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La resistenza al fascismo in Italia di Guido Quazza Storiografia e politica, storiografia e interdi- sciplinarità Il fascismo e la Resistenza armata sono stati in molti paesi al centro del dibattito storio- grafico del dopoguerra, ma forse in nessun altro luogo come in Italia. Le spiegazioni non sono molto difficili. Esse risiedono in due elementi. Il primo è il fatto che la lotta frontale tra fascismo ed antifascismo è stata in Italia la più antica, la più lunga — dal 1919-20 al 1943-45 —, la più diffusa, e ha coinvolto intensamente e drammaticamente l’uomo intero, nella pienezza della dimensio- ne pubblica e di quella privata. Lo studio di quella lotta non ha potuto perciò a lungo sot- trarsi allo sforzo di delineare una storia “to- tale”, delle strutture, dell’intelligenza, della paura e insieme della speranza. Il secondo elemento è stato il peso partico- larmente forte e costante dell’intreccio tra i condizionamenti politici e la crescita scienti- fica della storiografia italiana. I primi non potevano mancare in tempi di ricostruzione dell’economia e della cultura del paese in un nuovo clima politico. La seconda finì con l’imporsi, sia pure con lentezza, attraverso un allargamento dei propri orizzonti che si avvalse, dopo l’isolamento culturale fascista, anche delle metodologie e delle problemati- che più avanzate proposte dalle grandi scuole francesi e anglosassoni. A questo intreccio, nei suoi incontri e scontri e nelle sue scansioni cronologiche, “Italia contemporanea”, marzo 1986,162 intendo guardare affinché l’analisi, purtrop- po in questa sede fortemente sommaria, si presenti il più possibile aperta e al tempo stesso articolata. Primo e secondo elemento, infatti, sono entrambi necessari a tentare quella che è, secondo la nota espressione di Pietro Gobetti, una vera e propria “autobio- grafia della nazione” e, aggiungo, l’esame di coscienza degli italiani, la pietra di paragone fra l’Italia di prima e l’Italia di poi. L’uso della violenza Diventa sempre più difficile, anche agli stori- ci più vicini a una rivalutazione del fascismo, negare che il rapporto dell’Italia fascista con l’Italia liberale — il prima — sia ideologica- mente nella “cultura della crisi” ma politica- mente nella “paura del rosso”. Lo smarri- mento della fede nel progresso, camminando di pari passo con la graduale perdita di ege- monia mondiale dell’Europa, si collega col timore che dopo l’occupazione delle fabbri- che nell’estate 1920 convince il grande capi- tale e i più alti dirigenti dello Stato a puntare su un “esercito privato” a servizio d’una “controrivoluzione” capace di aggiogare le masse operaie e bracciantili a un potere cen- tralizzato e autoritario, mirante, sulla base di precedenti impostisi durante il conflitto, a un duro controllo dei movimenti sociali dentro e fuori l’azienda. Il “partito unico della bor- ghesia” usato a questo fine è quello fondato

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La resistenza al fascismo in Italiadi Guido Quazza

Storiografia e politica, storiografia e interdi- sciplinarità

Il fascismo e la Resistenza armata sono stati in molti paesi al centro del dibattito storio­grafico del dopoguerra, ma forse in nessun altro luogo come in Italia. Le spiegazioni non sono molto difficili. Esse risiedono in due elementi. Il primo è il fatto che la lotta frontale tra fascismo ed antifascismo è stata in Italia la più antica, la più lunga — dal 1919-20 al 1943-45 —, la più diffusa, e ha coinvolto intensamente e drammaticamente l’uomo intero, nella pienezza della dimensio­ne pubblica e di quella privata. Lo studio di quella lotta non ha potuto perciò a lungo sot­trarsi allo sforzo di delineare una storia “to­tale”, delle strutture, dell’intelligenza, della paura e insieme della speranza.

Il secondo elemento è stato il peso partico­larmente forte e costante dell’intreccio tra i condizionamenti politici e la crescita scienti­fica della storiografia italiana. I primi non potevano mancare in tempi di ricostruzione dell’economia e della cultura del paese in un nuovo clima politico. La seconda finì con l’imporsi, sia pure con lentezza, attraverso un allargamento dei propri orizzonti che si avvalse, dopo l’isolamento culturale fascista, anche delle metodologie e delle problemati­che più avanzate proposte dalle grandi scuole francesi e anglosassoni.

