La riforma del contratto a tempo determinato di Marco Marazza e Walter Palombi

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LA RIFORMA DEL CONTRATTO A TEMPO DETERMINATO di MARCO MARAZZA, WALTER PALOMBI Approfondimento del 03 marzo 2015 ISSN 2420-9651 Utente: GIUSTIZIA CIVILE UTENZA EDITOR giustiziacivile.com - n. 3/2015 © Copyright Giuffrè 2015. Tutti i diritti riservati. P.IVA 00829840156

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Il d.l. n. 34 del 2014 conv. in l. n. 78 del 2014, ha radicalmente innovato le fondamenta della disciplina del contratto di lavoro a tempo determinato. L’elemento caratterizzante la riforma è certamente l’abbandono del principio della necessaria giustificazione dell’apposizione del termine mediante ragioni oggettive, come originariamente prescritto dal primo comma dall’art. 1 del d.lgs. n. 368 del 2001: è oggi pertanto legittimato, in via generale, il ricorso al contratto c.d. “acausale” per qualunque tipo di rapporto a termine e per lo svolgimento di qualunque tipo di mansione, pur se nel rispetto di specifici vincoli in ordine alla quota di lavoratori flessibili utilizzabili, al numero di proroghe ed alla durata massima dei rapporti, e fermi restando i tradizionali divieti previsti dalla vecchia disciplina.

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LA RIFORMA DEL CONTRATTO A TEMPO

DETERMINATO

di MARCO MARAZZA, WALTER PALOMBI

Approfondimento del 03 marzo 2015

ISSN 2420-9651

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Il d.l. n. 34 del 2014 conv. in l. n. 78 del 2014, ha radicalmente innovato lefondamenta della disciplina del contratto di lavoro a tempodeterminato. L’elemento caratterizzante la riforma è certamentel’abbandono del principio della necessaria giustificazionedell’apposizione del termine mediante ragioni oggettive, comeoriginariamente prescritto dal primo comma dall’art. 1 del d.lgs. n. 368del 2001: è oggi pertanto legittimato, in via generale, il ricorso alcontratto c.d. “acausale” per qualunque tipo di rapporto a termine e per losvolgimento di qualunque tipo di mansione, pur se nel rispetto di specificivincoli in ordine alla quota di lavoratori flessibili utilizzabili, al numero diproroghe ed alla durata massima dei rapporti, e fermi restando itradizionali divieti previsti dalla vecchia disciplina.

SOMMARIO: 1. Premessa. - 2. La “acausalità” del contratto a termine. - 3. Il raccordo

tra la disciplina del contratto a termine e del contratto di somministrazione. - 4. I limiti

percentuali. - 4.1. Il difficile rapporto tra la legge e contrattazione collettiva. - 4.2. Il

criterio di computo. - 4.3. Le sanzioni. - 5. Le proroghe. - 6. I rinnovi. - 7. Il diritto di

precedenza. - 8. La compatibilità con le fonti comunitarie.

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1. Premessa.Il d.l. n. 34 del 20 marzo 2014 (“Disposizioni urgenti per favorire il rilancio

dell'occupazione e per la semplificazione degli adempimenti a carico delle imprese”),

convertito con modifiche dalla l. n. 78 del 16 maggio 2014, ha radicalmente innovato le

fondamenta della disciplina del contratto di lavoro a tempo determinato.

L’elemento caratterizzante la riforma è certamente l’abbandono del principio della

necessaria giustificazione dell’apposizione del termine mediante ragioni oggettive,

come originariamente prescritto dal primo comma dall’art. 1 del d.lgs. n. 368 del 2001:

è oggi pertanto legittimato, in via generale, il ricorso al contratto c.d. “acausale” per

qualunque tipo di rapporto a termine e per lo svolgimento di qualunque tipo di

mansione, pur se nel rispetto di specifici vincoli in ordine alla quota di lavoratori

flessibili utilizzabili, al numero di proroghe ed alla durata massima dei rapporti, e fermi

restando i tradizionali divieti previsti dalla vecchia disciplina.

Il decreto in commento costituisce, nella sua esteriorità, l’ideale compimento del

tormentato processo di (apparente) liberalizzazione dell’istituto del contratto a termine:

tuttavia è erroneo, celebrare – o accusare – il provvedimento di aver confezionato uno

strumento di accesso al mercato del lavoro perfettamente fungibile con il contratto a

tempo indeterminato, che ad oggi è e rimane la forma comune di rapporto di lavoro [1].

Tuttavia, a differenza del passato, per appurare la legittimità dell’apposizione del

termine non sono più richieste valutazioni di carattere qualitativo o indagini di merito

(la verifica della sussistenza delle ragioni oggettive), ma soltanto delle mere misurazioni

di indici numerico-quantitativi [2].

È ancora difficile dire se l’attuale assetto normativo possa, in qualche modo,

rappresentare un punto fermo e se, soprattutto, riuscirà a resistere alle prevedibili

censure di conformità con l’ordinamento comunitario [3].

Numerosi, comunque, sono i dubbi interpretativi che la giurisprudenza dovrà con

pazienza sciogliere. Quelli più significativi riguardano le modalità di applicazione del

nuovo contingentamento legale del venti per cento (in particolare per quanto riguarda il

rapporto tra legge e contrattazione collettiva) ed il regime sanzionatorio.

È plausibile ritenere che ciò sia la conseguenza di una tecnica normativa che risente

(forse troppo) di difficili compromessi politici e, più in generale, della difficoltà di

riannodare il senso degli incalzanti interventi legislativi che si sono succeduti in questi

ultimi anni, ondeggianti tra esigenze di flessibilità ed istanze di maggiore tutela del

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lavoro.

2. La “acausalità” del contratto a termine.La novità più rilevante consiste nel fatto che, per legittimare l’assunzione a tempo

determinato, non è più richiesta l’esistenza e la specificazione per iscritto di ragioni di

carattere “tecnico, produttivo, organizzativo e sostitutivo”, ritenendosi sufficiente, ai

fini della validità formale e sostanziale del contratto, la mera indicazione – in forma

diretta o indiretta – del termine di durata apposto al rapporto [4].

È opportuno ricordare che, comunque, il nostro ordinamento non era estraneo al

fenomeno della “acausalità” [5]nell’ambito del ricorso al contratto a termine: tuttavia,

mentre in passato il ricorso al contratto acausale si atteggiava a fattispecie eccezionale,

ammessa ora per favorire l’ingresso (o il reingresso) nel mondo del lavoro, ora per

consentire a determinate aziende di mantenere gli standard qualitativi di servizio

imposti per legge, oggi il contratto “acausale” è diventato la forma “comune” del

rapporto a tempo determinato [6].

Il venir meno del tradizionale requisito di validità non esclude poi la possibilità, se non

addirittura l’opportunità, per il datore di lavoro di continuare ad indicare nel contratto

alcune specifiche causali [7]. È il caso del ricorso all’utilizzo delle ipotesi tipizzate

dall’art. 10, comma 7, d.lgs. n. 368 del 2001, che consente di beneficiare

dell’esclusione dai limiti quantitativi [8], oppure delle causali indicate dall’art. 2, co

mmi 28 e 29, della legge n. 92 del 2012 [9] che esimono dal versamento del contributo

addizionale dell’1,4%.

In tali casi, tuttavia, l’accertamento dell’insussistenza della causale, proprio in ragione

del venir meno del precetto imperativo che la imponeva quale condizione di liceità del

termine, non determinerà la automatica conversione del contratto.

L’unica conseguenza potrà essere, verosimilmente, solo l’applicazione dei limiti

quantitativi al contratto impugnato (con tutte le conseguenze previste in caso di

superamento del contingente [10]) e/o il versamento del contributo illegittimamente non

versato, con le relative sanzioni.

3. Il raccordo tra la disciplina del contratto a termine e del contratto disomministrazione.Le disposizioni di cui all’art. 1 del d.lgs n. 368 del 2001 sono oggi espressamente

applicabili anche “nell’ambito” di un contratto somministrazione a tempo determinato.

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Al pari del legislatore del 2012 [11], anche il d.l. n. 34 del 2014 si è premurato di

operare un coordinamento tra la disciplina del contratto a termine e della

somministrazione a tempo determinato [12].

E si potrebbe dire che la lettera dell’articolo 1, comma 1, d.lgs. n. 368 del 2001, come

modificata, sia espressione della volontà del legislatore di prevedere, anche per la

somministrazione a tempo determinato che: a) non è richiesta la sussistenza di una

specifica ragione giustificatrice a sostegno del ricorso alla somministrazione; b)

l’utilizzo dei lavoratori somministrati debba osservare il medesimo vincolo legale di

contingentamento imposto per i contratti a termine.

