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Aristotele Poetica

1. La poesia è imitazione. Divisione dell’imitazione rispetto al mezzo

[1447 a] Dell’arte poetica considerata in sé e delle sue specie, quale effetto abbia ognuna, come si debbano metter su i racconti [10] se la poesia deve riuscir bene, ed ancora da quante e quali parti è costituita e similmente di quante altre questioni son proprie di questa ricerca, diremo incominciando secondo l’ordine naturale dapprima dalle prime.

L’epopea e la tragedia ed ancora la commedia e il ditirambo ed anche gran parte [15] dell’auletica e della citaristica, tutte, prese nel loro assieme, si trovano ad essere imitazioni; ma differiscono tra loro sotto tre aspetti, e cioè per il loro imitare o in materiali diversi o cose diverse o in maniera diversa e non allo stesso modo.

Dato che come alcuni imitano molte cose rappresentandole con i colori e con le figure (chi [20] per il possesso dell’arte e chi invece per semplice pratica), mentre altri per mezzo della voce, così, anche per le arti sopra dette, tutte quante producono l’imitazione nel ritmo, nel discorso e nell’armonia, e questi o presi separatamente o mescolati assieme. Ad esempio, dell’armonia e del ritmo da soli si valgono l’auletica e la citaristica [25] e quante altre arti si trovano ad essere a loro simili per l’effetto, come l’arte della zampogna; del solo ritmo senza l’armonia l’arte dei danzatori (perché anch’essi per mezzo di ritmi figurati imitano caratteri, passioni, azioni); mentre l’arte che si vale soltanto dei nudi discorsi e quella che si serve dei metri sia [1447 b] [10] mescolandoli tra loro sia di un’unica specie si trovano ad essere fino ad oggi prive di un nome.

Giacché non sapremmo come chiamare con un unico nome i mimi di Sofrone e di Senarco assieme ai discorsi socratici, e lo stesso è per le imitazioni fatte con trimetri giambici o con versi elegiaci o con qualche altro metro di questo genere. Vero è che la gente, unendo al metro il termine "poeta", li chiama "poeti elegiaci" o "poeti epici", [15] caratterizzando a questo modo la loro poesia non con riferimento all’imitazione ma a seconda dei metri che impiegano, giacché perfino chi dia fuori versi in materia medica o fisica si è soliti chiamarlo poeta. Ma in realtà tra Omero ed Empedocle non c’è niente di comune all’infuori del metro e perciò sarebbe giusto chiamar poeta il primo, ma il secondo piuttosto scienziato e non poeta. [20] Per lo stesso motivo andrebbe chiamato poeta anche chi

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producesse l’imitazione mescolando tutti i metri, come ha fatto Cheremone con il suo Centauro, che è una rapsodia mescolata di tutti i metri.

Su questo argomento dunque valgono queste distinzioni. Ma ci sono alcune arti che si servono di tutti assieme i mezzi già ricordati, [25] e cioè del ritmo, della melodia e del metro, quali da una parte la poesia ditirambica e quella dei nòmi, e dall’altra la tragedia e la commedia, ma si differenziano tra loro perché le prime se ne valgono simultaneamente mentre le seconde in parti diverse dell’opera.

Queste dunque dico che sono le differenze delle arti rispetto ai materiali nei quali esse producono l’imitazione.

2. Divisione dell’imitazione rispetto all’oggetto

[1448 a] Poiché quelli che imitano, imitano uomini che agiscono ed è necessario che questi siano persone o nobili o spregevoli (ed infatti quasi sempre i caratteri si riconducono a questi due soli, giacché tutti, quanto al carattere, differiscono per il vizio e la virtù), imiteranno uomini o migliori dell’ordinario o peggiori [5] o quali noi siamo, come fanno i pittori. Polignoto infatti rappresenta uomini migliori, Pausone peggiori, Dionisio simili. È chiaro dunque che ciascuna delle imitazioni suddette avrà queste differenze e pertanto l’una sarà diversa dall’altra per il fatto che imita oggetti diversi.

Ed infatti perfino nella danza, nell’auletica e [10] nella citaristica si possono dare queste dissimiglianze e cosi anche nelle opere in prosa o soltanto in versi, come ad esempio Omero imitò uomini migliori, Cleofonte simili, ma peggiori Egemone di Taso, che per primo compose parodie, e Nicorache, l’autore della Deiliade. Lo stesso vale per i ditirambi e per i [15] nòmi, giacché si potrebbero imitare personaggi al modo tenuto da Timoteo e Filosseno nei loro Ciclopi.

In questa differenza sta anche il divario tra la tragedia e la commedia, giacché l’una tende ad imitare persone migliori, l’altra peggiori di quelle esistenti.

3. Divisione dell’imitazione rispetto al modo

Vi è ancora di queste imitazioni una terza differenza, quella del come si possono [20] imitare i singoli oggetti. Ed infatti è possibile imitare con gli stessi materiali gli stessi oggetti, a volte narrando, sia diventando un altro, come fa Omero, sia restando se stesso senza mutare, altre volte in modo che gli autori imitano persone che tutte agiscono e operano.

L’imitazione avviene dunque con queste tre differenze, [25] come abbiamo detto dall’inizio: con quali materiali, quali oggetti e come. Così che per un verso

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Sofocle sarebbe un imitatore identico ad Omero, giacché tutti e due imitano persone nobili, per un altro verso identico ad Aristofane, giacché tutti e due imitano persone che agiscono.

Di qui si dice che queste forme si chiamino drammi, perché imitano persone che agiscono. E questo [30] è anche il motivo per cui i Dori avanzano pretese sulla tragedia e sulla commedia (sulla commedia i Megaresi, sia quelli di qui, come su cosa nata al tempo della loro democrazia, sia quelli di Sicilia, perché di là era Epicarmo, il poeta vissuto molto prima di Chionide e di Magnete, sulla tragedia alcuni [35] del Pelopon-neso) adducendo come prova i nomi. Perché dicono che sono essi a chiamare i sobborghi "come", mentre gli Ateniesi "demi", come se i commedianti fossero così chiamati non dal far baldoria, ma dal loro girovagare per i villaggi, disprezzati com’erano dalla città; [1448 b] e poi perché sono essi che adoperano drán per "agire" mentre gli Ateniesi dicono práttein.

Sulle differenze quante e quali esse siano, basti dunque quel che si è detto.

4. Le due fonti della poesia. Nascita e svolgimento della tragedia

In generale due sembrano essere le cause che hanno dato origine all’arte poetica, [5] e tutte e due naturali. Ed infatti in primo luogo l’imitare è connaturato agli uomini fin da bambini, ed in questo l’uomo si differenzia dagli altri animali perché è quello più proclive ad imitare e perché i primi insegnamenti se li procaccia per mezzo dell’imitazione; ed in secondo luogo tutti si rallegrano delle cose imitate. Prova ne è quel che accade in pratica, [10] giacché cose che vediamo con disgusto le guardiamo invece con piacere nelle immagini quanto più siano rese con esattezza, come ad esempio le forme delle bestie più ripugnanti e dei cadaveri. La ragione poi di questo fatto è che l’apprendere riesce piacevolissimo non soltanto ai filosofi ma anche agli altri, per quanto poco ne possano [15] partecipare. Per questo infatti si rallegrano nel vedere le immagini, perché succede che a guardarle apprendono e ci ragionano sopra riconoscendo ad esempio chi è la persona ritratta; se poi càpita che non sia stata vista prima, non sarà in quanto cosa imitata che procura il piacere ma per l’esecuzione, per il colore o per un altro motivo di questo genere.

[20] Essendo dunque l’imitare conforme a natura e così pure l’armonia e il ritmo (è infatti manifesto che i metri sono parte dei ritmi), fin da principio quelli che erano a ciò nativamente più disposti, progredendo a poco a poco, diedero origine alla poesia partendo da improvvisazioni. Ma la poesia si spezzò a seconda dei caratteri propri di ciascuno, [25] giacché gli uni, i più seri, si diedero ad imitare le azioni nobili e quelle di persone cosiffatte, mentre gli altri, più modesti, le azioni della gente spregevole, componendo da principio invettive, come i primi inni ed encomii.

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Di nessuno di quelli che vissero prima di Omero possiamo menzionare un’opera di questo tipo, benché sia verosimile che ce ne fossero molte, ma è possibile menzionarne a partire da Omero, [30] come ad esempio, proprio di lui, il Margite e altre opere simili. Nelle quali anche si introdusse, per la sua rispondenza, il metro giambico–perciò ancor oggi si chiama "giambo" perché in questo metro si scagliavano invettive a vicenda. Così degli antichi alcuni divennero poeti di versi eroici, altri di giambi. Ma Omero, come fu poeta sommo nel genere nobile [35] (unico infatti non solo per l’eccellenza ma anche per il carattere drammatico delle sue produzioni), così fu anche il primo a mostrare la forma della commedia, rappresentando drammaticamente non l’invettiva ma il comico, giacché il Margite sta con le commedie nello stesso rapporto in cui l’Iliade [1449 a] e l’Odissea stanno con le tragedie. Quando poi comparvero la tragedia e la commedia, spinti dall’impulso proprio della natura di ciascuno che li portava verso l’una o l’altra poesia, gli uni divennero commediografi anziché autori di giambi [5] e gli altri tragediografi anziché autori di poemi epici, per essere queste forme più importanti e più stimate delle altre.

Ricercare se veramente la tragedia si sia sviluppata a sufficienza quanto alla sua specie, e giudicarla sia in se stessa sia rispetto alla rappresentazione scenica, è materia di altro discorso. Nata dunque la tragedia all’inizio dall’improvvisazione [10] (sia essa sia la commedia da quelli che guidavano il coro: la prima dal ditirambo, mentre la seconda dalle processioni falliche che ancor oggi sono rimaste in uso in molte città), crebbe un poco per volta, sviluppando gli autori quanto via via di essa si rendeva manifesto; e dopo aver subìto molti mutamenti [15] si arrestò, poiché aveva conseguito la natura sua propria.

Il numero degli attori Eschilo per primo portò da uno a due, diminuì l’importanza del coro e promosse il discorso parlato al ruolo di protagonista; il terzo attore e la pittura della scena furono poi opera di Sofocle. C’è ancora la grandezza: partendo da racconti brevi e da uno stile [20] giocoso, perché si stava mutando da un originario genere satiresco, soltanto più tardi la tragedia acquistò un carattere serio, mentre il metro dal primitivo tetrametro si fece giambico. Giacché dapprima si servivano del tetrametro perché era una poesia di carattere satiresco e più danzata, ma quando poi si introdusse il linguaggio parlato, la sua natura stessa trovò il metro adatto, perché quello giambico [25] è il metro più vicino al parlato; e la prova ne è questa: spesso nel parlare tra noi pronunciamo dei giambi mentre molto di rado degli esametri, ed allora ci solleviamo al di sopra della cadenza del parlato.

Resta da parlare del numero degli episodi. E come [30] si debba abbellire ciascuna parte sia dato come per detto, giacché discorrerne singolarmente sarebbe veramente un’impresa.

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5. Nascita e svolgimento della commedia. Confronto tra l’epopea e la tragedia

La commedia è, come abbiamo detto, imitazione di persone più spregevoli, non però riguardo ad ogni male, ma rispetto a quella parte del brutto che è il comico. Ed infatti il comico è in qualche errore [35] o colpa, ma che non provoca né dolore né danno, come, per prendere il primo esempio che ci si presenta, la maschera comica, che è sì brutta e stravolta, ma non causa dolore.

Le trasformazioni della tragedia e chi ne furono gli autori non ci sono rimasti nascosti; le origini invece della commedia ci sfuggono perché non [1449 b] era presa sul serio. Ed infatti soltanto tardi l’arconte dette il coro ai comici mentre prima si trattava di volontari, e soltanto da quando essa ebbe certe forme definite si ricordano i nomi di quelli che si possono chiamare poeti comici. Chi introdusse le maschere e i prologhi, [5] chi aumentò il numero degli attori e altre cose simili ci sono ignoti. La composizione di racconti, almeno da principio, venne dalla Sicilia, mentre fra gli Ateniesi Gatete per primo incominciò ad abbandonare la forma giambica e a dare a discorsi e racconti un carattere universale.

L’epopea concorda con la tragedia solo in quanto è imitazione con un discorso [10] in versi di persone nobili, ma ne differisce per avere un unico metro e forma narrativa, ed ancora per la lunghezza: perché la tragedia cerca il più possibile di stare entro un solo giro del sole o di allontanarsene di poco, mentre l’epopea è indefinita rispetto al tempo, ed in questo differisce benché [15] in origine si facesse anche nelle tragedie così come nei poemi epici.

Quanto alle parti, alcune sono le stesse, altre proprie della tragedia; e perciò chi, riguardo alla tragedia, sa distinguere la buona dalla cattiva, lo sa fare anche per l’epopea, giacché tutto quel che ha l’epopea appartiene anche alla tragedia, mentre quello che appartiene alla tragedia non si trova tutto [20] nell’epopea.

6. Definizione della tragedia: le sei parti essenziali

Dell’arte imitativa in esametri e della commedia diremo più tardi. Parliamo invece ora della tragedia raccogliendo da quanto si è già detto la definizione dell’essenza che ne risulta. La tragedia è dunque imitazione di una azione nobile [25] e compiuta, avente grandezza, in un linguaggio adorno in modo specificamente diverso per ciascuna delle parti, di persone che agiscono e non per mezzo di narrazione, la quale per mezzo della pietà e del terrore finisce con l’effettuare la purificazione di cosiffatte passioni.

Chiamo "linguaggio adorno" quello che ha ritmo e armonia, e con "in modo specificamente diverso" intendo che alcune parti [30] sono rifinite soltanto con il

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metro e altre invece anche con il canto. Giacché poi sono persone che agiscono quelle che compiono l’imitazione, ne segue necessariamente in primo luogo che una parte della tragedia sarà l’apparato scenico: poi la musica e l’elocuzione, poiché con questi mezzi compiono l’imitazione. Chiamo poi elocuzione la stessa composizione [35] dei metri, e musica quel che ha una efficacia del tutto manifesta. Poiché poi la tragedia è imitazione di un’azione e si agisce da parte di alcuni agenti, i quali è necessario che abbiano certe qualità a seconda del carattere e del pensiero (ed infatti per questi e per le [1450 a] azioni diciamo che sono così e così qualificati ed a seconda di queste cose anche, la gente riesce o fallisce), segue che l’imitazione dell’azione è il racconto, giacché chiamo racconto proprio questo: [5] la composizione delle azioni; mentre chiamo carattere ciò rispetto a cui diciamo qualificati gli agenti, e chiamo pensiero tutto quel che dicono per dimostrare qualcosa o per enunciare un parere.

È necessario dunque che le parti dell’intera tragedia siano sei, a seconda delle quali la tragedia viene ad essere qualificata, e queste sono il racconto, i caratteri, l’elocuzione, [10] il pensiero, lo spettacolo e la musica. Due di queste parti infatti sono i mezzi con cui si imita, una il modo in cui si imita, tre gli oggetti che vengono imitati, ed oltre a queste non ce n’è più nessuna. Di queste differenze specifiche in generale non pochi di essi hanno fatto uso, e infatti il tutto contiene spettacolo, carattere, racconto, elocuzione, canto e pensiero allo stesso modo.

[15] Ma la parte più importante di tutte è la composizione delle azioni. La tragedia infatti è imitazione non di uomini ma di azioni e di un’esistenza, [20] e dunque non è che i personaggi agiscono per rappresentare i caratteri, ma a causa delle azioni includono anche i caratteri, cosicché le azioni e il racconto costituiscono il fine nella tragedia, e il fine è di tutte le cose quella più importante. Ancora, senza l’azione non ci sarebbe la tragedia, mentre senza i caratteri ci potrebbe essere; [25] ed infatti le tragedie della maggior parte degli autori recenti sono senza caratteri, ed in generale tali sono molti artisti, quale ad esempio tra i pittori è il caso di Zeusi a confronto con Polignoto, giacché Polignoto è un buon pittore di caratteri, mentre la pittura di Zeusi non ci presenta nessun carattere. Inoltre se si ponessero di seguito discorsi espressivi di caratteri, [30] ben fatti sia quanto all’elocuzione sia al pensiero, non si produrrà quello che ci è risultato il compito proprio della tragedia, mentre al contrario sarebbe una tragedia quella che, pur mancando di questi pregi, avesse racconto e composizione di azioni. Oltre a queste considerazioni ciò con cui soprattutto la tragedia muove gli animi sono parti del racconto, e cioè le peripezie e i riconoscimenti. [35] Un’altra prova è il fatto che i principianti riescono prima a produrre qualcosa di preciso nell’elocuzione e nei caratteri che non a mettere assieme le azioni, come è il caso di quasi tutti i poeti primitivi. E dunque principio e quasi anima della tragedia è il racconto, mentre i caratteri vengono in secondo luogo (qualcosa di simile succede anche [1450 b] nella pittura; giacché se qualcuno stendesse alla rinfusa i colori più belli, non procurerebbe tanto piacere

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quanto chi disegnasse in bianco un’immagine); essa è dunque imitazione di un’azione e soltanto a motivo di questa lo è anche di persone che agiscono.

Al terzo posto viene il pensiero, [5] e cioè la capacità di dire quel che è inerente e conveniente al soggetto, il che per i discorsi in prosa è compito dell’arte politica e di quella retorica, giacché gli antichi facevano personaggi che parlano a mo’ dei politici, i contemporanei alla maniera dei retori.

Il carattere poi è quel che fa chiara la scelta di che specie sia, e perciò non rappresentano il carattere quei discorsi in cui per chi parla non c’è affatto cosa che egli debba scegliere [10] o evitare. Il pensiero poi è presente in quei discorsi in cui si dimostra che è o non è o, in generale, si fa un’asserzione.

Al quarto posto c’è l’elocuzione e dico, come già prima ho detto, che l’elocuzione è l’espressione mediante le parole, il che ha la stessa natura [15] nelle opere sia in versi sia in prosa.

Delle parti restanti la musica è il più importante degli ornamenti, mentre lo spettacolo muove sì gli animi, ma è anche l’aspetto meno artistico e quindi meno proprio della poetica. L’efficacia della tragedia infatti si conserva anche senza la rappresentazione e senza gli attori ed inoltre per la messa in scena [20] è più autorevole l’arte della scenografia che non quella della poetica.

7. Il racconto

Dopo aver definito queste cose, diciamo quale debba essere la composizione dei fatti, giacché questa è la parte prima e più importante della tragedia.

È stato da noi convenuto che la tragedia è imitazione di un’azione compiuta e costituente un tutto che [25] abbia una certa grandezza, giacché può esserci anche un tutto che non ha nessuna grandezza. Ma il tutto è ciò che ha principio, mezzo e fine. Principio è quel che non deve di necessità essere dopo altro, mentre dopo di esso per sua natura qualche altra cosa c’è o nasce; fine al contrario è quel che per sua natura è dopo altro o [30] di necessità o per lo più, mentre dopo di esso non c’è niente; mezzo poi è quel che è esso stesso dopo altro e dopo di esso c’è altro. E dunque i racconti composti bene non debbono né incominciare donde cà- pita né finire dove càpita, ma valersi delle forme ora indicate.

Ancora, ciò che è bello, sia un animale sia ogni altra cosa [35] costituita di parti, deve avere non soltanto queste parti ordinate al loro posto, ma anche una grandezza che non sia casuale; il bello infatti sta nella grandezza e nell’ordinata disposizione delle parti, e perciò non potrebbe essere bello né un animale piccolissimo (perché la visione si confonde attuandosi in un tempo pressoché

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impercettibile) né uno grandissimo (perché [1451 a] la visione non si attua tutta assieme e per chi guarda vengono a mancare dalla visione l’unità e la totalità) come se per esempio fosse un animale di diecimila stadii. Dimodoché, come per i corpi inanimati e gli animali deve esserci sì una grandezza, ma che sia facile ad abbracciarsi con lo sguardo, [5] così anche per i racconti deve esserci una lunghezza, ma che sia facile ad abbracciarsi con la memoria.

Ma la questione del limite della lunghezza, quando questo sia riferito ai concorsi drammatici e alla sensibilità degli spettatori, non appartiene all’arte; se infatti occorresse rappresentare cento tragedie, si dovrebbe ricorrere alla clessidra, come appunto dicono che talvolta in qualche occasione si sia fatto. Quanto invece al limite secondo la [10] natura stessa della cosa, il racconto, rispetto alla grandezza, tanto più è bello quanto più è lungo, a condizione però che riesca chiaro nell’assieme. Ma, per definire la cosa in generale, quella grandezza in cui, svolgendosi di seguito gli eventi secondo verosimiglianza o necessità, sia dato di passare dalla sfortuna alla fortuna o dalla fortuna alla sfortuna, [15] è il limite giusto della grandezza.

8. L’unità del racconto

Si ha l’unità del racconto non già, come credono alcuni, con il trattare di un’unica persona, perché ad una sola persona accadono molte cose ed anzi infini-te, dalle quali, anche a prenderne alcune, non risulta nessuna unità; allo stesso modo, di un’unica persona molte sono anche le azioni che compie, dalle quali non risulta un’unica azione. Perciò mi sembra [20] che sbaglino quanti tra i poeti hanno composto poemi come l’Eracleide o la Teseide e altri simili, perché credevano che, siccome uno era Eracle, uno dovesse risultarne anche il racconto. Omero invece, come anche nel resto si differenzia dagli altri, anche questo mi pare che abbia visto bene, o per virtù di arte o di natura, poiché nel comporre l’Odissea, [25] non prese a poetare su tutto quanto accadde ad Odisseo, come, ad esempio, che fu ferito sul Parnaso e che finse di essere pazzo nell’adunanza, due fatti dei quali il verificarsi dell’uno non comportava di necessità o con verosimiglianza il verificarsi dell’altro, ma costruì l’Odissea attorno ad un’unica azione, quale noi diciamo, e così anche l’Iliade.

[30] Occorre dunque che, come anche nelle altre arti imitative l’imitazione è una quando è di un unico oggetto, così anche il racconto, poiché è imitazione di un’azione lo sia di un’azione sola e per di più tale da costituire un tutto concluso, ed occorre che le parti dei fatti siano connesse assieme in modo tale che, se qualcuna se ne sposti o sopprima, ne risulti dislocato e rotto il tutto, giacché ciò la cui presenza [35] non si nota affatto, non è per niente parte di un tutto.

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9. Storia e poesia

Da quel che abbiamo detto, risulta manifesto anche questo: che compito del poeta è di dire non le cose accadute ma quelle che potrebbero accadere e le possibili secondo verosimiglianza e necessità. Ed infatti [1451 b] lo storico e il poeta non differiscono per il fatto di dire l’uno in prosa e l’altro in versi (giacché l’opera di Erodoto, se fosse posta in versi, non per questo sarebbe meno storia, in versi, di quanto non lo sia senza versi), ma differiscono in questo, che l’uno dice le cose accadute [5] e l’altro quelle che potrebbero accadere. E perciò la poesia è cosa più nobile e più filosofica della storia, perché la poesia tratta piuttosto dell’universale, mentre la storia del particolare. L’universale poi è questo: quali specie di cose a quale specie di persona capiti di dire o di fare secondo verosimiglianza o necessità, al che mira [10] la poesia pur ponendo nomi propri, mentre invece è particolare che cosa Alcibiade fece o che cosa patì.

Nella commedia ciò è ormai diventato evidente, giacché dopo aver composto il racconto per mezzo di fatti verosimili, mettono dei nomi così come capita, e non poeteggiano attorno al particolare come i giambografi. [15] Nella tragedia invece si attengono a nomi esistenti e la causa ne è che è credibile quel che è possibile, e mentre per le cose che non sono accadute non ci fidiamo ancora che siano possibili, è manifesto che sono possibili quelle accadute; ed infatti non sarebbero accadute se fossero state impossibili. Cionono-stante anche in alcune tragedie uno o [20] due sono nomi conosciuti mentre gli altri sono inventati, ed in altre di conosciuti non ce n’è nessuno, come ad esempio nell’Anteo di Agatone, giacché in questo sia i fatti sia i nomi sono egualmente inventati e cionondimeno la tragedia piace. Cosicché non è affatto vero che si debba cercare di attenersi ai miti tradizionali, di cui son solite trattare le tragedie. [25] Ed infatti cercarlo sarebbe ridicolo, visto che le cose note lo sono soltanto a pochi, e tuttavia piacciono a tutti.

È dunque chiaro da quanto si è detto che il poeta deve essere facitore piuttosto di racconti che non di metri in quanto è poeta rispetto all’imitazione ed egli imita le azioni. Se dunque càpiti che egli faccia poesia su cose accadute, [30] non per questo è meno poeta, giacché niente vieta che alcune delle cose accadute siano tali quali è verosimile che accadessero, ed in questa misura ne sarà il facitore.

Dei racconti e delle azioni semplici, quelli episodici sono i peggiori; chiamo infatti "episodico" quel racconto in cui non c’è né verosimiglianza né necessità che gli episodi [35] si susseguano in un certo modo. Racconti di questo tipo sono fatti da poeti cattivi per colpa loro e da poeti buoni per colpa invece degli attori. Giacché, componendo pezzi ad effetto e tirando per le lunghe il racconto oltre ogni possibilità, [1452 a] spesso sono costretti a sconvolgere la successione dei fatti.

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Ma, poiché la tragedia è imitazione non soltanto di un’azione compiuta, ma anche di casi terribili e pietosi, questo effetto nasce soprattutto quando i fatti si svolgono gli uni dagli altri contro l’aspettativa, giacché avranno a questo modo ben più del sorprendente [5] che se si producessero per caso o fortuitamente; ed infatti anche degli eventi fortuiti sembrano più sorprendenti quelli che appaiono prodursi come di proposito, come quando, per esempio, in Argo la statua di Miti cadde addosso al colpevole della morte di Miti che la stava guardando, e l’uccise; e infatti sembra che fatti come questo [10] non avvengano a caso, cosicché segue di necessità che i racconti di questo genere siano i più belli.

10. Racconti semplici e racconti complessi

Dei racconti, alcuni sono semplici, altri complessi, giacché tali si trovano ad essere le azioni di cui i racconti sono imitazione. Chiamo semplice quell’azione che, [15] mentre si svolge, come si è definito, con continuità ed unità, muta direzione senza peripezia e senza riconoscimento; mentre complessa quella in cui il mutamento si ha con riconoscimento o con peripezia o con tutti e due.

Ma questi rivolgimenti debbono avvenire in forza della stessa struttura del racconto, in modo che conseguano dagli eventi precedenti o [20] per necessità o secondo verosimiglianza; c’è molta differenza infatti se qualcosa accade per causa di un’altra o dopo un’altra.

11. Peripezia, riconoscimento e fatto orrendo

La peripezia, come si è detto, è il rivolgimento dei fatti verso il loro contrario e questo, come stiamo dicendo, secondo il verosimile e il necessario, come ad esempio nell’Edipo [25] il messo, venendo come per rallegrare Edipo e liberarlo dal terrore nei riguardi della madre, rivelandogli chi era, ottiene l’effetto contrario; e nel Linceo, mentre il protagonista vien condotto a morire e Danao lo segue per ucciderlo, in forza dello svolgimento dei fatti accade che Danao muoia e Linceo si salvi.

Il riconoscimento [30] poi, come già indica la parola stessa, è il rivolgimento dall’ignoranza alla conoscenza, e quindi o all’amicizia o all’inimicizia, di persone destinate alla fortuna o alla sfortuna; il riconoscimento più bello poi è quando si compie assieme alla peripezia, quale è ad esempio quello dell’Edipo. Ci sono poi anche altri riconoscimenti in relazione a cose inanimate [35] e casuali. † ed è anche possibile riconoscere qualcuno dall’aver egli fatto o non fatto certe cose. Ma quello di cui si è parlato è il riconoscimento più proprio del racconto e quello più proprio dell’azione; giacché il riconoscimento di tal fatta e la peripezia

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produrranno o pietà [1452 b] o terrore (di azioni di questo tipo si è assunto che sia imitazione la tragedia) giacché da riconoscimenti e peripezie cosiffatte dipendono anche il conseguire la sfortuna o la fortuna. E poiché il riconoscimento è riconoscimento di persone, alcuni lo sono soltanto di uno rispetto ad un altro, quando sia chiaro [5] chi è quest’altro, mentre a volte si debbono riconoscere tutti e due come ad esempio Ifigenia è riconosciuta da Oreste dall’invio della lettera, mentre Oreste ha bisogno di un altro riconoscimento nei confronti di Ifigenia.

Due parti della tragedia sono dunque queste, peripezia [10] e riconoscimento, mentre una terza è il fatto orrendo. Di queste tre dunque, di peripezia e riconoscimento si è detto, quanto al fatto orrendo, esso è un’azione che reca rovina o dolore, come ad esempio le morti che avvengono sulla scena, le sofferenze, le ferite e cose simili.

12. Le parti quantitative della tragedia

Le parti della tragedia che si debbono intendere come forme essenziali [15] le abbiamo dette prima, secondo invece la quantità, rispetto alle sezioni in cui la tragedia si divide, esse sono le seguenti: prologo, episodio, esodo e parte corale, quest’ultima a sua volta suddivisa in pàrodo e stàsimo; queste parti sono comuni a tutte le tragedie mentre proprie di alcune sono i canti degli attori dalla scena e i commi.

Il prologo è tutta quella parte della tragedia che viene prima del pàrodo [20] del coro; episodio è tutta quella parte della tragedia che sta in mezzo a canti corali interi; esodo è tutta quella parte della tragedia dopo la quale non c’è più canto del coro; quanto poi alla parte corale, pàrodo è tutta intera la prima espressione del coro; stàsimo il canto del coro che è senza anapesto e trocheo, commo il lamento comune del coro e [25] dell’attore dalla scena.

E dunque le parti della tragedia che si debbono intendere come forme essenziali le abbiamo dette prima, secondo invece la quantità e le sezioni separate in cui la tragedia si divide sono queste.

13. La vicenda tragica

A che cosa si debba mirare e da che cosa guardarsi nel comporre i racconti e donde derivi l’effetto proprio della tragedia [30] si deve dire in seguito a ciò che abbiamo detto or ora.

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Poiché la composizione della tragedia più bella deve essere complessa e non semplice ed inoltre la tragedia deve essere imitazione di casi che destano terrore e pietà (giacché questo è proprio di una tale imitazione), in primo luogo è chiaro che non si debbono mostrare né uomini dabbene [35] che passino dalla fortuna alla sfortuna, perché questa è cosa che non desta né terrore né pietà ma ripugnanza; né uomini malvagi che passino dalla sfortuna alla fortuna, perché questo è il caso meno tragico di tutti in quanto non ha niente di quel che dovrebbe avere, non destando né simpatia umana [1453 a] né pietà né terrore; ma nemmeno deve essere un uomo molto malvagio a cadere dalla fortuna nella sfortuna, perché una simile composizione avrebbe sì la simpatia umana, ma non il terrore né la pietà, dei quali l’una si riferisce a chi cade in disgrazia innocente e l’altro a chi vi cade essendo simile a noi; [5] la pietà cioè si riferisce all’innocente mentre il terrore al nostro simile, di modo che il caso in questione non sarà né pietoso né terribile. Non resta dunque che colui che si trova nel mezzo rispetto a questi estremi, e tale è chi né si distingue per virtù e per giustizia né cade nella disgrazia per causa del vizio e della malvagità, ma per [10] un qualche errore, sul tipo di coloro che si trovano in grande reputazione e fortuna, come ad esempio Edipo e Tieste ed altri uomini illustri di casate come queste.

