la trasposizione della
direttiva, arretramenti del livello di tutela preesistenti.
L’introduzione del contratto “acausale”, infatti, non discende dalla necessità di
applicare l’Accordo Quadro, ma da un altro obiettivo, distinto da detta applicazione,
coincidente, appunto con lo scopo del d.l. n. 34 del 2014 che è quello di «favorire il
rilancio dell'occupazione e per la semplificazione degli adempimenti a carico delle
imprese».
Se dunque il venir meno dell’onere di giustificare il primo ed unico contratto appare
compatibile con i principi esposti nella Direttiva 70/1999 CE, è tuttavia opportuno
verificare quali oggi siano le concrete “misure” adottate dal nostro ordinamento per la
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prevenzione degli abusi.
Rispetto alla previgente disciplina è sostanzialmente venuta meno la misura di cui al
punto a) della clausola 5 dell’Accordo Quadro, che prevedeva l’esistenza di ragioni
obiettive per la giustificazione del rinnovo del rapporto. Tale misura, era infatti
rinvenibile nel vecchio testo dell’art. 1 del d.lgs. n. 368 del 2001, che imponeva la
previsione di specifiche causali nei confronti di qualsiasi rapportoinstaurato tra le parti.
Permane inoltre l’assenza di una misura compatibile con la lettera c), posto che è
ancora assente una norma che ponga un limite al numero massimo ai rinnovi; né a tale
scopo sembra orientata la nuova disciplina della proroga. Proroga e rinnovo hanno
infatti, nel nostro ordinamento, natura differente e, soprattutto una diversa disciplina: il
tetto imposto al numero di proroghe appare più un palliativo che una forma efficace di
prevenzione degli abusi, posto che, come vedremo a breve, il ricorso al rinnovo risulta
ad oggi sostanzialmente privo di vincoli, se non quello dell’osservanza dei periodi di
interruzione.
Rimane pertanto da verificare se sussista o meno una misura volta a predeterminare la
durata massima totale dei contratti successivi, come previsto dalla lettera b) della
clausola 5 [43].
La riforma, a differenza che nel passato, è intervenuta disciplinando la durata massima
del singolo contratto a termine, individuandola, appunto in trentasei mesi comprensivi
di proroghe.
Tuttavia, il medesimo rigore non è stato riservato alla disciplina della successione dei
contratti, che è sostanzialmente rimasta immutata (eccezion fatta per l’inclusione dei
periodi di missione in virtù di un contratto di somministrazione).
Il datore è infatti tenuto ad osservare il vincolo dei 36 mesi, entro i quali è possibile la
successione dei contratti (e delle relative proroghe e rinnovi) fintanto che intenda
adibire il lavoratore, nel corso dei rapporti, a mansioni equivalenti: dunque nulla
potrebbe vietare al datore di stipulare, scaduto il termine di cui sopra, un ulteriore
contratto a tempo determinato “acausale” limitandosi soltanto a mutare, anche in
meglio, le mansioni originariamente affidate al prestatore, non incontrando più il
vincolo di dover giustificare attraverso l’indicazione di ragioni obiettive, la nuova
assunzione.
Peraltro adaggravare la situazione sta il fatto che, in sede giudiziale, la prova
dell’effettivo svolgimento di mansioni equivalenti incombe interamente sul lavoratore.
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Non solo, ma la disciplina in merito alla previsione di una durata massima dei contratti
successivi è comunque derogabile dalla contrattazione collettiva, che ben potrebbe
prevedere un limite esterno più ampio o addirittura non prevederne alcuno.
Sotto tale profilo l’attuale disciplina del contratto a tempo determinato sembra dunque
prestare il fianco a serie censure di conformità con l’ordinamento comunitario, non
essendo possibile rinvenire, nel nuovo testo, alcuna disposizione assimilabile ad una
delle misure di cui alla clausola 5 dell’Accordo Quadro.