A ben vedere entrambe le soluzioni di cui sopra non appaiono soddisfacenti, lasciando

anzi intuire un certa ridondanza del contenuto della norma.

In primo luogo, l’introduzione del sistema “acausale” nell’ambito della

somministrazione di lavoro a tempo determinato non è attribuibile al primo periodo

dell’art. 1 del d.lgs. n. 368 del 2001.

Il d.l. n. 34 del 2014 è, infatti, intervenuto parallelamente anche sulle disposizioni del

d.lgs. n. 276 del 2003 che disciplinano la somministrazione di lavoro, modificando il

quarto comma dell’art. 20 – contenente le condizioni di liceità del contratto di

somministrazione – dove oggi non è più prevista la necessità di legittimare la

somministrazione di lavoro a tempo determinato attraverso l’indicazione delle stesse

ragioni giustificatrici imposte per l’apposizione del termine al contratto di lavoro

subordinato.

Inoltre, la precisazione operata dall’art. 1, comma 1, del d.lgs. n. 368 del 2001 non

appare del resto necessaria a giustificare la “acausalità” del contratto stipulato tra

l’agenzia del lavoro e il prestatore: tra tali soggetti, come noto, si instaura un ordinario

rapporto di lavoro subordinato che è disciplinato, in caso di apposizione di un termine,

dal d.lgs. n. 368 del 2001 ove compatibile. Pertanto, il rinvio alla disciplina del contratto

a termine comprende certamente anche il “nuovo” art. 1, nella parte in cui introduce,

appunto, il generale modello “acausale” del contratto a termine.

Va poi escluso che la riforma abbia inteso estendere le previsioni circa il limite legale di

contingentamento del venti per cento anche al ricorso a lavoratori somministrati.

In primo luogo, nella disciplina della somministrazione, giusta la previsione dell’art. 20,

comma 4, d.lgs. n. 276 del 2003, l’individuazione della soglia di contingentamento è

tuttora affidata, in via esclusiva, alla contrattazione collettiva in virtùdell’espresso

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rinvio al solo art. 10, comma 7, del d.lgs. n. 368 del 2001 [13].

Inoltre, la lettera del citato art. 1, comma 1, d.lgs. n. 368 del 2001 evidenzia una chiara

inconciliabilità delle previsioni sui limiti quantitativi ed il rapporto di somministrazione:

la norma, letta nel suo complesso, circoscrive infatti il vincolo di contingentamento ai

“contratti” stipulati tra un “datore” ed un “lavoratore” e non più ai rapporti

eventualmente intercorrenti tra un “lavoratore” ed un “utilizzatore”.

Superando le imprecisioni terminologiche contenute nel decreto legge, il legislatore, in

fase di conversione, ha chiaramente inteso escludere dall’applicazione del limite legale

i rapporti di somministrazione, attraverso la valorizzazione, da un lato, dell’aspetto

formale della stipulazione di un contratto tra il datore ed il prestatore, e, dall’altro,

abbandonando la formula, piuttosto ambigua, secondo cui entro il limite del venti per

cento dovesse essere compreso il “numero complessivo di rapporti”. Tale espressione,

infatti, insistendo su un piano di carattere sostanziale poteva ben indurre ad includere

nel calcolo non solo i contratti, ma anche i rapporti, ovvero i vincoli di carattere

fattuale, come appunto quello tra utilizzatore e prestatore [14].

Infine, l’esclusione dal limite legale di contingentamento è avvalorata dal fatto che

l’art. 22, comma 2, del d.lgs. n. 276 del 2003 è stato modificato nel senso di non ritenere

applicabili alla somministrazione le previsioni di cui all’art. 5, commi 3 e seguenti, ivi

dunque incluse le nuove sanzioni introdotte per la violazione delle norme sul

contingentamento.

Ciò posto, va chiarito se il richiamo contenuto nell’art. 1, comma 1, del d.lgs. n. 368

del 2001 costituisca un mero pleonasmo o se, in effetti, conservi una sua utilità

nell’ambito del raccordo tra la disciplina del contratto a termine e della

somministrazione.

L’unica previsione contenuta nel novellato art. 1 del d.lgs. n. 368 del 2001 non

superflua e non in contrasto con l’impianto del d.lgs. n. 276 del 2003 sembra essere

quella che limita la durata del singolo contratto “acausale” a trentasei mesi, comprensivi

di eventuali proroghe.

Estendendo tale previsione, nell’ambito di un rapporto di somministrazione (dunque

tanto con riferimento al contratto commerciale, quanto con riferimento al contratto

individuale concluso tra utilizzatore e prestatore) può ritenersi che la riforma abbia

inteso vincolare la durata massima della “missione” del singolo lavoratore a soli

trentasei mesi complessivi, bilanciando in questo senso la sostanziale libertà delle parti

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di prorogare i successivi contratti senza alcun limite [15].

L’applicazione della norma nel senso sopra prospettato, pur se ne giustifica la presenza

nell’ordinamento, non introduce comunque, sul piano concreto, alcun un effettivo

irrigidimento nella disciplina del ricorso alla somministrazione.

Ed infatti, non va trascurato che, pur circoscrivendo il singolo contratto in un termine

massimo di trentasei mesi comprensivo di proroghe, resterebbe sempre salva la

possibilità per datori e somministratori di stipulare, successivamente e senza soluzione

di continuità, un ulteriore contratto, anziché prorogarlo, avvalendosi dell’esclusione

dall’obbligo di rispetto dei periodi di interruzione di cui al comma 3 dell’art. 5 del

d.lgs. n. 368 del 2001, come sancito dall’art. 22, comma 2, del d.lgs. n. 276 del 2003.

Vero è che la contrattazione collettiva per il settore delle Agenzie di Somministrazione

prevede la possibilità di prorogare il contratto individuale tra lavoratore ed Agenzia per

un massimo di sei volte: tuttavia, mancando una specifica disciplina sui “rinnovi” la

norma pattizia di cui sopra si presta a facili elusioni, mediante la reiterazione dei rinnovi

in luogo delle proroghe.

4. I limiti percentuali. - 4.1. Il difficile rapporto tra la legge e contrattazionecollettiva. - 4.2. Il criterio di computo. - 4.3. Le sanzioni.Il numero complessivo dei contratti a termine non potrà eccedere il venti per cento dei

lavoratori a tempo indeterminato in forza al 1° gennaio dell’anno di assunzione, “fatto

salvo” quanto previsto dall’art. 10, comma 7. Tale norma, rimasta immutata, affida(va)

alla contrattazione collettiva nazionale il compito di individuare le soglie di

contingentamento, ed indica(va) inoltre alcune ipotesi di esenzione da tali limiti (i

contratti a termine conclusi per l’avvio di nuove attività per i periodi definiti dalla

contrattazione collettiva, per esigenze sostitutive o di stagionalità, per specifici

spettacoli ovvero specifici programmi radiofonici o televisivi ed i contratti stipulati con

lavoratori di età superiore a 55 anni). Per i datori fino a cinque dipendenti sarà poi

sempre consentito stipulare un contratto a termine, con ciò di fatto impedendo, con

disposizione dal tenore inderogabile, alla contrattazione collettiva di intervenire,

imponendo ad esempio limiti talmente bassi da impedire la stipulazione, in tali casi, di

almeno un contratto a termine [16].

Immuni da limiti quantitativi sono inoltre i contratti di lavoro a tempo determinato

stipulati tra istituti di ricerca e lavoratori chiamati a svolgere attività di ricerca.

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4.1. Il difficile rapporto tra la legge e contrattazione collettiva.

Alla luce del combinato disposto delle norme sopra citate, è necessario comprendere in

che misura l’autonomia collettiva, che ha perso quel ruolo di fonte esclusiva affidatole

dall’art. 10, comma 7, del d.lgs. n. 368 del 2001 [17], sia oggi autorizzata ad intervenire

sulla materia del contingentamento.

La sostanziale differenza rispetto al passato riposa nel fatto che il rispetto dei limiti

quantitativi costituisce oggi una vera e propria condizione di validità del contratto, in

quanto precetto contenuto in una norma di legge, e non più materia lasciata alla

completa disponibilità delle parti sociali.

