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Letteratura italiana moderna e contemporanea IIIA, a.a. 2020-2021 La Resistenza nella parola Prof.ssa Rosanna Morace DISPENSA DI SAGGI CRITICI SU BEPPE FENOGLIO Corso di Laurea L-10, Lettere moderne, Codice 1024580

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Letteratura italiana moderna e contemporanea IIIA, a.a. 2020-2021

La Resistenza nella parola

Prof.ssa Rosanna Morace

DISPENSA DI SAGGI CRITICI SU

BEPPE FENOGLIO

Corso di Laurea L-10, Lettere moderne, Codice 1024580

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INDICE 1. LUIGI MENEGHELLO, Il vento delle pallottole, in ID., Quaggiù nella biosfera. Tre saggi sul lievito

poetico delle scritture letterarie, Milano, Rizzoli, 2004, pp. 35-52 (si cita da «L’illuminista», Beppe Fenoglio, nn. 40, 41, 42, dicembre 2014, pp. 673-681).

2. PIETRO CHIODI, Fenoglio scrittore civile, «La cultura», III gennaio 1965, pp. 1-7; poi in BEPPE

FENOGLIO, Lettere 1940-1962, Torino, Einaudi, 2002, pp. 197-202 (da cui si cita).

3. LUCA BUFANO, Le scelte di Fenoglio, in BEPPE FENOGLIO, Tutti i racconti, a cura di Luca Bufano, Torino, Einaudi, 2018, pp. V-XLIV.

4. GABRIELE ALLEGRO, Un romanzo sulla caduta dell'Italia: lettura di «Primavera di bellezza» di

Beppe Fenoglio, in «Italianistica», 43, maggio-agosto 2014, pp. 87-101

5. GIANCARLO ALFANO, Presente assoluto e campo della scrittura nel Partigiano Johnny di Beppe Fenoglio, in «Testo: studi di teoria e storia della letteratura e della critica», XXIV, 45, 2003, Omaggio a Beppe Fenoglio, nel Quarentesimo della morte, pp. 9-38.

6. ALBERTO CASADEI, L’epica storica di Fenoglio, in «Cahiers d’études italiennes», I, 2004, pp.

104-117.

7. LUCA ZULIANI, Che cos’ha di particolare Un giorno di fuoco di Beppe Fenoglio, in Studi in onore di Pier Vincenzo Mengaldo per i suoi settant’anni, a cura degli allievi padovani, Firenze. Edizioni del Galluzzo, 2007, Volume II, pp. 1325-1342

8. GABRIELE PEDULLÀ, Alla ricerca del romanzo, in BEPPE FENOGLIO, Una questione privata,

Torino, Einaudi, 2006, pp. V-LX.

9. ORESTE DEL BUONO, La Resistenza di Fenoglio che non piacque alla sinistra, in «Tuttolibri – La stampa», 16 luglio 1994, poi in «L’illuminista», Beppe Fenoglio, cit., pp. 638-643, da cui si cita.

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Le scelte di Fenoglio

Beppe Fenoglio morì all’ospedale delle Molinette diTorino nella notte tra il 17 e il 18 febbraio 1963. Dueanni dopo il filosofo Pietro Chiodi, che di Fenoglio erastato insegnante e intimo amico, volle ricordare le ulti-me ore del suo ex allievo liceale nella convinzione chequella «breve storia» gettasse luce «non solo sull’uomoma sullo scrittore». La malattia lo aveva colto nel pienodella maturità, proprio quando, dopo un lungo e diffici-le tirocinio, cominciava a ricevere i primi riconoscimen-ti, ad assaporare le prime soddisfazioni. Inizialmente gliera stata diagnosticata una forma d’asma e lui, come unpersonaggio della sua Malora, si era ritirato a Bossola-sco, nelle alte Langhe, con la speranza che l’aria fine esalubre lo avrebbe curato. Quando apparve chiara la gra-vità del male, venne deciso il suo ricovero, prima in unaclinica di Bra, poi, dopo una parentesi trascorsa a casa,a Torino, dove i medici poterono solo constatare lo sta-dio terminale della malattia. Il giorno seguente il rico-vero alle Molinette gli venne praticata la tracheotomia.Persa la parola, ma rimasto cosciente e quasi impassibi-le di fronte al suo destino, Fenoglio chiese un taccuinoin cui poter scrivere per comunicare. Scrisse così moltibiglietti: alla moglie Luciana e alla figlia, al fratello, aigenitori, all’amico teologo Don Bussi, allo stesso Chio-di; e dette disposizioni per il funerale, che volle «di ul-timo grado, senza soste, fiori e discorsi», fedele anche

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in questo a un credo letterario quasi ascetico, alieno daogni forma di mondanità. Sono brevi e amorevoli frasi,citate spesso nei profili biografici dello scrittore, a testi-monianza di quel suo singolare carattere in cui l’asprorigore e il riserbo si sposavano alla tenerezza. Ma soltan-to nel ricordo di Chiodi, tra molte acute osservazioni, silegge che, in uno di quegli ultimi biglietti, Fenoglio «sta-bilì l’ordine con cui desiderava che i suoi racconti venis-sero ripubblicati». Il dato è sorprendente. Fenoglio la-sciava infatti numerosi manoscritti incompleti, per lo piùprivi di titolo: due redazioni di quello che sarebbe dive-nuto Il partigiano Johnny e tre di Una questione privata,un nuovo progetto narrativo riguardante la penultimagenerazione dei Fenoglio sullo sfondo della prima guer-ra mondiale, pièce teatrali, favole, epigrammi, traduzio-ni... una grande varietà di lavori il cui ordinamento e lacui pubblicazione avrebbero suscitato annose polemiche.Eppure, in punto di morte, si preoccupa soltanto dei rac-conti: testi finiti, quasi tutti dotati di titolo e, gran par-te di essi, già licenziati per la stampa.

Ci sono altri episodi oscuri nella biografia letteraria diFenoglio: perché, per esempio, dopo aver profuso tantaenergia in un’opera lunga e complessa quale la storia diJohnny, «il libro grosso sul quinquennio 1940-45», eglidecise poi di “bruciarla” facendo morire il protagonistain uno dei primi episodi della Resistenza, così comeavviene nel finale troppo artificioso di Primavera di bellez-za? L’originaria devozione e una lunga fedeltà al generebreve possono spiegare quella sua ultima preoccupazione,nonché il suo problematico rapporto col romanzo, fattodi intense stesure, d’imprevedibili svolte, di ripetute rin-uncie.

In un saggio degli anni cinquanta del secolo scorso,che ripercorreva l’intero arco della narrativa italiana, daBoccaccio a Gadda, alla luce del binomio narrarelungo/narrare breve, Leone Piccioni parlava di Moraviacome di un raro esempio di scrittore italiano che nascecon la vocazione del «narratore lungo», e indicava nel-

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la più diffusa vocazione al «narrar breve» un ostacoloalla costante e inappagata aspirazione al romanzo dellanarrativa italiana. Lo stesso Moravia, del resto, era pien-amente cosciente di quali fossero le sue qualità di narra-tore: «È terribilmente difficile scrivere delle buone nov-elle» confessò in una lettera a Nicola Chiaromonte. «Epoi a me, ogni volta che incomincio una novella, mi vienefuori un romanzo». Esattamente l’opposto succedeva aFenoglio, il quale, quando decise di abbandonare la sto-ria di Johnny per dedicarsi a una nuova raccolta di rac-conti, aveva già rinunciato al suo primo romanzo, La pa-ga del sabato, per ricavarne due testi brevi. Similmenterinuncerà alla prima storia di Milton, il romanzo ogginoto col titolo L’imboscata, per ricavarne una secondaserie di racconti sul tema della guerra civile; mentre nonci è dato sapere quale sarebbe stata la sua decisione fi-nale riguardo a Una questione privata, la postuma summapoetica dal titolo probabilmente redazionale. Forse era-no le caratteristiche stesse del genere breve, a lungo stu-diate negli esempi dei grandi maestri (Poe, Maupassant,i più amati), a esaurirlo in una ricerca di perfettibilitàsenza fine: ricordarne alcune non sarà un esercizio acca-demico.

Nel romanzo prevale l’analisi, nel racconto la sintesi.Ma non si può dire che il racconto sia un romanzo in sin-tesi, né che un genere sia superiore all’altro. Paragona-re le dieci o venti pagine di un racconto breve alle due-cento o trecento di un romanzo è una leggerezza. Calvi-no scrisse il suo primo romanzo in poco più di un mese,ma impiegò tre anni a comporre il suo primo libro di rac-conti. Riprendendo lo spunto di Leone Piccioni, si po-trebbe dire che la differenza fondamentale tra un gene-re e l’altro risieda nella direzione: quella del romanzo èorizzontale, quella del racconto, verticale; oppure, comei due modi della conoscenza secondo Galileo, che la pro-sa del romanzo è estensiva, mentre quella del raccontoè intensiva. Anche per questo l’autore di racconti eser-

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cita uno stretto controllo sui personaggi e sul loro desti-no. Se agli autori di romanzi, come essi amano ripetere,accade spesso che i loro eroi si ribellino e agiscano se-condo il proprio istinto dando origine a sviluppi impre-visti, nel racconto la situazione è diversa: l’autore è ilpadre padrone dei personaggi e non può tollerare obie-zioni.

La necessità dell’autore di dominare l’intreccio si tra-duce in tensione, ovvero in intensità. L’intensità di unracconto non è una conseguenza obbligata della sua di-mensione breve, ma il frutto della volontà dell’autoreche esercita una vigilanza costante sulle proprie emozio-ni. L’esercizio richiede una tecnica, e la tecnica è pre-ponderante in questo genere letterario. In una lettera alcritico Aleksej Suvorin, il quale lo aveva accusato di es-sere troppo «oggettivo» nei suoi racconti, indifferenteal discernimento del bene e del male e privo d’ideali,Chechov si difendeva indicando nel rispetto delle con-dizioni imposte dalla tecnica del racconto una necessitàineludibile: «Certo che sarebbe piacevole poter combi-nare l’arte con un sermone, ma per me personalmente èestremamente difficile, se non impossibile, dovendo ri-spettare le condizioni impostemi dalla tecnica. Per de-scrivere un ladro di cavalli in settecento righe devo co-stantemente pensare al loro modo e con la loro sensibi-lità, altrimenti, se introduco la soggettività, l’immaginediviene sfocata e il racconto non sarà compatto come tut-ti i racconti devono essere».

Il riferimento di Cechov alla «compattezza» rinvia aun’altra necessità del racconto: quella della soppressionedi tutto ciò che non è strettamente necessario all’enucia-zione del fatto, particolari o digressioni che avrebbero l’ef-fetto di allentare la tensione. Naturalmente lo scrittoredeve avere piena consapevolezza di ciò che sopprime e,soprattutto, l’abilità di lasciarne l’eco nella scrittura: laparte omessa avrà così l’effetto di rafforzare il racconto eil lettore la sensazione di leggere oltre il breve enunciato.Questa, che potremmo chiamare tecnica dell’omissione,

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è una caratteristica primaria della moderna short story, pe-culiare cifra stilistica di colui che l’avrebbe rinnovatacreando un modello per molti scrittori della generazionedi Beppe Fenoglio. In Morte nel pomeriggio, romanzo-sag-gio che ha per tema l’arte di scrivere non meno che quel-la di uccidere tori, Hemingway afferma: «Se un prosato-re sa bene di che cosa sta scrivendo, può omettere le co-se che sa, e il lettore, se lo scrittore scrive con abbastanzaverità, può avere la sensazione di esse con la stessa forzache se lo scrittore le avesse scritte. Il movimento dignito-so di un iceberg è dovuto al fatto che soltanto un ottavodella sua mole sporge dall’acqua».

La metafora dell’iceberg illustra perfettamente il rac-conto breve moderno: la sua dimensione apparente, la suacompattezza, nascondono dimensioni profonde; il nondetto avrà eguale importanza che il detto ai fini di unapiena intelligenza della storia, tanto più se nella dimen-sione del primo si trova l’antecedente al fatto. Esempla-re, da questo punto di vista è Gli inizi del partigiano Raoul,dove la vita del giovane protagonista viene colta in un mo-mento cruciale: il suo ingresso in una formazione parti-giana. La forza del racconto risiede principalmente nelcontrasto fra la vita del giovane studente di buona fami-glia e quella del neopartigiano; e la prima è quasi del tut-to taciuta. Corrado Alvaro, ottimo narratore breve, nel1947 annotava nel suo diario il seguente pensiero: «Perla composizione di racconti brevi, trovare il momento cul-minante d’una vita, che lascia scoprire il passato e indo-vinare il futuro». È esattamente quanto avviene nei mi-gliori racconti: di una vita colgono un momento di crisi oun frammento, ma un frammento capace di riflettereun’intera esistenza.

Intensità, sintesi, omissione: questi fattori fanno delracconto moderno un formidabile congegno destinato acompiere la sua missione narrativa con la massima econo-mia di mezzi, ad un ritmo incalzante. Più che il numerodelle pagine, ciò che differenzia il racconto breve dal rac-conto lungo, è il suo ritmo. E il ritmo è stabilito dall’in-

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cipit. In alcuni casi, come The Cask of Amontillado, Thekillers, Andato al comando e Il trucco, rispettivamente diPoe, Hemingway, Calvino e Fenoglio, il «fatto» viene sot-tratto all’attenzione del lettore, mantenuto nel fondo del-la narrazione, per essergli rivelato soltanto nel finale; inaltri, come nella maggior parte dei Racconti romani di Mo-ravia, Libertà di Verga o I ventitre giorni della città di Al-ba, viene rivelato immediatamente. In entrambi i casi laprima frase cattura definitivamente l’attenzione del let-tore:

Alla fine di giugno Pietro Gallesio diede la parola alla doppiet-ta. Ammazzò suo fratello in cucina, freddò sull’aia il nipote accor-so allo sparo, la cognata era sulla lista ma gli sparì dietro una gratacon la bambina ultima sulle braccia e allora lui non le sparò ma siscaraventò giù alla canonica di Gorzegno. Il parroco stava appun-to tornando da visitare un moribondo di là di Bormida e Gallesiolo fulminò per strada, con una palla nella tempia. Fu il più grandefatto prima della guerra d’Abissinia.

È difficile abbandonare la lettura dopo un inizio simi-le. L’unità d’effetto di cui parlava Poe nel suo celebre ar-ticolo dedicato alla teoria della short story, trova un’espres-sione compiuta in Un giorno di fuoco.

Per divenire libro, un certo numero di racconti, ha bi-sogno di un lavoro che potremmo chiamare di organizza-zione o compilazione. A differenza del romanzo dove iltesto finito coincide col libro, il racconto deve infatti ap-partenere a un insieme, ovvero a una raccolta. La raccol-ta può essere organizzata attorno a un comune sfondo geo-grafico, a un comune tempo storico, a comuni situazioniinteriori, oppure può dipendere da una cornice: l’archeti-po, ovviamente, è il Decameron, ma non mancano esem-pi contemporanei, come Il sistema periodico di Primo Le-vi, il Sillabario di Parise o Il castello dei destini incrociatidi Calvino. In ogni caso gli autori di racconti dedicanomolto tempo all’organizzazione della raccolta e, anchequando essa sembra essere informata a un principio di oc-casionalità, com’è il caso delle raccolte con titoli numeri-ci (I quarantanove, I sessanta, I settantacinque racconti), in

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realtà risponde a un ordine accuratamente studiato per ot-tenere un determinato effetto: non può considerarsi unsemplice accostamento di testi. Nel caso delle raccoltecomplete, infine, il disegno può avere un significato ripo-sto. È noto come Pirandello avesse progettato un’edizio-ne delle sue Novelle per un anno composta di 365 raccon-ti e divisa in ventiquattro volumi. L’intenzione era quel-la di creare un microcosmo di frammenti, un’opera vastae circolare senza principio né fine, più atta del romanzo arappresentare la sfuggente realtà dell’uomo contempora-neo. Da parte sua anche Fenoglio, negli ultimi mesi di vi-ta, ideò una raccolta completa dei suoi racconti, divisa intre sezioni corrispondenti ad altrettante fasi dell’esisten-za: Racconti della guerra civile, Racconti del dopoguerra,Racconti del parentado. Ma quella sua ultima volontà è ri-masta a lungo inascoltata.

Nell’arco della sua carriera Fenoglio ultimò due rac-colte: Racconti della guerra civile e Racconti del parenta-do, ma nessuna di esse venne pubblicata con quel titoloe con quell’ordinamento. I ventitre giorni della città di Al-ba, suo volume d’esordio e unica raccolta a vedere la lucein vita, ebbe una gestazione sofferta, passata attraversoil rifiuto di due libri, lo smembramento, la riscrittura,quindi la loro parziale fusione: quasi un presagio del velodi problematicità che avrebbe avvolto l’intera sua opera.Anche il rapporto dello studioso con i racconti diFenoglio, quindi, è risultato a lungo difficile. Hannocontribuito a questa difficoltà fattori oggettivi: lo statoe la storia interna dei testi; e fattori soggettivi: una spon-tanea disattenzione da parte del filologo agli aspetti tec-nici e formali della narrazione breve, a tutto vantaggiodei contenuti.

Per molti anni il dibattito sulla datazione del Partigia-no Johnny aveva circoscritto l’interesse degli studiosi: con-tro chi, adducendo prove tangibili, sosteneva che il capo-lavoro fenogliano fosse il punto d’arrivo di una decenna-le esperienza narrativa, altri continuavano ad affermare ilvalore archetipico dell’opera collocandone la prima reda-

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zione nell’immediato dopoguerra, dunque agli inizi dellacarriera dello scrittore. Soltanto la pubblicazione di Ap-punti partigiani, nel 1994, avrebbe indicato senza ombradi dubbio quale fosse lo stadio della narrativa fenogliananegli anni 1946-47, e la distanza che separa quel primogerminale momento, che potremmo chiamare del «parti-giano Beppe», dal grande periodo creativo 1956-59 in cuiprese forma il ciclo di Johnny, dello studente, dell’allievoufficiale e del partigiano. Appunti partigiani ha posto finealla sterile querelle permettendo alla critica di voltare pa-gina, di guardare anche a zone contigue dell’opera feno-gliana. Mancavano però i presupposti necessari per un pie-no riconoscimento della statura di Fenoglio come autoredi racconti, così come la posizione privilegiata che il rac-conto breve ha occupato nella carriera dello scrittore. Ilcorpus dei racconti rimaneva frammentario e incompleto,mentre «l’ottimo principio dell’ultima volontà dell’auto-re», che si è voluto rispettare nella definizione dei singo-li testi, attendeva ancora di essere applicato all’organiz-zazione delle raccolte. Il presente volume mira a colmarequesta lacuna.

Precoce nacque in Fenoglio il desiderio di scrivere rac-conti. L’amore fu il suo primo tema e un’aula scolasticala prima palestra. Ma un avvenimento storico dalle dimen-sioni imprevedibili lo avrebbe per sempre distolto da quel-la materia intimista procurandogli una nuova coscienza.Più che negli studi liceali, compiuti in Alba sotto la gui-da d’insegnanti d’eccezione, o in quelli universitari, ini-ziati a Torino nell’autunno del 1940 e interrotti due an-ni dopo dalla chiamata alle armi, anche Beppe Fenoglio,come molti suoi coetanei cresciuti all’ombra del fascismo,visse con la guerra partigiana l’esperienza più alta e for-mativa. La Resistenza divenne il centro della sua vita, l’e-vento che lo rivelò a se stesso determinando il suo desti-no di uomo e di scrittore.

Prima di partire per il servizio militare Beppe Feno-glio era un insicuro studente di lettere con la segreta am-

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bizione di diventare scrittore. Credeva nella superioritàdel lavoro creativo su quello critico e sappiamo che giànegli anni del liceo aveva cominciato a far leggere all’a-mata professoressa d’inglese alcune composizioni. Dopola Liberazione il partigiano Beppe tornò a casa uomo escrittore diverso da quello partito. Ma la sua arte nonmaturò per un’ispirazione improvvisa, frutto diretto del-l’esperienza: fu l’esito sofferto di una lunga ricerca, fat-ta di intense e protratte letture, d’innumerevoli prove edi una dedizione totale. L’immagine cara a Maria Cortidi un Fenoglio che non appena deposto il fucile dellaguerra partigiana «prese fuoriosamente a scrivere», com-ponendo «una specie di cronaca a sfondo autobiografi-co in cinquantasei capitoli», dalla quale in seguito avreb-be estratto blocchi o sequenze narrative o microraccon-ti, a seconda delle esigenze, era indubbiamentesuggestiva, eppure fuorviante. Non teneva conto, oltre-tutto, del periodo di forte disagio vissuto da Fenogliodurante il suo difficile reinserimento nella vita civile:una sorta di sindrome del reduce di cui il racconto Etto-re va al lavoro è l’eloquente anamnesi.

Recensendo I ventitre giorni della città di Alba Gior-gio Luti indicò in Soldier’s Home di Ernest He-mingway una fonte sicura di questo racconto, al paridi Nove Lune nato dalla rinuncia al romanzo La pagadel sabato. Proprio in Soldier’s Home, incluso da Vit-torini nell’antologia Americana col titolo Il ritorno delsoldato Krebs, troviamo quello che potrebbe essere unritratto fedele dell’ex partigiano Beppe nel difficile an-no 1945-46:

Durante questo tempo, era estate inoltrata, egli restava a lettofino a tardi, si alzava, usciva a passeggiare per la città e andava inbiblioteca a prendere un libro, pranzava a casa, leggeva sotto il por-tico finché si annoiava, poi traversava la città per andare a passarele ore più calde nella fresca penombra della sala biliardi. Gli piace-va giocare a biliardo.

I sintomi del disagio di Harold Krebs, l’inerzia, lanoia, il senso d’estraneità e i conflitti domestici, sono gli

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stessi che manifesta Ettore nelle prime pagine autobio-grafiche del racconto di Beppe Fenoglio: anche lui, co-me già Hemingway e il suo personaggio, aveva un rap-porto difficile con la madre, giudicata incapace di com-prendere il suo stato d’animo, e i continui litigi e ledisperate fughe da casa lo rendevano inquieto e infelice;anche lui, come Harold Krebs-Hemingway, tornato a ca-sa alla fine della prima guerra mondiale, conosce il ma-lessere del reduce e sperimenta lo stesso difficile ritor-no alla normalità. In un periodo in cui tutti «sapevanodi doversi rimboccare le maniche» per far fronte alleasprezze economiche del dopoguerra - così ricorda la so-rella Marisa - Beppe «tergiversava a frequentare seria-mente la facoltà di lettere» e non sembrava deciso a in-traprendere alcuna attività professionale tranne quella,incomprensibile ai famigliari, dello scrittore. Soldier’sHome dovette offrire a Fenoglio due lezioni che anda-vano oltre lo specifico spunto narrativo: la dimostrazio-ne di come un racconto potesse condensare nella sua bre-ve dimensione un’intera esistenza; la scoperta di comel’autentica arte narrativa trascende il dato storico e geo-grafico per rappresentare verità universali.

Gli Appunti partigiani furono la sua prima prova. Ver-gati con mano sicura sui libretti di contabilità della ma-celleria del padre, rappresentano l’elaborazione narrativadi un’esperienza autobiografica già tesa, al di là del suovalore testimoniale, a riassumere il senso della violenzatra gli uomini, ma anche alla ricerca di uno stile che talesenso potesse esprimere.

Per molti ex partigiani gli appunti presi a caldo du-rante la guerra servirono da supporto a una narrazioneche avrebbe preso la forma finale del racconto o del dia-rio. Fenoglio, invece, sembra voler fare degli appunti ungenere a sé: rielabora le proprie annotazioni a distanzadi tempo dai fatti vissuti mantenendo il presente stori-co, la prima persona narrativa, il proprio nome, le osser-vazioni e i commenti tipici di una forma estemporanea.Ma sono l’inventività del linguaggio e una diffusa ten-

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denza alla sintesi a gettare un ponte verso i primi riusci-ti racconti. C’è già negli Appunti la mano dell’artista chepunta all’essenziale, alle sensazioni più segrete che si agi-tano nell’animo, così come la rinuncia a un piatto descrit-tivismo in favore di una rappresentazione espressionisti-ca, a tratti allucinata, della realtà. C’è lo stile, c’è il les-sico, ci sono i temi, manca la tecnica. È in questo crucialemomento che agisce la lezione dei grandi maestri del ge-nere breve.

I ventitre giorni della città di Alba era il primo dei set-te Racconti della guerra civile, l’originaria raccolta boc-ciata da quattro editori, e quello che avrebbe dato iltitolo al suo primo libro. Significativamente è anchequello che, nel corso della menzionata vicenda edito-riale, subisce il minor numero di correzioni e, con lasua già solida cifra stilistica, può considerarsi vetrinadi una personalissima arte narrativa. Giudicato in pas-sato secondo criteri ispirati all’attualità politica, con-ducenti a inevitabili stroncature e condanne, il raccon-to ebbe nondimeno alcuni estimatori d’eccezione. Igiudizi di Giuseppe De Robertis e di Gianfranco Con-tini, in particolare, sono interessanti per insoliti rife-rimenti a scrittori francesi. Nella sua Letteratura del-l’Italia unita, scriveva il secondo a proposito dei Ven-titre giorni: «È una trascrizione prettamenteesistenziale, non agiografica, di probità flaubertiana(si pensa al referto sugli avvenimenti politici nell’Édu-cation sentimentale), tanto più meritoria per chi era sta-to fra gli attori dell’evento». Mentre il De Robertis,dopo aver messo in guardia il pubblico dal cadere nelfacile equivoco di pensare al giovane scrittore albesecome «a un frutto comune di stagione, a un neoreali-sta di qualità piuttosto andante», così concludeva: «Èscrittore con le sue carte in regola; e io non vi trove-rei nessuna traccia, intanto, di letteratura americanacontemporanea; se mai buone letture francesi del bel-l’Ottocento, dissuete oggi». Le «buone letture france-

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si», in realtà, non erano in opposizione a quelle «ame-ricane», ma il positivo commento suscitò l’entusiasmodi Italo Calvino, che subito scrisse a De Robertis: «So-no contento che Lei sia un sostenitore di Fenoglio. Mivanto d’essere stato io a scoprirlo e segnalarlo a Vit-torini. E sono d’accordissimo con la Sua definizione:non neo ma integrale, e buon Ottocento». Giudizi in-teressanti perché le letture di Fenoglio, è il caso diricordarlo, non si limitavano agli amati classici del-la letteratura inglese e americana, anche se da que-sti furono per lungo tempo dominate; così come lesue traduzioni, non si limitarono alle traduzioni dal-l’inglese, anche se queste costituiscono di gran lun-ga la parte maggiore (nel 1955 eseguì la traduzionedal francese di tre articoli per la rivista d’arte «i 4Soli»: Concezioni dello spazio-tempo nella pittura fu-turista, Significato delle prime ricerche astratte (1910-1920) di Gino Severini e Umberto Lardera di MarcelBrion). Com’era normale per ogni piemontese coltonella prima metà del secolo, Fenoglio conosceva ilfrancese, che aveva studiato ancor prima di arrivareal Liceo, come dimostrano alcuni suoi quaderni sco-lastici, e continuato a studiare anche dopo essere sta-to iniziato «to England and things English». Si ri-corderà, inoltre, che in qualità di procuratore delladitta vinicola Marengo & Figli di Alba, dove Feno-glio venne assunto nel 1947, egli curava regolarmen-te la corrispondenza con la Francia e più volte si recònella Savoia francese per motivi di lavoro. Non do-vrà perciò sorprendere se, agli inizi della sua carrie-ra di scrittore, Fenoglio dimostri di aver letto avida-mente l’opera di Maupassant, in particolare i suoiContes de guerre, nella versione originale francese oin una delle numerose traduzioni apparse in Italiadopo la prima guerra mondiale.

Come Fenoglio anche Maupassant aveva vissuto,ventenne, la sua esperienza di guerra, divenuta poifonte costante d’ispirazione. Nel 1870, allo scoppia-

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re del conflitto franco-prussiano, era stato chiamatoalle armi e aveva assistito da vicino ai drammaticieventi che avrebbero segnato il destino della Franciacontemporanea: la disfatta di Sedan, il crollo dell’im-pero, l’esperienza della Comune, la nascita della ter-za repubblica. Dieci anni più tardi, sotto l’egida diZola, aveva pubblicato il suo primo vero racconto,Boule de suif, piccolo capolavoro di osservazione e diironia ambientato in Normandia, tra Rouen e Tôtes,al tempo dell’invasione prussiana. Più vasta di quel-la di Fenoglio è l’opera dello scrittore francese, piùvariegato il campionario dei temi affrontati negli ol-tre trecento racconti e nei sei romanzi, ma molte esorprendenti sono le affinità. Nell’arco della sua in-tensa carriera letteraria anche Maupassant sarebbesempre rimasto legato ad alcuni temi originari, cosìcome a un paesaggio privilegiato: la guerra e la duraesistenza dei contadini del nord, quei luoghi dellaNormandia che erano stati i luoghi cari della sua in-fanzia. L’attaccamento filiale di Maupassant allaNormandia non è molto dissimile da quello di Feno-glio alle Langhe, né dissimile è il loro modo frontaledi aggredire la realtà, cercando di rendere, del fattonarrato, l’essenza, il significato profondo. AncheMaupassant non amava dissertare sulle sue opere edenunciare teorie, ma i suoi racconti brevi fornironoil giovane Fenoglio di una valida guida, sia nelle scel-te di stile, sia in quelle dei temi (si pensi al tema delfiglio illegittimo, che sembra quasi ossessionare loscrittore francese, al modo in cui viene da questi trat-tato nel racconto Le Papa de Simon, e lo si confronticon Superino, dove la figura del patrigno benevolo de-riva da quella del racconto di Maupassant anche il no-me proprio).

Ecco un raffronto tra le opere maestre dei due scrit-tori: in Boule de suif un gruppo composito di borghesidi Rouen fugge in seguito all’occupazione della città daparte delle truppe straniere. Al primo controllo la loro

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carrozza viene fatta bloccare da un corrotto ufficialeprussiano il quale chiederà una sorta di dazio in natu-ra da parte di uno dei passeggeri, la prostituta sopran-nominata Boule de suif. I borghesi la spingeranno a sa-crificarsi, ma la loro meschinità e ipocrisia vengonosmascherate per contrasto dall’inaspettata dignità del-la donna: prostituta, sì, ma generosa e patriottica! Di-versa è la fabula dei Ventitre giorni, perfettamente rias-sunta nel celebre incipit e risolta in coralità. Protago-nista del racconto è la città stessa, e nessun altro.Anche i nomi propri evocati sono unicamente toponi-mi. Si hanno così «i partigiani», «i repubblicani», «ifascisti», «i capi», «i gerarchi», «le ragazze», «le mai-tresses», «i borghesi», «la gente», «i cittadini»; oppu-re «il Comandante la Piazza», «il federale di tutto ilPiemonte», «il parroco», «un prete della Curia», «quelpartigiano semplice» e così via; ma nessuno di essi haun volto, nonché un nome: solamente le loro azioni infunzione della città li descrivono. Quando, nel finale,il Comandante ordina la ritirata e «arriva di corsa allespalle dei più lenti, come fanno le maestre coi bambi-ni delle elementari», la città appare ai partigiani nellasua personalità ferita: «la città che laggiù tremava co-me una creatura». È questo l’unico momento di tuttoil racconto in cui l’ironia e il tono burlesco del narra-tore hanno uno scarto cedendo alla pietas.

L’analogia tra i due racconti, a questo primo livello,è soltanto nello spunto iniziale: una città che in tempodi guerra vede alternarsi le forze occupanti. In Boule desuif escono le truppe francesi, entrano quelle prussiane;in Ventitre giorni escono i fascisti, entrano i partigiani.Eppure una comune sensibilità artistica e una congenia-le visione del mondo permettono a Fenoglio di mutuareparticolari concreti del linguaggio di Maupassant, il mo-ralismo anonimo e popolareggiante, la demistificante iro-nia con cui viene descritto il comportamento degli uo-mini in tempo di guerra. Si vedano gli antefatti all’oc-cupazione delle rispettive città:

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Nel racconto di Maupassant, le truppe francesi in rot-ta attraversano la città di Rouen all’incalzare dell’armataprussiana; in quello di Fenoglio sono i partigiani che per-corrono da vincitori la via Maestra di Alba dopo la fugadei fascisti. In entrambi i casi la singolare sfilata è vistacon gli occhi di uno spettatore anonimo che ne sottolineagli aspetti grotteschi:

Boule de suif

La Guardia nazionale, che dadue mesi effettuava con grandeprudenza ricognizioni nei boschivicini, prendendo talvolta a fuci-late le sue stesse sentinelle e pre-parandosi alla battaglia se un co-niglietto si muoveva tra i cespu-gli, era tornata al riparo. Le armi,le divise, tutto l’equipaggiamen-to di morte col quale fino a ierispargeva il terrore tra le pietre mi-liari delle strade maestre per tremiglia all’intorno, erano scompar-si all’improvviso.

Gli ultimi soldati francesi ave-vano finalmente attraversato laSenna diretti a Pont-Audemerper Saint-Sever e Bourg-Achard;chiudeva la marcia, a piedi tradue ufficiali d’ordinanza, il gene-rale, disperato, che non potevatentare nulla con quei brandellieterogenei, sperduto com’era an-che lui nel grande sfacelo di unpopolo abituato a vincere e disa-strosamente sconfitto malgrado ilsuo valore leggendario.

I ventitre giorni della città di Alba

Ai primi d’ottobre, il presidiorepubblicano, sentendosi manca-re il fiato per la stretta che gli da-vano i partigiani dalle colline (nondormivano da settimane, tutte lenotti quelli scendevano a far bor-dello con le armi, erano esauritigli stessi borghesi che pure non la-sciavano più il letto), il presidiofece dire dai preti ai partigianiche sgomberava, solo che i parti-giani gli garantissero l’incolumitàdell’esodo. I partigiani garantiro-no, e la mattina del 10 ottobre ilpresidio sgomberò.

I repubblicani passarono il Ta-naro con armi e bagagli, guardan-do indietro se i partigiani suben-trati li seguivano un po’ troppodappresso... Poi dalla città furonvisti correre a cerchio verso unpunto unico: era la truppa che siaccalcava a consolare i suoi uffi-ciali che piangevano e mugolava-no che si sentivano morire dallavergogna.

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La vanagloria dei superiori è messa in ridicolo con fero-cia da Maupassant, con più sottile sarcasmo e ironia da Fe-noglio, ma con eguale esito dissacratorio. Vengono poi evi-denziate le preoccupazioni meschine dei borghesi, la mag-gior parte dei quali non manca di familiarizzare coivincitori, mentre alcuni decidono di abbandonare la città.Da questa fuga si svilupperà il racconto di Maupassant. InFenoglio è soltanto un breve inciso nel movimento coraleche ha per protagonista l’intera popolazione.

C’è una costante ripresa d’immagini, una tonalità del-la frase, che non lasciano dubbi sull’influenza esercitatadallo scrittore francese. Se a questa si unisce la lezione diPoe, appresa già prima della guerra, durante la sporadica

Non erano soldati ma orde al-lo sbaraglio. Gli uomini avevanola barba lunga e sporca, divisecenciose, e procedevano conun’andatura molle, senza bandie-ra, senza reggimento. Si vedeva-no soprattutto dei richiamati,persone pacifiche, tranquilli be-nestanti, curvi sotto il peso del fu-cile; ragazzi della premilitare fa-cili alla paura e all’entusiasmo,pronti all’attacco quanto alla fu-ga; poi, in mezzo a loro, qua e làdei pantaloni rossi, residui di unadivisione decimata in una grandebattaglia; artiglieri vestiti di scu-ro in fila con tutti quei fantacci-ni e, a volte, l’elmetto scintillan-te di un dragone dal passo appe-santito che seguiva a fatica lamarcia più leggera dei fanti. Pas-savano anche, con espressioni dabanditi, schiere di franchi tirato-ri dalle denominazioni eroiche:«Vendicatori della sconfitta, Cit-tadini della tomba, Compagnidella morte».

Fu la più selvaggia parata del-la storia moderna: solamente didivise ce n’era per cento carneva-li. Fece impressione senza pariquel partigiano semplice che pas-sò vestito con l’uniforme di galadi colonnello d’artiglieria con glialamari neri e le bande gialle e in-torno alla vita il cinturone rosso-nero dei pompieri col grosso gan-cio. Sfilarono i badogliani con sule spalle il fazzoletto azzurro e igaribaldini col fazzoletto rosso etutti, o quasi, portavano ricama-to sul fazzoletto il nome di batta-glia. La gente li leggeva come sileggono i numeri sulla schiena deicorridori ciclisti al passaggio del-la corsa; lesse nomi romantici eformidabili, che andavano da Ro-lando a Dinamite.

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frequenza universitaria a Torino, si avrà un quadro piùcompleto della cultura letteraria del giovane Fenoglio, esarà allora più facile comprendere la sua tendenza, quasiuna predisposizione naturale, alla narrazione breve. Mol-ti saranno gli scrittori che, prima e dopo l’esperienza deiRacconti della guerra civile, contribuiranno a forgiare lostile, o il «grande stile» come l’ha chiamato Gian LuigiBeccaria, di Beppe Fenoglio; ma in quel primo crucialemomento della sua formazione è il peculiare naturalismodei racconti di Maupassant, maestro del genere breve, aoffrire al giovane albese il modulo narrativo più idoneoentro cui esercitare la propria immaginazione e la propriasensibilità.

«Ho letto I ventitre giorni della città di Alba di BeppeFenoglio. Non mi è piaciuto. Mentre perdura la propa-ganda antiresistenziale e i partigiani vengono buttati incarcere come delinquenti, questo racconto di Beppe cheha fatto la Resistenza accanto a me, sulle Langhe, mi èparso aiutare chi s’affanna a denigrarci. Noi garibaldiniavevamo osteggiato la decisione di Mauri, il comandantedei badogliani, di volere occupare la città di Alba. Le no-stre forze partigiane non erano ancora in grado di difen-dere la città che avremmo certo riperduto portando sco-ramento nei combattenti e nella popolazione, come soste-neva Fenoglio in quelle pagine. Ma perché descriverel’occupazione come una carnevalata? I partigiani come sol-dati di ventura e l’abbandono delle città come una fugadi fronte ai fascisti? Ho scritto un articolo sul libro contono aspro». Così annotava nel proprio diario DavideLajolo, direttore dell’«Unità» di Milano, il 29 ottobre1952. Quella mattina era apparso il quarto e più duro in-tervento del suo giornale (dopo gli articoli di GiorgioGuazzotti sull’edizione torinese, di Carlo Salinari su quel-la romana, di un anonimo redattore su quella genovese)contro I ventitre giorni: una recensione firmata «Il libraio»,in cui il racconto di Fenoglio veniva definito «un gioco diparole, e di brutte parole… un gioco che può essere faci-

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litato dalla novità che consiste nel fatto di vedere le cosedall’altra sponda».

Che terribile equivoco! Il giovane esordiente di Albasi trovava in effetti su un’altra sponda, su un altro ramorispetto all’arcigno libraio. Ma ciò che così drammatica-mente li separava non era la dicotomia fascismo/antifasci-smo: erano idee inconciliabili sulla posizione dello scrit-tore nella società, era il destino della letteratura! Curio-so che quanto sfuggiva allora a un chierico laico, tanto piùpredisposto a una visione immanente della realtà, venis-se compreso dal sacerdote Carlo Richelmy, autore di unaLettera aperta a Beppe Fenoglio apparsa su «Il pennino» diAlba, in cui troviamo questo sorprendente giudizio:

«C’è ancora un punto che mi piace tanto chiarire e cheè tra le cose più belle del tuo libro: sei stato partigiano,hai sofferto pianto e bestemmiato come tanti, quei gior-ni devono esserti rimasti nel sangue, eppure sei riuscito ascriverne senza retorica. Quel periodo di tempo ha datotanto materiale ai nostri scrittori, ma, fosse la prospetti-va che loro mancava, fosse il troppo amore per quell’ideache avevano timore di vedere non giustamente apprezza-ta, fatto sta che qualcosa ha turbato i rapporti dello scri-vere a più d’uno, e tu sai bene quale magnifico libro avreb-be potuto essere Uomini e no e quale invece povera cosasia rimasta. I tuoi Ventitre giorni invece sono tanto lonta-ni dalla retorica che a volte paiono perfino irriverenti eingiusti, mentre costituiscono l’epopea della Resistenza chefinalmente riusciamo a vedere per la prima volta tradotta incifra letteraria senza sprechi e inutili apologismi. Penso ti siastato di tanto aiuto, in questa rievocazione pienamentevissuta e sofferta, quella psicologia cruda e oggettiva, perla quale le anime balzano come riprodotte con l’accettasenza falsa pietà: un bene che aiuta i dodici racconti per-ché brevi e tutto sugo, ma che potrebbe nuocere domanise trasportato in una visione più ampia quale potrebbe es-sere un racconto lungo o un romanzo». Giudizio esatto elungimirante, come lungimirante era lo scrittore a cui siriferiva.

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Gli anni in cui Fenoglio passa dalla forma fluida degliappunti a quella definita del racconto, sono soprattuttogli anni dei memorialisti, il cui proposito dichiarato eraquello di offrire un documento in rapporto diretto con larealtà storica da essi vissuta, ma anche del cosiddetto «rac-conto partigiano», che appare regolarmente nelle terze pa-gine dei nuovi quotidiani a tiratura nazionale, su periodi-ci locali e riviste militanti. Gli autori sono quasi semprepoco più che ventenni e impegnati politicamente; sorpre-si dagli eventi del settembre 1943, avevano aderito conspontaneità giovanile alla lotta contro il nazi-fascismo, vi-vendo un’esperienza insieme drammatica e rivelatoria cheerano ansiosi di rievocare. Sono gli anni di quello che po-tremmo definire il «neorealismo spontaneo», ancora sgan-ciato, cioè, o per lo meno non direttamente influenzatodalla politica culturale dei partiti di sinistra. Con rare ec-cezioni, però, prevale già in questi racconti una visioneacritica della Resistenza, l’affermazione costante della giu-stezza della causa, quel «troppo amore per l’idea» di cuiparlava Richelmy, che inevitabilmente ne indebolisconol’effetto drammatico: «La retorica, il commento sentimen-tale ai fatti» costituiscono, secondo Giovanni Falaschi cheli ha studiati in modo esaustivo, un’insidia costante.

Le eccezioni, appunto: principalmente Italo Calvino eBeppe Fenoglio. Se è vero quanto affermava il primo nel1964, che «il neorealismo non fu una scuola» ma «un in-sieme di voci, in gran parte periferiche», appartengonoad essi le voci più forti e libere di quella breve stagioneletteraria. Entrambi dimostrano fin dagli inizi una sostan-ziale diversità rispetto alle linee prevalenti e tra loro un’af-finità ideale sul piano del gusto e del credo letterari, senon su quello propriamente espressivo. La narrativa resi-stenziale subordinata a un progetto politico, secondo Cal-vino, non solo tradiva lo specifico letterario, ma anchequello che era stato l’autentico spirito della lotta partigia-na: «Ci pareva allora, a pochi mesi dalla Liberazione, chetutti parlassero della Resistenza in modo sbagliato, che

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una retorica che s’andava creando ne nascondesse la veraessenza, il suo carattere primario».

Diversamente da Calvino, Fenoglio non ha lasciato sag-gi né enunciato teorie, ma in alcune sue opere non è dif-ficile scorgere il fastidio provato dallo scrittore per il di-lagare di cronache e di diari all’indomani della Liberazio-ne, per una forma narrativa piattamente autobiografica.È il caso di War can’t be put into a book, una delle più in-teressanti new entries della presente raccolta, in cui l’au-tore, sia pure indirettamente, espone le sue idee riguardoalla narrativa resistenziale. Se la pubblicazione degli Ap-punti partigiani ha aperto una finestra sul primo periododell’attività di Fenoglio scrittore, questo singolare raccon-to aggiunge un tassello importante al quadro ancora in-completo della sua biografia letteraria.

Lo stile è quello maturo, dal tono riflessivo e melanco-nico, dell’ultimo Fenoglio; molto simile a Ciao, old Lion,anch’esso lasciato dall’autore privo di titolo, anch’essoascrivibile agli anni 1961-62. Sua caratteristica peculiareè che i due personaggi che vi agiscono si presentano comeuna proiezione del ben noto Johnny-Fenoglio, colto in duefasi distinte della sua vicenda umana e intellettuale: il ma-turo partigiano senza nome che racconta in prima perso-na, nella vita professore d’inglese e amico di Fulvia Paga-ni, e il più giovane Jerry, anch’egli anglofilo, scrittore prin-cipiante, che torna al presidio di Mango dopo un brevedeludente servizio presso la missione inglese, per poi mo-rire nel combattimento di Valdivilla. È come se un Johnnyormai quarantenne tornasse al tempo della guerra per in-contrare il suo io giovanile e, con tenerezza e incredulità,si divertisse a osservarlo «così frenetico e absorbed nelvortice dei suoi compagni, avventati, estroversi e comu-nitari anche nell’ozio».

La riservatezza di Jerry, il pudore che manifesta nel par-lare della propria attività di scrittore, sono caratteristicheben note dell’uomo Fenoglio: né altri che se stesso pote-va avergli ispirato la figura del giovane partigiano anglo-filo. La successiva insistenza sulla parola «appunti», inol-

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tre, rimanda senz’altro agli Appunti del partigiano Beppe,scritti anch’essi su quadernetti «regolarmente numerati»,del tutto simili a quelli che l’esecutrice delle ultime vo-lontà di Jerry consegnerà in numero di sei al partigianonarratore; così come rimanda all’«inseparabile librettod’appunti» nel quale, secondo il ricordo del generale Pie-ro Ghiacci, il partigiano Beppe annotava «le sue sensazio-ni sulle vicende partigiane».

Dopo mesi di vita selvaggia, in cui le uniche parole pos-sibili erano «terra, sangue e fuoco e carne», il narratoreprova piacere a sviluppare una conversazione dal tono«decisamente letterario – col giovane partigiano; ma Jerryreagisce con indignazione quando il suo work in progressviene definito un «diario». «E... sarà una cosa puramen-te documentaria, o qualcosa che varrà... decisamente sulpiano artistico?» insiste il partigiano anziano. «Spero...sul piano artistico – risponde Jerry. – Come documenta-rio, non varrebbe nemmeno la pena che me li portassi die-tro». Se non è ancora sicuro di come definire i suoi «ap-punti», egli sa con certezza quello che non vogliono esse-re: un diario, un racconto documentario o autobiografico.Il narratore comprende fin troppo bene l’ambizioso pro-getto di Jerry; la sua esperienza, però, gli suggerisce unaconclusione amara:

– Sai, – dissi poi, – che ha scritto Walt Whitman della guerra?Lui si riferiva alla guerra di Secessione, ma naturalmente vale pertutte le guerre.

La curiosità ardeva nel suo viso quasi scancellato dal buio.– War can’t be put into a book, – citai in inglese.– Questo è vero, verissimo, – disse con una sorta di disperazione.

– Me ne sto accorgendo. È come svuotare il mare con un secchielli-no.

La citazione, inesatta, è dalla raccolta di appunti e im-pressioni sulla guerra civile americana Specimen days, dicui un’ampia scelta si trovava nell’edizione Cardinal delWhitman reader posseduta da Fenoglio: «Future years willnever know the seething hell and the black infernal back-ground of countless minor scenes and interiors, not the

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official surface-courteousness of the Generals, not the fewgreat battles of the Secession war; and it is best theyshould not - the real war will never get in the books». Se dauna parte Whitman sottolinea l’impossibilità di rievoca-re gli infiniti aspetti della guerra (e precisa: le infinite sce-ne minori, non l’ufficiale cortesia, tutta di superficie, deigenerali, non le poche battaglie famose!), dall’altra, però,esprime la necessità di scriverne per non dimenticare; scri-vere non tanto la cronaca degli avvenimenti, quanto la lo-ro «storia interiore». E se la guerra nella totalità delle suemanifestazioni, coi suoi infiniti episodi di crudeltà e dicoraggio, di odio e di solidarietà, con tutte le emozioni ele paure, i pianti e la gioia, e i soldati o i partigiani con leloro abitudini, azioni, gusti e linguaggio… se tutto ciò nonpuò essere descritto in un libro, è anche vero che l’operadi Fenoglio, come poche altre, rappresenta una solennesfida a questo principio.

Che Jerry muoia a Valdivilla non è casuale. Il combat-timento nel piccolo borgo delle Langhe, situato sul crina-le che separa Alba da Santo Stefano Belbo, ebbe luogorealmente il 24 febbraio 1945 e Fenoglio vi prese parteinsieme ai suoi compagni del distaccamento di Mango gui-dati da Piero Ghiacci: il tentativo di tendere un’imbosca-ta alla retroguardia di un reparto fascista in azione di ra-strellamento si volse in una controimboscata che costò lavita a cinque partigiani. Fenoglio - ha ricordato Ghiacci -non faceva parte del gruppo avanzato di partigiani chevenne investito dalla prima micidiale raffica sulla stradaprincipale di Valdivilla, là dove oggi sorge il monumentoai caduti, ma si trovava su un promontorio vicino, dirim-petto al centro dell’azione. Da quella posizione privilegia-ta, col suo «occhio superiore», Beppe osservò impotentela morte dei compagni, così come nel Partigiano Johnny ilprotagonista osserva impotente la morte dei partigianiIvan e Luis dall’alto di una selletta presso il «pastry-looking knoll del Boscaccio». L’immagine gli si dovettefissare nella mente come su una lastra. Il ricordo di Val-divilla lo accompagnerà sempre, motivo di riflessione sul-

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la fenomenologia della guerra e fonte di numerosi spuntinarrativi.

Nella prima redazione di Primavera di bellezza, che an-ticipa l’inizio del romanzo all’incerto periodo d’attesa vis-suto da Johnny, studente universitario a Torino, trovia-mo questo brano:

Pensava che presto sarebbe partito soldato ed ogni giorno, ognimomento della sua vita sotto le armi avrebbe acerbamente rimpian-to anche una sola di quelle tante ore di libertà che adesso non sa-peva fecondare. Poteva benissimo morire come Italo Morra per unabomba aerea, o cadere sul fronte russo come Bosca, e non avrebbelasciato niente di sé, nemmeno un racconto.

La preoccupazione principale di Johnny, in quell’atti-mo eterno fuori del tempo, è questa. Il protagonista hagià fatto la sua scelta di vita, ha scoperto la sua vera vo-cazione, ma non considera i suoi primi lavori una degnatestimonianza: se fosse morto in guerra «non avrebbe la-sciato niente di sé, nemmeno un racconto». In War can’tbe put into a book Jerry diviene la sesta vittima del com-battimento di Valdivilla, simbolico crocevia del destino,e quello che lascia al mondo di sé sono i sei quadernettidestinati al narratore. Noi ne conoscevamo già il conte-nuto, conoscevamo la scrittura «regolare e netta» simileal «dettato in bella copia di uno scolaro dal polso fermo einstancabile»: è la stessa vergata nei libretti di contabilitàdella macelleria Amilcare Fenoglio di Alba. Ma non co-noscevamo ancora il testo dei quattro fogli dattiloscrittilasciati da Beppe privi di titolo: una riflessione in formadi racconto sul suo tirocinio di scrittore di guerra, un mo-mento della sua faticosa ricerca di un genere attraversocui dare voce a una esuberante vena narrativa.

Anche L’erba brilla al sole, il racconto scelto da Feno-glio per comparire nel volume miscellaneo Secondo Risor-gimento, pubblicato a Torino nel centenario dell’unità d’I-talia, entra finalmente in catalogo col suo titolo origina-le. Il tema è la battaglia di Valdivilla, qui descritta in modolineare e completo. Nonostante l’inevitabile rapporto em-

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patico con la materia, la narrazione è condotta con tersaoggettività, senza nulla concedere al sentimentalismo o alcarattere celebrativo dell’opera. L’empatia è nella dedicaal partigiano fucilato, nella preghiera che in altra sede Fe-noglio rivolge a Calvino affinché il testo del biglietto diTarzan ai famigliari venisse incluso nella ristampa del «sa-cro volume» di Einaudi (Lettere di condannati a morte del-la Resistenza italiana); mentre il bellissimo titolo rinvia,chiarendosi, alle ultime parole del caporale fascista nelcomplementare racconto La profezia di Pablo: «Ma sì, to-gliamoci dal sole».