A questo intreccio, nei suoi incontri e scontri e nelle sue scansioni cronologiche,

“Italia contemporanea”, marzo 1986,162

intendo guardare affinché l’analisi, purtrop­po in questa sede fortemente sommaria, si presenti il più possibile aperta e al tempo stesso articolata. Primo e secondo elemento, infatti, sono entrambi necessari a tentare quella che è, secondo la nota espressione di Pietro Gobetti, una vera e propria “autobio­grafia della nazione” e, aggiungo, l’esame di coscienza degli italiani, la pietra di paragone fra l’Italia di prima e l’Italia di poi.

L’uso della violenza

Diventa sempre più difficile, anche agli stori­ci più vicini a una rivalutazione del fascismo, negare che il rapporto dell’Italia fascista con l’Italia liberale — il prima — sia ideologica­mente nella “cultura della crisi” ma politica- mente nella “paura del rosso”. Lo smarri­mento della fede nel progresso, camminando di pari passo con la graduale perdita di ege­monia mondiale dell’Europa, si collega col timore che dopo l’occupazione delle fabbri­che nell’estate 1920 convince il grande capi­tale e i più alti dirigenti dello Stato a puntare su un “esercito privato” a servizio d’una “controrivoluzione” capace di aggiogare le masse operaie e bracciantili a un potere cen­tralizzato e autoritario, mirante, sulla base di precedenti impostisi durante il conflitto, a un duro controllo dei movimenti sociali dentro e fuori l’azienda. Il “partito unico della bor­ghesia” usato a questo fine è quello fondato

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il 23 marzo 1919 a Milano da Mussolini, per­ché si presenta come pronto a usare la più dura e spregiudicata violenza contro le per­sone che guidano i “rossi” , in nome di una filosofia della crisi che nel suo eterogeneo empirismo sembra idonea a catturare i sog­getti sociali più diversi. L’avallo dello Stato, dalla monarchia all’esercito, dalla polizia al­la magistratura, offre le armi necessarie per “spedizioni punitive”, mentre l’alta burocra­zia si prepara a garantire l’obbedienza con l’apparato della violenza legale in tutto il tes­suto delle sue articolazioni esecutive, dal cen­tro alla periferia.

Da ciò la prima, fondamentale constata­zione: il fascismo giunge al potere non attra­verso un consenso di maggioranza o almeno di larghi strati. Poche migliaia di voti nelle elezioni generali del 1919, meno del 7% in quelle del 1921, una minoranza nell’Italia del Nord ancora nel 1924, quand’è già padrone di tutti gli strumenti coercitivi. In quest’ulti­mo anno, l’opposizione di Giacomo Mat­teotti viene stroncata con l’assassinio, quella dell’Aventino con gli inganni e le minacce, complice la viltà del sovrano. Il discorso del 3 gennaio 1925 e lo scioglimento dei partiti non fascisti nel 1926 sono la prova del nove dell’assenza di un sufficiente consenso, del carattere dittatoriale del nuovo regime poli­tico.

Non basta ciò, tuttavia, per caratterizzare la questione, vivacissimamente discussa in Italia negli ultimi vent’anni. Si deve tener presente, come ragione logica di metodo in­terpretativo, che si può parlare di consenso solo se esso implica l’adesione attiva. Assen­te o largamente insufficiente prima della conquista totale del potere — che è sempre la fase determinante per poter distinguere i re­gimi di libertà da quelli di oppressione —, il consenso viene, e sia pure con un sistema complesso di propaganda, estorto dopo. Dall’opportunistico mere in servitium della “palude”, quella parte cioè di popolazione che è mossa da paura dei controlli e da spe­

ranza di successi personali e di carriera, l’a­desione si allarga costantemente sotto il se­gno del trasformismo, marchio costante del­la vita pubblica italiana dal connubio di Ca­vour del 1852 alla mediazione e corruzione di Depretis e di Giolitti, metodo mai superato di cooptazione nei ceti dirigenti di persone e gruppi disposti ad obbedire alle forze vinci­trici del Risorgimento.

La percentuale dei nuovi capi è, in ogni settore della società e dello Stato, assai pic­cola rispetto al periodo pre 1922. Due fortu­nate barzellette colgono incisivamente già nel 1925-1926 il nocciolo della questione del rap­porto tra il Regime e il prima. Una, circolan­te nei ceti più popolari, interpreta la sigla del distintivo del partito nazionale fascista (Pnf), che era d’obbligo tenere all’occhiello, come: “per necessità familiari” . La seconda, inventata dal filosofo Giuseppe Tarozzi, suona: ”Un italiano per essere perfetto deve essere intelligente, onesto, fascista. Ma po­trà, poiché nessun uomo è perfetto, avere al massimo due di queste doti; se sarà intelli­gente e fascista, non sarà onesto; se onesto e fascista, non sarà intelligente; se intelligente e onesto, non sarà fascista” .