Nel vigore della previgente disciplina, infatti, non sono mancati commenti volti a

sottolineare come l’individuazione dei limiti di contingentamento costituisse una mera

facoltà attribuita alla contrattazione collettiva e non una conditio sine qua non alla

validità del contratto [18], con la conseguenza chel’eventuale carente previsionedi tali

vincoli, da parte dei contratti collettivi, non avrebbe impedito la stipulazione di contratti

a termine [19]. Del resto non sono rari i testi contrattuali oggi applicati ove non è

presente – almeno per il momento – alcuna disciplina legale del contingentamento [20].

Nel nuovo assetto normativo vediamo che tale norma di carattere generale, è stata

sostanzialmente calata in un contesto ove permane la precedente delega in favore della

contrattazione collettiva per la disciplina la medesima materia.

Può ritenersi pertanto che la norma legale abbia un carattere suppletivo, trovando

applicazione solo qualora manchi una specifica disciplina collettiva o quando, ad

esempio, il datore non applichi alcun contratto [21]: la locuzione “fatto salvo” e la

sostanziale identità del testo dell’art. 10, comma 7, del d.lgs. n. 368 del 2001, sembrano

infatti voler mantenere fermo il ruolo che la contrattazione ha svolto sino ad oggi

nell’individuazione delle percentuali di utilizzo del contratto a termine, e inducono a

ritenere chel’autonomia collettiva deve ancora oggi essere considerata libera di

individuare limiti anche differenti da quello di legge [22].

A complicare il quadro interpretativo delineato vi sono tuttavia le norme transitorie

dedicate specificamente ai limiti quantitativi, contenute nell’art. 2-bis del d.l. n. 34 del

2014, introdotto dalla legge di conversione n. 78 del 2014.

Il comma secondo della citata norma prevede infatti che, in sede di prima applicazione

del limite percentuale del nuovo art. 1 del d.lgs. n. 368 del 2001, conserveranno

efficacia i limiti previsti dalla contrattazione collettiva “ove diversi”.

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La previsione di una disciplina transitoria di tale tenore induce a ritenere che,

inconsapevolmente, il legislatore del 2014, modificando l’art. 1 del d.lgs. n. 368 del

2001 abbia inteso introdurre una riserva legale nella disciplina della individuazione

delle percentuali di contingentamento, proprio perché una interpretazione letterale della

norma transitoria conduce alla conclusione per la quale, terminata la fase di prima

applicazione, i diversi limiti previsti dall’autonomia collettiva dovranno

necessariamente perdere efficacia, dovendo lasciare il posto – inevitabilmente – a quello

legale.

Tuttavia, come sopra ricordato, è invece pacifico che la contrattazione collettiva possa

individuare limiti maggiori e minori rispetto a quelli indicati dal novellato art. 1 del

d.lgs. n. 368 del 2001. Ed altrettanto incontestabile è l’affermazione per la quale,

qualora la contrattazione collettiva fosse già intervenuta sulla materia del

contingentamento, nulla osterebbe al mantenimento in vigore di tali disposizioni, pur se

antecedenti al d.l. n. 34 del 2014, posto che le previsioni di cui all’art. 10, comma 7, del

d.lgs. n. 368 del 2001 sono rimaste immutate.

Pertanto, sembrerebbe priva di senso l’applicazione della disciplina transitoria anche

per le ipotesi in cui già vige un diverso limite di contingentamento di fonte negoziale, e

cioè in tutti quei casi in cui la contrattazione abbia già adempiuto al compito affidatole

dalla precedente disciplina, e oggi ribadito, seppur individuando limiti percentuali

diversi.

Una lettura alternativa, ed in linea con la natura transitoria dell’intervento, potrebbe

però essere quella secondo cui viene ammessa la temporanea efficacia – e dunque il

futuro venir meno – solo delle clausole che individuano limiti di contingentamento

secondo criteri incompatibili con il nuovo regime.

In questo contesto i limiti “diversi” devono essere intesi in senso non quantitativo ma

qualitativo [23]: si pensi ad esempio a quelle che prevedono soglie di contingentamento

solo in relazione a determinate tipologie di contratti a termine, legate a specifiche

causali [24], oppure quelle clausole che prendono come base di computo l’organico

presente in una determinata unità produttiva. Tali clausole, traendo origine da una

disciplina ormai abrogata, sono destinate naturalmente a perdere di efficacia, ma di

fatto, almeno nella fase iniziale, possono ancora trovare applicazione nei confronti di

quelle forme contrattuali, ancora in corso di esecuzione, legate alla vecchia disciplina.

Il vero problema, tuttavia, è legato all’interpretazione dell’inciso «In sede di prima

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applicazione», che circoscrive l’ambito cronologico di efficacia di tali clausole.

Una possibile esegesi suggerisce di ritenere che la “sede di prima applicazione” dei

nuovi limiti di contingentamento di cui all’art. 1 sia il periodo di vigenza del contratto

collettivo applicato, in base ad una interpretazione analogica delle previsioni dell’art.

11, comma 2, del d.lgs. n. 386 del 2001. Tale norma, all’indomani della promulgazione

del d.lgs. n. 368 del 2001 ebbe infatti la funzione di armonizzare le disposizioni dei

contratti collettivi attuative dall’art. 23 della l. n. 56 del 1987 – con particolare

riferimento all’individuazione di nuove specifiche ipotesi di legittima apposizione del

termine – con il nuovo regime introdotto dalla novella del 2001, disponendo che le tali

clausole avrebbero conservato efficacia sino alla scadenza del contratto collettivo che le

prevedeva [25].

Ma ha senso mantenere temporaneamente efficace una disciplina collettiva – che

individua limiti di contingentamento di carattere particolare – di fatto implicitamente

abrogata dal nuovo assetto normativo, peraltro in un contesto ove è prevedibile che le

imprese, in caso di nuove assunzioni a termine, ricorreranno tutte al nuovo modello

“acausale”?

Proprio in virtù di tali dubbi interpretativi pare ragionevole opinare che la sede di prima

applicazione coinciderà con quella fase transitoria in cui, all’interno dell’azienda

coesisteranno, per periodi di tempo più o meno lunghi, entrambe le tipologie di

contratto a termine. Con la conseguenza che, in teoria, i contratti stipulati in base alla

precedente disciplina o comunque vincolati a “diversi” limiti di contingentamento nel

senso sopra indicato, saranno consentiti nella quota indicata dai contratti collettivi

applicati, mentre tutte le altre assunzioni a termine, ivi incluse quelle previste dal

novellato art. 1, saranno consentite sino al raggiungimento del venti per cento dei

lavoratori stabili presenti in azienda. Ciò è avvalorato dal fatto che la disciplina

transitoria ha precisato che i diversi limiti conserveranno efficacia “in sede di prima

applicazione” delle nuove disposizioni, ivi incluse quelle su contingentamento legale, il

che suggerisce non un differimento dell’entrata in vigore delle nuove disposizioni sul

contingentamento ma una ipotesi di concorrenza temporanea tra il vincolo di

contingentamento legale e quello di fonte negoziale, fenomeno anch’esso, già noto

all’ordinamento [26].

Tuttavia, questo potrebbe comportare effetti opposti rispetto al dichiarato obiettivo di

contenere l’utilizzo del lavoro a termine: quali conseguenze potrebbero esservi se la

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contrattazione collettiva continuasse a prevedere limiti di contingentamento “diversi” in

senso qualitativo – eventualmente incompatibili – anche successivamente alla fase di

prima applicazione?

Tale soluzione non appare lontana dalla realtà in quanto, l’art. 10, comma 7, del d.lgs. n.

368 del 2001 legittima l’autonomia collettiva all’individuazione di limiti anche non

omogenei.

Due, allo stato, sono le possibili soluzioni,:

a) avallando la tesi per la quale il d.l. n. 34 del 2014 abbia di fatto introdotto una riserva

legale sull’individuazione dei limiti di contingentamento (affidando alla contrattazione

collettiva solo il compito di fissarne la misura numerica, maggiore o minore del venti

per cento) le clausole di contingentamento incompatibili con la nuova disciplina (perché

ad esempio legati a particolari qualità dei lavoratori o dell’unità produttiva) saranno

sostituite ex lege dai limiti legali;

b) qualora si voglia invece sostenere la tesi della natura sussidiaria delle previsioni

legali, i limiti di contingentamento di carattere speciale troveranno applicazione nei

confronti delle fattispecie espressamente previste dalla contrattazione collettiva, mentre

quelli legali andranno a disciplinare, in via residuale le altre.