Altre novità tra i racconti della prima sezione sono:L’ora della messa grande, in cui Fenoglio affronta un temaappena sfiorato in precedenza, quello del difficile ruolodei parroci nei territori occupati, delicatamente risolven-dolo in pietas (vedi l’imbarazzo di Oscar, o il pianto fina-le del suonatore di fisarmonica); La prigionia di Sceriffo,dove è svolto quello ossessivo della prigionia, già magi-stralmente trattato in Un altro muro (ma si noti anche quiuna forza particolare: nella dettagliata rappresentazionedell’odio e della paura, nel feroce sospetto reciproco cheisola i personaggi in drammatica sospensione tra la vita ela morte, nell’atroce dubbio del padre del prigioniero, chesi scioglie soltanto nel finale, quando egli ha la prova chesuo figlio viene veramente condotto a uno scambio e nonalla fucilazione); mentre in Qualcosa ci hai perso compareper la prima volta il partigiano Milton: «un’altra faccia,più dura, del sentimentale e dello snob Johnny», comespiega l’autore in una lettera a Livio Garzanti. Benintesosi tratta del primo Milton, il bello e cinico protagonistadell’Imboscata, non dell’omonimo eroe di Una questioneprivata: una sorta di Humphrey Bogart in armi, qui coltoin un momento d’intimità con Paola, l’insicura amica diAnnamaria, conosciuta una domenica di libertà sulla piaz-za di Santo Stefano Belbo.

«Vede, laggiù è San Benedetto, il paese più triste diquesta terra. Vi ho trascorso le vacanze della mia adole-

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scenza. La tristezza vi cola da ogni parte con la nebbia,con la pioggia interminabile delle Langhe. La sua gentesta già preparandosi alla solitudine dell’inverno»: così con-fessò Fenoglio al giornalista Carlo Cocito durante il sog-giorno di Bossolasco, negli ultimi giorni.

San Benedetto, le Langhe, i vecchi Fenoglio: il secon-do grande tema narrativo, ispirazione di un vasto micro-cosmo di storie, di autentici capolavori. Lo scrittore vi la-vorò per circa dieci anni, gli ultimi della sua breve vita, eall’estremità di questo affascinante periodo creativo tro-viamo due raccolte ordinate: Il paese e Racconti del paren-tado.

La prima, giunta a noi in forma incompleta, compren-de quattro capitoli collegati da un evidente disegno uni-tario, dallo stesso ambiente paesano e dalla presenza de-gli stessi personaggi archetipici: l’oste, il medico, il mu-gnaio, il prete, il commerciante di bestiame. Sono peròprivi di un protagonista comune e autonomi nel loro svi-luppo narrativo. I dati precisi di luogo e di tempo resta-no sullo sfondo, lontani e sfumati, come a sottolineare ildistacco degli avvenimenti dalla società e dalla storia. Nonsappiamo quale fosse il progetto dell’autore nel momentoin cui, subito dopo aver terminato La malora, intrapresequesto nuovo lavoro; ma alcune caratteristiche interne,l’esistenza di chiare analogie tematiche con altri testi piùnoti, sembrano suggerire che da ciascuno degli almeno un-dici capitoli composti Fenoglio abbia successivamente ri-cavato un racconto. Come già era successo con Appuntipartigiani, come accadrà di nuovo con la storia del primoMilton, il progetto iniziale di un’opera lunga si è venutatrasformando in una raccolta di racconti.

I racconti del parentado assumeranno la forma compiu-ta di raccolta soltanto nel 1961, quando la tendenza di Fe-noglio è ormai quella di recuperare tutti i testi brevi di ar-gomento langhigiano all’unificante ottica parentale. Ma icapitoli superstiti del Paese tendono già fortemente al rac-conto. Anzi, per due di essi, quelli indicati coi numeri IIIe XI, si può senz’altro parlare di racconti finiti. Il primo

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è una buona short story dall’efficace dialogo hemingwaya-no, degna di attenzione se non altro per essere l’unico te-sto a noi noto in cui Fenoglio affronti il tema del giocodel pallone elastico, sport da lui amato, e praticato, comericorda chi l’ha conosciuto, con una certa bravura. Nelracconto il celebre campione italiano di pallone elasticoAugusto Manzo si reca in visita a San Benedetto per esa-minare un potenziale terzino da aggiungere alla sua squa-dra. Agli occhi del giovane prescelto Manzo appare uneroe mitico, l’essere ingaggiato da lui la realizzazione diun sogno: «Certo che va bene», gli sussurra il vecchio Me-nemio, «ti va bene anche se ti andasse male. Ricordati cheLui per te è il Padreterno». Ma poi, superata con succes-so la prova, nel colloquio finale con il veterano terzino diAlba, il futuro tanto agognato si tinge di colori cupi.

Una triste storia di degradazione, interessante per i suoicollegamenti tematici con Ma il mio amore è Paco, è inve-ce quella offerta dal capitolo XI, dove troviamo il picare-sco protagonista del grande racconto langhigiano, indebi-tato ben oltre le sue possibilità, ricorrere a un trucco me-schino per ingannare due poveri contadini. Anche qui, ilfinale improvviso, coincidente con la scoperta dell’ingan-no, evidenzia l’ormai sicura padronanza della tecnica. Piùdebole, col suo lento ritmo narrativo e come frammenta-to in almeno quattro motivi tematici, il Paese I meritaugualmente di essere incluso tra i racconti di questa se-conda sezione, se non altro per la sua funzione introdut-tiva dell’universo umano dei Racconti del parentado: quel-la galleria di personaggi che, nelle parole del medico Du-rante, «sono tutti e unicamente malati nella testa».Rimane invece escluso il capitolo II, stesura parziale e an-teriore del Signor Podestà.

L’estate del 1954 segna un momento di profonda crisinella vita di Fenoglio. Il suo secondo libro, La Malora, èappena uscito col noto «risvolto» di Vittorini, pieno d’in-comprensione e quasi denigratorio nel tono; sicuramentesentito tale dall’autore, che sei anni più tardi avrebbe con-

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fessato a Calvino: «Forse non ci crederai, ma il mio ab-bandono dell’Einaudi ha turbato me più d’ogni altro. Eancora mi turba, e vorrei non aver provato quello stupi-do risentimento per il risvolto di Vittorini. Il risentimen-to fu, debbo ammettere, infinitamente più sciocco del ri-svolto che lo provocò. Vidi, ecco l’errore, il risvolto uni-camente con l’occhio del dirigente industriale che non sicapacita che un altro industriale, l’Einaudi, svaluti il suoprodotto nella stessa presentazione». Nel tentativo di con-trollare le ansie e i dubbi che lo tormentano decide di fis-sare in un diario le sue impressioni quotidiane e inizia co-piando, a modo di epigrafe, un pensiero del filosofo esi-stenzialista russo Lev √estov (Fenoglio segue la lezionefrancese «Chestov»): «Lo scrittore, fintantoché scrive,rappresenta un certo valore, ma al di fuori delle sue fun-zioni è il più nullo degli esseri umani». Quelle poche pa-gine di quaderno, che il lettore troverà riprodotte in ap-pendice al presente volume, diventano per noi un prezio-so documento che ci aiuta a ricostruire il difficile camminodello scrittore verso la maturità.

Durante la composizione del libro d’esordio Fenoglioera venuto esplorando una nuova materia da affiancare aquella della guerra partigiana. Erano così nati i primi rac-conti langhigiani e, subito dopo, La malora. Quell’anticaragazza e Pioggia e la sposa, rispettivamente ottavo e dodi-cesimo della prima raccolta, sono quindi da considerarsigli incunaboli di questa nuova esperienza narrativa; e saràparticolarmente la strada indicata dal secondo, con la sco-perta del narratore-bambino, capace di esprimere con fre-schezza, al di fuori di frusti schemi neorealistici, la straor-dinarietà dei fatti, a condurre ai capolavori brevi fenoglia-ni: Un giorno di fuoco, Ma il mio amore è Paco.

Lo scrittore sta ora cercando un motivo unificante peri suoi nuovi racconti, tale da giustificare una nuova rac-colta: «Conto di scriverne a fondo – scrive nel diario, –non so ancora in quale forma. Certo si è che il camposan-to vecchio di Murazzano mi ha fatto potentemente invi-diare il grande spunto di E. L. Masters». Pochi giorni do-

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po, sotto la voce Autocritica, ancora un appunto signifi-cativo: «Riletto la mia Malora; mi pare d’aver piantatoi paracarri e non aver fatto la strada». Più che un cedi-mento alla critica di Vittorini, questo pensiero potreb-be interpretarsi nel modo seguente: con La Malora loscrittore aveva creato un linguaggio e un ambiente nuo-vi, un suo quasi perfetto strumento di scrittura e unarealtà; ma di quella realtà non aveva colto i fatti profon-di, i momenti catalizzatori capaci di rivelare i conflittilatenti nell’apparente immobilismo della vita paesana,quei fatti, insomma, che offriranno il tema ai miglioriracconti «parentali».

Nasce da questa preoccupazione il rinnovato interes-se di Fenoglio per la realtà delle Langhe. Ma parlare divere e proprie inchieste sarebbe forse riduttivo. È chia-ro, infatti, che la scelta di una realtà ambientale da luiconosciuta e amata, è soltanto letteralmente un pretestoalla rappresentazione di vicende umane il cui significatoè affatto trascendente. Eugenio Corsini ha osservato aquesto proposito: «Chiunque conosca per esperienza di-retta i posti descritti da Fenoglio nei suoi racconti sa chel’apparente minuzia con cui l’autore li descrive è un fi-nissimo gioco d’illusione di cui egli si serve per raggiun-gere un obiettivo che è chiaramente posto al di là di quel-la cura descrittiva. I luoghi, come del resto le vicende nar-rate (anche quelle che partono da fatti di cronaca noti o,comunque, realmente accaduti), appaiono, in realtà, piut-tosto come dei collages di elementi narrativi e descritti-vi che la fantasia dell’autore traspone, con illimitata li-bertà, da un contesto a un altro, senza preoccupazionealcuna della cosiddetta realtà effettiva». Scrittore reali-sta, ma non nel senso cui alludeva Vittorini, delle «cosesperimentate personalmente» o del naturalismo tardo-ot-tocentesco, Fenoglio era interessato all’ambiente e allevicende degli uomini per farne, appunto, un «simbolo distoria universale».

Un successivo brano del diario, Lavoro, conferma l’in-terpretazione proposta per la voce Autocritica: «Prepoten-

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te mi ritorna alla memoria il gran fatto di Gallesio di Gor-zegno. Debbo rinfrescarmi i particolari. Ci vorrebbe unascappata a Gorzegno: la casa per sempre muta dei Galle-sio, dove s’è fermato il fumo degli spari, il castello spet-trale, l’acqua violacea della Bormida avvelenata». Si trat-ta dell’embrione di Un giorno di fuoco, il magistrale rac-conto pubblicato da «Paragone» che segnerà una svoltanella carriera dello scrittore, con la ripresa e l’approfon-dimento della nuova tecnica narrativa felicemente speri-mentata in Pioggia e la sposa, con sempre più incalzantiproposte da parte di riviste e case editrici.

Nell’ottobre del 1954 apparve sulla rivista «Il Caffè»,nella rubrica L’autore velato, un breve racconto anonimointitolato Alla langa, in cui la vicenda e il linguaggio del-la Malora erano come sottoposti a una stilizzata parodia:«Se da quelle parti là viene l’amicizia tra due famiglie»,così comincia, «è perché l’uva è matura, e si deve neces-sitare l’aiuto dei vicini. I vicini non si guardano mai infaccia; poi, mentre il barbera si fa nero, la faccia si fa chia-ra, si comincia perfino a darsi la voce, e viene il giornodell’accordo» (sic!). Il testo era preceduto da un’avver-tenza che, con evidente allusione a Beppe Fenoglio, ne at-tribuiva la paternità a uno scrittore «giovane (all’incircatrentenne), che ha già pubblicato due libri, commercian-te, è alto m 1,80». L’iniziativa, concludeva la nota reda-zionale, sarebbe stata «la controprova della singolarità dilinguaggio dei nostri autori: una voce che consente al let-tore di essere distinta al primo incontro, anche se si trat-ta di un autore velato»; e nel tipico stile della rivista di-retta da Giambattista Vicari ciò valeva come un polemi-co divertissiment.

Non sappiamo quale fu la reazione di Fenoglio alla bur-la orchestrata da Vicari, ma è molto probabile che l’epi-sodio abbia contribuito a convincerlo ad abbandonare ilradicalismo espressionistico abbracciato con la Malora. Daparte sua, «Il Caffè», emendato il giudizio sul nuovo li-bro dello scrittore albese con un articolo in cui ne veniva

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difesa la «sperimentale ricerca di vivificazione della lin-gua letteraria», nel numero di dicembre dello stesso annopubblicò un autentico testo fenogliano, Il gorgo, brevissi-mo e intenso racconto langhigiano che riproponeva il te-ma del suicidio per annegamento, già affrontato in L’ac-qua verde, nono dei Ventitre giorni. Pur orbitante nel si-stema della Malora, con il piccolo protagonista che rievocail fatto in prima persona, il racconto ha una sua caratteri-stica forza, nella rinuncia a quelli che Vittorini aveva in-giustamente definito «afrodisiaci dialettali», ma anchenell’avvio del processo di selezione e circoscrizione di sin-goli temi che animerà il disegno narrativo del Paese, doveil gorgo è assunto come sinonimo di suicidio; una dellescelte incombenti sul personaggio fenogliano di questo ci-clo: debole, insicuro, esposto anch’esso alle forze oscuredella «malora».

Le polemiche intorno alla pubblicazione del secondo li-bro di Fenoglio, se da una parte ebbero l’effetto di sanci-re la rottura del già freddo rapporto con «il signor Vitto-rini», lasciarono una ferita anche nei rapporti coi predi-letti interlocutori della casa editrice torinese. Tutto il1955 trascorre infatti senza che l’epistolario registri unsolo intervento, ed è probabile che già in questo periodo,dietro suggerimento degli amici albesi, Fenoglio abbiapensato a stabilire contatti con altri editori. Fu comun-que un anno di grande impegno e di crescita per lo scrit-tore. Abbandonato il progetto del Paese, Fenoglio comin-ciò a servirsi dei capitoli finiti per elaborare i nuovi testiche avrebbero dato vita ai Racconti del parentado. Più con-geniale «concetto informatore» sarebbe stata la relazioneparentale del giovane narratore coi protagonisti delle sin-gole storie, e il primo frutto maturo di questa nuova sta-gione fu Un giorno di fuoco: con esso lo scrittore comin-cia a costruire la strada di cui La Malora aveva indicato iltracciato.

Nel racconto dell’omicida Pietro Gallesio, che resistechiuso nel suo fienile all’assedio di «cento carabinieri», lamacchina narrativa fenogliana rivela tutta la sua perfezio-

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ne. Ogni particolare descrittivo è soffocato dall’incalzan-te ritmo narrativo che cederà soltanto, improvvisamente,nella conclusione. L’azione, interamente spostata fuoricampo, è scandita dall’eco dei colpi di moschetto, dalleframmentarie notizie portate dai curiosi e dalle deduzio-ni fatte di volta in volta dallo zio, ansioso non tanto di co-noscere la fine già decisa di Gallesio, ma di sapere se que-sti si sarebbe comportato all’altezza della situazione. So-lo quando giunge la notizia che il ribelle si è tolto la vitacon l’ultima cartuccia, egli tirerà un sospiro di sollievocommentando: «Tutt’oggi ho vissuto con la paura mattache si arrendesse, che si facesse prendere vivo, ma lui èstato al gioco. Non m’ha fatto pentire. Di Gallesio voglioricordarmene fin che campo». E d’improvviso il cielo so-pra Gorzegno appare al piccolo narratore come «un lagodove fossero finalmente finiti i cerchi provocati dai ton-fi di migliaia di pietre».

La novità rappresentata da Un giorno di fuoco nonsfuggì a Italo Calvino, il quale proprio nei giorni della pub-blicazione del racconto, aveva acquistato la qualifica didirigente della casa editrice torinese. Ansioso di riallac-ciare il rapporto con l’amico e con l’autore, dopo il gelocreato dalla critica inopportuna di Vittorini, scrisse a Fe-noglio per congratularsi: «Solo in questi giorni mi è capi-tato di leggere Un giorno di fuoco. Molto bello. Così teso,con quegli spari per aria, con un linguaggio proprio al pun-to giusto. Uno dei tuoi racconti più belli. (Io lo avrei vo-luto anche più secco, con meno digressioni di memoria, erendendo meno esplicita, più sottintesa la solidarietà del-lo zio con l’assassino). Quando ci dai un nuovo libro? Vor-rei che il tuo prossimo uscisse nei “Coralli”». E Fenogliorisponderà accogliendo con entusiasmo sia la proposta del«Corallo» sia le osservazioni su Un giorno di fuoco. Cin-que anni dopo, infatti, scrivendo La novella dell’appren-dista esattore, seguirà puntualmente i consigli dell’amico:il dettato più «secco», la rinuncia alle digressioni della me-moria e, soprattutto, il venir meno della solidarietà deglispettatori con il ribelle. Per quanto riguarda il «Corallo»,

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però, sopraggiunsero complicazioni, un conflitto con l’e-ditore Garzanti sui diritti di pubblicazione dei nuovi rac-conti, e Fenoglio non avrà il tempo di pubblicare nessunaltro libro.

Nel 1962 apparvero in rivista due racconti di Un gior-no di fuoco (il titolo originale della nuova raccolta, di cuiFenoglio arrivò a correggere le bozze, era stato cambia-to ancora una volta dall’editore con quello del primo rac-conto!): Ma il mio amore è Paco e Superino. Il primo,un’effervescente summa dell’intero ciclo langhigiano, glivalse il conferimento del Premio Alpi Apuane, fondatonei primi anni cinquanta da un gruppo di intellettuali escrittori vicini alla rivista «Paragone». In agosto, vincen-do la sua proverbiale riservatezza, lo scrittore si recò alPasquilio, in alta Versilia, per la cerimonia di premiazio-ne a cui parteciparono, fra gli altri, Roberto Longhi, An-na Banti e Giorgio Bassani. Se si esclude la presenza alConvegno Nazionale dei Giovani Scrittori, tenutosi a Ro-ma nel dicembre del 1953, fu quella al Pasquilio la primae ultima apparizione pubblica dello scrittore. Nell’ingres-so dell’albergo dove si tenne la cerimonia, proprietà diun ex comandante partigiano, sono rimaste sulle paretile belle foto del carrarese Ilario Bessi: Fenoglio vi appa-re a volte soddisfatto e allegro, a volte estraniato e qua-si contrito. La sera stessa dovette rientrare ad Alba, as-salito dal male.

Negli ultimi mesi del 1962, trascorsi tra Bossolasco, Al-ba e la clinica di Bra, continuò a scrivere su quaderni sco-lastici, nella sua grafia sempre più distesa e illeggibile, seg-no della dedizione al solo mestiere che sente, nell’intimo,suo: quello che, in un lontano momento di sconforto, ave-va definito il semplice «appagamento d’un vizio». Ap-partengono a questo periodo numerosi lavori rimasti a unostato embrionale, fra i quali Un Fenoglio alla prima guerramondiale e i Penultimi: abbozzi di romanzo sulle vicendedei vecchi Fenoglio negli anni della grande guerra, che rib-adiscono in limine l’attrazione per il tema bellico sentitocome tempo esistenziale, oltre il referente storico e auto-

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biografico. Nello stesso quaderno che l’autore aveva consé durante il ricovero a Bra figurano anche quattro rac-conti: La licenza e Il mortorio Boeri erano già entrati a farparte del canone per merito dei primi studiosi; ne eranoinvece rimasti esclusi i due che, nel presente volume, con-cludono la sezione Racconti del dopoguerra.

Nel primo il protagonista si reca in treno nella città do-ve, diciannove anni prima, ha fatto il militare, questa vol-ta per un incontro amoroso non esente da rischi. La ra-gazza che l’aspetta a casa vive con la madre: una profes-soressa a riposo dagli orari imprevedibili. Il titolo d’autore- Figlia, figlia mia - sembra rinviare a un possibile esito boc-caccesco, forse simile a quello stigmatizzato nella voce Flo-riana del Diario. Ma il vero tema del racconto è lo statod’animo del protagonista, gravato da un’amara consape-volezza: nel 1962 erano passati diciannove anni da quan-do Fenoglio aveva ricevuto la sua prima istruzione mili-tare a Ceva, e in quel tempo aveva già conoscenza del ma-le che lo avrebbe ucciso. Fin dal primo enunciato capiamoche il protagonista rifugge la compagnia. Neppure la vi-sta di un leggiadro tramonto, il cielo che «aderiva ai cri-nali delle colline con una fascia di bellissimo argento», loattrae ormai più. «L’amore del paesaggio era stata forsela prima cosa che gli si era spenta dentro». In passato lavista di quell’albero solitario «con la sua cupola di fogliearrovesciata nella zona argentea del cielo» gli avrebbe fer-mato il respiro, «l’avrebbe inchiodato». Che cosa succe-de, dunque? «Si comincia presto a morire, dovette pen-sare, e ci si mette poi tanto»: questi non sono i pensieridi un amante che sta per incontrare l’amata! Il raccontos’interrompe con la descrizione dei nuovi quartieri dellacittà, con la luce «gemmante» delle grandi insegne alneon che «illindiva ancor più la vecchia facciata salnitro-sa» del cinema. No, non è un appuntamento amorosoquello a cui il protagonista sta andando. «Ci sarà sempreun racconto che vorrò fare ancora, ma ci sarà anche ilgiorno che non potrò più vivere» aveva scritto otto anniprima nel diario.

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L’altro racconto rimasto fuori catalogo, La grande piog-gia, è molto probabilmente l’ultimo di Beppe Fenoglio, te-stimonianza di un attaccamento vitale alla parola scritta,dove il recupero del modello hemingwayano sembra con-durre a una sensibilità nuova, tra cupe premonizioni e undolce rimpianto per gli affetti ormai sfuggenti. Inconsa-pevole l’autore ne anticipa il tema in una lettera al fratel-lo Walter, scritta da Bra il 20 novembre 1962: la moglieLuciana, che appena l’anno prima gli aveva dato la figliaMargherita facendogli conoscere un’improvvisa felicità,deve recarsi a fargli visita insieme agli amici FrancescoMorra e Aldo Agnelli, tra i più cari compagni di vita al-bese. È novembre, il mese dei morti e delle lunghe piog-ge; nonostante l’ingegner Morra disponga di una comodaautomobile il breve viaggio da Alba a Bra diventerà un’im-presa disagevole, l’attesa riunione un imbarazzante con-fronto intercalato da gesti gravi e da lunghi silenzi. L’i-stinto lo spinge a trasformare la delicata occasione in unracconto, che Fenoglio, sempre pronto a registrare gli at-timi cruciali dell’esistenza, scrive di getto nel suo insepa-rabile quaderno.

Si tratta di un componimento breve di straordinariaconcentrazione lirica, una montaliana occasione senza ti-tolo, apparentemente priva di avvenimenti, ma che rap-presenta un evento importante per Charlie, il protagoni-sta ricoverato nell’ospedale di una città che «non ha maipotuto soffrire»: la visita della moglie e del più intimoamico, «il professore», in cui confluiscono caratteristichedel professor Pietro Chiodi, dell’ingegner Morra e del fo-tografo Aldo Agnelli, soltanto quest’ultimo scapolo. Char-lie, con il suo sfuggente profilo umano e con le sue cupepremonizioni, è l’ultima incarnazione di Johnny, ora co-stretto a truffare la suora-infermiera nel computo delle si-garette fumate. E come Johnny non è uomo privo di rim-pianti: da giovane «era stato, a giudizio unanime, il mi-glior liceale della sua generazione, ma poi non si eralaureato»; anche per questo, con autoironico puntiglio,ama chiamare i suoi amici «col loro titolo accademico».

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Charlie è un uomo in attesa, che passa la maggior partedel tempo a letto, sforzandosi di non pensare; come l’expugile Ole Andreson di The killers, e come Mr. Frazer, loscrittore ricoverato nell’ospedale di una piccola cittadinadel Montana in The gambler, the nun, and the radio, esitiemblematici della già ricordata teoria hemingwayana del-l’iceberg. Quando gli viene chiesto quale musica avrebbevoluto ascoltare, Mr. Frazer sceglierà una canzone «whi-ch has the sinister lightness and deftness of so many ofthe tunes men have gone to die to»: anche lui aspetta l’in-contro decisivo con il «giant killer», il Grande Assassino.

L’incipit del racconto introduce con feroce immediatez-za il tema, una costante della narrativa fenogliana (si ri-corderà l’inizio della Malora: «Pioveva su tutte le langhe;lassù a San Benedetto mio padre si pigliava la sua primaacqua sottoterra»). La pioggia diluviale che ora cade sul-la città di Charlie assume subito una connotazione malefi-ca: l’utilitaria del professore, avanzando sul viale di cir-convallazione, «sventaglia un’ondata» contro un ciclistache avanzava «senza affanno, protetto da un inceratoenorme», e che rimarrà «mitragliato dalla pioggia». La pi-oggia scroscia «sugli altissimi tetti con un fragore così fit-to e sistematico da parere il rumore di un grosso opificio».Il professore cerca di afferrarne il senso riposto: la notteprecedente la visita a Charlie ha rinunciato a prendere ilsuo solito sonnifero per poterla ascoltare atterrito.

Quella che il professore attraversa per raggiungere lacasa della moglie di Charlie, lentamente, come seguisseun funerale, è una città di fantasmi, dove tutte le formeappaiono sfocate dalla cortina di pioggia. Come l’irato ci-clista, i passanti hanno «scatti e sbandamenti inconsulti»;le «presuntuose insegne al neon», che stanno diffonden-dosi nella città «in pieno boom», pendono «non menoslavate e mosce di ramoscelli», mentre un bimbo, che perun momento riesce a sprigionarsi dalla morsa in cui lotiene la madre, alza le mani al cielo, alla pioggia, «per sgri-darla o per applaudirla».

La moglie di Charlie aspettava il professore «come se

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fosse all’agguato dietro alla porta»: la piova infernale nonla offende, non le impedisce di indossare un elegante«completo di nappa grigia metallizzata», e di uscire di casacol solo riparo della «bellissima borsetta», impermeabiliz-zata dalla sua giovinezza e dal suo splendore. Lei non sa,lei non ha ascoltato il minaccioso fragore. Durante il vi-aggio «all’altra città» informa il professore che «l’ultimalastra è stata incoraggiante. Molto incoraggiante»; e quan-do, al suo incosciente ottimismo, il professore rispondecon un cupo silenzio, lei ha uno scatto di spirito: lo invi-ta a guardare la pioggia, «non quella che tempestava ilparabrezza, ma la più lontana, quella che oscurava l’oriz-zonte». Giunti nei pressi della clinica la pioggia è «tantofitta e violenta da confondore topografia e paesaggio». Ilcommento della moglie è quindi definitivo come un epi-grafe: «Charlie non ha mai potuto soffrire questa città eha dovuto finirci ammalato». Destino odioso come quel-lo di Milton, che aveva sempre pensato alle colline comeal «naturale teatro del suo amore, e gli era invece toccatodi farci l’ultima cosa immaginabile, la guerra». Ora Char-lie è impegnato in un altro tipo di lotta.

Quello che avviene tra i visitatori e il paziente è un di-alogo/non dialogo dove i pensieri di Charlie smorzano pa-role e movimenti, come quello della sua mano «floscia estanca» che scorre sul dorso della moglie «con un’ultimae grande voglia di cadere»: la vede il professore, e capisce.Chiede all’amico «se lo deprimeva quella grande lunga pi-oggia». Ma è una minaccia di cui Charlie non vuole asso-lutamente parlare: «Voi dite che ha piovuto e che piove?»chiede stranito. All’uscita della moglie, nella stanza calail silenzio: i due amici si conoscono troppo bene, tra loronon ci possono essere inganni. Finita la finzione dell’ot-timismo, resta solo il rumore insistente della pioggia. LaGrande Pioggia, ovvero il Grande Assassino. La morte pre-sagita, imminente, nel mezzo di affetti ancora fioriti e diun fervido lavoro: il tema struggente del racconto.

Purtroppo non ci è dato conoscere il contenuto del bi-

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glietto nel quale, secondo la testimonianza di Pietro Chio-di, poco prima di morire Fenoglio stabilì l’ordinamentodei suoi racconti. È tuttavia lecito pensare che quell’or-dine sviluppasse lo schema abbozzato alcuni mesi primain una lettera ad Attilio Bertolucci, il quale gli aveva pro-posto di pubblicare una raccolta completa dei suoi raccon-ti presso Garzanti. Fenoglio aveva risposto entusiasta: «laSua raccolta mi va molto a sangue e me la vedo bene ar-ticolata davanti agli occhi. All’incirca così: racconti del-la guerra civile: I 23 giorni della città di Alba, L’andata,Il trucco, Gli inizi del partigiano Raul, Il vecchio Blister, Unaltro muro. racconti del dopoguerra: Ettore va al lavo-ro, L’acqua verde, Nove Lune. racconti del parentado:i tre e forse quattro racconti cui accenno più sopra. unracconto lungo: La Malora».

Fenoglio, dunque, stimolato da Bertolucci, ma ancheda altri felici esempi apparsi sul finire degli anni cinquan-ta, primo fra tutti quello dei Racconti di Italo Calvino, giànel 1961 aveva elaborato il progetto di una raccolta com-pleta dei suoi racconti: «la splendida, affascinante, orga-nica proposta dell’amico Bertolucci», come la definirà inuna successiva lettera a Livio Garzanti. Di questo primoschema vale sottolineare due aspetti significativi: la ripro-posta di titoli precedentemente bocciati dagli editori: Rac-conti della guerra civile, Racconti del parentado; accanto auno nuovo: Racconti del dopoguerra. Ma questo affasci-nante libro non era allora possibile. I diritti sui raccontidi Fenoglio erano infatti divisi tra due editori le cui posi-zioni, in occasione della vertenza sul diritto di stampa daparte di Einaudi dei Racconti del parentado, si erano di-mostrate inconciliabili: essendo riuscito a bloccare la nuo-va raccolta, ma non potendo a sua volta riproporre i testidel libro d’esordio, Garzanti aveva tutto l’interesse a pub-blicare i racconti inediti prima della scadenza del contrat-to quinquennale sottoscritto dall’autore nel 1959. E ciòspiega la dubbia composizione del primo volume postumonel quale, sotto il titolo Un giorno di fuoco, venivano rac-colti dodici racconti di varia origine accanto all’ultima re-

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dazione di Una questione privata, stabilendo così la ten-denza a pubblicare i testi via via rinvenuti al di fuori diun piano «organico» come quello caldeggiato dall’autore.

Il volume a cui Fenoglio rivolse il suo ultimo pensierovede oggi finalmente la luce, con un’esclusione e un’ag-giunta. Accogliendo i titoli delle tre sezioni indicati nellalettera a Bertolucci, riorganizzati in senso cronologico, siè creduto opportuno sostituire La Malora, appartenente aun genere diverso e ormai tradizionalmente libro a sé stan-te, con una quarta sezione: quella dei racconti che l’auto-re stesso, in una lettera a Giulio Einaudi, definì «fanta-stici», senza i quali il registro dell’universo narrativo fe-nogliano non sarebbe completo.

Ecco quindi Una crociera agli antipodi, la storia del pi-caro Bobby Snye che per sottrarsi alla ferocia di un cre-ditore, dopo aver perso un’enorme somma al gioco, fini-sce sulla prima nave in partenza da Plymouth. Ed ecco an-che il segno più chiaro d’ammirazione verso il maestroindiscusso del genere. «Mi chiamo Arthur Gordon Pym.Mio padre era un rispettabile commerciante in articoli ma-rittimi, a Nantucket, dove sono nato. Il mio nonno da par-te di madre era notaio, e aveva una buona clientela ... »:così inizia il celebre romanzo di Edgar Allan Poe; e Feno-glio è discepolo suo quando scrive: «Mi chiamavo Aloy-sius Butor e nacqui nel villaggio piccardo di Le Quesnoy,nel 149., da famiglia oscura ma non vile. Mio padre erascrivano e anche poeta d’occasione e mia madre, da fan-ciulla, aveva servito in alto luogo, guardarobiera della con-tessa di Cambrai...». Entrambi i protagonisti hanno unavocazione all’avventura che si manifesta molto presto nel-la giovinezza e che li spingerà a ripudiare le piccole como-dità di un’esistenza monotona. I loro destini si definisco-no all’età di sedici anni, quando l’uno entra all’accademiadi mister Ronald, dove stringe amicizia con il figlio di uncapitano di mare, Augustus, che sarà l’ispiratore della suafuga; l’altro, rimasto orfano dei genitori, entra a servizionella bottega dello zio materno, di mestiere armaiolo, do-

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ve «a furia di batter lame e piastre e di ascoltare i discor-si degli avventori» svilupperà il sogno di diventare solda-to di ventura. A ciascuno poi la sua storia, ma numerosesono le immagini, particolari concreti del linguaggio, chele accomunano.

Anche Una crociera agli antipodi deve più alla cupa at-mosfera dei racconti di Poe di quanto la luminosa corni-ce da Treasure Island potrebbe far pensare: basti ricorda-re uno dei primi racconti dell’americano, A Descent intothe Maelström, per trovare il modello della terrificantetempesta che si abbatte sulla squadra del commodoroEarlwood nei pressi della favolosa Antartide. Ed è pro-prio la rappresentazione della tempesta, del comportamen-to degli uomini in tale eccezionale frangente, che costitui-sce il cuore del racconto: «Vedemmo l’intero orizzontecoperto da una strana nuvola color rame, che saliva conla più strabiliante velocità. In meno di due minuti il cie-lo fu tutto coperto e fra questo e la schiuma che schiaf-feggiava la barca, si fece a un tratto talmente buio, che abordo non potemmo più vederci l’un l’altro. La tempera-tura si abbassò e la luce diminuì, sebbene i colori del lonta-no cielo rimanessero splendidi e fissi. C’era, ricordo, del ros-so sangue, del verde giada e del giallo zolfo. D’un tratto pre-sero a vorticare e a miscelarsi come in un mulinello e ilrisultato fu che il cielo assunse una tinta così sinistra da nonpoter reggere a fissarlo… Allora la barca si scosse, propriocome un cane che esce fuor d’acqua, e così si liberò in par-te dal mare. Prese a tirare da sud-est un vento così forte chescavava l’oceano come un cucchiaio la minestra. SolamenteO’Shea non parlò, ma continuamente sputò in faccia all’o-ceano e gli faceva versacci… Il mare, che prima era statodomato dal vento ed era rimasto piatto e spumoso, comin-ciò ora a gonfiarsi in vere montagne. Le onde erano altecento piedi e le voragini che continuamente si aprivano pote-vano facilmente ingoiare interi villaggi con guglie e campani-li… Entrambi gli alberi finirono in mare, come se fosse-ro stati segati al piede. La forza del vento era tale che strappòi fanali del Diomedes e roteandoli come palle di brace li sca-

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gliò oltre l’orizzonte». Potrebbe sembrare lo stesso raccon-to di un’unica mano, ma solo la parte in corsivo appartie-ne a Fenoglio; l’altra è di Poe.

Originale nel genere umoristico come nel mystery, Ed-gar Allan Poe aveva narrato in The Literary Life of Thin-gum Bob, Esq. la tragicomica vicenda di un giovane lette-rato di umili origini desideroso di assurgere alla gloria poe-tica. È questo il caso anche del letterato Franz LaszloMelas, «rampollo di un fabbroferraio austriaco e della fi-glia di un ungherese che teneva osteria ai margini dellapuszta», aspirante al titolo di «poeta laureato alla corteimperiale». Ancora una volta l’affinità delle favole si esau-risce nello spunto iniziale, ma ancora una volta la vocenarrante ha la stessa inconfondibile coloritura, la prosa lastessa irreprensibile qualità. Certamente, la voglia di tro-vare nella fama letteraria un riscatto alla proprie umili ori-gini è pur sempre un sottostante motivo autobiografico inFenoglio, anch’egli, come Melas, prodotto di «due san-gui»: quello langhét del padre, già garzone di macelleria,e quello «d’oltretanaro, d’una razza credente e mercanti-le» della madre. Così come squisitamente fenogliano (coni dovuti richiami alle opere maestre di Emily Brontë e diEdmond Rostand), è il motivo del triangolo amoroso incui finisce per essere coinvolto l’ingenuo Franz Melas.Tuttavia in questo racconto, che ha l’allucinata atmosfe-ra del sogno, il protagonista veste l’abito del bello deside-rato; mentre il ruolo dell’innamorato respinto spetta albarcaiolo Hans, al quale Milka, la corteggiata ragazza delpopolo, rivolge il crudele adagio ti-voglio-bene-ma-non-ti-amo, equivalente a una pugnalata nel cuore. Che poi sialo stesso Melas, quando ormai sta per completare l’attra-versamento del (simbolico) fiume che lo separa dal coro-namento del suo desiderio, a dover infliggere il colpo mor-tale nel petto di Hans, ci induce a pensare a un nuovo ca-so di sdoppiamento della personalità, al riflesso di unsofferto conflitto interiore: dolorosa è la soppressione del-la parte patetica del proprio ego, ma permetterà da solal’approdo alla pienezza dell’essere, al pubblico riconosci-

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mento del proprio valore. Evento così felicemente rappre-sentato dall’improvviso senso di benessere e di autostimache Franz Laszlo Melas, in passato «disagiatamente in-certo e pessimista» circa le proprie qualità fisiche, provanella gran sala illuminata di palazzo Lazarski.

Neppure nella dimensione fantastica di questi raccon-ti Fenoglio recede dalla sua intima fascinazione per la Sto-ria. Le avventure dei tre protagonisti si svolgono in am-bienti meticolosamente inventati, in un tempo solo ap-prossimativamente definito, talvolta con qualcheanacronismo, ma all’interno di una precisa cornice stori-ca e geografica. Si pensi anche al grazioso divertissementconclusivo, dove la grottesca vicenda della cosiddetta Ar-mada Invencible è rievocata con esilaranti toni parodisti-ci, senza troppo badare all’accuratezza (come dimostranola partenza della flotta da Cadice, anziché da Lisbona, ol’impossibile attraversamento del Golfo del Leone). Aloy-sius Butor nasce nell’ultimo decennio del xv secolo in unvillaggio della Picardia, sul confine tra il Regno di Fran-cia e i Paesi Bassi, e a sedici anni si sposta a Douai, veri-dica cittadina nella contea di Artois. Da lì, dopo l’appren-distato da «armajolo» presso lo zio Martino Dellonck, co-mincia la sua avventura di merceneraio che lo porterà adattraversare il nord Europa sconvolto dal diffondersi delverbo protestante, per concludersi di fronte alla fantasti-ca città di Toeplitz. Il quadro storico generale si collocanegli anni successivi alla dieta di Worms; il trentennio diguerre lucidamente predetto dal vecchio Kaspar morentecorrisponde verosimilmente a quello che va dalla rivoltadei contadini radunati attorno alla bandiera del radicali-smo religioso di Thomas Münzer (1524), alla pace di Au-gusta (1555), che pone fine al conflitto fra impero e chie-se scismatiche; mentre il cosiddetto «Regno dei Santi»,instaurato da ferventi anabattisti sotto la guida di Gio-vanni da Leyda, e conclusosi dopo lungo assedio nel ba-gno di sangue di Münster (1535), può aver ispirato a Fe-noglio l’episodio dell’assedio di Toeplitz (citato anche nel-la storia del letterato Franz Laszlo Melas). Per lo più

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xlvi luca bufano

inventati sono però i toponimi dove avvengono gli speci-fici fatti d’armi: Tryon, Tillenberg, Ludlinga, la stessaToeplitz e la Slivonia; così come immaginari sono i con-dottieri sotto le cui bandiere servirà Aloysius: i capitaniArnaut e Ernzer, il duca di Stettino e il «conte della Pa-lomara (o della Palombara)», detto anche «Gran Capita-no», appellattivo storicamente attribuito a Gonzalo Fer-nandez de Cordoba, artefice della reconquista.

Lo stesso rapporto creativo con la Storia si riflette nel-la vicenda del letterato Franz Laszlo Melas. Anche in que-sto caso è possibile dedurre un generale quadro storico,quello successivo all’unione austro-ungarica, e un ambien-te geografico, quello di una città mitteleuropea attraver-sata dal grande fiume e dominata dalla collina del castel-lo: Budapest, Praga, Bratislava? Fenoglio evita accurata-mente di fornire un dato che possa connotare in mododefinitivo la città in cui si svolge l’azione: Budapest, lapiù somigliante, viene citata in altro contesto, e così pu-re Presburgo, Tomesvar e Leopoli. Via Pelikan, dove abi-ta Melas, è verosimilmente nome ceco, ma non può certodi per sé connotare una città i cui ponti e le cui arteriehanno nomi così chiaramente inventati. Anche il termine«kovalcine» (a volte reso con il francese «midinettes»),per indicare le ragazze del popolo con le quali si ferma aconversare il protagonista, nonostante il sapore slavo sem-bra proprio essere frutto della fantasia di Fenoglio. Au-tentico, invece, è il nome della «Monthly Review», defi-nita «la più autorevole rivista letteraria inglese», che inuna «rassegna della situazione letteraria europea» avreb-be definito Franz Laszlo Melas, «sulla base del suo poe-ma epico La guerra di Religione» (non sulla base dei Rac-conti febbrili, la cui lettura è costata «una grave punizio-ne» al cadetto che consiglia Franz sul modo migliore diattraversare il fiume), «come uno dei più grandi poeti con-tinentali contemporanei»...

«Somewhere over the rainbow skies are blue, and thedreams that you dare to dream really do come true». Chissàse Beppe Fenoglio non avrebbe ripensato alla cara vecchia

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le scelte di fenoglio xlvii

aria, potendo leggere la recensione di John Rosselli ap-parsa sul prestigioso «Times Literary Supplement» diLondra nel 1995, in cui la traduzione del suo poema epi-co, Johnny the Partisan, veniva salutata come «una nuo-va Iliade», dove «l’eroico, il quotidiano e il grottesco so-no accostati e innalzati da un uso sapiente di parole e im-magini».

C’è una frase che Fenoglio scrive più volte negli ultimiquaderni, una frase che evidentemente occupa la sua men-te in quei giorni d’attesa. È un passo del Coriolano diShakespeare, e la sua vicinanza al manoscritto dei Penul-timi è stata interpretata come la volontà di farne una sor-ta di epigrafe per il nuovo libro annuciato nella lettera del20 novembre al fratello: la storia dei «Fenoglio di Mon-chiero negli anni della prima guerra mondiale». La stessafrase, però, figura anche sul foglio di guardia del quader-no contenente i quattro racconti già ricordati; il suo signi-ficato potrà perciò riferirsi a tutti i lavori degli ultimi gior-ni. È la frase che il portavoce dei ribelli plebei, decisi acondurre uno sconsiderato assalto al Senato, rivolge a Me-nenio Agrippa quando questi, nel tentativo di calmarli,chiede di poter raccontare loro una storia: «Well, I’ll hearit, sir. Yet you must not think to fob off our disgrace with atale. But, an’t please you, deliver». «Bene, l’ascolterò, si-gnore. Non crediate di farci dimenticare la nostra disgra-zia con una storiella. Se comunque vi fa piacere, raccon-tatela pure». E Agrippa racconterà il celebre apologo del-le membra del corpo che si ribellarono contro lo stomacoaccusandolo di starsene pigro, senza partecipare al durolavoro degli altri, ricevendo in risposta, dallo stomaco stes-so, un’alta lezione di democrazia. Qual è il legame coi no-stri racconti? Forse una risposta indiretta alla sfida che«il Fenoglio» protagonista della Licenza, lo zio Amilcaredei Penultimi, lancia ai borghesi riuniti nel più bel caffèdi Alba, «il caffè dei signori»? Ma la ribellione dei plebeidel Coriolano sullo sfondo della guerra coi volsci tropposuperficialmente si collega a quella dello zio Amilcare sul-

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xlviii le scelte di fenoglio

lo sfondo della prima guerra mondiale. Forse la citazioneva letta come uno sfogo privato, un pensiero che Fenogliorivolge soprattutto a se stesso, alla sua coscienza di uomoe di scrittore. La disgrazia che ti ha colpito, sembra volerdire, dovrebbe farti pensare ad altro che a raccontare sto-rie. Ma se questa è la tua natura, se questo il tuo nutri-mento, va’ pure avanti, racconta!

È nota la frase con cui Fenoglio, nel pieno della matu-rità, concluse un raro commento autobiografico: «Scrivowith a deep distrust and a deeper faith». Nessun’altra suaopera, come questo volume, testimonia una fede profon-da nelle risorse della parola.

luca bufano

Ringrazio gli eredi Fenoglio per la gentile disponibilità, la casa Ei-naudi per avermi assegnato questo lavoro, Edoardo Borra e GiovanniFalaschi per l’aiuto e i consigli, Ugo Cerrato, il grande e fedele amicodi Beppe, che non ha potuto vedere realizzato il progetto di cui abbia-mo discusso amabilmente per oltre dieci anni: questa edizione è so-prattutto sua.

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UN ROMANZO SULLA CADUTA DELL'ITALIA: LETTURA DI "PRIMAVERA DI BELLEZZA" DI BEPPE FENOGLIO

Author(s): Gabriele Allegro

Source: Italianistica: Rivista di letteratura italiana , MAGGIO/AGOSTO 2014, Vol. 43, No. 2, BEPPE FENOGLIO CINQUANT'ANNI DOPO (MAGGIO/AGOSTO 2014), pp. 87-101

Published by: Accademia Editoriale

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UN ROMANZO SULLA CADUTA DELL'ITALIA:

LETTURA DI PRIMAVERA DI BELLEZZA

DI BEPPE FENOGLIO

Gabriele Allegro

Primavera di belleza (1959) di Beppe Fenoglio racconta l'inutile e miserabile educazione alla guerra del suo protagonista, Johnny, e della sua generazione. Racconta poi il repentino crollo della società fascista sotto i colpi della storia e il conseguente, impressionante vuoto di valori che ha contraddi- stinto la sua fine. Dopo un breve excursus sui tratti stilistici principali, la ricerca ha preso in esame il testo nelle sue costanti tematiche più rilevanti, provando a formulare una sua nuova lettura.

Beppe Fenoglio's Primavera di belleza (1959) tells the useless and miserable war education of its protagonist, Johnny, and of his generation. It further reports on the sudden collapse of the fascist society under the blows of history and the resulting impressive lack of values that has marked its end. After a brief view on the main stylistic traits, research has examined the novel in its most important themes, trying to formulate a new interpretation.

1. Ritorno a un testo dimenticato

La / Primavera ricerca prende di belleza in considerazione (1959), 1 primo l'analisi e unico romanzo di un singolo pubblicato testo di in Beppe vita dall'Autore. Fenoglio: / Primavera di belleza (1959), 1 primo e unico romanzo pubblicato in vita dall'Autore. Fin dalla sua uscita Pdb suscitò più perplessità e giudizi negativi che elogi; l'accoglienza opposta, insomma, rispetto a quella riservata dalla critica e dal pubblico alle opere anteriori, come il felice esordio avvenuto nel 1952 con la pubblicazione della raccolta di racconti I ventitre giorni della città di Alba. Salvo rarissime e isolate voci favorevoli (Anna Banti, Roberto Longhi, Pietro Citati e pochissimi altri), i contemporanei di Fenoglio liquidarono il romanzo come un passo falso del giovane, promettente scrittore.

Nei cinque anni precedenti e nei quattro successivi la pubblicazione di Pdbf Fenoglio pubblicò in vita soltanto alcuni racconti su riviste, nonostante in segreto egli conti- nuasse a lavorare intensamente al raggiungimento di una forma romanzo che fosse adeguata alle sue aspirazioni. Come si sa, la morte lo colse nel 1963 senza che egli avesse avuto la possibilità di dare alle stampe un nuovo romanzo. Pdb rimase quindi l'unico ca- so di narrazione lunga curata dall'Autore per una destinazione pubblica: ciononostan- te, essa è stata complessivamente poco studiata.2

1 Le citazioni da Primavera di belleza (da qui in avanti abbreviato in Pdb) sono tratte da Beppe Fenoglio, Romanci e racconti, ed. Isella, pp. 287-421. Avendo stabilito di analizzare Pdb nella sua versione di testo edito in vita dall' Autore, si è stabilito, come approccio metodologico, di escludere qualsiasi riferimento alla prima stesura del romanzo ( Pdbi ): la ragione, molto semplice, è che si considera tale stesura superata da quella definitiva. Dalla medesima edizione sono tratti anche i passi di raffronto con il Partigiano Johnny (abbreviato di seguito con la sigla pj). Nelle citazioni da Pdb, il primo numero indica il capitolo, il secondo la pagina in cui si trova il passo.

2 Si ricordano tuttavia qui di seguito almeno i fondamentali interventi di alcuni critici: Elisabetta Soletti, Primavera di belleza, in Eadem, Beppe Fenoglio, Milano, Mursia, 1987, pp. 67-91; Edoardo Saccone, Il partigiano imperfetto, in Idem, Fenoglio: i testi, l'opera, Torino, Einaudi, 1988, pp. 148-200; Roberto Bigazzi, Personaggi e nar- ratori, Roma, Salerno Editrice, 1983; Franco Petroni, Fenoglio e la storia, «Moderna», viii, 1-2, 2006, pp. 229-249.

«ITALIANISTICA» • XLIII • 2 • 2014

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88 Gabńele Allegro

Gli interessi di lettori, specialistici e non, furono infatti clamorosamente attirati dai veri capolavori, postumi e inediti, di Fenoglio: R partigiano Johnny e Una questione pňva- ta. Nonostante la condizione di 'precarietà' testuale, sia il Partigiano sia Una questione pri- vata sono considerati a tutťoggi, e a ragione, come i vertici della scrittura fenogliana e tra i capisaldi della letteratura italiana del Novecento. Il fenomeno in sé non ha nulla di straordinario: può spesso verificarsi il caso che, all'interno del corpus di un singolo au- tore, vi siano uno o più capolavori che riducano le altre opere a satelliti minori gravi- tanti, a torto o a ragione, intorno a sistemi testuali di maggiore rilevanza (o fortuna). Eppure, la semplice constatazione che Pdb derivi dal bacino testuale del Partigiano non rappresenta di per sé una motivazione sufficiente a liquidarla. Il tema dell'origine, insomma, è sì un dato di fatto, ma non certo un argomento risolutivo. Marc Bloch avvertiva in proposito: «A qualsivoglia attività umana il suo studio si dedichi, lo stesso errore aspetta sempre al varco l'interprete: quello di confondere una filiazione con una spiegazione».1 L'idea di dedicarsi alla lettura di questo testo nasce pertanto dalla constatazione di

una necessità: da un lato di illuminare una fase dell'attività letteraria di Fenoglio che è stata tenuta in ombra per molto tempo e, dall'altro, rivedere da una prospettiva origi- nale il difficile rapporto di Fenoglio con il genere romanzo prediligendo, almeno per una volta, un testo libero dalla 'patologia' dell'incompiutezza che invece caratterizza le opere maggiori.

2. Un romanzo in tre tempi

Il romanzo si compone di 17 capitoli e presenta un protagonista unico al quale è stret- tamente collegato il punto di vista; la voce del narratore è rigorosamente eterodiegeti- ca. Sottolinea correttamente Eduardo Saccone che nel romanzo «immagini, aggettiva- zione, forse persino qualche modo sintattico sono riferibili pressoché costantemente a Johnny», e anzi si potrebbe persino affermare che la narrazione, in Pdb , viene condotta in «una sorta di prolungato discorso indiretto libero».2

Dal punto di vista strutturale, Pdb si può considerare un romanzo chiaramente tripartito. La prima parte del romanzo (capp. 1-6) è dedicata al tirocinio da ufficiale del protagonista. Ambientati nel centro di istruzione di Moana (toponimo inventato, come tutti quelli relativi alla provenienza langhigiana del protagonista, peraltro chiaramente allusivi a località reali), i primi capitoli coprono indicativamente il periodo che va dai primi mesi del 1943 fino allo sbarco degli Alleati in Sicilia (9-10 luglio del '43). In questa parte il ritmo della narrazione procede sostanzialmente monocorde: la struttura del romanzo appare basata su una successione di nuclei testuali (racconti brevi) dotati di una precisa autonomia tematica.

Il corpo centrale di Pdb è invece costituito dai 'capitoli romani' (7-13). Si tratta, senza dubbio, della parte narrativamente più singolare del romanzo: non è infatti presente in alcun' altra opera di Fenoglio un tratto romanzesco altrettanto esteso ambientato lontano dalle zone di Alba (fatta eccezione, ma è quasi superfluo rilevarlo, per i testi fantastici). In questa seconda parte si concentra la cronaca straordinaria dei giorni che condussero dal bombardamento di Roma, avvenuto il 19 luglio, all'annuncio dell'armi- stizio l'8 settembre 1943.