È dunque necessario che un racconto ben fatto sia piuttosto semplice che non duplice, come invece dicono alcuni, e che tratti di un rovesciamento non dalla sfortuna alla fortuna ma al contrario [15] dalla fortuna alla sfortuna, e non a motivo della malvagità ma per un grande errore di un uomo come si è detto e di uno piuttosto migliore che peggiore dell’ordinario. Ne è prova quel che è accaduto, perché dapprima i poeti contavano su racconti come capitava, mentre ora le tragedie più belle sono quelle composte attorno a poche casate, [20] ad esempio le stirpi di Alcmeone, di Edipo, di Oreste, di Meleagro, di Tieste, di Telefo ed a quante altre capitò di patire o di fare cose terribili.

La tragedia dunque più bella rispetto all’arte è quella che nasce da una simile composizione, e perciò commettono un errore coloro che di ciò accusano Euripide, perché fa proprio questo [25] nelle sue tragedie e perché molte di esse finiscono con la sfortuna. Questo infatti, come si è detto, è giusto e se ne ha una prova grandissima nel fatto che sono proprio le tragedie di questo genere quelle che risultano le più tragiche sulla scena e negli agoni, quando siano ben allestite, ed Euripide, anche se non tratta bene il resto, risulta il più tragico [30] dei poeti.

Al secondo posto viene invece quella composizione, che da alcuni è considerata la prima, e cioè quella che ha un racconto duplice, come l’Odissea, e che finisce in un modo contrario per i buoni e per i cattivi. Sembra essere la prima a motivo della debolezza del pubblico, giacché i poeti [35] si adeguano agli spettatori componendo secondo le loro richieste. Ma questo non è il piacere che deriva dalla tragedia, piuttosto quello proprio della commedia: perché in quest’ultima anche quelli che nel mito sono nemicissimi tra loro, come Oreste ed Egisto, alla fine se ne escono divenuti amici e nessuno muore ad opera di nessuno.

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14. Pietà e terrore

[1453 b] È possibile che quanto produce terrore e pietà nasca dalla messa in scena, ma è anche possibile che derivi dalla stessa composizione dei fatti, il che è preferibile ed è proprio di un poeta migliore. Giacché il racconto deve essere così costituito che, anche senza vedere la scena, [5] chi ascolta i fatti che accadono, a motivo degli avvenimenti stessi, frema di orrore e di pietà: sentimenti che certo si proverebbero se si ascoltasse la storia di Edipo. Mentre il procurare questi affetti per mezzo della messa in scena è meno artistico e bisognevole della regia. Quanto poi a quelli che per mezzo della messa in scena procurano non il terrore, ma ciò che è soltanto mostruoso, questi [10] non hanno niente a che fare con la tragedia. Giacché non è che si debba ricercare ogni e qualsiasi piacere possa derivare dalla tragedia, ma quello soltanto che le è proprio. Poiché dunque il poeta quel piacere che nasce dal terrore e dalla pietà deve procurarlo attraverso l’imitazione, è manifesto che questo si deve fare con le azioni.

Consideriamo dunque quali delle occasioni risultano terribili e [15] quali miserevoli. È necessario che azioni di questo genere siano di persone che tra di loro sono amici o nemici o né l’uno né l’altro. Quando dunque è un nemico che agisce nei confronti di un nemico, non vi è niente che desti pietà, o che lo faccia o che stia soltanto per farlo, all’infuori del fatto orrendo in se stesso; e nemmeno quando non siano né amici né nemici; quando invece questi fatti orrendi avvengono tra amici, [20] come ad esempio quando sia ad uccidere, o stia per farlo, il fratello il fratello, o il figlio il padre, o la madre il figlio, o il figlio la madre, o stia per fare qualche altra cosa egualmente orrenda, questi sono i casi che si devono ricercare. Perciò non si possono mutare i miti tradizionali, parlo ad esempio di Cliten-nestra che è uccisa da Oreste, e di Erifile da Alcmeone, [25] ed il compito del poeta è quello di trovare questi miti così come sono tramandati e di sapersene servire bene.

Ma che cosa intendiamo con "bene"? Cerchiamo di dirlo in modo più chiaro. È infatti possibile che l’azione avvenga nel modo tenuto dagli antichi che rappresentavano personaggi pienamente consapevoli, come ha fatto anche Euripide nel rappresentare Medea che uccide i proprii figli, [30] ma è anche possibile che si agisca senza sapere che si sta compiendo un’azione terribile, e venire a conoscere, soltanto dopo, la relazione di parentela, come succede all’Edipo di Sofocle; in questo caso l’evento terribile accade fuori del dramma, mentre accade nella stessa tragedia ad esempio all’Alcmeone di Astidamante o al Telegono nell’Odisseo ferito. E c’è anche un terzo caso, oltre questi, quello di chi sta [35] per fare qualcosa di irrimediabile per ignoranza e poi riconosce la vittima prima di compiere l’azione.

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Ed oltre queste, non ci sono altre possibilità, perché è necessario che o si agisca o non si agisca, e, o sapendo o non sapendo. Di questi casi lo stare per agire conoscendo e poi non agire è il peggiore, giacché c’è l’elemento ripugnante ma non il tragico in quanto manca il fatto orrendo; e perciò nessuno [1454 a] fa a questo modo, se non di rado, come ad esempio, nell’Antigo-ne, Emone nei confronti di Creonte. Come secondo viene il caso di chi agisce, ma il migliore è quello di chi agisce non conoscendo ma poi riconosce dopo aver agito; non c’è infatti niente di ripugnante e il riconoscimento fa colpo. Ma il migliore di tutti [5] è l’ultimo caso, voglio dire per esempio, nel Cresfonte, il caso di Merope che sta per uccidere il figlio e invece non l’uccide ma lo riconosce, e cosi, nell’Ifigenia, il caso della sorella nei confronti del fratello e, nell’Elle, quello del figlio che, mentre sta per consegnare la madre ai nemici, la riconosce. Perciò, come si è detto innanzi, le tragedie si riferiscono [10] a non molte famiglie, giacché nella loro ricerca i poeti trovarono non per arte ma per caso nei miti come procurare situazioni simili e furono così costretti a far ricorso a queste casate, a quante fra di esse accadevano simili fatti orrendi.

Attorno dunque alla composizione delle azioni ed a quali debbono essere i racconti [15] si è detto a sufficienza.

15. I caratteri nella tragedia

Quanto ai caratteri, quattro sono le cose a cui si deve mirare, di cui una, e la prima, è che siano buoni. Il personaggio avrà poi un carattere se, come si è detto, il suo discorso e la sua azione rendono manifesta una qualche risoluzione e, se questa è buona, buono sarà il carattere. E ciò è possibile [20] in ciascuna condizione, perché buona lo è anche la donna e buono lo schiavo, benché di questi l’una sia inferiore e l’altro di infimo rango.

La seconda cosa a cui si deve mirare è la convenienza, perché è anche possibile che una donna sia di carattere coraggioso, ma non è conveniente per una donna essere fino a questo punto coraggiosa o fiera.

La terza è la somiglianza, e questa è cosa diversa [25] dal fare il carattere buono e conveniente come si è detto.

Quarta è la coerenza, giacché anche se il modello del-l’imitazione sia una persona incoerente e si sia supposto un tale carattere, deve essere coerentemente incoerente.

Un esempio di malvagità di carattere non necessaria è il Menelao dell’Oreste, [30] di carattere non conveniente e inadatto il lamento di Odisseo nella Scilla e la tirata di Melanippe, di incoerente la protagonista di Ifigenia in Aulide, perché la donna che supplica non somiglia affatto a quella di poi.

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Anche nei caratteri così come nella composizione delle azioni occorre cercare sempre il necessario o il verosimile di modo che sia necessario o verosimile [35] che uno così e così dica e faccia cose così e così, ed anche che sia necessario o verosimile che questo accada dopo quello.

È manifesto dunque che anche lo scioglimento del racconto deve avvenire in forza dello stesso [1454 b] racconto e non ex machina come accade nella Medea e come nella scena dell’imbarco nell’Iliade. Ma di un artificio meccanico ci si deve servire per le cose che sono fuori dell’azione drammatica: o per quelle che avvennero prima e che non sia possibile che un uomo conosca, o per quelle che avverranno dopo [5] e che richiedono la profezia e l’annunzio, giacché il vedere tutto lo attribuiamo agli dèi. Comunque, niente di irrazionale deve esserci nell’azione e, se questo non è possibile, avvenga almeno fuori della tragedia come nel-l’Edipo di Sofocle.

Poiché poi la tragedia è imitazione di uomini migliori di noi, si debbono imitare i buoni ritrattisti, [10] giacché questi, riproducendo la forma propria di ciascuno, nel farlo simile, lo dipingono più bello. Allo stesso modo il poeta, imitando persone iraconde e accidiose e che abbiano qualità simili, pur essendo tali, deve farli nobili. † un esempio di durezza è come Achille buono [15] anche Omero † .

A tutte queste cose dunque occorre guardare ed inoltre a quelle che offendono le sensazioni che di necessità si accompagnano alla poesia, giacché anche in questo spesso è possibile sbagliarsi; ma su questi argomenti è stato detto a sufficienza nelle opere pub-blicate.

16. Il riconoscimento

Si è già detto innanzi che cosa sia il riconoscimento, consideriamone [20] ora le specie.

La prima, la meno artistica e della quale soprattutto ci si serve per povertà di inventiva, è quella per mezzo dei segni. Di questi alcuni sono congeniti, come "la lancia che portano i Nati dalla terra" o le stelle che utilizzò Carcino nel Tieste; altri acquisiti, e di questi alcuni sono nel corpo, come le cicatrici, ed altri fuori, come le collane [25] o come la barchetta nel Tiro. Anche di questi mezzi è possibile valersi meglio o peggio, come ad esempio Odisseo fu riconosciuto dalla sua cicatrice in un modo dalla nutrice e in un altro dai porcari; giacché i riconoscimenti fatti apposta per ingenerare una credenza sono meno artistici e tutti quelli di questo tipo, mentre invece sono migliori quelli che scaturiscono dalla peripezia, [30] come ad esempio il riconoscimento nella scena del bagno.

La seconda specie è costituita dai riconoscimenti fabbricati apposta dal poeta e perciò non artistici. Ad esempio nell’Ifigenia il modo in cui Oreste si fece

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riconoscere, perché mentre la sorella viene riconosciuta per mezzo della lettera, Oreste dice lui stesso quello che vuole [35] non già il racconto ma il poeta; e perciò questo caso è simile all’errore di cui si è già parlato, perché era possibile che anche Oreste portasse qualcosa con sé. Un altro esempio è la voce della spola nel Tereo di Sofocle.

Una terza specie è quella che avviene ad opera della memoria, quando ci si rende conto [1455 a] nel vedere qualcosa, come il riconoscimento nei Ciprioti di Diceogene, dove il protagonista, visto il quadro, scoppiò in pianto, e quello nella storia di Alcinoo, dove Odisseo, ascoltando il citarista e ricordandosi, pianse, donde venne riconosciuto.

Una quarta specie è il riconoscimento derivante dal ragionamento, come ad esempio nelle Coefore, [5] dove Elettra argomenta che è giunto uno a lei simile, ma a lei simile non c’è nessuno se non Oreste, e dunque è questi che è giunto. E il riconoscimento suggerito dal sofista Poliido riguardo ad Ifigenia: era infatti verosimile che Oreste ragionasse così: poiché la sorella era stata sacrificata, accadeva anche a lui di essere sacrificato. Altri esempi sono nel Tideo di Teodette, dove il padre dice che, venuto per ritrovare il figlio, egli stesso muore, [10] e nelle Finidi, dove le donne, visto il luogo, ne argomentavano il loro fato, e cioè che era fatale dovessero morire in quel luogo perché là erano state esposte. C’è anche un riconoscimento combinato con un paralogismo da parte del pubblico come quello dell’Odisseo falso messaggero; che egli infatti sapesse tendere l’arco e nessun altro, questo è un assunto costruito dal poeta e posto come ipotesi, e così pure se diceva che avrebbe riconosciuto l’arco che non aveva mai visto; [15] ma l’averlo costruito proprio per questo, perché fosse riconosciuto dall’arco, è un paralogismo.

Ma il riconoscimento migliore di tutti è quello che scaturisce dalla stessa azione, perché la sorpresa sopravviene per mezzo di fatti verosimili, come nell’Edipo di Sofocle e nell’Ifigenia, giacché in quest’ultimo caso era verosimile che volesse mandare un lettera. Ed infatti soltanto i riconoscimenti di questo tipo [20] sono senza segni fabbricati apposta e senza collane; al secondo posto vengono i riconoscimenti per ragionamento.

17. Alcune regole della tragedia

Il poeta deve comporre i racconti e rappresentarli compiutamente con il linguaggio, ponendoseli quanto più è possibile davanti agli occhi, perché così, vedendo nel modo più chiaro quasi egli stesso fosse presente [25] ai fatti, troverà quel che conviene e gli sfuggiranno il meno possibile le contraddizioni. Ne è prova quel che fu rimproverato a Carcino, ed infatti il suo Anfiarao usciva dal tempio, il che sfuggì al poeta che non vedeva bene la situazione, e la tragedia, portata sulla scena, cadde, mal tollerando gli spettatori questo errore.

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Il poeta deve anche, quanto più è possibile, [30] rappresentare compiutamente con i gesti, perché, a parità di natura, i più persuasivi son quelli che si calano nelle passioni, e sconvolge altri chi è lui stesso sconvolto, e fa adirare chi è adirato. E perciò la poesia è propria di chi è naturalmente dotato o di chi è invasato, giacché di questi i primi sono versatili mentre i secondi estatici.

Quanto poi agli argomenti, o che siano già costruiti o che li stia costruendo lui, il poeta [1455 b] deve esporli dapprima in generale e solo dopo stenderli introducendo gli episodi. Quel che voglio dire con "in generale" si può scorgere dall’esempio dell’Ifigenia: una giovane fanciulla viene offerta in sacrificio e, dopo essere sparita misteriosamente dagli occhi dei sacrificatori, stabilitasi in un altro [5] luogo dove era costume sacrificare gli stranieri alla divinità, teneva questo ufficio sacerdotale. Qualche tempo dopo càpita al fratello della sacerdotessa di giungere in quel luogo, ma rimane fuori del racconto che fu il dio ad ordinargli di andare e perché; essendo dunque andato e preso prigioniero, mentre stava per essere sacrificato si fece riconoscere, sia nel modo in cui lo fa accadere Euripide [10] sia in quello di Poliido che, com’era verosimile, gli fa dire che non soltanto la sorella ma anche lui bisognava che fosse sacrificato, e di qui la salvezza. Dopo di che, posti i nomi ai personaggi, si possono inserire gli episodi; ma occorre che questi episodi siano appropriati, come ad esempio nel caso di Oreste la pazzia per cui fu preso e la salvezza [15] attraverso la purificazione.

Nei drammi gli episodi debbono essere brevi, mentre l’epopea proprio da essi viene ad essere allungata. Ed infatti l’argomento dell’Odissea non è certo lungo: un uomo viene tenuto lontano dalla patria per molti anni, è perseguitato da Posidone ed è rimasto solo; ed inoltre la situazione della sua casa è tale che i suoi beni [20] sono dissipati dai Proci ed il figlio insidiato; allora lui, dopo essere stato sbattuto dalle tempeste, arriva, e fattosi riconoscere da alcune persone si rivolge contro i nemici, ed egli si salva mentre distrugge i nemici. Questo è quel che è proprio dell’argomento, mentre il resto è fatto di episodi.

18. Nodo e scioglimento. Altre regole

In tutte le tragedie c’è una parte che è il nodo ed una che è lo scioglimento; [25] il nodo è costituito dagli eventi che sono fuori della tragedia e spesso da alcuni che sono dentro, il resto è lo scioglimento. Voglio dire che il nodo è quella sezione che va dall’inizio dei fatti fino a quella parte che è l’ultima rispetto al punto in cui la vicenda muta dalla fortuna alla sfortuna, mentre lo scioglimento va dal principio di questo mutamento alla fine. Nel Linceo di Teodette ad esempio [30] il nodo è costituito dall’antefatto e dalla cattura del bambino ** mentre lo scioglimento va dall’accusa capitale sino alla fine.

Le specie della tragedia sono quattro (perché altrettante si disse esserne le parti): quella complessa in cui sono tutto la peripezia e il riconoscimento; la

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tragedia dell’orrore, come i vari Aiace e [1456 a] Issione; quella di carattere, come le Ftiotidi e il Péleo; e la quarta†, come le Forcidi e il Prometeo e quante si svolgono nell’Ade. E dunque ci si deve sforzare al massimo per riunire tutti questi aspetti o almeno i più importanti e il maggior numero possibile, [5] specialmente oggi che i poeti vengono denigrati; giacché, essendoci stati nel passato autori bravi nei singoli aspetti, si pretende che un solo poeta la vinca su ciascuno dei predecessori nel proprio pregio rispettivo.

È anche giusto giudicare una tragedia diversa o eguale ad un’altra per nient’altro che per il racconto, e cioè quando siano gli stessi il nodo e lo scioglimento. Molti sanno costruire bene il nodo [10] ma male lo scioglimento, mentre in realtà ambedue le doti dovrebbero combinarsi assieme.

Bisognerebbe anche ricordarsi di quel che è stato detto più volte e di non fare di una composizione epica una tragedia – e chiamo composizione epica quella a racconto multiplo – come ad esempio se si volesse fare un unico racconto dell’intera Iliade: giacché in questa, a motivo della sua lunghezza, le parti possono ottenere la grandezza conveniente, mentre nei [15] drammi il risultato delude l’aspettativa. La prova ne è il fatto che quanti hanno composto una Distruziorte di Ilio per intero e non spezzandola in parti come Euripide, o una Niobe e non come ha fatto Eschilo, o sono caduti o hanno avuto un cattivo esito nelle gare, dacché anche Agatone cadde per questo solo difetto.

Ma nelle peripezie e nelle [20] azioni semplici i poeti ottengono l’effetto voluto mediante l’uso del sorprendente, giacché questo è l’elemento tragico e capace di destare umana simpatia. E questo accade quando un uomo intelligente ma malvagio venga ingannato, come Sisifo, o uno valoroso ma ingiusto soccomba; e un caso simile è anche verosimile, perché, come dice Aga-tone, è del tutto verosimile che accadano [25] anche casi contrari al verosimile.

Anche il coro poi occorre considerarlo come uno degli attori e bisogna che sia una parte integrante del tutto e che intervenga nell’azione, non come in Euripide ma come in Sofocle. Nei poeti posteriori le parti cantate appartengono al racconto non più che ad un’altra tragedia, e così cantano una specie di intermezzo, avendo per primo iniziato [30] a far così Agatone. Eppure qual è la differenza tra il cantare intermezzi e l’adattare da una tragedia ad un’altra una parlata o un intero episodio?

19. Il pensiero e l’elocuzione

Degli altri elementi essenziali si è parlato ma resta da dire dell’elocuzione e del pensiero. Le questioni concernenti il pensiero debbono trovare il loro posto nei [35] libri della Retorica, giacché si tratta di una materia che è piuttosto propria di quella ricerca. Rientra poi nella trattazione del pensiero tutto quanto deve essere

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procurato dal discorso. Ne sono parti il dimostrare, il confutare, il procurare emozioni (come [1456 b] ad esempio la pietà o il terrore o l’ira e così via) ed ancora l’amplificazione e la diminuzione.

È chiaro che anche nelle azioni bisogna fare così partendo dagli stessi principi quando si debbano procurare effetti di pietà o di terrore o di grandiosità o di verosimiglianza, sennonché la cosa tanto differisce [5] che in questo caso i sentimenti si debbono manifestare senza bisogno dell’insegnamento, mentre nel discorso sono procurati da chi discorre e si generano ad opera del discorso. Giacché quale sarebbe la funzione di chi discorre se la cosa già si manifestasse come doveva e non per mezzo del discorso?

Delle questioni che riguardano l’elocuzione una branca della ricerca è costituita dalle figure dell’elocuzione, [10] che è cosa che deve sapere l’attore e chi di quest’arte possiede una conoscenza professionale, come ad esempio che cosa sia il comando e che cosa la preghiera, e così anche per la narrazione, la minaccia, la domanda, la risposta e quant’altro rientra in questo genere di cose. Giacché a motivo della conoscenza o dell’ignoranza di queste cose non si porta nei confronti dell’arte poetica nessuna critica degna di seria considerazione. [15] E, difatti, chi potrebbe ammettere che Omero sia incorso nell’errore rimproveratogli da Pro-tagora e cioè che, pensando di pregare, invece co-manda dicendo "l’ira cantami, o dea"? Giacché – osserva Protagora – il dire di fare o non fare una cosa è un comando.

E perciò lasciamo questa ricerca come propria di un’altra arte e non di quella poetica.

20. Analisi del linguaggio

[20] Della elocuzione in generale le parti sono queste: lettera, sillaba, connettivo, nome, verbo, articolazione, flessione, discorso.

La lettera è una voce indivisibile, ma non ogni voce bensì quella che è per natura destinata a divenire una voce composta; giacché anche quelle degli animali sono voci indivisibili, ma nessuna di esse chiamo lettera. [25] Le lettere si dividono in vocali, semivocali e mute. La vocale è quella che ha voce udibile senza accostamento della lingua e delle labbra, semivocale quella che ha voce udibile con accostamento, come la S e la R, muta quella che anche con accostamento non ha di per sé nessuna voce, [30] ma diventa udibile solo assieme ad altre lettere che hanno una qualche voce, come la G e la D. Le lettere differiscono tra loro per la configurazione della bocca ed il luogo in cui sono prodotte, per l’aspirazione o la mancanza di aspirazione, per la lunghezza e la brevità, ed ancora per l’accento che può essere acuto o grave o intermedio;

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argomenti tutti sui quali particolareggiatamente conviene che si indaghi nei trattati di metrica.

La sillaba [35] è una voce non significativa composta da una muta e da una lettera avente voce, giacché GR è sillaba sia senza A sia assieme ad A come in GRA. Ma l’indagare anche sulle differenze delle sillabe è proprio della metrica.

Il connettivo è una voce non significativa, la quale né [1457 a] impedisce né fa sì che da parecchie voci si componga naturalmente un’unica voce significativa e che si può trovare sia alle estremità sia nel mezzo, ma che non conviene porre al principio di un discorso indipendente, come mevn, h[toi, dev. Oppure è una voce [5] non significativa che da più di una sola voce, ma significativa, è capace per sua natura di produrre un’unica voce significativa.

L’articolazione è quella voce non significativa che del discorso indica o il principio o la fine o una divisione, come ajmfiv, periv e altri simili.

[10] Il nome è una voce composta significativa senza tempo, di cui nessuna parte è di per sé significativa; nei nomi doppi infatti la parte non viene impiegata come di per sé significativa, come in Deodato "dato" non significa niente. Il verbo è una voce composta significativa con tempo, [15] di cui nessuna parte significa di per sé, come anche per i nomi; giacché "uomo" o "bianco" non significano il quando, mentre "cammina", "ha camminato" significano, il primo il tempo presente e il secondo quello passato.

La flessione è propria del nome e del verbo e significa a volte "di questo", "a questo" [20] e così via, a volte il singolare o il plurale come ad esempio "uomini", "uomo", ed altre volte ancora l’inflessione della voce, come ad esempio la domanda e il comando, giacché "camminava?" o "cammina" sono flessioni del verbo secondo queste specie.

Il discorso è una voce composta significativa, di cui alcune parti di per sé considerate significano qualche cosa (giacché [25] non ogni discorso è costituito di verbi e di nomi, ma è possibile che ci sia discorso senza verbi, come ad esempio la definizione di uomo; avrà però sempre almeno una parte che significa qualcosa come ad esempio "Cleone" in "Cleone cammina"). Il discorso è unitario in due modi diversi, perché lo è o in quanto significa un’unica cosa o per un legame di più cose, come ad esempio l’IIiade [30] è unitaria per legame, mentre la definizione di uomo per il signicare una unica cosa.

21. Analisi del linguaggio poetico

I nomi sono di due specie, semplici, e tali chiamo i nomi che non sono costituiti da parti significative, come ad esempio "terra", e doppi; di quest’ultima specie

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alcuni sono formati da una parte significativa e da una no (benché, significativa e no, non in quanto sono nel nome), mentre altri sono formati da parti significative. Ci possono poi essere anche nomi composti da tre, quattro o più parti, ad esempio [35] molti dei nomi dei Massalioti, come Ermocaicoxanto ** [1457 b].

Ogni nome poi è o una parola comune o pere-grina, o una metafora o un ornamento o una parola coniata dall’autore, o una parola allungata o abbreviata o modificata.

Chiamo comune il nome di cui si servono tutti, peregrino invece quello di cui si servono altri popoli; di modo che è manifesto che la stessa parola [5] possa essere assieme peregrina e comune, ma non rispetto alle stesse persone, giacché sivgunon per i Ciprioti è parola comune, per noi invece peregrina.

La metafora è il trasferimento ad una cosa di un nome proprio di un’altra o dal genere alla specie o dalla specie al genere o dalla specie alla specie o per analogia. Mi spiego: esempio di metafora dal genere [10] alla specie, "ecco che la mia nave si è fermata", giacché "ormeggiarsi" è un certo "fermarsi"; dalla specie al genere, "ed invero Odisseo ha compiuto mille e mille gloriose imprese", giacché "mille" è "molto" ed Omero se ne vale invece di dire "molte"; da specie a specie, "con il bronzo attingendo la vita" e "con l’acuminato bronzo tagliando", [15] giacché là il poeta chiama "attingere" il "recidere", mentre nel secondo caso chiama "recidere" l’"attingere", perché ambedue i verbi rientrano nel toglier via qualcosa.

Chiamo poi relazione analogica quella in cui il secondo termine sta al primo nella stessa relazione in cui il quarto sta al terzo, giacché allora si potrà dire il quarto termine invece del secondo o il secondo invece del quarto. E a volte i poeti pongono in luogo di quel che si vuol dire [20] ciò con cui si trova in relazione. Voglio dire ad esempio che come la coppa sta a Dioniso così lo scudo sta a Ares, e si potrà dunque chiamare la coppa scudo di Dioniso e lo scudo coppa di Ares. Oppure quel che è la vecchiaia rispetto alla vita lo è la sera rispetto al giorno e dunque si potrà chiamare la sera vecchiaia del giorno o anche, come fa Empedocle, chiamare la vecchiaia [25] sera della vita o tramonto della vita. Alcuni dei termini che si trovano in proporzione non hanno un nome già esistente, ma cionondimeno si farà egualmente la metafora, per esempio lasciar cadere il grano si dice seminare, mentre non ha nome il lasciar cadere la vampa da parte del sole; ma poiché la relazione rispetto al sole è la stessa di quella del seminare rispetto al grano, si potrà dire "seminando la vampa nata [30] dal dio". Ma è possibile valersi di questo modo di metafora anche in altro modo: chiamando una cosa con il nome di un’altra, togliere a quest’ultima qualcosa di quel che le è proprio, come ad esempio se si chiamasse lo scudo "coppa" non già "di Ares" ma "senza vino" *** .

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Coniato dall’autore è poi quel nome che, mai adoperato da alcuno, pone lo stesso poeta, giacché sembra proprio che ci siano dei casi simili [35] come e[rnuga" per le corna e ajrhth'ra per il sacerdote.

Una parola può anche essere allungata [1458 a] o abbreviata a seconda che ci si serva di una vocale più lunga di quella ordinaria o di una sillaba aggiunta, o che invece le si tolga qualcosa; esempio di nome allungato è povlho" al posto di povlew" e Phlhi>avdew anziché Phleivdou; esempio di parola abbreviata [5] kri' e dw' e "miva givnetai ajmfotevrwn o[y". Alterata è la parola quando del nome di una cosa una parte rimane ed un’altra è coniata, come ad esempio dexiterovn per "dexitero;n kata; mazovn".

Dei nomi poi in sé considerati, alcuni sono maschili, altri femminili ed altri intermedi; maschili quelli che terminano con le lettere N, R e S e [10] con le lettere composte da quest’ultima (queste son due, Y e X); femminili i nomi che escono in quelle tra le vocali che sono sempre lunghe, come in H e W, e tra le vocali che si possono allungare i nomi che terminano in A, così che accade che i nomi maschili siano per numero eguali a quelli femminili giacché Y e X sono lettere composte. Nessun nome termina con una muta [15] né con una vocale breve. Terminano in I soltanto tre parole mevli, kovmmi e pevperi, cinque invece in U ** ; i nomi intermedi terminano in queste due vocali e in N e S.

22. Le regole del linguaggio poetico

La virtù propria dell’elocuzione è di essere assieme chiara e non pedestre. Chiarissima è quella costituita da parole comuni, ma [20] è anche pedestre; ne è esempio la poesia di Cleofonte e quella di Stenelo. Elevata invece e diversificata rispetto all’uso comune è l’elocuzione che si serve di termini esotici, e chiamo esotici la parola peregrina, la metafora, l’allungamento e tutto quanto è fuori del comune.

Ma se si facessero tali tutte le parole impiegate, ne risulterà o un enigma o un barbarismo; se l’elocuzione fosse costituita da metafore l’enigma, se invece da parole peregrine un barbarismo. [25] Giacché la forma stessa dell’enigma è questa: pur dicendo le cose come stanno, mettere assieme delle assurdità; e dunque non è possibile far questo mediante l’espressione ordinaria, mentre è possibile con le metafore, come ad esempio "vidi un uomo che incollava con il fuoco bronzo [30] ad un altro uomo" e simili. La frase invece costituita di termini peregrini è un barbarismo.

Bisogna dunque servirsi di queste espressioni in un certo modo, giacché l’elemento esotico produrrà l’uso non comune ed il carattere non pedestre (cosi la parola peregrina, la metafora, l’ornamento e le altre specie di elocuzione di cui si è parlato), mentre l’elemento comune produrrà la chiarezza.

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Non poco contribuiscono [1458 b] alla chiarezza dell’elocuzione, ma anche al carattere non usuale, gli allungamenti, i troncamenti e le alterazioni delle parole, giacché l’essere diverso dal comune discostandosi dal consueto produrrà il carattere non usuale, mentre a motivo della perdurante partecipazione [5] al consueto ci sarà la chiarezza. Di modo che a torto i detrattori di questo modo di linguaggio condannano e mettono in burletta il poeta, come fa Euclide il vecchio, che diceva esser facile fare a questo modo, ove si concedesse la licenza di allungare le parole a piacimento, e cosi parodiava Omero nella sua stessa elocuzione " jEpicavrhn ei\don Maraqw'navde [10] badivzonta" e †. Una certa ostentazione nel valersi di questo tropo è dunque ridicola, mentre la giusta misura è requisito comune per tutte quante le parti dell’elocuzione, giacché raggiungerebbe lo stesso effetto anche chi si servisse delle metafore, dei termini peregrini e di tutte le altre specie impropriamente e apposta [15] per ottenere il ridicolo, mentre quanto differisca l’usarne con proprietà, nell’epopea si può vedere inserendo nel verso parole comuni.

Si vedrà che diciamo il vero se in luogo del termine peregrino, delle metafore e delle altre specie di parole esotiche si sostituiscano parole comuni. Ad esempio [20] Eschilo ed Euripide hanno composto un medesimo trimetro giambico, ma Euripide con il cambiare una sola parola, ponendo in luogo di un termine comune uno peregrino, ha fatto sì che il verso sembrasse bello mentre prima era ordinario. Giacché Eschilo nel Filottete aveva scritto: "l’ulcera che mangia la carne del mio piede", mentre Euripide in luogo di "mangia" pose "banchetta". Lo stesso si avrebbe se in luogo di

"ora essendo piccino, dappoco e meschino"

si dicesse, ponendo parole comuni,

[25] "ora essendo piccolo, debole e informe"

e così pure se si mutasse

"posto un seggio indegno e poca tavola"

in

[30] "posto un seggio brutto e una piccola tavola",

e invece di "mugghiano le spiagge" "fanno rumore le spiagge".