Il legislatore ha inoltre approntato alcune misure volte ad evitare all’azienda che,

all’entrata in vigore della riforma, non applichi alcun contratto collettivo, o applichi un

contratto che non prevede alcuna soglia di contingentamento, di trovarsi in una

immediata condizione di illiceità [27].

In tali casi, il datore sarà tenuto a rientrare nel limite di legge entro il 31 dicembre 2014,

salvo che un contratto collettivo applicabile nell’azienda non preveda un «limite

percentuale o un termine più favorevole». Sembra quindi offerta alle imprese la

possibilità di avvalersi di un accordo “ponte”, anche a livello aziendale, che preveda un

termine più lungo per rientrare nella soglia del 20% oppure che innalzi tale soglia di

rientro, per consentire le nuove assunzioni a decorrere dal 2015.

In caso di mancato adeguamento, il datore sarà di fatto inibito dall’assumere con

contratto a termine sino al rientro nei limiti.

Va infine affrontato il problema circa l’individuazione del livello contrattuale

legittimato ad intervenire sulla materia del contingentamento. L’art. 10, comma 7,

richiama chiaramente ancora oggi la sola contrattazione nazionale. All’indomani

dell’introduzione di tale norma l’opinione prevalente, che valorizzava la differente

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formulazione rispetto a quanto previsto dall’art. 23 della l. n. 56 del 1987 – che

demandava “ai contratti collettivi di lavoro” il compito di individuare i limiti di

contingentamento – era quella di escludere la contrattazione di secondo livello da tale

processo regolamentare. Tuttavia i profondi cambiamenti intervenuti nell’ambito delle

relazioni industriali nell’ultimo decennio inducono a ritenere superata tale

interpretazione, soprattutto alla luce dell’introduzione dell’art. 8 della l. n. 138 del

2011, che, come noto, consente la stipulazione di accordi a livello aziendale dotati di

efficacia derogatoria anche, come previsto dal comma 2, lett. c), nei confronti delle

norme sui contratti a termine [28].

4.2. Il criterio di computo.

Dopo le modifiche in sede di conversione, il limite riguarderà il numero di complessivo

di contratti rispetto al venti per cento dei lavoratori a tempo indeterminato in forza al 1°

gennaio dell’anno di assunzione.

Secondo alcuni la legge avrebbe pertanto imposto l’onere di mantenere, all’interno

dell’azienda, una proporzione constante tra lavoratori stabili e flessibili.

Tuttavia, avendo il legislatore abbandonato il riferimento ai “rapporti”, il limite di

contingentamento sembrerebbe avere carattere rigido, predeterminando invece di fatto il

numero di contratti da stipulare ogni anno. Dunque, almeno stando al tenore testuale

della legge, il limite dovrà dichiararsi violato nel momento in cui l’azienda abbia

stipulato quel contratto a termine (anche con lo stesso lavoratore) che determini,

sommato agli altri contratti stipulati in precedenza, il superamento alla soglia legale del

venti per cento, indipendentemente dal fatto che il numero di rapporti a termine in corso

sia o meno inferiore a tale quota [29].

La base di calcolo non è più individuata nell’organico aziendale, ma nel numero di

lavoratori stabili: infatti, non parlandosi più di “organico”, entro tale parametro

potrebbero computarsi ad esempio, anche gli apprendisti, che ai sensi dell’art. 1 del

d.lgs. n. 167 del 2011 sono considerati a tutti gli effetti lavoratori a tempo indeterminato

[30]. Rimarrebbero invece esclusi gli assunti con contratto di reinserimento, per effetto

dell’art. 20 della legge n. 223 del 1991, nonché i lavoratori somministrati, per effetto

dell’art. 22, comma 5, del d.lgs. n. 276 del 2003, oltre che i lavoratori autonomi ed i

collaboratori a progetto.

La questione di maggior rilievo pratico è certamente quella del criterio di computo da

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adottare. Ad oggi, sia con riferimento ai limiti legali, sia riguardo a quelli di fonte

contrattuale, la giurisprudenza è sempre stata orientata verso l’utilizzazione del criterio

di cui all’art. 6 della l. n. 61 del 2000, che impone, in tutti i casi in cui sia richiesto di

valorizzare la consistenza dell’organico ai fini dell’applicazione di una determinata

norma, di computare i lavoratori in ragione del tempo lavorato (c.d “full time

equivalent” o “FTE”). A tale criterio viene assoggettata sia la quantificazione

dell’organico complessivo, che il conteggio dei rapporti a termine.

Nel nuovo testo dell’art. 1, tuttavia, il riferimento ai “contratti” ed al “numero di

lavoratori a tempo indeterminato” suggerisce tuttavia l’intenzione del legislatore di

calcolare il limite di contingentamento secondo un criterio “per teste”, ovvero

valorizzando puntualmente ciascun lavoratore [31].

Il criterio del full time equivalent, infatti, seppur tecnicamente applicabile alla

determinazione dell’organico (o meglio, del numero di lavoratori a tempo

indeterminato), tuttavia mal si attaglia all’obbligo individuato dalla norma, che è volta

ad includere nel computo non il rapporto od il lavoratore, bensì il contratto, che,

indipendentemente dal regime orario adottato, rileverà sempre e comunque come una

unità. Rimanendo ancorati ad una impostazione troppo rigida si finirebbe per applicare

– erroneamente – per la quantificazione dell’organico il criterio di computo il criterio in

full time equivalente, valorizzando invece, come previsto dalla norma, i contratti a

termine secondo il criteriopuntuale, rischiando di Con la illogica conseguenza di

adottare criteri tra loro non omogenei per la verifica del rispetto delle soglie di

contingentamento [32].

Il computo “per teste”, infatti, appare dunque il criterio più versatile e al contempo

compatibile con le previsioni del legislatore. Infatti, mentre l’ipotesi originaria del

decreto aspirava a vincolarestabilmente la quota di lavoro flessibile rispetto all’organico

[33], oggi la legge intendeprescrivere il contingentamento del numero annuo di

assunzioni a termine, con la conseguenza che, in teoria, ciascun datore potrà assumere

annualmente un numero pari al 20% (o altra percentuale autorizzata dalla contrattazione

collettiva) dei lavoratori stabili, che potranno assommarsi e coesistere nell’organico per

tutta la durata dei rispettivi contratti.

4.3. Le sanzioni.

Come sopra accennato, nella previgente disciplina, se il superamento del limite legale

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(v. ad es. quello previsto dall’art. 2 del d.lgs. n. 368 del 2001 per la disciplina

aggiuntiva per i servizi postali ed aeroportuali) conduceva senza dubbio alla

conversione del rapporto, la stessa conseguenza non era pacifica in caso di violazione

del contingente imposto dalla contrattazione collettiva, da cui poteva discendere solo il

diritto al risarcimento del danno [34].

Con la nuova disciplina, l’onere di rispettare determinati limiti quantitativi assurge

invece a norma imperativa di carattere generale, la cui violazione determinerà in ogni

caso la conversione del rapportoconcluso in violazione dei limiti [35].

Un fattore di assoluta novità risiede al comma 4-septies dell’art. 5: in caso di

superamento del limite di cui all’art. 1 il datore sarà passibile di una sanzione

amministrativa pari al 20% o al 50% (a seconda che la violazione riguardi uno o più

contratti) della retribuzione di ciascun lavoratore assunto in violazione della soglia di

contingentamento.

Nonostante la norma possa ingenerare confusione, va rilevato come le due “sanzioni”

intervengano in via concorrenziale sulla medesima violazione, pur se in ambiti

differentie non appaiono affatto alternative tra loro [36].

Infatti, come noto,la conversione del rapporto a termine parzialmente nullo non

discende dalla sussistenza o meno di una espressa disposizione di legge, quanto

piuttosto dall’applicazione dell’art. 1419, comma 1, c.c., in virtù del quale la

disposizione inderogabile di legge (la previsione che il contratto a tempo indeterminato

è la forma comune) viene giudizialmente sostituita alla clausola appositiva del termine

di durata giudicata nulla [37]

Del resto già in precedenza potevano coesistere più livelli sanzionatori: si pensi al

divieto di assumere a termine per le imprese che non avessero effettuato la valutazione

dei rischi per la salute dei lavoratori, fattispecie idonea a determinare sia una sanzione

penale per il datore (ai sensi dell’art. 55 del d.lgs. n. 81 del 2008), sia la conversione del

rapporto [in quanto violazione dell’art. 3, lett. d), del d.lgs. n. 368 del 2001].