1 Marc Bloch, Apologia della storia (0 Mestiere di storico), trad, it., Torino, Einaudi, 2012, p. 28. 2 Saccone, op. cit., p. 158.

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Lettura di Primavera di bellezza di Beppe Fenoglio 89

L'ultima parte del romanzo (capp. 14-17) è incentrata sulla breve esperienza militare 'attiva' di Johnny. I tre capitoli finali dipendono essenzialmente da prelievi dalle due stesure del Partigiano , pji e pj2 : l'ultima parte di Pdb non è nienť altro che un sapiente montaggio di frasi e sequenze narrative reperite all'interno del grande romanzo incompiuto.1 L'esperienza di Johnny con i ribelli (non ancora partigiani organizzati in bande) ha comunque brevissima durata, poiché una sfortunata imboscata a una co- lonna di mezzi nazi-fascisti gli risulta fatale. Nella repentina conclusione si percepisce, a distanza, l'eco delle ultime parole del Partigiano:2 in entrambi i testi, il protagonista muore improvvisamente durante uno scontro a fuoco, imponendo una fine brusca, al racconto.

La scelta finale del sacrificio di Johnny rappresenta l'unica possibilità per chiudere non totalmente in passivo il suo personale bilancio. La morte è un sigillo simbolico della sua intransigenza morale, della costanza con cui ha mantenuto fede ai propri ideali e al proprio codice d'onore.3 L'andamento 'chiuso' della narrazione si incastra perfetta- mente con un'articolazione tematica ben identificabile in tre tempi e altrettanti luoghi: tre momenti temporali differenti che evidenziano altrettanti soluzioni di continuità nel fluire storico: dall'educazione fascista alla frantumazione del regime, per arrivare al momento della ribellione fatale.

3. Primavera di bellezza tra espressionismo e tracce del «grande stile»

3. 1. Densità figurale di Pdb

In questo romanzo la prosa di Fenoglio definisce uno scarto sistematico tra denotazione e connotazione: alla descrizione pianamente referenziale Fenoglio predilige, quasi sistematicamente, la manipolazione lirica delle cose, attraverso uno stile che pone in netto risalto la dizione suìla finzione, 4 e in tale accezione, dunque, si potrebbe parlare di un peculiare tipo di espressionismo fenogliano. Si prenda p. es. la descrizione del temporale che chiude il capitolo 3 (qui e di seguito, tutti i corsivi nelle citazioni sono di chi scrive):

Il sole splendeva ancora, ma già con raggi sulfurei , come infetti [...]. Un murmure della terra e degli uomini salì al cielo in incredulità e apprensione, centinaia di corpi fremettero sull'erba. [...]. Era il più violento e proditorio temporale nella memoria dei ragazzi, [...]. Vi fu un generale scalpitio, il

1 Vedi in proposito, per un esame più approfondito, Mariarosa Bricchi, Due Partigiani due Primavere. Un per- corso fenogliano, Ravenna, Longo, 1988, spec. pp. 44-49. È sufficiente qui accennare brevemente all'estrema libertà che Fenoglio si è concesso per 'strutturare' il finale di Pdb : per il capitolo 15 l'Autore ha ritagliato porzioni di testo da 4 capitoli differenti di pji, 2 per il capitolo 16 e ben 11 per il capitolo finale.

2 Si confronti pjv. «Johnny si alzò col fucile di Tarzan ed il semiautomatico . . . / Due mesi dopo la guerra era fi- nita" (ed. Isella, p. 863). Con il finale edito di Pdb : "Johnny percepì un clic infinitesimale. Girò gli occhi dal tedesco al vallone. Vide spiovere la bomba a mano del sergente Modica e le sorrise» (17, 421).

3 La valenza della morte dell'eroe è stata analizzata in un saggio di Alberto Casadei dedicato all'opera parti- giana dell'Autore albese: «Quando la fine giungerà, non dovrà nemmeno essere descritta [...]. Bastano ormai dei puntini di sospensione per indicare tutto ciò che il lettore deve sapere. Ma il commento, apparentemente neutro..., più di ogni altro possibile certifica l'inutilità di quella stessa morte. Non che le motivazioni della lotta non fossero giuste; ma nessuna giusta causa, a posteriori, sembra più sufficiente per accettare il destino dell'eroe» (in Alberto Casadei, Romanci di Finisterre. Narrazione della guerra e problemi del realismo , Roma, Carocci, 2000, p. 64; ma si veda anche Idem, Stile e tradizione nel romando italiano contemporaneo, Bologna, il Mulino, 2007, pp. 169- 186, anche per un'analisi del finale di Pdb).

4 Si utilizza in questo caso la distinzione introdotta da Gérard Genette, Finzione e dizione, trad, it., Parma, Nuove Pratiche, 1994. In linea generale, con il termine finzione Genette tratta la questione della letterarietà di un testo; con il termine dizione, invece, l'aspetto più propriamente linguistico (e dunque, lo stile).

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90 Gabńele Allegro

cielo si era fatto viola, il fiume di zinco, anche il disco del sole si impeciava, e in terra il maggiore Borgna, più nero di tutto quel nerore , gesticolava e bestemmiava all'impazzata. Centinaia di uomini erano in rotta, verso le fattorie, lontano dalla nuda, sgomentante campagna.

( Pdb , 3, 307)

La scena procede su due binari paralleli: da una parte, il vertiginoso, terrificante muta- re della natura; dall'altra la paura crescente degli uomini, descritti come un'entità mul- tipla, spersonalizzata («centinaia di corpi» /«centinaia di uomini»), che si muove in ma- niera scomposta. Ovviamente, l'aspetto che balza di più agli occhi è la rappresentazione fortemente enfatizzata della natura (notevoli p. es. il cielo «viola», il fiume «di zinco»). La descrizione non è tuttavia finalizzata a uno sterile esercizio di stile ma risponde a una precisa visione: la natura si abbatte sull'uomo come un morbo, come un flagello mal- sano (il sole «infetto»), da cui non c'è speranza di trovare una via di fuga. Di estremo in- teresse è inoltre lo slittamento figurale dall'elemento naturale all'elemento artificiale («raggi» - ► «sulfurei»; «fiume» - > «zinco»; «sole» - ► «si impeciava»); significativo è pure il ricorso a moduli iterativi («nero . . . nerore») e non si deve tralasciare infine la selezio- ne preziosa e colta di aggettivi e sostantivi («murmure», «proditorio»), che innalzano il tono della descrizione.

La predilezione di Fenoglio per una scrittura densamente 'costruita' su vari livelli - dalla densità figurale alla ricercatezza del lessico - si può apprezzare in un altro passag- gio del romanzo, che riporta la visione notturna, inquietante e suggestiva insieme, di un'industria bellica:

In piena notte sfilarono davanti a una fabbrica colossale, uno dei massimi opifici per la guerra, i suoi letali prodotti spediti al Don e in Marmarica. Riflessi velenosi iridavano il ventre sidereo delle tor- ri di catalisi, mentre veloci pattuglie di vapori picrici decollavano ad affrontare disperatamente la statica armata della notte.

(Pdb, 6, 326)

L'attenzione alla resa verbale di impressioni fondate su colori e sfumature provoca un movimento progressivo di toni: dalle luci artificiali ai vapori malsani («picrici»), dai riflessi delle «torri di catalisi» all'oscurità della notte. Il passaggio del convoglio degli allievi ufficiali in mezzo all'oscurità è aperto e chiuso dalla struttura ad anello della descrizione: dall'apparizione dell'opificio nell'oscurità della notte alla sua repentina scomparsa nel buio.

Oltre alle modalità liriche di rappresentazione del reale, Fenoglio sperimenta il suo stile iperbolico in contesti meno drammatici e maggiormente indirizzati verso la parodia e if comico. Si prenda per esempio uno degli episodi più crudi del romanzo, lo scoppio della dissenteria fra gli allievi ufficiali:

I fanti ai servizi si trasformarono tutti in zappatori e scavarono un apposito trincerone : a squadre gli allievi si accoccolavano sul ciglio, come tanti rondoni su un filo del telegrafo, e sghignazzando il tenen- te Cerisola della terza compagnia scattava fotografie d'infilata; a loro scivolava giù l'anima e il bari- centro. Fu necessario portare in alto, per maggiore isolamento, l'intero battaglione: ogni mattina salivano, come a un lazzaretto, in cima a uno sterile poggio che dominava l'ammorbata caserma. [...]. Di lassù videro due autocarri del battaglione chimico, minuscoli come ritagliati da un sillabario illustrato, entrare beccheggiando nel cortilaccio della caserma e scaricarvi cloro, quintali di cloro.

(Pdb, 5, 319-32.0)

La scena è davvero un crescendo di immagini che hanno dell'orrido, del ributtante, da cui non è tuttavia estranea una sottile ma evidente ironia di fondo. Ma per costruire con

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Lettura di Primavera di bellezza di Beppe Fenoglio 91

tale efficacia l'effetto, grottesco e parodico insieme, Fenoglio non esita a utilizzare im- magini e figure che rientrano invece nella sfera dotta: l'associazione «allievi»-«rondoni», la visione dei due autocarri «come ritagliati da un sillabario illustrato», lo zeugma co- mico «l'anima e il baricentro»; per non parlare dei termini alterati («trincerone», «corti- laccio»), che contribuiscono all'effetto finale di grottesco.

A ben altro clima conduce invece un altro passo che si distingue per il concentrarsi delle immagini e per la raffinata partitura stilistica. Neil' ottavo capitolo infatti viene de- scritto il primo bombardamento delle forze alleate su Roma; un evento sconvolgente, che assume un valore tutto simbolico:

Rintronò un altro schianto infinito, più distante, ma pur sempre nel cuore vasto di Roma. Il rombo era Tunica realtà, ora si librava verso Montesacro, mastodontica piastra di bronco stabilmente rotante [...]. La piastra rientrava, oscillò un attimo, poi slittò oltre parve crollasse intera sull'urbe, di piatto.

( Pdb , 8, 337 sg.)

Si istituisce qui un nesso tra il «rombo» e la «piastra di bronzo» che attraversa Tintero passo. Prevale infine il termine deformante (la «piastra»), divenuta unico soggetto del discorso: si passa dunque da metafora a sinestesia come sviluppo naturale della frase, e così anche la descrizione si trasforma in un regesto di sensazioni foniche, di immagini- fiche visioni che occupano il cielo romano.

Sempre a proposito della densità 'figurale' che caratterizza Pdb , tra i fenomeni degni di maggiore attenzione vi è senza dubbio la metafora che attinge all'immaginario ma- rino. Nel ciclo partigiano tale figura rappresenta uno dei «filoni metaforici essenziali»1 ed è stato ricondotto in primis alla passione letteraria dell'Autore per la letteratura marinaresca. In particolare, Ettore Canepa ha attribuito un significato profondo all'as- sociazione «colline-oceano»: la trasposizione del mondo collinare in una distesa di ac- que minacciose indicherebbe infatti il «distacco e allontanamento che devono tradursi nell'esperienza del viaggio, dell'avventura, della ricerca, che lì, entro quello sconfinato orizzonte, da qualche parte deve darsi».2 In Pdb è ancor più interessante osservare la proliferazione della metafora 'marina' al di fuori dell'associazione immediata, e più ce- lebre, con le Langhe. Si vedano gli esempi seguenti, una derivata dall'altra:

Fra un minuto l'ultimo spigolo [del sole al tramonto] gli avrebbe liberato tutto l'Agro, in quell'im- minenza Johnny pensò che l'avrebbe visto come una immota manna incolore in cui fosse avvenuto un numeroso annegamento [...] sembrò a Johnny di aver individuata la labile pista sulla quale corre- va la camionetta della batteria, la traccia nell'erba appena segnata eppure urlante, come una lineet- ta di schiuma in tutto un mare blu.

(Pdb, 8, 340)

La ricchezza di queste occorrenze è una novità significativa rispetto al dualismo meta- forico che si riscontra invece nel Partigiano. Elisabetta Soletti ha già da tempo rilevato la visione dicotomica a cui è sottoposto il paesaggio, sospeso di volta in volta tra forze de- moniache e forze benigne: «nelle serie metaforiche del paesaggio si riflette un caratteri- stico dualismo conflittuale; per ognuna delle immagini si possono stabilire infatti delle bipolarità di significato [. . .]: l'acqua, la terra, il fiume, la neve, gli autori della distruzio- ne di un ciclo storico, offrono di sé anche un'immagine opposta, decantati ed astratti in

1 Ettore Canepa, Sviluppo della metafora nel «Partigiano Johnny», in Beppe Fenoglio oggi, a cura di Giovanna Ioli, Milano, Mursia, 1991, pp. 185-200. 2 Canepa, art. cit., p. 186.

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92 Gabriele Allegro

una assoluta purezza».1 La novità, dunque, consiste nel fatto che in Pdb si superi il dualismo metaforico che caratterizza il testo maggiore. È possibile verificare lo scosta- mento proprio nella serie di immagini 'marine': tale dicotomia scompare, in virtù di una potenzialità puramente espressiva. Se ne deduce che, con il venir meno della tensione assolutizzante peculiare del Partigiano , Fenoglio avrebbe 'liberato' delle energie stilisti- che da riusare in contesti differenti, dove viene meno la polarizzazione delle serie meta- foriche; qui la natura non appare come il teatro della distruzione di un ciclo storico, ma come il fondale davanti al quale agiscono goffamente e tragicamente gli individui.

3. 2. Tracce del «grande stile»

Accanto alla parola corporale, che indugia sui dettagli scabrosi e mediocri del reale, la scrittura fenogliana espone un esigenza diversa e divaricata, quella dell'astrazione: le memorabili pagine del Partigiano dedicate all'inverno solitario di Johnny sono state considerate l'esemplificazione più alta di tale modalità espressiva, definibile come pro- cedimento di «deformazione astrattiva».2 La capacità di deformare i termini concreti della realtà ricorrendo a locuzioni o parole astratte non è soltanto una risorsa stilistica, ma pertiene in senso generale alla visione filosofica del mondo che l'autore trasmette con la sua opera. Per citare un esempio concreto, la creazione di neologismi è tra le modalità più dif-

fuse d'impiego di tale procedimento. P. es., la formazione di un sostantivo (astratto) a partire da un aggettivo, che diviene di conseguenza una vera e propria categoria logica: «lugubrità» (3, 305); «platitudine» (12, 366); «carboniosità» (14, 384), ecc. Ancora, la predi- lezione di Fenoglio per la ricerca dell'espressione sintetica genera a volte preziose endiadi, sempre con una componente astrattiva: «cubici fantasmi» (11, 359); «erratica astensione» (11, 360); «bronzea risonanza» (13, 375). Non è in effetti raro imbattersi in so- pravvivenze del «grande stile» tipico del Partigiano , così com'è stato codificato da Gian Luigi Beccaria.3 E doveroso annotare, comunque, che tale registro in Pdb assume una valenza del

tutto diversa, e di assai meno ampio respiro, rispetto alla straordinaria 'vocazione epica' del romanzo incompiuto. Non si può non convenire infatti che la sostanza profonda della scrittura di Pdb risieda in un atteggiamento di segno opposto: ovvero, laddove nel Partigiano il presente è sublimato da una scrittura epica, qui al contrario lo stile elevato è funzionale alla rappresentazione di una realtà basso-comica. Si vedano per esempio i seguenti passi:

Il sole era alto e forte nel cielo di un turchino granuloso, la cresta delle colline un filo di rasoio, bian- chissima la rupe cretosa strapiombante sull'invisibile fiume;

(Pdb, 4, 312)

Pareva di volare sull'abisso e per l'abisso, il rullio del treno si traduceva in mortali frustate al nero

nulla, le sue mille giunzioni cigolavano quasi al punto di strappo. ^

Per riepilogare, l'analisi ha tentato di evidenziare i rapporti di continuità e, soprattutto, di discontinuità esistenti tra il romanzo edito e l'universo testuale del Partigiano . In pro-

1 Elisabetta Soletti, Metafore e simboli nel " Partigiano Johnny" di Beppe Fenoglio, «Sigma», 31, settembre 1976, P- 76.

2 II fenomeno è analizzato nell'articolo di Michele Prandi, Procedimenti di deformazione astrattiva nei «Parti- giani», in Beppe Fenoglio oggi, cit., pp. 174-184.

3 Cfr. Gian Luigi Beccaria, Il tempo grande: Beppe Fenoglio, in Idem, Le forme della lontananza, Milano, Garzanti, 1989, pp. 101-159.

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Lettura di Primavera di bellezza di Beppe Fenoglio 93

posito si è rilevato innanzitutto come Fenoglio si sia ritrovato davanti l'impegnativo pro- blema di elaborare uno stile omogeneo a partire da un cosmo testuale che evidenziava una complessità elevatissima: una lingua considerata 'impossibile', frutto di contami- nazioni linguistiche di diversi codici e livelli espressivi (dall'inglese al dialetto) e forte- mente caratterizzata da neologismi e molteplici invenzioni sintattiche. In ogni caso, è evidente che il processo di normalizzazione condotto da Fenoglio sulla materia verba- le del romanzo sia andato in direzione di una lingua più accessibile e uniforme; prova ne è, del resto, la scomparsa del plurilinguismo e dello sperimentalismo oltranzista. Oc- corre inoltre puntualizzare che il tentativo di 'addomesticare' il crogiuolo stilistico dei palinsesti partigiani è da ricondurre principalmente alle forti riserve che Livio Garzan- ti e Pietro Citati avevano avanzato in sede di revisione editoriale del testo.1 Non si può dire, tuttavia, che Pdb non offra al lettore e al critico la consistenza di uno stile definito. Senza ritornare sui diversi elementi esaminati sopra, si può affermare che l'assidua ri- cerca di un 'compromesso' linguistico da parte di Fenoglio non sia rimasta senza rispo- sta. In questo romanzo non vi è l'intento di rappresentare una dimensione superiore - l'arcangelico mondo dei partigiani - bensì di restituire, con rigore esemplare, il senso di un passaggio storico cruciale. La densità figurale di questa prosa è tutta rivolta a tentare di dare una forma al magma incomprensibile e caotico della realtà.

4. Un romanzo sulla caduta dell'Italia

4. 1. A partire da una reticenza

Per osservare sotto una più corretta luce il romanzo, occorre innanzi tutto sgombrare il campo da un possibile equivoco: considerare Pdb un romanzo partigiano. L'afferma- zione potrebbe risultare piuttosto azzardata, eppure non si farebbe molta fatica a con- statare che di guerra partigiana, in Pdb , non vi è traccia. Non solo, ma se si legge con at- tenzione si può notare come l'autore abbia sistematicamente omesso la parola stessa. Non compare mai in tutto il romanzo e, soprattutto, non compare là dove sarebbe sta- ta ragionevolmente attesa, ovvero nel corso degli ultimi tre capitoli dedicati al ritorno di Johnny sulle Langhe (storicamente, in effetti la vera guerra delle formazioni parti- giane si sviluppò soprattutto nel 1944; ma già nel settembre-ottobre del '43 nella zona di Alba e del cuneese erano nati alcuni gruppi di resistenza agli ordini di Enrico Marti- ni Mauri). A prescindere dalla banalissima constatazione vocabolaristica, il tema assu- me un valore simbolico molto evidente.

Per andare a fondo del problema, occorre leggere con attenzione alcuni passi. Mentre sta facendo ritorno a casa a piedi sulle colline, Johnny s'imbatte in un'unità di uomini armati: è l'incontro decisivo per il suo destino di militare sbandato, in fuga: «La guerra, no? La guerra ai tedeschi. Noi siamo ńbelli , noi abbiamo sputato la pillola dell'otto settembre» (Pdb, 15, 356).

Appare subito evidente a chiunque che la parola «ribelle» non contenga alcuna connotazione, né storica né ideologica, ma comporti l'attribuzione assai generica di una qualità: 'coloro che si ribellano contro qualcos'altro'. E la condizione a cui bisogna ribellarsi è «la pillola dell'otto settembre»: una vergogna a cui il gruppo di insorti non

1 II sofferto epistolario tra Fenoglio e Garzanti è stato ricostruito in Beppe Fenoglio, Lettere , ed. Bufano: si vedano in part, le pp. 90-109. La più convincente cronistoria della genesi di Pdb si ritrova nell'Itinerario fenogliano di Dante Isella nell'ed. dei Romanci e racconti da lui curata, pp. 1493 sgg.

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94 Gabriele Allegro

intende rassegnarsi. Non solo, si potrebbe andare oltre e affermare che i «ribelli» di Pdb si sentano molto più 'soldati' che 'partigiani', confermando così la tesi che la loro scel- ta si configuri come un atto di continuità, piuttosto che di rottura, con Tética della guer- ra: «[Tito] Finitela! Non siamo saccheggiatori e lo sapete. Siamo ribelli, soldati italiani » (Pdb, 16, 410). L'affermazione perentoria del «ribelle» Tito conferma il fatto che la para- bola esistenziale di Johnny si gioca all'interno di un mondo dove, nonostante tutto, «[...] the army is an honourable thing» (Pdb, 1, 296), secondo le stesse parole del protagoni- sta all'inizio del romanzo.

In definitiva, Johnny e i suoi compagni non entreranno mai a far parte delle primis- sime formazioni partigiane così come sono narrate negli altri racconti e romanzi di Fenoglio. Si tratta infatti di una rappresentazione della lotta armata che ancora non contempla una qualunque scelta alternativa all'opzione dell'esercito organizzato. Per comprendere meglio l'assunto, si osservi una preziosissima informazione che Fenoglio mette in bocca a uno dei ribelli incontrati da Johnny: «Johnny si avvicinò di un passo. - Voi chi siete? - Siamo della quarta armata. Veniamo dalla Francia» (Pdb, 15, 396).

In effetti la «quarta armata» citata è realmente esista. Fonti storiche riportano che si trattava di una delle armate meglio equipaggiate dell'esercito italiano: «Nel Cuneese, al momento dell'armistizio, si ebbe lo sfascio della 4a armata [. . .] 250.000 uomini in tutto. Era stata destinata a occupare la Provenza e il Delfinato [. . .]».1 Proprio come afferma il personaggio fenogliano, la maggior parte dell'armata si trovava in territorio francese nel momento in cui venne firmato l'armistizio. Dopo l'armistizio molti soldati fecero ritorno a casa e soltanto alcuni piccoli gruppi non si dispersero ma, fatto singolare, si rifiutarono di entrare nelle primissime formazioni partigiane:2 che è, esattamente, la medesima rivendicazione che portano avanti i ribelli nei quali si imbatte Johnny e di cui egli decide di abbracciare, piuttosto istintivamente, la causa.

Si deve quindi sottolineare la differenza marcata da Fenoglio in Pdb tra la scelta di Johnny di diventare un puro e semplice ribelle e le altre rappresentazioni di partigiani nelle sue opere precedenti e successive: chiaramente, il primo motivo è che Fenoglio fa morire Johnny verso la fine del settembre 1943, in un frangente storico ancora dram- maticamente confuso per l'Italia uscita dall'armistizio, prima dell'istituzione di un coordinamento strategico, militare e politico delle forze antifasciste. La maturazione ideologica del protagonista di Fenoglio è pertanto interrotta, in quanto egli rimane per sempre nel mondo precedente alla Resistenza. I tempi della lotta partigiana vera e propria devono ancora arrivare a maturazione: e allora il nuovo protagonista sarà Milton e non più Johnny.

4. 2. La solitudine di Johnny

Il personaggio-uomo di Pdb è una figura piuttosto sfuggente. Pur essendo infatti l'obiet- tivo focale della visione romanzesca, Johnny resta un personaggio per lo più estraneo, sommerso agli occhi del lettore. Fenoglio non contempla, se non raramente, l'interio- rità del suo protagonista, preferendo invece concentrarsi quasi esclusivamente su ciò che accade a portata del suo sguardo. Il paradosso evidente consiste precisamente nel-

1 Mario Dal Pra, La guerra partigiana in Italia. Settembre 1943 -Maggio 1944 , a cura di Dario Borso, Firenze, Giunti, 2009, p. 78.

2 «[...] c'erano gruppi di sbandati in perfetta efficienza militare, armati ed equipaggiati di tutto punto, i quali però non volevano assolutamente saperne di diventare partigiani»: Dante Livio Bianco, Venti mesi di guerra partigiana nel Cuneese, Cuneo, Panfilo, 1946, pp. 30-31, [citato in Dal Pra, op. cit., p. 79].

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Lettura di Primavera di bellezza di Beppe Fenoglio 95

la discrasia tra Tinsondabilità interiore del personaggio e la sua funzione di 'filtro' co- stante della narrazione. E già nelle prime righe di Pdb Fenoglio liquida in pochissimi, densi tratti il suo ritratto:

Johnny era alto e asciutto, anzi magro, negli occhi il suo punto di forza e di bellezza. Al momento della chiamata alle armi si trovava a metà degli studi per diventare professore di lingua e letteratu- ra inglese. A ribattezzarlo Johnny era stata l'insegnante d'inglese, in terza ginnasio; il nome era su- bito entrato nell'uso dei compagni di scuola, poi dei suoi di casa e infine di tutti nella sua città.

(Pdb, 1, 291)

Vengono da subito enunciati i caratteri peculiari, la magrezza e lo sguardo, per poi passare alla sua vocazione per eccellenza, la letteratura anglo-sassone. Particolare non secondario: a causa della propria anglofilia il personaggio viene privato della sua iden- tità distintiva, il nome. I lettori infatti conosceranno soltanto il nomignolo affibbiatogli nell'adolescenza: «Johnny» è tale e resterà per sempre, al contrario di tutti gli altri personaggi che compariranno nel corso del romanzo, che saranno al contrario forniti di nome e cognome. Solo Johnny è Túnico a esserne privato (o meglio, è Túnico a go- dere del privilegio di tale sottrazione).

Nel descrivere la natura sfuggente del personaggio emerge anche la dinamica quasi 'patologica' di isolamento che Johnny attua in rapporto all' 'altro', alla dimensione collettiva. La ricerca della solitudine arriva infatti a concretizzarsi in una radicale

volontà di straniamento dalla realtà. In un celebre passo, Johnny si lascia letteralmente alle spalle battaglione, allievi e istruttori, per cercare rifugio nella visione di un fiume. Come rapito in un vero e proprio stato di trance , vive un momento di rimozione dal presente in cui si trova a vivere:

[...]. Dietro, gli spari echeggiavano sempre più fiochi, voci umane non gli arrivarono più. Scaval- cato un arginello, gli appari l'acqua; stagnava, profonda e muta, quasi solida nella sua immobilità e nel modo con cui combaciava con l'altra riva, un arenile ammiccante sotto il sole. Da una mac- chia al limite della sabbia un misterioso uccello mandò il suo verso spaventato e cattivo, ultimo. Nel silenzio che seguì, Johnny si concentrò tutto nell'acqua: era sorella dell'acqua del fiume che lo aveva allevato, quella dei suoi solitari bagni mattutini, dove e quando la millimetrica immersione gli procurava una pungente lunga voluttà quale nessuna donna ancora aveva saputo regalargli.

Stremato da quell'eccesso di libertà e di oblio, dovette appoggiarsi al tronco di un pioppo; sentì la scorza tenera e tiepida, non udì la tromba lontana suonare il cessate il fuoco. Questa del fiume era la realtà, il sogno morboso era l'esercito italiano, la guerra che esso stava disastrosamente per- dendo [...].

(Pdb, 4, 312 sg.)

Si frappone fra il personaggio e la sua consueta, alienata vita di militare una distanza tanto momentanea e fugace quanto preziosa. Dalla cessazione di meccanici e concreti rumori (gli «spari», che si fanno sempre più flebili), si passa d'un tratto all'esclusione dell'umanità intera (le «voci umane» non più percepite). La tensione del personaggio verso un isolamento immaginativo e astratto, in cui egli possa conseguire una libertà assoluta è così pressante da diventare un elemento profondo della struttura romanze- sca. Johnny si ritrova quindi bloccato da un doppio legame, insolubile, non riuscendo a conciliare i travolgenti giorni della guerra (che comportano partecipazione e coinvol- gimento nella collettività) con il bisogno di una libertà senza connotazioni precise, svin- colata dalla stringente condizione umana.

La separatezza costitutiva di Johnny, la sua irriducibilità a individuo semplice im- merso nel flusso storico è testimoniata anche da altri passaggi simili:

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96 Gabriele Allegro

Le notti d'agosto, nell'insonnia cronicizzata, Johnny stava sempre più a lungo alla sua finestra, op- ponendosi con tutte le forze all'angoscia di cui era carica l'aria, coperchiata la città falsa-dor miente.

( Pdb , u, 359)

Per concludere, come si diceva il protagonista di Fenoglio presenta un nucleo ideologi- co e morale già definito, che non viene giustificato esplicitamente al lettore ma rimane una funzione nascosta, intima, del personaggio protagonista. Ecco spiegata l'imper- meabilità di Johnny alla stolida, umiliante educazione militare; ecco allora spiegata la sua funzione di testimone oculare, quasi ai limiti dell'invisibilità, ecco infine per quali ragioni non sussista alcun rito di passaggio tra l'identità di Johnny 'soldato' e quella di 'partigiano'. Nessun cambiamento interiore, nessuna evoluzione apparente spiega e giustifica le azioni di Johnny. Il fascino di questo personaggio risiede nell'insondabilità dei suoi moventi interni, nel

pudore con cui il suo Autore occulta le variazioni minime del suo animo e ne mostri soltanto luminose schegge. Con la sua interiorità opaca e l'intelletto ferocemente critico, Johnny rappresenta simbolicamente il punto di vista unico di un'intera genera- zione e, al tempo stesso, svolge la difficilissima funzione di filtro prospettico attraverso il quale Fenoglio ritrae il senso di una temperie storica gravida di mutamenti incalzan- ti e terribili.

4.3. Descrizione del crollo

Dove voleva arrivare Beppe Fenoglio quando riprese in mano la grande parabola del suo alter ego letterario e ne estrasse il breve romanzo che si sta esaminando in queste pagine? Per comprendere quali fossero le sue reali intenzioni non occorre indagare troppo lontano, ma è sufficiente aprire la prima pagina del romanzo:

Insensibile al freddo mordace, Johnny fissava vacuamente lo scarico della latrina. Si riscosse all'ar- rivo di un compagno, ciabattante, malsano, terrone. Lo scansò a testa bassa e filò via rasente il mu- ro sgocciolante, orientandosi sull'alone funereo della lampada della sua camerata. Rivide il di- stretto, quel lercio maresciallo nel primo ufficio, che portava l'uniforme come una camicia da notte, i cassetti della scrivania pieni di omaggi e di pedaggi in viveri e tabacco. Quindi il colonnello co- mandante, nella sala visite: in perfetta divisa, calzava sotto i gambali fruste pianelle di marocchino.

(Pdb, 1, 291)

Non ci sono parabole introduttive, aperture panoramiche: il romanzo comincia con un'immagine scostante che suscita immediata repulsione. Raramente nella nostra sto- ria letteraria si è mostrata l'entrata in scena dell'eroe impegnato nella contemplazione di una buia latrina. E evidente fin da subito una retorica del negativo; un'estremizza- zione del reale che arriva a toccare il puro grottesco. Persino i compagni di avventura di Johnny sono ridotti a semplici comparse degradate (si noti il trittico «ciabattante», «malsano», «terrone»). Per non parlare degli ufficiali, rappresentati come presenze disgustose, denudate di ogni parvenza d'autorità: il «lercio maresciallo», che indossa la divisa «come una camicia da notte»; il colonnello che in servizio porta ai piedi «fruste pianelle di marocchino». Da una simile presentazione s'intuisce già che Johnny, nel corso del romanzo, dovrà confrontarsi con visioni allucinanti. La parte più cospicua di tale rappresentazione è la descrizione del crollo del regime

fascista. Fenoglio traccia infatti la diagnosi di un regime allo sbando e lo fa concentran- dosi principalmente su determinati aspetti che, scorrendo dinanzi al protagonista, cri-

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Lettura di Primavera di bellezza di Beppe Fenoglio 97

tico sdegnato e implacabile, compongono un ritratto spietato dell'Italia nel momento della sua crisi più acuta durante la seconda guerra mondiale.

La prima parte di Pdb , in particolare, è dedicata allo scopo di offrire una descrizione impietosa di quanto degradata e terminale fosse la condizione di salute del regime nelle sue propaggini terminali dell'anno 1943. Fenoglio smonta, pagina dopo pagina, la reto- rica vacua e trionfalistica tipica del fascismo. E dal momento che l'ambientazione del romanzo coinvolge direttamente l'esercito italiano dell'epoca, quest'ultimo finisce inevitabilmente per rappresentare la forma più visibile del potere del regime. L'atto di accusa nei confronti dell'inadeguatezza dell'esercito passa attraverso la rappresentazio- ne comico-grottesca delle figure degli ufficiali, come quella del tenente Jacoboni, me- diocre tiranno, depositario di un'autorità militare fine a se stessa, che riassume nella sua buffa inadeguatezza l'intera, insensata esperienza di Johnny presso il corso ufficiali:

Era bruno, taurino, sanguigno, rauco, superbamente inelegante: andava sempre a passo di carica, per le camerate, in piazza d'armi, al caffè o alla pensione.

(Pdb, 2, 297)

Tale è l'affezione di Jacoboni per le rigide regole dell'esercito da toccare vertici quasi da feticista, come quando ascolta il passo di marcia dei suoi allievi «assorto come un musicomane» (cfr. Pdb, 2, 299). Altrettanto rapidi, graffiami, venati di cupo umorismo sono i ritratti degli altri ufficiali che compongono una vera e propria rassegna sul pote- re nel corso dell'opera.

Una definizione perfetta dell'atmosfera e tono del romanzo sono le parole di Anna Banti, tra le prime e più acute interpreti contemporanee dell'Autore albese: a suo giudizio, il romanzo di Fenoglio «gronda di un gagliardo schifo per l'ambiente premili- tare e militare di quegli anni, per il fascismo, i tedeschi e simili calamità: uno schifo da toccare con le molle».1 «Schifo» è parola forte, eppure piuttosto esatta. La reazione che intende suscitare Fenoglio è esattamente una riprovazione totale, intellettuale e persi- no fisica, per la realtà che ricrea nell'ultimo componimento dedicato a Johnny.

Si osservino p. es. le modalità di rappresentazione dei luoghi entro cui si muove Johnny A partire dall'inizio, quando il protagonista si ritrova nell'«immensa ruinosa ca- serma ottocentesca» (Pdb, 1, 292), che non è altro se non il preludio alla vera e propria camerata in cui dovrà dormire per mesi:

Ci penetrò fra pozze e rivoli d'acqua di sgelo: niente di meglio di un capannone autarchico, mise- rabile nella parte già occupata, decisamente sinistro in quella ancora disabitata.

(Pdb, 1, 296)

«Autarchico», «miserabile», «sinistro» sono gli aggettivi che definiscono in maniera netta, implacabile l'ambiente in cui si sviluppa la prima parte del romanzo; connota- zioni ideologiche si accompagnano alle determinazioni materiali, paiono anzi salda- mente legate.

Cambiando orizzonti geografici e passando dalle colline alle strade della capitale, l'impressione di sfaldamento e di corruzione aumenta notevolmente. Nel teatro in cui avvengono gli eventi della grande storia, a Roma, la percezione della dissipazione inarrestabile del regime è evidente ed è resa con amara incisività dall'Autore. Attraver- sando Villa Borghese, p. es., Johnny si trova davanti ai prati che «pullulavano di cartac-

1 Banti, op. cit., p. 79.

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98 Gabńele Allegro

cia e profilattici» ( Pdb , 7, 331), mentre il mercato ortofrutticolo appare «deserto, simile a un letto di fiume disseminato di alghe putrefatte» (10, 357). Con l'aggravarsi della situazione politica e militare, all'indomani della notizia

dell'armistizio, la dissoluzione dei più elementari vincoli sociali appare sempre più evidente. La caserma appare a Johnny «ormai simile a un obitorio» (Pdb, 13, 378). Per Johnny - e si potrebbe desumere anche per il suo Autore - l'Italia descritta nel frangente storico del crollo del regime fascista sembra a tutti gli effetti un mondo giunto ormai allo stremo: privo di dignità, di capacità di reazione, alla mercé del nemico. Ma c'è un avvenimento, particolarmente drammatico, che sancisce un punto di non

ritorno e scuote il grigio scorrere del romanzo: si tratta del primo bombardamento al- leato su Roma del 19 luglio 1943: «È successo, - disse Johnny. - È successa l'ultima cosa necessaria di questa guerra: Roma bombardata» ( Pdb, 8, 338). La caduta della città costituisce per Johnny la presa di coscienza terribile della fine: la fine del suo mondo e dell'ordine politico e sociale che l'aveva retto fino a quel momento. Il primo bombar- damento viene interpretato dal protagonista come un evento «necessario» e, a partire da quel drammatico segno di discontinuità, gli eventi non potranno che continuare nel loro moto discendente. Per lunghe pagine Fenoglio percorre insieme a Johnny le strade della città colpita. È l'unica, vera panoramica che l'Autore dedica non tanto al perso- naggio quanto al suo universo circostante: gli abitanti e i quartieri di Roma, con le la- mentazioni popolari, i palazzi distrutti, il caos regnante per le strade.1 I personaggi, tutti quanti, sembrano essere finiti in una dimensione sospesa, in cui

l'inazione è diventata la condizione primaria della guerra. Ma l'osservazione del crollo produce in Johnny un'ulteriore, amaríssima presa di coscienza: la constatazione del- l'inadeguatezza profonda della generazione alla quale egli appartiene dinanzi alla resa vergognosa delle armi:

Non reagiva, fissava stranito le schiene di quegli uomini, i testimoni passivi del grande evento storico che era il primo bombardamento aereo della Città Eterna, e li trovava piccoli, inadeguati, quell'esperienza del tutto sprecata in loro.

(Pdb, 8,338)

La successiva fuga di Johnny da Roma diviene così una vera e propria anabasi attraver- so l'Italia occupata, con il disperato viaggio clandestino di Johnny funzionale a restitui- re altre immagini della triste resa italiana al nemico tedesco. In tale passaggio narrati- vo, l'obiettivo polemico di Fenoglio è la popolazione civile, impietosamente ritratta come un corpo inerme e privo di dignità. L'intento, chiaramente moralistico, consiste dunque nel mostrare la pavidità degli uomini e delle donne in parallelo alla reazione ugualmente meschina dei militari:

Il lezzo di quella moltitudine italiana, piegata, tentante di fare le più piccole e necessarie cose con un'aria di assoluta innocuità e sottomissione, quel lezzo ricopriva la carboniosità della grande stazione.

(Pdb, 14, 386)

Dopo esser ritornato sulle colline e aver conquistato così una momentanea salvezza, Johnny ha modo di riflettere sulla propria avventura e di tracciare un provvisorio bi- lancio. Egli ha la netta percezione che la sua avventura sia arrivata al termine: «Ecco,

1 Si veda, in part., il passo di Pdb , 8, 342: in un unico discorso indiretto libero si riportano le 'voci' di Roma alla vista del cimitero del Verano devastato dai bombardamenti, la reazione rabbiosa contro la milizia fascista, la visita solenne del papa Pio XII sceso tra la folla a benedire le vittime.

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pensò, esattamente concluso il mio viaggio con l'esercito italiano» ( Pdb , 14, 392). Non è una constatazione di poco conto. Da un certo punto di vista, la narrazione si conclude qui. Ciò che seguirà - i tre capitoli detti impropriamente 'partigiani' - non è nienť altro che una sbrigativa appendice finale che conduce il personaggio verso il suo drammati- co destino.

4. 4. Ai margini della stońa

Compiendo un piccolo salto indietro, si segnala che è stato tralasciato volutamente un tassello importante per l'interpretazione del romanzo. Per esaminarlo bisogna soffer- marsi di nuovo sui capitoli 'romani' di Pdb. La considerazione ulteriore che si vuole trarre riguarda la funzione dello spazio romanzesco e la sua specifica relazione con il personaggio di Johnny all'interno dell'opera.

A Roma Johnny sembra quasi 'perdersi', e così gli altri personaggi che lo circondano. La città stessa assume un ruolo centrale nella rappresentazione di questa deflagrazione lenta, estenuata delle cose, finendo per contagiare l'animo del protagonista e dei per- sonaggi minori. Esiste dunque un legame simbolico profondo che unisce il protagoni- sta e la città. Su questo punto occorre dire qualcosa in più. P. es., come si muove Johnny all'interno del paesaggio urbano? Dove si trova quando gli eventi precipitano?

Gli spostamenti di Johnny all'interno del contesto romano assumono una fisionomia ben precisa: sono quasi tutti periferici (a eccezione di un breve passaggio a piazza Venezia, nel cap. 7). L'Agro, la Nomentana, Pietralata, viale Jonio...1 Johnny si muove costantemente nelle zone liminari, nei quartieri esterni al centro. Insomma, gli eventi del romanzo non ricadono nel mezzo degli avvenimenti storici, ma restano confinati in un territorio estraneo, come sospeso: simbolicamente, potremmo dire, ai margini del- la storia.

Nemmeno quando potrebbe prendervi parte in prima persona Johnny riesce a cogliere da vicino lo svolgimento dei fatti che hanno portato al crollo del regime. Esem- plare, in tal senso, è la modalità con cui Johnny viene a conoscenza della firma dell'ar- mistizio:

Una decina di ombre ubriache vennero incontro ai fucili e alla lampada portatile. - Ma chi siete, conciati così? Vestivano mezzo borghese e mezzo militare, da mentecatti, con un effetto tra l'osceno e l'orrido. - Siamo soldati, soldati come voi E tornavano alle loro case dalle guarnigioni del Lazio. - Che cosa raccontate? Volete dire che avete disertato?

Uno di quelli scoppiò in una risata isterica, ma gli altri parlarono gravemente, con affetto, da fratelli maggiori.

- Voi che ci fate qui, ancora in divisa e armati? Ma non sapete? Ieri l'altro Badoglio ha firmato l'armistizio.

(Pdb, 12, 370)

L'assenza totale di una 'esperienza' diretta della storia rappresenta senza dubbio uno dei tratti più significativi di Pdb e pure tra i più sottovalutati dalla critica. La condizione 'pe- riferica' di Johnny infatti non riguarda solamente il piano dell'intreccio, ma chiama in gioco direttamente anche le prerogative e le dinamiche del genere romanzesco, non più

1 Ecco alcuni riferimenti a descrizioni di quartieri o luoghi della città, a mero titolo di esempio: Pietralata e Roma Ostiense (Pdb, 10, 353), la Nomentana (8, 352), l'Agro e viale Jonio (8, 340).

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íoo Gabriele. Allegro

rivolto a raccontare avventure, amori, conflitti, ma costretto a seguire le peregrinazio- ni inutili di un testimone di secondo grado.

5. Conclusioni: l'ultima versione di Johnny

Nel romanzo si contrappongono sotterraneamente due forze: quella che guida la dram- matica traiettoria dell'intellettuale Johnny, da soldato semplice a ribelle consapevole, e quella che porta a un accesa descrizione di un mondo in rovina. Uno scontro sembra attuarsi fra la rilevanza del personaggio e il ruolo incombente della grande Storia, de- gli eventi che sovrastano e travolgono il destino individuale. Alla base dell'ambizioso progetto ci doveva essere, come scrive Petroni,1 «l'idea che solo attraverso la concilia- zione della dimensione pubblica con quella privata può realizzarsi l'unità della persona e può attuarsi la vera moralità».

Nel romanzo edito si assiste invece a una riduzione marcata della dimensione privata in rapporto alla rappresentazione degli eventi storici. Le possibilità per l'individuo di in- cidere sul reale appaiono, in Pdb, pressoché nulle. Allo stesso modo l'orizzonte ideologico di Johnny è assai ridotto e appare motivato esclusivamente da una serie di rea- zioni individuali, concatenate l'una all'altra. Si tratta di una diminutio voluta evidente- mente dall'Autore, quasi che volesse tenere in sospeso alcune questioni cruciali, riman- dandole alle opere future e già ideate, come sappiamo dalle lettere a Livio Garzanti.2

Allargando lo sguardo al complesso dell'opera romanzesca di Fenoglio, in Pdb si no- ta una marginalizzazione dell'esperienza resistenziale che non può non suscitare una ri- flessione. Per spiegarla si potrebbe avanzare un'ipotesi che riguarda ancora una volta i diversi destini editoriali a cui sono andate incontro le due opere di Fenoglio: da una par- te pj , dall'altra Pdb. La crisi di pj provocò un arresto momentaneo del progetto di gran- de narrazione sulla Resistenza, ma non l'abbandono definitivo della speranza di poter- la scrivere (dato che anzi era già stato ideato il primo progetto 'miltoniano'). Il rapido processo di estrazione di Pdb dalle ceneri del pj consegna dunque ai lettori un romanzo sì sulla Guerra, ma non sulla Resistenza. La brusca sterzata tematica è forse anche al- l'origine della difficile ricezione dell'opera presso il pubblico e la critica, che si sarebbe- ro aspettati la prosecuzione del tema partigiano introdotto dai racconti (. I ventitre giorni della città di Alba ) con un approdo maturo al genere romanzesco.

Pdb rappresenterebbe dunque una soluzione, senza dubbio in parte forzata dalla ra- gione editoriale, ma certo anche una 'formazione di compromesso' tra l'abbandono momentaneo del modello epico e il nuovo filone romanzesco; un simile mutamento 'in corsa' ha inevitabilmente comportato uno speculare spostamento nel contenuto della narrazione: il racconto della Resistenza - primario obiettivo dell'interesse dello scritto- re - regredisce per lasciare spazio al dramma collettivo dell' 8 settembre. Si avverte in- somma la necessità, da parte dell'Autore, di rappresentare in maniera convincente quel nodo storico, politico e sociale, a discapito della trama privata di Johnny. Solo nei dise- gni romanzeschi successivi Fenoglio si preoccuperà di salvare il destino personale del proprio alter ego letterario, cercando un'impossibile convivenza con l'implacabile faccia

1 Petroni, Fenoglio e la storia, cit., p. 230. 2 Si veda, in part., quella del 10 marzo 1959 ( Lettere , ed. Bufano, pp. 104 sg.): «[...] la morte di Johnny nel set-

tembre 1943 mi libera tutto il campo 'resistenziale'. Ho così potuto istituire il personaggio del partigiano Milton, che è un'altra faccia, più dura del sentimentale e dello snob Johnny. [...]. Ho il piacere di segnalarLe che sono già parecchio avanti nella redazione di questo nuovo libro. . .». Sappiamo però che Frammenti di romando, ovvero L'im- boscata, rimarrà a sua volta bloccato in una prima versione, prima di essere rimpiazzato da Una questione privata.

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Lettura di Primavera di bellezza di Beppe Fenoglio 101

della storia. Bisognerà dunque attendere che le componenti deflagranti del romanzo di Johnny si saldino in un nuovo modo di concepire la forma romanzo; ma non è questo il tempo. Intanto, Pnmavera di belleza ci racconta la stagione dell'ira e della vergogna.

( [email protected] )

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PRESENTE ASSOLUTO E CAMPO DELLA SCRITTURA NELPARTIGIANO JOHNNY DI BEPPE FENOGLIO

Il saggio legge l’opera fenogliana come narrazione della diYcile aVermazione della individualitàsoggettiva, stretta tra il richiamo naturale della terra dei padri (il «circolo atavico» delle Langhe) eil disastro della storia. Al livello del racconto il protagonista del Partigiano Johnny individua nelriferimento alla lingua e alla cultura inglesi una diversa opzione genealogica, altra da quelle ‘bio-logica’ della famiglia e ‘simbolica’ della storia d’Italia: tale strategia si dimostra però ineYcace.L’interferenza prodotta da alcuni istituti linguistici inglesi sull’italiano consente invece allo scrit-tore di scavare nella lingua madre una zona comune per il personaggio e il lettore. Fenoglio realiz-za così un campo dell’immanenza, di respiro ‘epico’, la cui sigla è il ‘presente assoluto’ della vicen-da resistenziale.

if this is time…(a Luca e Marcello)

«Individuo, natura, storia»: in una conferenza Worentina del 1958, prendendo l’ab-brivo da Tolstoj, Italo Calvino sosteneva che l’epica moderna consisterebbe nelrapporto tra questi tre elementi, una volta venuto meno l’orizzonte del divino edunque la dislocazione dei conXitti in una dimensione esclusivamente naturale.Dopo aver illustrato la presenza di tale dinamica triadica in opere salienti dell’Ot-to e del Novecento, il conferenziere terminava la sua riXessione inaugurando untema che sarebbe stato poi dominante nei successivi suoi interventi degli anniSessanta; egli cioè identiWcava nell’esperienza letteraria contemporanea il passag-gio da una rappresentazione del «Xusso soggettivo» (Kandinski o Joyce) a unarappresentazione del «Xusso d’oggettività» (come ad esempio in Quer pasticciacciobrutto de via Merulana, 1957, di Carlo Emilio Gadda), che avrebbe signiWcato «unaresa dell’individualità […] al magma indiVerenziato dell’essere», cui non avrebbenon potuto corrispondere «una rinuncia dell’uomo a condurre il corso della sto-ria»1.

L’epica moderna all’altezza della seconda metà del secolo XX sarebbe dunqueconsistita nella messa in forma della dissoluzione del soggetto in una dimensionenon geometrizzabile, sottratta alla chiusura entro coordinate certe e stabili (siapure mutevoli o fungibili): in un campo, dunque, nel quale storia e natura si sa-rebbero identiWcate sino a farsi «magma». Tale posizione, più roussoviana chevoltairiana (il che dovrebbe anche indurre a riconsiderare il senso e il valore dellafacies illuministica nell’opera dello scrittore ligure), sembra descrivere in manierafolgorante l’operazione narrativa che in quegli anni, e in maniera ancora del tut-to oscura, stava realizzando un altro scrittore, di origine piemontese, anzi langa-rola, con cui Calvino si era trovato, e ancora lo sarebbe stato a lungo, in strettacorrispondenza: Beppe Fenoglio.

1. Italo Calvino, Natura e storia nel romanzo (1959), in Id., Una pietra sopra. Discorsi di letteraturae società, Einaudi, Torino 1980, p. 38.