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Riferimenti bibliografici[1] Così anche L. MENGHINI, in La nuova disciplina del lavoro a termine del 2014:
una rivoluzione utile, doverosamente provvisoria, Relazione al convegno La nuova
disciplina del lavoro a termine (d.l. n. 34/2014, conv. in l. n. 78/2014), 4 giugno 2014,
organizzato al Corso di perfezionamento in Diritto del lavoro dell’Università degli
Studi di Padova secondo cui «non si può parlare di piena e completa liberalizzazione
dell’istituto, divenuto equivalente o alternativo al contratto a tempo indeterminato,
perché i limiti temporali e quantitativi continuano a segnalare lo sfavore verso il
contratto a termine, che l’ordinamento continua a voler limitare, certo in modo di gran
lunga meno stringente rispetto al passato, nei confronti del contratto a tempo
indeterminato per gli aspetti legati alla precarietà del lavoro e della vita». Di avviso
contrario è invece V. SPEZIALE, in Lavoro e Welfare, n. 4/2014, 30.
[2] Cfr. Sul punto M. MAGNANI, La disciplina del contratto di lavoro a tempo
determinato: novità e implicazioni sistematiche, in WP C.S.D.L.E. “Massimo
D’Antona”.IT, n. 212, 2014.
[3] Non si sono fatte attendere le reazioni del mondo sindacale, su tutte la denuncia
della CGIL alla Commissione Europea, con la quale è stato richiesta l’applicazione di
una procedura di infrazione nei confronti del Stato Italiano.
[4] Cfr. Circ. Ministero del Lavoro n. 18/2014.
[5] Basti pensare, a titolo esemplificativo, alla disciplina speciale tuttora vigente
prevista per le aziende gerenti il trasporto aereo ed i servizi aeroportuali e per le
concessionarie del servizio postale universale, di cui all’art. 2 del d.lgs. n. 368 del 2001,
o all'art. 8, comma 2, della legge 23 luglio 1991, n. 223, in materia di occupazione dei
lavoratori in mobilità. Da ultimo ma non meno importante, l’introduzione del
comma1-bis all’art. 1 del d.lgs. n. 368 del 2001 con cui, sino all’entrata in vigore della
riforma in commento, era consentita l’assunzione a termine in assenza di ragioni
oggettive per un massimo di dodici mesi, in occasione del primo rapporto di lavoro tra
le parti. Va inoltre precisato che le discipline specifiche per il settore postale ed
aeroportuale, non hanno subito gli effetti del d.l. n. 34 del 2012 ed è legittimo ritenere
che, nei limiti di utilizzo previsti dalle normative di riferimento, sia ammissibile
l’utilizzo concorrente da parte delle aziende beneficiare sia del “nuovo” contratto
acausale, sia della tradizionale forma prevista dall’art. 2 del d.lgs. n. 368 del 2001. Del
pari, rimane inoltre ammissibile anche il ricorso ai contratti “acausali”, riservati ai
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lavoratori assunti dalle liste di mobilità o ai dirigenti, discipline anch’esse rimaste
immuni dall’intervento del d.l. n. 34 del 2014.
[6] In senso analogo cfr. A. PANDOLFO-P. PASSALACQUA, Il nuovo contratto di
lavoro a termine, Torino, 2014, 15.
[7] Secondo l’indirizzo interpretativo del Ministero del Lavoro (cfr. Circ. 18/2014), «In
tali ipotesi appare pertanto opportuno, ai soli fini di “trasparenza”, che i datori di
lavoro continuino a far risultare nell’atto scritto la ragione che ha portato alla stipula
del contratto a tempo determinato».
[8] Secondo l’art. 10 comma 7 del d.lgs. n. 368 del 2001 «Sono in ogni caso esenti da
limitazioni quantitative i contratti a tempo determinato conclusi:
a) nella fase di avvio di nuove attività per i periodi che saranno definiti dai contratti
collettivi nazionali di lavoro anche in misura non uniforme con riferimento ad aree
geografiche e/o comparti merceologici;
b) per ragioni di carattere sostitutivo, o di stagionalità, ivi comprese le attività già
previste nell'elenco allegato al decreto del Presidente della Repubblica 7 ottobre 1963,
n. 1525, e successive modificazioni;
c) per specifici spettacoli ovvero specifici programmi radiofonici o televisivi; d) con
lavoratori di età superiore a 55 anni».