Inoltre, escludendo la possibilità di convertire il rapporto stipulato oltre il limite di

contingentamento, si priverebbe poi il lavoratore dello stesso diritto all’indennità di cui

all’art. 32 della l. n. 183 del 2010 che discende solo qualora il giudice accerti e dichiari

l’esistenza di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato, e in ogni caso si porrebbe in

contrasto coi principi espressi dalla giurisprudenza costituzionale, secondo cui «la

stabilizzazione del rapporto è la protezione più intensa che possa essere riconosciuta

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ad un lavoratore precario» [38].

In ogni caso, ai sensi dell’art. 2, comma 2,del d.l. n. 34 del 2014 come convertito dalla

l. n. 78 del 2014, le sanzioni non troveranno applicazione nei confronti dei contratti a

termine instaurati prima dell’entrata in vigore del decreto.

5. Le proroghe.Il contratto a termine potrà avere una durata massima di trentasei mesi, comprensiva

delle eventuali proroghe che, ai sensi dell’art. 4 del d.lgs. n. 368 del 2001, sono

ammesse in numero massimo di cinque, nell’arco dei complessivi trentasei mesi, ed

indipendentemente dal numero dei rinnovi.

È scomparso, per ovvie ragioni, sia il riferimento del requisito della sussistenza delle

ragioni oggettive per la proroga del rapporto, sia, il correlativo onere processuale in

capo al datore di doverne dimostrare l’obiettiva esistenza in giudizio.

Il contratto a termine, che non richiede più alcuna giustificazione oggettiva ai fini della

stipulazione, è dunque altrettanto liberamente prorogabile, dovendo solo osservare due

limiti.

Il primo è quello di riferire le proroghe alla stessa “attività lavorativa” per il quale il

contratto è stato stipulato.

A tal riguardo, secondo la giurisprudenza, la “stessa attività”, era identificabile con la

«dimensione oggettiva riferibile alla destinazione aziendale del lavoro e non riducibile

alle mansioni del lavoratore» [39]. I principi sino ad oggi elaborati richiederanno

probabilmente un aggiornamento in considerazione della sopravvenuta natura acausale

dei contratti a termine ed è ragionevole ritenere che il concetto di “attività lavorativa”

tenderà ad essere ampliato, e comunque sempre più identificato con le mansioni del

lavoratore. Ne deriva che, seppur con la necessaria prudenza, per effetto della proroga il

lavoratore potrà anche essere adibito a mansioni equivalenti ma non a mansioni diverse

[40].

Quanto al secondo limite, le proroghe potranno essere concluse in un numero massimo

di cinque, indipendentemente dal numero di rinnovi, nell’ambito dei trentasei mesi.

La volontà del legislatore sembra essere quella di contenere il numero massimo di

proroghe anche oltre il contratto cui ineriscono, limitandole anche nel caso in cui il

medesimo contratto sia rinnovato nell’arco temporale di cui sopra.

Ciò probabilmente per evitare che il numero massimo di proroghe potesse ritenersi

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riferito a tutti i singoli contratti conclusinei trentasei mesi tra le parti per mansioni

equivalenti. Ed in effetti così facendo può dirsi scongiurato il rischio di offrire

contemporaneamente al datore la possibilità di instaurare contratti brevissimi in un

numero praticamente illimitato (i rinnovi in sé non soffrono limitazioni quantitative) e

di prorogare ciascuno di tali rapporti fino a cinque volte, cosa che avrebbe portato al

risultato di atomizzare eccessivamente il rapporto a termine.

La disciplina della proroga deve comunque confrontarsi con un dato non irrilevante: alla

data di entrata in vigore della riforma è effettivamente in corso un numero elevatissimo

di contratti a termine, stipulati nel rispetto della previgente disciplina, in relazione ai

quali è verosimile che sussista l’interesse dei datori alla proroga degli stessi.

A differenza di quanto previsto dalle norme in tema di contingentamento (cfr. supra par.

4.3), non è stata prevista, per la proroga dei contratti in corso una specifica disciplina

transitoria. Vale pertanto la regola di carattere generale di cui all’art. 2-bis d.l. n. 34 del

2014, conv. in l. n. 78 del 2014, che al comma 1 prevede l’applicabilità delle modifiche

introdotte ai soli rapporti costituiti successivamente all’entrata in vigore del decreto,

fatti salvi gli effetti prodotti prima della conversione.

Tale specificazione potrebbe consentire di affermare che il nuovo regime della proroga

– sia con riferimento al numero che alle ragioni legittimanti il ricorso alla stessa – sia

neutrale rispetto ai contratti stipulati secondo la previgente disciplina non trova

applicazione, con la conseguenza che i citati contratti, qualora in corso, potranno essere

prorogati, in conformità con la precedente disciplina, soltanto una volta, ed a condizione

che la proroga sia richiesta da ragioni oggettive, che in caso di contestazione, dovranno

essere dimostrate in giudizio dal datore: tuttavia siffatta conclusione appare in palese

contrasto con l’abrogazione del vecchio testo dell’art. 4 del d.lgs. n. 368 del 2001 e con

l’art. 11 disp. Att. c.c. secondo cui «ogni atto va valutato secondo la norma vigente al

momento del suo compimento». E, paradossalmente, potrebbe dirsi che l’atto di proroga

di un contratto a termine stipulato secondo la previgente disciplina si privo di copertura

normativa.

Sul punto si ritiene più che mai necessario un ulteriore intervento del legislatore volto a

chiarire anche tale rilevante aspetto.

6. I rinnovi.Come in passato, i rinnovi determinano la conversione del rapporto, qualora le

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successive assunzioni a termine avvengano senza soluzione di continuità o non

rispettino i periodi di intervallo di dieci o venti giorni previsti dal comma 3dell’art. 5

del d.lgs. n. 368 del 2001.

In base al comma 4-bis, in caso di successione di contratti a termine per lo svolgimento

di “mansioni equivalenti”, la durata massima del contratto di lavoro a termine,

comprensiva di proroghe e rinnovi nonché dei periodi di missione in regime di

somministrazione, non potrà superare i trentasei mesi.

Resta da chiarire anche qui se i contratti ed i rinnovi stipulati ai sensi della vecchia

disciplina possano contribuire al raggiungimento del limite esterno di 36 mesi o se

invece, qualora il datore stipuli dei nuovi contratti in forza del nuovo art. 1, il citato

contatore debba ripartire da zero.

La risposta è sicuramente affermativa nella misura in cui il lavoratore venga adibito a

mansioni non equivalenti rispetto a quelle oggetto dei precedenti contratti e/o rinnovi.

Diversamente, tale contratto contribuirà a comporre il periodo massimo di durata, posto

che le norme in tema di successione dei contratti sono rimaste sostanzialmente

immutate [41].

7. Il diritto di precedenza.È stato introdotto l’onere dirichiamare per iscritto nel contratto il diritto di precedenza

riconosciuto dai commi 4-quater e 4-quinquies dell’art. 5 per le future assunzioni a

tempo indeterminato nei successivi dodici mesi.

È da escludere che l’inadempimento a tale obbligo di informativa possa determinare la

nullità del termine e, di conseguenza, la conversione del rapporto.

La violazione del diritto di precedenza non rappresenta un vizio inquadrabile nella fase

genetica del contratto, quanto piuttosto un inadempimento relativo ad una fase

extracontrattuale, che legittima solo eventuali pretese risarcitorie.

La violazione del diritto di precedenza peraltro è sanzionata solo con l’esclusione dal

beneficio degli incentivi all’assunzione (art. 4, comma 12, l. n. 92 del 2012), ragion per

cui appare irragionevole far discendere dalla violazione dell’obbligo di informativa una

sanzione – la conversione del rapporto – ben più grave di quella prevista per la

violazione del diritto oggetto, appunto, della informativa.

8. La compatibilità con le fonti comunitarie.Ci si chiede se l’introduzione del contratto a termine “acausale”, possa ancora far

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ritenere la normativa italiana conforme allo schema delineato dalla direttiva 1999/70/CE

del 28 giugno 1999 relativa all'accordo quadro CES, UNICE e CEEP sul lavoro a tempo

determinato.

Non va infatti sottaciuto che, rispetto allo schema precedente, l’introduzione del

sistema acausale costituisca un generale arretramento di tutela rispetto alla generalità

dei lavoratori a termine.