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Giancarlo Alfano10

Quando ci si occupa di Fenoglio, e del Partigiano Johnny in particolare, è inevi-tabile cadere in problemi di datazione e di altra varia Wlologia: se egli abbia lavo-rato, cioè, al suo romanzo oggi ritenuto maggiore nei primi anni Cinquanta, o seinvece vi si sia dedicato nella seconda metà di quel decennio; se il passaggio dallaprimitiva redazione inglese all’abbandono del progetto abbia signiWcato il pro-gressivo rastremarsi dell’autobiograWsmo in una più rasserenata ma non per que-sto meno travolgente costruzione letteraria, o se invece sia stato come il risultatodella messa a fuoco dell’isolamento del protagonista di fronte alla vicenda resi-stenziale; se inWne l’autore abbia inteso dapprima impegnarsi in una cronacadell’esperienza partigiana per poi convincersi della necessità di una più universa-le rappresentazione storica e umana, o se invece gli sia stata sempre estranea ogniipotesi di trascrizione diretta del vissuto, ogni opzione di testimonianza veridica,vòlta a fornire una relazione sugli eventi di una stagione della vita collettiva ita-liana. Il dibattito critico è venuto articolandosi tra questi due poli per venti anni,a mano a mano che emergevano nuovi dati Wlologici, e si alternavano e contrap-ponevano nuove soluzioni testuali, nuove prospettive interpretative2. Oggi ci si

2. La questione Wlologica si è articolata in numerosi studi e inWne depositata in un’edizione cri-tica (Beppe Fenoglio, Opere, ed. critica diretta da Maria Corti, Einaudi, Torino 1978) e in un’edi-zione che, pur rispettando le procedure di accertamento scientiWco, si è orientata per una presen-tazione dell’opera fenogliana più indulgente verso il lettore non specialista (Beppe Fenoglio, Ro-manzi e racconti, a cura di Dante Isella, Einaudi-Gallimard, Torino 1992). La polemica ha visto,com’è noto, schierarsi da una parte Maria Corti e il gruppo di Wlologi da lei coordinato, dall’altraalcuni studiosi che, lavorando a partire dall’edizione critica, sono giunti separatamente a conclu-sioni divergenti da quelle lì proposte. Le voci principali della bibliograWa inerente a quel dibattitosi possono dividere in due gruppi: A) Interventi precedenti la citata edizione critica: Maria Corti,Trittico per Fenoglio, in Ead., Metodi e fantasmi, Feltrinelli, Milano 1969 (e inoltre cfr. Ead., La com-posizione del Partigiano Johnny alla luce del Fondo Fenoglio, Appendice datata 1969 alla 2a ed. 1977, conuna Postilla); Ead., Basteranno dieci anni?, «Strumenti critici», 14 (1971), pp. 99-102; Ead., Beppe Feno-glio. Storia di un «continuum» narrativo, Liviana, Padova 1980 (che contiene interventi precedente-mente editi in rivista); Eugenio Corsini, Ricerche sul Fondo Fenoglio, «Sigma», 26 (1970), pp. 3-17;Rosella Cuzzoni, Per un’edizione critica dei «Frammenti di romanzo», «Nuovi Argomenti», n. s., 35-36 (1973), Atti del Convegno nazionale di studi fenogliani, pp. 168-195; Ead., Le tre redazioni di «Unaquestione privata», ibi, pp. 196-215; Bianca de Maria, Le due redazioni del Partigiano Johnny: rapportiinterni e datazione, ibi, pp. 132-167; B) Interventi successivi a quell’edizione: Maria Antonietta

Grignani, Virtualità del testo e ricerca della lingua da una stesura all’altra del “Partigiano Johnny”, «Stru-menti critici», 36-37 (1978), pp. 275-331; Ead., Ancora sui Partigiani di Fenoglio, «Studi e problemi dicritica testuale», 23 (1981), pp. 77-79; Ead., La Parola a Fenoglio, «Belfagor», XXXVII (1982), pp. 337-348, con un Epilogo di Roberto Bigazzi ed Eduardo Saccone, pp. 349-353; Ead., Beppe Fenoglio,Firenze, Le Monnier, 1981; Roberto Bigazzi, La cronologia dei «Partigiani» di Fenoglio, «Studi e pro-blemi di critica testuale», 21 (1980), pp. 85-122, poi in Id., Fenoglio: personaggi e narratori, SalernoEditrice, Roma 1983; Eduardo Saccone, Tutto Fenoglio: Questioni di cronologia con qualche appunto dicritica e Wlologia, a proposito del Partigiano Johnny, «Modern Language Notes», XCV (1980), pp. 162-204, poi in Id., Fenoglio – I testi, l’opera, Einaudi, Torino 1988; Gino Rizzo, Editi e inediti di BeppeFenoglio, «Giornale storico della letteratura italiana», CLIX (1983), pp. 82-122; Id., Gli estremi di unaparabola narrativa: «Il Partigiano Johnny» di Beppe Fenoglio, in Fenoglio a Lecce. Atti dell’incontro distudio su Beppe Fenoglio (Lecce, 25-26.IX.1983), a cura di Gino Rizzo, Olschki, Firenze 1984, pp.71-118, volume che tra l’altro contiene il testo della Tavola rotonda su la cronologia dei «Partigiani»,ibi, pp. 225-238; Gino Rizzo, Su Fenoglio tra Wlologia e critica, Milella, Lecce 1986; Mariarosa Bric-

chi, Due partigiani due primavere. Un percorso fenogliano, Longo, Ravenna 1988; Dante Isella, Itine-rario fenogliano, in Fenoglio, Romanzi e racconti, cit., pp. 1397-1431; Maria Corti, «Il Partigiano John-ny» di Beppe Fenoglio, in Letteratura italiana, dir. Alberto Asor Rosa, Le Opere, vol. IV, Il Novecento,

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Presente assoluto e campo della scrittura nel Partigiano Johnny 11

può forse Wnalmente ritenere, se non esentati, almeno non più obbligati a schie-rarsi esplicitamente tra quelle due posizioni, sebbene sia chiaro che l’opzione dilettura che si sceglie non possa non stagliarsi su quell’orizzonte, e non possa,inevitabilmente, fargli assumere una diversa curvatura.

L’individuo di fronte alla natura e alla storia, diceva dunque Calvino, e il rece-dere del primo termine di fronte al progressivo identiWcarsi degli altri due: unacostellazione simbolica, una dinamica di forze che stava orientando anche il pro-getto di Beppe Fenoglio, il quale adottava come strumento espressivo principe lalingua inglese. È nota infatti la dichiarazione dello scrittore albese secondo cuiegli avrebbe scritto le sue opere in una primitiva redazione inglese poi tradotta initaliano. Ma cosa signiWcava una tale scelta? E che rapporto è possibile stabiliretra questa decisione che inerisce al piano dell’esperienza letteraria e l’attribuzio-ne al protagonista del Partigiano Johnny di una divorante passione per l’Inghilterra«and all things english»?

1. Una duplice attrazione: il mondo dell’inglese e la zona dei padri

Se ci rivolgiamo al piano del narrato, e dunque all’anglomania come caratteristicadel personaggio e come tema del romanzo, è possibile reperire indicazioni pre-ziose – e già ottimamente utilizzate da altri –, oltre che nell’opera adesso in que-stione, in un romanzo pubblicato nel 1959 ma sul quale l’autore lavorava dal 1957,Primavera di bellezza. Qui il protagonista, che è il medesimo della successiva epo-pea partigiana e di cui sono narrate le esperienze giovanili, aVerma la sua an-gloWlia essere «espressione del suo desiderio, della sua esigenza di un’Italia diver-sa, migliore»3. La passione di Johnny si rivela tanto l’idealizzazione di una dimen-sione piratesca, energica, vitale – o barbarica, per riprendere un aggettivo piùvolte adoperato per la scrittura fenogliana –, rappresentata dall’esempio dell’im-

t. II, La ricerca letteraria, Einaudi, Torino 1996, pp. 811-834, adesso in Ead., Nuovi metodi e fantasmi,Feltrinelli, Milano 2001, pp. 417-444. Per la bibliograWa, cfr. Beppe Fenoglio 1922-1997. Repertorio biblio-graWco, a cura di Anna Maria Mauceri, Centro Studi Piemontesi - Fondazione Ferrero, Torino1997. Cfr. inWne le recenti riXessioni di Maria Antonietta Grignani, Fenoglio e il canone del Nove-cento, in Il canone letterario del Novecento italiano, a cura di Nicola Merola, Rubbettino, SoveriaMannelli 2000, pp. 131-152.3. Beppe Fenoglio, Primavera di Bellezza, prima redazione, a cura di Maria Antonietta Grigna-

ni, in Id., Opere, cit., vol. I, t. III, p. 1278. D’ora in avanti, per ovvie ragioni di economicità, i rinviisi faranno a testo. Salvo quando diversamente segnalato, essi sono tutti tratti dalla citata edizionecritica coordinata da Maria Corti. Per Il Partigiano Johnny si distingueranno le due sigle PJ I e PJ IIa seconda ci si riferisca alla prima o alla seconda redazione (entrambe si leggono nel tomo II del Ivolume dell’edizione); analoga simbologia per Primavera di Bellezza, per la quale si distinguerà, senecessario, tra PB I e PB II (nel terzo tomo del I volume); l’Ur Partigiano Johnny (raccolto nel tomoI del volume I) verrà siglato UrPJ; i Frammenti di romanzo (il torso di romanzo, pubblicato nel tomoIII del volume I, è stato poi intitolato da Dante Isella L’imboscata) avranno la sigla FR. Per Unaquestione privata (anch’esso nel tomo III del volume I) si adotteranno le sigle QP I, QP II e QP III.La raccolta di racconti I ventitre giorni della città di Alba verrà siglata VA (questi racconti si leggononel volume II dell’edizione Corti). Alla sigla seguirà il rinvio alla pagina dell’edizione adottatacome riferimento, senza indicazione del volume e del tomo nei quali è contenuto il testo.

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Giancarlo Alfano12

presa degli ammiragli inglesi nella presa di Cadice4, quanto la ricerca di una tradi-zione nazionale costituitasi a partire da una «antica rivoluzionarietà», da una tur-bolenza placatasi poi in un conservatorismo apparente che sarebbe saldezza d’isti-tuti giuridici e politici. L’aVannosa ricerca di una tradizione che possa costituirsiquale modello per l’agire dell’oggi è del resto testimoniata dal riconoscimentoche i personaggi inglesi della saga resistenziale fanno a Johnny della sua conoscen-za della storia inglese, per cui, nelle parole di Keany, «the bluidy partisan isshamefacing us all about our own history» (UrPJ 37). Eduardo Saccone ha peròmesso in rilievo come l’identiWcazione al mondo inglese, o meglio la identiWca-zione nella storia nazionale inglese di un possibile modello cui aderire, quasi unasorta di nostalgia per una Wliazione mancata, non riesca a reggere al momentodell’incontro con i rappresentanti di quel mondo, i quali sono anzi spesso caratte-rizzati con tratti grotteschi, degradati, come nel caso della marcia avviata dal mi-litare Boxhall «petando freely» (UrPJ 31 e cfr. anche FR 1633), allo stesso modo concui, è stato notato, Malacoda «avea del cul fatto trombetta» (Inf., XXI, 139) peravviare il cammino dei demoni nelle Malebolge dantesche. Il disincanto è del re-sto dichiarato dallo stesso protagonista, quando, vedendo per la prima volta ilgruppo di inglesi coi quali deve restare in contatto per le operazioni belliche, aVer-ma che «if all Englishmen are like these, you’ll see me weeping like a child overmy broken idol» (UrPJ 23). Lo stesso Saccone ha spiegato come il movimento diJohnny sia più precisamente del tipo dell’ambivalenza emotiva, con fasi alterne diattrazione e di repulsione per quel mondo (ancora più avanti nello stesso lacertoin lingua inglese egli proverà nostalgia verso i commilitoni britannici, per poi nuo-vamente, nel Wnale – o almeno in quello che per noi, allo stato attuale delle carteautografe, è il Wnale – avvicinarsi al manipolo di partigiani italiani, distaccandosidal gruppetto di inglesi): fasi alterne che non sono il segno di instabilità soggetti-va, ammesso che di questa abbia senso parlare per un personaggio letterario, mal’espressione di una condizione storica di crisi. Che è la crisi conseguente allosfascio dell’Europa, al suo essere materialmente e moralmente in Ruinen, mentreintanto suona l’ora (e davvero suona con la trasmissione radiofonica del boogie-woogie) dell’ascesa degli americani; crisi da cui consegue la forma di «epica conces-sa ai moderni, formalmente implicante un rapporto diYcile, problematico, delsoggetto protagonista con la realtà, e più particolarmente con l’azione»5.

Ma, se l’epica dei moderni è il racconto della diYcoltà di agire – e questo pro-prio in un’opera che dovrebbe essere tutta dedicata all’azione (è una situazioneparadossale condivisa dal protagonista di quell’Horcynus Orca che è stato deWnitoun «poema dell’inazione»6) –, in che modo si stabiliscono le relazioni tra quei tretermini che nella conferenza del 1958 Calvino indicava come speciWci dell’epica?

4. Cfr. UrPJ 363 e anche Beppe Fenoglio, Diario, a cura di Piera Tomasoni, in Opere, vol. III, p.207, nonché Rizzo, Editi e inediti, cit., p. 102.5. Saccone, Fenoglio, cit., p. 83. Si tenga presente l’antologia curata da Hans Magnus Enzensber-

ger, Europa in Ruinen. Augenzuegenberichte aus den Jahren 1944-1948, Vito von Eichborn, Frankfurtam Mein 1990.6. Il riferimento è a Angelo Romanò, Note di lettura per “Horcynus Orca”, «Paragone/Letteratu-ra», 316 (1976), pp. 94-104.

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Restiamo ancora sul piano del narrato: abbiamo visto come l’Inghilterra costi-tuisca per il protagonista un modello alternativo all’Italia a lui contemporanea,come essa sia il «portato» di una tradizione di attività, anzi rivoluzionarietà eirrequietezza, che però non trova corrispettivo in chi di quella tradizione dovreb-be essere portatore. Una simile oscillazione o ambivalenza emotiva sembra sipossa identiWcare nel rapporto del protagonista con la Prima guerra mondiale ein particolare con la vicenda del padre, che in quella ha combattuto. Torniamodunque al primo movimento della saga, a quell’unico frammento pubblicato invita che è Primavera di bellezza. Johnny, richiamato in servizio militare attivo, è inpartenza per Roma quando oramai è già chiaro che l’esercito italiano sta «disa-strosamente perdendo» la guerra» (PB 1347); il padre è andato a salutarlo alla sta-zione:

Suo padre l’aveva trovato magro e con brutto colore.- SWdo, ho fatto la dissenteria.Egli non aveva avuto la dissenteria nell’altra guerra, gli era capitato di tutto fuorché ladissenteria. – Tua madre dice che da Roma dovrai scriverci di più che da Moana.Osservava la folla, quasi tutti parenti degli allievi, nessuno o quasi della popolazione loca-le. – La nostra guerra era molto più sentita, dovevi assistere alla partenza delle nostretradotte.Johnny vuotò la bottiglietta di aranciata. – Dimmi una cosa: come ti sentisti a Caporetto?Apparve imbarazzato. – Che vuoi che ti dica? Non è umanamente possibile descrivere unesercito in rotta. Vai come pula al vento. – Che cosa pensavate? voglio dire. – Niente.Non puoi pensare niente quando vai come pula al vento. (PB 1357)

Nel momento della partenza, in un momento storico in cui sembra oramai evi-dente il destino di sconWtta, sicché il congedo dimesso ridotto alla sola presenzadei parenti più stretti appare quasi la conferma di una realtà già data più che unapremonizione, il confronto tra le generazioni si stabilisce sul tema del disastro esulla reazione emotiva e conoscitiva che si assume di fronte ad esso. Isnenghi, aproposito dei militari coinvolti nell’Otto settembre, ha parlato di un’Italia che«Wnisce e ricomincia portando anticipatamente in prima Wla questi poco più eanche – nel vivo della guerra civile – poco meno che ventenni: genti nuove, dallamemoria agitata e breve»7. È appunto sulla memoria, sul passaggio di testimoneche si articola la breve scenetta del commiato tra padre e Wglio in Primavera dibellezza, laddove il Wglio cerca un insegnamento che gli consenta di aVrontare laprossima disfatta.

Non è però solo la sconWtta militare, né solo la mancata trasmissione di unalezione, a segnare la frattura che nella prosecuzione dell’epopea resistenziale (enella sua trasformazione nel successivo quadro di Una questione privata, comevedremo) dividerà irrimediabilmente le generazioni, se è vero che quel senso dipartecipazione viva, attiva, bruciante e integrale, ancora una volta «barbarica»,alla guerra è stato precluso ai «ventenni» già all’altezza della loro adolescenza,quando è risultato loro evidente che i fascisti hanno «infettato» tutto, tanto che

7. Mario Isnenghi, La tragedia necessaria. Da Caporetto all’Otto settembre, Il Mulino, Bologna 1999,p. 79.

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Giancarlo Alfano14

non gli sarebbe stato «permesso d’essere soldati quali poterono essere i nostripadri nel ’15» (PB 1279). L’identiWcazione nazionale, che è prima di tutto ricono-scimento di appartenere a una serie coerente di eventi e istituti, si rivela cosìimpossibile sia perché è venuta meno la possibilità di coinvolgimento integralenell’azione, com’era invece accaduto a chi aveva partecipato al «maggio glorio-so» del 1915, sia perché l’unico termine di continuità, ciò che consentirebbe lagestione simbolica della sconWtta, si è svuotato di senso nel momento in cui, conl’Otto settembre, è l’intero esercito italiano a essersi dissolto.

L’immagine della pula trascinata via dal vento usata dal padre per descriveregli eVetti della rotta militare dell’ottobre 1917 permette a questo proposito un’ul-teriore osservazione: se infatti l’analogia stabilisce che ciascun soldato rimase comeprivo di energia e volontà individuale, preso in balia della catastrofe collettiva, labase concettuale della metafora implica che quella catastrofe, frutto di errori tat-tici e strategici, conseguenza di eventi storici ed evento storico essa stessa, è ri-dotta alla stessa stregua di un evento naturale. Individuo, storia e natura, ancorauna volta, e ancora una volta un individuo che non riesce a situarsi nella dimen-sione storica (sia la serie generazionale, sia le coordinate simboliche della nazio-ne), la quale Wnisce coll’essere ridotta a natura.

L’incontro tra padre e Wglio in Primavera di bellezza può essere in tal senso presoa paradigma dell’opera di Fenoglio nel suo complesso. Intanto perché, sul pianotematico, nel Partigiano Johnny il padre viene rappresentato come un vecchiooramai inerme e incline all’appagamento dei piccoli piaceri materiali anche nelpieno del collasso storico; e poi perché nei successivi romanzi il rapporto genera-zionale diventa centrale sul piano narrativo: una prima volta addirittura permotivare la decisione del protagonista di entrare nella lotta partigiana, una se-conda per sancire il deWnitivo accantonamento della generazione che ha parteci-pato alla Prima guerra mondiale. Così, nei Frammenti di romanzo Giorgio, che,come già Johnny, è raYgurato all’inizio della sua vicenda clandestina mentre èimpegnato nella traduzione dell’Ebreo di Malta di Marlowe e lontano dunquedall’azione, compie la scelta di diventare partigiano dandosi il nome di Miltondopo che il padre viene arrestato e fucilato dai fascisti (FR 1588)8. La situazione sirovescia in Una questione privata, dov’è Giorgio Clerici, già fatto partigiano, adessere arrestato ed è il padre a tentare di trovare una soluzione in maniera tantoagitata quanto ineYcace. Lanciatosi per strada, il vecchio cerca infatti un uYcialefascista cui rivolgersi in qualità di ex combattente:

L’avrebbe fermato e gli avrebbe parlato, da uYciale a uYciale. Primo capitano ArmandoClerici (aveva in portafoglio il tesserino dell’U.N.U.C.I.?) 20° fanteria, divisione Livorno,tutta la guerra del ’15, tutta. Capisce? No, attento, non bisogna trattarli col lei o si invipe-riscono, quasi una prova che sei dall’altra parte, ricordarsi di usare solamente il voi. Capi-te? signor tenente o capitano? Ma non capiscono. Questi e nemmeno quegli altri, i com-

8. Il protagonista di questo abbozzo narrativo è distante sia dal «sentimentale» Johnny sia dalMilton di Una questione privata (sebbene condivida il nome dell’amico di Milton, Giorgio Clerici):egli è un partigiano isolato e feroce, che agisce in base alla consapevolezza che i «Wgli non rivedonoi padri, i padri non rivedono i Wgli» (FR 1695). Nell’edizione curata da Dante Isella (che, lo ricor-do, intitola questi frammenti L’imboscata) i brani si trovano alle pp. 883 e 987.

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pagni di Giorgio. Noi non abbiamo fatto mai niente, noi praticamente non siamo nem-meno vissuti. Solo questa loro guerra li interessa; non c’è mai stata altra guerra all’infuoridi questa, non c’è mai stata una pace se non quella che seguirà a questa loro guerra, nonc’è mai stata nemmeno un’Italia se non questa per la quale si scannano. (QP I 1750-1)

A quest’altezza Fenoglio ha però oramai deciso di liberarsi di Johnny e di operareun diverso taglio prospettico sulla materia resistenziale, una selezione simbolicadiVerente: consumato il parricidio, Una questione privata (attraverso il tramite deiFrammenti di romanzo) si assumerà infatti il compito di mettere in scena il fratrici-dio9.

Se dunque torniamo all’epos di Johnny e proviamo a ricostruire la triade in-dividuata da Calvino, ne risulta che l’intelligibilità della dimensione storica, siaper l’impossibilità di individuare la propria collocazione nella serie familiare enella memoria nazionale, sia per il fallimento dell’ipotesi di adesione a un model-lo alternativo come quello anglosassone, risulta compromessa per l’individuo,cui resta solo la riduzione della storia a dimensione naturale (il vento che portavia con sé i Wli di paglia): articolazione tuttavia bastevole perché il protagonista siassuma la responsabilità del passaggio all’azione (sebbene con tutte le ambivalen-ze segnalate da Eduardo Saccone e altrimenti esposte da Roberto Bigazzi).

La scelta di salire sulle colline non è però discontinua rispetto alla dinamicasimbolica e immaginaria sin qui descritta, se è vero che Johnny stabilisce di diri-gersi sulle Langhe perché la sua «linea paterna viene di là» (PJ I 419) e decide dinon superare la schiera collinare per «non rompere l’ambito atavico» (PJ I 438).L’assunzione della dimensione storica, il riconoscimento della «linea paterna»,della propria appartenenza a una serie germinativa, viene così interpretata comeuna linea naturale, come un fatto della natura: la questione dell’identità si rivelaquestione di terra, di identità biologica, Wlogenetica, di stirpe. Ma che ne è dell’in-dividuo, se il soggetto si stempera nella seriazione?

Venuta meno l’identiWcazione simbolica collettiva, Johnny si rivolge dunquealla serie simbolica dei padri, a quella terra atavica dei Fenoglio, intorno alla qua-le più o meno negli stessi anni lo scrittore stava coagulando i racconti dei «Penul-timi», cioè le narrazioni inerenti alla generazione familiare precedente la sua. CheBeppe fosse attratto dalla linea langarola della sua ascendenza è attestato peraltroda una pagina del Diario intitolata Myself, in cui si legge: «io li sento tremenda-mente i vecchi Fenoglio, pendo per loro (chissà se un futuro Fenoglio mi sentiràcome io sento loro)»10. La relazione tra colline e sangue paterno, cioè tra Storia(Wno alla guerra mondiale) e Natura (la linea genetica), Wnisce pertanto col deter-

9. Ma in Fenoglio è la guerra partigiana nel suo complesso, in quanto guerra civile, a esser con-siderata una guerra fratricida. Lo si vede tra l’altro nella presenza di alcuni tabù linguistici: comein PJ I, quando i due schieramenti, fascista e partigiano, si chiamano vicendevolmente a battagliarinominando la parte avversa col nome dell’alleato di quella, e negando così all’avversario la qua-liWca di italiano: «Le urla erano assordanti, più del fuoco, e i fascisti incasati urlavano distintamentea loro “Porci inglesi”, con acutissime, esaurite, quasi lacrimose voci, ed i partigiani dietro a sinistradi Johnny urlavano di rimando: – Porci tedeschi! Arrendetevi!» (PJ I 919). Nella stessa direzioneandrà letta la struggente storia, quasi una parabola, di Kyra (PJ I 548).10. Cfr. Fenoglio, Diario, cit., p. 209.

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minare il destino del soggetto, coll’imporgli la partenza e la partecipazione allalotta partigiana. In questo modo, tuttavia, l’identiWcazione simbolica risulta vali-da esclusivamente per l’individuo Johnny, la cui adesione alle vicende nazionaliappare pertanto motivata già a questa altezza da una «questione privata», chenon è altro che la questione dell’emersione del soggetto. Essere partigiano, dun-que, è già per Johnny quella grande occasione, di cui poi parlerà anche il perso-naggio Milton, «per tutti coloro che si sentono come te per ridiventare quelli diprima» (QP I 1810). Il che va inteso alla lettera: per diventare nuovamente comequelli che c’erano prima; per ritrovare il proprio posto nell’ordine del mondo,riconoscendo quel posto come il luogo della replica.

2. Il corpo dentro la terra: la dissoluzione del soggetto resistenziale

Individuo, storia, natura, ancora una volta: e qui la storia locale della Resistenzain Piemonte si presenterebbe, per così dire, come il nome ‘piccolo’ che, assogget-tando il polo della natura, dovrebbe consentire al soggetto si stagliarsi contro laconfusività di un indistinto germinare pre-umano. E tuttavia, al contrario, pro-prio le caratteristiche militari della lotta partigiana, il suo essere impostata sull’oc-cupazione del territorio attraverso una sorta di modiWcazione del proprio corpo,mimetizzandosi con esso, dandosi, appunto, ‘alla macchia’; proprio tali elementispeciWci dell’azione bellica irregolare fanno sì che il partigiano si trovi progressi-vamente identiWcato col territorio nel quale agisce, che ne assuma gli aspetti, irilievi, gli avvallamenti, le particolarità morfologiche, che si faccia paesaggio, sitrasformi in esso11.

Ciò non è privo di ricadute nel romanzo fenogliano. Intanto al livello macro-strutturale: per cui nel passaggio dalla prima alla seconda redazione del PartigianoJohnny i capitoli non seguono più la numerazione progressiva, ma sono contrad-distinti da titoli che indicano i diVerenti momenti stagionali della vicenda, con lasola esclusione (e signiWcativa, come si vedrà fra breve) dei capitoli dedicati allamomentanea liberazione di Alba, contrassegnati dalla serie «La Città» e progres-sivamente numerati: 1, 2, 3, nonché dal capitolo conclusivo «La Fine»12. In questomodo la storia del protagonista viene tracciata proponendo un percorso ‘atmo-sferico’ che ne fa maggiormente risaltare il momento invernale, ovvero l’isola-mento di Johnny e il conseguente suo distacco dagli altri partigiani: la maturazio-ne di quel «patch», l’emergere di quella ‘macchia’ letterale che sigla l’allontana-mento dalla lotta collettiva.

Questa riduzione ‘elementare’ della vicenda del protagonista può essere segui-ta anche ad altri livelli strutturali, innanzitutto per quanto riguarda gli aspetti

11. Sulla presenza delle Langhe nella scrittura fenogliana cfr. le appassionate pagine di Davide

Lajolo, Pavese e Fenoglio, Vallecchi, Firenze 1970. Accenna a questo aspetto anche Alberto Casa-

dei, Epica inutile e morte dell’eroe: «Il Partigiano Johnny» di Beppe Fenoglio, in Id., Romanzi di Wnisterre.Narrazione della guerra e problemi del realismo, Carocci, Roma 2000, p. 66.12. Questo è uno dei pochi casi in cui l’operazione ‘uniformatrice’ di Dante Isella, pur necessariaai Wni di una più ampia leggibilità del testo, elimina un importante elemento connotativo dell’ope-ra.

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tematici. Già prima della partenza, durante la breve fase di imboscamento suc-cessiva al suo ritorno dall’Otto settembre, viene chiarito l’amore del protagoni-sta per il Wume e le colline, le quali «incombevano tutt’intorno, serravano tutt’in-torno, sempre più Xou autunnalmente, in un musicale vorticare di lenti vapori,talvolta le stesse colline niente più che vapori. Le colline incombevano sulla pia-nura Xuviale e sulla città, malsanamente rilucenti sotto un sole guasto» (PJ I 392)13.Verso quelle colline Johnny Wnisce col dirigersi, in preda a un’attrazione che siconcreta in un precoce e malinconico presentimento ferale di «pensarsi morto,sepolto in un cantuccio di quella immensa collina» (PJ I 451): attratto da una di-mensione terragna e germinativa che per altro egli spesso condivide coi compa-gni (come quando restano «tutti immoti e invivi, particola gelata del bosco crepi-tante», PJ I 751)14, ma che più spesso lo isola da quelli, come quando, per esempio,mentre Ettore e Blister sono angosciati dal pericolo di irruzione dei fascisti, eglisi ritrova «tutto teso a sentire l’immoto peso del suo corpo sulla terra ed il formi-colare anima-percettibile, scricciolio che nasceva da ogni millimetro quadrato diquella aderenza» (PJ I 770). L’attrazione per la collina assume il carattere morbo-so della scomparsa in essa, come per una sorta di penetrazione passiva, o megliodi suzione subita (egli sta con «la guancia aderente alla come succhiante terra», PJI 765), di sprofondamento; una fascinazione che viene restituita tutta intera alcospetto della morte. Riconosciuto, nel «fardello» che ingombra il sentiero, il corposenza vita di un partigiano,

Johnny sedette a Wanco di esso, sull’erba rigida, innaYata di sangue. La sua faccia eraglabra e serena, i suoi capelli bene ravviati ad onta dello scossone della raYca uccidente edel tonfo a terra. Il sangue spicciato dai molti buchi nel petto aveva appena spruzzatol’orlo della sua sciarpa di seta azzurra, portata al collo alla cowboy, e che era l’unico capodi una certa quale e shocking lussurità, in quella generale povertà di partigiano apprestan-tesi all’inverno. Johnny ritrasse gli occhi dalla sua intatta faccia, poi glieli riposò su all’im-provviso, quasi a sorprenderlo, nella pazza idea che il ragazzo socchiudesse gli occhi e poiripiombasse le palpebre alla sua nuova attenzione. Giaceva in sconWnata solitudine, ac-centuata dalla univocità del rivo vicino. (PJ II 1116)

La solitudine del cadavere risulta qui come magniWcata dalla sola presenza deirumori della natura, in uno sconWnamento dai limiti corporei che appare tipicodell’immersione dell’esperienza partigiana nel corpo vivente della natura15.

13. Il paesaggio langarolo assume frequentemente una natura spettrale. Cfr. PJ passim, e in par-ticolare UrPJ 253.14. La qualità atmosferica della condizione partigiana risalta in passaggi come questo: «Poi rab-brividirono al nuovo bruire del bosco: un freddo, alato, tutt’intonante brusio, come se il ventoserotino fosse nato e muovesse i primi passi. E si Wssarono al cielo e agli sconWnati suoi specchidelle grandi colline, ed ogni sguardo era un tentativo, una prece, un’imposizione di caricarsi di piùfosche tinte, per drenare il cielo e la terra dei colori del giorno. E mai nella storia uomini, prega-rono, quanto loro, per una precoce morte del sacro giorno, Wnché tutto il colore massimo del cielosi ridusse a qualche moribondo tizzone, sul grembo di ceneri nerissime» (PJ I 758).15. Si è scelta la più sintetica seconda redazione, sebbene nella prima l’importanza del motivoXuviale sia molto più rilevante: «Johnny si fermò e sedette presso esso, sull’erba rigida, aspersa disangue. Doveva avere i suoi anni, ma appariva un ragazzo, per l’estrema giovenilità e piacevolez-za del suo viso assolutamente glabro. E i suoi capelli erano tuttora composti e bene ravviati, così

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Nella primitiva redazione inglese il rapporto coll’«ambito atavico» delle collinelangarole rivelava il suo carattere di attrazione morbosa anche su di un piano piùsquisitamente narrativo. Costretto ad abbandonare la sua zona per unirsi al pic-colo gruppo di soldati di Sua Maestà, Johnny avverte infatti con estrema pena lalontananza dalle Langhe, il cui panorama, una «birth-old sight», è ancora «a freshone, as always happens of the heart-patria» (UrPJ 217). La patria del cuore: cheperò è cosa diversa dalla petite patrie di cui ha parlato Bigazzi, giacché essa, se è laterra dei padri, opera anche una costante inXuenza sullo stato d’animo del prota-gonista (UrPJ 103 e 135-7). La terra avita diventa addirittura una «ladylove» versola quale dirigersi per un incontro serotino (UrPJ 141), oppure si presenta oVrendoil prospetto delle «native hills» (UrPJ 165) che inducono a pensare dalla distanza«with an awe and a nostalgy» (UrPJ 289). Il senso del distacco è tanto acuto che icompagni lo salutano identiWcando in lui la «true countenance of the exiled one»(UrPJ 335): il contegno di un esiliato, di un desterrado oltre-Wume cui non resta che«seeing at Wrst the translucid procession of the waters», provando una «keennostalgy of the land beyond», con la consapevolezza che il dado è tratto («the dicewas cast»), e che stavolta, «this time, for Johnny at least, it meant that a river wasnot to be crossed» (UrPJ 323, corsivo nel testo). Così, dunque, nella continuazionedel romanzo nella fase redazionale che prevedeva la sopravvivenza di Johnnyanche dopo il reimbandamento; ma il riferimento al Wume che non può essersuperato, la cacciata da quella dimensione primigenia che sono le Langhe, e per-tanto la loro idealizzazione in una sorta di Paradise lost miltoniano e la comples-siva connotazione infera assunta dalle terre del Monferrato in cui Johnny è co-stretto ad agire nella parte Wnale dell’opera, sono qui il preannuncio di quellanostalgia per l’inorganico, per la fusione del corpo umano col corpo della naturache trapela dall’aVascinata contemplazione del cadavere nelle successive redazio-ni. Del resto, non si parla forse già qui dell’erba delle Langhe come di un «avello-grass» (UrPJ 117)?

Il seppellimento, il ritorno al grembo collinare è tema dominante anche di NellaValle di San Benedetto, racconto contenuto in I ventitre giorni della città di Alba,dove una voce che dice io racconta di essersi rifugiato, per scampare a una retatafascista, dentro una tomba: «Respiravo bene, non sentivo assolutamente nessuntanfo e la parete alla quale mi appoggiavo era asciutta. Una tomba sana, davverola migliore del cimitero di San Benedetto» (VA 75). Se a questo livello il richiamodella terra avita implica una fascinazione della condizione cadaverica, un’attra-zione verso il ricongiungimento con la serie dei padri (e infatti il romanzo breve

densi e forti da resistere allo squasso della raYca uccidente e il successivo tonfo del cuore. CosìJohnny frenò la mano che gli andava a ravviare, avrebbe soltanto guastato quella chioma perfetta.Il sangue uscito dai molti varchi nel petto aveva appena spruzzato l’orlo del fazzoletto azzurro,che portava al collo alla maniera dei cowboys, ed era l’unico capo d’una certa quale, eppure shockinglussuria, essendo di seta, in quella generale frugalità e povertà di partigiano apprestantesi ad unlungo inverno.

Johnny ritrasse gli occhi dalla sua intatta faccia, poi glieli riposò su furtivamente, quasi a sor-prenderlo, aveva una pazza sensazione che il ragazzo sollevasse e ripiombasse le palpebre alla suainattenzione. Egli giaceva in sconWnata solitudine, accentuata dalla solitudine sonora del ruscelloparallelo che gemeva […] strada Wno all’onniassorbente Wume di Alba, per vallette e anfratti disequestrato pericolo e morte» (PJ I 792: la lacuna è nel testo).

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La Malora inizia «Pioveva su tutte le langhe, lassù, a San Benedetto mio padre sipigliava la sua prima acqua sottoterra»16), il seppellimento dei partigiani morti incombattimento o durante un’imboscata (come anche dei fascisti fucilati) vieneimmediatamente ricondotto all’ingrassarsi della terra e al più ricco crescere del-l’erba. Come in un altro racconto, Il trucco, inserito nella prima raccolta albese epoi espunto: «vedrai questa primavera che l’erba cresce qui sopra più alta d’unaspanna di tutta l’altra» (VA 261). Così, al termine della prima redazione in linguaitaliana, durante lo scontro coi fascisti che nella seconda redazione siglerà la Wnedella vicenda di Johnny e la sua morte, il protagonista, strisciando sul terreno persottrarsi alle raYche micidiali sparate dai fascisti, rimarrà astonished, stupito dalfragore e dal caos dell’azione, «le sue mani guantate di fango, con Wli d’erba inWs-si» (PJ I 921): trasformato in fango ed erba, col corpo scompaginato negli elementiprimordiali del territorio, l’individuo Wnisce con ritrovarsi fatto di Langhe, ricon-dotto dalla storia alla natura, in una dimensione di «pace e crepuscolo, e il ghiac-cio spegnentesi glowing desgracedly and drearily. Ma pace» (PJ I 882). Quellapace cantata da Hopkins e che Fenoglio si ritrovava a recitare «sdraiato nel ver-de»: «ma questi brandelli di pace son povera pace. Qual pura pace tollera / allar-mi di guerra, le spaventevoli guerre, la morte di se stessa?»17.

3. L’incisione del soggetto: alterità linguistica e pratica scrittoria

Dei tre termini ricordati da Italo Calvino è dunque l’individuo a risultare il piùdebole, continuamente risucchiato com’è, da una parte, dal mondo della storia –cui deve, peraltro, in quanto partigiano, proprio l’eccezionalità della sua condi-zione18 –, dall’altro, dal mondo della natura. Rispetto a questa minaccia costantedi perdita di identità, di smarrimento in una delle due dimensioni che costante-mente lo eccedono, tuttavia, la lingua inglese sembrerebbe oVrirsi come forma diautonomia, come strumento di sistemazione e raccolta della propria esperienza.Si è già fatto riferimento alla dichiarazione di Fenoglio secondo cui egli avrebberedatto la prima stesura di tutte le sue opere in lingua inglese: abitudine, coazioneo vezzo che ci resta attestato dalla parte Wnale di un Partigiano Johnny diVerenteper esito narrativo da quelli in lingua italiana che costituiscono il testo oggi adisposizione del lettore non specialista, e che per convenzione viene chiamato UrPartigiano Johnny. Se questo rapporto con l’inglese fu proprio dello scrittore Feno-glio, esso ha un rilievo importante anche nel proWlo, e nel destino, del suo perso-naggio. Basti pensare che in Primavera di bellezza il giovane Johnny dichiara di averstudiato l’inglese «più o meglio d’ogni altra cosa, ma ciò non basta a spiegar tutto.Perché, ad esempio, a me la parola inglese venga più pronta o più esatta dell’ita-

16. Cfr. Beppe Fenoglio, La malora, a cura di Piera Tomasoni, in Id., Opere, vol. II, p. 371.17. Cfr. Diario, p. 210, frammento intitolato, appunto, Pace. Per la traduzione dal testo di Hopkins,cfr. Beppe Fenoglio, Quaderno di traduzioni, a cura di Mark Pietralunga, Einaudi, Torino 2000,pp. 12-13.18. Cfr. l’analisi di Saccone alle pp. 87-89 del citato Fenoglio, e le conseguenze analizzate nel pa-ragrafo La Wne della guerra e la Wne di Johnny (ibi, pp. 89-94).

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liana, e perché tutti i discorsi che faccio a me stesso siano in inglese, automatica-mente. Non capisci? Non è colpa tua, è misterioso anche per me» (PB 1263). Lalingua inglese rappresenta dunque qualcosa di più di quell’«anglomania» che puresarebbe la «espressione» del «desiderio» di Johnny, «della sua esigenza», anzi, «diun’Italia migliore» (PB 1278); qualcosa di più per quel tanto di misterioso di cuiessa consiste, per quella impossibilità di controllo che la caratterizza: per la sua‘automaticità’. La diVerenza linguistica non costituisce insomma soltanto il terre-no su cui Johnny impianta la propria fragile emersione soggettiva, così per esem-pio da poter ribattere all’odioso commissario comunista Nemega di parlare l’in-glese «come un lord» (PJ I 454), ma rappresenta propriamente un mistero, unadiVerenza che si apre dentro il soggetto, l’avvertimento di una propria scissione,della presenza in sé di un’area opaca e priva di controllo. Proprio una tale zonaimplicava, nella prima redazione a noi rimasta dell’opera, l’occasione dello sradi-camento dalla «terra ancestrale» e dell’incontro coi militari britannici, col conse-guente crollo del mito anglosassone ed emersione della nuova realtà storica –inaugurata proprio dalla Seconda guerra mondiale –, caratterizzata dal roviniodell’Europa e dal dispiegarsi del dominio statunitense. In questa zona (mentale)avveniva dunque, già all’origine della storia redazionale di Johnny, la modiWca-zione del personaggio, la messa in evidenza «della crisi di cui egli è testimone»19.

Eccezionalità del protagonista, dunque, ma anche oscurità a se stesso: questi idue poli dell’inglese in quanto tema narrativo e caratteristica del personaggio.L’inglese introduce però indirettamente anche un altro tema, quello della scrittu-ra, come narrazione e come tecnologia manuale. Chiuso nella villa collinareaYttata dai genitori, Johnny si sente ridotto nella sua dimensione di uomo: èagitato e insonne, smanioso. Finché, a un certo punto

Si trovò in pugno, ma come miracolosamente, il tomo delle tragedie di Marlowe. Si se-dette con una forzata, smorWata determinazione, aprì e spianò il libro al principio dellaFamosa Tragedia del Ricco Ebreo di Malta. L’avrebbe tradotto, consumato la sera a tra-durlo: non visivamente, ma con penna, l’avrebbe messo in carta con una scrittura ele-mentare, minuziosa e calcata, la graWa come un ceppo di salvezza.Sebbene il mondo pensi morto il MachiavelliL’anima sua è sol migrata oltr’Alpe;E, ora che il Guisa è morto… (PJ I 401)

L’inglese dunque, quella lingua e quella letteratura, sono per Johnny la dimensio-ne in cui ritirarsi per far fronte alla sua miseria interiore, al senso di sconWtta con-seguente all’Otto settembre. Esse deviano e diVeriscono l’azione. E questo diVe-rimento si produce grazie all’esperienza della scrittura, alla graWa, anzi, che si ri-vela risorsa ‘elementare’ di consistenza, «ceppo di salvezza»: radice di ogni possi-bile rivendicazione di autonomia da parte dell’individuo. La scrittura sarebbe per-tanto come l’incisione del soggetto nella storia, il segno materiale di una perma-nenza, di un resistere e residuare. A tale livello si stabilisce tuttavia una distinzio-ne netta tra l’autore e il suo personaggio: se questi è stato infatti ancora di recentedeWnito un «alter ego» del primo, è anche vero che mentre Fenoglio si è dedicato

19. Ibi, p. 78.

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durante l’esperienza partigiana alla stesura di appunti su quanto veniva vivendo eosservando, Johnny, all’inverso, nel momento in cui parte decide di abbandona-re, almeno temporaneamente, «literature and lovemaking»20, di sospendere ogniesercizio scrittorio per dedicarsi esclusivamente alla lotta. Eppure il giovane pro-tagonista, prima del conXitto, aveva mostrato delle velleità letterarie, che si direb-bero prese a prestito dalla biograWa dello stesso scrittore langarolo, tanto che ilpersonaggio dichiara di non aver «ancora imparato a Wnire quel che comincia»(PB I 1278: esattamente come stava accadendo in quegli anni a Fenoglio), e addi-rittura di desiderare di scrivere «un racconto su quell’acqua verde [del Tanaro].Un raccontino minimo. Un suicidio in quell’acqua verde. E senza dirne il motivo»(PB II 1281), che poi coincide col racconto di Beppe Fenoglio intitolato appuntoL’acqua verde e pubblicato in I ventitre giorni della città di Alba: editi nel 1952, ovveroalcuni anni prima della redazione di Primavera di bellezza (apparso inWne nel 1959).Una volta partito, ad ogni modo, Johnny smette di occuparsi di letteratura e discrittura in genere, il suo rapporto con la lingua assumendo in prevalenza il carat-tere dell’oralità, soprattutto in occasione della missione presso gli inglesi.

All’interno della ‘saga’ il tema presenta però degli ulteriori aYoramenti. Nellacerto di redazione inglese, per esempio, si legge del partigiano Marino che con-fessa di star schizzando «a book on us and our things»; Johnny non ne è aVattostupito, avendo visto già tanti compagni intenti nella medesima attività e preve-dendo che tutti loro, a guerra Wnita, saranno impegnati nella ricerca di un edito-re; alla domanda di Marino su chi di loro riuscirà a guadagnarsi la palma per ilmiglior libro, la risposta di Johnny è recisa: «nobody of you, nobody of us. Thebook of books on us will be written by a man yet unborn, the woman will bearhim in womb is not yet more than a baby now, rowing in the midsts [sic] of ourreports». Deluso, Marino chiede allora se quel futuro scrittore sarà almeno aiuta-to dal loro lavoro di raccolta dell’esperienza: «Quite not, in my naked opinion.The man will simply see and transfer» (UrPJ 243). La successiva apparizione (UrPJ339) di Marino, ancora impegnato nella sua attività di scrittore-partigiano, mostrache egli deve essersi ripreso ben presto dalla delusione inXittagli da Johnny. Di-versa invece la conclusione di un episodio analogo depositato in un frammentoche presenta notevoli aYnità col Partigiano21. Un narratore che dice io racconta diun suo «compagno», Jerry, che sta scrivendo «della guerra» e riporta un dialogoavuto con lui: alla dichiarazione di Jerry di essere solo intento alla stesura di ap-punti, il narratore ribatte citando in inglese una frase di Whitman secondo laquale «war can’t be put into a book»; il compagno concorda col narratore, alla cuisuccessiva domanda se l’opera di lui «sarà una cosa documentaria, o qualcosa chevarrà… decisamente sul piano artistico», risponde – anticipando un’osservazionedi Montale sulla stessa operazione fenogliana22 – che come «documentario non

20. Cfr. PB II 1541, nonché le osservazioni di Maria Antonietta Grignani a proposito del fram-mento siglato ‘a’, pubblicato in Appendice a Fenoglio, Opere, cit., vol. I, t. II, p. 1247 (il commentodella studiosa a pp. 1245-1246).21. Faccio riferimento al frammento ‘a’ edito nella Nota ai testi di Fenoglio, Opere, cit., vol. I, t.III, a cura di Maria Antonietta Grignani, pp. 2281-2286.22. Cfr. Eugenio Montale, Il secondo mestiere. Prose 1920-1979, a cura di Giorgio Zampa, Mondado-ri, Milano 1996, II, p. 2199.

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varrebbe nemmeno la pena che me li portassi dietro [i taccuini]», adirandosi poialla possibilità che i suoi scritti possano essere considerati un diario23. La sera stes-sa, Jerry informa il narratore di aver «dato disposizioni perché tutti i quadernetti»gli siano aYdati in caso egli perda la vita. Jerry eVettivamente muore il 25 febbraiodurante la battaglia di Valdivilla (lì dove muore anche Johnny in PJ II) e tre giornidopo la sepoltura «una ragazza di sì e no diciotto anni» arriva al campo per conse-gnare i quaderni, la cui lettura il narratore comincia la notte stessa24. Oltre che lospaccato su di un diVuso costume partigiano25, le storie di Marino e di Jerry espri-mono entrambe il profondo legame tra scrittura e guerra: laddove questa rappre-senta quel tipo di esperienza che eccede la possibilità del soggetto di ridurre l’eventoentro categorie razionali, mentre quella costituirebbe la forma di radicamentopossibile per il soggetto stesso. Le due storie rappresentano due diverse opzioni,o meglio due opposte declinazioni di quel legame. Nel caso di Jerry, infatti, l’inci-sione, la traccia vergata sulla carta appare come l’instaurarsi di una forma identi-taria, un’iscrizione se non una secrezione dell’individuo: la scrittura dei quader-netti si presenta al narratore come «molto regolare e netta», e di ciò il narratore-testimone resta stupito giacché si «aspettava di cavarsi gli occhi, ricordando lafrenesia con cui Jerry scriveva. Invece pareva il dettato in bella copia di uno sco-laro dal polso fermo e instancabile»26. Qui la graWa si presenta come ceppo di sal-vezza, come insistenza o esercizio di concentrazione: come Wrma, insomma. Nelcaso di Marino, invece, alla ribadita istanza testimoniale, alla ideologia del docu-mento, o se vogliamo all’ipotesi di totalizzabilità – non nel senso che attraversol’esperienza singolare sia possibile ripresentare la vicenda bellica nel suo comples-so, ma nel senso che da tale esperienza sia possibile tracciare una storia coerente,che di essa si possa restituire una curva identiWcabile e signiWcativa –, Johnny con-trappone una scarniWcata riduzione al percepire: niente testimonianza, semmaiun recording, il «see and transfer», il vedere e trasferire su carta, quasi al modo diun sismografo, o di un obiettivo che solo veicola la luce che impressiona la pelli-cola. Più che l’annuncio di un futuro narratore, nella battuta del Johnny inglese viè insomma la constatazione dell’unica possibile soluzione narrativa per la storiapartigiana: che non sarà radicata in un occhio o coscienza superiore, capace ditutto dire e tutto raYgurare in una visione d’insieme, ma in una retina, nell’ordi-gno che presiede a una riproduzione insieme meccanica e organata nel soggetto.

Johnny ha del resto rinunciato alla soluzione letteraria e scrittoria nel momen-to in cui ha abbandonato la villa in cui si era imboscato per consegnarsi all’azio-

23. Per le citazioni cfr. Frammento ‘a’, cit., pp. 2282-3 (i puntini sospensivi sono nel testo).24. Ibi, p. 2286.25. A proposito delle scritture partigiane, cfr. l’analisi di Maria Corti, nella sezione dedicata alneorealismo di Tre «campi di tensione», in Il viaggio testuale, Einaudi, Torino 1978.26. Cfr. Frammento ‘a’, p. 2286. Si legga a confronto quanto ha scritto Lorenzo Mondo: «Il testoautografo a penna [degli «appunti»], vergato con una graWa per lo più leggibilissima, ben lontanada quella impossibile e quasi stenograWca del Fenoglio maturo, è aYdata a taccuini color senape(quattro per la redazione «deWnitiva») con dorso di fettuccia bordeaux» (Introduzione a Beppe Feno-

glio, Appunti partigiani. 1944-1945, Einaudi, Torino 1994, p. vii: l’edizione si fregia della riproduzio-ne di alcune pagine autografe fenogliane). Su questo particolare testo fenogliano cfr. almeno Franco

Petroni, Sugli «Appunti Partigiani» di Fenoglio, «Allegoria», 19 (1995), pp. 157-163.

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ne, al di fuori però di ogni prospettiva eroica, o vitalistica o barbarica, come si èvisto in precedenza e come ha già mostrato Eduardo Saccone; piuttosto nel sensodi un agire, di un accettare l’abbandono all’agire, all’essere in azione della realtà.E dunque nessuna dimensione di coscienza risulterà possibile, nessuna chiusurache saldi gli sWlacci dell’esperienza in una trama compatta, in una lucida curva didestino; all’inverso, sarà la realtà esterna a imprimersi sul soggetto, a farne pagi-na bianca su cui si Wssano gli istanti del trauma bellico, le vicende della storia:come sulle palme delle mani del protagonista, su cui «aveva pesato, Wno all’inci-sione, la guerra» (PJ I 603).

La storia dei taccuini di Jerry sembra però mostrare un altro risvolto che meritadi essere messo in rilievo: ed è quella specie di pietas, di osservanza per la volontàdel morto che rimanda alle lontane pagine del ‘cadavere perfetto’ trovato sulsentiero nel bosco: un rispetto che assume le caratteristiche del vincolo, del sigil-lo attraverso cui viene sancito l’arcano patto tra il vivo e il morto. I due braniconcordano infatti sull’impossibilità di concludere il racconto perché la guerranon può esser messa in un libro e propongono di contro una scrittura automatica(la guerra può solo essere trascritta). RiWutando così ogni soluzione documenta-ria e testimoniale, ogni illusione di dominio da parte del soggetto, mettono inchiaro quale sia la relazione tra il vivo e il morto, indicano l’esistenza di un debitoche il sopravvissuto ha nei confronti di chi è rimasto travolto dal reale della guer-ra.

4. Una lingua incistata dentro la lingua: funzione e scarto dell’inglese fenogliano

Quanto detto sin qui implica che il Partigiano Johnny non può essere consideratola versione redatta ‘a caldo’ e con un intento in qualche modo ‘cronachistico’dell’esperienza partigiana dell’autore; esso sarà piuttosto una sorta di stratigraWa,di rappresentazione in movimento di un’insistenza, di un residuo eccedente. Ed èqui che, Wnalmente, si può venire alla questione centrale dell’uso della lingua in-glese. Si è già più volte annunciato quest’importante tema, ricordando come Fe-noglio dichiarasse di realizzare le proprie opere in prima stesura in inglese, dicome essa gli fornisse solitamente un’espressione più felice, o almeno più esatta,più perspicua potremmo dire, rispetto al fantasma ideativo; e si è anche già fattoriferimento all’unico testimone di un tale costume compositivo, ovvero alla parteWnale di quel testo, «acefalo […] lacunoso in più punti […] e incompiuto», databiletra il 1955 e la primavera del 1956

27, noto sin dai tempi dell’edizione critica delcorpus fenogliano come Ur Partigiano Johnny. Più che il primo movimento del pro-cesso creativo, è qui utile provarsi a indagare le modalità e gli eVetti stilistici dellapresenza della lingua inglese nelle redazioni italiane dell’opera: proporre cioè unadescrizione del quanto e del come la lingua straniera residui nella lingua-madredello scrittore.

27. Cfr. Isella, Itinerario fenogliano, cit., p. 1405. Con la Grignani va ricordato però che l’insiemedell’opera chiamata «arbitrariamente Partigiano Johnny» è «anepigrafo negli originali» (cfr. Fenoglioe il canone, cit., p. 133).

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Intanto andrà da sé che l’uso in prima battuta dell’inglese occorra a Fenoglioproprio come Wltro, emotivo e simbolico, rispetto alla memoria dell’esperienzabruciante della guerra, consentendone la riduzione a una dimensione meno os-sessiva. Da questo punto di vista, la distanza tra autore e personaggio risulta par-ticolarmente ridotta, entrambi trovando nelle coordinate culturali britanniche unaforma, lo si è più volte ripetuto, di rivendicazione di individualità, ovvero dell’ec-cezionalità della propria esperienza. Eppure, nei confronti della scrittura Feno-glio sembra avere il medesimo atteggiamento che Johnny ha verso la guerra par-tigiana, i due operando in virtù di un paradigma riconducibile a quel Lawrenceche, come ancora una volta ha mostrato Eduardo Saccone, assume un rilievodecisivo nell’esperienza dello scrittore albese, e che sancisce l’ambivalenza emo-tiva tra adesione e distacco. Se qui parrebbe di poter individuare anche nell’auto-re quel medesimo atteggiamento snob e sentimentale da lui stesso attribuito alsuo protagonista, è appunto la persistenza della lingua inglese all’interno dellalingua italiana che evidenzia l’attrito fra i tre termini proposti da Calvino nellasua conferenza Worentina, e che conferma la debolezza del primo di quelli, l’indi-viduo, rispetto agli altri due, la natura e la storia, denunciando la radicale impra-ticabilità per Fenoglio di ogni scrittura-documento tanto quanto di ogni ipotesi diopera-monumento.