E similmente Arifrade fece la parodia dei tragediografi perché si servivano di espressioni che nessuno direbbe nel parlare, come ad esempio: "dalle case via" e non "via dalle case", "teco", "io lui" [1459 a], "ad Achille interno" e non "interno ad Achille" e così via. Giacché proprio il fatto che queste espressioni non sono

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comuni fa sì che esse si sollevino sul linguaggio corrente; ma proprio questo Arifrade non voleva riconoscere.

È cosa di grande importanza sapersi servire con proprietà di ciascuno di questi tropi, [5] e cioè delle parole doppie e di quelle peregrine, ma la cosa più importante di tutte è di riuscire nelle metafore. Soltanto questo infatti non è possibile desumere da altri ed è segno di dote congenita, perché saper comporre metafore vuol dire saper scorgere il simile.

Delle varie specie di nomi, quelli doppi convengono soprattutto ai ditirambi, quelli peregrini [10] all’epica e le metafore ai giambi. Ma nell’epica tutte le specie di cui si è parlato sono utilizzabili, mentre nei giambi, per il fatto che soprattutto imitano la lingua parlata, convengono, dei nomi, quelli di cui ci si servirebbe anche nel discorrere; e questi sono il vocabolo comune, la metafora e l’ornamento.

[15] Sulla tragedia e cioè sull’imitazione che si compie nelle azioni basti quel che si è detto.

23. L’epopea

Quanto poi all’arte narrativa che imita in versi, è chiaro che essa deve comporre i suoi racconti al modo stesso della tragedia, e cioè comporli drammatici e attorno ad un’azione unica e in sé compiuta, avente [20] principio, mezzo e fine, di modo che l’opera, divenuta un tutto unitario come un organismo vivente, produca il piacere che le è proprio. Le composizioni dunque non debbono essere simili alla storia, nella quale di necessità si fa l’esposizione non di una sola azione, ma d’un solo periodo di tempo, narrando tutte quelle cose che in questo periodo accadono ad una o più persone, pur essendoci tra questi fatti una relazione meramente casuale. Giacché [25] come la battaglia navale di Salamina avvenne nello stesso tempo in cui ci fu in Sicilia la battaglia contro i Cartaginesi, senza che i due eventi tendessero allo stesso fine, così anche nelle sequenze di tempo accade a volte che un fatto segua ad un altro senza che da essi risulti un unico fine. Eppure quasi tutti i poeti fanno [30] a questo modo.

Perciò, come si è già detto, anche per questo Omero ci appare divino rispetto agli altri poeti, per non aver cercato di rappresentare per intero la guerra troiana, benché avesse un principio e una fine, giacché il racconto ne sarebbe risultato troppo lungo e tale da non essere afferrabile nel suo assieme o, anche se ne avesse ridotto a proporzioni accettabili la grandezza, troppo complicato per la varietà di fatti. [35] Ora invece, avendone presa una parte soltanto, si vale delle altre per molti episodi, come ad esempio con il catalogo delle navi e con altri episodi diversifica il poema. Gli altri poeti invece compongono attorno ad un solo personaggio o ad un solo periodo di tempo o [1459 b] ad un’unica azione ma

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costituita da più parti, come gli autori dei Cipri e della Piccola [5] Iliade. Giacché dall’Iliade e dal-l’Odissea si può fare una sola tragedia per ciascuna, o al massimo due, mentre molte dai Cipri e dalla Piccola Iliade.

24. Il modello dell’epopea: Omero

Inoltre l’epopea deve avere le stesse specie della tragedia, e cioè la semplice, la complessa, quella fondata sui caratteri e quella sui fatti orrendi. Ed anche [10] le parti, ove si eccettuino la musica e lo spettacolo, debbono essere le stesse, giacché anche l’epopea richiede peripezie, riconoscimenti e fatti orrendi; ed ancora il pensiero e l’elocuzione debbono essere artisticamente elaborati. Cose tutte delle quali Omero si è valso sia per primo sia in modo conveniente. Ed infatti dei suoi poemi ciascuno in ciascuno dei due modi è costituito, l’Iliade semplice e fondata su fatti orrendi, [15] l’Odis-sea invece complessa (c’è infatti dappertutto riconoscimento) e fondata sui caratteri. Ed inoltre ambedue sorpassano tutte le altre opere per l’elocuzione e per il pensiero.

L’epopea si differenzia invece dalla tragedia per la lunghezza della composizione e per il metro.

Il limite conveniente della lunghezza è quello già detto, giacché si deve poter cogliere con un unico sguardo il principio e la [20] fine. Si avrebbe questo risultato, se le composizioni fossero più brevi di quelle antiche, ma assieme si estendessero quanto l’ampiezza complessiva delle tragedie presentate per un’unica audizione. L’epopea ha di suo il grande vantaggio di poter estendere la propria grandezza per il fatto che nella tragedia non è possibile imitare [25] più parti di un’azione, che accadono simultaneamente, ma soltanto quella parte che si svolge sulla scena e viene recitata dagli attori; nell’epopea invece, poiché è una narrazione, è possibile rappresentare molte parti che si compiono simultaneamente, dalle quali, purché siano appropriate, viene accresciuta la grandiosità del poema. Di modo che l’epopea ha questo di buono che le conferisce magnificenza e le permette di svariare [30] l’animo degli uditori arricchendo la materia con episodi diversi l’uno dall’altro, giacché l’uniformità, in quanto presto sazia, è il motivo per cui cadono le tragedie.

Quanto al metro, è provato dall’esperienza che è l’esametro che si adatta bene. Giacché, se si facesse un’imitazione narrativa in qualche altro metro o in molti metri, apparirebbe manifesta la sconvenienza. L’esametro infatti è il metro più posato e grandioso che ci sia (e perciò accoglie più facilmente le parole straniere e le metafore, poiché anche l’imitazione narrativa è eccezionale in confronto alle altre), mentre il trimetro giambico e il tetrametro trocaico [1460 a] sono mossi e il secondo è fatto per la danza mentre il primo per l’azione. Inoltre ne risulterebbe ben strana cosa, se si mescolassero i metri, come ha fatto Cheremone. E perciò nessuno ha fatto una composizione ampia in un metro che

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non fosse l’esametro, ma, come abbiamo detto, è la natura stessa che insegna a scegliere quello che meglio si adatta [5] alla composizione.

Omero poi, come è degno di essere lodato in molte altre cose, cosi lo è anche perché lui solo fra i poeti non ignora quale debba essere la sua parte; il poeta infatti in persona propria deve parlare il meno possibile, giacché non è imitatore a questo modo. E dunque, mentre gli altri poeti si mettono sempre in mostra e poco imitano e poche volte, Omero invece, dopo un breve [10] proemio in cui parla lui, subito introduce un uomo o una donna o un qualche altro personaggio, e nessuno poco caratterizzato ma ciascuno con il suo carattere.

Se è vero che nella tragedia si debba produrre il meraviglioso, nell’epopea è possibile rappresentare perfino l’irrazionale, da cui soprattutto deriva il meraviglioso, per il fatto che nell’epopea le persone che agiscono non si vedono. Dacché le circostanze in cui si svolge l’inseguimento [15] di Ettore, portate sulla scena, apparirebbero ridicole: i Greci che se ne stanno fermi senza prender parte all’inseguimento, mentre Achille fa cenno di no; ma nell’epopea non ci se ne accorge. Il meraviglioso poi riesce piacevole, di che è prova che tutti nel raccontare fanno delle aggiunte per riuscire più graditi.

Omero ha soprattutto insegnato anche agli altri come si deve dire il falso. [20] Si tratta del paralo-gismo. Giacché la gente crede che, nei casi in cui essendoci questo c’è quest’altro o accadendo questo accade quest’altro, se c’è il conseguente, ci sia o accada anche l’antecedente; ma questo è falso. Perciò se un fatto è falso, ma è tale che, se ci fosse, sarebbe necessario che un altro fatto ci fosse o accadesse, è un fatto di questa seconda specie che si deve porre. Ed infatti, poiché sa che quest’ultimo è vero, [25] il nostro animo per via di un paralogismo suppone che anche il pri- mo lo sia. Un esempio ne è l’episodio del bagno nel-l’Odissea.

Si debbono preferire cose impossibili ma verosimili a cose possibili ma incredibili, e non si debbono comporre gli argomenti da parti irrazionali, e anzi di irrazionale non dovrebbe esserci niente, o, se questo non è possibile, che almeno sia fuori del racconto, ad esempio il fatto che [30] Edipo non sapeva come fosse morto Laio, e non all’interno del dramma, come nell’Elettra il resoconto dei giuochi Pitici o nei Misii quello che senza parola è giunto da Tegea nella Misia. Di modo che è ridicolo dire che senza l’irrazionale il racconto non si reggerebbe. Giacché per principio storie di questo genere non si dovrebbero comporre. Se poi se ne compongono e la cosa paia riuscir più verosimile, [35] allora bisogna ammettere anche l’assurdo. Giacché anche nell’Odissea l’episodio dello sbarco è chiaro che [1460 b] riuscirebbe insopportabile se l’avesse composto un cattivo poeta. Così com’è ora, invece, il poeta con gli altri suoi pregi nasconde l’irrazionale rendendolo piacevole.

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Quanto poi all’elocuzione, ci si deve affaticare sulle parti morte e non su quelle in cui emergono caratteri e pensiero, giacché questi ne verrebbero [5] oscurati da un linguaggio troppo splendente.

25. Problemi di critica letteraria

Attorno ai problemi e alle loro soluzioni, quante e quali specie ve ne siano, risulterà manifesto indagando a questo modo. E infatti, poiché il poeta è imitatore alla stessa maniera del pittore o di qualunque altro facitore di immagini, è necessario che, essendo tre di numero [10] le possibilità, sempre ne imiti una, e cioè o le cose quali furono o sono, o quali si dice o sembra che siano, o quali dovrebbero essere.

Queste cose poi il poeta le comunica con l’elocuzione in cui trovano posto le parole peregrine, le metafore e molte altre alterazioni del linguaggio, cose tutte che concediamo ai poeti.

Oltre a ciò è da dire che la correttezza non è la stessa per la poetica e per la politica né per la poetica e per qualche [15] altra arte. Per l’arte poetica in sé considerata si danno due specie di errori, l’uno essenziale, l’altro accidentale. Se infatti il poeta si proponesse di imitare <correttamente ma nell’imitare errasse per> incapacità, si tratterebbe di errore essenziale; se invece fosse il proporsi a non essere corretto, ma rappresentasse un cavallo che spinge innanzi assieme tutte e due le zampe di destra, si tratterebbe di un errore concernente un’arte particolare, [20] come ad esempio la medicina o una qualsiasi altra arte, e non di un errore essenziale.

Così che le accuse di cui si tratta nei problemi vanno risolte partendo da questi assunti.

Consideriamo dapprima le accuse rivolte alla stessa arte. Si dice: "ha rappresentato cose impossibili, dunque ha errato". Ma sta bene lo stesso, se ha conseguito il fine proprio dell’arte (quel fine di cui [25] si è parlato), se cioè a questo modo ha reso più impressionante o quella stessa parte o un’altra. Ne è un esempio l’inseguimento di Ettore. Ma se questo stesso fine era possibile raggiungere o ancora di più o almeno non meno anche conformandosi all’arte concernente quelle cose, allora non sta bene. Giacché se è possibile, non si deve assolutamente e in nessun modo cadere nell’errore.

Ed ancora di quale delle due specie è [30] l’errore? È di quelli che concernono la stessa arte o riguarda un qualche altro accidente? Giacché l’errore è minore se il poeta non sapeva che il cervo femmina non ha le corna che non se l’avesse dipinto contro le regole della mimesi.

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Ed inoltre se viene accusato perché ha rappresentato cose non vere, si può rispondere che forse le ha rappresentate come debbono essere, come ad esempio anche Sofocle disse che lui raffigurava gli uomini quali debbono essere, mentre Euripide quali sono; [35] e così risolvere il caso.

Se invece il poeta ha rappresentato le cose né come sono né come debbono essere, si può rispondere che così si dice che siano, come ad esempio le cose concernenti gli dèi; giacché forse parlarne così né corrisponde alla realtà né la migliora ed anzi può darsi che [1461 a] abbia ragione Senofane, ma pur tuttavia è così che se ne parla.

In altri casi non già meglio, ma come erano un tempo, come ad esempio la faccenda delle armi "dritte le loro lance sul puntale"; ed infatti allora così usavano come anche oggi gli Illiri.

Quanto poi alla questione se quel che è stato detto o fatto da qualcuno sia moralmente buono o no, [5] non si deve guardare soltanto a quel che è stato fatto o detto, se sia cosa nobile o meschina, ma anche a chi è che fa o dice, rispetto a che cosa e quando e a chi e per che scopo, se ad esempio per conseguire un bene maggiore o evitare un male maggiore.

Altri problemi vanno risolti guardando all’elocuzione, [10] come ad esempio per mezzo della parola peregrina in "oujrh'a" me;n prw'ton", giacché forse Omero non intendeva parlare di muli ma di guardie; e quando dice di Dolone "il quale di forma era malandato" voleva dire non che il corpo era sgraziato ma il viso brutto, giacché i Cretesi dicono "di bella forma" chi ha un bel volto; "zwrovteron [15] de; kevraie" non significa "vino puro" come se si trattasse di ubriaconi, ma "più presto".

In altri casi si parla per metafora, come ad esempio "tutti gli dèi e gli uomini dormivano l’intera notte", e insieme dice "ma quando rivolse lo sguardo alla pianura dei Teucri, dei flauti e degli zufoli il rumore...", giacché "tutti" è detto per metafora [20] invece di "molti", ed infatti "tutti" è una specie di "molti". E "sola non prende parte" è detto per metafora, giacché è "solo" quel che è più conosciuto.

Altre volte si deve ricorrere alla prosodia, come già risolse la questione Ippia di Taso in "divdomen dev oiJ eu\co" ajrevsqai" e in "to; me;n ou| katapuvqetai o[mbrw/".

Altre volte alla divisione delle parole, come nei versi di Empedocle "subito divennero mortali quelli che prima [25] avevano conosciuto vita immortale e puri dapprima si mescolavano...".

Altre volte ancora si deve ricorrere all’ambiguità: "la notte era avanzata di più...", dove "più" è ambiguo. Altre difficoltà infine si risolvono con l’uso linguistico; la

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mescolanza d’acqua e di vino la si chiamava vino, donde si è fatto "schiniero di stagno novellamente lavorato" e bronzieri vengono chiamati i lavoratori del ferro, [30] donde di Ganimede si dice che versa vino a Zeus, anche se gli dèi non bevono vino. Benché questo uso si potrebbe spiegare anche come metafora.

Quando poi una parola sembri dare un senso contraddittorio, occorre considerare quanti significati possa avere nel testo, come ad esempio "là si arrestò la bronzea lancia" occorre vedere in quanti modi è possibile intendere l’essere stata la lancia impedita a quel punto; si può intendere così [35] o così, ma occorre intendere nel modo in cui maggiormente si possa evitare l’errore di cui parla [1461 b] Glaucone, quando dice che alcuni partono da un presupposto errato e dopo aver così decretato ne traggono conclusioni e, nel caso che ci sia contraddizione con quel che essi hanno pensato, criticano il poeta come se avesse detto lui quel che sembrava a loro. È quel che è accaduto per la faccenda di Icario. Pensano infatti che fosse [5] spartano ed allora trovano strano che Telemaco non l’abbia incontrato quando si reca a Sparta. Ma forse la cosa sta come dicono i Cefallenii, i quali sostengono che Odisseo si sia sposato presso di loro e che si trattava non di Icario ma di Icadio. È dunque probabile che il problema nasca da un errore [†] .

In generale si deve ricondurre l’impossibile o in relazione alla [10] poesia o al meglio o all’opinione comune. Giacché in relazione alla poesia è preferibile l’impossibile credibile che non l’incredibile ma possibile che siano tali quali li dipingeva Zeusi, ma meglio così, perché il modello deve essere superiore.

Le cose irrazionali vanno ricondotte a quel che dicono e così si possono giustificare adducendo che a volte non è irrazionale [15] giacché è verosimile che accadano anche cose contrarie al verosimile.

Le espressioni che paiono contraddittorie vanno considerate come si studiano le confutazioni dialettiche, ricercando se si tratta della stessa cosa e nello stesso rispetto e nello stesso modo, così che † o in riferimento a quanto il poeta stesso dice o a quanto si potrebbe assennatamente supporre.

Ma l’accusa è giusta e per l’irrazionalità e per la malvagità, quando, non essendocene nessuna necessità, [20] ci si vale dell’irrazionale, come fa Euripide di Egeo, o della malvagità, come di quella di Menelao nell’Oreste.

E dunque si muovono accuse di cinque specie, e difatti o come cose impossibili, o come irrazionali, o come dannose o come contraddittorie o come contrarie alla rettitudine dell’arte; le soluzioni poi vanno considerate [25] sulla base del numero detto e sono dodici.

26. La superiorità della tragedia sull’epopea

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Si potrebbe discutere se sia migliore l’imitazione epica o quella tragica.

Giacché, se migliore è quella meno volgare, e tale è sempre l’imitazione che si rivolge a spettatori migliori, risulta fin troppo chiaro che la poesia che imita tutto è volgare; giacché, come se gli spettatori non riuscissero a capire [30] se l’attore non vi aggiungesse qualcosa, gli attori fanno movimenti di ogni genere, come i cattivi flautisti che si mettono a ruotare se debbono rappresentare il disco o si mettono a tirare il corifeo se debbono suonare la Scilla. Tale dunque è la tragedia come gli attori di prima giudicavano quelli venuti dopo di loro, ed infatti Minnisco [35] chiamava scimmia Callippide per la sua esagerazione, e tale era anche l’opinione su Pindaro [1462 a]. Come dunque gli attori moderni stanno agli antichi, così l’intera arte tragica sta nei confronti dell’epopea, e dunque dicono che mentre quest’ultima si rivolge ad un pubblico scelto che non ha bisogno di figurazioni, l’arte tragica si rivolge a gente dappoco; e perciò, se la tragedia è volgare, è chiaro che sarebbe peggiore.

[5] Ma in primo luogo l’accusa concerne non l’arte poetica ma la recitazione, giacché anche il rapsodo può esagerare nei gesti, come è il caso di Sosistrato, ed anche il cantore, come faceva Mnasiteo di Opunte. Inoltre non ogni movimento è da biasimare, se è vero che non lo è la danza, ma soltanto quello degli attori dappoco, il che veniva rimproverato a Callippide [10] ed anche ad altri attori di oggi come se imitassero donne poco perbene. Inoltre la tragedia produce il suo effetto anche senza movimento, proprio come l’epopea, giacché attraverso la semplice lettura si manifesta per quel che è. Se dunque in tutto il resto è migliore, ciò a cui si riferisce la critica non le appartiene di necessità.

In secondo luogo la tragedia ha tutto quello che ha l’epopea [15] (e può servirsi perfino dello stesso metro) ed ha inoltre come sua parte non secondaria la musica che suscita piaceri nel modo più evidente; e poi la tragedia possiede anche una grande evidenza sia alla lettura sia nell’azione scenica.

Inoltre la tragedia è superiore per il fatto che il fine dell’imitazione è raggiunto in una estensione più breve [1462 b] (quel che è più compatto riesce più piacevole di quel che è più diluito nel tempo, dico per esempio se si traducesse l’Edipo di Sofocle in tanti esametri quanti ne ha l’Iliade).

Ed ancora l’imitazione dell’epopea ha minore unità (ne è prova che da una qualsiasi [5] epopea si possono trarre più tragedie), così che se i poeti epici componessero con un unico racconto, questo, o esposto brevemente apparirà monco, o adattato alla lunghezza del metro apparirà annacquato. Voglio riferirmi al caso in cui il poema risulti composto da più azioni, come l’Iliade che ha molte di queste parti, e cosi l’Odissea – parti che in sé considerate [10] hanno grandezza –; pure questi poemi sono costruiti nel modo migliore possibile e ciascuno è nel massimo grado imitazione di una sola azione.

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Se dunque per tutti questi aspetti differisce la tragedia ed ancora per l’effetto dell’arte (giacché debbono produrre non già un piacere purchessia ma quello di cui si è detto), è manifesto che essa è superiore conseguendo [15] il fine meglio dell’epopea.

Questo è quanto avevo da dire dire sulla tragedia e sull’epopea, sulle loro differenze specifiche e sulle parti e quante sono e in che differiscono e su quali sono le cause del valore positivo e del negativo e attorno alle accuse e alle soluzioni di esse.

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Dell'arte poeticaGirolamo Muzio

© Biblioteca Italiana

2003

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LIBRO PRIMO

S'egli avvien mai che ne l'aperta luceMi conduca a spiegar l'util lavoroChe chiuso ordisco, acciò che se ne fregiLa buona gioventù, che l'alme accesaD'alto disire e pallida e pensosaNotte e giorno sospira ad Aganippe,Forse alcun fia de la mal sana greggiaChe vegghiando o dormendo unqua non videPur l'estreme pendici d'EliconaE da se stessa l'orgogliose tempieSi va cingendo d'edere e d'allori,Forse (dico) alcun fia ch'a pena lettoIl titol che dà ´l nome a questi fogli,Torcendo il capo altero e sogghignando,Schernirà ´l nostro studio e dirà: «L'arteDel poetar è che di mano in manoA le prime parole si rispondaCon le seguenti drittamente a pieno,Sì che d'un sol metallo una catenaDa cima a fondo insieme bene accoppi,O sia stanza, o sonetto, o mandriale;Poi come una parola posta avremo,Dovrem con ogni studio aver risguardoCh'a quella non si faccia più ritorno.Quest'è del poetar la vera norma».

Ciò non biasm'io; ma sì com'io non biasmoCotal dottrina, così ciò non bastaA formare un poeta immantenente.Anz'io, s'alcuno una e un'altra voltaContravenir si trova a queste leggi,Pur ch'a le maggior leggi ei sottogiaccia,Bando non gli darò de la mia scuola;Che già non ritrov'io ch'i primi auttoriDi questa lingua, o gli scrittor latiniO que' che grecamente poetaro,Sian ne le carte lor tanto severi.Il render il suo detto a ciascuno dettoE ´l dare ad un suggetto varie vociVeste leggiadramente un bel poema;Ma ci vuole altro a fare altrui poeta.E chi di ciò contento s'invaghisceDe le sue rime, a costui dir potrassi:«Questa tavola, frate, è una pitturaFatta in sul Ren, che per colori allegriAlletta il vulgo, e dice il TizianoChe disegno non v'ha, non ombre o lumi».

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O voi cui punge ´l core alto disireDi ritrar l'opre rare, i bei consigli,Le diverse nature e i vari affetti,Drizzate gli occhi con la mente intentaAi chiari esempii che d'ingegno e d'arteV'ha sì ben coloriti il secol prisco.Gli scrittori d'Atene e quei di RomaDaranno al vostro dir materia e forma.Da lor s'hanno i principi e le ragioniDe le cose create, i movimentiDe le rote superne, e qual virtuteCome scenda qua giù di cerchio in cerchio,E che da noi si segua, e che si fugga.Da lor s'impara con qual via si dicaCiascuna cosa, e che prima, che dopo,E con quai voci, e con quali ornamenti.Non ha voltate ancor le ricche zolleDe' grassi campi la vezzosa figliaDe l'onorata lingua de' Latini,Ma come quella ch'ancor pargoleggiaSi sta sedendo tra i fioretti e l'erbe.

Così convien che d'umil nascimentoAbbia principio ogni levata cima.Non surse a un punto la città del Tebro,Donna del mondo; anzi di poche porteIl romano arator coi tori aggiuntiSe n'usciva a solcar Celio e Quirino,E i saltanti cantori il dotto fabroGìan celebrando con mal culti versi.Poi che fur derivati i grechi fontiA le piagge latine, incominciaroCol Tebro insieme il Po, l'Adige e ´l MencioE di sentenze e d'arte e di paroleUdir note sonar alte e soavi.Così già poetando il grande OmeroE di molt'altri avean le disciplineDa l'Egitto apportate e dagli Assiri.

Né giovi altrui di dir che le sue rimeSon da l'ingegno suo senza dottrina:Ché gli scritti ne fan tropp'ampia fede.Dirammi alcuno: «È pur antico detto,L'arte fa l'orator, nasce ´l poeta».De l'orator i' lascerò l'impaccioA quel d'Arpino, e dico che naturaSuol far l'opre sue rozze, e tra le maniLasciarle a l'arte, che le adorni e limi.Felice pianta in solitaria rivaProduce i frutti suoi rari et acerbi;Ma s'egli avvien ch'esperto villanelloLa cultura v'aggiunga, i novi pomiPiegano i rami e rendon dolce succo.Destrier, quantunque sia di buona razza,Non si leva da terra e non s'aggira,Se non fischia la verga e no ´l tien destoL'acuto spron e no ´l raccoglie il freno.E ´l garzoncel, ch'ha ´l libro inanzi e temeLa voce del maestro, e tuttaviaCon le tenere dita non s'arrestaDi formar molli imagini, s'avvieneChe ´l padre accorto il rimetta al governoDi chi gli regga in man scarpello e marmi,Surgerà un Fidia; ma se s'affaticaPresso a quel studio senza alcuna scorta,

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Post'ha la bocca alcun con pieno spirto,E chiunque de' nostri al suon de l'armeVolto ha la mente, parmi essere intentoAl dilettar le femine e la plebe.Ma di ciò avrem da dire in altro luogo,Perch'or è buon parlar de le maniereDi que' componimenti che fra noiSi sono usati in ragionar d'amore.

È dura legge quella a cui si legaChi si mette a legar rima con rimaNon per la rima sol, ma perch'ancoraA l'altrui dire il termine è prescritto.La catena di Dante ognuno intende,Che leggiadra non è se non fa puntoCon la terza sua rima, e che ´l sonettoDi quattro in quattro e di tre in tre vien chiusoDi chi che sia che ponga mano a penna.Non così le ballate e le canzoniSon comprese da ognun. Pur che rispondaLa rima a tempo, ad altro altri non mira.Ma chi ben volgerà l'antiche carteE le carte migliori, agevolmenteScorger potrà quant'ei sia in grande errore.Le forme de le rime, che pur dianziHo nominate, esser dee manifestoChe fatte son per accordarle al canto,E che s'ha ´l canto d'accordare al suono,E ch'al canto et al suon s'accorda il ballo.E s'altrui forse par questo ch'io dicoCosa volgar, non però l'abbia a scherno,Ch'altro mistero v'è dentro ripostoCh'altri non pensa. I buoni padri antichi,Render volendo onore al primo mastroDe l'universo, andaro imaginandoCome potesser far che l'uomo interoDio celebrasse con intera lode.E conoscendo lui motor supremo,Et intendendo che la creaturaCol movimento il creatore onora,Cotal concento a tal fine ordinaro,Perché col destro e regolato motoDe le piante l'uom tutto si movesse,E la lingua cantando i be' concettiDe l'alme nostre, quelle in dolci giriDegli intelletti lor battesser l'ali;E perché con la voce il corpo tuttoAvesse a far gratissima armonia,S'aggiunse il suono, appresso le cui noteSe n'andasse la voce e i piedi insieme.E perché ´l movimento in maggior pregioFosse del Creator, quel fu ordinatoA la sembianza del corso dei cieli.E i cieli avendo due diversi corsi,L'un che porta le stelle da orienteA bagnarsi di là da le colonneNe l'onde salse, e l'altro che di quindiSi move in là donde l'aurora sorge,E quello e questo in giro essendo volti,Questi rivolgimenti nei lor balliFur da lor figurati. E i primi passiGivano innanzi dando rimembranzaDel camin de la spera ch'è dipinta;Tornavan gli altri per ritrar la stradaDe le sette ch'a noi son più vicine,

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E dopo questi si volgeano in cerchioPerché ´l corso de' cieli è volto in rota;E del andare e del tornare egualeEra lo spazio, non così del giro.È da sapere ancor che fra i secondiE i primi passi, e fra i secondi e i terzi,Si facea posa, e 'n gir e 'n riposarsiS'accordava la voce e ´l ballo e ´l suono,E se posava il suono, il piede, e ´l canto,Ragion è bene ancor che le paroleFosser tra lor d'alcun punto divise;E questi erano in somma i movimentiDi que' religiosi antichi balli,Ancor ch'altri potesse o ritornandoO intorno andando cominciar la festa.E fu questa armonia di ch'io favelloFatta non solamente a Giove e Marte,Ma prima a lui che fece Giove e Marte;Che ´l re famoso, il qual già profetandoCantò a la lira i sacri, eterni versi,Non ebbe a schifo esser avuto a schernoDanzando inanzi l'arca del Signore;Et avea già Maria con le compagneBallando al suon del cembalo al Mar RossoA Dio cantato i gloriosi versi.Quinci dunque hanno avuto l'ordimentoLe ballate, i sonetti, e le canzoni,Se ben delle ballate è proprio il ballo;Perch'avrem da notar che questa formaRimane ancor ne le buone testure.Disse colui: «Perché la vita è breveE lo ingegno paventa a l'alta impresa,Né di lui né di lei molto mi fido»;E dopo ´l terzo verso fermò ´l passo;Ché questa è quella parte de la danzaChe prima move per diritta viaVerso occidente. A questa si rispondeCon passi pari ritornando a dietro.Però seguiò: «Ma spero che sia intesaLà dov'io bramo e là dov'esser deveLa doglia mia, la qual tacendo i' grido»E qui fermato ´l corso, poi ritornaA prender il camin girando intorno,E quel finito è giunto a fine il ballo;Poscia con l'altre stanze si rinfrescaPer le pedate del primiero canto.E ´l medesmo dich'io di quelle stanzeCh'han lor principii di due versi in due,O dove ci rispondon quattro a quattro;Ch'i più versi o i men versi altro non fannoChe dar più o men fatica agli altrui piedi.E può la danza aver ancor duo' giri,Al manco l'uno e l'altro al destro fianco,E cotai movimenti avrà ´l sonetto,Ché fieno i quaternarii compartitiNel gire innanzi e ne la ritornata,E faranno i ternarii le due volte.E potria chi volesse dire ancoraChe questo ballo avesse un'altra forma,Cominciando dai quattro a fare i cerchiE i tre cantando al gir et al ritorno.De la ballata ho ben io per conchiusoChe nel principio suo l'umane pianteForman la rota, ché ´l suo primo cantoRisponde al fin de la sua forma intera.