Come noto, lo scopo dell’Accordo Quadro, è quello di prevenire l’abuso dell’utilizzo

del contratto a tempo determinato, imponendo agli Stati membri, con la clausola 5,

l’adozione di misure tra loro alternative ovvero: a) l’indicazione di ragioni obiettive per

il rinnovo del rapporto, b) la previsione di una durata massima totale dei contratti

successivi c) la predeterminazione del numero di rinnovi. Tra le stesse, come noto, non

è però contemplata la previsione di ragioni oggettive per l’instaurazione del primo ed

unico contratto a termine [42].

Ed in effetti il mantenimento della necessaria giustificazione causale del primo contratto

ha sempre costituito un elemento di maggior garanzia rispetto alle previsioni del

legislatore comunitario, rappresentando più un segno di continuità con la disciplina di

cui alla l. n. 230 del 1962 che la diligente trasposizione dei principi comunitari, i quali

hanno avuto come principale obiettivo non tanto quello di vincolare il primo rapporto

tra le parti, quanto piuttosto di impedire la reiterazione illegittima di rapporti flessibili.

In ragione di ciò pertanto il nuovo art. 1 del d.lgs. n. 368 del 2001, al pari di tutte le altre

fattispecie di contratto acausale succedutesi nel nostro ordinamento, non sembra porsi in

contrasto con la clausola 5.

Neppure appare violata la clausola di non regresso di cui alla clausola 8 dell’Accordo

Quadro, che impedisce di introdurre nell’ordinamento, attraverso la trasposizione della

direttiva, arretramenti del livello di tutela preesistenti.

L’introduzione del contratto “acausale”, infatti, non discende dalla necessità di

applicare l’Accordo Quadro, ma da un altro obiettivo, distinto da detta applicazione,

coincidente, appunto con lo scopo del d.l. n. 34 del 2014 che è quello di «favorire il

rilancio dell'occupazione e per la semplificazione degli adempimenti a carico delle

imprese».

Se dunque il venir meno dell’onere di giustificare il primo ed unico contratto appare

compatibile con i principi esposti nella Direttiva 70/1999 CE, è tuttavia opportuno

verificare quali oggi siano le concrete “misure” adottate dal nostro ordinamento per la

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prevenzione degli abusi.

Rispetto alla previgente disciplina è sostanzialmente venuta meno la misura di cui al

punto a) della clausola 5 dell’Accordo Quadro, che prevedeva l’esistenza di ragioni

obiettive per la giustificazione del rinnovo del rapporto. Tale misura, era infatti

rinvenibile nel vecchio testo dell’art. 1 del d.lgs. n. 368 del 2001, che imponeva la

previsione di specifiche causali nei confronti di qualsiasi rapportoinstaurato tra le parti.

Permane inoltre l’assenza di una misura compatibile con la lettera c), posto che è

ancora assente una norma che ponga un limite al numero massimo ai rinnovi; né a tale

scopo sembra orientata la nuova disciplina della proroga. Proroga e rinnovo hanno

infatti, nel nostro ordinamento, natura differente e, soprattutto una diversa disciplina: il

tetto imposto al numero di proroghe appare più un palliativo che una forma efficace di

prevenzione degli abusi, posto che, come vedremo a breve, il ricorso al rinnovo risulta

ad oggi sostanzialmente privo di vincoli, se non quello dell’osservanza dei periodi di

interruzione.

Rimane pertanto da verificare se sussista o meno una misura volta a predeterminare la

durata massima totale dei contratti successivi, come previsto dalla lettera b) della

clausola 5 [43].

La riforma, a differenza che nel passato, è intervenuta disciplinando la durata massima

del singolo contratto a termine, individuandola, appunto in trentasei mesi comprensivi

di proroghe.

Tuttavia, il medesimo rigore non è stato riservato alla disciplina della successione dei

contratti, che è sostanzialmente rimasta immutata (eccezion fatta per l’inclusione dei

periodi di missione in virtù di un contratto di somministrazione).

Il datore è infatti tenuto ad osservare il vincolo dei 36 mesi, entro i quali è possibile la

successione dei contratti (e delle relative proroghe e rinnovi) fintanto che intenda

adibire il lavoratore, nel corso dei rapporti, a mansioni equivalenti: dunque nulla

potrebbe vietare al datore di stipulare, scaduto il termine di cui sopra, un ulteriore

contratto a tempo determinato “acausale” limitandosi soltanto a mutare, anche in

meglio, le mansioni originariamente affidate al prestatore, non incontrando più il

vincolo di dover giustificare attraverso l’indicazione di ragioni obiettive, la nuova

assunzione.

Peraltro adaggravare la situazione sta il fatto che, in sede giudiziale, la prova

dell’effettivo svolgimento di mansioni equivalenti incombe interamente sul lavoratore.

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Non solo, ma la disciplina in merito alla previsione di una durata massima dei contratti

successivi è comunque derogabile dalla contrattazione collettiva, che ben potrebbe

prevedere un limite esterno più ampio o addirittura non prevederne alcuno.

Sotto tale profilo l’attuale disciplina del contratto a tempo determinato sembra dunque

prestare il fianco a serie censure di conformità con l’ordinamento comunitario, non

essendo possibile rinvenire, nel nuovo testo, alcuna disposizione assimilabile ad una

delle misure di cui alla clausola 5 dell’Accordo Quadro.

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Riferimenti bibliografici[1] Così anche L. MENGHINI, in La nuova disciplina del lavoro a termine del 2014:

una rivoluzione utile, doverosamente provvisoria, Relazione al convegno La nuova

disciplina del lavoro a termine (d.l. n. 34/2014, conv. in l. n. 78/2014), 4 giugno 2014,

organizzato al Corso di perfezionamento in Diritto del lavoro dell’Università degli

Studi di Padova secondo cui «non si può parlare di piena e completa liberalizzazione

dell’istituto, divenuto equivalente o alternativo al contratto a tempo indeterminato,

perché i limiti temporali e quantitativi continuano a segnalare lo sfavore verso il

contratto a termine, che l’ordinamento continua a voler limitare, certo in modo di gran

lunga meno stringente rispetto al passato, nei confronti del contratto a tempo

indeterminato per gli aspetti legati alla precarietà del lavoro e della vita». Di avviso

contrario è invece V. SPEZIALE, in Lavoro e Welfare, n. 4/2014, 30.

[2] Cfr. Sul punto M. MAGNANI, La disciplina del contratto di lavoro a tempo

determinato: novità e implicazioni sistematiche, in WP C.S.D.L.E. “Massimo

D’Antona”.IT, n. 212, 2014.

[3] Non si sono fatte attendere le reazioni del mondo sindacale, su tutte la denuncia

della CGIL alla Commissione Europea, con la quale è stato richiesta l’applicazione di

una procedura di infrazione nei confronti del Stato Italiano.

[4] Cfr. Circ. Ministero del Lavoro n. 18/2014.

[5] Basti pensare, a titolo esemplificativo, alla disciplina speciale tuttora vigente

prevista per le aziende gerenti il trasporto aereo ed i servizi aeroportuali e per le

concessionarie del servizio postale universale, di cui all’art. 2 del d.lgs. n. 368 del 2001,

o all'art. 8, comma 2, della legge 23 luglio 1991, n. 223, in materia di occupazione dei

lavoratori in mobilità. Da ultimo ma non meno importante, l’introduzione del

comma1-bis all’art. 1 del d.lgs. n. 368 del 2001 con cui, sino all’entrata in vigore della

riforma in commento, era consentita l’assunzione a termine in assenza di ragioni

oggettive per un massimo di dodici mesi, in occasione del primo rapporto di lavoro tra

le parti. Va inoltre precisato che le discipline specifiche per il settore postale ed

aeroportuale, non hanno subito gli effetti del d.l. n. 34 del 2012 ed è legittimo ritenere

che, nei limiti di utilizzo previsti dalle normative di riferimento, sia ammissibile

l’utilizzo concorrente da parte delle aziende beneficiare sia del “nuovo” contratto

acausale, sia della tradizionale forma prevista dall’art. 2 del d.lgs. n. 368 del 2001. Del

pari, rimane inoltre ammissibile anche il ricorso ai contratti “acausali”, riservati ai

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lavoratori assunti dalle liste di mobilità o ai dirigenti, discipline anch’esse rimaste

immuni dall’intervento del d.l. n. 34 del 2014.

[6] In senso analogo cfr. A. PANDOLFO-P. PASSALACQUA, Il nuovo contratto di

lavoro a termine, Torino, 2014, 15.

[7] Secondo l’indirizzo interpretativo del Ministero del Lavoro (cfr. Circ. 18/2014), «In

tali ipotesi appare pertanto opportuno, ai soli fini di “trasparenza”, che i datori di

lavoro continuino a far risultare nell’atto scritto la ragione che ha portato alla stipula

del contratto a tempo determinato».