L’uso della lingua inglese da parte di Beppe Fenoglio è stato spesso analizzatodagli studiosi, sia per quanto riguarda la prima ‘forma’ del Partigiano Johnny, edunque l’uso in prima battuta di quella lingua per la composizione dell’opera, siaper quanto riguarda le successive ‘forme’ o redazioni. Attraverso il pluridecenna-le lavoro di analisi si è chiarito che la presenza dell’inglese non è limitata ai calchidi nuovo conio o all’utilizzo di espressioni straniere in un dettato sostanzialmen-te italiano, ma soprattutto inXuenza in profondità le procedure di modiWcazionedella lingua italiana attraverso l’interferenza degli istituti morfologici e in genera-le linguistici della lingua straniera28. Se per il primo aspetto le irregolarità, le de-formazioni operate dallo scrittore albese sulla lingua acquisita, l’uso personale diessa hanno portato a coniare la formula del «fenglese», per il secondo le indaginicompiute sul corpo testuale hanno condotto non solo a una descrizione accuratadel materiale linguistico in esso utilizzato, ma hanno anche consentito delle no-tevoli deduzioni critiche.

È stato così osservato che Fenoglio avrebbe maturato nel tempo (a partire daiprimi e intensamente formativi studi liceali) l’idea «di una lingua «duttile», «nongrammaticalizzata», o semmai sottoposta a una sorta di grammaticalizzazione

28. «Tra le due lingue si crea una dinamica di sovrapposizioni, di inXuenze strutturali a livellonon solo lessicale, ma anche sintattico»: così Gian Luigi Beccaria, Il tempo grande: Beppe Fenoglio[1984], in Id., Forme della lontananza, Garzanti, Milano 1989, p. 105. Sull’inglese fenogliano cfr. Maria

Antonietta Grignani, In margine al dialogo italiano-inglese in Fenoglio: emergenza del destinatario,«Strumenti critici», 38 (1979), pp. 117-125; Eduardo Saccone, La questione dell’«Ur Partigiano Johnny»,«Belfagor», XXXVI (1981), pp. 569-591 (poi in Id., Fenoglio, cit.); Roberto Bigazzi, Lettura del parti-giano inglese di Fenoglio, «Il Ponte», XXXVII (1982), pp. 172-197 (poi in Id., Fenoglio: personaggi e nar-ratori, cit.); John Meddemmen, Documenting a Mobile Polyglot Idiolect. Beppe Fenoglio’s «Ur PartigianoJohnny» and its Critical Edition, «Modern Language Notes», XCVII (1982), pp. 85-114, cui segue unaPostilla di Eduardo Saccone, pp. 115-121.

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interna (sebbene con forti oscillazioni), una «lingua plastica, malleabile a propriotalento», insomma: «una lingua magmatica con cui collaborare creativamente»29.

Ciò si nota nell’uso dei preWssali (specie di quelli negativi), nelle formazioniaggettivali, nell’uso dei participi aggettivali, nella neoformazione mediante suYsso(per quanto riguarda tanto i sostantivi quanto i verbi), nell’alta frequenza degliavverbi in -mente o nella creazione di sostantivi composti. Per quanto attiene allivello della morfologia si è poi osservato che «il fenomeno più vistoso […] è larivitalizzazione della funzione verbale (sopravvissuta pallidamente nell’italianoletterario) del participio presente»; anche in questo caso – e si tratta di una parti-colarità linguistica che investe, come vedremo poco più avanti, il campo dellasintassi e la complessiva costruzione del piano dell’azione – la lingua italiana èmodiWcata, rivitalizzata da Fenoglio a partire dal modello inglese, nel quale ilparticipio presente e in genere i tempi in -ing sono particolarmente attivi30.

Dante Isella ha fornito una ricca «campionatura selettiva» di questo fenomeno,raccogliendo le occorrenze della forma participiale per categorie sintattiche a se-conda che il participio sia utilizzato come preposizione relativa o come seconda-ria indipendente (una sorta di participio assoluto), in base alla funzione sostanti-vale o aggettivale attribuitagli, o inWne nel caso dell’associazione con un sostan-tivo che assume valore di complemento oggetto. Lo stesso studioso ha inoltrechiarito l’importanza della rivitalizzazione del participio, mostrandone l’inXuen-za anche nella permutazione di «verbi intransitivi in transitivi o causativi» («lapioggia durando feroce e nauseante ormai la vista del Wume»; «la paura e l’incer-

29. Cfr. Dante Isella, La lingua del «Partigiano Johnny», in Fenoglio, Romanzi e racconti, cit. pp.xvi-xvii (il saggio è stato ristampato in Beppe Fenoglio, Il Partigiano Johnny, Einaudi, Torino 2000).Sulla lingua di Fenoglio, cfr. anche Gian Luigi Beccaria, La guerra e gli asfodeli – Romanzo e vocazio-ne epica di Beppe Fenoglio, Serra e Riva, Milano 1984. Cfr. inoltre Tommaso Pomilio, Beppe Fenoglio,in Storia generale della letteratura italiana, dir. Nino Borsellino e Walter Pedullà, vol. IX, Il No-vecento. Le forme del realismo, Federico Motta, Milano 1999, pp. 970-1012. Su tutti questi problemi ètornato di recente con prospettiva originale Tommaso Ottonieri, La plastica della lingua, BollatiBoringhieri, Torino 2000, pp. 149-159. Ma Grignani, Fenoglio e il canone, cit., insiste sul persegui-mento di una lingua media, ispirata a esigenze di comunicazione, non di espressione: persegui-mento che avrebbe implicato il superamento dello «stadio-Johnny» per arrivare alla «maturità pulita»di Un giorno di fuoco e di Una questione privata (p. 146). Queste riXessioni introducono a un compli-cato discorso sul ruolo dell’autore, sulle sue esigenze di autorappresentazione, e implicano unariconsiderazione generale delle scelte della narrativa italiana del secondo dopoguerra. Qui si cercaappunto di analizzare in che modo Il partigiano Johnny faccia parte di una più generale storia cheracconta l’emersione della soggettività attraverso la ricerca da parte del soggetto di un propriospazio simbolico tra l’immissione nella serie generazionale (la natura) e lo schiacciamento suglieventi epocali della nazione e della complessiva identità culturale europea (la storia).30. Grignani, In margine al dialogo, cit., ha osservato la progressiva riduzione delle forme in -ing,«cui si acccompagna l’accanimento correttorio nei confronti dei participi presenti italiani, chiara-mente imparentati» (p. 168). La studiosa ammette tuttavia che poiché «questo è uno dei tic sintat-tici meno facilmente espungibili», «esiste qualche sporadico caso inverso» (ibid.). Nella prospettivaqui adottata, tuttavia, non è in discussione la conquista progressiva da parte dell’autore di unalingua media, comunicativa, e il conseguente necessario superamento della «fase-Johnny», ma leragioni che hanno imposto a Fenoglio quella fase e che lo hanno poi indotto a uccidere Johnny(non a caso in Primavera di bellezza egli non partecipa che per brevissimo tempo all’esperienzapartigiana) per far inWne morire Milton ‘di vita propria’. Ma il discorso andrà ripreso con più spa-zio altrove.

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tezza oscillando la sua voce alla collera più tremenda»)31, sì da inWne concludereche tale «creatività [linguistica] attesta una straordinaria carica di energia vitale»,correlativo stilistico del racconto di un’«esperienza assoluta»32. Anche altri, siapure da diversa prospettiva, ha osservato che «l’inglese violenta l’italiano», cosìche «alla superWcie emerge una parola che liberata dall’illusorio potere strumen-tale, diviene esplosione, attinge la sua straordinaria potenza dal ductus concretodella scrittura»33: se con liberazione dal «potere strumentale» bisogna intendere lasottrazione del momento comunicativo e l’inversa esaltazione del fatto espressi-vo – evidenza raVorzata da quello stretto legame con il ductus, ovvero col traccia-to materiale della graWa (la cui incidenza tematica si è vista in precedenza) –, dellascrittura di Fenoglio andrà allora inteso il carattere intransitivo, radicalmenteopposto a ogni operazione naturalistica o, peggio, cronachistica e documentaria,e viceversa pienamente inserito nel grande Wlone della narrativa novecentesca34.Carica vitale, energia: simili espressioni presentano tuttavia al livello dell’inter-pretazione degli istituti linguistici del testo la questione della funzione scrittoriacome forma possibile di dominio della materia narrativa, ovvero strumento dicontrollo dell’esperienza narrata da parte del soggetto, ponendo nuovamente l’esi-genza di aVrontare quell’oscillazione tra la centralità dell’individuo e la sua fusio-ne nelle dimensioni storica o naturale su cui si è insistito sin qui.

Uno strumento che può consentire l’accesso al sistema e alla immagine dellalingua presente nel Partigiano Johnny, soprattutto nella sua prima redazione inlingua italiana, è l’analisi dell’uso del participio presente. Più infatti che constata-re la rarità dell’uso di questa forma «in funzione di verbo» e ancor più come «pro-posizione secondaria indipendente dalla principale», uso invece tipico nel Parti-giano di contro alla prevalente funzione aggettivale cui è normalmente destinatoquesta forma in italiano, occorre innanzitutto riXettere sulla scelta fenogliana diuna tale rivitalizzazione, o meglio (visto che il gerundio in luogo del participio èattestato già nella tarda latinità35) di una tale deviazione rispetto alla normale di-stribuzione delle forme verbali italiane. Intanto sarà forse utile richiamare lanozione di aspetto verbale come ciò che «deWnisce il processo verbale in rapportoalla durata» e ricordare che «nella realtà della lingua l’aspetto non è percepibileche in un sistema di opposizioni»36. Così, per esempio, in latino si organizzanodue opposizioni verbali: tra infectum, ciò che non è compiuto, e perfectum, ciò cheè compiuto; tra durativo (il processo nel suo durare nel tempo) e momentaneo(l’evento considerato come articolato in un unico momento temporale). Ripren-

31. Su questo aspetto già Grignani, Virtualità del testo e ricerca della lingua, cit., p. 319.32. Isella, La lingua del «Partigiano Johnny», cit., pp. xxxvi (dove sono raccolti numerosi altri esem-pi) e xxxviii.33. Gabriella Fenocchio, La scrittura anWbia del «Partigiano Johnny», «Lingua e stile», XX (1985), p.107.34. Per le categorie di scrittura transitiva e scrittura intransitiva si rimanda a Giancarlo Mazza-

curati, Pirandello nel romanzo europeo, Il Mulino, Bologna 1986.35. Cfr. Gerhard Rohlfs, Grammatica storica della lingua italiana e dei suoi dialetti, Einaudi, Torino1969, § 718.36. Cfr. Alfonso Traina - Giorgio Bernadi Perini, Propedeutica al latino universitario, Pàtron,Bologna 1995

5, pp. 211-212.

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dendo l’argomentazione e la terminologia di Harald Weinrich, si può inoltre di-stinguere tra tempi commentativi e tempi narrativi, i secondi preposti alla narra-zione di un evento, i primi al commento di esso. Lo studioso tedesco ha inoltreinsistito sul fatto che «tutti quanti i tempi verbali hanno una funzione segnaletica,che è impossibile descrivere adeguatamente se l’intendiamo come informazionesul tempo»37, il che vuole appunto dire che le forme verbali segnalano la serie dirapporti intrattenuta tra il discorso (il testo) e la realtà, tra il tempo come elemen-to linguistico e il tempo come fattore extralinguistico (evenemenziale, cronolo-gico, psicologico). È noto che Weinrich aggiunge a questa prima e principaleopposizione funzionale una categoria inerente alla «prospettiva linguistica» (cheesprime la relazione tra tempo testuale e tempo reale) e una categoria inerente al«rilievo narrativo», secondo la quale il sistema temporale di ciascuna lingua siorganizza in modo che i tempi consentano la rappresentazione dello sfondo –ove si depositano le circostanze secondarie, le descrizioni, le riXessioni –, che initaliano è caratterizzato dalla presenza del tempo imperfetto, e del primo piano –ove si raccolgono gli eventi –, in italiano caratterizzato invece dalla presenza delpassato remoto. Così, se Spitzer notava che, per esempio in Proust, il tempoimperfetto ha un duplice carattere, in virtù del quale esso può occorrere a indica-re sia l’abitudinarietà sia la duratività di un’azione, la tipologia di Weinrich con-sente di inquadrare un tale fenomeno nei meccanismi della deWnizione dello sfondo(qualcosa che accade frequentemente o per un certo lasso di tempo) come oppo-sto alla messa in rilievo dell’evento, diciamo così, signiWcativo38.

La classiWcazione funzionale viene però complicandosi quando al sistema tem-porale dei verbi si aggiunga la dimensione modale, giacché, se distinguiamo tramodi Wniti (indicativo, congiuntivo, imperativo) e modi inWniti (inWnito, gerun-dio, participio), i secondi possono essere volta a volta riferiti al mondo commen-tato o al mondo narrato. Un tale ordine di fenomeni, infrequente in lingua italia-na, ha invece un maggior rilievo in quella inglese. Weinrich ne ha discusso ana-lizzando l’uso del tempo he was singing in un racconto di Hemingway, per il qualeha osservato che, poiché «non si può parlare dei tempi in -ing della lingua inglesesenza tener presente il present participle singing», occorre aVermare che «il partici-pio dopo un past tense e il tempo he was singing si spartiscono la funzione di forma-re lo sfondo»39. La discussione di queste forme verbali continua con l’analisi delChapter XII delle Short Stories dello stesso autore americano, al cui proposito lostudioso ha ritenuto di poter osservare che «i tempi e le forme verbali» si «conver-tono in attributi delle persone e delle cose»40, mentre all’inverso i tempi in -ing (he

37. Harald Weinrich, Tempus. La funzione dei tempi nel testo [1964], trad. it. a cura di Maria Prov-videnza La Valva, Il Mulino, Bologna 1978, p. 36.38. Leo Spitzer, Sullo stile di Proust [1928], in Id., Marcel Proust e altri saggi di letteratura francesemoderna, trad. it. a cura di Pietro Citati, Einaudi, Torino 1959, pp. 231 sgg. Si tenga inoltre presentecome già Charles Bally (in Linguistica generale e linguistica francese [1950], a cura di Cesare Segre,Il Saggiatore, Milano 1963, p. 111) osservasse che «il concetto di processo è quantiWcato dall’aspettodel verbo».39. Weinrich, Tempus, cit., rispettivamente pp. 168 e 169.40. Nel racconto, al «torero, in primo in quanto colui che agisce aggredendo, si assegna comeattributo il past tense; egli sta in primo piano. Il participio come forma verbale della narrazione di

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is singing, he has been singing, he will be singing) del mondo commentato hanno lafunzione di designare lo sfondo del mondo commentato. Grazie a tale sistema-zione funzionale Weinrich ha potuto inWne concludere l’analisi aVermando che«a diVerenza di ciò che accade nelle lingue romanze, nella lingua inglese il rilievosecondo un primo piano e uno sfondo si dà non solo per tutto il campo dellanarrazione ma anche per quello del commento».

Il participio presente inglese, in quanto ha conservato il suo valore verbale,può dunque assumere due valori funzionali diVerenti, e cioè organizzare il mon-do commentato o il mondo narrato a seconda che esso si associ con un tempoappartenente all’uno o all’altro dei due mondi linguistici. Che cosa accade inFenoglio? Riportiamo innanzitutto qualche prova della presenza dell’elementoverbale nel participio inglese:

la mia vita e quelle di costoro sono di nuovo volving come dadi nel bossolo. (PJ I 723)s’alzò nella zona della stalla inondata da una bianca, acuta, quasi artiWciale luce dalle Wne-strelle staring. (PJ I 848)Agonizing erano invece le moschettate, con la loro aria tesa e ghignante, better knowing,di voler colpire te, proprio e soltanto te. (PJ I 478)

Sebbene si tratti in questi esempi del solo trapianto in un contesto italiano di alcu-ne forme linguistiche inglesi, si può tuttavia notare come queste ne modiWchinol’intera impostazione sintattica, così che, per esempio, il volving di I 723 non potràintendersi come l’equivalente di un gerundio, perché non è retto da una formacome ‘stanno’ (*stanno girando) che ne limiti la durata nel tempo, bensì dal verboessere, che col suo valore di copula, se tende a respingere il participio nuovamenteverso il valore attributivo, contribuisce a infondere al groviglio di vite intrecciateinsieme cui il testo fa riferimento una qualità verbale provvista di durata, dunqueuna qualità inserita nel tempo: che è uno degli elementi caratterizzanti lo sfondo.

Una forma analoga al tempo he was singing, declinata cioè nel senso della dura-tività, si può trovare in un’altra breve serie di esempi:

a) Johnny ed Ettore restavano inreattivi alle ciancie, consapevoli soltanto della loro mise-ria Wsica in quel macerante, tutto miseriWcante ambiente. (PJ I 675);b) La loro selvaggia cresta stava aVogando nel tardocielo e le rade, sinistre piante di crestastavano inclinando aslant sotto il vento serale. (PJ I 779);c) Aprì col ginocchio l’uscio e si arrestò netto e gaping all’algida, fulgente oVesa dellaneve raddoppiata. (PJ I 848).

In tutti e tre i casi si tratta di calchi sintattici dell’inglese, giacché è possibile sostitui-re: in (a) a «restavano inreattivi» un sintagma come ‘stood (o ‘stayed’) unreacting’, in(b) a «stava aVogando», ‘was being drowned’, in (c) a «s’arrestò … gaping», qualcosacome ‘stood … gaping’. Certo, supporre che la ricca e complessa sintassi fenogliana

sfondo sta invece a guisa di attributo per tutto ciò che circonda il torero»: ibi, p. 175; la successivacitazione è tratta da ibi, p. 176. Per alcune altre implicazioni teoriche e di critica letteraria mi per-metto di rinviare a Giancarlo Alfano, Tra due Xussi. Grammatica e logica dei tempi in «HorcynusOrca», in Il mare di sangue pestato. Studi su Stefano D’Arrigo, a cura di Francesca Gatta, Rubbettino,Soveria Mannelli 2002, pp. 77-102.

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sia riconducibile a una sorta di primarietà anglosassone è poco proWcuo in sede in-terpretativa, oltre che dubbio sul piano del metodo, e tuttavia queste traduzionimostrano la produttività della base inglese, nonché la convertibilità, la fungibilitàdelle tre soluzioni: con un tempo in -ing; con passato remoto seguito da una formaassimilabile al participio presente; con passato remoto seguito dal gerundio (che èpoi la forma normale in italiano)41. Il caso (c) è inoltre interessante perché la presen-za del participio libera il tempo principale dall’istantaneità dell’azione, per metterein rilievo la duratività della stessa; in altri termini, il participio (qui nella forma ingle-se) rigetta l’azione dal primo piano allo sfondo. Del tutto analogo è il valore delparticipio come tempo dello sfondo anche quando esso è utilizzato da solo, semmaiin funzione aggettivale o in dipendenza da tempi del mondo commentato:

nulla oggi è più raro e scarso della gioventù lavorante (PJ I 650)Pierre, il paziente, selettivo, mettente-ad-agio Pierre, fu presto soverchiato. (PJ I 664)Il caotico cielo, forgia di quella pioggia, era odioso e bestemmie-tirante. (PJ I 665)Poi uscì il sergente, Wssò con ripugnanza l’informe cielo e profetò che domani si sarebbecombattuto sotto immortale pioggia e in fango lievitante (PJ I 689)Fu un duro cammino, nella tenebra condensantesi» (PJ I 775)42

Serie, cui si può inoltre aggiungere il tipo con participio trasformato in avverbio(sul modello del suYssale -ingly): «dormiva sodo e ricuperantemente» (PJ I 816)43.

Se Fenoglio sembra aver ricavato dalla lingua inglese una diversa possibilità diorganizzazione del sistema dei tempi verbali, tale da estendere il dominio del-l’opposizione tra sfondo e primo piano anche al mondo commentato, egli haconseguentemente generalizzato la categoria dell’infectum, dell’incompiuto, for-nendo alla sua narrazione il carattere del ‘continuo’, del movimento44. Ciò si nota

41. Tra i casi di uso del gerundio si ricordano soltanto i due seguenti esempi, con diverso gradodi regolarità: «Le canne e l’uomo croacked and cracked insieme, le canne torcendoglisi sopra comea vendicarsi dell’uomo crivellato» (PJ I 703); «Riguardarono giù alla giustoessendo deXorata città»(PJ I 705).42. O ancora: «si calò per l’alta proda verso l’aperta campagna deutchless, anche lui come gli altrileggero ed incorporeo, assolutamente noiseless e inoperante come, sonnambolico, anche lui aVectedda quel banale morbo di silenzio, desertità e fantomaticità» (PJ I 517); «Nord se ne andava, versol’abbozzantesi abbraccio della sua aspettante guardia» (PJ I 602); «essi fuggirono via e lontano,mentre la bestia continuana ad ululare allo spettro-suono dei loro passi lontananti» (PJ I 750); «Sa-rebbe stato Watomozzante, polmoniesplodente dover correre da quella parte par scampo» (PJ I826); «Nella notte sussultò orribilmente, nell’aVerrante sensazione dell’accerchiamento e dellacattura» (PJ I 837).43. Per l’avverbio, cfr. lo spoglio di Isella in La lingua del «Partigiano Johnny», cit., nonché i se-guenti esempi: «incontenibilmente ansiosi e ticcanti ed elettricamente pronti alle chiamate» (PJ I647); «La raYca preliminare scortecciò la strada, poi la seconda e grande, che urtò tremendamentesul legno e il metallo dei camions, che orsinamente (bear-like) traballarono sotto l’urto. Poi l’aereosi allontanò deWnitivamente nell’invendicante, anzi santuario-dante cielo» (PJ I 682); «Johnny cam-minava verso la Langa lontana, un po’ vacuo mentatamente e un po’ swaggeringly, languidamen-te welcoming e godendosi i rari tratti pianeggianti» (PJ I 836). G. L. Beccaria ha inoltre osservatoche l’avverbio tende «ad assolutizzare, con funzione seccamente perentoria […] che deWnisce unostato o un’azione […], tant’è che sostituisce il paragone» (Il tempo grande, cit., p. 118).44. È notevole che anche altri, ma in diverso settore linguistico, abbia osservato una medesimacontinuità, vibratilità, con il trasferimento alle qualità di alcune proprietà speciWche delle sostan-

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in particolare nell’uso della forma participiale per le descrizioni della natura, comenel brano dedicato alle colline all’inizio del romanzo (PJ I 392), o nella subitosuccessiva descrizione della natura a settembre (PJ I 397), o, ancora, nella straor-dinaria descrizione della città in preda all’inondazione:

Agli occhi di Johnny, la città non aveva una sostanza petrea, ma carnea, estremamenteviva, disperatamente muscolare e guizzante come una grossissima bestia incantonata cheavanza le sue impari ma ferme zampe contro una giallastra alluvione di pericolo e dimorte. Tutto il resto era un mulinante, alluvionante caos di gonWe e incredibilmentelevigate lastre d’acqua che d’un subito si risolvevano terriWcantemente in enormi vortici,mentre al lato estremo l’inondazione seppelliva la campagna sotto una veneWca, escre-mentizia salsa giallastra sulla quale, per una pura illusione ottica, le pioppete parevanogalleggiare come enormi zattere dai moltissimi alberi. (PJ I 672)45.

La forma participiale conferisce insomma qui e altrove animazione al paesaggionaturale, rendendone le qualità con delle categorie linguistiche a metà tra l’azio-ne e l’attributo («muscolare e guizzante»)46, secondo una modalità stilistica aYnea quel procedimento impressionistico tipicamente pascoliano che consiste nellamessa in esponente del termine astratto e delle entità in generale («quel zonalemorbo di silenzio, desertità e fantomaticità», PJ I 517; «Lo speciale Natale dellaLanga era davanti a lui, nei suoi occhi, in tutta la sua appalling e fascinante nudi-tà», PJ I 875)47.

Se l’animazione della natura signiWca che essa gode come di un’autonomia diazione, ciò implica anche e soprattutto che essa costituisce lo sfondo permanentesul quale dovrebbero stagliarsi gli eventi umani della lotta partigiana. Ebbene, ilrapporto distributivo tra passati remoti e participi presenti sembra però risuc-chiare tali eventi nello sfondo, come nel già citato «La guancia aderente alla comesucchiante terra» (PJ I 765), o ancora come nel seguente caso: «si sedettero sullaterra crocchiante, appoggiandosi ai tronchi crepitanti, senza Wato per il freddocondensantesi sentendo appieno su e dentro la loro integrità delle miserie umaneWno allora narcotizzante dall’eccitazione per la vita» (PJ I 750)48. Del resto, quan-

ze, così che gli aggettivi, gli avverbi, etc. attivano o richiamano in absentia i sostantivi che qualiWca-no. «Quando deriva da termini che designano non individui ma aVezioni, atteggiamenti, proprietàe azioni di individui, il modiWcatore presenta una forma embrionale di valenze, e quindi un’auto-noma capacità di evocare o richiamare personaggi latenti»: Michele Prandi, ModiWcazioni obliquenel «Partigiano Johnny», «Strumenti critici», 586 (1988), pp. 111-164 (e cfr. anche Id., Procedimenti dideformazione astrattiva nei «Partigiani», in Beppe Fenoglio oggi, a cura di Giovanna Ioli, Mursia, Mi-lano 1991, pp. 174-184).45. È doveroso osservare che in PJ II 1010 la frequenza dei participi presenti è minore.46. Cfr. anche il caso discusso da Isella (La lingua del «Partigiano Johnny», cit. p. xxxiii) dell’agget-tivo mordace che, trattato al pari di un participio, regge un complemento oggetto.47. Sul lessico pascoliano, cfr. Pier Vincenzo Mengaldo, La tradizione del Novecento, prima serie,Feltrinelli, Milano 1976. Per Fenoglio, cfr. anche gli esempi e la loro discussione in Beccaria, Iltempo grande, cit., p. 104.48. Nella stessa serie si possono inserire alcuni brani già citati, come: «Quanto a Johnny, era tuttoteso a sentire l’immoto peso del suo corpo sulla terra ed il formicolante anima-percettibile, scric-chiolio che nasceva da ogni millimetro quadro di quella aderenza» (PJ I 770). Non diversa naturahanno i seguenti passaggi: «Johnny cominciò a sibilare a loro e strisciare di traverso verso la de-

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do Gian Luigi Beccaria ha indicato come tendenza ed esito delle descrizioni feno-gliane la costituzione di un «paesaggio stilizzato al massimo che, come nell’epica(e nella Waba), è spazio, non luogo dell’azione»49, ha non tanto fornito un’indica-zione stilistica e di identiWcazione generica del Partigiano Johnny, ma ha ribadito ildecisivo ruolo – non solo a livello tematico o narrativo – assunto nell’opera dallanatura, il suo costituirsi come dimensione astratta, non geograWca, il suo essere,per togliere un termine alla Wsica, un campo di forze, ovvero l’insieme delle con-dizioni in cui si veriWca l’azione delle forze e che consente l’accadere dell’evento.Ed è per questa ragione che in un’opera così fortemente circoscritta nelle dimen-sioni geograWche, così ristretta nel suo orizzonte topograWco, non è poi possibilecogliere le relazioni tra i singoli luoghi reali, se non nel modo di una geometria,di un rapporto di posizioni, risultando così inibita ogni restituzione mentale delterritorio in cui avvenne la lotta storica. Poiché manca ogni visione dall’alto, poichéè neutralizzata ogni possibile planimetria, quel territorio si costituisce come unospazio attraversato da forze, dotato di una propria energia (il cui correlativo lin-guistico è il participio presente), tale che piuttosto che lasciarsi modiWcare dalsoggetto che lo percorre, lo modiWca a sua volta, lo orienta e lo modella.

Del tutto analoghi, sotto il proWlo del valore funzionale delle voci verbali, queicasi in cui il soggetto, anche quando non si tratta del protagonista, viene rappre-sentato dentro la natura: una natura della quale è messo in rilievo proprio il carat-tere uniformante, di medio ambientale che curva l’agire umano dentro il proprioorizzonte, le proprie coordinate tanto spaziali quanto dell’azione. Come accadenel brano seguente, in cui il participio (nelle forme italiana e inglese) svolge divolta in volta le funzioni di tempo del mondo commentato e di tempo del mon-do narrato:

Poi Johnny riuscì e cercò la lontanante Wgura di Ettore. Lo individuò che dalla Wne delladiscesa attaccava la prima rampa del Bricco d’Avene. Johnny gli urlò dietro, Ettore ruotòsu se stesso, ricambiò l’hand-wawing e se ne andò con passo sorridente. Era per Johnnyun incanto sempreverde quello di un uomo andante solitario per le deserte colline, neipunti sommi la testa e le spalle erette nello sweeping cielo. E osservando il passo di Etto-re, si rese deWnitivamente conto di come le colline li avessero tutti, lui compreso, inXuen-zati e condizionati tutti, alla lunga, come se vi fossero tutti nati e cresciuti e destinati amorirvi senza conoscere evasione od esilio. Essi tutti camminavano ormai come i conta-dini nativi, con quel passo con cui lo stesso carattere di durata Wsica Wnisce col sottrarreogni e qualsiasi ritmo apparente. (PJ I 589)

Il brano è estremamente rivelatore di come lo spazio della natura, la dimensionedelle Langhe abbia acquistato nella narrazione della vicenda di Johnny un valorepreminente, tale da quasi inglobare dentro la propria durata il tempo dei soggettiumani che in esso agiscono. Del resto è caratteristica della guerra partigiana, lo si

pressione iniziante il lungo e ripido pendio verso la valletta di Sant’Ambrogio» (PJ I 772); «Il soleandò giù, ed enorme, abissale fu l’improvvisa perdita di esso; un vento lo rimpiazzò, vesperale,luttuoso e cricchiante» (PJ I 745). Si osservi inoltre un caso dove il participio non è nella formaitaliana «dopo le raYche del mattino, il bosco aveva per lui un nuovo haunting, come di veraoYcina della natura, nel vibratile silenzio» (PJ I 602).49. Beccaria, Il tempo grande, cit., p. 124.

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ricordava sopra, che i combattenti siano costantemente immersi nella natura sinoa diventare parte del paesaggio: «Sembrò poi a Johnny che Pierre, dalla gola dellanarcosi, dicesse che dovevano far guardia, assolutamente non addormentarsi tut-t’insieme, con una vena di rassegnato orgasmo nella sua voce calante, quindi stet-tero tutti immoti e invivi, particola gelata del bosco crepitante» (PJ I 751)50.

La produttività del sistema temporale impostato sull’inglese, l’interferenza trale due lingue e le peculiarità linguistiche da essa derivanti sono inWne visibili in unbrano nel quale il rapporto tra passato remoto e participio mostra esiti analoghitanto nella narrazione quanto nel discorso diretto, sia in italiano sia in inglese,così da quasi condensare i vari temi e i diVerenti aspetti stilistici che Wn qui sonoemersi. Arrivato al luogo in cui è stato seppellito un suo compagno,

sul tumulo proprio non gli riuscì di stabilire un benché minimo dialogo con Tito under-lying, l’aVerrò anzi, e per tutti quei minuti, un giro letterario, certo frivolo, forse sacrile-go, sicuramente odiosissimo: –… watched the moths Xuttering among the heath andharebells: listened to the soft wind breathing through the grass… (PJ I 498)

Risalta in questo brano il complesso sistema temporale, che non solo regge ilpassaggio dalla narrazione in terza persona al discorso diretto ‘mentale’ del prota-gonista, ma articola la singolarità dell’evento e la staticità della situazione dispo-nendole rispettivamente nei tempi del primo piano e dello sfondo. Gli eventi siconWgurano qui per lo più come reazioni alla situazione, così che le azioni al pas-sato remoto o al past tense risultano piuttosto prodotti dallo sfondo, che in essoinquadrati. In altri termini, le voci in -ing realizzano le condizioni di possibilitàdell’evento, rappresentano le forze che ne deWniscono la natura e le qualità, pre-sentandosi come quel campo di forze che libera la situazione dalla staticità (under-lying) e ne mostra invece la ‘vibrazione’ (Xuttering, breathing). Se il soggetto, in-somma, si colloca nella dimensione del primo piano, è solo perché la natura lopolarizza innanzi a sé, facendone una sorta d’increspatura del suo stesso Xuirecostante: sicché al soggetto non resta che riconoscere che i morti sono quel chec’è non dopo la vita, ma prima di essa (lo underlying è la ricompattazione del sog-getto col vibratile Xuttering e breathing che c’era già prima di lui), ovvero constata-re l’identità tra il cadavere del proprio simile e la natura, e cantarne, con GeraldManley Hopkins, la cangiante bellezza e la pace maestosa (come accade in quellaPied Beauty, tradotta appunto da Fenoglio)51.

Tali dimensione e carattere della natura danno all’opera di Fenoglio un aspet-to, una qualità tutt’aVatto diversa rispetto alla scrittura romanzesca, sia perché viè inoperante ogni interesse introspettivo nei confronti dei personaggi, sia perchévi è sancita una netta distanza dal tempo presente dell’azione, dall’attualità, dalconXitto dialettico dei linguaggi del sociale. Se, dunque, da una parte Il PartigianoJohnny è estraneo tanto alla dimensione della cronaca quanto a quella del roman-

50. Cfr. anche il brano di PJ I 758, già citato alla n. 14, che inizia «Poi rabbrividirono al nuovobruire del bosco…» per trasformarsi in una preghiera rivolta alla natura, al modo di Gerald M.Hopkins.51. Per la presenza di Hopkins in Fenoglio, cfr. Rizzo, Gli estremi di una parabola narrativa, cit., pp.77, 87.

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52. Per i caratteri dell’epica mi rifaccio a quanto osservato nell’oramai classico saggio di Michail

Bachtin, Epos e romanzo [1938], in Id., Estetica e romanzo, a cura di Carla Strada Janovic, Einaudi,Torino 1979, pp. 445-482. Recentemente, Alberto Casadei ha invece aVermato che «Il PartigianoJohnny è un romanzo assolutamente non romanzesco, che aspira allo statuto della forma narrati-va epica» (Epica inutile e morte dell’eroe, cit., p. 83). DiVerente anche l’impostazione di Grignani,Fenoglio e il canone, cit., secondo la quale opera epica sarebbe l’ultimo romanzo fenogliano, Unaquestione privata, ma non nell’accezione bachtiniana, sibbene come «ombra lunga di un evento dasvincolare dalle scorie di polemica interna ai gruppi […] ma ben presente con la sua lezione civile,sentimentale e formale alla società italiana» (p. 149).53. La Wne del partigianato renderà opachi quegli splendidi corpi, sottrarrà a quegli uomini l’auradel sacriWcio, del momento irripetibile. Che si tratti di un’evidenza materiale, propriamente cor-porea è rivelato dallo splendido passaggio di UrPJ 293, in cui si parla di Dea, la quale, per farsideXorare, «could not expect the war over, one of the men sorted from the war, for such a manwould have been inevitaly decayed, the moment itself it sorted from the war».54. Beccaria, Il tempo grande, cit., p. 110.55. Credo sia oramai necessario avanzare in un’indagine che non si limiti alla storia letteraria. Nelcaso di Fenoglio, infatti, risulta con grande evidenza l’impatto che il dibattito artistico degli anni

zo, più diYcile è stabilirne, dall’altra, l’eventuale riconducibilità all’epica: dellaquale forma condivide un certo gusto per gli epiteti di tipo formulare, un certotrattamento del tempo, una certa vocazione per la disposizione degli episodi se-condo strutture circolari, ma dalla quale si separa per un elemento decisivo comela deWnizione di un passato assiologico, di una dimensione spaziale e temporaleassoluta in quanto fondativa e priva di legami col presente52. La lotta partigianapossiede sì talune caratteristiche della separatezza, ma il tempo di dopo, la vitasuccessiva alla guerra è ben presenti nell’opera, tanto da minacciarne l’autono-mia, il valore di riferimento, la normatività; così come, ancora, l’«arcangelicoregno dei partigiani» rivela nello svolgimento della vicenda la sua mancanza diperfezione, sì da perdere – lo ha mostrato Eduardo Saccone– ogni carattere dieccezionalità53.

Eppure resta decisivo che l’opera maggiore di Beppe Fenoglio rifugge dal pre-sentare una smorta serie di fatti e che in essa al contrario vige un «modo antiWgu-rativo che non riproduce gesti, avvenimenti, ma è gesto, avvenimento»54. Restadecisivo perché sottrae la scrittura al compito di predisporre un’ossiWcata plani-metria, di raccontare dei fatti, consentendole all’opposto di narrare delle faccen-de, di liberare cioè gli eventi dal loro esaurimento, svincolarli dalla loro replicabi-lità seriale. Di tanto è segno il participio presente (insieme alla diversa funziona-lizzazione degli avverbi), in quanto stacca l’evento dalla sua puntualità e lo ride-stina alla sua qualità astratta, alla sua dimensione di evento, privo di riferimentitemporali e personali, se non in contesto: non le azioni, dunque, ma l’agire. Ed èper questo che l’individuo narrato scivola progressivamente dentro le coordinatedella natura, ovvero della storia: ché a questo punto i due livelli saranno inestri-cabili, non essendo la natura luogo di salvezza, fonte primigenia di autenticità oidentità opposta alla inautenticità e al compromesso delle dinamiche storiche. Edè per questo che la dimensione temporale speciWca del Partigiano Johnny apparenon la costruzione di un passato assoluto, bensì di un presente assoluto, un tem-po aYne, piuttosto che a quello della narrativa, a quello della grande lirica mo-derna, un tempo cioè della soggettività dispiegata innanzi alla lingua55.

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5. Il presente della scrittura

Analizzando il modo di lavorare dell’autore albese, Beccaria ha osservato che perlui occorre forse parlare di «scrittore della necessità», in quanto egli avrebbe «ri-scritto, ripreso, espanso da un testo all’altro, rimontato a blocchi motivi e formeperché ha creduto e nella frase-unità e nel blocco narrativo che postula la suanecessità»56. Fenoglio avrebbe dunque concepito la scrittura come movimentoinesausto, come Xuire di elementi quasi organici, e dunque come montaggio in-terminabile di temi, forme e situazioni. In questo senso, la scelta del participiopresente parrebbe addirittura costituirsi come il clic della critica stilistica spitzeria-na, l’atteggiamento linguistico idiosincratico che conWgura l’intero insieme idea-tivo, tanto sul piano della lingua quanto su quello della narrazione, e dunquedella complessiva ideologia, la quale nel caso dell’autore di Alba sarebbe il conti-nuo, ovvero quella «disponibilità» la cui importanza è stata già segnalata da altri57.A questo proposito non manca di colpire che Mark Pietralunga nell’introdurre letraduzioni dall’inglese di Fenoglio abbia ripreso una frase di Pannwitz, già utiliz-zata dalla critica, nella quale si parla della possibilità di allargare e approfondire la«propria lingua mediante la lingua straniera»58; non manca di colpire perché vi si

Cinquanta ebbe sulla sua esperienza narrativa, soprattutto attraverso il Wltro della rivista, interna-zionale ma con sede ad Alba, «I 4 Soli». Fondata nel 1954, la rivista vide tra i propri collaboratoriPietro Chiodi, che fu il docente WlosoWa dell’autore ai tempi del liceo, e lo stesso Beppe Fenoglioin qualità di traduttore dal francese (postume furono inoltre pubblicate alcune sue pagine narrati-ve). Ebbene, risulta interessante ai Wni di quanto si sta qui discutendo che nel sesto numero del1954, la rivista pubblicasse la Relazione di Enrico Prampolini al convegno Arte Wgurativa - arte astrattaa Venezia, nella quale la tradizione del dinamismo plastico futurista veniva collegata esplicitamen-te alla Wsica di Einstein e alla WlosoWa di Bergson in una dimensione astratta, e dunque sintetica enon analitica, che avrebbero contribuito alla costituzione di una «spazialità organica» nell’arte«non-oggettiva di oggi». E nemmeno sarà privo d’importanza il fatto che nel 1955 la stessa rivistaaccogliesse un intervento di Gino Severini (Concezione dello spazio-tempo nella pittura futurista), nelquale il pittore – ancora riandando alla tradizione futurista e al suo concordare con le nuove di-mensioni scientiWche – sosteneva che «non si può avere un’idea dello spazio in accordo con lenostre aspirazioni di pittori, senza simultaneità. Tale conclusione, che fu del tutto intuitiva, è inpieno accordo con la scienza, per la quale l’immobile non esiste; quindi, se non vogliamo arrivarea negare la testimonianza dei nostri sensi, dobbiamo oramai ammettere che il simultaneo si inscri-ve nel mobile ed in esso viene percepito». Traggo le citazioni da «I-4-Soli» 1954-1969. Una rassegnad’arte attuale, a cura di Mirella Bandini, con la collaborazione di Adriano Parisot, catalogo dellamostra di Alba, Palazzo delle Mostre e dei Congressi, 18 novembre - 17 dicembre 1989, Fabbri,Milano 1989, pp. 66 e 70 (ricordo che l’intervento di Severini era stato tradotto da Fenoglio). Dallostesso catalogo si veda comunque Maria Teresa Roberto, Alba per «I 4 Soli»: traduzioni, letture,confronti, pp. 37-46, e, per una ricostruzione dell’attività della rivista e del panorama artistico euro-peo dell’epoca, Mirella Bandini, Una rivista italiana nell’Europa degli anni Cinquanta e Sessanta, pp.9-36.56. Beccaria, Il tempo grande, cit., p. 134. A tal proposito cfr. anche Ottonieri, La plastica dellalingua, cit., passim.57. Cfr. Saccone, Fenoglio, cit.58. Mark Pietralunga, Introduzione a Fenoglio, Quaderno di traduzioni, cit., p. xiv. La frase diPannwitz, citata da Walter Benjamin ne Il compito del traduttore, in Id., Angelus novus, trad. it. acura di Renato Solmi, Einaudi, Torino 1964 (ed. or. della raccolta: 1955), p. 51, era già stata utiliz-zata da Fenocchio, La scrittura anWbia..., cit., p. 197.

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indica una procedura altrimenti presente anche nella riXessione di Gilles Deleuze,lì dove il Wlosofo francese ebbe modo di parlare dell’opera di «decomposizione odistruzione della lingua materna» che sarebbe in azione nell’opera letteraria: mo-mento destruens cui si accompagnerebbe l’inverso movimento di «invenzione diuna nuova lingua nella lingua, attraverso creazione di sintassi»59. Alla luce di que-sta riXessione, si potrebbe dunque aVermare che la lingua straniera sarebbe servi-ta a Fenoglio per sottrarsi agli automatismi, alla medietà della lingua italiana, allasua funzione comunicativa (di comunicazione letteraria) per inventare una lin-gua propria scavata dentro la lingua madre: sicché, la vicenda biograWco-lettera-ria della scrittura come applicazione artigianale e conXitto con la forma («la piùfacile delle mie pagine esce spensierata da una decina di penosi rifacimenti. Scrivowith a deep distrust and a profounder faith», dichiarò l’autore60) andrà pensatacome la manipolazione del corpo linguistico per mezzo della sintassi: felicementeconcretata nella soluzione Xuida, vitalmente vibratile del participio.

Con ciò non si vuol dire che le forme di passato remoto siano assenti o percen-tualmente poco signiWcative nel dettato fenogliano, né avvicinare la sua esperien-za scrittoria alla ricerca sperimentale di altri scrittori a lui più o meno contempo-ranei; si vuole solo ribadire che temi narrativi, forme del racconto, costruzioneideologica della vicenda del protagonista e soluzioni espressive61 convergono nel-l’abbandono di una forma ‘automatica’ di relazione (l’incandescente materiale bio-graWco, la bruciante esperienza partigiana), quasi secondo i modi del rapportoburocratico-militare. Ed è per questo che il transfer di cui si parla nell’Ur PartigianoJohnny sembra implicare altro che la forma codiWcata della comunicazione scritta.

In un libro che oggi non sembra più godere del successo che ebbe invece permolti anni, Roland Barthes, discutendo il ruolo del passato remoto, aVermavache esso «fa sì che la realtà non sia né misteriosa né assurda, ma chiara, quasifamiliare» e lo collegava all’istituto del racconto, aggiungendo poi che «quando ilRacconto è messo da parte e gli sono preferiti altri generi letterari, oppure quan-do all’interno della narrazione il passato remoto è sostituito da forme meno esor-native, più immediate, più dense e più vicine al linguaggio parlato (il presente oil passato prossimo) allora la Letteratura diventa depositaria dello spessore del-l’esistenza e non del suo signiWcato. Le azioni, staccate dalla Storia, non lo sonopiù dai personaggi»62. Questa descrizione dell’avvento nella narrazione di tempi

59. Gilles Deleuze, La letteratura e la vita, in Id., Critica e clinica [1993], trad. it. a cura di Alberto

Panaro, RaVaello Cortina Editore, Milano 1996, p. 18.60. Così nella citatissima intervista raccolta in Ritratti su misura di scrittori italiani, a cura di Elio

Filippo Accrocca, Sodalizio del libro, Venezia 1960, che leggo nelle pagine di guardia di Gina

Lagorio, Beppe Fenoglio [1970], Marsilio, Venezia 1998.61. Ma ciò riguarda anche il sistema delle metafore, come ottimamente dimostrato da Elisabet-

ta Soletti in numerosi articoli: Metafore e simboli nel Partigiano Johnny di Beppe Fenoglio, «Sigma», 31

(1971), pp. 68-89; Paradigma della metafora in Fenoglio, «Sigma». n.s. IX (1976), pp. 109-133; Invenzionee metafora nel Partigiano Johnny di Beppe Fenoglio, in Simbolo, metafora, allegoria, «Quaderni del circo-lo Wlologico-linguistico padovano», 1980, pp. 231-239; La scrittura in bianco e nero, in Fenoglio a Lecce,cit., pp. 155-66.62. Roland Barthes, Il grado zero della scrittura [1953], Einaudi, Torino 1982, pp. 24-25. Il pensatorefrancese aggiungeva poco oltre (ancora p. 25): «la Wnalità comune del Romanzo e della Storia

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narrata è di alienare i fatti: il passato remoto è appunto l’atto di possesso della società sul suopassato e il suo possibile». Per l’opposizione in francese tra imparfait e passé simple, il rimando,ovviamente, è a Émile Benveniste, Le relazioni di tempo nel verbo francese [1959], in Id., Problemi dilinguistica generale, trad. it. di Maria Vittoria Giuliani, Il Saggiatore, Milano 1971, pp. 283-300.63. Beccaria, Il tempo grande, cit., p. 119.64. Le espressioni sono tratte da una lettera inviata nel 26 dicembre 1797 da Schiller a Goethe,citata da Weinrich, Tempus, cit., pp. 28-29. Anche Beccaria ha aVermato che «Fenoglio è il dram-matico che mira alla rappresentazione diretta» (Il tempo grande, cit., p. 144).65. Fenoglio, Opere, cit., vol. I, t. II, pp. 1247-48.

diversi dal passato remoto è del resto aYne alle conclusioni di Beccaria quandoaVerma che nel Partigiano Johnny vi è «non visione della realtà, ma “realtà” dellavisione» e che l’interesse di Fenoglio è per la «Wgura, non per quanto essa rappre-senti di passeggero o di accidentale»63.

Se la presentazione della ‘realtà’ della visione signiWca che le azioni non sonostaccate dai personaggi, e che l’esistenza si deposita nella scrittura, allora il pro-cesso estetico in atto nell’opera di Fenoglio risulta più vicino a quello della rap-presentazione che a quello del racconto. Ciò ha però inevitabili conseguenze sullivello della ‘costruzione’ del lettore, degli atteggiamenti, le posture, le modalitàche l’opera fenogliana impone al suo fruitore: essa infatti sembra impedirgli di«indugiarsi più a lungo o meno a lungo, secondo le sue esigenze soggettive» per«incatenarlo strettamente al presente reale»64. Alla Xuidità di quanto è narratocorrisponderebbe dunque una narrazione continua che produce eVetti di presadiretta, costringendo il lettore a posizionarsi di fronte alla vicenda di Johnny, laquale non oVre più, a diVerenza di una tranche de vie o di uno spicchio di cronacapartigiana, una serie consequenziale, motivata e dunque dominabile, di eventi.

È allora necessario fare un ultimo passaggio: dal lettore al protagonista. In al-cune pagine estravaganti del corpus fenogliano, ma evidentemente connesse alromanzo maggiore, si narra dell’incontro tra Marida e Johnny, il quale dichiara ilsuo amore alla ragazza:

Io non ho più problemi. Io ho solo più il tuo problema – ed era vero. Non solo il serviziomilitare, ma anche l’imboscamento e Chiodi e Cocito e i partigiani appartenevano a unaltro uomo, un irriconoscibile, morto altro uomo con cui non aveva più nulla da spartire.Al più poteva vedersi come il personaggio inammirabile di un altro racconto. Ecco, la suavita non gli appariva più nella connessione d’un romanzo, ma egli si vedeva via via comeil protagonista sempre variante e dimentichevole di tanti racconti non proprio omoge-nei.65

Non più il Wlo del racconto, per dirla con l’Ulrich musiliano, non più la disposizio-ne coerente di una serie di fatti e avventure raggrumati da una personalità coeren-te che viene dispiegandosi; ma al contrario una congerie di eventi che deformanovariamente il personaggio, gli impongono vesti, atteggiamenti, reazioni diVeren-ti. E non un’unica vicenda memorabile, ma appunto una pluralità sottoposta alrischio della dimenticanza; non è emblema di un’esperienza, ma semmai la sme-morata esperienza nel suo farsi. Certo, queste pagine testimoniano solo una pos-sibile soluzione narrativa scartata, una soluzione ancora vicina all’oscillazione del

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66. Cfr. i lavori deleuziani raccolti in Critica e clinica, cit.

protagonista tra azione e «literature and lovemaking», ma pure restano pagine diun certo peso, se quella oscillazione sarà ereditata da Milton, il protagonista diUna questione privata, ultima fatica narrativa e anch’essa incompiuta di Fenoglio.E il legame con la situazione del protagonista-tipo dell’epopea partigiana denun-cia proprio una continuità d’impostazione, un problema strutturale che è ancheun motivo tematico: l’impossibilità per chi attraversa la guerra di ricostruire lapropria esperienza, inibizione alla chiusura ancora più forte per chi si è ritrovatoschiacciato in quella zona di guerra che è anche la zona dei padri: una zona, ocampo, in cui si incrociano le forze dell’identiWcazione nazionale, della storia fa-miliare, della natura.

Si diceva sopra della minaccia che il tempo di dopo la guerra esercita nei con-fronti del tempo assoluto della lotta partigiana, della desublimazione cui gli ‘ar-cangelici’ partigiani saranno sottoposti una volta tornati alla vita di sempre. Eb-bene, l’aspetto di tale normalizzazione che più di frequente ritorna nelle paginedelle diverse redazioni riguarda il momento in cui quegli uomini si sposeranno ecostituiranno le loro famiglie, spossessandosi di quella sorta di pellicola indivi-dualizzante che fa di ciascuno di loro un esemplare unico e nel contempo ununico e medesimo tipo. Mentre mangia il cibo oVertogli da una famiglia langaro-la, Johnny,

considerando di sbieco, quel nucleo familiare, pensò a tutti i nuclei, quelli nel desertodelle colline e quelli nel cuore delle metropoli, e pensò che questo era l’unica cosa adurare, a potere e dovere durare, mentre tutto il resto sarebbe passato e svanito, ed ilnome di partigiano avrebbe ridicolmente perso la sua corsa-tempo col nome di padre e diWglio. (PJ I 844)

Si presenta qui in maniera chiara il senso di quella minaccia, che è la minaccia diestinzione della linea dei fratelli rispetto a quella della serie generazionale, cioè laminaccia della scomparsa dell’individuo dentro l’indistinto Xuire della stirpe. Per-ché la scelta di Johnny di ricongiungersi all’ambito atavico signiWcava sì il ricono-scimento della propria posizione nella sequenza dei padri, ma anche l’annulla-mento di quella sequenza in una sorta di estensione della fratellanza, la scritturaessendo – data la sua forma continua, participiale, priva di persona e di individua-lizzazione – il modo per inventare quel «popolo che manca» cui ha fatto riferi-mento ancora Gilles Deleuze: che è poi un popolo di morti, cui viene annesso,ammesso anche il lettore, «incatenato strettamente al presente reale», cioè al pre-sente della narrazione in movimento66.