[9] Il contributo non è dovuto per le assunzioni a termine effettuate per ragioni
sostitutive, per attività stagionali di cui al d.P.R. n. 1525 del 1963.
[10] V. infra par. 4.3
[11] Il comma 1-bis dell’art. 1 del d.lgs. n. 368 del 2001, introdotto dalla l. n. 92 del
2012 prevedeva che: «Il requisito di cui al comma 1 non è richiesto: a) nell'ipotesi del
primo rapporto a tempo determinato, di durata non superiore a dodici mesi
comprensiva di eventuale proroga, concluso fra un datore di lavoro o utilizzatore e un
lavoratore per lo svolgimento di qualunque tipo di mansione, sia nella forma del
contratto a tempo determinato, sia nel caso di prima missione di un lavoratore
nell'ambito di un contratto di somministrazione a tempo determinato ai sensi del
comma 4 dell'articolo 20 del decreto legislativo 10 settembre 2003, n. 276; b) in ogni
altra ipotesi individuata dai contratti collettivi, anche aziendali, stipulati dalle
organizzazioni sindacali dei lavoratori e dei datori di lavoro comparativamente più
rappresentative sul piano nazionale».
[12] Secondo R. DE LUCA TAMAJO-F. PATERNÒ (in Lavoro e Welfare, n. 4/2014),
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estremamente critici con la tecnica legislativa, il disattento intervento incidentale
sull’istituto della somministrazione sarebbe dovuto alla «perdurante nonché erronea
convinzione che contratto a termine e somministrazione debbano andare a braccetto,
attesa la somiglianza che li accomuna in termini di “pericolosità sociale”, secondo i
fautori della tesi demonizzatrice, ovvero di opportunità in termini di flessibilità
occupazionale , se a parlare sono gli assertori degli effetti salvifici delle politiche di
liberalizzazione». Del resto non può che concordarsi con le osservazioni di cui sopra,
alla luce della consolidata giurisprudenza comunitaria che ha ormai chiarito la profonda
differenza sussistente tra i due istituti (cfr. Corte giust. UE, sez. VIII, nella sentenza
C-290/12 dell’11 aprile 2013, secondo cui «la direttiva 1999/70 e l’accordo quadro
devono essere interpretati nel senso che non si applicano né al rapporto di lavoro a
tempo determinato tra un lavoratore interinale e un’agenzia di lavoro interinale né al
rapporto di lavoro a tempo determinato tra tale lavoratore e un’impresa utilizzatrice»),
rimarcando peraltro come la stessa Direttiva 2008/104/CE abbia individuato nella
somministrazione non solo un meccanismo a sostegno delle imprese, ma anche un
meccanismo di sostegno attivo dell’occupazione.
[13] Cfr. Ministero del Lavoro Circ. n. 18/2014
[14] In senso analogo cfr. P. TOMASSETTI-M. TIRABOSCHI, Lavoro a termine: i
dubbi dopo la conversione del decreto, in Guida lav., n. 22 del 30 maggio 2014.
[15] Quanto al contratto tra somministratore e lavoratore rimane infatti inalterata la
previsione del secondo comma dell’art. 22 in tema di proroga, che già prima delle
modifiche del d.l. n. 34 del 2014 all’art. 4 del d.lgs. n. 368 del 2001 escludeva
l’applicabilità dei vincoli prescritti sul punto per il contratto a termine.
[16] Cfr. A. PANDOLFO-P. PASSALACQUA, Il nuovo contratto di lavoro a termine,
cit., 39.
[17] Del resto, la norma in questione, trovava la sua ragion d’essere proprio nella
disciplina contenuta nella direttiva 70/1999 CE ove in più punti veniva incoraggiato
l’intervento delle parti sociali nella disciplina del rapporto a tempo determinato (Cfr. P.
PASSALACQUA, Il ruolo della contrattazione collettiva nella regolamentazione del
contratto a termine, in G. PERONE, Il contratto di lavoro a tempo determinato nel d.lg.
6 settembre 2001, n. 368, Torino, 127 ss.).