[8] Secondo l’art. 10 comma 7 del d.lgs. n. 368 del 2001 «Sono in ogni caso esenti da

limitazioni quantitative i contratti a tempo determinato conclusi:

a) nella fase di avvio di nuove attività per i periodi che saranno definiti dai contratti

collettivi nazionali di lavoro anche in misura non uniforme con riferimento ad aree

geografiche e/o comparti merceologici;

b) per ragioni di carattere sostitutivo, o di stagionalità, ivi comprese le attività già

previste nell'elenco allegato al decreto del Presidente della Repubblica 7 ottobre 1963,

n. 1525, e successive modificazioni;

c) per specifici spettacoli ovvero specifici programmi radiofonici o televisivi; d) con

lavoratori di età superiore a 55 anni».

[9] Il contributo non è dovuto per le assunzioni a termine effettuate per ragioni

sostitutive, per attività stagionali di cui al d.P.R. n. 1525 del 1963.

[10] V. infra par. 4.3

[11] Il comma 1-bis dell’art. 1 del d.lgs. n. 368 del 2001, introdotto dalla l. n. 92 del

2012 prevedeva che: «Il requisito di cui al comma 1 non è richiesto: a) nell'ipotesi del

primo rapporto a tempo determinato, di durata non superiore a dodici mesi

comprensiva di eventuale proroga, concluso fra un datore di lavoro o utilizzatore e un

lavoratore per lo svolgimento di qualunque tipo di mansione, sia nella forma del

contratto a tempo determinato, sia nel caso di prima missione di un lavoratore

nell'ambito di un contratto di somministrazione a tempo determinato ai sensi del

comma 4 dell'articolo 20 del decreto legislativo 10 settembre 2003, n. 276; b) in ogni

altra ipotesi individuata dai contratti collettivi, anche aziendali, stipulati dalle

organizzazioni sindacali dei lavoratori e dei datori di lavoro comparativamente più

rappresentative sul piano nazionale».

[12] Secondo R. DE LUCA TAMAJO-F. PATERNÒ (in Lavoro e Welfare, n. 4/2014),

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estremamente critici con la tecnica legislativa, il disattento intervento incidentale

sull’istituto della somministrazione sarebbe dovuto alla «perdurante nonché erronea

convinzione che contratto a termine e somministrazione debbano andare a braccetto,

attesa la somiglianza che li accomuna in termini di “pericolosità sociale”, secondo i

fautori della tesi demonizzatrice, ovvero di opportunità in termini di flessibilità

occupazionale , se a parlare sono gli assertori degli effetti salvifici delle politiche di

liberalizzazione». Del resto non può che concordarsi con le osservazioni di cui sopra,

alla luce della consolidata giurisprudenza comunitaria che ha ormai chiarito la profonda

differenza sussistente tra i due istituti (cfr. Corte giust. UE, sez. VIII, nella sentenza

C-290/12 dell’11 aprile 2013, secondo cui «la direttiva 1999/70 e l’accordo quadro

devono essere interpretati nel senso che non si applicano né al rapporto di lavoro a

tempo determinato tra un lavoratore interinale e un’agenzia di lavoro interinale né al

rapporto di lavoro a tempo determinato tra tale lavoratore e un’impresa utilizzatrice»),

rimarcando peraltro come la stessa Direttiva 2008/104/CE abbia individuato nella

somministrazione non solo un meccanismo a sostegno delle imprese, ma anche un

meccanismo di sostegno attivo dell’occupazione.

[13] Cfr. Ministero del Lavoro Circ. n. 18/2014

[14] In senso analogo cfr. P. TOMASSETTI-M. TIRABOSCHI, Lavoro a termine: i

dubbi dopo la conversione del decreto, in Guida lav., n. 22 del 30 maggio 2014.

[15] Quanto al contratto tra somministratore e lavoratore rimane infatti inalterata la

previsione del secondo comma dell’art. 22 in tema di proroga, che già prima delle

modifiche del d.l. n. 34 del 2014 all’art. 4 del d.lgs. n. 368 del 2001 escludeva

l’applicabilità dei vincoli prescritti sul punto per il contratto a termine.

[16] Cfr. A. PANDOLFO-P. PASSALACQUA, Il nuovo contratto di lavoro a termine,

cit., 39.

[17] Del resto, la norma in questione, trovava la sua ragion d’essere proprio nella

disciplina contenuta nella direttiva 70/1999 CE ove in più punti veniva incoraggiato

l’intervento delle parti sociali nella disciplina del rapporto a tempo determinato (Cfr. P.

PASSALACQUA, Il ruolo della contrattazione collettiva nella regolamentazione del

contratto a termine, in G. PERONE, Il contratto di lavoro a tempo determinato nel d.lg.

6 settembre 2001, n. 368, Torino, 127 ss.).

[18] M.P. AIMO, Il contratto a termine alla prova, Saggi, in Lav. dir., 2-3, 2006. In

senso analogo cfr. G. SANTORO PASSARELLI, Attuazione della direttiva n.

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70/99/CE relativa all'accordo quadro sul lavoro a tempo determinato, concluso

dall'UNICE, dal CEP e dal CES (d.lgs. 6 settembre 2001, n. 368). Commentario a cura

di Giuseppe Santoro Passarelli. Note introduttive, in Nuove leggi civ. comm., 35 ss. In

senso contrario v. R. ALTAVILLA, I contratti a termine nel mercato differenziato,

Milano, secondo cui la contrattazione collettiva avrebbe funzione integratrice del

precetto legale.

[19] G. SANTORO PASSARELLI, Attuazione della direttiva n. 70/99/CE relativa

all'accordo quadro sul lavoro a tempo determinato, cit., 25 ss.

[20] Si pensi ad esempio ai CCNL metalmeccanici, agenzie lavoro, bancari e studi

professionali.

[21] G. GIUGNI, Diritto Sindacale, Bari, 2014.

[22] V. a tal proposito V. SPEZIALE, Totale liberalizzazione del contratto a termine, in

Lavoro Welfare (in www.lavorowelfare.it), n. 4/2014, 31, nonché M. GIOVANNONE-

M. TIRABOSCHI-P. TOMASSETTI, La disciplina del contratto a termine tra istanze

di semplificazione e logiche di sistema, in Disposizioni urgenti per favorire il rilancio

dell’occupazione e per la semplificazione degli adempimenti a carico delle imprese,

EbookAdapt, n. 22/2014, 8. In senso conforme anche A. PANDOLFO-P.

PASSALACQUA, Il nuovo contratto di lavoro a termine, cit., nonché la Circolare Min.

Lav. n. 18 del 2014.

[23] In senso analogo confronta D. MEZZACAPO, Il regime transitorio, in G.

SANTORO PASSARELLI (a cura di), Jobs Act e contratto a tempo determinato,

Torino, 2014.

[24] Cfr. l’art. 16 del CCNL Telecomunicazioni del 2013 secondo cui: «Sono soggetti a

limiti quantitativi di utilizzo nella misura del 13% in media annua dei lavoratori

occupati a tempo indeterminato nell’azienda alla data del 31 dicembre dell’anno

precedente i contratti a tempo determinato conclusi per le seguenti ipotesi specifiche:

a) esecuzione di un’opera o di un servizio che abbia carattere straordinario connesso

all’introduzione di innovazioni tecnologiche;

b) esecuzione di attività di installazione o montaggio soggette a particolari condizioni

climatico ambientali che non consentano la protrazione delle lavorazioni in altro

periodo dell’anno;

c) esecuzione di particolari commesse che, per la specificità del prodotto ovvero delle

lavorazioni, richiedano l’impiego di professionalità e specializzazioni diverse da quelle

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normalmente impiegate;

d) per coprire posizioni di lavoro non ancora stabilizzate.

Tale percentuale è aumentata al 15% per le aziende operanti nei territori del

Mezzogiorno individuati dal Testo Unico approvato con D.P.R. 6 marzo 1978 n. 218.

Nei casi in cui tale rapporto percentuale dia luogo a un numero inferiore a 5, resta

ferma la possibilità dell’azienda di stipulare sino a 5 contratti di lavoro a tempo

determinato. in genere queste clausole risentono ancora delle previsioni dell’art. 23

della l. 56/87».

[25] Sul punto, in giurisprudenza, cfr. di recente Cass. civ. 3 gennaio 2014, n. 27 in

www.iusexplorer.it/Dejure. Per un’ampia rassegna della giurisprudenza sul punto cfr.