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Perch'ella è tal che quel che è capo in leiNel formar la canzon si volge in coda,Distinguendole i nomi; ché nel nomeDe la canzon il canto si comprende,E che del ballo propria è la ballataCome detto dal suono fu il sonetto;Bench'ancor sia compreso dagli antichiNel nome di canzon ciascuna rima,O sia sonetto o ballata o canzone.Lettor, tu intendi e la ragion e l'arteDi tai componimenti, et io vo' dirtiAncor ch'in quelle rime che rotondaDetto ho ne la canzon che fan la danza,Poi notar de le pose, e brievementeIo te ne mostrerò la dritta legge.Quandunque fia che da voci similiVengan duo' versi terminati e giunti,Se partirai ´l tuo dir con tal misuraChe con la vecchia rima la sentenzaNova incominci, andrà ´l tuo dir leggiadro.E veramente dee scrittor gentileAver gran cura a far che si distinguaSempre la sua canzon con punti egualiDi stanza in stanza. E se ben non si balla,Come già si ballava a suon di rime(Et al suon de le rime ancor si danza,Se non in ogni luogo, in molte parti),Non si riman però che non s'accoppiLa rima al canto; e per comune avvisoLa scrittura cui ´l canto s'accompagnaNon dee lasciar la compagnia del canto.Quel che le note a le parole aggiungeParte la stanza, ai simiglianti versiRende ´l canto primiero, e i suoi riposiForma tra questi e quelli; e non conviensiChe ´l canto cessi e la sentenza corra.Or che dirò ch'un canto si conformaA l'intera canzon di stanza in stanza?E che quel ch'a la prima ben s'adagiaNon ben s'adagia a l'altre, se non serviLa legge ch'io ti mostro; e la ti mostroPer vera, ferma, e inevitabil legge.Da questa norma ancor non s'allontaniChi d'otto in otto versi empie le carte.L'ottava rima è rima cui la liraCanta d'intorno, e fra due versi e dueL'arco parla e le corde, e ´l canto tace.Perché fra pari versi il fin del versoHai da segnar, scrittor, con alcun punto,Se non voi ch'al tuo dir si torca il grifo.E quest'ancor dirò pria che mi partaDal parlar de le rime: che qualoraScriver vorrò canzon, come una rimaUsata avrò, non più tornerò a quella;Ma quante fien le rime e le lor coppie,Tante farò sentir diverse note,Salvo s'a bello studio e con vaghezzaNon vi ritornerò per ogni stanza.Questa legge han servata i più leggiadriNostri scrittori; e quel le cui canzoniVinser gli altri e lui stesso, intentamenteSi guardò da tal vizio, sì ch'a penaTrovar potrai ch'ei rompa questa legge.

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LIBRO SECONDO

Scrittor, se brami che ´l tuo nome vivaPer la tua penna, fa ch'abbi risguardoA l'età, al sesso, al grado, a la fortuna,Agli affetti, al paese, e ch'a ciascunoSi convengano e l'opre e le parole.Implacabil sia Turno, a l'arme corra,E scuota l'asta e gridi e si dia vantoDi solo vendicar il comun falloCon mano armata. Il vecchio re LatinoAl giovenil furor s'opponga, e saggioTema e discorra intorno i casi adversi.L'onesta giovinetta al mirar fisoDe l'acceso amador, il viso tingaDi purpureo color e gli occhi atterri.Il bello Iulio in mezzo l'ampie valliDel gagliardo destrier giosca, e arditoNel corso or questi et or quegli altri avanzi.Con così fatti esempii e con tai normeFarai nelle tue carte i tuoi ritratti.Empio sia ´l re toscano, il Troian pio,Pallante audace, Andromaca dolente.S'oda dir Mopso: «Mentre la rugiadaPasceran le cicale e l'api il timo,Sempre vivrà ´l tuo onore e le tue lode».«Mentre ch'al mar discenderanno i fiumi»,Dica ´l figliuol de l'amorosa diva.Ardendo Coridon, l'inculta vitePenda dal fronduto olmo; ardendo Dido,Non sorgan più l'incominciate torri.Sia ´l vincitor superbo, umile il vinto;Il robusto Tedesco in mezzo i campiArmato s'appresenti, entro i ripariLo Spagniuol paziente si rinchiuda.Né però ad un medesmo ognor conviensiLa medesma maniera; anzi l'affettoCangia ´l volto, la voce, e i movimenti.Perché s'uom fai temer, dubbia et umileSia la sua lingua; se gli infiammi il core,Rompi et affretti ´l dir; soave e molleParli se dentro ´l cor dolcezza chiude.Di questi e d'altri affetti i veri segniTi daran le scritture e i vivi esempi.

Or che sian del parlar tre le maniere,La sovrana, la umile, e tra le dueQuella che d'una e d'altra è ne' confini,E ch'in quelle trattando usar convegnaLa gravitate e l'acutezza e i fiori,Ne risonan le scuole in ogni parte.Perch'io, ch'entrar non voglio in tal caminVolgendo i passi per diversa strada ilDico che ´l primo onor da l'alme museRiporterà chi con più leggiadriaVestirà d'umiltate alti concetti,Et agli umili aggiungerà splendore.Né senza gran cagione il gran poetaNe lasciò scritto ch'era grande impresaA' poveri suggetti aggiunger pregio,E cantando le selve si fe' udireChe volea che le selve fosser degneDel maestrato dai superbi fasci.E perché molti molto studiosi

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De le greche scritture maggior gridoDanno a colui che senza velo alcunoIntrodusse a parlare Epolo e TirseCh'al buon scrittor che la famosa RomaCelebrò sotto nome d'Amarilli,Nel lor giudicio col giudicio mioNon so se con ragion fermar mi debbia.Non dee parere altrui gran meravigliaBassamente cantar basso suggetto;Ma coprir d'umil vesta alti pensieriLeggiadramente et onoratamente,Dir si può ben che sia fatica degnaDi pregio eterno e d'immortal corona.E se forse la lingua di coluiE le materie umil più si confaceChe la lingua del nostro, questo onoreNon è de l'uom, anzi è de l'idioma.E per mostrare il grande avvedimentoDel poeta latin, notar si vuole liChe volend'ei cantar quella dottrinaCh'ei da Sciron avea con Varro appresa,Come fosse creato l'universo,Tenne nel suo cantar cotal maniera:Che in ragionar di Chromi e di Nasilo,De la spelonca e de la bella Nimfa,Di Sileno ebbro e del sanguigno gelso,E dei legami fatti di ghirlande,Il gran suggetto fe' caper ne' boschi.Ma nota ben, lettor, che volendo egliAd ogni parte aver degno risguardo,Perch'intende a cantar di cose degneD'altero stile, un dio ne fece auttore;E perché da ascoltarle avean le valli,Cantar le fece ad un silvestre dio.Non vo' tacer ch'in ragionar di Gallo,Mostrar volendo altrui che le sue labbraEran disposte a calami et a trombe,Disse che per dolor de' suoi doloriPianser gli allori e pianser le mirice,Per quelli dimostrando il suon sopranoE per queste ´l tenor de la zampogna.Nota, nota, lettor, lo ingegno e l'arteDel buon poeta, e quinci paragonaQuesto con quello e poi dà la sentenza.

Ma non per avventura minor lodeAl nostro si convien nel dar grandezzaAle cose minute ch'abbassandoLe cose eccelse. A noi sia per esempioLa materia de l'api; e qui vedremo ilQuant'egli aggiunga lor di vero onore.Eperché ne lo stil, che ´l primo seggioTien sopra gli altri, ei con colui contendeChe pugnar fece i topi con le rane,L'un suggetto mettiamo a l'altro a paro.Opra di buon poeta è sotto i sensiLocar le cose che porgan dilettoA chi prenderà in mano il suo poema,E non che dai lettor s'abbiano a schifo.Ne le carte del Greco s'appresentaA la tua mente una sozza figuraD'un animal dannoso e fastidioso,Per cui conviene in casa aver la gattaSe non vòi che ti roda libri e panni.Da l'altra parte poi veder ti pare

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In mezzo al puzzo d'alcuna paludeUna odiosa forma, che s'attufaCon le natiche aperte, e girle appressoVedi un povero scalzo con la zucca;Cose ch'in ripensando il cor le aborre.Quest'è ´l novo piacer che ti preparaIl grande Omero. Or ti rivolgi un pocoA le piagge latine, e vederaiLiete campagne d'ogn'intorno cinteDi care ombrette e di rivi correnti,E ´l verde smalto ornato degli onoriDe la lucida flora; e d'ogni parteSoavissimo odor, dolce confortoPrenderà il tuo sentire. Intorno sparsiVedrai volare aurati animalettiE fabricar dolce odorato umore.Vedi quanto diletto ti appresentaIl gran scrittore. E in queste cose umiQuanta è quella grandezza ov'ei sormonIn dir di re, di squadre, e di battaglie?Così dunque, così leggiadramenteLe gran materie al suon de la zampognaTrattar si ponno, e così a suon di trombaFar si può ribombar suggetto umile.E qual scrittor vorrà per tutti i gradiSalir di gloria, le sovrane coseDirà altra volta con sovrano stiloE le dimesse con dimessa voce;Altra queste alzerà, quelle abbassando.

Il poema sovrano è una pitturaDe l'universo, e però in sé comprendeOgni stilo, ogni forma, ogni ritratto.Perché spesso lasciando l'alte impreseDiscende a l'opre umili, e da la selceTragge ´l foco ne l'esca e ne le frasche;Mette la mensa e dà l'acqua a le mani.Non così si conviene a la zampognaLiberamente e senza alcuna scusaTentar l'altero suono; e ciò ne insegnaLa maestra natura e i buon costumi.Non è vietato al re lasciar lo scettroE mischiarsi fra ´l vulgo; è ben disdettoA la plebe sedere in real seggio.

Inducendo a parlar Menalca o Dido,Cremete o Filli, io lodo ch'oltra il veroFacci sapere ognun. Ma questa leggeTi do a serbar, che se conduci in scenaFilli e Cremete, dia tanto più sennoAl parlar di costui quanto conviensiChe sia Cremete più saggio che Filli.La poesia, che senza meravigliaNon può lode acquistar, non sta contentaAi semplici ritratti, anzi a la normaDegli artefici illustri s'avvantaggia.Veder potrai nei marmi e nei metalliDegli antichi maestri un caval sortoSovra ogni vero esempio, e una donzellaCrescer dal piede al fianco oltra misura.Questo, perché? Non già che la dottrinaMancasse in loro; anzi la lor dottrinaEra seguir quel che più a l'occhio aggrada.Non altramente noi con cose eletteDovrem porger diletto a l'altrui menti.

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S'io fo che ne' miei fogli alcuni favelli,Non mi piace occupar margini e tergoDe' suoi discorsi; anzi le cose radeScelgo a mia possa, e in ciò seguir mi piaceVia più colui che nacque in riva al MencioChe lui che scrisse le diverse formeO ´l Greco che cantò l'ira d'Achille.Ma da colui la vera arte s'imparaDel poetar, in questi si comprendeQuanto fosse feconda in lor natura.

Non mi par da passar coi piedi asciuttiUn varco non minore, od io m'abbaglioOd altramente ho da parlar d'altrui,Altramente di me. D'altrui parlando,Dirò le forti braccia e ´l dolce viso;Di me basterà dir le braccia e ´l viso,Se non son glorioso o non mi tiraForza di passion. Al vantatoreRaccontar si convien le sue battaglie,Quelle inalzando fin sovra le stelle,E non voler dar luogo al grande AchilleE voler sovra gli altri da ciascunoEsser tenuto ben parlante e saggio.Similemente a giovinetta donnaChe morto ha inanzi il suo fedele amanteNon fia disdetto dir fra' suoi sospiri:«A cui si serban più le mie bellezze?»Ma non so come bene ad altra linguaO in altro caso assai dicevol fosseCotal modo di dir, essendo in parteOv'altri sia che conoscenza n'abbia.Né mi risponda alcun che ´l gran poetaFece dire ad Enea, «Le large spalleCol cuoio del leone i' mi ricopro»;Ch'a lui ´l perdono, ché l'ultima manoNon pose a quel lavor, anzi a l'estremo,Come di sé non degno, il dannò al fuocoE tal vizio nel Greco ancor si nota,Che scrivend'ei d'Ulisse a dir l'induce;«Con mie gagliarde man premea la cera»,E 'n altro luogo: «Et io farò mie' avvisi,Nel valoroso mio cor ripensando».Io, se vorrò ch'altri di sé favelli,Altro no ´l farò dir se non «le spalleCol cuoi del leone i' mi ricopro»E «la cera premea con le mie mani»E «fra me ripensando nel mio core».Questa legge ch'io scrivo e questi esempiSian, lettore, al tuo dir perpetua norma.

Non dei nel cominciar aprir la boccaFin dal petto profondo, anzi esser deeTale il principio che seguendo sorga.Poi nel tuo cominciar la tua propostaPrometta un'opra sola, et in quell'opraProcura di trovar diverse vieA le digressioni; indi le cartePuoi gire empiendo e davanti e da tergo.Colui che, cieco, più d'ogni altro vide,Vide questo camin, ch'a dir di TroiaAltro non chiese che l'ira d'Achille.L'altra fatica sua fu degli erroriDel figliuol di Laerte. Or vedi comeCrebber di breve tema i suoi volumi.

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Altri ci son che se ben d'una in unaNon propongon le donne, i cavalieri,L'arme, gli amori, e tutte l'altre coseDi che intendon trattar per tutti i libri,Non sembra lor dover scriver poema.Ma gli occhi apra ciascuno, apra gli orecchiA quel ch'io mostro loro, a quel ch'io scrivo,Se non voglion cadere in su la soglia.

E perché ´l poetar è una figuraDi nostra vita, deve il buon poeta,Scrivendo l'opre altrui, non solamenteIr d'altrui disegnando le vere opreMa dimostrarle o qual ragion comporta,O quai necessità stringer potrebbe,Pur che si notin simiglianti al vero.Lascia ´l vero a l'istoria, e ne' tuoi versiSotto i nomi privati a l'universoMostra che fare e che non far si debbia.Quinci prender dovrai suggetto antico,Onde favoleggiar senza contrastoPossa tua penna, e trar di cielo in terraGiove e Minerva e dire i lor consigli.Ché ´l poema è divin, né senza i dèiPoetar si conviene; ond'a l'entrataS'odon pur richiamar quelle donzelleCui spira la virtute il santo Apollo,Che nel petto di lui ´l gran padre ispira.Né ne la sola entrata, anzi qual voltaCosa ci incontra grande, oscura, o nova,I lor nomi iterar non si disdice.

L'ordine del contar è ch'abbandoniIl diritto principio, e poi interrottoIl già preso camin, ti volga a dietro,Quindi riprenda il cominciato corso.Questo scrivere obliquo assai dilettaGli animi dei lettori et ha sembianzaCon quella image che ´l pennel ritorce;Per questa via ne vanno i buon poeti,E chi vuole, in contrario senta o scriva.

Or a quel che dett'ho, questo anco arroge,Che la digression tal esser vuoleChe ´l dir secondi e non sia tratta a forza,E se cosa hai che sia nobile o rara,Non dei però voler pur attaccarlaIn ogni modo a che che sia che scriviS'udir non voi: «questo non era il loco»;Ché cosa per sé bella, non ben posta,Non al suo luogo posta, si fa sozza.Fu tralasciando il tuo primiero filo,Pensa d'ordire il tuo novo lavoroCon modo tal ch'altrui possa parereChe senza quel l'opra imperfetta fora.

Sappi ancor, tu che leggi, che ´l poemaCh'al giovamento et al piacere intende,Non per altro sentier più prontamenteAl diletto i nostri animi conduceChe col ben variar la sua pittura.E quindi avvien ch'or chiuse in un bel tempioVedi le greche e le troiane squadreCon dubbiosa fortuna aver rivolte

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A´ nimici or le spalle et ora il volto.Altrove odi lo strazio e la vendettaDi lor cui fu sepolcro il fier Ciclope.Ecco ´l sangue del miser PolidoroCui stillan con orror gli acuti dardi.Che dirò del tenere i cori intentiAl mover de le navi? ai cesti? al corso?A le saette ? al giro de' cavalli?Volgi in qua gli occhi e vedi la SibillaCondur l'armato Enea pei regni stigi.Apri gli orecchi e odi il padre AnchiseFavoleggiare intorno a l'alme ignude.Qui freme Alcide intorno a la speloncaDel fiero Caco, e quivi a suon di trombaSi raccolgon le genti d'ambe parti,Varie di lingue, d'arme e de le gonne.Veder si ponno ancor Sterope e BronteCome fan sospirar l'alta fucinaA vicenda movendo i gran martelliNel fabricar de l'arme, in cui mirandoIl gran guerrier ammira, e non intendeDel suo legnaggio l'onorate imprese.Or queste son le vie; con simili ormeTrovar si pon le vie donde ´l piè vagoMova pei fior dei variati campi.

Non poco farà belli i tuoi disegniIl figurar talora Olimpo, Atlante,Mongibello, Ischia, l'acque d'Aretusa,L'ircane selve e ´l gran fiume d'Egitto.Quivi s'aggiungan le stagioni e l'ore,Il freddo verno, l'aurea primavera,L'ardor di iulio e i pomi de l'autunno,La rugiadosa aurora, il sol ch'in altoAsceso i raggi con più forza vibra;Il tempo che fa l'ombre esser maggiori,E ´l silenzio, e ´l riposo de la notte.Di così fatte cose, dico, e d'altreSia la tua poesia varia e dipinta.Et a ciò fia mestier d'aver rivoltoAnch'altre carte che Persio e Tibullo.E si vuol non avere il cor digiunoDel camin de le stelle; veder vuolsiDe l'ampia terra il circoscritto giro,Non solo in libri e in tavole dipinto,Ma gir talor solcando il salso suoloE traversando le campagne e i monti,Vedere i re, vedere insieme accolteL'alte corone, e de l'armate schiereVeder e udir e gli ordini e le insegne,E ´l nitrir de' cavallì e ´l suon de l'arme.Ché sì come pittor a far ritrattoDi te, convien ch'in te la vista affisi,Così di quel che dentro a la tua menteSegnato avrà ´l pennel degli occhi tuoi,Render meglio potrai nova figura.

Molte cose si mostran, molte chiuseSi dimostran di fuor, e molte involteNel velo del silenzio n'appresentaQuel che poi segue. Or nota il bel consiglioDel figliuol de le muse. A lui non piacqueDir come la reina in se converseLa spada del Troiano; a le compagneVeder la fa riversa, e ´l ferro ignudo

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Del suo sangue spumante e le man sparte.Non potea meglio il doloroso fineMostrar col dir che col tacer l'espresse.

Spesso onestà è cagion ch'altri ricopraCon velo o con silenzio quel che foraBrutto a narrar e pur dir si conviene.Ché spesso avvien che gli amorosi affettiDan suggetto a chi scrive, e spesso incontraDir ch'altri arriva al fin de' suoi disiri.Per che ´l saggio scrittor ch'i caldi amoriCanta di lei ch'edificò Cartago,Sola col caro amante alla speloncaLa fece entrare, e ne fa dar segnaleDa la terra e da l'aere e urlar le nimfe,Altrui lasciando intender quel che segue.Né fu forse men bello avvedimentoQuel di colui ch'induce a dir la figliaDel signor di Polenta, che leggendo«Di Lancilotto, come amor lo strinse»,La baciò il suo cognato, e poi soggiunge:«Galeotto fu ´l libro e chi lo scrisse.Quel giorno più non vi leggemmo avante»Ché ´l lasciar la lettura altrui dimostraL´effetto degli affetti lor conformi.O quanto ci conviene essere accortiIn quel che si convenga e si disdicaChiuder e aprir! Il bel lavor di ClioCon prudenza convien che s'accompagniE s'accordi con sé, ché ben soventeTratto dal primo bel che s'appresenta,Uom si lascia condur là 've si trova,Che dal diritto e da sé si discorda;E vizio è questo di felici ingegni.E però che la gloria di chi scriveVien dal giudicio e da la conoscenzaDe la virtù e del vizio, che si coglieDagli altrui scritti; avendo a la mia scuolaMostre molte virtù, mostrare intendoAncor de' vizii degli altrui poemi,Acciò che con gli esempii meglio impariE seguir e fuggir e quelle e questi.Scrive ´l gentil poeta sulmoneseCh'ardendo ´l mondo, era già dato il bandoDal gran padre Oceàno a quelle stelleChe locate son presso al nostro polo.E quindi fa che visitando GioveIl ciel dopo lo 'ncendio, s'innamoraDi quella bella che fu volta in orsa,E che Giunon ricorre al dio dell'acquePregando lui ch'a lei ´l suo umor divieti,Il che dee dirsi vizio manifesto.Ché se dopo l'ardor furon sbandite,Innanzi al tempo del crudel decretoScacciar non le dovea dal salso regno.Scrive egli ancor che ´l gran filosofante,Lo qual passò da Samo ai nostri lidi,Trattando il mutamento de le formeS'ode dir che surgendo in riva al TebroLa giovinetta Roma, Atene e SpartaErano ignudi nomi; e pur sappiamoChe quelle alme città, nascendo Roma,Cresceano e fur con Roma un tempo illustri.Nel tempo ch'ei scrivea pur potea dirsiChe fosser tali, e quanto dir si pote

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Ch'a lui (quand'ei scrivea) cotali esempiPotesser convenirsi, tant'a luiCh'egli induce a parlar mal si confanno.Ritrovo ancor che ´l padre dei poetiNe le sue guerre infra straniere gentiE fra genti non note scrive EneaDardi avventar e adoprar la spada.E quivi fa ch'ei mostra aver contezzaDegli aspetti, dei nomi, e dei legnaggiDi lor ch'ei non avea già mai veduti;Il che non lodo ch'altri abbia a seguire.E certo son che se l'avare ParcheNon troncavan sì tosto l'aureo filoDi quella cara e preziosa vita,Avria quella battaglia un'altra forma.Quando ´l poeta conta i fatti d'armeA lui sta bene il dir e d'uno e d'altroIl nascimento, il nome, e la fortuna,Perch'egli ha già chiamato il sacro coroCh´a lui racconti le passate cose;Il che dir non si può del cavaliero,Ch´ei non ha seco né Talia né Febo.Ma nel gran Greco, a la cu' oscura stirpeCercan sette città di dar radice,Soglio spesso bramar maggior prudenza.E qui basterà a dir di quel decoro,Che sembra a me che da lui mal si serbi.Ei si propon per onorato oggettoDi formare in Achille un cavalieroProde oltra ogni altro, e per primiero pregioDel gran Troian la morte a lui riserva.Poi di colui parlando, bene spessoLo fa temer, lo fa fuggir, lo faceFerito d'altrui mano, e ne ´l dimostraCodardo e vile in più ch'in un sol loco.E se l'onor del vincitor dependeDa la gloria del vinto, non vegg'ioChe corona aver debbia quel famosoNè trovarsi aver vinto uom non valente.

Tu vedi ben, lettor, con qua' nocchieriPel mar di poesia ti metto in barca,A te mostrando i perigliosi scogliOve percoton spesso i miglior legni.Perch'hai ben da adoprare e studio e arte,Che non si franga la tua navicella.E per solcar ancor di questi mari,S'io parlerò de l'isola famosaPer lo furto del tauro ne' miei versi,Non ti farò sentir lupi né volpi;E s'in Africa altrui menerò a caccia,Non lo farò veder cerbiatti od orsi.Armerò i cervi di ramose cornaE le femine lor lascerò inermi.Né farò risonar ne le mie rimeCh'una candida cerva sopra l'erbaVerde m'apparve con due corna d'oro.Non farò ch'altri altrui chiami con nomeCh'a quella etate ben non si convengaChe s'induce colui che parla e ch'ode;Come chi fa chiamare altrui «marrano»Anzi che fosse mai quel nome in uso.E 'n somma in ogni detto avrò risguardoChe benigno lettor non s'affatichiIn pensar come i miei scritti difenda.

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E tu, lettor, se le scritture tueRegolerai con questi avvedimenti,Dir ti potrai scrittor grave e leggiadro.

LIBRO TERZO

Chi stringer vuol la libertà natìaDe' gran suggetti in circoscritto giro,S'io non m'inganno, è fuor del buon camino.Il cavalier ch'amore armato in piazzaConduce per mostrare il suo valoreA la sua bella donna a pari incontri,Ben è che sia rinchiuso entro le sbarre.Ma quel che per la patria e per la vitaRota la spada fra ´l nimico stuolo,Vuole aver le campagne intorno aperte.Più sono atti a la lira che a la trombaI ternarii e le stanze; in quelli e in questeChiuder conviemmi in numerati versiLa mia sentenza, e chiuderla conviemmiNel fin del verso o perdo ogni vaghezza.Se tra quel spazio ho da fermare il carroDel grande Achille, con le mani inermiVolto ´l vedremo a la palma d'Alfeo.Perch'a voler che senza alcuno intoppoCorra lo stil continuo, in quella veceChe già gli antichi usar le sei misure,Porrem le rime senza rime; questeSono oltra l'altre chiare, pure, et alte,E chi non v'ha l'orecchie in tutto nove,Altra lettura, altro cantar non vole.Ma bene ha da notar chiunque scriveSciolto di rime, che di rima alcunaSentir non lasci ´l suon ne le sue carte,Sì da vicin chiudendo i versi suoiCh'in sentendolo orecchia si riscuota,Salvo sed ei d'una parola e d'altraLe medesme iterando non s'adorna.

E per dir de le rime senza rima,Vo' che sappi, lettor, che d'altro versoForma alcuna non ha donde ´l tuo stiloMeglio si possa fare alto e soave.Mentre se' intento a far che sia conformeQuesto e quel fin, convien che molte volteTu venga a usare or una or altra voceUmilemente posta od aspramente;Et in quelle umiltati e in quelle asprezzeUom che s'avvezza mal se ne rileva.Libero da legar suono con suono,Nulla cosa ti sforza o ti ritieneChe ´l più soave e ´l più sovrano e chiaroSceglier non possa e farne il tuo poema.E così con lungo uso stil si faceE leggiadro e sonante. E se ben poiTi disponi a legar qualche catena,La dolcezza e l'onor non ti si toglie.

Molti si son veduti molte volteCh'in sul giovenil fior nova vaghezzaPreso han d'oggetto ch'ai lor sensi aggrada.E perché poi cosa più bella e caraLor si sia appresentata innanzi agli occhi,Non han perciò già mai cangiato affetto.

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IL POEMA EPICO IN ITALIA

1339 Boccaccio, Teseida

1339-74 Petrarca, Africa

Et michi conspicuum meritis belloque tremendum,

Musa, virum referes, Italis cui fracta sub armis

Nobilis eternum prius attulit Africa nomen.

Anche a me narra, o Musa, dell’uomo per meriti illustre

e in guerra tremendo, cui l’Africa diede per prima,

franta dalle armi d’Italia, un nobile nome ed eterno.

Dolce mia cura, Sorelle, vi prego lasciatemi bere

dal fonte che è sacro, sul sì disseccato Elicona: 5

fatti grandiosi vi canto. Già le erbe di amiche campagne,

i prati e le fonti, silenzi di campi deserti,

già i fiumi ed i colli, già gli ozii nei boschi assolati

Fortuna mi diede. Rendete voi i canti al poeta,

rendete l’ardire. Del mondo più salda speranza 10

Tu, ornamento dei cieli, che il secolo nostro ricorda

d’Erebo e dèi vincitore, Te per cinque ferite vediamo

che porti profonde sul corpo innocente, Ti prego

Padre sommo soccorrimi! A Te molti canti devoti

rivolgerò di ritorno dall’alto del monte Parnaso 15

se i canti tu ami, se meno li ami rivolgo

le lacrime forse, che (tanto s’inganna la mente)

da spargere un tempo, io folle da molto conservo.

E sommo tu pure, sovrano del siculo regno,

decoro d’Esperia e gloria dei secoli nostri, 20

il lauro bramato te giudice io meritai

e di sedere tra i vati e il titolo mio di poeta.

Al dono che è offerto, ti prego, con petto sereno

di offrire ricetto; infatti leggendolo tutto

forse potresti trovare di cosa addolcire le orecchie 25

vacue, e meno pentirti una volta finito il lavoro.

Piana così tu prepari per tutti gli anni futuri

ad esso la via: chi infatti oserà condannare

ciò che ti è visto piacere? [...]

1450 Basinio da Parma, Meleagris

1450-55 Basinio da Parma, Hesperis

1451-72 Francesco Filelfo, Sphortias

1451- Antonio Cornazzano, Sforzeide

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1455-57 Basinio da Parma, Argonautica

1459 Porcelio Pandoni, Feltria

1460 Lorenzo Spirito, Altro Marte (su Niccolò, Francesco e Jacopo Piccinino)

1460- Tito Vespasiano Strozzi, Borsias

Sollicitos error cecinit iuvenilis amores,

Ingenii florentis opus. Mox lentus in umbris,

Quartisana, tuis agrestia carmina lusi.

Devia nunc alio peragrare Heliconia passu

Dum meditor, se Borsi offert mihi gloria, quo sub

Aurea nunc agitur populis felicibus aetas,

Unde novum caelo promittere numina sydus

Certa fides. Hic erit merito mihi carminis autor.

Magnanimosque duces atque alta exordia dicam

Gentis Atestinae Troiana ab origine ductae;

Nec minus egregia referam virtute receptum

Aequore ab Adriaco Tyrrheni ad littoris undas

Praeclarum imperium et populis data iura subactis.

Haec igitur, Musae, vestro si numine fretus

Aggredior, vos este duces ingentibus orsis

Ac mecum seriem tantorum evolvite rerum!

1462 Giammario Filelfo, Felsineis (poi Martias, Amyris...)

1472 Naldo Naldi, Volaterrais

_________________________________________

1483 Matteo Maria Boiardo, Inamoramento de Orlando

1.

Signori e cavallier che ve adunati

Per odir cose dilettose e nove,

Stati attenti e quieti, ed ascoltati

La bella istoria che 'l mio canto muove;

E vedereti i gesti smisurati,

L'alta fatica e le mirabil prove

Che fece il franco Orlando per amore

Nel tempo del re Carlo imperatore.

2.

Non vi par già, signor, meraviglioso

Odir cantar de Orlando inamorato,

Ché qualunche nel mondo è più orgoglioso,

È da Amor vinto, al tutto subiugato;

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Né forte braccio, né ardire animoso,

Né scudo o maglia, né brando affilato,

Né altra possanza può mai far diffesa,

Che al fin non sia da Amor battuta e presa.

3.

Questa novella è nota a poca gente,

Perché Turpino istesso la nascose,

Credendo forse a quel conte valente

Esser le sue scritture dispettose,

Poi che contra ad Amor pur fu perdente

Colui che vinse tutte l'altre cose:

Dico di Orlando, il cavalliero adatto.

Non più parole ormai, veniamo al fatto.

1516-32 Ludovico Ariosto, Orlando Furioso

Le donne, i cavallier, l'arme, gli amori, le cortesie, l'audaci imprese io canto,

che furo al tempo che passaro i Mori

d'Africa il mare, e in Francia nocquer tanto,

seguendo l'ire e i giovenil furori

d'Agramante lor re, che si diè vanto

di vendicar la morte di Troiano

sopra re Carlo imperator romano.

2

Dirò d'Orlando in un medesmo tratto

cosa non detta in prosa mai né in rima:

che per amor venne in furore e matto,

d'uom che sì saggio era stimato prima;

se da colei che tal quasi m'ha fatto,

che 'l poco ingegno ad or ad or mi lima,

me ne sarà però tanto concesso,

che mi basti a finir quanto ho promesso.

3

Piacciavi, generosa Erculea prole,

ornamento e splendor del secol nostro,

Ippolito, aggradir questo che vuole

e darvi sol può l'umil servo vostro.

Quel ch'io vi debbo, posso di parole

pagare in parte, e d'opera d'inchiostro;

né che poco io vi dia da imputar sono;

che quanto io posso dar, tutto vi dono.

4

Voi sentirete fra i più degni eroi,

che nominar con laude m'apparecchio,

ricordar quel Ruggier, che fu di voi

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e de' vostri avi illustri il ceppo vecchio.

L'alto valore e' chiari gesti suoi

vi farò udir, se voi mi date orecchio,

e vostri alti pensier cedino un poco,

sì che tra lor miei versi abbiano loco.