[18] M.P. AIMO, Il contratto a termine alla prova, Saggi, in Lav. dir., 2-3, 2006. In
senso analogo cfr. G. SANTORO PASSARELLI, Attuazione della direttiva n.
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70/99/CE relativa all'accordo quadro sul lavoro a tempo determinato, concluso
dall'UNICE, dal CEP e dal CES (d.lgs. 6 settembre 2001, n. 368). Commentario a cura
di Giuseppe Santoro Passarelli. Note introduttive, in Nuove leggi civ. comm., 35 ss. In
senso contrario v. R. ALTAVILLA, I contratti a termine nel mercato differenziato,
Milano, secondo cui la contrattazione collettiva avrebbe funzione integratrice del
precetto legale.
[19] G. SANTORO PASSARELLI, Attuazione della direttiva n. 70/99/CE relativa
all'accordo quadro sul lavoro a tempo determinato, cit., 25 ss.
[20] Si pensi ad esempio ai CCNL metalmeccanici, agenzie lavoro, bancari e studi
professionali.
[21] G. GIUGNI, Diritto Sindacale, Bari, 2014.
[22] V. a tal proposito V. SPEZIALE, Totale liberalizzazione del contratto a termine, in
Lavoro Welfare (in www.lavorowelfare.it), n. 4/2014, 31, nonché M. GIOVANNONE-
M. TIRABOSCHI-P. TOMASSETTI, La disciplina del contratto a termine tra istanze
di semplificazione e logiche di sistema, in Disposizioni urgenti per favorire il rilancio
dell’occupazione e per la semplificazione degli adempimenti a carico delle imprese,
EbookAdapt, n. 22/2014, 8. In senso conforme anche A. PANDOLFO-P.
PASSALACQUA, Il nuovo contratto di lavoro a termine, cit., nonché la Circolare Min.
Lav. n. 18 del 2014.
[23] In senso analogo confronta D. MEZZACAPO, Il regime transitorio, in G.
SANTORO PASSARELLI (a cura di), Jobs Act e contratto a tempo determinato,
Torino, 2014.
[24] Cfr. l’art. 16 del CCNL Telecomunicazioni del 2013 secondo cui: «Sono soggetti a
limiti quantitativi di utilizzo nella misura del 13% in media annua dei lavoratori
occupati a tempo indeterminato nell’azienda alla data del 31 dicembre dell’anno
precedente i contratti a tempo determinato conclusi per le seguenti ipotesi specifiche:
a) esecuzione di un’opera o di un servizio che abbia carattere straordinario connesso
all’introduzione di innovazioni tecnologiche;
b) esecuzione di attività di installazione o montaggio soggette a particolari condizioni
climatico ambientali che non consentano la protrazione delle lavorazioni in altro
periodo dell’anno;
c) esecuzione di particolari commesse che, per la specificità del prodotto ovvero delle
lavorazioni, richiedano l’impiego di professionalità e specializzazioni diverse da quelle
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normalmente impiegate;
d) per coprire posizioni di lavoro non ancora stabilizzate.
Tale percentuale è aumentata al 15% per le aziende operanti nei territori del
Mezzogiorno individuati dal Testo Unico approvato con D.P.R. 6 marzo 1978 n. 218.
Nei casi in cui tale rapporto percentuale dia luogo a un numero inferiore a 5, resta
ferma la possibilità dell’azienda di stipulare sino a 5 contratti di lavoro a tempo
determinato. in genere queste clausole risentono ancora delle previsioni dell’art. 23
della l. 56/87».
[25] Sul punto, in giurisprudenza, cfr. di recente Cass. civ. 3 gennaio 2014, n. 27 in
www.iusexplorer.it/Dejure. Per un’ampia rassegna della giurisprudenza sul punto cfr.
A. CHIRIATTI-D. COSTA-G. ROSOLEN-S. SANTAGATA-G. TENAGLIA-M.
TIRABOSCHI-G. TOLVE-P. TOMASSETTI, La riforma del lavoro a termine alla
prova della contrattazione, in WorkingPaper ADAPT, 14 aprile 2014, n. 153, 7, in nota.