Individuo, storia, natura. Attraversate diverse stazioni della narrativa roman-zesca tra Ottocento e Novecento, Italo Calvino chiudeva l’indagine intorno a«natura e storia nel romanzo» con una riXessione su Prima che il gallo canti diCesare Pavese. In particolare egli si soVermava sulla conclusione del romanzopavesiano, nella quale trovava la seguente aVermazione:

Io non credo che possa Wnire. Ora che ho visto cos’è guerra, cos’è guerra civile, so chetutti, se un giorno Wnisse, dovrebbero chiedersi: – E dei caduti che facciamo? perché sonomorti? – Io non saprei cosa rispondere. Non adesso, almeno. Né mi pare che gli altri lo

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Giancarlo Alfano38

67. Cesare Pavese, Prima che il gallo canti [1947-48], Einaudi, Torino 1954, p. 311.68. Calvino, Natura e storia nel romanzo, cit., p. 37, corsivi nel testo.69. Beppe Fenoglio, lettera a Livio Garzanti del 10 marzo 1959 (le virgolette sono dell’autore) daultimo citata da Isella, Itinerario fenogliano, cit., p. 1410. Su questo aspetto si è soVermato ancheTommaso Ottonieri, che ha parlato della «eccezionalità di un caso di quasi tragediografo elisabet-tiano […] pulsante di omerico ed “ettorico” […] respiro, che scrive per cancellarsi e riscriversi […]:e riscrive poi per consumare un vissuto – che si ostina, questo, a riaprirsi come una piaga, Wno allamorte e al cumulo degli incompiuti che egli dové lasciarsi quasi a inimitabile (e inevitabile) sigillo»(La plastica della lingua, cit., p. 159). Diversa l’impostazione del discorso sulla morte in Alberto

Casadei, per il quale «il grande sforzo di Fenoglio è quello di oggettivare la sua esperienza rivissu-ta, in modo da renderla emblematica della condizione moderna dell’uomo di fronte alla morte»(Epica inutile e morte dell’eroe, cit., p. 83). Per un abbozzo di riXessione sulla narrazione della guerra,proprio a partire dal saggio di Casadei, cfr. Giancarlo Alfano, Fuorché il disastro, «Il Ponte», LVII(2001), pp. 127-135.70. Mario Pomilio, Il quinto Evangelio [1975], Bompiani, Milano 2000, p. 36.

sappiano. Forse lo sanno unicamente i morti, e soltanto per loro la guerra è Wnita davve-ro67.

Calvino la commentava così: «ogni caduto somiglia a chi resta e gliene chiederagione. La partecipazione attiva dell’uomo alla storia nasce dalla necessità di dareun senso al sanguinoso cammino degli uomini. Dopo averne sparso il sanguebisogna placarlo»68. Non è forse scorretto estendere queste frasi all’opera di Feno-glio, al suo tema, al suo intento, alla sua forma, per poterne spiegare l’inesauribi-lità e l’interminabilità, per potersi spiegare come mai lo scrittore poteva aVerma-re, una volta deciso di inserire il suo protagonista tra i caduti della battaglia diValdivilla, che la morte di Johnny gli liberava «tutto il campo “resistenziale”»69.Che poi voleva dire che la morte del partigiano gli consentiva di narrare, e Wnal-mente in modi romanzeschi, la lotta partigiana come un modo di esistenza conti-nua, come l’azione nel suo svolgersi, che implica insieme personaggio, narratoree lettore, coinvolgendo in una sorta di coazione alla compresenza il morto e ilvivo.

«C’è questo, tra l’altro, di turpe negli eVetti d’una guerra, che chi è sopravvis-suto può sentirsi un disertore»70, aVerma un personaggio di Mario Pomilio. «Youknow, Dea, I’ve a strange feeling… – Which one… ? – … to be out of the war…[…] – You, you all and I self, are not at all out of the war» (UrPJ 293). Non siamoaVatto fuori della guerra, risponde Dea. Dalla guerra, evidentemente, dal suotempo e dalla minaccia di dissoluzione che essa comporta per il soggetto.

Giancarlo Alfano

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Cahiers d’études italiennes

1 | 2004

Novecento... e dintorni

Dire la guerre ?

L’epica storica di Fenoglio

Alberto Casadei

Edizione digitaleURL: http://journals.openedition.org/cei/238DOI: 10.4000/cei.238ISSN: 2260-779X

EditoreUGA Éditions/Université Grenoble Alpes

Edizione cartaceaData di pubblicazione: 15 novembre 2004Paginazione: 105-117ISBN: 978-2-84310-057-4ISSN: 1770-9571

Notizia bibliografica digitaleAlberto Casadei, « L’epica storica di Fenoglio », Cahiers d’études italiennes [Online], 1 | 2004, Messoonline il 15 mai 2006, consultato il 01 mai 2019. URL : http://journals.openedition.org/cei/238 ; DOI :10.4000/cei.238

© ELLUG

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L’EPICA STORICA DI FENOGLIO *

Alberto CasadeiUniversité de Pise

Dalla prospettiva di Fabrice del Dongo, così appare la morte in battaglia a Waterloo.

Ce qui le frappait surtout c’était la saleté des pieds de ce cadavre qui déjà était dépouillé de ses souliers, et auquel on n’avait laissé qu’un mauvais pantalon tout souillé de sang […]. Une balle, entrée à côté du nez, était sortie par la tempe opposée, et défigurait ce cadavre d’une façon hideuse ; il était resté avec un œil ouvert (Stendhal, La Chartreuse de Parme, cap. 3, ed. H. Martineau, 59).

Per chi era partito con l’idea che la morte sul campo fosse prima di tutto « bella », ossia eroica e fonte di gloria, il disinganno non potrebbe essere più completo. Il corpo disfatto dell’umile soldato non ha niente di solenne, non ha il potere di cancellare la sua materialità, soprattutto nei tratti più degradati o spaventosi (la sporcizia dei piedi, l’occhio rimasto aperto). Insomma, nessuna sovrainterpretazione epica, ossia di un’ideologia della vittoria creata per esaltare la forza di un intero popolo attraverso i suoi eroi, può servire a modificare la percezione diretta della brutale consis-tenza della corporeità priva di vita : quanto rimane di un combattente sconfitto.

Cahiers d’études italiennes, n° 1, 2004, p. 105-118.

* La bibliografia critica di riferimento è indicata per esteso in appendice : a testo si proporranno solo i rinvii puntuali. Per le citazioni dal Partigiano Johnny (PJ ; quando necessario, si specifica a quale delle due redazioni ci si riferisce con l’indicazione PJ1 e PJ2), si segue, anche per praticità, l’edizione dei Romanzi e racconti a cura di Dante Isella (1992, ricontrollata sempre su quella 2001), del quale sostanzialmente si accetta la ricostruzione della complessa vicenda compositiva ; per il testo del cosiddetto Ur-Partigiano Johnny (UrPJ) e per gli apparati critici e i documenti si ricorre all’edizione delle Opere diretta da Maria Corti (1978), mentre, per un commento a PJ, è d’obbligo il rinvio a quello curato da Claudio Milanini (2001). Gli Appunti partigiani (AP) sono citati dall’edizione a cura di Lorenzo Mondo (1994, ma alcune correzioni sono desunte dall’ed. Isella 2001), mentre per le altre opere narrative di Fenoglio si fa riferi-mento ancora ai Romanzi e racconti curati da Isella (1992, quando necessario indicata come : « ed. Isella »). Per le Lettere si segue l’edizione curata da Luca Bufano (2002). Il presente lavoro, in parte già esposto all’Università di Grenoble nel maggio del 2002, ripropone, con minime variazioni, il testo in corso di stampa negli Atti del Convegno B. Fenoglio : Scrittura e Resistenza (Roma, 11-13 novembre 2003).

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Molti altri sarebbero gli aspetti da analizzare nel passo della Chartreuse 1, ma qui vogliamo sottolinearne soprattutto uno fondamentale anche per le successive rappresentazioni della guerra. Dopo la fine di quella che veniva considerata la più grande epopea moderna, con Napoleone a incarnare il nuovo tipo di imperatore post-rivoluzionario, era senz’altro possibile cogliere la falsità delle costruzioni epiche classiche e recenti, cioè la loro mera sublimazione degli aspetti grandiosi ed esaltanti delle guerre, a sca-pito di quelli bassi e deprimenti ; tuttavia, per modificare una forma dell’espressione letteraria ben consolidata come l’epica, ne occorreva un’al-tra tendenzialmente libera e trasgressiva, quale poteva essere il romanzo (novel), dove gli elementi soggettivi, ovvero le focalizzazioni sui personaggi (a quest’altezza cronologica accompagnate da una chiara percezione della regia autoriale), riescono a demistificare certezze ritenute oggettive e immodificabili. Come appunto l’« oggettiva » visione epica della guerra e della battaglia, momenti culminanti per raggiungere la gloria da parte del singolo eroe e del suo popolo.

La dialettica di oggettività e soggettività 2 nella rappresentazione degli eventi bellici prosegue fino alla Seconda guerra mondiale, ed è ovviamente ben riconoscibile anche in Fenoglio. Si potrebbe addirittura affermare che le varie fasi della sua opera, senza dubbio nel segno della coerenza quanto ai referenti autobiografici, ma diverse da un punto di vista stilistico, sono segnate da una notevole variazione di questo rapporto. Qui ci si limiterà a considerare la profonda modificazione intercorsa tra gli AP e il PJ 3, che si potrebbe intanto schematizzare come segue : se negli AP il resoconto delle vicende resistenziali era all’insegna dell’euforia della vittoria (che di per sé confermava la superiorità dei valori dell’antifascismo) e dell’essere « sopra-vvissuto », nel PJ domina la disillusione del dopoguerra e la consapevo-

Alberto Casadei

1. Se ne ragionerà più a lungo in un prossimo articolo dal titolo Il corpo morto, l’eroe morto : oggettività e soggettività nella rappresentazione della guerra.

2. Non occorre sottolineare che i due termini sono di assai problematica definizione, specie sulla scorta delle ricognizioni filosofico-scientifiche di epoca postmoderna. Pragmaticamente, in questo stu-dio si intende con « oggettività » una tendenza a leggere la guerra attraverso un filtro nobilitante, secondo un processo di « sovrainterpretazione » ideologico-artistica, mentre con « soggettività » la tendenza, sem-pre più marcata a partire dalla Prima guerra mondiale a esporre aspetti direttamente conosciuti della guerra (Erlebnis). Questa seconda prospettiva non è affatto scontata, dato che i tòpoi permangono in molti diari apparentemente neutri (come hanno già dimostrato gli studi di Fussell su molti documenti, peraltro non solo di tipo letterario).

3. Le osservazioni riguarderanno soprattutto il testo che leggiamo con il titolo di PJ (nelle due reda-zioni), come parte culminante della storia resistenziale del « libro grosso » sul periodo 1943-1945. Questo implica che si consideri PJ2 una versione, sia pure provvisoria, che porta sino a conclusione il destino di Johnny con la sua morte durante lo scontro di Valdivilla, e che l’elaborazione stilistica indivi-duabile in quel testo sia comunque giunta a uno stadio avanzato (anche se non conclusivo).

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L’EPICA STORICA DI FENOGLIO

lezza della « morte inevitabile » (il destino di Johnny, tanto in PJ2 che, indubitabilmente, in Primavera di bellezza). D’altro canto, se gli AP ten-tano, nel 1946, un sistema narrativo quasi « in presa diretta » (per certi aspetti analogo a quello dei film neorealisti della metà degli anni Quaranta), il PJ tende a una nobilitazione epica attraverso la creazione di un grande stile, che però non cancella i dati dell’Erlebnis e della durezza dell’espe-rienza bellica collettiva : si tratta cioè di un’epica storica, che, mentre conferma la giustezza dei valori per i quali i partigiani hanno combattuto, non nasconde la percezione soggettiva dell’insufficienza della gloria a risarcire il trauma esistenziale (ossia la comprensione della propria morta-lità), subìto da chi ha combattuto.

Vale la pena di approfondire alcuni di questi aspetti. Riprendendo considerazioni in parte già svolte altrove 4, cerchiamo innanzitutto di esa-minare meglio la fondamentale componente dell’« esperienza (ri)vissuta », ovvero dell’Erlebnis in AP e PJ. Nella sostanza, gli AP espongono in primo luogo la percezione dei fatti, che possono assumere una colorazione pro-pria ma sono comunque legati alla volontà di ricostruire un insieme di vicende che si concludono positivamente con la scrittura. Nel romanzo, Fenoglio arriva a quella che Dilthey chiamerebbe la « comprensione 5 », in cui l’esperienza viene rivissuta e dilatata sino ad assumere un valore uni-versale, che supera la condizione contingente dell’episodio per acquistare quella del « senso dell’esistere ». La « comprensione » dell’Erlebnis avviene all’insegna di una rilettura completa di quanto era avvenuto : e, per cono-scere il senso, occorre che gli episodi non siano privati della conclusione, ovvero che la vita dell’eroe non continui banalmente dopo la lotta (come è avvenuto al partigiano Beppe Fenoglio), ma trovi un suo compimento. La trama del romanzo, direbbe Brooks, seguendo Benjamin e Kermode, deve condurre a un significato che il flusso della vita non poteva garantire. L’eroe-sopravvissuto si rappresenta, nel testo, in veste di combattente al quale non è più data la pienezza del tempo della lotta, bensì la percezione della morte come sostanza della lotta stessa.

È allora lecito affermare che il « realismo » del PJ non viene raggiunto attraverso un’accentuazione della mimesi esplicita del parlato nei dialoghi (peraltro stilisticamente diversissimi dalle parti narrate), o attraverso pro-cedimenti narrativi volti a ottenere un « effetto di realtà » : Fenoglio pone

4. Si vedano gli studi di chi scrive citati in bibliografia, e in particolare, per approfondimenti sul rapporto tra AP e PJ, quello uscito nel 2003 su « Testo » (in un fascicolo-omaggio a Fenoglio, nel quaran-tesimo della morte).

5. Cfr. per questi aspetti Pranteda, Individualità…, specie 149 ss. Si veda anche Casadei, Romanzi di Finisterre, 19 e n. 13, sul concetto di Erlebnis e sulla bibliografia relativa.

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invece l’accento sul risultato che l’azione dell’eroe produce nell’epoca della guerra tecnologica, nella quale il partigiano appare come una pedina mossa in uno scacchiere enorme 6. « Realistico » è quindi rappresentare l’intera vicenda attraverso una chiave interpretativa che proponga il senso profondo degli avvenimenti, non la loro successione e il loro apparente buon esito : la grandiosità del pur giustissimo combattimento per il pro-prio popolo e la propria terra si sfalda di fronte all’apparente inutilità che, a posteriori, si riconosce nell’azione dell’eroe. L’epica allusa e re-interpre-tata da Fenoglio dovrebbe garantire l’oggettivazione-nobilitazione del pas-sato, ma finisce con l’essere contraddetta dalla soggettivazione degli eventi data dall’eroe che ripensa alla sua esperienza, e ne scopre il significato ultimo 7.

Tornando agli AP, va notato che non vi si trova l’elemento epico, se esso implica una tensione ad assolutizzare e nobilitare gli eventi. Ma biso-gna ricordare che esiste, nel dibattito critico attuale, una distinzione tra racconto eroico, che propone il resoconto di un’impresa, e epica, che pre-suppone un ripensamento, una rilettura inserita in un codice culturale spesso diverso da quello dei fatti narrati. A sua volta l’epica può manife-starsi in molteplici forme, da quella simbolico-analogico-ripetitiva della saga di Gilgamesh, a quella allegorica-storicizzante-puntuale dell’Iliade (che in questa prospettiva appartiene al versante dell’epica storica, poi

Alberto Casadei

6. Si pensi alla solitudine di Johnny, dopo che gli Alleati avevano ordinato lo scioglimento delle bande partigiane nell’inverno 1944-1945, senza tener conto della loro drammatica condizione di fuoriu-sciti : su questi aspetti si confrontino i lavori di Bigazzi e di Pavone. D’altra parte, la differenza radicale tra vita piccolo borghese e vita del partigiano viene rimarcata in passi come questo : « No, non c’era più nessun possibile rapporto, tra quella gente [la famiglia dell’industriale enologico B.] e se stesso, il suo breve ed enorme passato, Tito ed il Biondo, le vedette notturne, le corvées di rifornimento, le uccisioni » (564) : ma l’alterità del partigiano non garantisce il riconoscimento del suo eroismo, anzi lo rende ancora più vulnerabile nel momento della sconfitta (come mostrano i capitoli successivi all’episodio centrale del PJ, quello della conquista e, soprattutto, della perdita di Alba).

7. L’idea del realismo ora esposta si può configurare come l’interpretazione compiuta di un Erlebnis (o di una vicenda che ci viene presentata come Erlebnis), ottenuta grazie alla rielaborazione nella trama o nella struttura del romanzo di grandi forme narrative come l’epica, portatrici di un senso dato dalla tra-dizione : e grazie al paragone con i grandi romanzi di guerra è possibile confermarla ed estrapolarla, anche per l’analisi dell’intera narrativa contemporanea : cfr. in questo senso Casadei, Romanzi di Finisterre, specie 233-257. Assume una posizione diversa sul concetto di epica e sul suo (non) rapporto con l’Erlebnis Antonio Scurati nei suoi studi (specie in Sul realismo…) ; va però fatto notare che il rap-porto tra questi due concetti è appunto di non integrabilità anche per chi scrive, perché la ri-compren-sione della morte vissuta impone, al combattente-scrittore Johnny-Fenoglio, di separare la grandiosità epica delle battaglie dalla sua esperienza della drammaticità intima della lotta : e questo non per un rifiuto delle ragioni della guerra partigiana e universale (la resistenza rimane comunque un valore), ma per un progressivo prevalere del sentimento della morte personale. In altri termini, l’epica del PJ può essere definita « inutile » non quanto al suo valore oggettivo (e oggettivante i destini dei singoli), ma in quanto non più creatrice di eroi superiori alla morte, bensì di uomini che conoscono il senso della pro-pria morte (come nella Bataille de Pharsale di Claude Simon). Per ulteriori riflessioni, anche in senso attualizzante, sul rapporto epos/romanzo/matericità nell’opera di Fenoglio e di altri scrittori del secondo Novecento, si veda il lavoro di Ottonieri, 149-166.

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L’EPICA STORICA DI FENOGLIO

proseguita in àmbito latino fino all’espressione più esplicita del Bellum civile, da contrapporsi alla varie epiche simboliche orientali).

La strutturazione degli AP può essere avvicinata a quella del racconto di tipo eroico, cioè alla narrazione di fatti degni di essere conosciuti. Tuttavia, abbiamo visto, il protagonista non si propone ancora come eroe, perché viene privilegiata la certificazione della veridicità. E probabilmente il tasso più alto di fedeltà storica agli eventi nelle opere fenogliane è man-tenuto proprio in questi « appunti », non classificabili come semplice dia-rio ma sicuramente nemmeno come romanzo. Si tratta di un singolare tentativo di riattualizzazione della cronaca, senza un complessivo ripensa-mento o una forma di distanziamento, tale da far cogliere l’essenzialità di quanto è stato vissuto. Ma proprio il ripensamento e il distanziamento sono indispensabili nella modernità per rendere epica una vicenda. Il di-stacco dall’epica antica, in questo, non potrebbe essere maggiore : non serve la descrizione-nobilitazione dell’impresa compiuta (il suo essere oggettivamente portatrice di gloria) bensì la sua rivisitazione cognitiva, il far diventare l’accaduto parte di un (ipotetico) destino, rigorosamente con la minuscola, dal momento che, soggettivamente, la sorte dell’eroe non è più significativa in sé, non concede la gloria, la salvezza dall’oblio, ovvero il superamento terreno della morte. E questo è il processo che si attua nel PJ, in cui è evidente la dialettica tra assolutizzazione-nobilitazione-ogget-tivazione degli eventi (dal punto di vista del popolo che si è riconosciuto nei valori che avevano spinto alla guerra di Resistenza) e comprensione-svelamento della mortalità-soggettivazione (dal punto di vista dell’eroe che ha combattuto, ma non è riuscito a oltrepassare la morte) 8.

Nel PJ innanzitutto Johnny vorrebbe essere un eroe. In ciò è profonda-mente diverso dal Beppe degli AP, per il quale il problema dell’eroismo era subordinato a quello della testimonianza dei fatti accaduti. I suoi tratti psicologici fondamentali, tra snobismo e sentimentalismo, tra richiami a Lawrence d’Arabia e a Cromwell e progressiva perdita di ogni speranza di gloria, sono ben noti 9. Ma si possono ancora precisare, anche in rapporto

8. Sulle concezioni dell’epica, per la bibliografia più recente e per interpretazioni articolate si rinvia ai lavori di Burrow, Hainsworth, Limentani-Infurna, Zatti, nonché, per l’epos moderno, a quello di Fusillo, citati in bibliografia. Al di là delle osservazioni sulla poligenesi dell’epica, già proposte da Menéndez Pidal, è importante notare che la cultura cristiana aveva già da tempo, almeno dalla Chanson de Roland, ribaltato la prospettiva di un’epica senza trascendenza e unicamente legata alla gloria dell’eroe ; tuttavia, l’epica moderna pare fondarsi sostanzialmente sul contrasto tra aspirazioni del singolo e impos-sibilità di attingere un destino superiore.

9. Su questo, sempre fondamentali gli studi di Saccone ; ma si veda il contributo di Roberto Galaverni in Una vita come resistenza (mentre ne è in uscita un altro complessivo, nel quale Johnny viene letto come personaggio dai tratti singolari – soprattutto per la sua capacità di « dire no » – nell’ambito della narrativa italiana).

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al parallelo e nello stesso tempo divaricato percorso di Beppe negli AP, alcuni aspetti del trattamento narrativo della sua vicenda, soprattutto in quella parte (cioè la seconda del « libro grosso », che denominiamo Partigiano Johnny), nella quale viene perso ogni contatto con la vita mili-tar-borghese, rimasta al centro di Primavera di bellezza, prima della sua rapida quanto insoddisfacente chiusura partigiana. È stato affermato che la cronaca (ossia i tratti non essenziali della storia di Johnny) viene sfron-data nel passaggio dalla prima alla seconda redazione di PJ 10. Dato questo presupposto, è lecito sostenere che da un lato siamo di fronte a un ulte-riore distacco dallo statuto narrativo degli AP, dal loro voler esemplificare la vita partigiana nel suo insieme ; d’altro lato però la storia in quanto tale continua a costituire il fondamento del PJ, in cui si ripercorre una vicenda che, al di là della veridicità ed esattezza, diviene la parabola di un momento essenziale della vita nazionale, sempre più mistificato quanto più si allon-tanava nel tempo.

Che l’aspetto storico sia essenziale nel progetto fenogliano lo dimostra anche l’ancoraggio al destino collettivo soprattutto dal 1943 al 1945: il racconto che va dalla prima redazione posseduta di Primavera di bellezza all’UrPJ, cioè quasi sino alla fine della guerra, manifesta chiaramente l’idea di inserire nel contesto delle vicende nazionali il periodo della lotta parti-giana, nel quale Johnny doveva diventare l’eroe che la mediocrità borghese gli impediva di essere. Se così è, il grande stile, ora certificato solo dal seg-mento del PJ, non era di per sé segnale di una tendenza epica destoriciz-zante : si può invece parlare di una tensione a rendere epica la storia altri-menti soggetta alla variabilità della memoria e delle interpretazioni, sempre più ideologiche e distorte negli anni Cinquanta. Ma come viene ottenuta la reinterpretazione dell’epica storica, considerato che il linguag-gio rappresenta un aspetto fondamentale ma non unico di questo pro-cesso ?

L’epica storica moderna, così come è rappresentata dal PJ, mostra i segni della disgregazione dell’eroismo in quanto utopia di salvezza per il singolo e per la collettività. Fenoglio, scrittore senza ideologia (ma, certa-mente, non senza valori etici, specie quando si tratta di difendere la legit-timità della Resistenza), mette a confronto la storia delle vicende parti-giane decantata (resa quindi altra rispetto alla cronaca autobiografica) con l’esperienza della morte provata dall’eroe. Ed è quest’ultima a sancire il

Alberto Casadei

10. Per una sintesi della questione, si vedano le osservazioni di Isella nella sua edizione dei Romanzi e racconti (1491-1495), ma anche il volume di Cooke (dove peraltro si insiste sulla forma autobiografica della narrazione) e l’articolo di Maestri citati nella bibliografia.

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L’EPICA STORICA DI FENOGLIO

distacco dall’epica antica, perché l’eroe moderno combatte senza che la sua vittoria sul nemico porti gloria : l’avversario ucciso diventa sì un corpo trascinato nella polvere (per parafrasare Simone Weil), ma il punto è che il ripensamento fa comprendere al vincitore che il proprio destino non è diverso 11.

Non si tratta però di una forma di esistenzialismo « intellettuale » (per quanto alcune affinità con varie forme di esistenzialismo del dopoguerra siano riscontrabili). Il mondo senza Destino di Johnny, è un mondo in cui l’esperienza porta passo dopo passo alla perdita di ogni senso, anche quello della gloria, che pareva l’ultimo raggiungibile. La difesa del popolo (della « madre Langa » e dei suoi abitanti in primo luogo) dai nemici fascisti e nazisti, sempre ben identificabili e mai giustificati nelle opere di Fenoglio, e insomma i presupposti per un’azione pienamente epica dell’eroe riman-gono intatti, ma non sono sufficienti a giustificare il destino del singolo. Non si perde quindi il valore della Resistenza, ma quello della gloria (in tutti i suoi significati) dell’eroe. Se nell’epica iliadica la morte era parte integrante della battaglia, in una prospettiva immanentistica che non toc-cava il problema della sopravvivenza nell’Ade, nell’epica moderna il sopra-vvissuto comprende che la sua azione ha portato alla luce l’inevitabilità della morte anche del vincitore 12.

Il tratto forse più tipico della morte « che non dispensa gloria » è quello della riduzione del combattente a una totale impotenza, quasi diventasse

11. In quest’ottica, si giustifica il confronto in vari modi ribadito tra Johnny e Ettore (sino all’esplici-tazione di passi come « La sua congenita, Ettorica preferenza per la difensiva » (461). Ma resta la diffe-renza fondamentale della non-giustificazione del destino di Johnny, che non viene mai fatto rientrare in un piano divino, sia pure imperscrutabile. Quanto agli elementi epici nel PJ, oltre a quanto notato in vari studi (soprattutto in quello di Rossella Bessi), si possono proporre ulteriori campionature, a volte da valutare contestualmente. Si prenda per esempio l’attacco del capitolo La Città 1, che segna l’inizio dell’azione dell’impresa di Alba : « L’alto mattino del 10 ottobre mossero per la città » (649). Il sintagma « alto mattino », non eccezionale nel PJ (cfr. « fino all’alto mattino », 483 ; « Si svegliò e si levò nell’alto mattino », 818), e forse esemplato su « alta notte », assume qui una coloritura più forte (per la posizione incipitaria e per l’asciutta solennità della frase), che può anche rinviare all’ampio e caratterizzante uso dell’aggettivo « altus » soprattutto nell’Eneide (per es., I. ; 7 « altae… Romae » ; 429 « alta decora » ecc.).

12. Una considerazione a parte sull’UrPJ. Le ipotesi, pur plausibili, sulla futura morte di Johnny durante la missione presso gli Inglesi (cfr. UrPJ, 199 : « And then fear wildly distracted his countenance for a clear voice of a Cassandra in his inside told him quite distinctly : « You shall die over those hills » ; o anche 331, dove si riporta un pensiero di Johnny : « I can’t absolutely die in those days, the last days, my life can’t afford it ! ») non impongono una lettura drammatica di questi capitoli, neppure del IX, che pure propone il racconto assai teso di una delle ultime battaglie partigiane (quella a Montemagno), d’al-tronde terminata non negativamente (cfr. UrPJ, 310-321) ; e neppure del X, in specie del finale della parte superstite (UrPJ, 362-365), in cui viene narrato uno scontro potenzialmente pericoloso. Il fatto è che, in questa sezione, gli aspetti cronachistici tornano a prevalere, e Johnny non è più il combattente ma il messaggero, coinvolto in una lotta condotta da altri (e anche il linguaggio mescidato non è sufficiente a rendere epico il racconto). Per altre considerazioni, cfr. soprattutto Bigazzi (87-117) e Saccone (53-96, specie 90-96).

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un pupazzo da colpire a una fiera. In quest’ottica, un’immagine « osses-siva» in Fenoglio è quella dei nemici che, come a un tirasegno, sono pronti a colpire :

PJ, Inverno 1 : « Restavano fermi, come al banco di un tirasegno, miravano e sparavano agiata-mente » (778)

Si vedano anche i finali del racconto L’andata e di Una questione privata :L’andata : « allineati a sparare come al banco d’un tirasegno » (33)

Una questione privata : « allineati come al banco di un tirassegno » (1125)

In corrispondenza a questa situazione in cui il combattente è alla mercé dei nemici (e non può quindi in alcun modo dimostrare il suo eroismo), si trova quella della morte che riduce a « marionetta » :

PJ, Inverno 7 : « Il marmocchio stridette, Ivan sparò il primo, di pistola, e uno dei fascisti tra-ballò, come uno scosso burattino dai piedi impiombati » (837) 13.

La morte priva di gloria porta esattamente a questo, alla percezione che la perdita della vita riduce a materia inerte ogni precedente costruzione biologico-biografica : il corpo morto non riceve un senso dalle imprese compiute.

Si potrebbe citare in questo senso un passo del PJ in cui Johnny riflette, come spesso gli capita, sul suo destino, dopo essere scampato ancora una volta alla morte imminente :

Sentiva tutto il suo corpo felicemente vivo e perfettamente funzionante, come non mai, eppure una pallottola, prima di molto, l’avrebbe bloccato e poi corrotto. Cuore e polmoni, testa e mani. Guardò il sole, con la consapevolezza che stavolta non l’avrebbe visto tramontare. Poteva succedergli dovunque, al margine del bosco o ai piedi di un albero, in zona d’ombra o di luce, poteva cadere mentre risaliva il pendio e chissà fin dove sarebbe rotolato il suo corpo. E come sarebbe rimasto, prono o supino? e quali mani l’avrebbero toccato? (741).

L’impossibilità di difendere il corpo morto corrisponde alla sua « inglo-riosità » : non i funerali epici, gli onori funebri resi agli eroi, ma l’essere ridotto a materia inerte e manipolabile è il destino di chi voleva essere eroe. Una riprova (con un importante correttivo) può essere data dalla descrizione di un particolare cadavere, quello di un caro compagno di Johnny, il sergente Miguel, che viene collocata in un punto del racconto nel quale si comprende che la battaglia per la difesa di Alba è perduta :

Alberto Casadei

13. L’immagine della marionetta segnala anche in altri casi la disumanizzazione, soprattutto dei nemici fascisti : PJ, Preinverno 5 : « [i fascisti] neri contro il cielo, con gesti e mosse macchinali di mario-nette su quella eccelsa ribalta » (762). E si veda anche L’andata : « da così distante [tre uomini in arme] sembravano marionette » (27). Comune è l’elemento della meccanicità priva di sostanza umana, al quale però, nell’immagine riportata a testo, viene aggiunta una componente di gravità già quasi mortuaria (i piedi « impiombati »).

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L’EPICA STORICA DI FENOGLIO

[Johnny] si tuffò nel fango e nuotò verso Miguel. Lo tirò giú per i piedi nel canale, lo rivoltò, era leggero e docile. Lo stese, tenendogli una mano sotto la nuca legnosa. La pallottola gli era entrata in fronte, alta sull’occhio sinistro, un piccolo buco pulito, ma enorme a considerarlo al centro della chiusa sealedness della faccia. II sangue spicciante aveva, come l’acqua, una diffi-cile e svariata via, acqua e sangue lottavano con alterno successo ad arrossargli e risbianchirgli la faccia. Johnny incombette su lui, freddo e muto, sentendosi come mutilato. Dalle mura di S. Casciano partì il terrificante segnale della ritirata. Il panico afferrò i minorenni in trincea. Johnny spinse il cadavere di Miguel infilandolo dai piedi nel tubo di cemento, che la sua piú nobile parte stesse al riparo dalla pioggia verminosa (PJ, 702)

A parte i tratti terribili della sproporzione fra il « piccolo buco pulito » e le sue conseguenze per colui che era Miguel, va notato il carattere di materiale inerte attribuito al cadavere, « legnoso » (come appunto una marionetta), e ormai in ogni senso giunto alla sua « sigillatezza » («sea-ledness »). Ma almeno qui la pietas di Johnny, pur non potendo garantire la gloria, spinge comunque a un gesto in difesa della dignità di un fedele compagno, perché la « pioggia verminosa » (ovvero gli elementi naturali, ormai ostili, come l’intero mondo, a chi è sconfitto o addirittura annien-tato) non distrugga « la sua [di Miguel] più nobile parte » : una minima sostituzione degli onori funebri per l’eroe.

È stato in varie forme sostenuto che il linguaggio « assolutizzante » del PJ (sia nella prima che nella seconda versione, pur con le differenze già accer-tate) garantirebbe il passaggio dalla cronaca all’epica, in quanto visione e comprensione superiore degli eventi 14. D’altra parte, gli elementi storici e vissuti, benché non più còlti in una prospettiva di cronaca o di diario nar-rativizzato (e quindi deformati o aggiustati per il nuovo tessuto del rac-conto), restano ancoraggi evidenti nel testo, che è romanzo ovvero vicenda di un protagonista immerso in una trama che riguarda la collettività, con un destino da interpretare soggettivamente ma certificabile oggettiva-mente, appunto in quanto storia.

Che Fenoglio pensasse al « libro grosso » come summa della sua rifles-sione sull’esperienza partigiana è indubitabile ; che comunque non si trat-tasse di un romanzo in quanto mera opera di finzione era pure da lui per-

14. Si vedano in particolare i lavori di Beccaria (ma anche, per posizioni diverse, quelli di Corti e Bricchi). Va però sottolineato che non si può considerare lo stato provvisorio del testo di PJ una giustifi-cazione per sminuire la sua tensione di tipo espressivistico (o espressionista, ma non in senso gaddiano) : per esempio, benché sia indubitabile che gli inserti di termini inglesi sarebbero stati ridotti o addirittura eliminati nella versione definitiva, lo scarto metaforico sarebbe rimasto senza dubbio fondamentale nella narrazione, come si può evincere anche solo da un passaggio quale : « wringed in its desertness » (PJ1, 533) > “ai loro occhi si elettrizzava quasi per deserticità » (PJ2, 1506). Evidente poi, e da studiare ulte-riormente, la radicale differenza in entrambe le redazioni di PJ tra narrato e dialogato, quest’ultimo improntato ai canoni neorealistici-americani (e tale contrasto risulta particolarmente fruttuoso per la creazione di uno stile adatto a una narrazione epico-storica).

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cepito, come possiamo ricavare dalla sua « poetica implicita », ovvero dalle fugaci, non sistematiche eppure significative dichiarazioni che cogliamo nei suoi scritti, e in particolare nell’epistolario. A Calvino il 21 gennaio 1957 scrive : « Sto effettivamente lavorando a un nuovo libro. Un romanzo propriamente non è, ma certo è un libro grosso (alludo allo spessore) » (Lettere, 82). In genere viene ricordato il riferimento al « libro grosso » relativo al quinquennio 1940-1945, ancora in prima stesura, ma qui si vuole invece mettere il rilievo la consapevolezza di non star scrivendo un romanzo, quasi certamente da intendersi nel senso di opera co-struita su trame fittizie, con vicende intrecciate ad arte. Ciò viene ribadito nella let-tera a Garzanti del 10 marzo 1959, nella quale si legge : «… in Primavera di bellezza ho cercato di fare romanzo con modi aromanzeschi » (Lettere, 105) : e in effetti, il punto essenziale della fedeltà al romanzo non d’intrec-cio viene mantenuto anche nel testo edito (sia pure deprivato quasi intera-mente, eccetto che nel capitolo finale, della grandiosa dialettica tra ogget-tività epica e soggettività dell’Erlebnis 15).

Allora, la definizione di epica storica può corrispondere alle intenzioni di Fenoglio di tradurre la sua vicenda vissuta, che avrebbe potuto condurlo verso la forma diaristico-autobiografica, in un romanzo (nel senso di novel, di opera che riguarda il singolo nella storia), che però non si doveva limi-tare a esprimere l’esperienza soggettiva in un intreccio più storico che fit-tizio, ma doveva indicare la sorte dell’eroe nella modernità : la gloria bel-lica, l’equivalente epico e laico della sopravvivenza dopo la fine biologica,

Alberto Casadei

15. Un’ulteriore riprova della consapevolezza fenogliana delle diverse scelte stilistiche viene ancora dalla lettera a Garzanti, dove, dopo il passo citato a testo, si legge : « nel nuovo libro mi avvarrò di tutti gli schemi ed elementi più propriamente romanzeschi » (Lettere, 105). Ciò avviene in sostanza già nei Frammenti di romanzo – ovvero L’imboscata — e poi soprattutto in Una questione privata, grazie alla costruzione di una trama con tratti da romance, di recente indagata da Gabriele Pedullà e Orsetta Innocenti anche per le sue componenti intertestuali. Le quali peraltro si fanno più evidenti in molti testi dell’ultima produzione di Fenoglio : per esempio, non sarà un caso che nell’Ebreo di Malta di Marlowe (opera che il Milton dei Frammenti – Imboscata traduce : cfr. cap. 2, ed. Isella, 883) il malvagio protago-nista cada alla fine nella trappola da lui stesso preparata, così come avviene nell’incompiuto romanzo fenogliano. Una nota su Primavera di bellezza, testo del quale andrà compiuta una nuova analisi auto-noma, ma che senza dubbio mostra un inconciliabile stacco stilistico (in senso normalizzante-neoreali-stico) rispetto a PJ2. Prendiamo un esempio fra i tanti già esaminati (specie da Bricchi), ma qui integra-bile con un riferimento ad AP. L’immagine del paese di Castino in preda alle fiamme in PJ («Diciotto torri di fumo, compatto, inscuotibile anche da vento forte, sorgevano dal paese, senza movimento di uomini intorno agli stakes di quel fuoco gigantesco », 741) rielabora in senso drammatico e in grande stile (si noti il raro « inscuotibile ») quella molto più descrittiva degli AP : «…sempre fumo sul paese, ma non più a cupola, ma in diciotto torri. Vuol dire che Castino è presa, i nostri spazzati dopo aver fatto anche troppo, e diciotto case bruciano » (cap. V, 46). Nel capitolo 17 di Primavera di bellezza l’immagine torna in questa forma : « Trenta torri di fumo sorgevano su Garisio, sulle case cannoneggiate, di un fumo nero e carnoso, resistente anche al vento il più teso. Non si vedeva movimento o attività di uomini alla base di quel rogo gigantesco » (417) : a parte l’iperbole iniziale, la descrizione diventa secca e compatibile con i canoni neorealistici e americani (esemplare il passaggio inscuotibile > resistente), ossia pienamente riconducibile a un romanzo di guerra degli anni Cinquanta.

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L’EPICA STORICA DI FENOGLIO

non riscatta il destino ormai interamente terreno dei combattenti, né serve a garantire la sopportabilità della morte-vissuta e della morte-vista 16. Un romanzo epico-storico, appunto, come doveva essere il libro grosso nel suo insieme, e come tuttora ci testimonia, nella sua punta più alta, il PJ.

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16. La componente della morte del protagonista resta fondamentale (ma diversamente giustificata) pure nei romanzi successivi, sebbene risulti più controversa quella di Milton in Una questione privata. A questo proposito si noti un particolare (oltre a quanto già segnalato, da chi scrive, negli studi citati in bibliografia). In Primavera di bellezza, il progressivo avvicinarsi di Johnny alla morte è suggerito dallo svanire delle percezioni vitali consuete, come mostra bene il seguente passo : « Qualcuno lo chiamava dal profondo del vallone, una voce già lontanissima » (421, c.n.) ; forse non casualmente il procedimento si ripete, con qualche differenza, nel finale della Questione, dove Milton « correva, e gli spari e gli urli sce-mavano, annegavano in un immenso, invalicabile stagno fra lui e i nemici » (1127, c.n.).

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Alla ricerca del romanzo.

«Di romanzesco o di forzato non c’è nulla; quindi non è un romanzo: so-no, propriamente delle memorie»

M.me de La Fayette(a proposito de La princesse de Clèves)

«Questo romanzo non è un romanzo»Jean-Jacques Rousseau,

(seconda Prefazione a La Nouvelle Eloïse)

«Ma questo romanzo non è un romanzo»Denis Diderot

(Jacques le fataliste et son maître)

Al principio del 1960, quando ha appena cominciato alavorare a Una questione privata, Fenoglio ha trentotto an-ni ed è sul punto di ottenere finalmente i riconoscimentiche merita. Ha all’attivo tre libri: I ventitre giorni della cittàdi Alba (1952), La malora (1954) e Primavera di bellezza(1959); è impiegato presso un’importante azienda enolo-gica di Alba, per la quale cura i rapporti commerciali conl’estero, e nel giro di qualche mese si sposerà con Lucia-na Bombardi, una sua antica conoscenza degli anni del li-ceo. Il tempo per la scrittura viene ancora faticosamentestrappato alle altre incombenze lavorative, ma il «narra-tore piemontese noto solo a ristretti circoli culturali», co-me lo stesso Fenoglio si era definito in una lettera a LivioGarzanti appena qualche mese prima (29 maggio 1959),sta chiaramente per infrangere il muro della notorietà re-gionale. Gli indizi del successo imminente ci sono tutti.Il mondo della cultura, non più solo piemontese, lo guar-da con interesse crescente: Primavera di bellezza ha ven-duto bene (duemilacinquecento copie nel primo mese emezzo) e ricevuto un gran numero di recensioni (circa cen-tosessanta); i letterati che ruotano attorno alla rivista «Pa-ragone» (l’albese fiorentinizzato Roberto Longhi, AnnaBanti, Attilio Bertolucci…) lo tengono nella massima con-siderazione; Italo Calvino a nome dell’Einaudi e Pietro

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stenza è per lui soltanto un tema tra i molti possibili.

Basta coi partigiani.

L’identificazione di Fenoglio con la letteratura dellaResistenza, che oggi ci appare quasi scontata (la Resi-stenza come centro di gravità dell’intera sua opera, a pre-scindere dalla qualità, spesso altissima, dei suoi raccontidi argomento contadino) si giustifica soltanto a posterio-ri. Al contrario Fenoglio aveva sempre pensato alla «ma-teria partigiana» come a una tappa necessaria ma transi-toria del proprio percorso di scrittore. Nelle annotazioniprivate ricorrono con una certa frequenza altri progetti,per esempio quello di scrivere finalmente un libro su Al-ba, sulla propria città in tempo di pace, come Fenoglio siripromette almeno dal 1954.

Passano gli anni e Fenoglio diventa sempre più espli-cito in merito a questa volontà di non rimanere attaccatoalla Resistenza e di confrontarsi con altre vicende. Inun’intervista a Pietro Bianchi apparsa su «Il Giorno» il19 gennaio 1960, mentre lo sappiamo impegnato alla sce-neggiatura per Questi e alla prima versione di Una que-stione privata, eccolo per esempio dichiarare: «Sto scri-vendo un romanzo che sarà il seguito di Primavera di bel-lezza e che comprenderà i due anni tragici del ’44 e del’45. E poi basta con i partigiani». Ufficialmente (ma an-cora per poco) l’obiettivo rimane insomma rimettere ma-no a quella continuazione di Primavera di bellezza che, gra-zie alle cure postume degli editori, sarebbe diventata Ilpartigiano Johnny. In realtà Fenoglio ha già rivolto altro-ve i propri pensieri. Come per tanti altri autori della suagenerazione (Calvino, Marcello Venturi, Franco Fortinie, almeno in parte, Mario Rigoni Stern e Primo Levi), laResistenza anche nel suo caso dovrebbe rappresentare so-lo il punto d’avvio della sua attività di narratore, la gran-de esperienza sulla quale non si può fare a meno di tor-

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Citati (più lo stesso Bertolucci) a nome della Garzanti sicontendono il suo prossimo libro… Da qui in avanti lastrada dovrebbe essere in discesa.

In quel 1960 a Fenoglio arrivano da più parti nuove of-ferte di collaborazione. Anche se nessuna di esse sarebbeandata in porto, oggi sono particolarmente utili per capi-re come Fenoglio venisse percepito dal mondo letterarioitaliano in un momento così decisivo per la sua attività discrittore e come lui stesso meditasse di amministrare leproprie energie creative. Un giovane documentarista, an-ch’egli ex partigiano, Guido Questi, ha letto Primavera dibellezza e ne è rimasto conquistato; vorrebbe che Feno-glio scrivesse per lui una sceneggiatura originale per unfilm da ambientare durante la Resistenza, e dopo alcunicontatti telefonici, al principio di gennaio si reca ad Albaper incontrarlo di persona, ricevendo da lui, nei giornisuccessivi un soggetto che segue da vicino la prima stesu-ra di Una questione privata. La proposta di Questi non hanulla di particolarmente insolito, tanto che pochi mesi do-po Fenoglio ne riceverà una analoga da Gianfranco Bet-tetini, futuro teorico del mass media ma all’epoca giova-ne regista televisivo tentato dal cinema, conosciuto du-rante il quiz a premi «Campanile sera» che per ottosettimane di seguito era stata ambientato al Alba. Gli an-ni Cinquanta sono la stagione d’oro del cinema italiano,a Cinecittà girano molti soldi e cercare la collaborazionedi romanzieri affermati è pratica assai comune. A diffe-renza di Questi, Bettetini gli chiede però un soggetto diargomento contadino, in linea piuttosto con La malora, ariprova che, ancora all’inizio del 1961, il mondo del ci-nema e più in generale il pubblico dei lettori non perce-pisce Fenoglio come il cantore per eccellenza della guerrapartigiana o che comunque gli riconosce almeno una du-plice specializzazione: le Langhe e la Resistenza. Lo stes-so Fenoglio, a quest’altezza della sua vita non pensa af-fatto a se stesso come a un narratore monotematico, diun’unica grande storia; per quanto importante, la Resi-

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chiudere interamente i conti col proprio passato di parti-giano. E’ mosso da questa nemmeno troppo segreta spe-ranza che con ogni probabilità, dopo La malora, Fenogliocomincia a lavorare a un «libro grosso» (come vedremo,l’espressione è sua), composto originariamente in inglesee poi tradotto in italiano. Come scrive a Calvino al prin-cipio del 1957, nel bel mezzo della stesura, «il libro ab-braccia il quinquennio 1940-1945» (lettera del 21 gen-naio), vale a dire tutto il periodo di tempo che va dalla di-chiarazione di guerra alla Liberazione. Nei suoi disegniun simile romanzo dovrebbe insomma saldare una voltaper tutte il «debito» che Fenoglio, come ogni scrittore,ha contratto con il proprio tempo e la propria biografia,lasciandolo libero, se vorrà, di occuparsi d’altro. Per unaserie di ragioni il progetto non va però in porto. Le di-mensioni del volume crescono ben oltre il previsto, e conesse le pressioni di Garzanti, che sollecita a Fenoglio laconsegna del romanzo, mentre la riscrittura italiana si ri-vela assai più complicata del previsto. Messo alle strette,Fenoglio concepisce l’ipotesi di una pubblicazione in duevolumi, con l’8 settembre e lo sbandamento dell’esercitoa fare da cesura. Di fronte alla freddezza dell’editore neiconfronti di una simile soluzione (difficile, d’altronde, da-re torto a Garzanti, ancora impegnato nella vicenda diQuer pasticciaccio brutto de via Merulana, di cui Gadda ave-va consegnato la prima parte nel 1957, promettendo dicompletare rapidamente il giallo, che invece da quel mo-mento sarebbe rimasto incompiuto), Fenoglio cambia im-provvisamente idea: aggiunge tre capitoli e chiude in tut-ta fretta il romanzo.

A rimanere fuori è esattamente quello che Fenoglioaveva inizialmente immaginato come il baricentro del vo-lume, vale a dire la lotta di Johnny sulle colline delle Lan-ghe. Il risultato di un simile intervento di riscrittura è in-fatti lo sdoppiamento del «libro grosso» in due opere di-stinte, Primavera di bellezza e Il partigiano Johnny,quest’ultima rimasta inedita e a uno stadio molto varia-

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nare e che anzi rappresenta un incentivo ulteriore allascrittura, secondo il tipico corto circuito che nei coetaneidi Fenoglio viene a istituirsi tra vocazione letteraria e chia-mata partigiana. Senza però che questo implichi necessa-riamente la condanna a ripetere all’infinito quell’unicastoria, ancora e ancora.

«E poi basta con i partigiani». Il percorso, artistico eumano, di Fenoglio e dei suoi coetanei andrebbe raccon-tato come la storia di una generazione di doppi reduci: re-duci dalla guerra innanzitutto, nelle diverse forme in cuii nati negli anni Venti ne avevano fatto esperienza (lottapartigiana, campagna di Russia o d’Africa, deportazionein Germania…), ma reduci anche dai temi e dalle formedel proprio esordio letterario, che non potevano essere re-plicati all’infinito, pena la trasformazione in cliché. Co-me evolvere rimanendo se stessi? Come diventare degliscrittori «normali» senza tuttavia tradire la propria gio-vinezza? Gli autori emersi con la Resistenza si sono do-vuti confrontare tutti precocemente con l’incognita delsecondo libro. Un secondo libro che, naturalmente, pote-va anche essere il terzo o il quarto, ma che simboleggiavacomunque il commiato dalle storie e spesso anche dallostile del romanzo o dei racconti con cui si erano impostisulla scena letteraria. Nella generazione di Fenoglio le ri-sposte sono state le più diverse: dalla fedeltà assoluta aun’idea tutta vittoriniana di impegno (in Marcello Ven-turi) al movimento retrogrado di Rigoni Stern, che daipropri ricordi bellici risale verso la Grande Guerra intesacome sorgente di tutte le tragedie novecentesche, dallascelta di Calvino di valorizzare gli elementi fantastici delromanzo d’esordio (facendone il trampolino di lancio ver-so la fiaba e verso il racconto strutturalista) a Primo Le-vi, che, esaurito il patrimonio di memorie private e col-lettive, giunge al romanzo (La chiave a stella) e poi al ro-manzo storico (Se non ora, quando?), sino a farsi«storiografo di se stesso» ne I sommersi e i salvati.

Prima di lasciare la Resistenza, Fenoglio intende però

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mente una sconfitta o comunque l’indice di una crisi; tut-tavia, se dovessimo indicare il vero punto di svolta nel-l’opera letteraria di Fenoglio, l’evento che ha determina-to (anche a causa della morte prematura) la sua immaginedefinitiva, non sarebbe sbagliato probabilmente collocar-lo qui, nell’istante in cui Primavera di bellezza si scinde indue tronconi separati e soltanto il primo di essi raggiun-ge la tipografia. Come la lettera a Garzanti indica conchiarezza, il naufragio del progetto originario modifica inun colpo solo l’atteggiamento di Fenoglio nei confronti diquella stagione eccezionale della propria vita. Sinora Fe-noglio ha ragionato in termini di testimonianza: raccon-tare la propria storia (la storia della propria generazione,dei propri compagni sopravvissuti e di quelli morti), farrivivere sulla pagina gli eventi terribili e grandiosi ai qua-li ha preso parte e poi spostarsi altrove, scrivere un ro-manzo su Alba o magari una serie di racconti di argomentomarinaresco alla maniera di Stevenson e di Poe. Assolve-re un compito, per poi dedicarsi ad altro e diventare unromanziere senza aggettivi, capace di parlare anche delproprio tempo (di pace).

In questo quadro la rinuncia al «libro grosso» cheavrebbe dovuto dire la parola definitiva sulla Resistenzaprovoca uno smottamento generale. Il ciclo di Johnny fal-lisce e dalle sue macerie nasce una miriade di nuovi rac-conti. Ogni volta che Fenoglio crede di avere per le manila storia definitiva, la matrice ideale di tutte le avventu-re partigiane con cui finalmente chiudere questo capitolodella sua carriera letteraria, gliene si presenta un’altra, an-cora più irrinunciabile di tutte quelle che ha scritto sinoa questo momento e pretende di essere raccontata. Pocoper volta, anzi, è come se Fenoglio si rendesse conto del-l’impossibilità di esaurire in un colpo solo la Resistenza ecominciasse a rassegnarsi all’idea di una costellazione dilibri diversi ambientati durante la guerra. Forse è proprioseguendo questo ragionamento che, tra il 1959 e il 1960,assistiamo nel giro di pochi mesi a un’improvvisa prolife-

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bile di revisione. Nella sua forma definitiva, infatti, Pri-mavera di bellezza può essere definito solo molto parzial-mente un romanzo di argomento resistenziale, perché lascelta del protagonista di farsi partigiano e il battesimodel fuoco in una sfortunata imboscata coincidono adessocon la sua morte e con la fine del racconto. Il romanzo cheera stato concepito appositamente per chiudere i conti conl’epopea della collina arriva adesso a stento ad accennar-la nelle ultimissime pagine del volume.