1548 Luigi Alamanni, Girone il Cortese

1548 Giovan Giorgio Trissino, Italia liberata dai Goti

Divino Apollo, e voi celesti Muse,

ch'avete in guardia i glorïosi fatti

e i bei pensier de le terrene menti,

piacciavi di cantar per la mia lingua

come quel giusto ch'ordinò le leggi

tolse a l'Italia il grave ed aspro giogo

de gli empi Gotti, che l'avean tenuta

in dura servitù presso a cent'anni:

per la cui libertà fu molta guerra,

molto sangue si sparse, e molta gente

passò 'nanz'il suo dì ne l'altra vita,

come permesse la divina altezza.

Ma dite la cagion che 'l mosse prima

a far sì bella e glorïosa impresa.

L'altissimo Signor che 'l ciel governa

si stava un dì fra le beate genti

risguardando i negozi de' mortali,

quando un'alma Virtù, che Providenza

da voi si chiama, sospirando disse:

O caro padre mio, da cui dipende

ogni opra che si fa là giuso in terra,

non vi muove pietà quando mirate

che la misera Italia già tant'anni

vive sugetta ne le man de' Gotti?

Egli è pur mal che la più bella parte

del mondo si ritruovi in tanti affanni,

in tanta servitù senza soccorso;

pur è passato il destinato tempo

che fu permesso agli angeli nocivi

ch'inducessero in lei tanta ruina

per penitenza de i commessi errori.

Or che la pena avanza ogni delitto

fatela Signor mio libera e sciolta,

come talor mi fu per voi promesso.

Rispose sorridendo il Padre Eterno:

Figliuola, il tuo pensier molto m'aggrada.

Non dubbitar, che già vicino è 'l tempo

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da doversi esequir la mia promessa;

ché ciò ch'io dico e con la testa affermo

non può mancar per accidente alcuno.

E detto questo, si tirò da parte,

seco stesso pensando il tempo e 'l modo

da porre in libertà quel bel paese;

e discorrendo al fin gli parve meglio

mandare in sogno al correttor del mondo

l'angelo Onerio, e subito chiamollo,

ed in tal modo a lui parlando disse:

Onerio mio, come si corchi il sole,

prima ch'esca de l'onde un'altra volta,

va truova in sogno quel famoso e grande

Giustinïano imperador del mondo,

che or siede glorïoso entr'a Durazzo,

per la vittoria d'Africa superbo.

Digli per nome mio che 'l tempo è giunto

da por la bella Ausonia in libertade;

e però quelle genti e quelle navi

che ha preparate per mandare in Spagna

a far vendetta de le gravi offese

che fece quella gente a i suoi soldati

quando a la guerra d'Africa si stava,

ora le mandi nell'Italia afflitta:

che 'n brieve tempo co 'l favor del cielo

la torrà da le man di quei tiranni

e farà degno e glorïoso acquisto

de la sua vera e ben fondata sede.

1557 Girladi Cinzio, Ercole

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4

A L'INVITTISSIMO

E CATOLICO RE

F I L I P P O.

DE L'AMADIGI DEL

S. BERNARDO

T A s s о,

'ECCE.ISB

imprefe,egli

amorofi affan

** •.

Del Trenci-

pe lAmadigi,

ed'Oriana ;

It с V i ил-

lot dopb tan

ti,e tant'anni

*Ammira,e'nchma ancor r*Auftro,e la Tana:

E daltri Caualier , cFtUuflri inganni

Fecero al tempo ;elx fuá rabbia nana }

Cantar uorreicon ft fonoroftile,

Che l'udiffe Ebro , Idajpe, e Battro, e Thile,

Ma chi dará fauore al canto nlo t

E Cigno mi farà bianco , e canoro ;

Tal , che furor del tempo inuido , e rio

Tromper non poffa il mío gentil lauoro ¡

Matrattoa forjada l'ofcuro oblio

Lo ferbi ïternità nel fuo theforo ;

E uiua fempre in bocea dele genti ,

Mentre durerai Cielo , egli element i ?

Santa Madre demore , il cui bel raggio

Serena Гaria , e'l mar turbato acquêta ;

Sewra cui fora il mondo hermo , feluaggio ,

Sterile ¡epriuo d'ogni cofa lieta ;

¿ll cut uago apparir non fente oltraggio

Jl mondo di maligno , empio Tianet.: ;

%An%i ride ogni piaggia , ogni pend:ce

Dal tuo largo famr falta jelicc ¡

Я

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Tu , chai fouente fojpirare udito

^irft dal foco tuo gli alti Gaerrieri ; f

Che jpeffo uiflo gli bai col ferro ardito

Difendcr \\egni , & acquiflar Imperi ;

Tu Dea , col tuo ualor ruro , infinito ,

Tu nv.ioui la mía lingua ; al^a i penficri ;

E dona а Гор) amia fauor cotante ,

Cb'ogni futura etate oda il mió canto .

Z uoi Trincipe facro , única ¡pene

Del magnánimo Carlo; acui ridcnti

Tartan Tago , & Iber l'aurate arene ,

I lor tbefori , e l'onde alte , e lucenti ,

Mentre il gran uofi.ro Genitor fofliene ,

"Ыоио sitiante , со gli homeri pojfenti

Ii graue pefo de la Monarcbia ,

Vdite il canto de la mufa mia .

Fra tanto egli col cor forte , <¿r inuitto ,

Come l indomit 'Hiflro , e'l Bjyeno algente ,

Sottoil fuo giogo ancor porra ГEgitto ;

E le fuperbe parti d'Orienté ;

E , paßando oltre al termine prefcritto

D'Ahide ; opre farà tai , che'l Tonente ;

E doue copre ti Ciel , cingono i mari ,

Ergeranno al fuo honor tempi , & altari .

7i¡l fccol prifco , in queüa bella etate ,

Ch'era d'ogni uirtiite il mondo adorno ;

E i Caualicr d'eccelfa, alta bontatc

Cafligando i maluagi iuano intorno ,

B^ggcua di Britannia l'honorate

RJue , un Bjfaggio ; в d'alte laudi adorno ;

' Ilqual per tempo, e fen^'akuno berede ,

Lafciando il mondo al Ciel riuolfe il piede .

Succeffc a lui nel regno ,enela gloria .

Уп fuo fratel minor , detto Lifuarte ;

Dal foco ardente de la cui memoria

Cotante intorno fon fauiüc fparte ;

Che de fuoi pregi I'immortal'bifloria

Diffufa è gia del mondo in ogni parte ¡

E con le uoci di famofa tromba

Jnjinal ciclo il fuo ualor rimbomba ,

Si trouaua per forte tn Danifmarca

Con Brifenna fuá Moglie , al Bjfigliuola ,

tAühor che piacque al fommo,alto Monarca

Torre al Fratel la luce , e la parola ;

Onde,benchabbia di duol graue , с carca

L'alm.i,fi come faggio fi confola ;

£ fren poflo a i fojpir , fece penfiero

Di far ritqrno al fuo paterno Impero .

£ , fattiquattro legni alti fpalmarc

Ben d'arnefi prouiñi , e bene armati :

filtre uolte queïïonde ufi a falcare.

Le uele apcrfe a uenti frefcbi , e grati;

E gli fu fi fecondo il tiento ¡clmare,

Che! feflo giorno giunfene gliamati

Liti di Scotia ; с difcefe , one allhora

Il buon Bj Languirtés facea dimora .

Dalqual accoito fu con quell'honore ,

Con quelle rare pompe , & ccceüenti,

Che meritaua il fuo gentil ualore :

E ,che far fi folea franobil genti:

Ma , mentre in cortefie trappaßan Гbore ,

E n uirtuofi , e bei ragionamenti ,

Scorgono un legno con aperte uele

L'ária folcar , con deflra aura , e fedele .

Ter uriaperto Ciel feende la mue,

Doue fiupidi i Bjgi ergon le ciglia ,

Con uolo fi leggierо ,eft foaue,

Cb'a ueder dà diletto , с merauiglia :

La turba ignara, e uile,hor fpera, bor райе ;

£ ne diuiene pallida , e uermiglia :

Ma que' Trincipi , ebanno il cor difoco ,

7{e cangiano color , ne mutan loco .

Toflo , che giunfe al bel lito uicina

Уn armonía dolce , e foaue udiro ;

Ch'empiendo di diletto la marina ,

Totea fgombrar da l'aime ogm martiro ;

E di belleza angelica , с diuina

Videro ufeir , con piu fanciuüe in giro

Уna Dama , che feto bauea un Garpone

lArmato , e bel nia piu , che'l uago ¡Adonc .

yna doncella la lancia gli porta ;

E l'elmo un'altra uago , e rilucente :

Egli feguendo la fuá nobil feorta ,

Conjnerauiglia grande de la gente ,

Vjtrouo que duo B^è foura la porta ,

Ch'a'ncontrarli uenian cortefemente :

' Л cui la Donna con lieta prefen%a

Fece ¡fattafi inawzi ,rineremt]a . -J.

£ prego l nuotto Bj , ch'alfuo Doncella

L'ordine deffe di caualeria ,

Che non era men nobile , che bello ;

T<le meno ornato di uirtù natia :

Ch'a queño cffetto dal materno bofiello

Condotto iui Гbauea per lunga uia ;

E di man d'altro Trence hauea gi;-.rato

L'ordirie non pigliar tanto honorato .

Lifuarte,

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1559 Torquasto Tasso, Il Gierusalemme

[1]

L' Armi pietose io canto, e l' alta impresa

Di Gotifredo, e de' Christiani Heroi;

Da cui Gierusalem fu cinta, e presa

E n' hebbe impero illustre origin poi.

Tu Re del ciel, come al tuo foco accesa

La mente fu di quei fedeli tuoi,

Tal me n' accendi; e se tua santa luce

Fu lor nell' opre, a me nel dir sia Duce.

[2]

E tu che forse a rinovar gli esempi

Del famoso Goffredo eletto fusti,

E puoi Giudea non pur, ma i Persi, e gli empi

Mauri, e gl' Indi domare, e i Traci ingiusti,

sì che l' invidia homai de i prischi tempi

Cessi, e la gloria de i Romani Augusti

Ascolta quel, che d' altrui scrivo e canto,

E fra me di te stesso auguro intanto.

[3]

Questa, che spiego hor de i gran fatti altrui

Antiqua tela, e parte adorno, e fingo;

È verace pittura e certa, in cui

Le tue future glorie adombro, e pingo.

Febo a sé mi rapisce, et io di lui

Ripien, sue voglie a seguitar m' accingo:

E l' acceso pensier scorge hor palese

i simolacri di vicine imprese.

[4]

Già mi par di veder la Quercia d' auro

Spiegata trionfar per l' Asia intorno,

E 'l gran Nilo inchinarsi al bel Metauro,

Et arricchirgli de' suoi fregi il corno.

Già d' andarne mi par cinto di lauro

Fra' tuoi, c' havran di palme il crine adorno;

E fra le trombe, e fra il romor de l' armi

sonar mia cetra, e' miei non rozi carmi.

[5]

Hor; mentre quasi novo augel, ch' apprenda

Formar le note, e gir volando a stuolo,

Fo di me prova, onde sicuro io prenda

Di te cantando poi solingo volo;

Sovra me la gran Quercia i rami estenda:

Che questo schermo incontra i Fati ho solo.

Così sua scorza le sue lodi stesse

In sé riserbi eternamente impresse.

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[6]

Già scorrea vincitor per l' Oriente

L' esercito christian da Dio condutto;

E Tarso in suo poter novellamente,

E d' Antiochia il regno havean ridutto;

E vinta, e morta innumerabil gente

De' Persi, e quasi Persia in lei distrutto;

Indi Tripoli presa, in quella parte

S' eran le schiere sue fermate, e sparte.

1562 Torquato Tasso, Rinaldo

1

Canto i felici affanni e i primi ardori

che giovanetto ancor soffrì Rinaldo,

e come il trasse in perigliosi errori

desir di gloria ed amoroso caldo,

allor che, vinti dal gran Carlo, i Mori

mostraro il cor più che le forze saldo;

e Troiano, Agolante e 'l fiero Almonte

restar pugnando uccisi in Aspramonte.

2

Musa, che 'n rozo stil meco sovente

umil cantasti le mie fiamme accese,

sì che, stando le selve al suono intente,

Eco a ridir l'amato nome apprese:

or ch'ad opra maggior movo la mente,

ed audace m'accingo ad alte imprese,

ver' me cotanto il tuo favor s'accresca,

ch'al raddoppiato peso egual riesca.

3

Forse un giorno ardirai de' chiari fregi

del gran Luigi Estense ornar mie carte,

onde, mercé del suo valor, si pregi

e viva il nostro nome in ogni parte;

non perch'io stimi ch'a' suoi fatti egregi

possa dar luce umano ingegno od arte,

ch'egli e tal ch'altrui dona e gloria e vita,

e vola al ciel senza terrena aita.

4

E voi, sacro signor, ch'adorno avete

d'ostro la chioma e di virtude il core,

e sì lucidi raggi omai spargete

che se n'oscura ogni più chiaro onore,

quando ai gravi pensier la via chiudete,

prestate al mio cantar grato favore:

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ch'ivi vedrete al men, se non espresso,

adombrato in altrui forse voi stesso.

5

Ma quando, il crin di tre corone cinto,

v'avrem l'empia eresia domar già visto,

e spinger, pria da santo amor sospinto,

contra l'Egitto i principi di Cristo,

onde il fiero Ottomano oppresso e vinto

vi ceda a forza il suo mal fatto acquisto,

cangiar la lira in tromba e 'n maggior carme

dir tentarò le vostre imprese e l'arme.

1575-82 Torquato Tasso, Gerusalemme liberata

Io canto l'arme e 'l cavalier sovrano,

che tolse il giogo a la città di Cristo.

Molto co 'l senno e con l'invitta mano

egli adoprò nel glorïoso acquisto;

e di morti ingombrò le valli e 'l piano,

e correr fece il mar di sangue misto.

Molto nel duro assedio ancor sofferse,

per cui prima la terra e 'l ciel s'aperse.

Quinci infiammâr del tenebroso inferno

gli angeli ribellanti, amori e sdegni;

e, spargendo ne' suoi veneno interno,

contra gli armâr de l'Oriente i regni:

e quindi il messaggier del Padre eterno

sgombrò le fiamme e l'arme e gli odi indegni,

tanto di grazia diè nel dubbio assalto

a la croce il Figliuol spiegata in alto.

Voi che volgete il ciel, superne menti,

e tu che duce sei del santo coro,

e fra giri là su veloci e lenti,

porti la face luminosa e d'oro;

il pensier m'inspirate e i chiari accenti,

perch'io sia degno del toscano alloro:

e d'angelico suon canora tromba

faccia quella tacer ch'oggi rimbomba.

Cintio, che di virtù gli antichi esempi

rinovi, e co 'l tuo lume Italia illustri,

l'alte memorie de' passati tempi

difendi omai dal variar de' lustri;

e mentre il gran Clemente i sacri tempi,

di sole in guisa, avvien che purghe e lustri,

egli, del re del ciel vicario in terra,

il cielo, e tu Elicona a me disserra.

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Discorsi dell'arte poeticaTorquato Tasso

© Biblioteca Italiana

2007

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Discorso 1

A tre cose deve aver riguardo ciascuno che di scriver poema eroico si prepone: a scegliermateria tale che sia atta a ricever in sè quella più eccellente forma che l'artificio del poetacercarà d'introdurvi; a darle questa tal forma; e a vestirla ultimamente con que' piùesquisiti ornamenti ch'alla natura di lei siano convenevoli. Sovra questi tre capi dunque,così distintamente come io gli ho proposti, sarà diviso tutto questo discorso: perochè,cominciando dal giudicio ch'egli deve mostrare nell'elezione della materia, passarò all'arteche se gli richiede servare prima nel disporla e nel formarla, e poi nel vestirla enell'adornarla.

La materia nuda (materia nuda è detta quella che non ha ancor ricevuta qualità alcunadall'artificio dell'oratore e del poeta) cade sotto la considerazion del poeta in quella guisache 'l ferro o 'l legno vien sotto la considerazion del fabro; perochè, sì come colui chefabrica le navi non solo è obligato a sapere qual debba esser la forma delle navi, ma deveanco conoscere qual maniera di legno è più atta a ricever in sè questa forma, cosìparimente conviene al poeta non solo aver arte nel formare la materia, ma giudicio ancoranel conoscerla; e sceglierla dee tale che sia per sua natura d'ogni perfezione capace.

La materia nuda viene offerta quasi sempre all'oratore dal caso o dalla necessità, alpoeta dall'elezione; e di qui avviene ch'alcune fiate quel che non è convenevole nel poeta èlodevole nell'oratore. È ripreso il poeta che faccia nascer la commiserazione sovra personache abbia volontariamente macchiate le mani nel sangue del padre; ma del medesimoavvenimento trarrebbe la commiserazione con somma sua lode l'oratore: in quello sibiasma l'elezione, in questo si scusa la necessità e si loda l'ingegno; perciochè, sì comenon è alcun dubio che la virtù dell'arte non possa in un certo modo violentar la naturadella materia, sì che paiano verisimili quelle cose che in se stesse non son tali, ecompassionevoli quelle che per se stesse non recarebbono compassione, e mirabili quelleche non portarebbono meraviglia, così anco non v'è dubio che queste qualità molto piùfacilmente e in un grado più eccellente non s'introduchino in quelle materie che sono perse stesse disposte a riceverle. Onde presuponiamo che co 'l medesimo artificio e con lamedesima eloquenza altri voglia trarre la compassione d'Edippo, che per simpliceignoranza uccise il padre, altri da Medea, che molto bene consapevole della suasceleraggine lacerò i figliuoli; molto più compassionevole riuscirà la favola tessuta sovra gliaccidenti d'Edippo che l'altra composta nel caso di Medea: quella infiammarà gli animi dipietà, questa a pena sarà atta ad intepidirli, ancora che l'artificio, nell'una e nell'altrausato, sia non solo simile, ma eguale. Così similmente la medesima forma del sigillo moltomeglio fa sue operazioni nella cera che in altra materia più liquida o più densa; e più saràin pregio una statua di marmo o di oro ch'una di legno o di pietra men nobile, benchè inambedue parimente s'ammiri l'industria di Fidia o di Prassitele. Questo mi giova avertoccato acciochè si conosca quanto importi nel poema l'eleggere più tosto una ch'un'altramateria. Resta che veggiamo da qual luogo ella debba esser tolta.

La materia, che argomento può ancora comodamente chiamarsi, o si finge, e allora parche il poeta abbia parte non solo nella scelta, ma nella invenzione ancora, o si togliedall'istorie. Ma molto meglio è, a mio giudicio, che dall'istoria si prenda, perchè, dovendol'epico cercare in ogni parte il verisimile (presupongo questo come principio notissimo),non è verisimile ch'una azione illustre, quali sono quelle del poema eroico, non sia statascritta e passata alla memoria de' posteri con l'aiuto d'alcuna istoria. I successi grandi nonpossono esser incogniti; e ove non siano ricevuti in iscrittura, da questo solo argomentanogli uomini la loro falsità; e falsi stimandoli, non consentono così facilmente d'essere ormossi ad ira, or a terrore, or a pietà, d'esser or allegrati, or contristati, or sospesi, or

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rapiti, e in somma non attendono con quella espettazione e con quel diletto i successi dellecose, come farebbono se que' medesimi successi, o in tutto o in parte, veri stimassero. Perquesto, dovendo il poeta con la sembianza della verità ingannare i lettori, e non solopersuader loro che le cose da lui trattate sian vere, ma sottoporle in guisa a i lor sensi checredano non di leggerle, ma di esser presenti e di vederle e di udirle, è necessitato diguadagnarsi nell'animo loro questa opinion di verità; il che facilmente con l'auttorità dellaistoria li verrà fatto. Parlo di quei poeti che imitano le azioni illustri, quali sono e 'l tragicoe l'epico, perochè al comico, che d'azioni ignobili e popolaresche è imitatore, lecito èsempre che si finga a sua voglia l'argomento, non repugnando al verisimile che dell'azioniprivate alcuna contezza non s'abbia fra gli uomini, ancora che della medesima città sonoabitatori. E se ben leggiamo nella Poetica d'Aristotele che le favole finte sogliono piacere alpopolo per la novità loro, qual fu tra gli antichi il Fior d'Agatone, e tra noi altri le favoleeroiche del Boiardo e dell'Ariosto, e le tragiche d'alcuni più moderni, non dobbiamo peròlasciarci persuadere che favola alcuna finta in poema nobile sia degna di moltacommendazione, come per la ragione tolta dal verisimile s'è provato, e con molte altreragioni da altri è stato concluso; oltre le quali tutte si può dire che la novità del poema nonconsiste principalmente in questo, cioè che la materia sia finta e non più udita, maconsiste nella novità del nodo e dello scioglimento della favola. Fu l'argomento di Tieste, diMedea, di Edippo da varii antichi trattato, ma, variamente tessendolo, di commune proprioe di vecchio novo il facevano; sì che novo sarà quel poema in cui nova sarà la testura de inodi, nove le soluzioni, novi gli episodii che per entro vi saranno traposti, ancorachè lamateria sia notissima e da altri prima trattata; e all'incontra novo non potrà dirsi quelpoema in cui finte sian le persone e finto l'argomento, quando però il poeta l'avviluppi edistrighi in quel modo che da altri prima sia stato annodato e disciolto; e tale peravventura è alcuna moderna tragedia, in cui la materia e i nomi son finti, ma 'l groppo ècosì tessuto e così snodato come presso gli antichi Greci si ritrova, sì che non vi è nèl'auttorità che porta seco l'istoria, nè la novità che par che rechi la finzione.

Deve dunque l'argomento del poema epico esser tolto dall'istorie; ma l'istoria o è direligione tenuta falsa da noi, o di religione che vera crediamo, quale è oggi la cristiana e fugià l'ebrea. Nè giudico che l'azioni de' gentili ci porgano comodo soggetto onde perfettopoema epico se ne formi, perchè in que' tali poemi o vogliamo ricorrer talora alle deità cheda' gentili erano adorate, o non vogliamo ricorrervi; se non vi ricorriamo mai, viene amancarvi il meraviglioso, se vi ricorriamo, resta privo il poema in quella parte delverisimile. Poco dilettevole è veramente quel poema che non ha seco quelle maraviglie chetanto movono non solo l'animo de gli ignoranti, ma de' giudiziosi ancora: parlo di quellianelli, di quelli scudi incantati, di que' corsieri volanti, di quelle navi converse in ninfe, diquelle larve che fra' combattenti si tramettono, e d'altre cose sì fatte; delle quali, quasi disapori, deve giudizioso scrittore condire il suo poema, perchè con esse invita e alletta ilgusto de gli uomini vulgari, non solo senza fastidio, ma con sodisfazione ancora de' piùintendenti. Ma non potendo questi miracoli esser operati da virtù naturale, è necessarioch'alla virtù sopranaturale ci rivolgiamo; e rivolgendoci alle deità de' gentili, subito cessa ilverisimile, perchè non può esser verisimile a gli uomini nostri quello ch'è da lor tenuto nonsolo falso, ma impossibile; ma impossibil è che dal potere di quelli idoli vani e senzasoggetto, che non sono e non furon mai, procedano cose che di tanto la natura e l'umanitàtrapassino. E quanto quel meraviglioso (se pur merita tal nome) che portan seco i Giovi egli Apolli e gli altri numi de' gentili sia non solo lontano da ogni verisimile, ma freddo einsipido e di nissuna virtù, ciascuno di mediocre giudicio se ne potrà facilmente avvedereleggendo que' poemi che sono fondati sovra la falsità dell'antica religione.

Diversissime sono, signor Scipione, queste due nature, il meraviglioso e 'l verisimile, ein guisa diverse che sono quasi contrarie fra loro; nondimeno l'una e l'altra nel poema ènecessaria, ma fa mestieri che arte di eccellente poeta sia quella che insieme le accoppi; ilche, se ben è stato sin ora fatto da molti, nissuno è (ch'io mi sappia) il quale insegni comesi faccia; anzi alcuni uomini di somma dottrina, veggendo la ripugnanza di queste duenature, hanno giudicato quella parte ch'è verisimile ne' poemi non essere meravigliosa, nèquella ch'è meravigliosa verisimile, ma che nondimeno, essendo ambedue necessarie, sidebba or seguire il verisimile, ora il meraviglioso, di maniera che l'una all'altra non ceda,ma l'una dall'altra sia temperata. Io per me questa opinione non approvo, che partealcuna debba nel poema ritrovarsi che verisimile non sia; e la ragione che mi move a cosìcredere è tale. La poesia non è in sua natura altro che imitazione (e questo non si puòrichiamare in dubbio); e l'imitazione non può essere discompagnata dal verisimile, perochètanto significa imitare, quanto far simile; non può dunque parte alcuna di poesia esserseparata dal verisimile; e in somma il verisimile non è una di quelle condizioni richiestenella poesia a maggior sua bellezza e ornamento, ma è propria e intrinseca dell'essenzasua, e in ogni sua parte sovra ogn'altra cosa necessaria. Ma bench'io stringa il poeta epicoad un obligo perpetuo di servare il verisimile, non però escludo da lui l'altra parte, cioè il

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meraviglioso anzi giudico ch'un'azione medesima possa essere e meravigliosa e verisimile;e molti credo che siano i modi di congiungere insieme queste qualità così discordanti; erimettendo gli altri a quella parte ove della testura della favola si trattarà, la quale è lorproprio luogo, dell'uno qui ricerca l'occasione che si favelli.

Attribuisca il poeta alcune operazioni, che di gran lunga eccedono il poter de gli uomini,a Dio, a gli angioli suoi, a' demoni o a coloro a' quali da Dio o da' demoni è concessaquesta podestà, quali sono i santi, i maghi e le fate. Queste opere, se per se stessesaranno considerate, maravigliose parranno, anzi miracoli sono chiamati nel commune usodi parlare. Queste medesime, se si avrà riguardo alla virtù e alla potenza di chi l'haoperate, verisimili saranno giudicate; perchè, avendo gli uomini nostri bevuta nelle fasceinsieme co 'l latte questa opinione, ed essendo poi in loro confermata da i maestri dellanostra santa fede (cioè che Dio e i suoi ministri e i demoni e i maghi, permettendolo Lui,possino far cose sovra le forze della natura meravigliose), e leggendo e sentendo ogni dìricordarne novi essempi, non parrà loro fuori del verisimile quello che credono non soloesser possibile, ma stimano spesse fiate esser avvenuto e poter di novo molte volteavvenire. Sì com'anco a quegli antichi, che viveano negli errori della lor vana religione,non deveano parer impossibili que' miracoli che de' lor dei favoleggiavano non solo i poeti,ma l'istorie talora; chè se pur gli uomini scienziati impossibili (com'essi erano) ligiudicavano, basta al poeta in questo, com'in molte altre cose, la opinion della moltitudine,alla quale molte volte, lassando l'esatta verità delle cose, e suole e deve attenersi. Puòesser dunque una medesma azione e meravigliosa e verisimile: meravigliosa riguardandolain se stessa e circonscritta dentro a i termini naturali, verisimile considerandola divisa daquesti termini, nella sua cagione, la quale è una virtù sopranaturale, potente e avezza adoperar simili meraviglie. Ma di questo modo di congiungere il verisimile co 'l meravigliosoprivi sono que' poemi ne' quali le deità de' gentili sono introdotte, sì come all'incontracommodissimamente se ne possono valere que' poeti che fondano la lor poesia sovra lanostra religione. Questa sola ragione, a mio giudicio, conclude che l'argumento de l'epicodebba esser tratto da istoria non gentile, ma cristiana od ebrea. Aggiungasi ch'altragrandezza, altra dignità, altra maestà reca seco la nostra religione, così ne' concilii celestie infernali come ne' pronostichi e nelle cerimonie, che quella de' gentili non portarebbe; eultimamente, chi vuol formar l'idea d'un perfetto cavaliero, come parve che fosseintenzione d'alcuni moderni scrittori, non so per qual cagione gli nieghi questa lode di pietàe di religione, ed empio e idolatra ce lo figuri. Che se a Teseo o s'a Giasone o ad altrosimile non si può attribuire, senza manifesta disconvenevolezza, il zelo della vera religione,Teseo e Giasone e gli altri simili si lassino, e in quella vece di Carlo, d'Artù e d'altrisomiglianti si faccia elezione. Taccio per ora che, dovendo il poeta aver molto riguardo algiovamento, se non in quanto egli è poeta (chè ciò come poeta non ha per fine), almeno inquanto è uomo civile e parte della republica, molto meglio accenderà l'animo de' nostriuomini con l'essempio de' cavalieri fedeli che d'infedeli, movendo sempre più l'essempiode' simili che de i dissimili, e i domestici che gli stranieri.

Deve dunque l'argomento del poeta epico esser tolto da istoria di religione tenuta verada noi. Ma queste istorie o sono in guisa sacre e venerabili, ch'essendo sovr'esse fondatolo stabilimento della nostra fede, sia empietà l'alterarle, o non sono di maniera sacrosantech'articolo di fede sia ciò che in esse si contiene, sì che si conceda, senza colpa d'audacia odi poca religione, alcune cose aggiungervi, alcune levarne, e mutarne alcun'altre.Nell'istorie della prima qualità non ardisca il nostro epico di stender la mano, ma le lassi agli uomini pii nella lor pura e simplice verità, perchè in esse il fingere non è lecito; e chinissuna cosa fingesse, chi in somma s'obligasse a que' particolari ch'ivi son contenuti,poeta non sarebbe, ma istorico. Tolgasi dunque l'argomento dell'epopeia da istorie di verareligione, ma non di tanta auttorità che siano inalterabili.

Ma le istorie o contengono avvenimenti de' nostri tempi, o de' tempi remotissimi, ocose non molto moderne nè molto antiche. L'istoria di secolo lontanissimo porta al poetagran commodità di fingere, perochè, essendo quelle cose in guisa sepolte nel senodell'antichità ch'a pena alcuna debole e oscura memoria ce ne rimane, può il poeta a suavoglia mutarle e rimutarle e, senza rispetto alcuno del vero, com'a lui piace, narrarle. Macon questo commodo viene un incommodo per avventura non picciolo, perochè insiemecon l'antichità de' tempi è necessario che s'introduca nel poema l'antichità de' costumi; maquella maniera di guerreggiare o d'armeggiare usata da gli antichi, e quasi tutte l'usanzeloro, non potriano esser lette senza fastidio dalla maggior parte de gli uomini di questaetà; e l'esperienza si prende da i libri d'Omero, i quali, come che divinissimi siano, paiononondimeno rincrescevoli. E di ciò in buona parte è cagione questa antichità de' costumi,che da coloro c'hanno avezzo il gusto alla gentilezza e al decoro de' moderni secoli, ècome cosa vieta e rancida schivata e avuta a noia. Ma chi volesse poi con la vecchiezza de'secoli introdurre la novità de' costumi, potrebbe forse parer simile a poco giudicioso pittore

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che l'imagine di Catone o di Cincinnato vestite, secondo le foggie della gioventù milanese onapolitana ci rappresentasse, o, togliendo ad Ercole la clava e la pelle di leone, di cimiero edi sopraveste l'adornasse.