[26] Si pensi ad esempio alle vicende delle aziende destinatarie della normativa speciale
di cui all’art. 2 del d.lgs. n. 368 del 2001, i cui contratti collettivi individuano ulteriori
soglie di contingentamento, aggiuntive rispetto a quelle legali.
[27] Cfr. M. MAGNANI, La disciplina del contratto di lavoro a tempo determinato, cit.
[28] Secondo A. PANDOLFO-P. PASSALACQUA, Il nuovo contratto di lavoro a
termine, cit., invece la contrattazione di secondo livello potrebbe intervenire
esclusivamente nei casi in cui sia espressamente a ciò delegata dal contratto nazionale.
Secondo A. PRETEROTI, La violazione dei limiti quantitativi tra sanzione
amministrativa e conversione del contratto, in G. SANTORO PASSARELLI (a cura
di), Job Act e contratto a tempo determinato, Torino, 2014, gli accordi di secondo
livello stipulati ex art. 8 d.l. n. 138 del 2011, conv. in l. n. 148 del 2011 non potrebbero
regolamentare la materia, posto che il legislatore del 2014, intervenendo
successivamente e prevalendo su tale disciplina in virtù del criterio cronologico,
avrebbe espressamente affidato la disciplina del contingentamento alla solo
contrattazione nazionale, adottando dunque un criterio opposto rispetto a quello
presente nel citato d.l. n. 138 del 2011. Tale considerazione, non è condivisibile, posto
che a) la delega alla contrattazione nazione non è stata introdotta dal d.l. n. 34 del 2014
ma era già presente nel corpo originario del decreto legislativo n. 368 del 2001 e b) una
tale esegesi svilisce la portata dell’art. 8 che di fatto resterebbe inutilizzabile qualora,
sulle materie delegate alla contrattazione di secondo livello, intervengano delle
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modifiche.
[29] In particolare, non si condivide l’impostazione del Ministero del Lavoro secondo
cui nella già richiamata Circ. n. 18/2014, «allo scadere di un contratto sarà possibile
stipularne un altro sempreché si rispetti la percentuale massima di lavoratori a tempo
determinato pari al 20%». Tuttavia ad avviso di A. PANDOLFO-P. PASSALACQUA,
Il nuovo contratto di lavoro a termine, cit., tale limite avrebbe carattere dinamico in
quanto «non avrebbe alcun senso, né sarebbe rispettoso della ratio della legge, imporre
a un datore di lavoro che a gennaio si trovi nelle di assumere ad es. due lavoratori, di
rimanere vincolato a quel numero anche laddove il numero complessivo dei contratti a
termine attivati diminuisca nel tempo, tanto da scendere sotto la media registrabile al
primo gennaio». Tale tesi però confligge con il dato testuale della norma, che parla
chiaramente di «numero di contratti» e non di «rapporti in corso». Inoltre,
contrariamente a quanto affermato dagli Autori proprio la giurisprudenza formatasi in
merito al contratto a termine nel settore postale e aeroportuale avvalora la tesi della
natura “rigida” e non “dinamica” dei vincoli percentuali anche con riferimento alla
nuova disciplina posto che tanto le previsioni dell’art. 1 novellato che dell’art. 2 del
d.lgs. n. 368 del 2001 fanno riferimento ad un numero massimo di contratti/assunzioni,
prescindendo dal fatto che i rapporti siano o meno in essere.
[30] Cfr. sul punto anche la più volte citata Circ. Min. Lav. n. 18 del 2014.
[31] In senso conforme cfr. A. PANDOLFO-P. PASSALACQUA, Il nuovo contratto di
lavoro a termine, cit.
[32] Cfr., con riferimento all’applicazione dell’art. 2, comma 1-bis, del d.lgs. n. 368 del
2001, App. Brescia, 4 maggio 2011, n. 198, secondo cui «l’utilizzo di un criterio
promiscuo di cui al decreto e quello per teste, non consente di verificare l’incidenza
effettiva dei contratti a termine sull’organico aziendale nell’arco dell’anno di
riferimento»nonché Trib. Roma, sent. n. 19846 del 2011, secondo cui «È un concetto
logico ancor prima che giuridico che per verificare il rispetto della clausola di
contingentamento sia necessario confrontare dati omogenei».