A. CHIRIATTI-D. COSTA-G. ROSOLEN-S. SANTAGATA-G. TENAGLIA-M.

TIRABOSCHI-G. TOLVE-P. TOMASSETTI, La riforma del lavoro a termine alla

prova della contrattazione, in WorkingPaper ADAPT, 14 aprile 2014, n. 153, 7, in nota.

[26] Si pensi ad esempio alle vicende delle aziende destinatarie della normativa speciale

di cui all’art. 2 del d.lgs. n. 368 del 2001, i cui contratti collettivi individuano ulteriori

soglie di contingentamento, aggiuntive rispetto a quelle legali.

[27] Cfr. M. MAGNANI, La disciplina del contratto di lavoro a tempo determinato, cit.

[28] Secondo A. PANDOLFO-P. PASSALACQUA, Il nuovo contratto di lavoro a

termine, cit., invece la contrattazione di secondo livello potrebbe intervenire

esclusivamente nei casi in cui sia espressamente a ciò delegata dal contratto nazionale.

Secondo A. PRETEROTI, La violazione dei limiti quantitativi tra sanzione

amministrativa e conversione del contratto, in G. SANTORO PASSARELLI (a cura

di), Job Act e contratto a tempo determinato, Torino, 2014, gli accordi di secondo

livello stipulati ex art. 8 d.l. n. 138 del 2011, conv. in l. n. 148 del 2011 non potrebbero

regolamentare la materia, posto che il legislatore del 2014, intervenendo

successivamente e prevalendo su tale disciplina in virtù del criterio cronologico,

avrebbe espressamente affidato la disciplina del contingentamento alla solo

contrattazione nazionale, adottando dunque un criterio opposto rispetto a quello

presente nel citato d.l. n. 138 del 2011. Tale considerazione, non è condivisibile, posto

che a) la delega alla contrattazione nazione non è stata introdotta dal d.l. n. 34 del 2014

ma era già presente nel corpo originario del decreto legislativo n. 368 del 2001 e b) una

tale esegesi svilisce la portata dell’art. 8 che di fatto resterebbe inutilizzabile qualora,

sulle materie delegate alla contrattazione di secondo livello, intervengano delle

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modifiche.

[29] In particolare, non si condivide l’impostazione del Ministero del Lavoro secondo

cui nella già richiamata Circ. n. 18/2014, «allo scadere di un contratto sarà possibile

stipularne un altro sempreché si rispetti la percentuale massima di lavoratori a tempo

determinato pari al 20%». Tuttavia ad avviso di A. PANDOLFO-P. PASSALACQUA,

Il nuovo contratto di lavoro a termine, cit., tale limite avrebbe carattere dinamico in

quanto «non avrebbe alcun senso, né sarebbe rispettoso della ratio della legge, imporre

a un datore di lavoro che a gennaio si trovi nelle di assumere ad es. due lavoratori, di

rimanere vincolato a quel numero anche laddove il numero complessivo dei contratti a

termine attivati diminuisca nel tempo, tanto da scendere sotto la media registrabile al

primo gennaio». Tale tesi però confligge con il dato testuale della norma, che parla

chiaramente di «numero di contratti» e non di «rapporti in corso». Inoltre,

contrariamente a quanto affermato dagli Autori proprio la giurisprudenza formatasi in

merito al contratto a termine nel settore postale e aeroportuale avvalora la tesi della

natura “rigida” e non “dinamica” dei vincoli percentuali anche con riferimento alla

nuova disciplina posto che tanto le previsioni dell’art. 1 novellato che dell’art. 2 del

d.lgs. n. 368 del 2001 fanno riferimento ad un numero massimo di contratti/assunzioni,

prescindendo dal fatto che i rapporti siano o meno in essere.

[30] Cfr. sul punto anche la più volte citata Circ. Min. Lav. n. 18 del 2014.

[31] In senso conforme cfr. A. PANDOLFO-P. PASSALACQUA, Il nuovo contratto di

lavoro a termine, cit.

[32] Cfr., con riferimento all’applicazione dell’art. 2, comma 1-bis, del d.lgs. n. 368 del

2001, App. Brescia, 4 maggio 2011, n. 198, secondo cui «l’utilizzo di un criterio

promiscuo di cui al decreto e quello per teste, non consente di verificare l’incidenza

effettiva dei contratti a termine sull’organico aziendale nell’arco dell’anno di

riferimento»nonché Trib. Roma, sent. n. 19846 del 2011, secondo cui «È un concetto

logico ancor prima che giuridico che per verificare il rispetto della clausola di

contingentamento sia necessario confrontare dati omogenei».

[33] Il secondo periodo dell’art. 1, comma 1, del d.lgs. n. 368 del 2001, nella forma

introdotta dal d.l. n. 34 del 2014 prevedeva infatti che«Fatto salvo quanto disposto

dall’articolo 10, comma 7, il numero complessivo di rapporti di lavoro costituiti da

ciascun datore di lavoro ai sensi del presente articolo, non potrà eccedere il limite del

20 per cento dell’organico complessivo».

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[34] In giurisprudenza v. App. Firenze, sent. n. 1593 del 2006 e App. Catania, sent. n.

597 del 2007, nonché più recentemente Trib. Milano 16 gennaio 2014, n. 41.

[35] In senso analogo cfr. A. PRETEROTI, La violazione dei limiti quantitativi tra

sanzione amministrativa e conversione del contratto, cit.

[36] Va tuttavia sottolineato che, in sede di discussione del testo in Commissione

Lavoro in Senato, una delle originarie proposte di emendamento era volta proprio a

“sanzionare” espressamente il superamento dei limiti percentuali con la conversione del

rapporto (si veda ad esempio la proposta n. 1.267 dei senatori FUCKSIA, CATALFO,

PUGLIA, PAGLINI di modifica del comma 4-septies dell’art. 5 secondo cui

“«L'assunzione di lavoratori a termine in violazione del limite percentuale di cui

all'articolo 1, comma 1, comporta la trasformazione automatica in contratto a tempo

indeterminato, del contratto dei lavoratori a termine, la cui assunzione risulta più

risalente nel tempo, in misura pari al numero di lavoratori eccedenti».). Il fatto di aver

poi optato per una sanzione di tipo amministrativo potrebbe pertanto far – erroneamente

– ritenere che il legislatore abbia sostanzialmente escluso l’eventuale concorrenza della

sanzione della conversione del rapporto.

[37] Su tutte cfr. Cass. civ. 21 maggio 2008, n. 12985, in Foro it., 2008, I, 3569 ss.

[38] Corte cost. sent. n. 303 del 2011.

[39] Cfr. seppur con riferimento alla vecchia disciplina Cass. civ. 16 aprile 2008, n.

9993; Cass. civ. 16 maggio 2005, n. 10140. In particolare, secondo A. PANDOLFO-P.

PASSALACQUA, Il nuovo contratto di lavoro a termine, cit. la “stessa attività”

consisterebbe «nel medesimo segmento produttivo in cui collocare il lavoratore».

[40] In senso contrario, ritenendo ammissibile la proroga solo con riferimento allo

svolgimento delle medesime mansioni cfr. M. PANCI, Proroga del termine,

continuazione del rapporto dopo la scadenza e rinnovi, in G. SANTORO

PASSARELLI (a cura di), Job Act e contratto a tempo determinato, Torino, 2014.

[41] V. L. DI PAOLA, La nuova disciplina del contratto a termine nel d.l. n. 34 del

2014 conv. in l. n. 78 del 2014, in Giustiziacivile.com, 28 agosto 2014.

[42] Cfr. sul punto Corte giust. UE 23 aprile 2009 (sent.), C-378/07, Angelidaki; Corte

giust. UE 24 giugno 2010 (sent.), C-98/09, Sorge; Corte giust. UE 11 novembre 2010

(ord.), C-20/10, Vino.

[43] Secondo G. SANTORO PASSARELLI, nelle premesse a Jobs Act e contratto a

tempo indeterminato, Torino, 2014, tale misura risulterebbe sostanzialmente attuata

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posto che «è previsto un termine massimo di 36 mesi, comprensivo di proroghe e

rinnovi, oltre il quale non è più consentito assumere a termine». Tale affermazione

appare erronea in quanto il limite esterno dei 36 mesi, secondo la lettera dell’art. 1 è

invece comprensivo delle sole proroghe. I rinnovi, al contrario, sono esclusi

determinando, come si dirà nel prosieguo del paragrafo, la possibilità di ricorrere contra

legem a tali strumenti.

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