Portano le istorie moderne gran commodità in questa parte ch'a i costumi e all'usanzes'appartiene, ma togliono quasi in tutto la licenza di fingere, la quale è necessariissima a ipoeti e particolarmente a gli epici; perochè di troppo sfacciata audacia parrebbe quel poetache l'imprese di Carlo Quinto volesse descrivere altrimenti di quello che molti, ch'oggivivono, l'hanno viste e maneggiate. Non possono soffrire gli uomini d'esser ingannati inquelle cose ch'o per se medesmi sanno, o per certa relazione de' padri e de gli avi ne sonoinformati. Ma l'istorie de' tempi nè molto moderni nè molto remoti non recano seco laspiacevolezza de' costumi, nè della licenza di fingere ci privano. Tali sono i tempi di CarloMagno e d'Artù e quelli ch'o di poco successero o di poco precedettero; e quinci avvieneche abbiano porto soggetto di poetare ad infiniti romanzatori. La memoria di quelle etànon è sì fresca che, dicendosi alcuna menzogna, paia impudenza, e i costumi non sonodiversi da' nostri; e se pur sono in qualche parte, l'uso de' nostri poeti ce gli ha fattidomestici e familiari molto. Prendasi dunque il soggetto del poema epico da istoria direligione vera, ma non sì sacra che sia immutabile, e di secolo non molto remoto nè moltoprossimo alla memoria di noi ch'ora viviamo.

Tutte queste condizioni, signor Scipione, credo io che si richieggiano nella materianuda, ma non però sì che, mancandogliene una, ella inabile divenga a ricever la forma delpoema eroico. Ciascuna per sè sola fa qualche effetto, chi più e chi meno, ma tutteinsieme tanto rilevano che senza esse non è la materia capace di perfezione. Ma oltre tuttequeste condizioni richieste nel poema, una n'addurrò simplicemente necessaria: questa èche l'azioni che devono venire sotto l'artificio dell'epico siano nobili e illustri. Questacondizione è quella che constituisce la natura dell'epopeia, e in questo la poesia eroica e latragica confacendosi, sono differenti dalla comedia, che dell'azioni umili è imitatrice. Ma,perochè par che communemente si creda che la tragedia e l'epopeia non siano differentifra loro nelle cose imitate, imitando l'una e l'altra parimente l'azioni grandi e illustri, mache la differenza di spezie ch'è fra loro nasca dalla diversità del modo, sarà bene che ciòpiù minutamente si consideri.

Pone Aristotele nella sua Poetica tre differenze essenziali e specifiche (per cosìchiamarle), per le quai differenze l'un poema dall'altro si separa e si distingue. Questesono: le diversità delle cose imitate, del modo d'imitare, de gli istrumenti co' quali s'imita.Le cose sono l'azioni. Il modo è il narrare e il rappresentare: narrare è ove appar lapersona del poeta, rappresentare ove occulta è quella del poeta e appare quella de gliistrioni. Gli istrumenti sono il parlare, l'armonia e 'l ritmo. Ritmo intendo la misura de'movimenti e de' gesti che ne gli istrioni si vede. Poi che Aristotele ha constituite queste tredifferenze essenziali, va ricercando come da loro proceda la distinzion delle spezie dellapoesia, e dice che la tragedia concorda con la comedia nel modo dell'imitare e ne gliistrumenti, perochè l'una e l'altra rappresenta, e l'una e l'altra usa, oltra il verso, il ritmo el'armonia; ma quel che le fa differenti di natura è la diversità dell'azioni imitate: le nobiliimita la tragedia, le ignobili la comedia. L'epopeia poi è conforme con la tragedia nelle coseimitate, imitando l'una e l'altra l'illustri, ma le fa differenti il modo: narra l'epico,rappresenta il tragico; e gli istrumenti: usa il verso solamente l'epico, e il tragico, oltre ilverso, il ritmo e l'armonia.

Per queste cose, così dette da Aristotele con quella oscura brevità ch'è propria di lui, èstato creduto il tragico e l'epico in tutto conformarsi nelle cose imitate; la quale opinione,benchè commune e universale, vera da me non è giudicata, e la ragione che m'induce incosì fatta credenza è tale. Se l'azioni epiche e tragiche fossero della istessa natura,produrrebbono gli istessi effetti, perochè dalle medesime cagioni derivano gli effettimedesimi; ma non producendo i medesimi effetti, ne seguita che diversa sia la naturaloro. Che gli istessi effetti non procedano da loro, chiaramente si manifesta. Le azionitragiche movono l'orrore e la compassione, e ove lor manchi questo orribile e questocompassionevole, tragiche più non sono. Ma l'epiche non son nate a mover nè pietà nèterrore, nè questa condizione in loro si richiede come necessaria; e se talora ne' poemieroici si vede qualche caso orribile o miserabile, non si cerca però l'orrore e la misericordiain tutto il contesto della favola, anzi è quel tal caso in lei accidentale e per sempliceornamento. Onde se si dice parimente illustre l'azione del tragico e quella dell'epico,questo illustre è in loro di diversa natura: l'illustre del tragico consiste nell'inespettata esùbita mutazion di fortuna, e nella grandezza de gli avvenimenti che portino seco orrore emisericordia; ma l'illustre dell'eroico è fondato sovra l'imprese d'una eccelsa virtù bellica,sovra i fatti di cortesia, di generosità, di pietà, di religione; le quali azioni, propriedell'epopeia, per niuna guisa convengono alla tragedia. Di qui avviene che le persone chenell'uno e nell'altro poema s'introducono, se bene nell'uno e nell'altro sono di stato e di

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dignità regale e soprema, non sono però della medesima natura. Richiede la tragediapersone nè buone nè cattive, ma d'una condizion di mezzo: tale è Oreste, Elettra, Iocasta.La qual mediocrità, perchè da Aristotele più in Edippo che in alcun altro è ritrovata, peròanco giudicò la persona di lui più di nissun'altra alle favole tragiche accomodata. L'epicoall'incontra vuole nelle persone il sommo delle virtù, le quali eroiche dalla virtù eroica sononominate. Si ritrova in Enea l'eccellenza della pietà, della fortezza militare in Achille, dellaprudenza in Ulisse, e, per venire a i nostri, della lealtà in Amadigi, della constanza inBradamante; anzi pure in alcuni di questi il cumulo di tutte queste virtù. E se pur taloradal tragico e da l'epico si prende per soggetto de' lor poemi la persona medesima, è daloro diversamente e con varii rispetti considerata. Considera l'epico in Ercole e in Teseo ilvalore e l'eccellenza dell'armi; gli riguarda il tragico come rei di qualche colpa, e perciòcaduti in infelicità. Ricevono ancora gli epici non solo il colmo della virtù, ma l'eccesso delvizio con minor pericolo assai che i tragici non sono usi di fare. Tale è Mezenzio eMarganorre e Archeloro, e può essere e Busiri e Procuste e Diomede e gli altri simili.

Da le cose dette può esser manifesto che la differenza ch'è fra la tragedia e l'epopeianon nasce solamente dalla diversità de gli istrumenti e del modo dello imitare, ma moltopiù e molto prima dalla diversità delle cose imitate; la qual differenza è molto più propria epiù intrinseca e più essenzial dell'altre; e se Aristotele non ne fa menzione, è perchè bastaa lui in quel luogo di mostrare che la tragedia e l'epopeia siano di spezie differenti; e ciò abastanza si mostra per quell'altre due differenze, le quali a prima vista sono assai più noteche questa non è. Ma perchè questo illustre, che abbiamo sottoposto all'eroico, può esserpiù e meno illustre, quanto la materia conterrà in sè avvenimenti più nobili e più grandi,più sarà disposta all'eccellentissima forma dell'epopeia; chè, bench'io non nieghi chepoema eroico non si potesse formare di accidenti meno magnifici, quali sono gli amori diFlorio, e quelli di Teagene e di Cariclea, in questa idea nondimeno, che ora andiamocercando, del perfettissimo poema, fa mestieri che la materia sia in se stessa nel primogrado di nobiltà e di eccellenza. In questo grado è la venuta d'Enea in Italia: ch'oltra chel'argomento è per se stesso grande e illustre, grandissimo e illustrissimo è poi avendoriguardo all'Imperio de' Romani che da quella venuta ebbe origine; alla qual cosa il divinoepico ebbe particolar considerazione, come nel principio dell'Eneida ci accenna:

Tantae molis erat Romanam condere gentem.Tale è parimente la liberazion d'Italia dalla servitù de' Goti, che porse materia al poemadel Trissino, tali sono quelle imprese che o per la dignità dell'Imperio o per essaltazionedella fede di Cristo furo felicemente e gloriosamente operate; le quali per se medesime siconciliano gli animi de' lettori e destano espettazione e diletto incredibile, e, aggiuntovil'artificio di eccellente poeta, nulla è che non possino nella mente de gli uomini.

Eccovi, signor Scipione, le condizioni che giudizioso poeta deve nella materia nudaricercare, le quali (repilogando in breve giro di parole quanto s'è detto) sono queste:l'auttorità dell'istoria, la verità della religione, la licenza del fingere, la qualità de' tempiaccomodati e la grandezza e nobiltà de gli avvenimenti. Ma questa che, prima che siacaduta sotto l'artificio dell'epico, materia si chiama, doppo ch'è stata dal poeta disposta etrattata, e che favola è divenuta, non è più materia, ma è forma e anima del poema; e taleè da Aristotele giudicata; e se non forma semplice, almeno un composto di materia e diforma il giudicaremo. Ma avendo nel principio di questo discorso assomigliata quellamateria, che nuda vien detta da noi, a quella che chiamano i naturali materia prima,giudico che, sì come nella materia prima, benchè priva d'ogni forma, nondimeno vi siconsidera da' filosofi la quantità, la quale è perpetua ed eterna compagna di lei, e inanzi ilnascimento della forma vi si ritrova e doppo la sua corruzione vi rimane, così anco il poetadebba in questa nostra materia, inanzi ad ogni altra cosa, la quantità considerare, perochèè necessario che, togliendo egli a trattare alcuna materia, la toglia accompagnata d'alcunaquantità, sendo questa considerazione da lei inseparabile. Avvertisca dunque che laquantità ch'egli prende non sia tanta che, volend'egli poi, nel formare la testura dellafavola, interserirvi molti episodii e adornare e illustrar le cose che semplici sono in suanatura, ne venga il poema a crescer in tanta grandezza che disconvenevol paia edismisurato; però che non deve il poema eccedere una certa determinata grandezza, comenel suo luogo si trattarà; che s'egli vorrà pure schivare questa dismisura e questo eccesso,sarà necessitato lassare le digressioni e gli altri ornamenti che sono necessarii al poema, equasi ne' puri e semplici termini dell'istoria rimanersene. Il che a Lucano e a Silio Italico sivede esser avvenuto, l'uno e l'altro de' quali troppo ampia e copiosa materia abbracciò:perchè quegli non solo il conflitto di Farsaglia, come dinota il titolo, ma tutta la guerracivile fra Cesare e Pompeo, questi tutta la seconda guerra africana prese a trattare. Lequali materie, sendo in se stesse ampissime, erano atte ad occupare tutto quello spazioch'è concesso alla grandezza dell'epopeia, non lassando luogo alcuno all'invenzione e

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all'ingegno del poeta. E molte volte, paragonando le medesime cose trattate da Silio poetae da Livio istorico, molto più asciuttamente e con minor ornamento mi par di vederle nelpoeta che nell'istorico, al contrario a punto di quello che la natura delle cose richiederebbe.E questo medesimo si può notare nel Trissino, il qual volse che fosse soggetto del suopoema tutta la spedizione di Belisario contra a i Goti, e perciò è molte fiate più digiuno earido ch'a poeta non si converrebbe; che s'una parte solamente, e la più nobil di quellaimpresa, avesse tolta a discrivere, peraventura più ornato e più vago di belle invenzionisarebbe riuscito. Ciascuno in somma, che materia troppo ampia si propone, è costrettod'allungare il poema oltre il convenevol termine (la qual soverchia lunghezza sarebbe forsenell'Inamorato e nel Furioso, chi questi due libri, distinti di titolo e d'auttore, quasi un solpoema considerasse, come in effetto sono), o almeno è sforzato di lassare gli episodii e glialtri ornamenti, i quali sono al poeta necessariissimi. Meraviglioso fu in questa parte ilgiudizio d'Omero, il quale, avendo propostasi materia assai breve, quella, accresciutad'episodii e ricca d'ogni altra maniera d'ornamento, a lodevole e conveniente grandezzaridusse. Più ampia alquanto la si propose Virgilio, come colui che tanto in un sol poemaraccoglie quanto in due poemi d'Omero si contiene; ma non però di tanta ampiezza lascelse che 'n alcuno di que' duo vizii sia costretto di cadere. Con tutto ciò se ne va allevolte così ristretto e così parco ne gli ornamenti che, se ben quella purità e quella brevitàsua è maravigliosa e inimitabile, non ha per avventura tanto del poetico quanto ha lafiorita e faconda copia d'Omero. E mi ricordo in questo proposito aver udito dire alloSperone (la cui privata camera, mentre io in Padova studiavo, era solito di frequentarenon meno spesso e volontieri che le publiche scole, parendomi che mi rappresentasse lasembianza di quella Academia e di quel Liceo in cui i Socrati e i Platoni aveano in uso didisputare), mi ricordo, dico, d'aver udito da lui che 'l nostro poeta latino è più simile algreco oratore ch'al greco poeta, e 'l nostro latino oratore ha maggior conformità co 'l poetagreco che con l'orator greco, ma che l'oratore e 'l poeta greco aveano ciascuno per sèasseguita quella virtù ch'era propria dell'arte sua, ove l'uno e l'altro latino avea più tostousurpata quell'eccellenza ch'all'arte altrui era convenevole. E in vero chi vorrà sottilmenteessaminare la maniera di ciascun di loro, vedrà che quella copiosa eloquenza di Cicerone èmolto conforme con la larga facondia d'Omero, sì come ne l'acume e nella pienezza e nelnerbo d'una illustre brevità sono molto somiglianti Demostene e Virgilio.

Raccogliendo dunque quanto s'è detto, deve la quantità della materia nuda essertanta, e non più, che possa dall'artificio del poeta ricever molto accrescimento senzapassare i termini della convenevole grandezza. Ma poichè s'è ragionato del giudicio chedeve mostrare il poeta intorno alla scelta dello argomento, l'ordine richiede che nelseguente discorso si tratti dell'arte con la quale deve essere disposto e formato.

Discorso 2

Scelta ch'avrà il poeta materia per se stessa capace d'ogni perfezione, li rimane l'altraassai più difficile fatica, che è di darle forma e disposizion poetica; intorno al quale officio,come intorno a proprio soggetto, quasi tutta la virtù dell'arte si manifesta. Ma perochèquello che principalmente constituisce e determina la natura della poesia, e la fadall'istoria differente, è il considerar le cose non come sono state, ma in quella guisa chedovrebbono essere state, avendo riguardo più tosto al verisimile in universale che allaverità de' particulari, prima d'ogn'altra cosa deve il poeta avvertire se nella materia, ch'egliprende a trattare, v'è avvenimento alcuno il quale, altrimente essendo successo, avesse opiù del verisimile o più del mirabile, o per qual si voglia altra cagione portasse maggiordiletto; e tutti i successi che sì fatti trovarà, cioè che meglio in un altro modo potesseroessere avvenuti, senza rispetto alcuno di vero o di istoria a sua voglia muti e rimuti, eriduca gli accidenti delle cose a quel modo ch'egli giudica migliore, co 'l vero alterato iltutto finto accompagnando.

Questo precetto molto bene seppe porre in opra il divino Virgilio, perochè, così ne glierrori d'Enea come nelle guerre passate fra lui e Latino, andò dietro non a quello che verocredette, ma a quello che migliore e più eccellente giudicò: perchè non solo è falso l'amoree la morte di Didone, e quello che di Polifemo si dice e della Sibilla e dello scendere diEnea all'inferno, ma le battaglie passate fra lui e i popoli del Lazio descrive altrimente diquello ch'avvennero secondo la verità; e ciò, confrontando la sua Eneida co 'l primo diLivio e con altri istorici, chiaramente si vede. Ma sì come in Didone confuse di tanto spaziol'ordine de' tempi per aver occasione di mescolare fra la severità dell'altre materie ipiacevolissimi ragionamenti d'amore e per assegnare un'alta ed ereditaria cagione dellainimicizia fra Romani e Cartaginesi, e sì come ricorse alla favola di Polifemo e della Sibillaper accoppiare il meraviglioso co 'l verisimile, così anco alterò la morte di Turno, tacque

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quella d'Enea, v'aggiunse la morte d'Amata, mutò gli avvenimenti e l'ordine de' conflittiper accrescer la gloria d'Enea e chiuder con un fine più perfetto il suo nobilissimo poema.Alle quali sue finzioni fu molto favorevole l'antichità de' tempi.

Ma non deve già la licenza de' poeti stendersi tanto oltre ch'ardisca di mutaretotalmente l'ultimo fine delle imprese ch'egli prende a trattare, o pur alcuni di quelliavvenimenti principali e più noti che già nella notizia del mondo sono ricevuti per veri.Simile audacia mostrarebbe colui che Roma vinta e Cartagine vincitrice ci descrivesse, oAnniballe superato a campo aperto da Fabio Massimo, non con arte tenuto a bada. Similesarebbe stato l'ardire d'Omero, se vero fosse quel che falsamente da alcuni si dice, se benmolto a proposito della loro intenzione:

che i Greci rotti, e che Troia vittrice,e che Penelopea fu meretrice.Perochè questo è un torre a fatto alla poesia quella auttorità che dall'istoria le viene; dallaqual ragione mossi, concludemmo dover l'argomento dell'epico sovra qualche istoria esserfondato. Lassi il nostro epico il fine e l'origine della impresa, e alcune cose più illustri, nellalor verità o nulla o poco alterata; muti poi, se così gli pare, i mezzi e le circonstanze,confonda i tempi e gli ordini dell'altre cose, e si dimostri in somma più tosto artificiosopoeta che verace istorico. Ma se nella materia, ch'egli s'ha proposta, alcuni avvenimenti sitrovaranno che così siano successi come a punto dovrebbono esser successi, può il poeta,sì fatti come sono, senza alterazione imitarli; nè perciò della persona di poeta si spoglia,vestendosi quella di istorico, perochè può alle volte avvenire che altri come poeta, altricome istorico tratti le medesime cose, ma saranno da loro considerate con diversorispetto, perochè l'istorico le narra come vere, il poeta le imita come verisimili. E s'io credoLucano non esser poeta, non mi move a ciò credere quella ragione ch'induce alcuni altri insì fatta credenza, cioè che egli non sia poeta perchè narra veri avvenimenti. Questo solonon basta; ma poeta non è egli perchè talmente s'obliga alla verità de' particolari che nonha rispetto al verisimile in universale, e pur che narri le cose come sono state fatte, non sicura d'imitarle come dovriano essere state fatte.

Or, poi che avrà il poeta ridutto il vero e i particolari dell'istoria al verisimile eall'universale, ch'è proprio dell'arte sua, procuri che la favola (favola chiamo la forma delpoema che definir si può testura o composizione degli avvenimenti), procuri, dico, che lafavola ch'indi vuol formare sia intiera, o tutta che vogliam dire, sia di convenevolgrandezza, e sia una. E sovra queste tre condizioni, ch'alla favola son necessarie,distintamente e con quell'ordine che le ho proposte discorrerò.

Tutta o intiera deve essere la favola perch'in lei la perfezione si ricerca; ma perfettanon può esser quella cosa ch'intiera non sia. Questa integrità si trovarà nella favola s'ellaavrà il principio, il mezzo e l'ultimo. Principio è quello che necessariamente non è doppoaltra cosa, e l'altre cose son doppo lui. Il fine è quello ch'è doppo l'altre cose, nè altra cosaha doppo sè. Il mezzo è posto fra l'uno e l'altro, ed egli è doppo alcune cose, e alcune n'hadoppo sè. Ma per uscire alquanto dalla brevità delle definizioni, dico ch'intiera è quellafavola che in se stessa ogni cosa contiene ch'alla sua intelligenza sia necessaria, e lecagioni e l'origine di quella impresa che si prende a trattare vi sono espresse, e per lidebiti mezzi si conduce ad un fine il quale nissuna cosa lassi o non ben conclusa o non benrisoluta. Questa condizione dell'integrità si desidera nell'Orlando innamorato del Boiardo,nè si trova nel Furioso dell'Ariosto: manca all'Innamorato il fine, al Furioso il principio; manell'uno non fu difetto d'arte, ma colpa di morte, nell'altro non ignoranza, ma elezione divoler fornire ciò che dal primo fu cominciato. Che l'Innamorato sia imperfetto non vi famestieri prova alcuna; che non sia intiero il Furioso è parimente chiaro, perochè se noivorremo che l'azione principale di quel poema sia l'amor di Ruggiero, vi manca il principio,se vorremo che sia la guerra di Carlo e d'Agramante, parimente il principio vi manca;perchè quando o come fosse preso Ruggiero dall'amor di Bradamante non vi si legge, nèmeno quando o in che modo gli Africani movessero guerra a' Francesi, se non forse in unoo 'n due versi accennato; e molte volte i lettori nella cognizione di queste favoleandarebbono al buio se dall'Innamorato non togliessero ciò che alla lor cognizione ènecessario. Ma si deve, come ho detto, considerare l'Orlando innamorato e 'l Furioso noncome due libri distinti, ma come un poema solo, cominciato dall'uno, e con le medesimefila, ben che meglio annodate e meglio colorite, dall'altro poeta condotto al fine; e inquesta maniera risguardandolo, sarà intiero poema, a cui nulla manchi per intelligenzadelle sue favole. Questa condizione dell'integrità mancherebbe parimente nell'Iliaded'Omero, se vero fosse che la guerra troiana avesse presa per argomento del suo poema;ma questa opinione di molti antichi, refiutata e confutata da i dotti del nostro secolo,chiaramente per falsa si manifesta; e se Omero stesso è buon testimonio della propriaintenzione, non la guerra di Troia, ma l'ira d'Achille si canta nell'Iliade: «Dimmi, Musa, l'ira

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d'Achille, figliol di Peleo, la quale recò infiniti dolori a i Greci e mandò molte anime d'eroiall'inferno». E tutto ciò che della guerra di Troia si dice, propone di dirlo come annesso edependente dall'ira d'Achille, e in somma come episodii che la gloria d'Achille e lagrandezza della favola accrescano; della quale ira pienamente e l'origine e le cagioni sinarrano nella venuta di Crisa sacerdote e nel rapto di Briseide; e con un perpetuo tenoresino al fine è condotta, cioè sino alla riconciliazione che fra Achille e Agamennone dallamorte di Patroclo è cagionata. Sì che perfettissima d'ogni parte è quella favola, e nel senodella sua testura porta intiera e perfetta cognizione di se stessa, nè conviene accattarealtronde estrinseche cose che la sua intelligenza ci facilitino. Il qual difetto si può peraventura riprendere in alcun moderno, ove è necessario ricorrere a quella prosa chedinanzi per sua dechiarazione porta scritta, perochè questa tal chiarezza che si ha da gliargomenti e da altri sì fatti aiuti, non è nè artificiosa nè propria del poeta, ma estrinseca emendicata.

Ma essendosi trattato a bastanza della prima condizione richiesta alla favola, passiamoalla seconda, cioè alla grandezza, nè paia o soverchio o disconvenevole se, essendosi giàragionato della grandezza in quel luogo ove della elezione della materia si tratta, ora se neparli ove l'artificio della forma si deve considerare: perchè ivi a quella grandezza s'ebberiguardo che portava seco nel poema la materia nuda, qui a quella grandezza s'avràconsiderazione che viene nel poema dall'arte del poeta co 'l mezzo degli episodii.

Ricercano le forme naturali una determinata grandezza, e sono circonscritte dentro acerti termini del più e del meno, da i quali nè con l'eccesso nè co 'l difetto è lor concessod'uscire. Ricercano similmente le forme artificiali una quantità determinata: nè potrà laforma della nave introdursi in un grano di miglio, nè meno nella grandezza del monteOlimpo; perochè allora si dice esservi introdotta la forma che l'operazione, ch'è propria enaturale di quella tal forma, vi s'introduce; ma non potrà già trovarsi l'operazione dellanave, ch'è di solcare il mare e di condurre gli uomini e le merci dall'uno all'altro lido, inquantità ch'ecceda di tanto o di tanto manchi. Tale ancora è forse la natura de' poemi; manon voglio però che si consideri sino a quanta grandezza possa crescer la forma del poemaeroico, ma in sino a quanta grandezza sia convenevole che cresca; e senza alcun dubbiomaggior deve essere che le favole tragiche e le comiche non sono nate ad essere in suanatura. E sì come ne' piccioli corpi può ben essere eleganza e leggiadria, ma beltà eperfezione non mai, così anco i piccioli poemi epici vaghi ed eleganti possono essere, manon belli e perfetti, perchè nella bellezza e perfezione, oltra la proporzione, vi è lagrandezza necessaria. Questa grandezza però non deve eccedere il convenevole dimaniera che quel Tizio ci rappresenti «il qual disteso sette campi ingombra». Ma sì comel'occhio è dritto giudice della dicevole statura del corpo (perochè convenevol grandezzasarà in quel corpo nella vista del quale l'occhio non si confonda, ma possa, tutte le suemembra unitamente rimirando, la lor proporzione conoscere), così anco la memoriacommune degli uomini è dritta estimatrice della misura conveniente del poema. Grande èconvenevolmente quel poema in cui la memoria non si perde nè si smarisce, ma, tuttounitamente comprendendolo, può considerare come l'una cosa con l'altra sia connessa edall'altra dependa, e come le parti fra loro e co 'l tutto siano proporzionate. Viziosi sonosenza dubbio que' poemi, e in buona parte perduta è l'opera che vi si spende, ne' quali dipoco ha il lettore passato il mezzo che del principio si è dimenticato, perochè vi si perdequel diletto che dal poeta, come principale perfezione, deve essere con ogni studioricercato. Questo è come l'uno avvenimento doppo l'altro necessariamente overisimilmente succeda, come l'uno con l'altro sia concatenato e dall'altro inseparabile, ein somma come da una artificiosa testura de' nodi nasca una intrinseca e verisimile einespettata soluzione. E per aventura chi l'Innamorato e 'l Furioso come un solo poemaconsiderasse, gli potria parere la sua lunghezza soverchia anzi che no, e non atta ad essercontenuta in una simplice lezione da una mediocre memoria.

Doppo la grandezza siegue l'unità, che fa l'ultima condizione che fu da noi alla favolaattribuita. Questa è quella parte, signor Scipione, che ha data a i nostri tempi occasione divarie e lunghe contese a coloro «che 'l furor literato in guerra mena». Perochè alcuninecessaria l'hanno giudicata, altri all'incontra hanno creduto la moltitudine delle azioni alpoema eroico più convenirsi; et magno iudice se quisque tuetur: facendosi i difensori dellaunità scudo della auttorità d'Aristotele, della maestà de gli antichi greci e latini poeti, nèmancando loro quelle armi che dalla ragione sono somministrate; ma hanno per avversariil'uso de' presenti secoli, il consenso universale delle donne e cavalieri e delle corti, e, sìcome pare, l'esperienza ancora, infallibile parangone della verità: veggendosi che l'Ariosto,che, partendo dalle vestigie de gli antichi scrittori e dalle regole d'Aristotele, ha molte ediverse azioni nel suo poema abbracciate, è letto e riletto da tutte l'età, da tutti i sessi,noto a tutte le lingue, piace a tutti, tutti il lodano, vive e ringiovinisce sempre nella suafama, e vola glorioso per le lingue de' mortali; ove il Trissino, d'altra parte, che i poemi

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d'Omero religiosamente si propose d'imitare e dentro i precetti d'Aristotele si ristrinse,mentovato da pochi, letto da pochissimi, prezzato quasi da nissuno, muto nel teatro delmondo e morto alla luce de gli uomini, sepolto a pena nelle librarie e nello studio d'alcunletterato se ne rimane. Nè mancano in favore di questa parte, oltre l'esperienza, saldi egagliardi argomenti, perochè alcuni uomini dotti e ingegnosi, o perchè così veramentecredessero, o pur per mostrare la forza dell'ingegno loro e farsi graziosi al mondo,adulando a guisa di tiranno (chè tale è veramente) questo consenso universale, sonoandati investigando nove e sottili ragioni, con le quali l'hanno confermato e fortificato. Ioper me, come che abbia questi tali in somma riverenza per dottrina e per facondia, e comeche giudichi che 'l divino Ariosto e per felicità di natura e per l'accurata sua diligenza e perla varia cognizion di cose e per la lunga prattica de gli eccellenti scrittori, dalla qualeacquistò un esatto gusto del buono e del bello, arrivasse a quel segno nel poetareeroicamente a cui nissun moderno e pochi fra gli antichi son pervenuti, giudico nondimenoche non sia da esser seguito nella moltitudine delle azioni; la qual moltitudine scusabile nelpoema epico può ben essere, rivolgendo la colpa o all'uso de' tempi o a comandamento diprincipe o a preghiera di dama o ad altra cagione, ma lodevole non sarà però mai riputata.

Nè per passione, nè per temerità o a caso mi movo a così dire, ma per alcune ragioni,le quali, o vere o verisimili che siano, hanno virtù di piegare o di tener fermo in questacredenza l'animo mio. Chè se la pittura e l'altre arti imitatrici ricercano che d'uno una sial'imitazione; se i filosofi, che vogliono sempre l'esatto e 'l perfetto delle cose, fra leprincipali condizioni richieste ne' lor libri vi cercano l'unità del soggetto, la qual solamancandovi, imperfetto lo stimano; se nella tragedia e nella comedia, finalmente, è datutti giudicata necessaria, perchè questa unità, cercata da' filosofi, seguita da' pittori e dagli scultori, ritenuta da i comici e da i tragici suoi compagni, deve essere dall'epico fuggitae disprezzata? Se l'unità porta in natura perfezione, e imperfezione la moltitudine, onde ipitagorici quella fra' beni e questa fra' mali annoveravano, onde questa alla materia equella alla forma s'attribuisce, perchè nel poema eroico ancora non portarà maggiorperfezione l'unità che la moltitudine? Oltra di ciò, presupponendo che la favola sia il finedel poeta (come afferma Aristotele, e nissuno ha sin qui negato), s'una sarà la favola, unosarà il fine, se più e diverse saranno le favole, più e diversi saranno i fini; ma quantomeglio opera chi riguarda ad un sol fine che chi diversi fini si propone, nascendo dalladiversità de' fini distrazione ne l'animo e impedimento nell'operare, tanto meglio operaràl'imitator d'una sola favola che l'imitatore di molte azioni. Aggiungo che dalla moltitudinedelle favole nasce l'indeterminazione, e può questo progresso andare in infinito, senza chele sia dall'arte prefisso o circonscritto termine alcuno. Il poeta ch'una favola tratta, finitaquella, è giunto al suo fine; chi più ne tesse, o quattro o sei o dieci ne potrà tessere; nèpiù a questo numero che a quello è obligato. Non potrà aver dunque determinata certezzaqual sia quel segno ove convenga fermarsi. Ultimamente, la favola è la forma essenzialedel poema, come nissun dubita; or, se più saranno le favole distinte fra loro, l'una dellequali dall'altra non dependa, più saranno conseguentemente i poemi. Essendo dunquequesto, che chiamiamo un poema di più azioni, non un poema, ma una moltitudine dipoemi insieme congiunta, o que' poemi saranno perfetti, o imperfetti; se perfetti,bisognarà ch'abbiano la debita grandezza, e avendola, ne risultarà una mole più grandeassai che non sono i volumi de' leggisti; se imperfetti, è meglio a far un sol poema perfettoche molti imperfetti. Tralasso che se questi poemi son molti e distinti di natura, come siprova per la moltitudine e distinzion delle favole, ha non solo del confuso, ma delmostruoso ancora il traporre e mescolare le membra dell'uno con quelle dell'altro, simile aquella fera che ci descrive Dante:

Ellera abbarbicata mai non fuead arbor sì, come l'orribil feraper l'altrui membra avitticchiò le sue,

e quel che segue. Ma perchè io ho detto che 'l poema di più azioni sono molti poemi, einnanzi dissi che l'Innamorato e 'l Furioso erano un sol poema, non si noti contrarietà nellamia opinione, perochè qui intendo la voce esattamente secondo il suo proprio e verosignificato, e ivi la presi come comunemente s'usa: un sol poema, cioè una solacomposizion d'azioni; come si direbbe, una sola istoria. Da queste ragioni mosso peraventura Aristotele, o da altre ch'egli vide e a me non sovvengono, determinò che lafavola del poema una esser dovesse; la qual determinazione fu come buona accettata daOrazio nella Poetica, là dove egli disse: «Ciò che si tratta, sia semplice e uno». A questadeterminazione varii con varie ragioni hanno ripugnato, escludendo da que' poemi eroiciche romanzi si chiamano l'unità della favola, non solo come non necessaria, ma comedannosa eziandio. Ma non voglio referir già tutto ciò ch'intorno a questa materia è detto da

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loro, perchè alcune cose si leggono in alcuni assai leggiere e puerili e indegne totalmentedi risposta. Solo addurrò quelle ragioni che con maggior sembianza di verità questaopinione confermano, le quali in somma a quattro si riducono, e sono queste.