Le migliaia di sommosse o assalti ai muni­cipi e ai negozi, in testa le donne, del 1930- 1932 non sembrano davvero un documento di consenso, né sono credibili le immagini di propaganda prodotte dai giornali “Luce”, dai documentari filmici, dalle pellicole cine­matografiche di quegli anni, oppure le can­zoni e gli slogan che la neonata radio divulga sotto precisi ordini di Roma. Contro le prime apparenze, anche i negoziati tra Pio XI e Mussolini sfociati nella “Conciliazione” del 1929 sono più il risultato d’un accordo tra potenze sul do ut des che il preludio ad un ve­ro consenso fra regime e cattolici. Lo dimo­strano non soltanto gli scontri tra le organiz­zazioni fasciste e quelle ecclesiastiche, ma anche i dissensi, raramente espressi a luce piena ma ampiamente diffusi nell’interno del mondo cattolico, nel quale non sono pochi

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coloro che si raccolgono nelle sedi religiose per prepararsi a un’alternativa di coscienza ispirata agli insegnamenti del Vangelo anzi­ché alle direttive del potere vaticano.

Dopo le “spedizioni punitive” delle squa­d ra le , dopo attenta azione repressiva della polizia e della magistratura — eccezionale, ordinaria e del lavoro —, ancora negli anni trenta la sottomissione non è consolidata. Certo non è facile, a chi non ricordi perso­nalmente il clima del tempo, documentarsi con l’eloquenza delle cifre. È bene tuttavia non dimenticare che, se la storiografia anti­fascista del 1945-1965 esagerò nel considera­re il popolo italiano come attivo, sia pure in forme clandestine, nel fronteggiare la ditta­tura, ancor più oggi nuclei di storici non solo di destra ma moderati, affiancati da scrittori di sinistra, sbagliano nel presentare il secon­do decennio come “anni del consenso”. An­che qui dovrebbe essere necessario ricordare che per storici non di parte il primo dovere — elementare metodologicamente — è di non fermarsi alla rappresentazione di sé che dà il Regime, e di utilizzare tutte le fonti, da qualsiasi parte vengano, per confrontarle e, vagliate con dubbio metodico, ricomporle in un quadro costruito onestamente. Da esse si ricava senz’ombra di dubbio che, in un regi­me nel quale il controllo repressivo è attentis­simo, non la speranza, ma la paura domina i più. Gli attivi (i gerarchi di vario grado e i militanti medi e bassi) non superano i 150.000, tanti quanti gli antifascisti persegui­tati (dei quali oltre 5.000 ricevettero condan­ne per 25.000 anni di carcere, 10.000 furono confinati). Mentre quasi un milione di operai e contadini e migliaia di intellettuali, studen­ti, funzionari emigrarono, i più per sottrarsi già nei primi anni alle violenze inferte alle lo­ro persone, ai parenti, alle case. Di contro, ben 130.000, proprio negli anni proclamati come gli “anni del consenso” , all’indomani della guerra etiopica, si iscrissero in Francia alla Cgt, l’organizzazione sindacale guidata dai comunisti, e non pochi di essi furono di­

retto veicolo di antifascismo, venendo in Ita­lia durante le ferie, e portandovi notizie degli aumenti salariali, della settimana di 40 ore, dei 15 giorni feriali per anno, ottenuti in un paese colpito dagli anatemi della propaganda di Roma. Per non parlare della crescente de­fezione del clero dopo l’alleanza del 1936 con la Germania nazista e — spinta decisiva — dopo le leggi razziali del 1938.

Il fuoco, del resto, veniva tenuto acceso dagli strati intellettuali rimasti fedeli a Bene­detto Croce; fra gli operai costituivano un ri­chiamo, di là dal malcontento per la riduzio­ne dei salari (il 20% effettivo nel ventennio), le azioni coraggiose dei giellisti e degli anar­chici e la presenza di comunisti nelle fabbri­che; fra i contadini destavano diffidenza il “ruralismo” troppo scopertamente truffaldi­no del Regime e le costose e inefficienti boni­fiche. Più in generale, mentre il duce procla­mava, con la conquista dell’Abissinia, il ri­torno dell’Impero, “dopo 19 secoli”, sui “colli fatali” di Roma, la presenza di oltre 4.000 volontari antifascisti italiani di varia fede politica in Spagna contro Franco non era ignota. E della vittoria a Guadalajara ot­tenuta nel marzo 1937 da questi volontari ap­partenenti alle brigate internazionali parlaro­no non solo i reduci delle formazioni manda­te dall’Italia a battersi per il fascismo spa­gnolo, ma lo stesso Mussolini, colpito dalla perdita di prestigio che quella presenza e quella battaglia gli arrecarono. Dagli intellet­tuali esuli in Occidente, i “fuoriusciti”, come li chiamava la propaganda fascista, i Salve- mini, gli Sforza, i Ferrari, gli Sturzo, da quelli andati a Mosca, giungevano messaggi clandestini ma sempre più conosciuti e ascol­tati.