[33] Il secondo periodo dell’art. 1, comma 1, del d.lgs. n. 368 del 2001, nella forma
introdotta dal d.l. n. 34 del 2014 prevedeva infatti che«Fatto salvo quanto disposto
dall’articolo 10, comma 7, il numero complessivo di rapporti di lavoro costituiti da
ciascun datore di lavoro ai sensi del presente articolo, non potrà eccedere il limite del
20 per cento dell’organico complessivo».
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[34] In giurisprudenza v. App. Firenze, sent. n. 1593 del 2006 e App. Catania, sent. n.
597 del 2007, nonché più recentemente Trib. Milano 16 gennaio 2014, n. 41.
[35] In senso analogo cfr. A. PRETEROTI, La violazione dei limiti quantitativi tra
sanzione amministrativa e conversione del contratto, cit.
[36] Va tuttavia sottolineato che, in sede di discussione del testo in Commissione
Lavoro in Senato, una delle originarie proposte di emendamento era volta proprio a
“sanzionare” espressamente il superamento dei limiti percentuali con la conversione del
rapporto (si veda ad esempio la proposta n. 1.267 dei senatori FUCKSIA, CATALFO,
PUGLIA, PAGLINI di modifica del comma 4-septies dell’art. 5 secondo cui
“«L'assunzione di lavoratori a termine in violazione del limite percentuale di cui
all'articolo 1, comma 1, comporta la trasformazione automatica in contratto a tempo
indeterminato, del contratto dei lavoratori a termine, la cui assunzione risulta più
risalente nel tempo, in misura pari al numero di lavoratori eccedenti».). Il fatto di aver
poi optato per una sanzione di tipo amministrativo potrebbe pertanto far – erroneamente
– ritenere che il legislatore abbia sostanzialmente escluso l’eventuale concorrenza della
sanzione della conversione del rapporto.
[37] Su tutte cfr. Cass. civ. 21 maggio 2008, n. 12985, in Foro it., 2008, I, 3569 ss.
[38] Corte cost. sent. n. 303 del 2011.
[39] Cfr. seppur con riferimento alla vecchia disciplina Cass. civ. 16 aprile 2008, n.
9993; Cass. civ. 16 maggio 2005, n. 10140. In particolare, secondo A. PANDOLFO-P.
PASSALACQUA, Il nuovo contratto di lavoro a termine, cit. la “stessa attività”
consisterebbe «nel medesimo segmento produttivo in cui collocare il lavoratore».
[40] In senso contrario, ritenendo ammissibile la proroga solo con riferimento allo
svolgimento delle medesime mansioni cfr. M. PANCI, Proroga del termine,
continuazione del rapporto dopo la scadenza e rinnovi, in G. SANTORO
PASSARELLI (a cura di), Job Act e contratto a tempo determinato, Torino, 2014.
[41] V. L. DI PAOLA, La nuova disciplina del contratto a termine nel d.l. n. 34 del
2014 conv. in l. n. 78 del 2014, in Giustiziacivile.com, 28 agosto 2014.
[42] Cfr. sul punto Corte giust. UE 23 aprile 2009 (sent.), C-378/07, Angelidaki; Corte
giust. UE 24 giugno 2010 (sent.), C-98/09, Sorge; Corte giust. UE 11 novembre 2010
(ord.), C-20/10, Vino.
[43] Secondo G. SANTORO PASSARELLI, nelle premesse a Jobs Act e contratto a
tempo indeterminato, Torino, 2014, tale misura risulterebbe sostanzialmente attuata
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posto che «è previsto un termine massimo di 36 mesi, comprensivo di proroghe e
rinnovi, oltre il quale non è più consentito assumere a termine». Tale affermazione
appare erronea in quanto il limite esterno dei 36 mesi, secondo la lettera dell’art. 1 è
invece comprensivo delle sole proroghe. I rinnovi, al contrario, sono esclusi
determinando, come si dirà nel prosieguo del paragrafo, la possibilità di ricorrere contra
legem a tali strumenti.
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