Il romanzo (così chiamano il Furioso e gli altri simili) è spezie di poesia diversa dallaepopeia e non conosciuta da Aristotele; per questo non è obligata a quelle regole che dàAristotele della epopeia. E se dice Aristotele che l'unità della favola è necessarianell'epopeia, non dice però che si convenga a questa poesia di romanzi, ch'è di natura nonconosciuta da lui. Aggiungono la seconda ragione, ed è tale. Ogni lingua ha dalla naturaalcune condizioni proprie e naturali di lei, ch'a gli altri idiomi per nissun modo convengono;il che apparirà manifesto a chi andrà minutamente considerando quante cose nella grecafavella hanno grazia ed energia mirabile che nella latina poi fredde e insipide se nerestano, e quante ve ne sono, ch'avendo forza e virtù grandissima nella latina, suonanomale nella toscana. Ma fra l'altre condizioni che porta seco la nostra favella italiana, unan'è questa, cioè la moltitudine delle azioni; e sì come a' Greci e Latini disconvenevolesarebbe la moltitudine delle azioni, così a' Toscani l'unità della favola non si conviene.Oltra di ciò, quelle poesie sono migliori che dall'uso sono più approvate, appo il quale èl'arbitrio e la podestà così sovra la poesia come sovra l'altre cose; e ciò testifica Orazio ovedice:

penes quem et ius et norma loquendi.Ma questa maniera di poesia che romanzo si chiama, è più approvata dall'uso; miglioredunque deve essere giudicata. Ultimamente così concludono: quello è più perfetto poemache meglio asseguisce il fine della poesia; ma molto meglio e più facilmente è asseguitodal romanzo che dalla epopeia, cioè dalla moltitudine che dalla unità delle azioni; si devedunque il romanzo all'epopeia preporre. Ma che 'l romanzo meglio conseguisca il fine ècosì noto che non vi fa quasi mestiero prova alcuna, perochè, essendo il fine della poesia ildilettare, maggior diletto ci recano i poemi di più favole che d'una sola, come l'esperienzaci dimostra.

Questi sono i fondamenti sovra i quali si sostiene l'opinione di coloro che la moltitudinedelle azioni hanno giudicata ne' romanzi convenevole: saldi e certi veramente, ma nonperò tanto che dalle machine della ragione non possano esser espugnati (se pur la ragionesta dalla parte contraria, come a me giova di credere); contra i quali la debolezza del mioingegno, in questa ragione confidato, non restarò d'adoperare.

Ma vegnamo al primo fondamento, ove si dice: è il romanzo spezie distintadall'epopeia, non conosciuta da Aristotele; per questo non deve cadere sotto quelle regolealle quali egli obliga l'epopeia. Se il romanzo è spezie distinta dall'epopeia, chiara cosa èche per qualche differenza essenziale è distinto, perchè le differenze accidentali nonpossono fare diversità di spezie; ma non trovandosi fra il romanzo e l'epopeia differenzaalcuna specifica, ne segue chiaramente che distinzione alcuna di spezie fra loro non sitrovi. Che non si trovi fra loro differenza alcuna essenziale, a ciascuno agevolmente puòesser manifesto. Tre solamente sono le differenze essenziali nella poesia, dalle quali, quasida varii fonti, varii e distinti poemi derivano; e sono, come nel precedente discorsodicemmo, la diversità delle cose imitate, la diversità della maniera d'imitare, e la diversitàde gli istromenti co' quali s'imita. Per queste sole gli epici, i comici, i tragici, i ditirambici,gli auletici e citaristi sono differenti; da queste nascerebbe la diversità della spezie fra 'lromanzo e l'epopeia, s'alcuna ve ne fosse. Imita il romanzo e l'epopeia le medesimeazioni, imita co 'l medesimo modo, imita con gli stessi istrumenti; sono dunque dellamedesima spezie. Imita il romanzo e l'epopeia le medesime azioni, cioè l'illustri; nè solo èfra loro quella convenienza, d'imitar l'illustri in genere, ch'è fra l'epico e 'l tragico, maancora una più particolare e più stretta affinità d'imitare il medesimo illustre: quello, dico,che non è fondato sovra la grandezza de' fatti orribili e compassionevoli, ma sovra legenerose e magnanime azioni degli eroi, quello illustre, dico, che si determina <non> conle persone di mezzo fra 'l vizio e la virtù, ma le valorose in supremo grado di eccellenza; laqual convenienza d'imitare il medesimo illustre chiaramente si vede fra' nostri romanzi egli epici de' Latini e de' Greci. Imita il romanzo e l'epopeia con l'istessa maniera: nell'uno enell'altro poema vi appare la persona del poeta; vi si narrano le cose, non sirappresentano; nè ha per fine la scena e l'azioni de gli istrioni, come la tragedia e lacomedia. Imitano co' medesimi istrumenti: l'uno e l'altro usa il verso nudo, non servendosimai nè del ritmo nè della armonia, che sono del tragico e del comico.

Dalla convenienza, dunque, delle azioni imitate e degli istrumenti e del modo d'imitaresi conclude essere la medesima spezie di poesia quella ch'epica vien detta e quella cheromanzo si chiama. Onde poi questo nome di romanzo sia derivato, varie sono l'opinioni,ch'ora non fa mestieri di raccontare, ma non è inconveniente che sotto la medesima spezie

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alcuni poemi si trovino diversi per diversità accidentali, i quali con diverso nome sianochiamati; sì come fra le comedie, altre sono state dette statarie, altre ***, altre dal sago,altre dalla toga prendevano il nome, ma tutte però convenivano ne' precetti e nelle regoleessenziali della comedia, come questo dell'unità. Se dunque il romanzo e l'epopeia sonod'una medesima spezie, a gli oblighi delle stesse regole devono essere ristretti,massimamente di quelle regole parlando che non solo in ogni poema eroico, ma in ognipoema assolutamente sono necessarie. Tale è l'unità della favola, la quale Aristotele inogni spezie di poema ricerca, non più nell'eroico che nel tragico o nel comico; onde,quando anco fosse vero ciò che si dice, che 'l romanzo non fosse poema epico, non peròne seguirebbe che l'unità della favola non fosse in lui, secondo il parer d'Aristotele,necessaria. Ma che ciò non sia vero, a bastanza mi pare dimostrato: chè se pur volevanoaffermare che 'l romanzo è spezie distinta dall'epopeia, conveniva lor dimostrarech'Aristotele è manco e diffettoso nell'assegnare le differenze. E chi ben considera quelledifferenze dalle quali par che proceda diversità di spezie fra 'l romanzo e l'epopeia, sono inguisa accidentali che più accidentale non è nell'uomo l'esser essercitato nel corso e nellapalestra, o saper l'arte dello schermo. Tale è quella che l'argomento del romanzo sia finto,e quello dell'epopeia tolto dalla istoria; che se questa fosse differenza specifica,necessariamente sarebbono diversi di spezie tutti que' poemi fra' quali questa differenza siritrovasse. Diversi dunque di spezie sarebbono il Fior d'Agatone e l'Edippo di Sofocle, e insomma quelle tragedie il cui argomento fosse finto, da quelle che l'avessero dall'istoria; è,secondo la ragione usata da loro, la tragedia d'argomento finto non avrebbe l'obligo diquelle medesime regole che ha la tragedia d'argomento vero. Onde nè l'unità della favolasarebbe in lei necessaria, nè 'l movere il terrore e la compassione sarebbe il suo fine. Maquesto, senza alcun dubbio, è inconveniente; inconveniente dunque sarebbe ancora che lafinzione o verità dell'argomento fosse differenza specifica.

Del medesimo valore sono l'altre differenze ch'assegnano, e co' fondamenti dell'istessaragione si possono confutare. E perchè molti hanno creduto che 'l romanzo sia spezie dipoesia non conosciuta da Aristotele, non voglio tacer questo: che spezie di poesia non èoggi in uso, nè fu in uso negli antichi tempi, nè per un lungo volger di secoli di novosorgerà, nella cui cognizione non si debba credere che penetrasse Aristotele con quellamedesima acutezza d'ingegno con la quale tutte le cose, ch'in questa gran machina Dio ela natura rinchiuse, sotto dieci capi dispose, e con la quale, tanti e sì varii sillogismi adalcune poche forme riducendo, breve e perfetta arte ne compose, sì che quella arteincognita a gli antichi filosofi, se non quanto naturalmente ciascun ne participa, da lui soloe 'l primo principio e l'ultima perfezione riconosce. Vide Aristotele che la natura dellapoesia non era altro che imitare; vide conseguentemente che la diversità delle sue spezienon poteva in lei altronde derivare che da qualche diversità di questa imitazione, e chequesta varietà solo in tre guise potea nascere: o dalle cose, o dal modo, o da gliistromenti. Vide dunque quante potevano essere le differenze essenziali della poesia, e,avendo viste le differenze, vide in conseguenza quante potevano essere le sue spezie;perchè, essendo determinate le differenze che costituiscono le spezie, determinateconviene che sian le spezie, e tante solamente quanti sono i modi ne' quali possonocongiungersi (o combinare, come si dice) le differenze.

Era la seconda ragione ch'ogni lingua ha alcune particolari proprietà, e che lamoltitudine delle azioni è propria de' poemi toscani, come è l'unità de' latini e de' greci.Non nego io che ciascuno idioma non abbia alcune cose proprie di lui, perochè alcuneelocuzioni veggiamo così proprie d'una lingua che 'n altra favella dicevolmente nonpossono esser trasportate. È la lingua greca molto atta alla espressione d'ogni minutacosa; a questa istessa espressione inetta è la latina, ma molto più capace di grandezza edi maestà; e la nostra lingua toscana, se bene con egual suono nella descrizione delleguerre non ci riempie gli orecchi, con maggior dolcezza nondimeno nel trattare le passioniamorose ce le lusinga. Quello dunque ch'è proprio d'una lingua, o è frasi ed elocuzione, eciò nulla importa al nostro proposito, parlando noi d'azioni e non di parole, o pur diremoproprio d'una lingua quelle materie le quali meglio da lei che da altra sono trattate, come èla guerra dalla latina e l'amore dalla toscana. Ma chiara cosa è che, se la toscana favellasarà atta ad esprimere molti accidenti amorosi, sarà parimente atta ad esprimerne uno; ese la lingua latina sarà disposta a trattare un successo di guerra, sarà parimente dispostaa trattarne molti; sì ch'io per me non posso conoscere la cagione che l'unità dell'azioni siapropria de' latini poemi e la moltitudine de' vulgari. Nè per aventura cagione alcuna se nepuò rendere: chè se essi a me diranno per qual cagione le materie della guerra sonostimate più proprie della latina, e l'amorose della toscana, risponderei che ciò si diceavvenire per le molte consonanti della latina e per la lunghezza del suo essametro, piùatte allo strepito delle armi e alla guerra, e per le vocali della toscana e per l'armonia dellerime, più convenevole alla piacevolezza de gli affetti amorosi; ma non però queste materiesono in guisa proprie di questi idiomi che l'armi nella toscana e gli amori nella latina non

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possano convenevolmente esserci espresse da eccellente poeta. Concludendo dunque dicoche, se ben è vero ch'ogni lingua abbia le sue proprietà, è detto nondimeno senza ragionealcuna che la moltitudine delle azioni sia propria de' vulgari poemi, e l'unità de' latini e de'greci.

Nè più malagevole è il rispondere alla ragione la quale era che quelle poesie sono piùeccellenti che più sono dall'uso approvate; onde più eccellente è il romanzo dell'epopeia,essendo più dall'uso approvato. A questa ragione volendo io contradire, conviene che, permaggior intelligenza e chiarezza della verità, derivi da più alto principio il mioragionamento.

Ci ha alcune cose che 'n sua natura non sono nè buone nè ree, ma, dependendodall'uso, buone e ree sono secondo che l'uso le determina. Tale è il vestire, che tanto èlodevole quanto dalla consuetudine viene accettato; tale è il parlare, e perciò fuconvenevolmente risposto a colui: «Vivi come vissero gli uomini antichi, e parla comeoggidì si ragiona». Di qui avviene che molte parole, che già scelte e pellegrine furono, or,trite dalle bocche de gli uomini, comuni, vili e popolaresche sono divenute; molteall'incontra, che prima come barbare e orride erano schivate, or come vaghe e cittadine siricevono; molte ne invecchiano, molte ne muoiono, e ne nascono e ne nasceranno moltealtre, come piace all'uso, che con pieno e libero arbitrio le governa; e questa mutaziondelle voci fu con la comparazion delle foglie mirabilmente espressa da Orazio:

Ut silvae foliis pronos mutantur in annos,prima cadunt, ita verborum vetus interit aetas,et iuvenum ritu florent modo nata vigentque.E soggionge:

Multa renascentur quae iam cecidere, cadentquequae nunc sunt in honore vocabula, si volet usus,quem penes arbitrium est et ius et norma loquendi.

Da questa ragione concludono i peripatetici, contra quello che alcuni filosofi credettero,che le parole non siano opere dalla natura composte, nè più in lor natura una cosach'un'altra significhino (chè se tali fossero, dall'uso non dependerebbono), ma che sianofattura de gli uomini, nulla per se stesse dinotanti, onde, come a lor piace, può or questoor quel concetto esser da esse significato; e non avendo bruttezza o bellezza alcuna chesia lor propria e naturale, belle e brutte paiono secondo l'uso le giudica; il qualemutabilissimo essendo, necessario è che mutabili siano tutte le cose che da lui dependono.Tali in somma sono non solo il vestire e 'l parlare, ma tutte quelle che, con un nomecomune, usanze si chiamano. Queste, come il lor nome dimostra, dalla consuetudine albiasimo e alla lode sono determinate. E sotto questa considerazione caggiono molte diquelle opposizioni che si fanno ad Omero intorno al decoro delle persone, come alcunidicono, mal conosciuto da lui.

Alcune altre cose si ritrovano poi, che tali determinatamente sono in sua natura; cioè obuone o ree sono per se stesse, e non ha l'uso sovra loro imperio o auttorità nissuna. Diquesta sorte è il vizio e la virtù: per se stesso è malvagio il vizio, per se stessa è onesta lavirtù, e l'opere virtuose e viziose sono per se stesse e lodevoli e degne di biasimo. E quelche per se stesso è tale, perchè il mondo e i costumi si variino, sempre nondimeno saràtale; nè s'una volta meritò lode colui che refiutò l'oro de' Sanniti, o colui che «legò sè vivo,e 'l padre morto sciolse», di queste azioni lor sarà mai, per volger di secoli, biasimoattribuito. Di questa sorte sono parimente l'opere della natura, di maniera che quel ch'unavolta fu eccellente, malgrado della instabilità dell'uso, sarà sempre eccellente. È la naturastabilissima nelle sue operazioni, e procede sempre con un tenore certo e perpetuo (senon quanto per difetto e incostanza della materia si vede talor variare), perchè, guidata daun lume e da una scorta infallibile, riguarda sempre il buono e 'l perfetto; ed essendo ilbuono e 'l perfetto sempre il medesimo, conviene che 'l suo modo di operare sia sempre ilmedesimo. Opera della natura è la bellezza, la qual consistendo in certa proporzion dimembra con grandezza convenevole e con vaga soavità di colori, queste condizioni, chebelle per se stesse una volta furono, belle sempre saranno, nè potrebbe l'uso farech'altrimente paressero; sì come all'incontra non può far l'uso sì che belli paiano i capiaguzzi o i gosi fra quelle nazioni ove sì fatte qualità nella maggior parte degli uomini siveggiono. Ma tali in se stesse essendo l'opere della natura, tali in se stesse conviene chesiano l'opere di quell'arte che, senza alcun mezzo, della natura è imitatrice. E per fermarsisu l'essempio dato, se la proporzion delle membra per se stessa è bella, questa medesima,imitata dal pittore e da lo scultore, per se stessa sarà bella; e se lodevole è il naturale,lodevole sarà sempre l'artificioso che dal naturale depende. Di qui avviene che quelle

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statue di Prassitele o di Fidia che salve dalla malignità de' tempi ci sono restate, così bellepaiono a i nostri uomini come belle a gli antichi soleano parere; nè il corso di tanti secoli ol'alterazione di tante usanze cosa alcuna ha potuto scemare della loro degnità.

Avendo io in questo modo distinto, facilmente a quella ragione si può rispondere nellaquale si dice che più eccellenti sono quelle poesie che più approva l'uso; perchè ognipoesia è composta di parole e di cose. In quanto alle parole concedasi (poi che nulla rilevaal nostro proposito) che quelle migliori siano che più dall'uso sono commendate, perochèin se stesse nè belle sono nè brutte, ma quali paiono, tali la consuetudine le fa parere;onde le voci che appo il re Enzo e appo gli altri antichi dicitori furono in prezzo, suonanoall'orecchie nostre un non so che di spiacevole. Le cose poi, che dall'usanza dependono,come la maniera dell'armeggiare, i modi dell'aventure, il rito de' sacrifici e de' conviti, lecerimonie, il decoro e la maestà delle persone, queste, dico, come piace all'usanza cheoggi vive e che domina il mondo, si devono accomodare. Però disconvenevole sarebbenella maestà de' nostri tempi ch'una figliola di re, insieme con le vergini sue compagne,andasse a lavare i panni al fiume; e questo in Nausicaa, introdotta da Omero, non era inque' tempi disconvenevole; parimente che in cambio della giostra s'usasse il combatter sui carri, e molte altre cose simili, che per brevità trapasso. Però poco giudicioso in questaparte si mostrò il Trissino, ch'imitò in Omero quelle cose ancora che la mutazione de'costumi avea rendute men lodevoli. Ma quelle che immediatamente sovra la natura sonofondate, e che per se stesse sono buone e lodevoli, non hanno riguardo alcuno allaconsuetudine, nè la tirannide dell'uso sovra loro in parte alcuna si estende. Tale è l'unitàdella favola, che porta in sua natura bontà e perfezione nel poema, sì come in ogni secolopassato e futuro ha recato e recarà. Tali sono i costumi, non quelli che con nome d'usanzesono chiamati, ma quelli che nella natura hanno fisse le loro radici, de' quali parla Orazioin quei versi:

Reddere qui voces iam scit puer et pede certosignat humum, gestit paribus colludere et iramcolligit et ponit temere: mutatur in horas.Intorno alla convenevolezza de' quali si spende quasi tutto il secondo della Retoricad'Aristotele. A questi costumi del fanciullo, del vecchio, del ricco, del potente, del povero ede l'ignobile, quel che in un secolo è convenevole, in ogni secolo è convenevole; che se ciònon fosse, non n'avrebbe parlato Aristotele, peroch'egli di sole quelle cose fa profession diparlare che sotto l'arte possono cadere; e l'arte essendo certa e determinata, non puòcomprendere sotto le sue regole ciò che, dependendo dalla instabilità dell'uso, è incerto emutabile. Sì come anco non avrebbe ragionato dell'unità della favola, s'egli non avessegiudicata questa condizione essere in ogni secolo necessaria. Ma mentre vogliono alcuninova arte sovra nuovo uso fondare, la natura dell'arte distruggono, e quella dell'usomostrano di non conoscere.

Questa è, signor Scipione, la distinzione senza la quale non si può respondere a coloroche dimandassero quali poemi debbono esser più tosto imitati, o quelli de gli antichi epici oquelli de' moderni romanzatori; perchè in alcune cose a gli Antichi, in alcune a' modernidebbiamo assomigliarci. Questa distinzione, mal conosciuta dal vulgo, che suol più rimiraregli accidenti che la sostanza delle cose, è cagione ch'egli, veggendo poca convenevolezzadi costumi e poca leggiadria d'invenzioni in que' poemi ne' quali la favola è una, crede chel'unità della favola sia parimente biasimevole. Questa medesima distinzione, malconosciuta da alcuni dotti, gli indusse a lassar la piacevolezza delle aventure e dellecavallerie de' romanzi, e il decoro de' costumi moderni, e a prender da gli antichi, insiemecon l'unità della favola, l'altre parti ancora che men care ci sono. Questa, ben conosciuta eben usata, fia cagione che con diletto non meno de gli uomini vulgari che de gli intelligentii precetti dell'arte siano osservati, prendendosi dall'un lato, con quella vaghezzad'invenzioni che ci rendono sì grati i romanzi, il decoro de' costumi, dall'altro, con l'unitàdella favola, la saldezza e 'l verisimile che ne' poemi d'Omero e di Virgilio si vede.

Resta l'ultima ragione, la qual era che, essendo il fine della poesia il diletto, quellepoesie sono più eccellenti che meglio questo fine conseguiscono; ma meglio il conseguisceil romanzo che l'epopeia, come l'esperienza dimostra. Concedo io quel che vero stimo, eche molti negarebbono, cioè che 'l diletto sia il fine della poesia; concedo parimente quelche l'esperienza ci dimostra, cioè che maggior diletto rechi a' nostri uomini il Furioso chel'Italia liberata o pur l'Iliada o l'Odissea. Ma nego però quel ch'è principale e che importatutto nel nostro proposito, cioè che la moltitudine delle azioni sia più atta a dilettare chel'unità; perchè, se bene più diletta il Furioso, il qual molte favole contiene, che la Italialiberata o pur i poemi d'Omero, ch'una ne contengono, non avviene per rispetto della unitào della moltitudine, ma per due cagioni, le quali nulla rilevano nel nostro proposito. L'una,perchè nel Furioso si leggono amori, cavallerie, venture e incanti, e in somma invenzioni

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più vaghe e più accomodate alle nostre orecchie che quelle del Trissino non sono; le qualiinvenzion non sono più determinate alla moltitudine che alla unità, ma in questa e inquella si possono egualmente ritrovare. L'altra è perchè nella convenevolezza delle usanzee nel decoro attribuito alle persone molto più eccellente si dimostra il Furioso. Questecagioni sì come sono accidentali alla moltitudine e all'unità della favola, e non in guisaproprie di quella che a questa non siano convenevoli, così anco non debbono concludereche più diletti la moltitudine che l'unità. Perciochè, essendo la nostra umanità composta dinature assai fra loro diverse, è necessario che d'una istessa cosa sempre non sicompiaccia, ma con la diversità procuri or all'una or all'altra delle sue parti sodisfare, unaragione sola, oltra le dette, si possono imaginare molto più propria delle altre: questa è lavarietà, la quale, essendo in sua natura dilettevolissima, assai maggiore diranno che sitrovi nella moltitudine che nella unità della favola. Nè già io niego che la varietà non rechipiacere; oltra che il negar ciò sarebbe un contradire alla esperienza de' sentimenti,veggendo noi che quelle cose ancora che per se stesse sono spiacevoli, per la varietànondimeno care ci divengono, e che la vista de' deserti e l'orrore e la rigidezza delle alpi cipiace doppo l'amenità de' laghi e de' giardini. Dico bene che la varietà è lodevole sino aquel termine che non passi in confusione, e che sino a questo termine è tanto quasicapace di varietà l'unità quanto la moltitudine delle favole; la qual varietà, se tale non sivede in poema d'una azione, si dee credere che sia più tosto imperizia dell'artefice chedifetto dell'arte; i quali, per iscusare forse la loro insofficienza, questa lor propria colpaall'arte attribuiscono.

Non era per aventura così necessaria questa varietà a' tempi di Virgilio e d'Omero,essendo gli uomini di quel secolo di gusto non così isvogliato; però non tanto v'attesero,benchè maggiore nondimeno in Virgilio che in Omero si ritrovi. Necessariissima era a'nostri tempi, e perciò dovea il Trissino co' sapori di questa varietà condire il suo poema, sevoleva che da questi gusti sì delicati non fosse schivato; e se non tentò d'introdurlavi, onon conobbe il bisogno, o il disperò come impossibile. Io per me e necessaria nel poemaeroico la stimo, e possibile a conseguire; perochè, sì come in questo mirabile magisterio diDio, che mondo si chiama, e 'l cielo si vede sparso o distinto di tanta varietà di stelle, e,discendendo poi giuso di mano in mano, l'aria e 'l mare pieni d'uccelli e di pesci, e la terraalbergatrice di tanti animali così feroci come mansueti, nella quale e ruscelli e fonti e laghie prati e campagne e selve e monti si trovano, e qui frutti e fiori, là ghiacci e nevi, quiabitazioni e culture, là solitudini e orrori; con tutto ciò uno è il mondo che tante e sìdiverse cose nel suo grembo rinchiude, una la forma e l'essenza sua, uno il nodo dal qualesono le sue parti con discorde concordia insieme congiunte e collegate; e non mancandonulla in lui, nulla però vi è di soverchio o di non necessario; così parimente giudico che daeccellente poeta (il quale non per altro divino è detto se non perchè, al supremo Arteficenelle sue operazioni assomigliandosi, della sua divinità viene a participare) un poemaformar si possa nel quale, quasi in un picciolo mondo, qui si leggano ordinanze d'esserciti,qui battaglie terrestri e navali, qui espugnazioni di città, scaramucce e duelli, qui giostre,qui descrizioni di fame e di sete, qui tempeste, qui incendii, qui prodigii; là si trovinoconcilii celesti e infernali, là si veggiano sedizioni, là discordie, là errori, là venture, làincanti, là opere di crudeltà, di audacia, di cortesia, di generosità, là avvenimenti d'amoreor felici, or infelici, or lieti, or compassionevoli; ma che nondimeno uno sia il poema chetanta varietà di materie contegna, una la forma e la favola sua, e che tutte queste cosesiano di maniera composte che l'una l'altra riguardi, l'una all'altra corrisponda, l'unadall'altra o necessariamente o verisimilmente dependa, sì che una sola parte o tolta via omutata di sito, il tutto ruini.

Questa varietà sì fatta tanto sarà più lodevole quanto recarà seco più di difficultà,perochè è assai agevol cosa e di nissuna industria il far che 'n molte e separate azioninasca gran varietà d'accidenti; ma che la stessa varietà in una sola azione si trovi, hocopus, hic labor est. In quella che dalla moltitudine delle favole per se stessa nasce, arte oingegno alcuno del poeta non si conosce, e può essere a' dotti e a gli indotti comune;questa totalmente dall'artificio del poeta depende e, come intrinseca a lui, da lui solo siriconosce, nè può da mediocre ingegno essere asseguita. Quella in somma tanto menodilettarà quanto sarà più confusa e meno intelligibile; questa per l'ordine e per la legaturadelle sue parti, non solo sarà più chiara e più distinta, ma molto più portarà di novità e dimeraviglia. Una dunque deve esser la favola e la forma, come in ogni altro poema così inquelli che trattano l'armi e gli amori degli eroi e de' cavallieri erranti, e che con nomecomune poemi eroici si chiamano. Ma una si dice la forma in più maniere. Una si dice laforma de gli elementi, la quale è semplicissima, e di semplice virtù e di sempliceoperazione; una si dice parimente la forma delle piante e de gli animali: questa mista ecomposta risulta dalle forme de gli elementi insieme raccolte e rintuzzate e alterate, dellavirtù e della qualità di ciascuna di loro participando. Così ancora nella poesia alcune formesemplici, alcune composte si trovano. Semplici sono le favole di quelle tragedie nelle quali

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non è nè agnizione, nè mutamento di fortuna felice in misera, o al contrario; compostequelle nelle quali le agnizioni e i mutamenti di fortuna si ritrovano. Composta è la favoladell'epico non solo in questa guisa, ma in un altro modo ancora, che porta seco maggiormistione.

Ma acciochè questi termini siano meglio intesi, e la materia più si faciliti, piùcopiosamente questa parte trattarò. È la favola (s'ad Aristotele crediamo) la serie e lacomposizion delle cose imitate; questa, sì come è la principalissima parte qualitativa delpoema, così ha alcune parti che di lei sono qualitative, le quali tre sono: la peripezia, chemutazion di fortuna si può chiamare, l'agnizione, che riconoscimento si può dire, e laperturbazione, che può fra' Toscani ancora questo nome ritenere. È la mutazion di fortunanella favola quando in essa si vede ch'alcun di felicità caggia in miseria, come d'Edippoavviene, o di miseria passi in felicità, come di Elettra. Riconoscimento è, come suona il suonome stesso, un trapasso dall'ignoranza alla conoscenza; o sia semplice, qual è quellod'Ulisse, o reciproco, qual fu tra Ifigenia e Oreste; il qual trapasso di loro felicità odinfelicità sia cagione. Perturbazione è una azione dolorosa e piena d'affanno: come sono lemorti, i tormenti, le ferite e l'altre cose di simil maniera, le quali commovano i gridi e ilamenti delle persone introdotte. Di questa ci porgerà essempio l'ultimo libro dell'Iliade,ove da Priamo, da Ecuba e da Andromache con lunghissima e flebilissima querela è piantae lamentata la morte di Ettorre.

Stante il fatto di questa maniera, semplici saranno quelle favole che delloscambiamento di fortuna e del riconoscimento sono prive e, co 'l medesimo tenoreprocedendo, senza alterazione alcuna son condotte al lor fine. Doppie son quelle le qualihanno la mutazion di fortuna e 'l riconoscimento, o almeno la prima di queste parti; sìcome anco patetiche o affettuose quelle si dicono nelle quali è la perturbazione, che fuposta per la terza parte della favola; e quell'all'incontra, le quali, mancando di questaperturbazione, versano intorno all'espression del costume, dilettando più tostocoll'insegnare che co 'l movere, morali o morate vengono dette. Sì che quattro sono igeneri, o le maniere che vogliamo dirle, di favole: il semplice, il composto, l'affettuoso e 'lmorato. Semplice e affettuosa è l'Iliade, composta e morata l'Odissea. In tutte questemaniere però l'unità si richiede; ma l'unità della favola semplice è semplice unità, l'unitàdella favola composta è composta unità. Ma in un altro modo ancor s'intende la favola delpoema esser composta. Composta si dice, ancora che non abbia riconoscimento omutazione di fortuna, quando ella contegna in sè cose di diversa natura, cioè guerre,amori, incanti e venture, avvenimenti or felici e or infelici, che or portano seco terrore emisericordia, or vaghezza e giocondità; e da questa diversità di nature ella mista nerisulta; ma questa mistione è molto diversa dalla prima, e si può trovare in quelle favoleancora che sono semplici, cioè che non hanno nè mutazione nè riconoscimento.