L’esperienza autobiografica come risorsa ma anche co-me prigione. Che Fenoglio pensasse al «libro grosso» co-me al proprio addio definitivo alla Resistenza lo com-prendiamo ancora meglio dalla lettera a Livio Garzantinella quale parla dei propri nuovi progetti nell’imminen-za dell’uscita di Primavera di bellezza e scrive che «la mor-te di Johnny nel settembre 1943 mi libera tutto il camporesistenziale» (10 marzo 1959). Ora, alla vigilia della pub-blicazione del romanzo, Fenoglio può persino salutare co-me un evento positivo questa impossibilità di liquidaretutto assieme il periodo 1940-45, ma le parche dichiara-zioni degli anni precedenti ci fanno capire che sino a quelmomento aveva lavorato alla storia di Johnny esattamen-te con l’obiettivo opposto: esaurire la materia partigianauna volta per tutte, affrancarsi dal proprio dovere di te-stimone facendo confluire in un unico libro la trasfigura-zione fantastica della propria esperienza. L’euforia di Fe-noglio di fronte al fallimento del «libro grosso» appareper lo meno sospetta e nasconde in realtà un profondo im-barazzo, il senso di uno scacco. Ancora una volta la Resi-stenza è rimasta fuori dal quadro; l’epopea di Johnny nonriesce nemmeno a cominciare.

Dopo il libro grosso.

La decisione di abbandonare al suo destino di scarta-faccio la seconda parte del romanzo rappresenta sicura-

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sbagliato però non attribuire a questo passo tutta l’im-portanza che merita, dal momento che l’idea secondo cuiPrimavera di bellezza e Il partigiano Johnny non sarebberoin tutto e per tutto dei romanzi non ha nulla di estempo-raneo ma è il frutto di una convinzione profonda, comedimostra il fatto che tale giudizio venga confermato in unalettera a Livio Garzanti in cui Fenoglio annuncia all’edi-tore i propri nuovi progetti. Ecco allora che a due anni didistanza, il ragionamento di Fenoglio ruota attorno al me-desimo concetto: «mentre in Primavera di bellezza ho cer-cato di fare romanzo con modi aromanzeschi, nel nuovolibro mi avvarrò di tutti gli schemi ed elementi più pro-priamente romanzeschi» (10 marzo 1959). Il passo di Fe-noglio si riferisce in questo caso al primo dei due libri scrit-ti di getto nell’anno e mezzo successivo alla pubblicazio-ne di Primavera di bellezza, quello che noi leggiamo oggisotto il nome de L’imboscata (il titolo con il quale DanteIsella ha ribattezzato il canovaccio di romanzo pervenu-toci incompleto e anepigrafo), ma è essenziale per com-prendere anche la gestazione di Una questione privata. An-cora una volta torna il giudizio sulla storia di Johnny (un«romanzo con modi aromanzeschi»), accompagnato dauna sommaria caratterizzazione del progetto in corso cheoccorre leggere con grande attenzione: «il nuovo libro,anziché consistere in una cavalcata 1943-1945, si con-centrerà in un unico episodio, fissato nella estate del 1944,nel quale io cercherò di far confluire tutti gli elementi egli aspetti della guerra civile. Mentre Primavera di bellez-za è libro lineare, in quanto parte da A per giungere a B,il nuovo libro sarà circolare, nel senso che i medesimi per-sonaggi che aprono la vicenda la chiuderanno».

Non siamo all’abiura, né alla palinodia, ma è chiaro cheda questo momento gli interessi di Fenoglio prendono unadirezione molto diversa rispetto al passato. Abbandona-to il ciclo di Johnny, tutti i suoi sforzi sembrano conver-gere ora in una sola direzione: fondare il «vero» roman-zo partigiano. Ma come è fatto un «vero» romanzo par-

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razione di trame partigiane. Dalla crisi è improvvisamente emerso uno scrittore

nuovo. Innanzitutto Fenoglio punta adesso al romanzocon una determinazione del tutto inedita. Sul suo imba-razzo dinnanzi alle narrazioni più distese pesa lo scaccodel primo fallimento con l’Einaudi, dove Vittorini gli ave-va rifiutato La paga del sabato inducendolo a trasformareun paio di capitoli in altrettanti racconti da inserire ne Iventitré giorni della città di Alba. A distanza di due anni,in una lettera a Vittorini, si sentono ancora le tracce diquel ripudio originario: «Molto probabilmente non pos-siedo ancora, se mai lo possiederò, il fondo del romanzie-re. Non conosco ancora le 4 marce, per esprimermi contermine automobilistico» (9 giugno 1953). Certo, Feno-glio sa benissimo che il romanzo non si distingue dalle nar-razioni brevi unicamente per la sua mole. A fare la diffe-renza è qualcosa di più, forse davvero un ritmo diverso:non certo le dimensioni. Tutte le sue energie di scrittoreal momento sono concentrate su questo solo punto, ma ilromanzo continua ad essere presentato nell’epistolario diFenoglio come il grande assente, il genere letterario lun-gamente vagheggiato e tuttavia irraggiungibile, fuori por-tata, ancora e ancora. Ecco per esempio che cosa scrive aCalvino del progetto di un «libro grande» sulla Resisten-za in quella che è in assoluto la prima testimonianza a pro-posito dell’epos di Johnny (ancora non separato in duetronconi): «Sto effettivamente lavorando a nuovo libro.Un romanzo propriamente non è, ma certo è un libro gros-so (alludo allo spessore)» (21 gennaio 1957). L’afferma-zione di Fenoglio — a volerla prendere con la serietà chemerita — desta un sincero sconcerto. Primavera di bellez-za e Il partigiano Johnny non sarebbero dunque «propria-mente» dei romanzi? Per noi, che siamo portati a scorge-re nella vicenda di Johnny la quintessenza della narrativaresistenziale e magari il metro attraverso cui valutare lariuscita o il fallimento di tutti i tentativi analoghi, un si-mile giudizio rischia di suonare incomprensibile. Sarebbe

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proprio in questo senso che molto probabilmente Feno-glio parlava di un «romanzo con modi aromanzeschi». Daibanchi del liceo al corso per allievi ufficiali, dalla comodavita di imboscato sulle pendici di Alba alle formazioni ga-ribaldine e badogliane, dal terribile inverno del 1944 allabattaglia di Valdivilla, il percorso di Johnny assomiglia aquello di tanti coetanei ma soprattutto ai resoconti veri-dici pubblicati in volume o in rivista da tanti reduci comelui — in ossequio a un meccanismo narrativo che può farpensare anche ai grandi romanzi di formazione ottocen-teschi, con quel tanto di elementi picareschi che ogni Bil-dung contiene: le peripezie, sempre diverse e cangianti, diun ragazzo che si affaccia alla soglia della vita adulta. Senon altro da questo punto di vista, Primavera di bellezza eIl partigiano Johnny sono romanzi scritti come testimo-nianze di vita vissuta per i quali, nonostante l’adozionedella terza persona singolare e la morte finale del prota-gonista, si potrebbe ripetere la celebre battuta pronun-ciata da Svevo a proposito di Zeno: «un’autobiografia,ma non la mia». Che il rischio di attribuire indebitamen-te a Fenoglio azioni e pensieri del suo alter ego letterariodi turno sia più forte in questi due romanzi che in qua-lunque altro testo di argomento partigiano, Una questio-ne privata in testa, è la conferma che, più ancora che la so-miglianza oggettiva tra le esperienze di Johnny e quelle diBeppe, sono la stessa struttura lineare del racconto e lavolontà di raccontare senza omissioni l’intera vicenda re-sistenziale a favorire l’equivoco tra la trascrizione auto-biografica e la finzione romanzesca.

La novità strutturale di Una questione privata rispettoal ciclo di Johnny salta subito agli occhi. Nel «libro gros-so» spetta al protagonista tenere assieme le fila della nar-razione, garantendo coerenza e unità alle diverse vicen-de. Anzi: Primavera di bellezza e Il partigiano Johnny sono«aromanzeschi» precisamente nella misura in cui non èl’intreccio ad assicurare la coesione del libro ma il perso-naggio. Basta che egli si sposti, che imbocchi un sentiero

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tigiano? E perché, soprattutto, Primabera di bellezza e Ilpartigiano Johnny «propriamente» non lo sono? Lungoquesta strada il progetto de L’imboscata, abbandonato do-po pochi mesi di lavoro a vantaggio di Una questione pri-vata, costituisce unicamente la prima tappa di un percor-so accidentato. Per comprendere il senso dell’ultima fasedella narrativa fenogliana bisogna partire da qui, cercan-do di afferrare il senso di questo duplice, sorprendentegiudizio che nega a Il partigiano Johnny di appartenere aquel genere letterario — il romanzo — al quale tutti spon-taneamente lo ascrivono.

Finché però non si chiarisce che cosa esattamente Fe-noglio intendesse con questo termine, è impossibile veni-re a capo della questione. La prima constatazione ele-mentare può essere allora che, nel descrivere la novità deL’imboscata rispetto al ciclo di Johnny, Fenoglio delineadue opposizioni principali, dove il romanzesco viene sem-pre collocato al secondo polo, strettamente associato aun’accorta selezione della materia narrativa: quella tra la«cavalcata 1943-1945» e un racconto costruito invece at-torno a un «unico episodio», e quella tra intreccio «li-neare» e intreccio «circolare». Detto in altri termini, un«vero» romanzo non si limita a seguire le peripezie di unpersonaggio dall’inizio alla fine della guerra, secondo ilprogetto originario del «libro grosso», ma — suggerisceFenoglio — prende forma piuttosto attorno a un nucleonarrativamente coeso in modo da far «confluire in un so-lo punto tutti gli elementi e gli aspetti della guerra civi-le». Al posto della «cavalcata» e della «narrazione linea-re», il romanzo si concentrerà insomma su un numero li-mitato di personaggi e di vicende, come suggerisce anchel’allusione alla struttura circolare e alla «sfericità» deL’imboscata, vale a dire al suo essere chiuso e non ulte-riormente estendibile oltre una certa misura.

Da un punto di vista strettamente morfologico, nellasua apertura e dispersività, la storia di Johnny sembra mo-dellata soprattutto sulla memorialistica partigiana ed è

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passare degli anni avvertisse sempre più forte il pericolodi vedersi confuso con gli infiniti partigiani scrittori (luiche semmai era uno scrittore partigiano). La forma del-l’autobiografia, anche immaginaria, rischia di limitare lepossibilità del narratore e il suo tentativo di ricreare fan-tasticamente l’esperienza vissuta. Rischia, in altre paro-le, di relegarlo a mero testimone oculare. Come raccon-tare, invece, la propria esperienza nella guerra civile sen-za per questo trasformarsi in un semplice memorialista,una vittima o un protagonista casuale degli eventi, chequando scrive non è mosso da preoccupazioni di naturaestetica perché intende soltanto lasciare una traccia dellapropria giovinezza? Nella decisione fenogliana di non ri-mettere più mano a Il partigiano Johnny e di lanciarsi piut-tosto nell’impresa de L’imboscata prima e di Una questio-ne privata poi, si avverte esattamente questo allarme. Fe-noglio capisce di colpo che la narrativa partigiana, cosìcome anche lui l’aveva praticata fino a quel momento, cor-reva il rischio di rimanere troppo legata ai moduli dellatestimonianza, dando vita magari a una sorta di «memo-rialistica di finzione», che, anche se gli eventi raccontatinon sono che parzialmente veri, non smette per questo diricalcare in tutto e per tutto l’andamento dei resoconti au-tobiografici pubblicati negli anni Quaranta e Cinquanta.Il racconto che «parte da A per giungere a B» diventa per-ciò l’obiettivo polemico di Fenoglio perché questa è esat-tamente la forma standard della miriade di testimonian-ze pubblicate all’indomani della Liberazione.

Da tutte queste considerazioni e dal desiderio di allar-gare la forbice che lo separa dai troppi partigiani scritto-ri nasce appunto Una questione privata.

Nuovo romanzo, di nuovo il romanzo.

Curiosamente, proprio negli anni in cui in Italia si co-mincia a parlare di nouveau roman e di anti-romanzo, Fe-

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piuttosto che un altro, perché il racconto si apra a una se-rie di eventi imprevisti e sino a un attimo prima del tut-to imprevedibili. Se così non fosse stato, Fenoglio nonavrebbe mai potuto porre fine in maniera così brusca eimprovvisa a Primavera di bellezza per soddisfare il desi-derio dell’editore di un volume autoconcluso, mentre que-sto succede appunto soltanto perché, sin dalle primissimepagine, tutto il libro procede per somma di segmenti nar-rativi irrelati che soltanto lo sguardo del protagonista rie-sce a tenere assieme.

Identificando il romanzesco con quelle narrazioni incui l’intreccio ha il predominio sul personaggio e rappre-senta il vero motore del racconto, in realtà Fenoglio nonfa che riformulare un vecchio principio aristotelico. Scri-ve infatti Aristotele nell’ottavo capitolo della Poetica: «ilracconto è unitario, non come taluni pensano, quando haper argomento una sola persona; infatti a un solo indivi-duo accadono moltissime cose, da alcune delle quali nonderiva nessuna unità. Così ci sono anche molte azioni re-lative a una sola persona, dalle quali non si genera nessu-na azione unitaria». Il ragionamento sottinteso dalla let-tera a Livio Garzanti non pare molto diverso: tutte le pe-ripezie di Johnny, dei due Johnny, non bastano a metterein piedi uno straccio di intreccio, una trama riassumibilee in qualche modo memorabile oltre la forza e l’efficaciadei singoli episodi. La pubblicazione di Primavera di bel-lezza rappresenta nella vita di Fenoglio una cesura decisi-va. Fare letteratura, scrivere romanzi «romanzeschi»vorrà dire allora, da questo momento, sostituire al prota-gonista l’intreccio come elemento unificante del raccon-to, e, così facendo, tagliare i ponti con i moduli della me-morialistica partigiana. Ma più di tutto vorrà dire sele-zionare cosa tenere dentro e cosa tenere fuori.

L’interesse della lettera a Garzanti dipende allora daquanto essa ci rivela del lento maturare in Fenoglio diun’insoddisfazione per quello che era stato sino a quel mo-mento il suo approccio alla Resistenza, quasi che con il

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dove in principio è la trama romanzesca e i personaggi civengono presentati solo in funzione dell’implacabile mec-canismo narrativo che li trascende tutti, il rapporto tra lapiccola storia del protagonista e la grande Storia colletti-va assume una configurazione completamente inedita.

Sarebbe però un errore descrivere soltanto in terminidi perdita questa nuova dialettica tra i diversi piani delracconto, perché selezionare vuol dire in questo caso an-che individuare quel rapporto di necessità che nell’anda-mento picaresco della «memorialistica di finzione» fa in-vece spesso difetto. Saldato solo in alcuni punti alla gran-de Storia, il prototipo di romanzo che nasce dalla crisi delmodello incarnato da Primavera di bellezza e da Il parti-giano Johnny, è in realtà avvinto ad essa assai più stretta-mente. Il passaggio a Una questione privata si compie an-che su questo punto. Sulla strada del romanzo romanze-sco L’imboscata rappresenta un importante passo avantima a Fenoglio appare ancora insufficiente, come dimostrala decisione di abbandonare il lavoro ai due terzi per lan-ciarsi nel nuovo progetto. A distinguere nettamente i duelibri non è infatti soltanto il carattere del protagonista,come in genere ha sottolineato la critica citando un giu-dizio dello stesso Fenoglio a proposito del Milton de L’im-boscata, definito «un’altra faccia, più dura, del sentimen-tale e dello snob Johnny» (10 marzo 1959). Il vero puntoè altrove. Proviamo a leggere le parole con cui Fenoglioannuncia a un impaziente Livio Garzanti la propria deci-sione di lanciarsi in una nuova storia senza aver portato atermine la precedente: «Avevo già scritto 22 capitoli dei30 previsti dall’impianto del romanzo e sarei stato in gra-do di consegnarle il manoscritto ‘tra non molti giorni’, co-me Lei scrive. Si trattava di una storia sul tipo Primaveradi bellezza, concedente cioè larga parte di sé alla pura rie-vocazione storica, sia pure ad alto livello. D’improvvisoho mutato idea e linea. Mi saltò in mente una nuova sto-ria, individuale, un intreccio romantico, non già sullo sfon-do della guerra civile in Italia, ma nel fitto di detta guer-

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noglio muove con decisione nella direzione opposta in no-me della ricostituzione di una forma di racconto più coe-sa ma in qualche modo anche più tradizionale. In questoclima di sfiducia verso le forme più tradizionali la sua ri-cerca del romanzo appare completamente in controten-denza. L’imboscata e Una questione privata nascono comenarrazioni di stretta osservanza aristotelica che rinnega-no la maggiore libertà compositiva del ciclo di Johnny, do-ve invece la contaminazione con i moduli dell’autobio-grafia (immaginaria) e della memorialistica (di finzione)veniva perseguita a costo dell’entropia e della dispersio-ne. Se insomma, sino a questo momento, Fenoglio si eraaffidato al ricordo delle proprie esperienze partigiane co-me filo conduttore del «libro grosso», la pubblicazione diPrimavera di bellezza segna una svolta decisiva nel suo mo-do di concepire e organizzare il racconto.

Il magazzino dei ricordi, fatto di voci, di facce, di sen-sazioni fisiche e di stati d’animo, di aneddoti ascoltati edi esperienze vissute, non basta più; d’ora in avanti biso-gnerà partire dall’intreccio. Contro la tendenza a raccon-tare tutti gli eventi notevoli accorsi al protagonista, Fe-noglio afferma adesso le ragioni della selezione narrativache ordina in funzione di un disegno preciso, e con essail diritto a rappresentare di scorcio la Resistenza, soffer-mandosi sulla grande Storia soltanto quando questa vie-ne direttamente a incrociare la vicenda particolare che co-stituisce la materia (ma anche il senso, anche l’alfa e l’o-mega) del suo racconto, perché in tutti gli altri casi essasemplicemente non interessa. La selezione implica in-somma un rapporto completamente diverso tra l’intreccioromanzesco e il piano della storia collettiva. E’ questo,con ogni probabilità, il secondo aspetto decisivo del suoragionamento. Un libro come Il partigiano Johnny risolve-va in maniera tutto sommato abbastanza piano la tensio-ne tra l’io e il noi (tra l’individuo e la collettività), dal mo-mento che il protagonista attraversa tutti i principali mo-menti della guerra partigiana. In Una questione privata,

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del protagonista a quella del suo paese. Tra i due poli del-la trama individuale e del grande affresco collettivo è ilprimo però che deve assolutamente prevalere, con la con-seguenza che tutto ciò che non è strettamente funzionaleall’intreccio (ad esempio lo «sfondo») può venire sacrifi-cato. Per questo, se L’imboscata inaugura il principio del-la selezione («far confluire tutti gli elementi e gli aspettidella guerra civile»), è solo con la comparsa della passio-ne di Milton per Fulvia e dell’intreccio romantico che ilrapporto tra microstoria e macrostoria si assesta in formecompiutamente romanzesche. La vera novità di Una que-stione privata (e dunque il vero tratto distintivo del tantosospirato romanzo partigiano rispetto alla «memorialisti-ca di finzione») va identificato nel diverso rapporto cheil protagonista intrattiene con gli eventi della secondaGuerra mondiale e nel rifiuto del narratore di concederealcunché, da questo momento, alla pura «rievocazione».Il titolo del libro potrebbe non essere di Fenoglio (quan-tunque ci siano ottime ragioni per crederlo), ma si rivelaparticolarmente esatto anche da un punto di vista narra-tologico. La «questione privata» di Milton non allude in-fatti solo all’intreccio sentimentale ma in qualche mododescrive la struttura di un intreccio costruito attorno auna ricerca ossessiva — un libro dove, a differenza diJohnny, che rimane proteso sull’esterno, da un certo mo-mento in poi il protagonista non sembra nemmeno ren-dersi più davvero conto di ciò che gli succede accanto (dacui l’insistenza costante sul tema della sua «cecità»). Fin-ché, come ultimo atto di un lungo processo di maturazio-ne, la grande Storia entrerà nelle pagine del racconto so-lo quando (e solo nella misura in cui) verrà a incrociare lavicenda romanzesca di un personaggio che agisce e pati-sce «nel fitto» della guerra civile italiana.

La Resistenza senza il romanzo.

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ra. Mi appassionò immediatamente e ancora mi appassio-na. Mi appassiona infinitamente di più della storia primi-tiva ed è per questo che non ho fatto troppo sacrificio acestinare i 22 capitoli già scritti» (8 marzo 1960).

«Non già sullo sfondo della guerra civile in Italia, manel fitto di detta guerra» Soltanto un anno prima Fenoglioaveva presentato il nuovo romanzo come una cesura ra-dicale rispetto alle prove precedenti; ora, immerso com-pletamente nel «disgraziato, complicato amore letterariodel protagonista Milton (nome di battaglia) per Fulvia»(è sempre la lettera dell’8 marzo 1960), Fenoglio tende in-vece a considerare L’imboscata meno lontana dai modulinarrativi che avevano ispirato il progetto del «libro gros-so» prima e Primavera di bellezza poi. In altre parole nonè ancora soddisfatto, e il motivo della sua inquietudine èsempre lo stesso: la struttura del racconto, e in particola-re le modalità con cui la storia individuale viene a intrec-ciarsi con la grande Storia collettiva. L’imboscata rompecon il romanzo-totale, ma, poiché continua a concedere«larga parte di sé alla pura rievocazione storica, sia puread alto livello», rimane per così dire a metà del guado. So-lo Una questione privata taglia definitivamente i ponti conil passato. La «cavalcata» e il «racconto lineare» preve-devano che il narratore si soffermasse sulle diverse tappedel percorso di Johnny nella Resistenza. Raccontare una«storia individuale» vuol dire invece che adesso sono leesigenze dell’intreccio romanzesco a determinare qualiporzioni della grande Storia entreranno e quali rimarran-no fuori dal nuovo libro, secondo un progetto che trovia-mo abbozzato già nella lettera a Garzanti del 10 marzo1959 in cui annunciava la propria volontà di non rimet-ter mano per il momento alla seconda parte delle avven-ture di Johnny.

In positivo si può dire allora che, per come lo concepi-sce Fenoglio, il romanzo partigiano è innanzitutto un ro-manzo e che dunque la prima preoccupazione del narra-tore deve essere di saldare non esteriormente la vicenda

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ne abbia espresso la capacità d’espansione, di erosione, diesplosione, di infiltrazione, di dissodamento, di semina edi raccolta; che ne abbia visto la sapienza armoniosamen-te creatrice — e tutto ciò abbia espresso con figure chesiamo noi e intanto più su di noi, con veri fatti e tuttaviasublimi come Roncisvalle, con tempi storicamente defi-niti e che tuttavia sono colmi di tutto il passato e dell’av-venire. Non l’abbiamo ancora questa Divina Commedia,questo Guerra e pace della Resistenza: ma il terriccio per-ché la pianta vi possa nascere si va formando, e ce ne dàuna prova questa raccolta».

Dopo tutto, le parole di Calvino e di Ramat potevanofunzionare altrettanto bene da rimprovero che da stimo-lo. Alla metà degli anni Cinquanta reduci della Resisten-za, vale a dire coloro che più di tutti gli altri potevano am-bire a proporsi come i legittimi rappresentanti della nuo-va Italia (e dunque anche della nuova letteratura), nonerano ancora riusciti a ricreare nelle loro opere il sensodella loro lotta se non per assaggi e tentativi. Per una ge-nerazione che si era data il compito di portare testimo-nianza degli eventi tragici e grandiosi che l’Italia avevaattraversato nei venti mesi della guerra civile tale silenziodoveva assumere i contorni di un fallimento. Accanto alrealismo, il sospirato realismo — inteso come panacea diogni male e fonte di ogni virtù letteraria secondo l’inse-gnamento di György Lukàcs, —, l’altro grande assentedella cultura italiana degli anni Cinquanta è il romanzopartigiano. Di tanto in tanto, per tutto il decennio, avreb-bero continuato ad alzarsi voci lamentanti la mancanza diun libro che desse conto di tutte le passioni sorte dopo l’8settembre, in fondo non troppo diversamente da quelloche era successo nel Settecento, quando poeti e dramma-turghi si erano a lungo interrogati sulla carenza di una so-lida tradizione tragica nazionale e di un Racine o di unCorneille italiano.

Nulla di strano, allora? Se, in un certo senso, la que-relle sul romanzo partigiano «mancato» non è stata che

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La caparbia volontà di liberarsi dei condizionamentidella memorialistica e di inaugurare un nuovo tipo di ro-manzo partigiano dimostrata da Fenoglio dopo il 1959 (unromanzo davvero «romanzesco») acquista un senso parti-colare se proviamo a collocare l’esperimento di Una que-stione privata nella letteratura italiana del decennio che siandava a chiudere. Che fosse rimasto un vuoto da colma-re, che la Resistenza attendesse ancora lo scrittore in gra-do di far rivivere adeguatamente sulla pagina i venti me-si di lotta antifascista era stata opinione corrente nellapubblicistica di quegli anni. Lasciato nel cassetto Il parti-giano Johnny, anche Fenoglio continuava a rimandare ilproprio appuntamento con il libro che dicesse la sua pa-rola definitiva sulla stagione della Resistenza, ma il so-spetto che nessun narratore avesse ancora offerto una rap-presentazione complessiva di quella stagione drammaticaed esaltante è piuttosto ricorrente negli anni Cinquanta.Calvino si era espresso in maniera piuttosto decisa già inun saggio del 1949: «A chi si chieda se la letteratura ita-liana ha dato qualche opera in cui si possa riconoscere«tutta la Resistenza» (e intendo «tutta» anche parlandod’un solo villaggio, d’un solo gruppo, «tutta» come spiri-to), un’opera letteraria che possa dire veramente di sé: «iorappresento la Resistenza», l’indubbia risposta è: «Pur-troppo non ancora». Mentre invece a chi si chieda se laResistenza ha «dato» alla letteratura e ai letterati, se laletteratura italiana s’è arricchita, attraverso l’esperienzadella Resistenza, di qualcosa di nuovo e necessario, io cre-do si debba rispondere indubbiamente: «Sì»».

Il giudizio di Calvino non impiegò molto tempo a farescuola. Lo ritroviamo per esempio, tale e quale, nell’in-troduzione di Raffaello Ramat all’antologia di raccontipubblicati dal «Premio Prato» tra il 1951 e il 1954 con iltitolo Scarpe rotte, eppur bisogna andar…: «Noi non ab-biamo ancora un libro che ci abbia detto tutta la Resi-stenza, il romanzo, il poema, che, cioè, abbia còlto, dellaResistenza, il nucleo-forza, ne abbia misurato la potenza,

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tempo e in un luogo una storia di amori infelici e di pul-sioni di morte; L’Agnese va a morire offriva invece una im-magine della lotta partigiana a dir poco edulcorata e cele-brativa, nel tentativo di offrire ai lettori un modello edi-ficante; mentre Il sentiero dei nidi di ragno (indubbiamenteil più interessante dei tre), del 1947, nel tentativo di sfug-gire all’autobiografia e alla retorica adottava punto di vi-sta deformante di un bambino catapultato nel mondo de-gli adulti e chiamato a confrontarsi con eventi di cui glisfugge il significato ultimo, dunque quanto di più lonta-no dal culto della maturità e della scelta che anima inve-ce ogni pagina di Fenoglio.

Se comunque, fino al 1949, non erano mancati del tut-to gli esperimenti, il periodo che intercorre tra L’Agneseva a morire e la prima concezione di Una questione privataè caratterizzato dall’eclissarsi della lotta partigiana nellanarrativa contemporanea. I pochissimi libri di narrativache durante gli anni Cinquanta introducono la Resisten-za nella trama lo fanno in genere ai margini dell’azioneprincipale, come uno dei tanti eventi che hanno caratte-rizzato la più recente storia d’Italia e che non possono nontrovare posto in qualsiasi affresco di una certa ampiezza,magari ridotti a un espediente narrativo per imporre allavicenda una curvatura romanzesca e sciogliere o ingarbu-gliare l’intreccio (i tedeschi o i partigiani come deus ex ma-china). E’ questo per esempio il caso de La ciociara di Mo-ravia e di Fausto ed Anna di Carlo Cassola, ambientato ap-punto nella provincia toscana, tra Volterra e san Ginesionei mesi più duri del conflitto, dove però la lotta antifa-scista ha un ruolo tutto sommato molto modesto ed è po-co più di una nota di colore che arricchisce l’unico verotema del libro: l’amore mancato della coppia eponima. Daquesto punto di vista, in Fausto ed Anna, Cassola mettegià in pratica i principi che avrebbe affermato alla fine deldecennio in occasione della grande inchiesta sul romanzopromossa da «Nuovi Argomenti» nel 1959: «io credo chela storia debba essere soltanto la cornice, lo sfondo delle

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uno dei tantissimi esempi della tendenza dell’Italia mo-derna a rappresentarsi, anche su un piano specificamenteletterario, come «paese senza», il giudizio di Calvinoavrebbe mantenuto però una sua pertinenza ancora perun decennio, trasformando quella che nel 1949 era unadiagnosi a caldo in una previsione riuscita. Che cosa tro-vava in effetti alle proprie spalle Fenoglio nel 1960, al mo-mento di cominciare Una questione privata? Quasi nien-te, e sempre meno a mano a mano che ci si allontanavadagli eventi narrati. Anche a voler essere indulgenti si sa-rebbe dovuto ammettere che in quel quindicennio, di tut-ti i generi letterari, proprio il romanzo aveva in qualchemodo latitato. Al suo posto, altre forme di scrittura ave-vano monopolizzato la «materia resistenziale», quasi chenella finzione romanzesca ci fosse qualcosa di costituti-vamente inadatto a parlare della Resistenza. Innanzitut-to la memorialistica: con opere di indubbio valore lette-rario, da Un uomo, un partigiano di Roberto Battaglia aBanditi di Pietro Chiodi (l’amico e professore di filosofiadi Fenoglio degli anni del liceo), da Partigiani della mon-tagna di Giorgio Bocca (tutti e tre del 1945) a Il mondo èuna prigione di Guglielmo Petroni (del 1949).

Pochissimi invece i romanzi sulla Resistenza che sinoa quella data avessero lasciato una traccia duratura. Conogni probabilità, negli anni solo tre potevano avere atti-rato non superficialmente l’attenzione di Fenoglio: in or-dine di pubblicazione, Uomini e no di Elio Vittorini, Ilsentiero dei nidi di ragno di Italo Calvino e L’Agnese va amorire di Renata Viganò (l’ultimo ad uscire, nel 1949). Etuttavia era assai difficile che Fenoglio potesse guardarea qualcuno di essi come a un modello praticabile. Con Uo-mini e no (pubblicato a caldo, nel giugno del 1945) Vitto-rini aveva scritto un romanzo ancora molto legato all’e-sperienza ermetica degli anni Trenta (il mito dell’infan-zia, la psicologia impenetrabile del personaggio, la prosaoracolare…) dove la Resistenza appare tutt’al più un epi-fenomeno, qualcosa che fa «colore locale» e colloca in un

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senso complessivo di quella stagione, laddove ogni ro-manziere rischiava di venir giudicato all’implacabile tri-bunale dell’estetica socialista. Con la parziale eccezionedi Mario Tobino (che inizia a pensare a Il clandestino nel1956), Fenoglio è l’unico narratore che alla metà degli an-ni Cinquanta lavora al progetto di un romanzo di argo-mento partigiano. Quando Fenoglio comincia a maturareil progetto di un «libro grosso» che dica la parola defini-tiva sulla Resistenza, la sua impresa narrativa vuole esse-re anche una consapevole sfida alla cultura comunista al-lora egemone. Che cosa significa infatti raccontare la lot-ta partigiana attraverso gli occhi di uno studente borgheseinnamorato dell’Inghilterra e con parecchi tratti di sno-bismo intellettuale se non negare frontalmente tutti i prin-cipi dell’estetica lukàcsiana con il suo imperativo di rap-presentare il «tipico»? Ma più ancora che le caratteristi-che di Johnny è la stessa trama del romanzo a rifiutare lamorale consolatoria e i precetti didattici del realismo so-cialista. La Resistenza, che dovrebbe offrire al narratorel’occasione per rappresentare la caduta delle barriere diclasse e la fraternizzazione dei combattenti in quella cel-lula dell’Italia a venire che prometteva di essere la briga-ta partigiana, viene rappresentata da Fenoglio come un’e-sperienza essenzialmente individuale — una prova con sestessi che nel corso del romanzo diventa anzi sempre piùsinonimo di ascesi e di isolamento e tocca il suo punto piùalto nel silenzio e nel paesaggio innevato del terribile in-verno del 1944, lasciando Johnny incapace di ristabilirequalsiasi rapporto con gli altri quando nel gennaio del-l’anno successivo le formazioni si riorganizzano per la spal-lata finale. Da questo punto di vista Il partigiano Johnnydeve intendersi anche come un libro pensato a contrope-lo, il frutto polemico delle memorabili discussioni politi-che e culturali degli anni Cinquanta, quando ad Alba sisfidavano in memorabili dispute dialettiche sui «massimisistemi» i principali esponenti dell’intellettualità locale,«il professor Chiodi e il professor Don Bussi, uno per la

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vicende e dei destini individuali. La storia romanzata nonmi persuade più di quanto mi persuada l’ideologia ro-manzata». La vicenda collettiva come «sfondo»: ovveroesattamente il contrario di ciò che Fenoglio consideravauna delle peculiarità del romanzo e che, a partire da Unaquestione privata, si sarebbe ripromesso di realizzare neisuoi libri («non già sullo sfondo della guerra civile in Ita-lia, ma nel fitto di detta guerra»). Al punto che non si puònemmeno escludere che, nella terminologia adoperata, lalettera a Garzanti serbi memoria, magari inconsapevole,del questionario sulle sorti del romanzo pubblicato da«Nuovi Argomenti» l’anno prima.

Il silenzio degli anni Cinquanta si può spiegare in mol-ti modi diversi: con il cambiamento del clima politico do-po le elezioni del 1948 e l’inizio della guerra fredda, peresempio, o con l’esaurirsi per saturazione dell’interesseper la Resistenza dopo l’abbuffata dei primi anni. Si trat-ta comunque di un fenomeno che riguarda principalmen-te il romanzo, dal momento che lungo tutto il decennio1950-1960 continuano ad uscire racconti brevi (a firmadi Giorgio Caproni, Ada Gobetti, Renata Viganò, Mar-cello Venturi, Andrea Zanzotto e, naturalmente, di Bep-pe Fenoglio) e memoriali di una certa importanza, da Dia-rio sentimentale di Vasco Pratolini al Diario partigiano diAda Gobetti (tutti e due del 1956). Viene il sospetto chele reticenze dei romanzieri dipendessero anche dall’irri-gidimento della politica culturale del Pci e dal diffonder-si di una rigorosa precettistica ispirata in massima parteai principi formulati da Lukàcs nei Saggi sul realismo cheavrebbero dovuto guidare gli scrittori nella concezione deipropri romanzi: «tipicità», «oggettività», «totalità», «me-diazione», ruolo positivo dell’«eroe proletario»…

Paradossalmente, proprio la deliberata parzialità e larinuncia preventiva dei racconti brevi e delle memorie diguerra a qualsiasi pretesa di rappresentare sinteticamen-te l’insieme delle storie partigiane ponevano i loro autorial riparo dall’accusa di non aver restituito nei loro testi il

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Con Tobino e Venturi, Fenoglio ha in comune una ri-soluta presa di distanza dalla «memorialistica di finzio-ne». A divergere sono però le modalità di questo allonta-namento. I quindici anni trascorsi dagli eventi narrati ven-gono esibiti consapevolmente dai protagonisti della«seconda ondata», che vi scorgono non solo un incentivoa scrivere (affinché quella stagione non venga dimentica-ta) ma anche la principale garanzia che i loro libri saran-no diversi da quelli di coloro che avevano raccontato lalotta antifascista all’indomani del 25 aprile. La cifra di-stintiva de Il clandestino e di Bandiera bianca a Cefaloniaè perciò un’opzione decisa per il romanzo storico — untermine che, almeno per il libro di Tobino, venne utiliz-zato già a caldo dai primissimi recensori, come per esem-pio Goffredo Bellonci, il quale, scrivendo de Il clandesti-no sulle pagine de «Il Messaggero», insistette molto sul-la necessità di non leggerlo come una semplice«testimonianza o ricordo polemico» (24 aprile 1962). Ro-manzo storico vuol dire nel loro caso innanzitutto tre co-se: 1) la moltiplicazione dei personaggi e delle storie, si-no a rendere impossibile offrire qualsiasi riassunto con-vincente della trama e persino individuare con assolutacertezza il protagonista. In altre parole Venturi e Tobinopuntano alla costruzione corale, che dia voce a tutte le di-verse anime del dramma, elaborando la verità storica «persomma», attraverso la disseminazione delle storie e deipunti di vista, uno per ciascuna anima della guerra civile.2) L’equiparazione, da un punto di vista eminentementenarratologico, di fascisti e antifascisti, italiani e tedeschi,ai quali viene concesso alternativamente il centro del pal-coscenico, anche per parecchie pagine, riportando ognivolta che lo si ritiene necessario il punto di vista dei «ne-mici», pensieri compresi. 3) L’inserimento della vicendaindividuale dei diversi personaggi in una cornice storio-graficamente attendibile, senza più limitarsi cioè a filtra-re gli eventi attraverso gli occhi del protagonista. Se i nar-ratori che avevano raccontato la Resistenza all’indomani

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valenza marxista-socialista e l’altro per quella cristiana»,ai quali si aggiungeva il «situazionista» Pinot Gallizio,«con la sua estrosità di arti figurative, che aveva fatto ir-rompere nella città un interesse quasi morboso per la pit-tura moderna» (così nella testimonianza dell’albese Gian-ni Toppino).

Nel fitto.

Dopo la fiammata iniziale, negli anni compresi grossomodo tra il 1945 e il 1949, e la stasi del decennio succes-sivo, assistiamo a una seconda proliferazione di romanzipartigiani all’inizio degli anni Sessanta, anche sulla sciadell’imponente mobilitazione popolare contro la decisio-ne del presidente del consiglio Tambroni di autorizzare ilcongresso dei neofascisti del Msi a Genova, città meda-glia d’oro della Resistenza (con il progetto di farli entra-re nella maggioranza), che portò alla caduta del suo go-verno dopo diversi giorni di sciopero in cui la polizia nonesitò a sparare sui manifestanti. Ecco allora Il clandestinodi Mario Tobino, nel 1962; ecco Bandiera bianca a Cefa-lonia di Marcello Venturi ed ecco (appunto) Una questio-ne privata, tutti e due nel 1963. Un discorso simile valeperò anche per la memorialistica, con un vero e propriorevival inaugurato da La quarantasettesima di Ubaldo Ber-toli nel 1961, seguito a ruota da La guerra dei poveri di Nu-to Revelli (l’anno successivo) e dall’edizione completa diSere in Valdossola di Franco Fortini, per chiudere in bel-lezza con I piccoli maestri di Luigi Meneghello (rispetti-vamente del 1963 e del 1964). Si trattava, a tutti gli ef-fetti, degli ultimi fuochi di una stagione ormai sul puntodi concludersi: con l’eccezione di alcuni racconti brevi,dopo Il partigiano Johnny, uscito postumo nel 1968, nonsarebbe stato pubblicato più nessun altro testo di rilievosulla Resistenza. E tuttavia, occorre proprio dirlo, che fuo-chi.

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direbbe che per Fenoglio il termine «romanzo» indichiprincipalmente una concatenazione necessitante, un mec-canismo perfetto dove nulla è di troppo e ogni dettaglioconverge nello stesso punto. Insomma la concitazione delnarrare, da ottenere soprattutto nella seconda parte, quan-do l’intreccio precipita verso lo scioglimento. Per tuttiquesti motivi, dei due poli opposti dell’autobiografia e delracconto, che avevano monopolizzato la letteratura dellaResistenza sino a quel momento, Una questione privata ap-pare decisamente più vicino al secondo.

La lettera a Garzanti, dove Fenoglio comincia a pre-sentare il nuovo romanzo descrivendone le particolaritàdell’«intreccio», è abbastanza esplicita su questo punto.In principio c’è la struttura, il rapporto tra la ricerca diMilton e la guerra civile; tutto il resto viene dopo. Gli stu-diosi hanno spesso cercato nella biografia di Fenoglio lachiave di Una questione privata: un amore infelice, una pas-sione adolescenziale, il ricordo di questa o di quella ra-gazza intravista, conosciuta, desiderata. Tali ipotesi nonpossono certo essere escluse, però in questo caso la cro-nologia parla chiaramente. Il tema dell’amore infelice —e infelice perché triangolare — nella vita di Fenoglio è dasubito biografico e letterario al tempo stesso, come testi-moniano le prove teatrali di gioventù (l’adattamento diCime tempestose, Serenata a Bretton Oaks…) e più in ge-nerale il culto quasi maniacale per il libro della Brönte.Una volta ammesso il rapporto che esiste tra la svolta ro-manzesca e l’adozione del modello di Wuthering Heights,sapere quanto in Fulvia riviva di Mimma o Baba (le ami-che/ innamorate di Fenoglio negli anni immediatamenteprecedenti e successivi alla guerra) diventa del tutto inin-fluente ai fini della comprensione di Una questione priva-ta. Quando Fenoglio recupera il tema dell’amore triango-lare, dopo la stagione della «memorialistica per interpo-sta persona» del ciclo di Johnny, lo fa esattamente perchéil romanticismo romanzesco della storia di Milton e Ful-via gli appare il modo migliore per tenere a distanza il mo-

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del conflitto avevano scelto di rappresentare la grandeStoria dal basso e avevano valorizzato la distorsione del-le notizie, le voci incontrollate, il sentito dire, insommatutto quello che uno storico come Marc Bloch avrebbe de-finito le fausses nouvelles de la guerre (i romanzi di Feno-glio, e Una questione privata in particolare, sono pieni diconversazioni sull’evolvere delle ostilità e sulla data piùprobabile della loro conclusione), gli ex partigiani Tobi-no e Venturi si preoccupano insomma di sposare quelloche hanno visto e sentito con i propri occhi e le proprieorecchie con quanto hanno saputo solo più tardi.

Euforia del crepuscolo? Fiducia nel potere oggettivantedella veritas fila temporis? Scorrono gli anni e, quale chesia la ragione, sempre più la Resistenza si presenta ai nar-ratori come un evento storico in tutto e per tutto identi-co agli altri. Non per Fenoglio. Mentre Marcello Ventu-ri e Mario Tobino s’incamminano già verso la «guerra po-stuma», aprendo la strada agli autori che a partire daglianni Novanta del secolo scorso hanno cominciato ad am-bientare nell’Italia della Resistenza i propri racconti conlo stesso spirito con cui avrebbero potuto scegliere la Fran-cia di Napoleone o l’Atene di Pericle, Fenoglio rimanel’unico a raccontare la lotta partigiana senza mettere con-tinuamente l’accento sulla distanza cronologica del’Italiadi Tambroni da quella del 1943. Per lui si tratta, in altreparole, di abbandonare la «memorialistica di finzione» abeneficio del romanzo, ma non del romanzo storico.

Il punto è importante, perché questa opzione fonda-mentale determina tutta una serie di scelte decisive per lafisionomia che, stesura dopo stesura, Una questione pri-vata verrà assumendo. Non la moltiplicazione dei perso-naggi, non l’apertura a raggiera, non l’articolazione delracconto sui due piani attentamente distinti della grandee della piccola storia (come in Tobino e Venturi) — ma alcontrario il rifiuto della polifonicità, la lotta alla disper-sione, la costruzione di una struttura ferrea e rigorosacompletamente diversa da quella del ciclo di Johnny. Si

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condo una dinamica affettiva del tutto lineare: l’amiciziaper Giorgio, il compagno di sempre. E lo stesso Milton,a questo stadio di elaborazione del romanzo, non è cheuno dei tanti personaggi.

Come ha notato Elisabetta Soletti, dal punto di vistadell’«organizzazione del récit», in questa fase siamo an-cora molto vicini alla struttura modulare di Primavera dibellezza e de Il partigiano Johnny, che anzi «apparenta Unaquestione privata al modello di narrazione epica per larghesezioni, per ‘stazioni’». Di stesura in stesura si produceperò la trasformazione decisiva, all’insegna della massimaconcentrazione: diminuisce verticalmente il numero deipersonaggi (con Fulvia e Giorgio che diventano due «fan-tasmi»), mentre i loro desideri e i loro obiettivi comin-ciano sempre più a sovrapporsi e scontrarsi, con tutti i pe-ricoli del caso. Giorgio e Milton amano ora tutti e dueFulvia; Milton è scisso tra due missioni — affrettare la fi-ne della guerra e rivedere Fulvia — ma sa che, in parte,esse vengono a coincidere («è lontana da me esattamentequanto la nostra vittoria»). Strutturalmente, la grande for-za di Una questione privata dipende allora dalla tensioneche viene a crearsi tra l’architettura elementare della for-ma «inchiesta» (il personaggio X compie le azioni q, z ew per conoscere la verità su Y) e l’opacità delle motiva-zioni psicologiche che spingono ciascun personaggio adagire. Con l’aggiunta che, in questo caso, si tratta di unaben strana inchiesta, perché nel corso del racconto Mil-ton non acquisisce nessuna ulteriore conoscenza rispettoa quanto gli ha detto la custode nel secondo capitolo e illibro si conclude circolarmente laddove è iniziato senza laricerca che abbia fatto il minimo progresso, forse perchétutto quello che c’era da sapere su Fulvia e su Giorgio eragià stato detto nelle primissime pagine.

Se la memorialistica partigiana e i romanzi costruiti sul-la sua falsariga, come Primavera di bellezza e Il partigianoJohnny, erano costruiti attorno alle peripezie di un unicoprotagonista (il narratore stesso o un suo alter ego), la con-

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dello di racconto semiautobiografico che aveva sviluppa-to negli anni precedenti e rappresenta dunque, semmai,un allontanamento, non un avvicinamento alla propriaesperienza individuale.

«Romantico» e «romanzesco» vanno di pari passo nel-l’opera di Fenoglio, ma la priorità di quest’ultimo diffi-cilmente può essere messa in discussione. A differenza diTobino e di Venturi, per i quali la storia d’amore è solouna storia in più, un ingrediente supplementare da inse-rire affinché nulla manchi a una rappresentazione che sidesidera onnicomprensiva (dire «tutta la Resistenza»), Fe-noglio vede in essa lo strumento attraverso cui stringeremeglio i lacci del racconto. E non è affatto un caso, daquesto punto di vista, che, a parte qualche figura un po’sbiadita che appare qua e là ne Il partigiano, le donne oc-cupino un ruolo significativo nelle sue trame solo a parti-re da L’imboscata, ovvero dal momento in cui punta piùdecisamente ed esplicitamente al romanzo.

Per Fenoglio, lo abbiamo visto, l’azione centripeta delracconto può avere la meglio sullo sguardo centrifugo del-la memorialistica soltanto a patto di ridurre dimensionidella storia e numero dei personaggi. Si tratta cioè di an-corare definitivamente il protagonista allo «sfondo», ca-larlo una volta per tutte «nel fitto» della Storia. La sto-ria d’amore serve a questo, ma richiede comunque un lun-go processo di decantazione. Nella primissima stesura diUna questione privata facciamo ancora conoscenza diret-tamente con tutti i principali personaggi della storia: c’èFulvia, fidanzata ufficiale di Giorgio pronta a raggiunge-re i partigiani per consultarsi con loro sul da farsi; c’è ilpadre di Giorgio, impegnato a intavolare le trattative persalvare il figlio da una morte che, se non interverrà unevento decisivo a impedirla (uno scambio di prigionieri),pare ormai certa; c’è in generale tutta la lunga digressio-ne sulla famiglia del prigioniero e sull’ambiente di Alba.Persino il movente delle azioni di Milton è completamentediverso da quello che troveremo nell’ultima versione, se-

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glio la verità di quest’affermazione, che nelle parole del-l’autore de Il sentiero dei nidi di ragno rimane puramenteintuitiva e sembra alludere soprattutto a un generico in-treccio di «armi» e di «amori». Gli studi più recenti suAriosto (soprattutto quelli condotti da Sergio Zatti) cihanno insegnato infatti come la grande novità struttura-le del suo poema rispetto ai cicli cavallereschi medievalirisieda nel modo in cui il poeta ferrarese fa incontrare econfliggere le diverse quêtes, sovvertendo le regole del ro-manzo d’avventura francese, dove ad ogni cavaliere (a luie a lui solo) corrispondevano invece una o più imprese daportare a compimento. Nell’Orlando furioso agisce in-somma un principio di concentrazione (tutti desideranola stessa donna, tutti inseguono le armi di Argalia…), cheè fonte di caos e di scompiglio sino a rendere incerta e inqualche modo inutile persino la distinzione tra Mori e Cri-stiani. Qualcosa di simile, però, vale appunto pure perUna questione privata. Anche qui l’amore è funzionale al-la essenzializzazione dell’intreccio, ma anche qui la so-vrapposizione dei desideri è l’anticamera di un disordineepico, della perdita delle più elementari certezze, per cuiogni erranza (ogni ricerca) minaccia di sconfinare nell’er-rore e compromettere la guerra.

Il romanzo senza la Resistenza?

Una simile virata verso il romanzo e il romanzesco (ver-so il romanticismo e il plot amoroso) non è ovviamenteesente da rischi. Nel perfetto meccanismo che Fenoglio èandato progressivamente mettendo a punto si annida il ri-schio di lasciare fuori troppe cose: in definitiva di sacri-ficare al sostantivo (romanzo) l’aggettivo (partigiano). Apoco a poco scompare la folla di personaggi che ancoraaffollavano le pagine di Primavera di bellezza e de Il parti-giano Johnny, come pure vengono a cadere l’atteggiamen-to sin troppo prensile e disponibile del protagonista, il suo

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centrazione romanzesca professata da Fenoglio a partireda L’imboscata prevede invece una molteplicità di indivi-dui potenzialmente in lotta tra loro per realizzare il pro-prio sogno. Da un punto di vista narrativo, la funzionedell’elemento femminile negli ultimi libri di Fenoglio èquella di rendere esplicita la contesa sotterranea che nel-l’universo romanzesco si viene a stabilire tra i diversi per-sonaggi, secondo un meccanismo attivo per la prima vol-ta proprio ne L’imboscata, dove un fascista e un partigia-no si affrontano sul campo anche contendendosi il cuoredella stessa donna. Rispetto a questo modello di intrec-cio, introducendo il tema del triangolo amoroso, Una que-stione privata costituisce un ulteriore passo in avanti per-ché estende per la prima volta il contrasto agli stessi par-tigiani, sino al caso estremo di Milton e Giorgio, amiciper la pelle divisi dall’amore per Fulvia.

Tutto cambia. La contesa per la ragazza amata contri-buisce in modo decisivo alla concentrazione della storiatanto cara a Fenoglio, ma sovverte anche le norme ele-mentari della narrativa partigiana. La ricerca di un pri-gioniero da scambiare per salvare la vita all’amico prigio-niero dei fascisti nasconde in realtà la guerra civile po-tenziale che incombe su Milton e Giorgio. Alla frontalitàepica del ciclo di Johnny (partigiani contro fascisti) si so-vrappone ora un principio di competizione interna checonfonde le carte e vela le identità. Chi è Giorgio perMilton? Che cosa occultano i puntini di sospensione suiquali si arresta il suo pensiero quando prova a immagina-re il loro incontro («Aveva deciso di aspettar Giorgio al-l’aperto, presso la cappelletta dell’Annunziata. L’avreb-be separato per un momento dagli altri quattro e…»)? Lapresenza di Fulvia ha reso di colpo ogni risposta più dif-ficile o per lo meno duplice, costitutivamente ambigua.

Ai lettori di Fenoglio è ben noto il passo in cui Calvi-no paragona Una questione privata all’Orlando furioso de-finendolo «un romanzo di follia amorosa e cavallereschiinseguimenti». Oggi forse siamo in grado di precisare me-

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nei suoi sviluppi — voluto o approssimativo il contenutoparticolare del racconto» (6 luglio 1963).

Ovviamente, con il senno di poi, è sin troppo facile da-re torto a coloro che hanno criticato Una questione priva-ta per il ruolo preponderante che nell’intreccio occupa lavicenda di Milton e Fulvia. Le resistenze cui, almeno inalcuni ambienti, il volume di Fenoglio andò incontro nonvanno però sottovalutate e ci suggeriscono invece che ilproblema di uno sbilanciamento romanzesco che trasfor-mi la lotta partigiana in una storia di «armi» e di «amo-ri» come tutte le altre deve essersi posto anche a lui. I giu-dizi leggermente perplessi di alcuni dei recensori interes-sano in quanto testimonianza di un sentire diffuso e indicedel tipo particolare di attese che, ancora all’inizio deglianni Sessanta, un libro sulla guerra civile era in grado disollevare. Dalle loro pagine traspare la preoccupazione checon il passare del tempo la letteratura della Resistenza po-tesse rinunciare alla propria specificità sino a perdere quel-la valenza etica e politica che l’aveva invece caratterizza-ta dal primo momento. I dubbi nei confronti della svoltaromanzesca di Fenoglio lasciano così intuire tante cose:l’attribuzione alla narrativa partigiana di una primaria fi-nalità testimoniale, il timore di vedere la Storia negata oridotta a mero pretesto, un certo «puritanesimo» non pro-priamente filogino della tradizione politica social-comu-nista… Al punto che forse, solo partendo da qui, dalle cri-tiche che l’autore stesso cercò di prevenire e da quelle cheil libro ricevette davvero al momento della pubblicazio-ne, si può comprendere a fondo la novità di Una questio-ne privata nel contesto della narrativa partigiana.

Un punto soprattutto mi sembra decisivo. Alcuni stu-diosi hanno richiamato l’attenzione sulla stranezza del do-dicesimo capitolo, dove Fenoglio, a un passo dalla con-clusione del romanzo, abbandona improvvisamente la fo-calizzazione su Milton, sino a quel momento adottatasenza soluzione di continuità, salvo una brevissima pau-sa al principio del terzo capitolo, quando ci viene ripor-

statuto di «occhio sul mondo», la sua vocazione di testi-mone. Al contrario, l’amore di Milton per Fulvia gerar-chizza, istituisce un sistema di priorità che il gusto per l’i-natteso e la solitudine sentimentale di Johnny escludeva-no in partenza. In Una questione privata non c’è spazio perla «rievocazione storica» fine a se stessa, e questo vuol di-re che la storia collettiva viene ammessa unicamente quan-do incrocia il percorso del protagonista. Niente assalto al-la caserma dei carabinieri per ottenere la liberazione deipadri dei renitenti alla leva, niente repubblica partigianadi Alba, niente rastrellamento del novembre 1944, nien-te scontro di Valdivilla… Perché la scelta di costruire illibro attorno a un «intreccio romantico» rappresenta unsicuro guadagno in termini di coerenza e unità del rac-conto (di compattezza romanzesca), ma impone in cam-bio una serie di rinunce non indifferenti.

Il problema della Storia, vale a dire di tutto quello che,della lotta partigiana, l’approfondimento della vicendaamorosa di Milton e Fulvia fa passare in secondo piano,venne avvertito con particolare acutezza dai primi recen-sori, che evidentemente si aspettavano un libro più vici-no alla «memorialistica di finzione» di Primavera di bel-lezza. Rileggere oggi i loro articoli, in un clima completa-mente diverso, ci aiuta a comprendere molte cosedell’ambiente in cui Fenoglio ha concepito il proprio ro-manzo e forse anche del genere di preoccupazioni che, inun modo o nell’altro, dovevano averlo sfiorato. Soprat-tutto a sinistra i calorosi apprezzamenti non furono deltutto esenti da distinguo e cautele, che portarono peresempio Riccardo Scrivano a lamentare l’abbandono del-la vena autobiografica in nome del romanzo, ovvero latendenza a tradurre «in fantasia la sostanza memoriali-stica» («Il Ponte», novembre 1963), e Giansiro Ferrata aconfessare sulle pagine di «Rinascita» la propria decisapreferenza per il coté pubblico e civile della narrazione:«Altrettanto fresco si dimostra qui il rapporto con la me-moria storico-poetica della Resistenza, quanto risulta —

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so, abbandonata la «memorialistica di finzione», il veropericolo gli appare quello di uno scollamento del roman-zo dalla Storia. Di colpo, con il dodicesimo capitolo l’u-nicità di Milton viene a cadere, diluita in una costellazio-ne di vicende dai tratti spaventosamente simili che ri-manda al tempo stesso a tutti gli altri micro-raccontiincastonati nel corpo principale del libro (si pensi alle sto-rie dei due fascisti fucilati e a quella della battaglia di Ver-duno, all’uccisione alla spalle dell’ostaggio catturato daMilton o l’aneddoto del fucilatore Ratero e della maestrarepubblichina). Aperture fugaci, appena accennate pernon compromettere la concatenazione dell’intreccio, macomunque sufficienti a tracciare un’impressionante se-quenza di esecuzioni dilazionate nel tempo che fa di Unaquestione privata il meno conciliato dei romanzi di Feno-glio.

L’inserimento dell’episodio di Riccio e Bellini nascedunque dall’esigenza di evitare che l’adozione dei «modiromanzeschi» ostacoli il giudizio storico e politico — inaltre parole che la storia cancelli la Storia. Allarga e mol-tiplica. A lungo, come abbiamo visto, si era rimprovera-to agli scrittori di aver lasciato la Resistenza senza ro-manzo; di colpo la risoluta opzione anti-memorialistica diFenoglio (connessa al suo disinteresse per l’historical no-vel) sembra lasciar balenare invece il rischio, opposto esimmetrico, di un romanzo partigiano senza la Resisten-za. Il corto circuito tra la vicenda di Milton e quella diRiccio e di Bellini nasce allora appunto per prevenire que-sto pericolo: per evitare cioè che la disperata corsa nel fan-go alla ricerca della «verità su Fulvia» possa essere liqui-data come una semplice «questione privata». In definiti-va per far comprendere ai lettori che dietro l’apparenteeccezionalità dell’esperienza del partigiano anglomane èdella guerra civile italiana nel suo complesso che il ro-manzo di Fenoglio sta parlando. La guerra civile: con ilsuo terribile principio di reversibilità, dove (indipenden-temente dai torti e dalle ragioni) ciascuno occupa a turno

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tato un pensiero del suo compagno Ivan. Qui invece sitratta di un inserto corposo, che il lettore rischia di av-vertire come un corpo estraneo. La storia dell’uccisionedi Riccio e Bellini, due giovani staffette partigiane cattu-rate quattro mesi prima e fucilate per vendicare la mortedel sergente fascista che Milton aveva sperato di scam-biare con Giorgio, produce a tutti gli effetti una pausa nelracconto e un evidente cambio di ritmo. Di fronte a que-sto improvviso rallentamento, c’è stato dunque chi nonha risparmiato critiche a Fenoglio, per esempio Dante Isel-la, che a questo proposito ha parlato di «inserto non deltutto soddisfacente». Naturalmente si possono offrire di-verse spiegazioni di questa scelta, per esempio sottolinearecome la digressione del penultimo capitolo finisca in realtàper accrescere l’attesa del lettore, trascinandolo verso loscioglimento finale. Nonostante tali considerazioni di na-tura tecnica non vadano ovviamente trascurate, almenoun’altra lettura è possibile, strettamente connessa in que-sto caso al problema del rapporto tra «rievocazione stori-ca» e «storia individuale» nella narrativa partigiana (peradoperare gli esatti termini fenogliani). Ci sono cioè buo-ni motivi per credere che Fenoglio fosse tanto interessa-to alla sorte di Riccio e di Bellini perché vedeva nella lo-ro vicenda una verosimile mise en abîme dell’intero ro-manzo, quasi che la loro uccisione «a freddo» rimandassespontaneamente al destino di Milton, anche lui arrestatoda un «muro» che rende la sua morte (anche attraverso lamediazione della celeberrima raccolta sartriana de Le mur)assai simile a una fucilazione («Poi gli si parò davanti unbosco e Milton vi puntò dritto. Come entrò sotto gli al-beri, questi parvero serrare e far muro e a un metro daquel muro crollò»).

Scrivendo Una questione privata, Fenoglio continua arifiutare più che mai il «tipico», ma sa che anche l’ecce-zione ha i suoi rischi, e lo sa probabilmente ancora megliodi quando aveva scritto Il partigiano Johnny volutamente«a contropelo» degli intellettuali lukàcsiani perché ades-

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mente l’esperienza vissuta, essa apre una serie di nuoviproblemi, per esempio quello di far comprendere al letto-re il senso degli eventi raccontati che, ovviamente, al gio-vanissimo protagonista sfugge del tutto. Si pone cioè ilproblema della Storia e della sua interpretazione, come selo sguardo dell’adolescente rischiasse di falsare o per lomeno di occultare il giudizio che lo scrittore, adulto e con-sapevole, porta sulla sua esperienza partigiana. Pin noncapisce il linguaggio dei grandi ma la logica interna del ro-manzo imporrebbe che, una volta adottato il suo punto divista infantile, Calvino si attenesse ad esso fino in fondo:che, in altre parole, la guerra civile restasse un gioco in-comprensibile (proprio come il sesso) e che il narratore siaccontentasse di suggerire al lettore il significato deglieventi ai quali Pin assiste o partecipa lasciando il perso-naggio completamente ignaro di ciò che avviene sotto isuoi occhi, come nell’ultima scena quando non si rendeconto che Cugino sta cercando la sorella per sopprimerlae finisce per collaborare attivamente alla sua uccisione.

Ne Il sentiero dei nidi di ragno come in Una questioneprivata la mediazione romanzesca consente di oggettivarel’esperienza ma al tempo stesso rende opaco il giudizio delnarratore, al quale fanno velo i pensieri e le opinioni delprotagonista. Calvino però non si rassegna e soprattuttonon rinuncia a farci conoscere la sua opinione di ex com-battente e di militante comunista, anche a costo di unapesante forzatura. La soluzione è il nono capitolo del ro-manzo, dove il narratore introduce il commissario politi-co Kim (a tutti gli effetti un secondo alter ego dello stes-so Calvino), al quale viene dato modo in un lungo mono-logo di chiarire distesamente, innanzitutto a se stesso, leragioni della propria scelta partigiana. Di colpo gli avve-nimenti non ci vengono più presentati dalla prospettivastraniante di Pin, attraverso cioè il filtro di quel mondodelle fiabe che distorce il senso delle azioni degli adulti,ma così come li percepisce e li intende un intellettuale raf-finato, che (proprio come Calvino nel 1947) crede di co-

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il ruolo del fucilato e del fucilatore, della vittima e del car-nefice.

Teodicea partigiana.

La scelta di Fenoglio di allargare all’improvviso il qua-dro sino ad includere nel racconto gli effetti indiretti del-l’azione di Milton su Riccio e Bellini (oltretutto in una po-sizione altamente «strategica» come il penultimo capito-lo) non fa che attirare ancora una volta l’attenzione sulproblema più generale del nesso tra avventura romanze-sca e giudizio storico. Ma davvero può bastare un sem-plice inserto a raccordare i due diversi piani? L’interro-gativo è cruciale. Subito dopo la guerra, mentre scrivevail suo primo romanzo, a Italo Calvino si erano presentatedomande non dissimili. Probabilmente bisogna non pren-dere sempre alla lettera quanto egli stesso ci racconta a di-stanza di quasi vent’anni sui meccanismi psicologici e sul-le considerazioni estetiche che lo avrebbero condotto ascrivere in un particolare modo Il sentiero dei nidi di ragno;tuttavia abbiamo già visto il ruolo decisivo che nella suaricostruzione occupa il superamento della prima personae della trascrizione diretta della propria esperienza auto-biografica. Il distanziamento operato descrivendo la Re-sistenza con gli occhi di Pin appariva a Calvino la miglio-re garanzia del proprio affrancarsi dalle forme della me-moria individuale, salvo poi naturalmente riconoscere lasegreta affinità che lo lega al protagonista del proprio li-bro a un livello più profondo («L’inferiorità di Pin comebambino di fronte all’incomprensibile mondo dei grandicorrisponde a quella che nella stessa situazione provavoio, come borghese»).

Anche per Calvino, dunque, il romanzo rappresentauna terapia contro gli eccessi della prima persona e la ten-tazione del documento. Tuttavia, se l’adozione dell’oc-chio vergine di Pin consente di distanziare sentimental-

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opposto (della sua giovanile simpatia per Brecht e antipa-tia per Lukàcs Calvino parlerà in una tarda intervista aGregory Lucente). Tuttavia l’esigenza di «salvare i feno-meni» inserendoli in un reticolato di senso che in questocaso non può essere, in primissima istanza, che storico, liriguarda direttamente tutti e due. Milton ha bisogno diRiccio e Bellini almeno quanto Pin non può fare a menodi Kim, anche se, come vedremo, le strategie dei due au-tori per collocare il romanzo all’interno della Resistenzasi riveleranno alla fine diametralmente opposte.

Non è affatto secondario che, sia per Fenoglio sia perCalvino, il problema del senso della Storia si ponga instretta connessione con il tema del male e della violenza,vale a dire di quel diritto di vita e di morte che i parti-giani si arrogavano sugli avversari. La coincidenza nonsorprende, trattandosi di una questione chiave della Re-sistenza, lungamente dibattuta nell’esperienza di tutti igiorni assai prima che le opere letterarie venissero a rie-vocare i dubbi e le incertezze (ma anche la determinazio-ne) del momento. Un argomento scottante, forse addirit-tura il più scottante di tutti, come sembrano dimostrareanche le ultime pagine di Un uomo, un partigiano, dove ilproblema delle esecuzioni capitali viene discusso detta-gliatamente, quasi che, senza aver affrontato in modoesplicito e organico il tema della violenza, Francesco Bat-taglia non ritenesse possibile congedarsi dal lettore.

Proprio rispetto a questo punto le loro strade comin-ciano però immediatamente a divergere, evidenziando unateodicea addirittura opposta. Dove Calvino scioglie, Fe-noglio annoda. In altre parole, mentre ne Il sentiero dei ni-di di ragno il monologo di Kim serve a offrire una giusti-ficazione alla catena di eventi cui Pin ha preso inconsa-pevolmente parte mostrando al lettore il rapporto cheesiste tra quella sequenza disordinata di sofferenze impo-ste e subite e la marcia dell’uomo verso un mondo mi-gliore, il penultimo capitolo di Una questione privata ha in-vece lo scopo di intensificare i dilemmi etici e di rendere

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noscere il senso di marcia della Storia e si pone dalla pro-spettiva futura dell’umanità rischiarata.

Avvertito come una forzatura, il nono capitolo del ro-manzo ha suscitato sin dall’inizio pesanti perplessità, a co-minciare da Cesare Pavese che, stilando un parere edito-riale per l’Einaudi, per il resto molto positivo, rimproveròa Calvino questo solo scivolone («grande stonatura il ca-pitolo del commissario Kim che ragiona sul distaccamen-to di carogne dov’è il ragazzo. Si rompe l’angolo di visualedel ragazzo, e quello di Kim commissario non è ingrana-to nell’avventura, è un’esigenza intellettuale»). Pavese eraprobabilmente nel giusto. Ciò che il lettore rimprovera aCalvino è di «barare», venendo meno ai principi che al-l’inizio del libro lui stesso era sembrato darsi: un tradi-mento del punto di vista e della focalizzazione che na-sconde un tradimento del romanzo come genere lettera-rio. L’effetto, comunque, è immediato: bastano pochepagine affinché la sarabanda di avventure magico-picare-sche di cui Pin è stato protagonista fino a questo momentosi ritrovi saldamente inscritta in uno stabile sistema di va-lori.

Per quanto inadeguata letterariamente, la risposta diCalvino rimane però di grande interesse, perché eviden-zia un problema e un’esigenza assai concreta che ritro-viamo tale e quale in Una questione privata: evitare che lasequenza di azioni raccontate nel romanzo venga a com-porre solo una delle tante storie possibili, scommetteresulla sua esemplarità, riconnettere la prospettiva limitatae parziale del personaggio a un sistema di segni o a unacatena di eventi più ampia. Se necessario anche a costo diuna forzatura, come ne Il sentiero dei nidi di ragno. A suomodo, era proprio ad aporie di questo tenore che la pro-posta lukàcsiana intendeva offrire una soluzione, negan-do in partenza l’entrata a qualunque personaggio che re-casse su di sé il marchio dell’eccezione e della singolarità.Il partigiano bambino di Calvino e il partigiano innamo-rato di Fenoglio si collocano evidentemente all’estremo

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vendicazione della singolarità dell’uomo contro l’univer-salità dello Spirito, il rifiuto della libertà come necessitàin nome della libertà come possibilità, la difesa delle al-ternative inconciliabili contro la sintesi rasserenante del-la dialettica. Per questo, senza nulla togliere alla giustez-za della lotta partigiana, Fenoglio ci tiene a ribadire cherimane sempre qualcosa di scandaloso nella morte di dueadolescenti come Riccio e Bellini, che nessuna giustifica-zione a priori o posteriori (nessuna filosofia della storia)potrà mai cancellare o attenuare.

Per Fenoglio, in assenza di un momento sintetico, unascelta come quella di prendere le armi contro i propri con-cittadini può essere giustificata filosoficamente soltantonei termini di una scommessa. Le divergenze politiche efilosofiche implicano in questo caso anche una strategianarrativa profondamente diversa. Per risolvere le aporiedella lotta che si combatte giorno per giorno, Calvino«verticalizza». Per bocca del commissario politico comu-nista Kim è l’autore stesso che prende la parola per illu-strare i diritti dei vinti di ieri che si apprestano a diven-tare vincitori. Ma il suo discorso è costellato di punti in-terrogativi soltanto affinché le risposte suonino più nettee separino una volta per tutte i torti che fanno dei fasci-sti e dei tedeschi una «colonna dei gesti perduti» dalle ra-gioni dei combattenti per la libertà, dei quali nemmeno ilpiù piccolo gesto andrà sprecato.

Indipendentemente dai giudizi che si possono espri-mere sulla riuscita letteraria di questo nono capitolo, os-servato retrospettivamente, Il sentiero dei nidi di ragnosembra anticipare quella che negli anni sarebbe diventa-ta la tendenza dominante della narrativa di Calvino. Giàadesso, nel suo libro d’esordio, Calvino avverte il bisognodi parlare in prima persona, di dare sfogo alle proprie con-vinzioni. Annidato nella sua pagina, c’è sempre l’intellet-tuale abituato a ragionare per categorie generali che scal-pita per venire fuori e rivolgersi al lettore direttamente,introducendo quelle che, sul modello della sezione della

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se possibile ancora più drammatico il momento della scel-ta. Hegeliano e marxista, Calvino annulla le contraddi-zioni riconducendo il frammento alla totalità e attenuan-do il dolore dello sperpero attraverso il richiamo alla su-periore razionalità della Storia o del Cosmo, secondo unsistema di rispondenze che nella sua opera si estende benoltre i confini dell’umano (e per questo Domenico Scarpaha giustamente parlato di «storicismo molecolare»). Alcontrario Una questione privata non offre al lettore le stes-se certezze. L’atteggiamento di Fenoglio di fronte alla fu-cilazione di due adolescenti è quasi dostoevskiano e co-munque non punta ad attenuare lo scandalo della mortema semmai a presentarlo in tutte le sue costitutive, irri-solvibili antinomie. Per Fenoglio non si tratta di rinun-ciare alle armi e alla lotta, mettendo a tacere le mille buo-ne ragioni della Resistenza, quanto piuttosto di ricono-scersi disponibili ad assumere fino in fondo le conseguenzedei propri atti. La lezione possiede un valore che però tra-scende la guerra che si è combattuta in Italia tra il 1943e il 1945. Se a lui interessano soprattutto quei casi limitedi cui proprio le guerre civili abbondano (Cocito docet:«La vita del partigiano è tutta e solo fatta di casi estre-mi»), ciò dipende dal fatto che essi consentono di mette-re meglio a fuoco i tratti costitutivi dell’esistenza umana.

Influenzato da Chiodi e dalla filosofia di Kierkegaard,Fenoglio contrappone l’angoscia esistenzialista del singo-lo chiamato a effettuare una scelta che implica — sempree comunque — un abisso e un salto, alla continuità del-l’universo storico del marxista e dell’hegeliano che sussu-me il particolare nell’universale e riesce sempre a ricono-scere una razionalità superiore, per quanto violenta e di-struttiva, ai processi dialettici attraverso i quali vienemanifestandosi lo Spirito assoluto. Il confronto a distan-za tra il nono capitolo de Il sentiero dei nidi di ragno e ildodicesimo capitolo di Una questione privata sul significa-to ultimo della Resistenza sembra così far rivivere tutti igrandi temi della critica esistenzialista all’idealismo: la ri-

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so il passaggio da un piano a un altro. Invece di «vertica-lizzare», Fenoglio procede «orizzontalmente», inserendoaccanto all’«intreccio romantico» di Milton una secondavicenda ad esso così tenuemente collegata che, come ab-biamo visto, non è mancato chi vi ha ravvisato una di-gressione inutile. La storia di Riccio e Bellini, giovani staf-fette partigiane fucilate per rappresaglia non è insommaportatrice di una verità più alta rispetto a quella di Mil-ton (come Kim rispetto a Pin), perché l’una spiega l’altrasenza rivendicare una posizione privilegiata, ma riesceegualmente nello scopo di mostrare che l’eccezionalità del-la «questione privata» è sempre calata in una rete di vitee di esperienze che richiamano anch’esse l’attenzione dichi legge e di chi scrive. Per questa via l’episodio della fu-cilazione introduce con forza nel romanzo il tema delletremende conseguenze degli atti che compiamo credendodi essere nel giusto. In una guerra civile nessuno può con-siderarsi del tutto innocente: nemmeno Milton, che neltentativo di salvare la vita a un amico finisce per provo-care involontariamente la morte di due ragazzi. Tuttavianon ci sono alternative. E’ questo il prezzo da pagare, per-ché, come dice Johnny, «ricordati che senza i morti, i lo-ro ed i nostri, tutto questo non avrebbe senso». Per Fe-noglio, uno dei tratti distintivi e oserei dire una prova del-la superiorità morale dei partigiani rispetto ai loro nemicisarà allora la piena coscienza delle ricadute che le propriescelte possono avere, e dunque l’assunzione completa del-le proprie responsabilità. Per esempio la consapevolezzadi tutto quello che il tentativo di liberare Giorgio attra-verso uno scambio potrebbe comportare in termini di mor-te e di dolore, per sé e per gli altri (una consapevolezzache naturalmente non implica che alla fine non si decidadi percorrere egualmente questa strada).

All’opposto di questo principio di responsabilità, fon-dato sulla preventiva ammissione della propria colpa, vi èlo stupore di un adolescente come Riccio, che rivendicasino all’ultimo la propria innocenza («io non ho mai fat-

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commedia greca in cui il drammaturgo faceva cadere lafinzione scenica e si presentava al suo pubblico senza me-diazioni, si potrebbe definire una moderna parodo. Pro-prio in questa prospettiva, si rivela assai istruttivo un li-bro tutto sommato ancora abbastanza tradizionale comeLa giornata di uno scrutatore, dove, nell’undicesimo capi-tolo, un’interpretazione alquanto libera dei manoscrittigiovanili di Marx a proposito della sulla «natura come cor-po inorganico dell’uomo» viene a dividere il racconto indue sezioni quasi equivalenti, mentre il dolore e la malat-tia mentale scoperti nel seggio del Cottolengo erodono apoco a poco certezze che solo poche ore prima sarebberoapparse inamovibili al protagonista. Col tempo anzi Cal-vino non avrebbe fatto che ampliare e approfondire ulte-riormente tali intermezzi, al punto che la sua evoluzionedi scrittore potrebbe essere descritta come il proliferaredegli scoli filosofici e dell’autocommento a scapito del rac-conto vero e proprio. A partire almeno dagli anni Sessantatutta la seconda fase della sua opera muove in qualche mo-do dal monologo di Kim: la voce dell’autore fagocita pro-gressivamente tutto il resto (storie, personaggi, dialoghi),al punto che tutto il romanzo, da un certo momento inpoi, sembra trasformarsi in un’unica, ininterrotta «paro-do ideologica» che si estende praticamente dalla prima al-l’ultima riga del volume, come nelle allegorie scientifichedelle Cosmicomiche e di Ti con zero, ne Le città invisibilio ancora meglio in Palomar, che costituisce l’esito estre-mo e più compiuto di questo percorso di allontanamentodal romanzo.

Nulla di simile in Fenoglio. Se per Calvino la grandestoria ha il potere di giustificare e di redimere ogni sin-gola azione, placando i dubbi e i sensi di colpa, la lezioneche ci viene dal dodicesimo capitolo di Una questione pri-vata è esattamente opposta. Anche Fenoglio si trova da-vanti al problema di inserire la vicenda eccezionale di Mil-ton in un contesto più ampio, ma a differenza di Calvinol’allargamento della prospettiva non implica in questo ca-

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gio e di Fulvia, anche la ventennale ricerca del romanzopartigiano intrapresa da un’intera generazione di scritto-ri sembra descrivere alla fine una traiettoria circolare. Laquerelle sulla Resistenza «mancata» dai romanzieri era sta-ta inaugurata da Calvino nel luglio del 1949 e sarebbe toc-cato allo stesso Calvino chiuderla, esattamente quindicianni dopo, al momento di constatare, nella prefazione aIl sentiero dei nidi di ragno più volte ricordata, che quelvuoto era stato finalmente colmato: «Il libro che la nostragenerazione voleva fare adesso c’è, e il nostro lavoro haun coronamento e un senso, e solo ora, grazie a Fenoglio,possiamo dire che una stagione è compiuta, solo ora sia-mo certi che è veramente esistita: la stagione che va dalSentiero dei nidi di ragno a Una questione privata».

Con il romanzo di Fenoglio, l’auspicio formulato daCalvino in quell’occasione (leggere «un’opera letterariache possa dire veramente di sé: «io rappresento la Resi-stenza»») sembrava dunque essersi avverato, il compitoera stato assolto. Nel tentativo di giungere a questo ri-sultato, da quel 1949, erano state imboccate strade anchemolto diverse. Cassola aveva pensato di potersi serviredella lotta partigiana come di uno «sfondo» sul quale farmuovere i personaggi del suo romanzo; Tobino e Ventu-ri avevano giocato la carta del romanzo storico; lo stessoFenoglio in un primo tempo aveva creduto nella possibi-lità di un romanzo scritto «con modi aromanzeschi», unromanzo che «propriamente» non era tale e che si servi-va dei moduli della memorialistica per raccontare per som-ma di episodi la vicenda di un personaggio immaginarioal quale il narratore aveva però preventivamente attri-buito molti dei propri tratti fisici e psicologici. Come ab-biamo visto, Una questione privata sarebbe stata scritta apartire da considerazioni completamente differenti e in-nanzitutto dalla volontà di far rivivere tutta la Resisten-za in un unico mythos che la riassumesse e la compendiassein forma esemplare.

Questa decisa opzione per il romanzo e per l’«intrec-

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to niente di male. E non ho nemmeno visto far del male.Facevo la staffetta e basta»; «Io ho solo quattordici annie facevo la staffetta. A dir la verità, era appena la secon-da volta che la facevo quando sono stato preso, ve lo giu-ro. Io non c’entro»), in un linguaggio spaventosamente si-mile a quello che parlano i fascisti condannati nel libro diBattaglia, incapaci di farsi una ragione del destino che liattende e pronti ad attribuirsi tutt’al più delle responsa-bilità minori e marginali: «Nessuno sa niente, nessuno èincolpevole. Tutti sono stati costretti, tutti ignoravano leconseguenze delle proprie azioni». E ancora: «Non ho uc-ciso — dichiarano quasi tutti — e quindi non sono meri-tevole di morte».

Responsabilità, da un punto di vista prettamente nar-rativo, vuol dire che Riccio e Bellini fanno soltanto unabreve comparsa in Una questione privata, ma che Fenoglionon dà mai l’impressione di trattarli come se fossero me-no importanti di Milton. Scrivere un romanzo ambienta-to «nel fitto della guerra civile» implica in qualche modol’accettazione che non esiste uno «sfondo» inerte al qua-le spetta di fare da macchia di colore perché tutti i livellidel racconto sono interconnessi tra loro. Che, grazie allafitta tramatura dei piani di cui si compone l’universo ro-manzesco, è solo la prospettiva adottata a stabilire chi oc-cupa la prima e chi la seconda o la terza fila. Che, in de-finitiva, la storia di ogni personaggio, minore o minimo,merita di essere ascoltata e può persino ottenere per qual-che pagina la ribalta come nel caso di Riccio e Bellini. Per-ché negare l’esistenza di uno «sfondo» separato significaappunto rifiutare l’idea di un romanzo in cui conti sol-tanto il protagonista e tutti gli altri personaggi siano (nar-rativamente) sacrificabili a piacimento.

Adesso c’è.

Proprio come il cammino di Milton sulle tracce di Gior-

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verso di essa. La lotta partigiana, in altre parole, non lo in-teressa più in quanto momento particolarmente impor-tante nella storia del suo paese (o della millenaria lotta del-l’uomo per la sua libertà) ma perché i venti mesi che se-parano l’8 settembre dal 25 aprile sembrano offrirgli unacompiuta allegoria dell’intera esistenza. Così che il per-sonaggio di Milton (a differenza di Johnny), è pensato sindall’inizio per essere al tempo stesso dentro la Resistenzae oltre i suoi confini.

Siamo partiti dalla constatazione che Una questione pri-vata è il libro che ha confermato agli occhi di tutti i let-tori l’immagine di Fenoglio come scrittore della Resi-stenza. Soltanto ora però siamo in grado di comprendereesattamente il senso della sua scelta e del terremoto in-nescato dalla pubblicazione di Primavera di bellezza, quan-do Fenoglio decide di abbandonare al suo destino la se-conda parte del «libro grosso» e nel giro di nemmeno unanno prendono corpo in rapidissima successione ben duenuovi romanzi partigiani. Licenziando il primo volumedella sua «autobiografia per interposta persona», la lottapartigiana veniva ad assumere di colpo ai suoi occhi un si-gnificato completamente diverso. Non più un tema, fos-se anche il tema privilegiato, come era stato sino a questomomento, ma una grande metafora della condizione uma-na: impossibile da esaurire perché, almeno in potenza, su-scettibile di ospitare al proprio interno qualsiasi storia.Qualcosa, insomma, di sempre più simile a quello che iviaggi per mare e la dimensione oceanica avevano costi-tuito per l’amato Conrad: un attributo dello spirito, undemone esigente, un esperimento sull’uomo.

Per descrivere il nuovo atteggiamento di Fenoglio sipotrebbe parlare di uno slittamento dalla rappresentazio-ne della Resistenza come fine alla rappresentazione dellaResistenza come mezzo. Come tutte le formule, anche que-sta sconta la propria misura breve e non tiene conto del-le sfumature e delle tonalità di grigio, ma ha se non altroil pregio di marcare con forza il senso della nuova poeti-

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cio romantico» si sarebbe rivelata vincente. Calvino fuuno dei primi a riconoscere che proprio la trasfigurazio-ne romanzesca aveva permesso a Fenoglio di far riviverela Resistenza con una intensità che probabilmente, conl’eccezione di qualche prosa breve, nessuno dei libri pub-blicati sino a quel momento aveva posseduto. Anzi, perstrano che potesse apparire (ma non lo era), la questioneprivata di Milton giungeva a illuminare le grandi passio-ni collettive di quella stagione meglio di qualsiasi grandeaffresco complessivo, proprio come Fenoglio (altro para-dosso apparente) non era mai stato tanto fedele alla ve-rità storica quanto nel momento in cui aveva deciso di sa-crificare alla libertà del romanziere il culto dell’esperien-za vissuta. Nonostante ciò (o forse proprio grazie aquesto), nelle pagine del suo nuovo libro non tutto è geo-metrica esattezza e follia ariostesca. Al contrario. Calvi-no ci tiene molto a sottolinearlo e nel suo saggio il riferi-mento all’Orlando furioso viene subito accompagnato dauna precisazione che, alla luce dei saggi dei tardi Cin-quanta in cui aveva proposto Ariosto come modello peruscire dalle secche dell’engagement, non stupisce per nien-te: «e nello stesso tempo c’è la Resistenza proprio com’e-ra, di dentro e di fuori, vera come mai era stata scritta,serbata per tanti anni limpidamente dalla memoria fede-le, e con tutti i valori morali, tanto più forti quanto piùimpliciti, e la commozione, e la furia».

Il vero paradosso allora è che molto probabilmente Fe-noglio è arrivato ad offrire questa immagine definitiva del-la guerra civile proprio nel momento in cui meno la cer-cava. Abbiamo già visto come, a questo punto della suavita, avvicinandosi alla svolta dei quarant’anni, il suo rap-porto con la stagione della lotta partigiana subisca unasterzata improvvisa. Con Una questione privata, Fenoglionon ambisce più a rappresentare la Resistenza (come even-to storico o come esperienza autobiografica), cioè a por-tare testimonianza degli eventi ai quali lui stesso ha pre-so parte, ma si ripromette semmai di rappresentare attra-

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storie che la guerra sembrava aver assegnato in sorte ai re-duci — diversa da quella di tutti gli altri.

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ca fenogliana. Di certo, anche l’improvviso concentrarsidel suo interesse sull’estate-autunno del 1944 nasce dallascoperta che la guerra civile è in grado di offrire da solauna trascrizione integrale dell’esistenza. A questo scopo,proprio i mesi della «grande illusione» partigiana, quan-do i reparti sono gonfi a dismisura e tutti credono che laguerra sarà conclusa prima dell’inverno, sino alla falli-mentare occupazione di Alba (10 ottobre – 2 novembre),si rivelano particolarmente adatti, perché tra i fascisti ele formazioni badogliane e garibaldine si è venuto a sta-bilire una sorta di status quo, con zone di influenza rico-nosciute ufficiosamente dagli uni e dagli altri: qualcosa dimolto simile a una condizione di emergenza normalizza-ta (un’eccezione protratta nel tempo), che consente peresempio di introdurre con una certa libertà quelle donne(e dunque quell’elemento sentimentale) che sino a quelmomento erano stati assenti dalla narrativa fenogliana eche solo qui, nella quotidianità dei «luoghi non giurisdi-zionali», potevano venire riammesse nell’universo del ro-manzo partigiano.

Inutile allora affannarsi a proclamare «poi basta coipartigiani»; inutile rivolgere altrove lo sguardo alla ricer-ca di storie che in qualche modo legittimino il proprio sta-tus di romanziere «vero», senza ulteriori aggettivi (nontestimone, romanziere; scrittore partigiano e non parti-giano scrittore). Inutile, soprattutto, perché di colpo ilproblema è cambiato e la scommessa non è più quella dirappresentare in una sola opera «tutta la Resistenza» (co-me diceva Calvino), ma al contrario di fare di quei ventimesi fuori dal comune l’ambientazione delle proprie sto-rie, grandi e piccole, allegre e dolorose, di colonizzarli coni propri fantasmi e le proprie ossessioni creative, di abi-tarli per intero. Una discontinuità nella ripetizione chetrasfigura completamente il senso della lotta partigiana(da fine a mezzo) e allo stesso tempo rende la risposta diFenoglio al grande interrogativo dei romanzieri della suagenerazione — cosa fare una volta esaurita la riserva di

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più intricati della vita editoriale. Fenoglio oscilla infatti tra la Garzantie l’Einaudi e nell’incertezza ha sconsideratamente firmato un contrattocon tutti e due gli editori scatenando una contesa legale che avrebbeavuto il risultato di impedire la pubblicazione del suo quarto libro invita (verosimilmente una raccolta di racconti). Dal momento che inqueste lettere Fenoglio mente sistematicamente ai suoi editori, essenon costituiscono un testo unitario, ma vanno lette come altrettanterisposte ad hominem, concepite innanzitutto per prendere tempo e te-nere buoni i suoi interlocutori, che in questa fase della sua vita sonoinnanzitutto Livio Garzanti e Italo Calvino. Dopo il soggetto inviatoa Questi nel gennaio del 1960, che ricalca la trama del disegno origi-nario di Una questione privata, il primo riferimento al nuovo libro sitrova in una lettera a Gina Lagorio del 7 marzo 1960 in cui Fenogliodichiara di aver scritto tre capitoli su venti previsti. Il giorno succes-sivo, scrivendo a Livio Garzanti, le proporzioni sono già cambiate: Fe-noglio afferma di aver composto un terzo del libro (gonfiando perciòla quantità del lavoro già fatto) ma si dice ancora lontano dalla con-clusione e «fortunato» se riuscirà a consegnare la nuova fatica a fineautunno. La testimonianza successiva si trova in una lettera del 1 lu-glio 1960 a Calvino, che sta cercando in ogni modo di ricomporre irapporti con Fenoglio dopo la disastrosa quarta di copertina di Vitto-rini a La malora, che era stata la causa del raffreddamento prima e del-l’interruzione poi dei suoi rapporti con l’Einaudi. Ma Fenoglio è an-cora incerto sul da farsi e preferisce presentarsi a Calvino come inat-tivo da sei mesi, cosa che invece noi sappiamo non corrispondente averità. Già nella lettera successiva Fenoglio si mostra meno guardin-go e racconta a Calvino di essere in fase di riscrittura: «il libro è an-cora lontano dall’uscita. Sto infatti rimaneggiandolo. Prima della pri-mavera ventura non sarà certo pronto» (22 novembre 1960). Da que-sto momento comincia un lungo silenzio: Garzanti tace, mentre lelettere con Calvino vertono tutte sul libro di racconti che Fenoglio stacercando di mettere in ordine per la casa editrice torinese. Il silenziodura esattamente un anno, sino a quando, rispondendo a una letteradi Bertolucci, che gli propone anche lui di riunire (da Garzanti) tuttele sue prose brevi, Fenoglio scrive laconicamente a proposito del nuo-vo romanzo: «l’ho scritto, l’ho rifatto e poiché ancora non mi soddi-sfa, lo riscriverò interamente» (21 novembre 1961). Contrariamentea quanto ritiene Luca Bufano (il curatore dell’epistolario fenogliano)non abbiamo modo di stabilire con certezza a quale delle diverse re-dazioni del romanzo Fenoglio si riferisce, se alla seconda o alla terza,tanto più che a partire da questo momento non dirà più di lavorare adesso ma tutt’al più di avere l’intenzione di tornare a farlo. L’ultima te-stimonianza epistolare su Una Questione privata risale a un mese dopo(16 dicembre 1961), quando, scrivendo a Livio Garzanti nel bel mez-zo della querelle sorta attorno ai diritti del suo nuovo libro, Fenoglio

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Nota al testo.

1. La prima edizione.

Rinvenuto tra le carte di Fenoglio da Lorenzo Mondo, Una que-stione privata è stato pubblicato la prima volta nella primavera del 1963presso le edizioni Garzanti, pochi mesi dopo la sua morte, in coda auna raccolta di racconti assemblata a partire da un progetto parzial-mente riconducibile allo stesso Fenoglio. La quarta di copertina, nonfirmata, venne redatta da Pietro Citati. Un giorno di fuoco (così il ti-tolo complessivo del volume) partecipa al Premio «Strega» entrandoin cinquina assieme a Lessico familiare di Natalia Ginzburg, Rien va diTommaso Landolfi, La dura spina di Renzo Rosso e Il papa di GiorgioSaviane. Vincerà la Ginzburg, ma qualche mese dopo a Fenoglio verràassegnato il Premio «Puccini Senigallia» e già nell’autunno dello stes-so anno il libro avrà una seconda edizione per il rapido esaurirsi dellaprima tiratura.

2. La stesura del romanzo.

A quanto possiamo intuire dai materiali preparatori sopravvissuti,Una questione privata è il frutto di tre stesure consecutive abbastanzaravvicinate nel tempo, anche se sul romanzo ricade un gran numero diesperienze precedenti, dall’intreccio triangolare delle opere teatrali digioventù ad alcuni spunti dei primi anni Cinquanta, come questo, cheleggiamo nelle pagine del suo diario sotto il titolo di Concetto infor-matore nuovi tales: «La vita ci dà in sorte una cosa sola: una donna, uncampo, un […] che diventa tutto noi stessi. La carichiamo d’un pos-sesso tanto più forte quante più sono le cose che ci sono negate. Chitocca e porta via la cosa che è noi, ci uccide, ma non tanto in frettache non si uccida anche lui» (nota sulla quale meritano di essere lettele considerazioni di Eduardo Saccone, Fenoglio, Einaudi, Torino 1988,pp. 122-23).

Per la datazione del romanzo disponiamo in realtà quasi soltantodelle testimonianze epistolari dello stesso Fenoglio, che vanno co-munque adoperate con prudenza perché risalgono a uno dei periodi

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dovrebbe vedere la luce quanto prima, potrebbe definirsi la questioneprivata di un partigiano e l’intreccio si svolge nel fitto della guerra ci-vile d’Italia». Una testimonianza particolarmente significativa per ilricorrere dell’espressione «nel fitto», che figurava nella medesima let-tera a Garzanti, e che, associata al futuro titolo del romanzo, potreb-be suggerire una qualche indicazione orale dell’autore in tal senso.

La fortunata coincidenza che ci ha fatto pervenire tutte e tre le ste-sure di Una questione privata ha naturalmente attirato l’attenzione deifilologi che, studiando le varianti d’autore, possono addentrarsi nel la-boratorio fenogliano e ottenere preziose informazioni sulla sua prati-ca riscrittoria. Ha dato il via a questo filone di indagini Rosella Cuz-zoni, la quale, in un saggio esplicitamente dedicato al lento processodi distillazione che ha portato al libro che oggi conosciamo (Le tre re-dazioni di «Una questione privata», «Nuovi Argomenti», 35-36, n.s.,1973, p. 211), ha notato per esempio come «il triangolo amoroso Mil-ton-Fulvia-Giorgio nasca solo con la seconda redazione del romanzo(in Questione privata1 il movente di Milton è quello di Johnny, l’ami-cizia»). A questo lavoro pionieristico, pubblicato ancora prima che lecarte fenogliane venissero raccolte in volume, hanno fatto seguito unaserie di altri lavori, in particolare di Margherita Grignani (nell’appa-rato che accompagna l’edizione delle Opere del 1978, pp. 2237-40) edi Elisabetta Soletti, che, nel suo Beppe Fenoglio, Mursia, Milano 1987(pp. 155-86), ha ricostruito con particolare cura l’evoluzione della tra-ma del romanzo, senza trascurare la lingua e il sistema delle metafore.

4. Il finale.

La pubblicazione postuma di Una questione privata ha posto aglistudiosi una serie di problemi filologici, certamente meno intricati diquelli sollevati da Il partigiano Johnny ma comunque non sempre difacile soluzione. Il più grave di questi riguarda la conclusione del li-bro, vale a dire la necessità di stabilire se, allo stadio in cui ci è giun-to, il romanzo di Fenoglio vada considerato finito o se invece atten-desse una continuazione oltre il «crollò» che suggella il tredicesimo ca-pitolo. Inizialmente tutti i lettori vi hanno scorto un’opera conclusa,priva con ogni probabilità dell’ultima limatura, ma comunque desti-nata a terminare con la corsa affannosa di Milton e il suo crollo al mar-gine estremo del bosco. A questo proposito disponiamo anche di unapreziosa testimonianza della moglie riportata da Davide Lajolo chesembrerebbe confermare tale ipotesi: «Quando Fenoglio è morto, ilromanzo non era ancora stato da lui ripassato per l’ultima volta. Ave-va detto alla moglie che doveva ancora riguardarlo nelle parole, nel-l’effetto generale» (Fenoglio il «barbaro», «Quaderni dell’IstitutoNuovi Incontri, n. 4).

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si dice ancora insoddisfatto del volume ma rinvia ogni ulteriore delu-cidazione a un imminente incontro dal vivo («le parlerò diffusamentea voce»).

Se dunque vogliamo prendere per buone le affermazioni di Feno-glio, dobbiamo concludere che le uniche certezze sui tempi di lavora-zione di Una questione privata sono che: 1) nel marzo del 1960 sta scri-vendo il romanzo (già ideato nel gennaio, come dimostra la lettera aQuesti), 2) nel novembre dello stesso anno ci sta rimettendo le mani,3) ancora alla fine del 1961 si dice insoddisfatto del risultato e desi-deroso di «riscriverlo interamente», anche se dopo la lettera a Calvi-no del 22 novembre 1960 non dice più che ci sta lavorando ma sol-tanto che intende farlo, e nulla impedisce di credere che questa per-plessità si riferisca alla versione in cui il libro ci è giunto oggi (la terza).Allo stato attuale della documentazione non ci sono prove insommache dopo la fine del 1960 Fenoglio abbia ulteriormente riscritto Unaquestione privata (tanto più che dall’inizio dell’anno successivo lo tro-viamo immerso nel progetto de I racconti del parentado), anche se que-sto non può essere escluso. Semplicemente, di tutto quello che è suc-cesso dopo questa data noi non sappiamo nulla e dobbiamo affidarci amere congetture (a conclusioni simili è giunto Dante Isella in BeppeFenoglio, Romanzi e racconti, seconda edizione ampliata, Einaudi, To-rino 2001, p. 1740).

3. I testimoni manoscritti.

Di Una questione privata sono sopravvissuti i dattiloscritti dellaprima e della seconda stesura, pubblicati nel secondo volume dell’edi-zione delle Opere diretta da Maria Corti. E’ andato perduto invece ildattiloscritto della terza e ultima stesura, servito per comporre il testodell’edizione garzantiana del 1963. In mancanza di altri testimoni,dobbiamo perciò rifarci immancabilmente alla princeps a stampa.

L’assenza del manoscritto originale appare particolarmente impor-tante soprattutto per la questione del titolo. Nel carteggio con Gar-zanti Fenoglio propone, «se non le pare troppo canzonettistico Lon-tano dietro le nuvole o, se vogliamo addirittura in inglese, Far behindthe clouds», che è una frase tratta da Over the Rainbow, la canzoneche accompagna il «disgraziato, complicato amore letterario del pro-tagonista» (8 marzo 1960). Le possibilità sono due: o Una questioneprivata figura nel dattiloscritto perduto o altrimenti si tratta di un ti-tolo redazionale, imposto al momento della pubblicazione postuma daqualche collaboratore della Garzanti. Allo stato attuale delle cono-scenze, non c’è tuttavia motivo per rifiutarlo, anche perché, sulla«Gazzetta del Popolo» del 28 ottobre 1960 (a stesura, come sappia-mo, ormai avanzata) troviamo annunciato: «Il quarto Fenoglio, che

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lo di infrazione che il passato e il futuro rappresentano nella vita par-tigiana (come fedeltà a un presente «assoluto») alla proliferazione de-realizzante degli oggetti; dalla trasfigurazione simbolica del corpo diMilton (sempre più immerso nel fango) al valore dell’elusione, dell’e-lisione e dell’allusione nella poetica fenogliana della reticenza; dalladisseminazione dei presagi di morte lungo tutto il romanzo all’analisidella corsa finale di Milton sotto il fuoco dei fascisti, che richiama tut-te le fucilazioni precedenti e al tempo stesso si propone di offrire unarappresentazione icastica della condition humaine. (Su questo punto mipreme fare una rapida precisazione: le pagine di questa introduzionesono state pensate per offrire una lettura diversa, ma del tutto com-plementare, rispetto a quella proposta nel libro; in particolare, se neLa strada più lunga mi ero attenuto al principio dei filologi alessandri-ni che cercavano di «spiegare Omero con Omero», lasciando delibe-ratamente sullo sfondo l’ambiente culturale in cui Fenoglio aveva ela-borato il proprio romanzo, in queste pagine ho scelto di fare esatta-mente il contrario, calando Una questione privata nella vita intellettualee politica dell’Italia del dopoguerra).

Come lascia intuire anche il titolo, La biblioteca inglese di Beppe Fe-noglio, si sofferma invece con particolare attenzione sui modelli lette-rari (principalmente anglosassoni) dello scrittore piemontese e sull’u-so che ne viene fatto all’interno del romanzo, contrapponendo «i libridi Fulvia» alla «biblioteca di Milton» e insistendo in particolare sulloscontro tra l’utopia romanzesca del personaggio e il controcanto iro-nico del narratore, per giungere infine a delineare nell’ultima parte delsaggio una vera e propria «etica del romanzesco» che avvicinerebbeFenoglio al Calvino de I nostri antenati all’insegna di un originale ro-mance italiano.

I due libri hanno suscitato un vivace dibattito sulle riviste univer-sitarie di italianistica. In particolare si vedano: Laura Paolino, Per Mil-ton redivivo. Osservazioni e proposte in margine a un paio di recenti con-tributi critici sul romanzo «Una questione privata» di Beppe Fenoglio,«Nuova Rivista di Letteratura Italiana», IV, 2001, 1, pp. 291-330;Andrea Rondini, Dallo splendido isolamento al successo problematico.Fenoglio e la critica dell’ultimo decennio, «Testo», XXIV, 2003, pp.103-25; e la replica di Orsetta Innocenti, Questioni fenogliane, «Ita-lianistica», XXXII, 2003, pp. 437-443.

6. Qualche informazione storica.

Per una completa comprensione del romanzo di Fenoglio sono ne-cessarie alcune (minime) informazioni storiche.

L’UNPA sta per l’«Unione Nazionale Protezione Antiaerea», nel-le cui file tutti i giovani erano obbligati a prestare servizio a rotazio-

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A presentare Una questione privata come un romanzo incompiuto èstata per prima Maria Corti in Trittico per Fenoglio (in Ead., Metodi efantasmi, Feltrinelli, Milano 1969, p. 27). Tale tesi sarebbe stata riba-dita poi nel terzo volume dell’edizione delle Opere fenogliane curatoda Antonietta Grignani, dove veniva sbandierata sulla quarta di co-pertina come una delle principali e più rilevanti scoperte del lavoro discavo condotto tra le carte dello scrittore piemontese: «Questo tomodà abbondantemente la misura del continuo fare e rifare in cui si iden-tificava per Fenoglio il mestiere di scrivere; inoltre ci illumina sulla na-tura squisitamente monotematica dell’ispirazione di questo scrittore;ecco davanti a noi ben due redazioni di Primavera di bellezza, di cuiuna inedita, e ben tre redazioni, di cui due inedite, di Una questioneprivata, che tra l’altro risulta un romanzo interrotto e non un raccon-to».

Oggi quasi nessuno studioso consente più con questa ricostruzio-ne. La tesi della Corti si basava infatti principalmente sul reperimen-to di una serie di appunti dove si allude alla liberazione di Giorgio.Successivamente però, a un esame approfondito, si è scoperto che ap-partengono tutti, con ogni probabilità, al primissimo disegno, forsepersino antecedente alla prima stesura in nostro possesso (su questopunto si veda l’analisi compiuta da Dante Isella in Beppe Fenoglio,Romanzi e racconti cit., pp. 1734-36). A considerazioni di ordine filo-logico si aggiungono inoltre considerazioni di ordine propriamente cri-tico. Come ha scritto infatti Dante Isella: «Ma il tormentoso interro-gativo di Milton, la sua ricerca della verità, non sono forse, dobbiamochiederci, un interrogativo e una ricerca che non possono ottenere ri-sposta?». Anche per questo, a quanto ci è dato di sapere oggi, Unaquestione privata deve essere considerato dunque un romanzo conclu-so, al quale tuttavia è mancata l’ultima rifinitura (ipotesi che tra l’al-tro si accorda perfettamente con la testimonianza della moglie di Fe-noglio).

5. Il dibattito critico più recente.

Caso più unico che raro per un narratore del secondo Novecentoitaliano, disponiamo di ben due monografie espressamente dedicata aUna questione privata e uscite a distanza di pochi mesi l’una dall’altra:Gabriele Pedullà, La strada più lunga. Sulle tracce di Beppe Fenoglio,Donzelli, Roma 2001 e Orsetta Innocenti, La biblioteca inglese di Bep-pe Fenoglio, Vecchiarelli, Roma 2001.

La strada più lunga intende offrire una lettura integrale del roman-zo di Fenoglio: dall’analisi della strategia indiretta di seduzione per-seguita da Milton alla ricostruzione del percorso che i libri e le canzo-ni che lui traduce e regala a Fulvia vengono a tracciare per lei; dal ruo-

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ne. Ad essi, assieme ai capi palazzo, spettava il compito di portare ilprimo soccorso ai civili e di spegnere gli incendi nel caso di un bom-bardamento da parte degli alleati (per un altro riferimento letterariocoevo si può vedere Le notti dell’UNPA di Italo Calvino, raccolto neL’entrata in guerra).

La piantina riprodotta in fondo al volume dovrebbe aiutare i let-tori a orientarsi nella geografia delle Langhe e a seguire gli spostamentidi Milton.

Queste pagine sono per Orsetta, la cui amicizia è un regalo di Bep-pe.

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