Di questa seconda maniera intese Aristotele quando, disputando qual dovesse esserpreposto di degnità, o 'l poema tragico o l'epico, disse molto più semplici esser le favoledella tragedia che quelle dell'epopeia; e che di ciò è segno che d'una sola epopeia sipossono trarre gli argomenti di molte tragedie. Questa maniera di composizione così èbiasimevole nella tragedia come in lei è lodevole quell'altra che nasce dalla peripezia edalla agnizione; perochè, se ben la tragedia ama molto la sùbita e inopinata mutaziondelle cose, le desidera nondimeno semplici e uniformi, e schiva la varietà degli episodii.Quella medesima ch'è biasimevole nella tragedia, è a mio giudicio lodevolissima nell'epico,e molto più necessaria che quell'altra che deriva dal riconoscimento o dalla mutazion difortuna. E per questo anco la moltitudine e la diversità degli episodii è seguita dall'epico; ese Aristotele biasima le favole episodiche, o le biasima nelle tragedie solamente, o perfavole episodiche non intende quelle nelle quali siano molti e vari episodii, ma quelle nellequali questi episodii sono interseriti fuor del verisimile e male congiunti con la favola e fraloro medesimi, e in somma vani e oziosi e nulla operanti al fine principal della favola;perchè la varietà de gli episodii in tanto è lodevole in quanto non corrompe l'unità dellafavola, nè genera in lei confusione. Io parlo di quell'unità ch'è mista, non di quella ch'èsimplice e uniforme e nel poema eroico poco convenevole.

Ma l'ordine è forse, e la materia ricerca, che nel seguente discorso si tratti con qualarte il poeta introduca nell'unità della favola questa varietà così piacevole e così desideratada coloro che gli orecchi alle venture de' nostri romanzatori hanno assuefatti.

Discorso 3

Avendosi a trattare dell'elocuzione, si tratterà per conseguenza dello stile, perchè, nonessendo quella altro che accoppiamento di parole, e non essend'altro le parole che imagini

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e imitatrici de' concetti, chè seguono la natura loro, si viene per forza a trattare dello stile,non essendo quello altro che quel composto che risulta da' concetti e dalle voci.

Tre sono le forme de' stili: magnifica o sublime, mediocre e umile; delle quali la primaè convenevole al poema eroico per due ragioni: prima, perchè le cose altissime, che sipiglia a trattare l'epico, devono con altissimo stile essere trattate; seconda, perchè ogniparte opera a quel fine che opera il suo tutto; ma lo stile è parte del poema epico;adunque lo stile opera a quel fine che opera il poema epico, il quale, come s'è detto, haper fine la meraviglia, la quale nasce solo dalle cose sublimi e magnifiche.

Il magnifico, dunque, conviene al poema epico come suo proprio: dico suo proprioperchè, avendo ad usare anco gli altri secondo l'occorrenze e le materie, comeaccuratissimamente si vede in Virgilio, questo nondimeno è quello che prevale; come laterra in questi nostri corpi, composti nondimeno di tutti i quattro <elementi>. Lo stile delTrissino, per signoreggiare per tutto il dimesso, dimesso potrà esser detto; quellodell'Ariosto, per la medesima ragione, mediocre. È da avvertire che, sì come ogni virtudeha qualche vizio vicino a lei che l'assomiglia e che spesso virtude vien nominato, così ogniforma di stile ha prossimo il vizioso, nel quale spesso incorre chi bene non avvertisce. Ha ilmagnifico il gonfio, il temperato lo snervato o secco, l'umile il vile o plebeo. Il magnifico, iltemperato e l'umile dell'eroico non è il medesimo co 'l magnifico, temperato e umile de glialtri poemi; anzi, sì come gli altri poemi sono di spezie differenti da questo, così ancora glistili sono di spezie differenti da gli altri. Però, avvenga che l'umile alcuna volta nell'eroicosia dicevole, non vi si converrà però l'umile che è proprio del comico, come fece l'Ariostoquando disse:

Ch'a dire il vero, egli ci avea la gola;...................................e riputata avria cortesia sciocca,per darla altrui, levarsela di bocca;e in quegli altri:

E dicea il ver; ch'era viltade espressa,conveniente ad uom fatto di stucco,...................................che tutta via stesse a parlar con essa,tenendo l'ali basse come il cucco.

Parlari, per dire il vero, troppo popolareschi sono quelli, e questi inclinati alla bassezzacomica per la disonesta cosa che si rappresenta, disconvenevole sempre all'eroico. E anco:

e fe' raccorre al suo destrier le penne,ma non a tal che più l'avea distese.Del destrier sceso, a pena si ritennedi salir altri.

E benchè sia più convenevolezza tra il lirico e l'epico, nondimeno troppo inclinò allamediocrità lirica in quelli:

La verginella è simile alla rosa etc.

Lo stile eroico è in mezzo quasi fra la semplice gravità del tragico e la fiorita vaghezza dellirico, e avanza l'una e l'altra nello splendore d'una meravigliosa maestà; ma la maestàsua di questa è meno ornata, di quella men propria. Non è disconvenevole nondimeno alpoeta epico ch'uscendo da' termini di quella sua illustre magnificenza, talora pieghi lo stileverso la semplicità del tragico, il che fa più sovente, talora verso le lascivie del lirico, il chefa più di rado, come dichiarando seguito.

Lo stile della tragedia, se ben contiene anch'ella avvenimenti illustri e persone reali,per due cagioni deve essere e più proprio e meno magnifico che quello dell'epopeia non è:l'una, perchè tratta materie assai più affettuose che quelle dell'epopeia non sono; el'affetto richiede purità e semplicità di concetti, e proprietà d'elocuzioni, perchè in tal guisaè verisimile che ragioni uno che è pieno d'affanno o di timore o di misericordia o d'altrasimile perturbazione; e oltra che i soverchi lumi e ornamenti di stile non solo adombrano,ma impediscono e ammorzano l'affetto. L'altra cagione è che nella tragedia non parla maiil poeta, ma sempre coloro che sono introdotti agenti e operanti; e a questi tali si deveattribuire una maniera di parlare ch'assomigli alla favola ordinaria, acciò che l'imitazioneriesca più verisimile. Al poeta all'incontro, quando ragiona in sua persona, sì come colui

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che crediamo essere pieno di deità e rapito da divino furore sovra se stesso, molto sovral'uso comune e quasi con un'altra mente e con un'altra lingua gli si concede a pensare e afavellare.

Lo stile del lirico poi, se bene non così magnifico come l'eroico, molto più deve esserefiorito e ornato; la qual forma di dire fiorita (come i retorici affermano) è propria dellamediocrità. Fiorito deve essere lo stile del lirico e perchè più spesso appare la persona delpoeta, e perchè le materie che si piglia a trattare per lo più sono <oziose>, le quali,inornate di fiori e di scherzi, vili e abiette si rimarrebbono; onde se per avventura fosse lamateria morata trattata con sentenze, sarà di minor ornamento contenta.

Dichiarato adunque e perchè fiorito lo stile del lirico, e perchè puro e semplice quellodel tragico, l'epico vedrà che, trattando materie patetiche o morali, si deve accostare allaproprietà e semplicità tragica; ma, parlando in persona propria o trattando materie oziose,s'avvicini alla vaghezza lirica; ma nè questo nè quello sì che abbandoni a fatto lagrandezza e magnificenza sua propria. Questa varietà di stili deve essere usata, ma non sìche si muti lo stile non mutandosi le materie; chè saria imperfezione grandissima.

Come questa magnificenza s'acquisti e come umile o mediocre si possa formare

Può nascere la magnificenza da' concetti, dalle parole e dalle composizioni delle parole; eda queste tre parti risulta lo stile e quelle tre forme le quali dicemmo. Concetti non sonoaltro che imagini delle cose; le quali imagini non hanno soda e reale consistenza in sestesse come le cose, ma nell'animo nostro hanno un certo loro essere imperfetto, e quividall'imaginazione sono formate e figurate. La magnificenza de' concetti sarà se si trattaràdi cose grandi, come di Dio, del mondo, de gli eroi, di battaglie terrestri, navali, e simili.Per isprimere questa grandezza accommodate saranno quelle figure di sentenze le quali ofanno parer grandi le cose con le circonstanze, come l'ampliazione o le iperboli, che alzanola cosa sopra il vero; o la reticenza che, accennando la cosa e poi tacendola, maggiore lalascia all'imaginazione; o la prosopopeia che con la fizion di persone d'auttorità e riverenzadà auttorità e riverenza alla cosa; e altre simili che non caggiono così di leggieri nellementi degli uomini ordinarii e che sono atte ad indurvi la meraviglia. Perciochè così propriodel magnifico dicitore è il commover e il rapire gli animi, come dell'umile l'insegnare, e deltemperato il dilettare, ancora che e nell'essere mosso e nell'esser insegnato trovi il lettorequalche diletto. Sarà sublime l'elocuzione se le parole saranno non comuni, ma peregrine edall'uso popolare lontane.

Le parole o sono semplici o sono composte: semplici sono quelle che di voci significantinon son composte; composte quelle che di due significanti, o d'una sì e d'altra no, soncomposte. E queste sono o proprie, o straniere, o traslate, o d'ornamento, o finte, oallungate, o scorciate, o alterate. Proprie sono quelle che signoreggiano la cosa e che sonousate comunemente da tutti gli abitatori del paese; straniere quelle che appo altra nazionesono in uso; e possono le medesime parole essere e proprie e straniere in rispetto di varienazioni: chero, naturale a gli Spagnuoli, straniero a noi. Traslazione è imposizionedell'altrui nome. Questa è di quattro maniere: o dal genere alla spezie, o dalla spezie algenere, o dalla spezie alla spezie, o per proporzione. Dal genere alla spezie se daremo ilnome di bestia al cavallo; dalla spezie al genere quel che mille opre illustri per un nomegenerale; dalla spezie alla spezie se diremo che 'l caval voli. Per proporzione sarà inquesto modo: l'istessa proporzione che è fra 'l giorno e l'occaso, è fra la vita e la morte. Sipotrà dunque dire che l'occaso sia la morte del giorno come disse Dante:

che parea il giorno pianger che si more,e che la morte sia l'occaso della vita, come:

La vita in su 'l mattin giunse a l'occaso.

Finta è quella parola che, non prima usata, dal poeta si forma: come taratantara, peresprimere e imitare quell'atto. Allungata è quella nella quale o la vocale si fa di brevelunga, come simìle, over s'aggiunge qualche sillaba, come adiviene. Accorciata, per lecontrarie cagioni. Mutata sarà quella ove sarà mutata qualche lettera, come despitto invece di dispetto.

Nasce il sublime e 'l peregrino nell'elocuzione dalle parole straniere, dalle traslate e datutte quelle che proprie non seranno. Ma da questi stessi fonti ancora nasce l'oscurità, laquale tanto è da schivare quanto nell'eroico si ricerca, oltra la magnificenza, la chiarezzaancora. Però fa di mestieri di giudicio in accoppiare queste straniere con le proprie, sì chene risulti un composto tutto chiaro, tutto sublime, niente oscuro, niente umile. Dovrà

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dunque sceglier quelle traslate che avranno più vicinanza con la propria; così le straniere,l'antiche e l'altre simili, e porle fra mezzo a proprie tali che niente del plebeio abbiano. Lacomposizione delle parole non cape in questa nostra lingua; e anco dell'accorciare eallungare si deve ritrarre più che può. Avertiscasi, circa la metafora, che sono da schivarequelle parole che, translate, per necessità del proprio sono fatte plebee. E oltre di ciò,simili parole non siano transportate dalle minori alle maggiori, come dal suono dellatromba al tuono, ma dalle maggiori alle minori, come dare al suono della tromba il romoredel tuono: chè questo dove mirabilmente inalza, quello altrettanto abbassa e fa vile.

Questo avvertimento si deve ancora avere nelle imagini o, vogliam dire, similitudini; lequali si fanno dalle metafore con l'aggiunta solo di una di queste particelle: come, quasi, inguisa e simili. Comparazione diventa l'imagine tratta in più lungo giro e in più membri; edè conseglio de' retori che, ove ci pare troppo ardita la metafora, la debbiamo convertire insimilitudine. Ma certo si deve lodare l'epico ardito in simili metafore, purchè non trapassi ilmodo.

Le parole straniere devono essere tratte da quelle lingue che similitudine hanno con lanostra, come la provenzale, la francesa e la spagnola; a queste io aggiungo la latina, pureche a loro si dia la terminazione della favella toscana. Gli aggiunti propii del lirico sonoconvenevoli all'epico: questi, come poco necessari non usati dall'oratore, come grandeornamento ricevuti dal poeta, sono causa di grande magnificenza.

La composizione, che è la terza parte dello stile, avrà del magnifico se saranno lunghi iperiodi e lunghi i membri de' quali il periodo è composto. E per questo la stanza è piùcapace di questo eroico che 'l terzetto. S'accresce la magnificenza con l'asprezza, la qualenasce da concorso di vocali, da rompimenti di versi, da pienezza di consonanti nelle rime,dallo accrescere il numero nel fine del verso, o con parole sensibili per vigore d'accenti oper pienezza di consonanti. Accresce medesimamente la frequenza delle copule che, comenervi, corrobori l'orazione. Il trasportare alcuna volta i verbi contro l'uso comune, benchèdi rado, porta nobiltà all'orazione.

Per non incorrere nel vizio del gonfio, schivi il magnifico dicitore certe minute diligenze,come di fare che membro a membro corrisponda, verbo a verbo, nome a nome; e non soloin quanto al numero, ma in quanto al senso. Schivi gli antiteti come:

tu veloce fanciullo, io vecchio e tardo;chè tutte queste figure, ove si scopre l'affettazione, sono proprie della mediocrità, e sìcome molto dilettano, così nulla movono.

La magnificenza dello stile nasce dalle sopradette cagioni; e da queste stesse, usatefuor di tempo, o da altre somiglianti, nasce la gonfiezza, vizio sì prossimo allamagnificenza. La gonfiezza nasce da i concetti se quelli di troppo gran lunga eccederanno ilvero: come che nel sasso lanciato dal Ciclope, mentre era per l'aria portato, vi pascevanosuso le capre; e simili. Nasce dalle parole la gonfiezza se si userà parole troppo peregrineo troppo antiche, epiteti non convenienti, metafore che abbiano troppo dell'ardito edell'audace. Dalla composizione delle parole nascerà la tumidezza se la orazione non solosarà numerosa, ma sopra modo numerosa, come in assai luoghi le prose del Boccaccio. Ilgonfio è simile al glorioso, che de' beni che non ha si gloria, e di quelli che ha usa fuor diproposito. Per che lo stile, magnifico in materie grandi, tratto alle picciole, non piùmagnifico, ma gonfio sarà detto. Nè è vero che la virtù dell'eloquenza, così oratoria comepoetica, consista in dire magnificamente le cose picciole, se bene magnificamente Virgilioci descrisse la republica dell'api; chè solo per ischerzo lo fece; chè nelle cose serie sempresi ricerca che le parole e la composizione di quelle rispondano a' concetti.

L'umiltà dello stile nasce dalle contrarie cagioni; e prima: umile sarà il concetto se saràquale a punto suol nascere ne gli animi de gli uomini ordinariamente, e non atto adindurre meraviglia, ma più tosto all'insegnare accomodato. Umile sarà l'elocuzione se leparole saranno proprie, non peregrine, non nove, non straniere, poche translate, e quellenon con quell'ardire che al magnifico si conviene; pochi epiteti, e più tosto necessarii cheper ornamento. Umile sarà la composizione se brevi saranno i periodi e i membri, sel'orazione non avrà tante copule, ma facile se ne correrà secondo l'uso comune, senzatrasportare nomi o verbi; se i versi saranno senza rottura; se le desinenze non sarannotroppo scelte. Il vizio prossimo a questo è la bassezza. Questa sarà ne' concetti se quellisaranno troppo vili e abietti, e avranno dell'osceno e dello sporco. Bassa sarà l'elocuzionese le parole saranno di contado o popolaresche a fatto. Bassa la composizione se saràsciolta d'ogni numero, e 'l verso languido a fatto, come:

poi vide Cleopatrà lussuriosa.

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Lo stile mediocre è posto fra 'l magnifico e l'umile, e dell'uno e dell'altro partecipa.Questo non nasce dal mescolamento del magnifico e dell'umile che insieme si confondano,ma nasce o quando il sublime si rimette, o l'umile s'inalza. I concetti e l'elocuzioni diquesta forma sono quelli che eccedono l'uso comune di ciascuno, ma non portan peròtanto di forza e di nerbo quanto nella magnifica si richiede. E quello in che eccedeparticolarmente l'ordinario modo di favellare è la vaghezza negli essatti e fioriti ornamentide' concetti e dell'elocuzioni, e nella dolcezza e soavità della composizione; e tutte quellefigure d'una accurata e industriosa diligenza, le quali non ardisce di usare l'umile dicitore,nè degna il magnifico, sono dal mediocre poste in opera. E allora incorre in quel vizioch'alla lodevole mediocrità è vicino, quando che con la frequente affettazione di sì fattiornamenti induce sazietà e fastidio. Non ha tanta forza di commover gli animi il mediocrestile quanto ha il magnifico, nè con tanta evidenza il fa capace di ciò ch'egli narra, ma conun soave temperamento maggiormente diletta.

Stando che lo stile sia un instrumento co 'l quale imita il poeta quelle cose ched'imitare si ha proposte, necessaria è in lui l'energia, la quale sì con parole pone inanzi agli occhi la cosa che pare altrui non di udirla, ma di vederla. E tanto più nell'epopeia ènecessaria questa virtù che nella tragedia, quanto che quella è priva dell'aiuto e de gliistrioni e della scena. Nasce questa virtù da una accurata diligenza di descrivere la cosaminutamente, alla quale però è quasi inetta la nostra lingua; benchè in ciò Dante pare cheavanzi quasi se stesso, in ciò degno forse d'esser agguagliato ad Omero, principalissimo inciò in quanto comporta la lingua. Leggasi nel Purgatorio:

Come le pecorelle escon del chiusoad una, a due, a tre, e l'altre stannotimidette atterrando l'occhio e 'l muso;

e ciò che fa la prima, e l'altre fanno,addossandosi a lei, s'ella s'arresta,semplici e quete, e lo perchè non sanno.

Nasce questa virtù quando, introdotto alcuno a parlare, gli si fa fare quei gesti che sonosuoi proprii, come:

mi guardò un poco, e poi, quasi sdegnoso.

È necessaria questa diligente narrazione nelle parti patetiche, perochè è principalissimoinstrumento di mover l'affetto; e di questo sia essempio tutto il ragionamento del conteUgolino nell'Inferno. Nasce questa virtù ancora se, descrivendosi alcuno effetto, si descriveancora quelle circonstanze che l'accompagnano, come, descrivendo il corso della nave, sidirà che l'onda rotta le mormora intorno. Quelle translazioni che mettono la cosa in attoportano seco questa espressione, massime quando è dalle animate alle inanimate, come:

insin che 'l ramovede alla terra tutte le sue spoglie;

Ariosto:

In tanto fugge e si dilegua il lito;

dire la spada vindice, assetata di sangue, empia, crudele, temeraria, e simile. Deriva moltevolte l'energia da quelle parole che alla cosa che l'uom vuole esprimere sono naturali.

Che lo stile non nasca dal concetto, ma dalle voci, affermò Dante, e in tanto credettequesta opinione esser vera che, per non essere la forma del sonetto atta allamagnificenza, spiegandosi in esso materie grandi, non dovevano essere spiegatemagnificamente, ma con umiltà, secondo che è il componimento e la sua qualità. Incontro,i concetti sono il fine e per conseguenza la forma delle parole e delle voci. Ma la forma nondeve essere ordinata in grazia della materia, nè pendere da quella, anzi tutto il contrario;adunque i concetti non devono pendere dalle parole, anzi tutto il contrario è vero, che leparole devono pendere da' concetti e prender legge da quelli. La prima si prova perchè adaltro non diede a noi la natura il parlare se non perchè significassimo altrui i concettidell'animo. La seconda è pur troppo chiara. Seconda ragione: le imagini devono esseresimili alla cosa imaginata e imitata; ma le parole sono imagini e imitatrici de' concetti,come dice Aristotele; adunque le parole devono seguitare la natura de' concetti. La prima

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è assai chiara: chè troppo sconvenevole sarebbe fare una statua di Venere che non lagrazia e venustà di Venere, ma la ferocità e robustezza di Marte ci rappresentasse. Terzaragione: se vorremo trovare parte alcuna nel lirico che risponda per proporzione alla favolade gli epici e de' tragici, niun'altra potremo dire che sia se non i concetti, perchè, sì comegli affetti e i costumi si appoggiano su la favola, così nel lirico si appoggia su i concetti.Adunque, sì come in quelli l'anima e la forma loro è la favola, così diremo che la forma inquesti lirici siano i concetti. È opinione de' buoni retori antichi che, subito che 'l concettonasce, nasce con esso lui una sua proprietà naturale di parole e di numeri con la qualedovesse essere vestito; il che se è così, come potrà mai essere che quel concetto, vestitod'altra forma, possa convenientemente apparere? Nè si potrà già mai fare, come disse ilFalareo, che in virtù dell'elocuzione «Amore paia una Furia infernale». Chè, per dirla, laqualità delle parole può bene accrescere e diminuire la apparenza del concetto ma nonaffatto mutarla; chè da due cose nasce ogni carattero di dire cioè da' concetti edall'elocuzione (per lasciare ora fuori il numero), e non è dubbio che maggiore non sia lavirtù de' concetti, come di quelli da cui nasce la forma del dire, che dell'elocuzione. È benvero che, quando d'altra qualità sono i concetti, d'altra le parole o l'elocuzione, ne nascequella disconvenevolezza che si vederebbe in uomo di contado vestito di toga lunga dasenatore.

Per ischivare adunque questa sconvenevolezza, non deve chi si piglia a trattareconcetti grandi nel sonetto (poi che vi ha concesso questo, che è maggiore, negandogli poiquello che è minore), vestire quei concetti di umile elocuzione, come fece pur Dante.Incontro a questo che si è detto, che lo stile nasca da' concetti, si dice: se fosse veroquesto, seguirebbe che, trattando il lirico i medesimi concetti che l'epico (come di Dio,degli eroi e simili), lo stile dell'uno e dell'altro fosse il medesimo; ma questo ripugna allaverità, come appare; adunque è falso etc. E si può anco aggiungere che, stando che lecose trattate dall'uno e dall'altro siano le medesme, resta che sia l'elocuzione che facciadifferenza di spezie tra l'una e l'altra sorte di poesia, e perciochè da questa, e non da'concetti, nasca lo stile. Si risponde che grandissima differenza è tra le cose, tra i concetti etra le parole. Cose sono quelle che sono fuori degli animi nostri, e che in se medesimeconsistono. I concetti sono imagini delle cose che nell'animo nostro ci formiamovariamente, secondo che varia è l'imaginazione degli uomini. Le voci, ultimamente, sonoimagini delle imagini: cioè che siano quelle che per via dell'udito rappresentino all'animonostro i concetti che sono ritratti dalle cose. Se adunque alcuno dirà: lo stile nasce da'concetti; i concetti sono i medesimi dell'eroico e del lirico; adunque il medesimo stile èdell'uno e dell'altro; negherò che l'uno e l'altro tratti i medesimi concetti, se bene alcunavolta trattano le medesime cose.

La materia del lirico non è determinata, perchè, sì come l'oratore spazia per ognimateria a lui proposta con le sue ragioni probabili tratte da' luoghi comuni, così il liricoparimente tratta ogni materia che occorra a lui; ma ne tratta con alcuni concetti che sonosuoi propri, non comuni al tragico e all'epico; e da questa varietà de' concetti deriva lavarietà dello stile che è fra l'epico e 'l lirico. Nè è vero che quello che constituisce la speziedella poesia lirica sia la dolcezza del numero, la sceltezza delle parole, la vaghezza e losplendore dell'elocuzione, la pittura de' translati e dell'altre figure, ma è la soavità, lavenustà e, per così dirla, la amenità de' concetti; dalle quali condizioni dependono poiquell'altre. E si vede in loro un non so che di ridente, di fiorito e di lascivo, che nell'eroico èdisconvenevole, ed è naturale nel lirico. Veggio per essempio come, trattando l'epico e 'llirico le medesime cose, usino diversi concetti; dalla quale diversità de' concetti ne nascepoi la diversità dello stile che fra loro si vede. Ci descrive Virgilio la bellezza d'una donnanella persona di Dido:

regina ad templum, forma pulcherrima Dido,incessit magna iuvenum stipante caterva.Qualis in Eurotae ripis aut per iuga Cinthiexercet Diana choros etc.Semplicissimo concetto è quello: forma pulcherrima Dido; hanno alquanto di maggioreornamento gli altri, ma non tanto che eccedano il decoro dell'eroico. Ma se questamedesima bellezza avesse a descrivere il Petrarca come lirico, non si contenterebbe già diquesta purità di concetti, ma direbbe che la terra le ride d'intorno, che si gloria d'essertocca da' suoi piedi, che l'erbe e i fiori desiderano d'esser calcati da lei, che 'l cielopercosso da' suoi raggi s'infiamma d'onestade, che si rallegra d'esser fatto sereno da gliocchi suoi, che 'l sole si specchia nel suo volto non trovando altrove paragone; einviterebbe insieme Amore che stesse insieme a contemplare la sua gloria. E da questavarietà di concetti che usasse il lirico, dependerebbe poi la varietà dello stile. Non avrebbemai usato simili concetti l'epico, che con gran sua lode usa il lirico:

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qual fior cadea su 'l lembo,qual su le trecce bionde,ch'oro forbito e perleeran quel dì a vederle;qual si posava in terra, e qual su l'onde;qual con un vago erroregirando parea dir: «Qui regna Amore».

Onde è tassato l'Ariosto ch'usasse simili concetti nel suo Furioso troppo lirici, come:

Amor che m'arde il cor, fa questo vento etc.

Ma veniamo al paragone, e vediamo come abbia lasciate scritte le medesime cose e 'llirico toscano forse più eccellente d'alcuno latino, e 'l latino epico più d'ogn'altro eccellente.Descrivendo Virgilio l'abito di Venere in forma di cacciatrice, disse:

dederatque comam diffundere ventis.Nè disse quello che per aventura la maestà eroica non pativa, e che con gran vaghezza dallirico fu aggiunto dicendo:

Erano i capei d'oro all'aura sparsich'in mille dolci nodi etc.

Si può comportare nell'epico quello:

ambrosiaeque comae divinum vertice odoremspiravere.

Onde troppo lascivo sarebbe stato quell'altro:

e tutto 'l ciel, cantando il suo bel nome,sparser di rose i pargoletti Amori.

Descrive Virgilio l'innamorata Didone che sempre avea fisso il pensiero nel suo amatoEnea, e dice:

illum absens absentem auditque videtque.

Arguto certo e grave è questo concetto, ma semplice. Intorno all'istessa materia trovaconcetti di minor gravità, ma di maggior vaghezza e di maggior ornamento <il Petrarca>,onde ne riesce la composizion delle parole più dipinta e più fiorita:

Io l'ho più volte (or chi fia che me 'l creda?)nell'acqua chiara e sopra l'erba verdeveduta viva, e nel troncon d'un faggio,e 'n bianca nube sì fatta che Ledaarìa bea detto che sua figlia perde,come stella che 'l sol copre co 'l raggio.

E di sì fatti concetti sovra l'istessa cosa si vede ripiena tutta la canzone:

In quella parte dove Amor mi sprona.

Con concetti ordinarii è da Virgilio descritto il pianto di Didone, onde le parole sono ancocomuni:

Sic effata, sinum lachrimis implevit obortis.

Molto maggior ornamento di concetti cerca nel duodecimo, descrivendo il pianto di Lavinia,e con maggior ornamenti di parole lo spiega:

Accepit vocem lachrimis Lavinia matrisflagrantes perfusa genas, cui plurimus ignemsubiecit rubor et calefacta per ora cucurrit.Indum sanguineo veluti violaverit ostroi quis ebur vel mixta rubent ubi lilia multaalba rosa; tales virgo dabat ore colores.

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Fioriti concetti sono questi, e quasi vicini al lirico; ma non sì che non siano assai più ridentiquegli altri:

perle e rose vermiglie, ove l'accoltodolor formava voci ardenti e belle;fiamma i sospir, le lagrime cristallo.

E questo ultimo per aventura da Virgilio non saria stato ammesso. Nè meno quelli:

Amor, senno, valor, pietade e dogliafacean piangendo un più dolce concentod'ogni altro che nel mondo udir si soglia;

ed era il cielo all'armonia sì intentoche non si vedea in ramo mover foglia,tanta dolcezza avea pien l'aere e 'l vento.

Semplicissimi concetti son quelli di Virgilio nel descrivere il sorger dell'aurora:

humentes Aurora polo dimoverat umbras;

e

Oceanum interea surgens Aurora reliquit.

Descrivendo la medesima cosa, il Petrarca va cercando ogni amenità di concetti, e qualisono i concetti, tali ritrova le parole:

Il cantar novo e 'l pianger de gli augelliin su 'l dì fanno risentir le valli,e 'l mormorar di liquidi cristalligiù per lucidi, freschi rivi e snelli.

Quella etc.

Appare dunque che la diversità dello stile nasce dalla diversità de' concetti, i quali sonodiversi nel lirico e nell'epico, e diversamente spiegati. Nè si conclude che da' concetti nonnascano gli stili perchè, trattando i medesimi concetti il lirico e l'epico, diversi nondimenosiano gli stili; perchè non vale: tratta le medesime cose, adunque tratta i medesimiconcetti, come di sopra dichiarammo; chè ben si può trattare la medesima cosa con diversiconcetti. E perchè più appaia la verità di tutto questo, veggasi come lo stile dell'epico,quando tratta concetti lirici (e questo non determino io già se s'abbia da fare), tutto liricosi faccia; veggasi come ameno, come vago, come fiorito è l'Ariosto quando disse:

Era il bel viso suo, qual esser suole,con quello che seguita. Chè in effetto, usando quei concetti sì ameni, ne venne lo stile sìlirico che forse più non si potria desiderare. Veggasi parimente in Virgilio come, usandoconcetti dolci e pieni d'amenità, vestitili poi di quella vaghezza d'elocuzione, ne risultò lostile mediocre e fiorito. Leggasi nel quarto la descrizione della notte:

Nox erat, et placidum etc.

La qual materia con medesimi concetti, cioè ameni, trattò il Petrarca in quel sonetto:

Or che 'l cielo e la terra e 'l vento tace,

dove, per non vi essere dissimilitudine di concetti, non v'è anco dissimilitudine di stile. Equinci si raccolga che, se 'l lirico e l'epico trattasse le medesme cose co' medesimiconcetti, ne risulterebbe che lo stile dell'uno e dell'altro fosse il medesimo.

Si ha adunque che lo stile nasce da' concetti, e da' concetti parimente le qualità delverso: cioè che siano o gravi, o umili etc. Il che si può anco cavare da Vergilio, che umile,mediocre e magnifico fece il medesimo verso con la varietà de' concetti. Che se dallaqualità del verso si determinassero i concetti, avria trattato con l'essametro, nato per suanatura alla gravità, le cose pastorali con magnificenza. Nè si dubiti perchè alcuna volta usiil lirico la magnifica forma di dire, l'epico la mediocre e l'umile; perchè la determinazione

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della cosa si fa sempre da quella parte che signoreggia, ed hassi prima riguardo a quelloche viene ad essere intenzione principale. Onde, benchè l'epico usi alcuna volta lo stilemediocre, non deve per questo essere che lo stile suo non debba essere detto magnifico,come quello che è principalissimo di lui; così del lirico ancora, senza alcuna controversia,potremo dire.

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