Non occorre, in ogni modo, sopravvaluta­re l’antifascismo del ventennio per aver ra­gione deHe esagerazioni riguardanti il con­senso al regime. Basta prendere in attento esame gli echi quotidiani della propaganda fascista all’interno — come si viene facendo sempre più con indagini circoscritte e perciò

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più documentate — per cogliere la natura re­torica del consenso parlante e la sostanziale ostilità di quello silenzioso. È vero che la grande industria sta con Mussolini fino al 1942, per la preferenza che la politica di in­tervento nell’economia assegna ai grandi gruppi siderurgici, meccanici, elettrici e ai complessi bancari, ma il processo di concen­trazione monopolistica scontenta la media e la piccola industria, come apertamente si ve­drà durante la guerra.

L’autarchia e il rapporto più stretto con il Reich non tardano a inoculare dubbi anche dentro il “blocco sociale” sostenitore di Mussolini. Il volume pubblicato dall’Istituto nazionale per la storia del movimento di libe­razione su Operai e contadini nella crisi del ’43, l’unico finora largamente documentato, offre basi robuste alla critica della tesi che considera largo il consenso nel ventennio. E l’opera di Luisa Passerini su Torino operaia e il fascismo colpisce ancora di più perché coglie nel rapporto fra gli stereotipi dell’anti­ca cultura popolare e le affermazioni stretta- mente politiche il varco d’una ostilità o alme­no estraneità che Nuto Revelli individuò anni fa nei contadini o montanari attraverso le “storie di vita” de II mondo dei vinti. Anche l’uso dei metodi più raffinati delle scienze umane qualitative si unisce a quello dei me­todi delle scienze sociali quantitative per mo­strare i vuoti profondi e le incrinature super­ficiali di un consenso che sarà così debole da portare i soldati ad essere ancora più ostili al­la seconda guerra mondiale che non alla pri­ma, e gli stessi fascisti a dileguarsi come neve al sole nel luglio 1943.

Continuità e rottura, unità della Resistenza

Profondamente legata alla vicenda politica della Repubblica italiana nata nel 1946, ma — come dicevo — strettamente intrecciata allo sviluppo delle influenze metodologiche e problematiche straniere, la storiografia con-

temporaneistica italiana non tardò a rendersi conto, di fronte agli eccessi di svalutazione e di sopravvalutazione del consenso al Regi­me, della necessità imprescindibile di porsi il problema del nesso fra continuità e rottura nella storia italiana, cioè, nello specifico, tra la storia del fascismo e dell’antifascismo clandestino e partigiano col prima e col poi. Di là dal merito di quegli storici che si assun­sero il carico scientifico ed etico-politico di affrontare il dibattito in questa prospettiva, il nodo divenne subito stringente. Dalla parte opposta si tentò di minimizzare, o svilire, la centralità del nesso sviandone il significato. Si disse che il nesso era proposto come dilem­ma schematico e che ognuno dei due termini era presentato come un assoluto, una chiave rigida di interpretazione. Ma la falsificazione urtava contro testi precisi, che considerava­no i due termini come “tendenziali” , come li­nee orientative sulle quali impostare una di­scussione che, presa da un corno oppure dal­l’altro, avrebbe dato risultati di maggior vi­gore scientifico e di ben diversa efficacia po­litica. Si puntò con forza sulla distinzione tra storiografia e politica, ma con altrettanta at­tenzione sulle reciproche influenze, per os­servare come le sinistre (in primis il Pei) cer­cassero, esagerando il grado di rottura della guerra partigiana e l’ampiezza di rinnova­mento del suo esito, di dimostrare come col­pa non perdonabile del centro e della destra moderata (in primis della De) l’avere caccia­to le sinistre dal governo nel maggio 1947 e non più accettato il loro ritorno, infrangen­do la base stessa della “Repubblica nata dal­la Resistenza” . L’accusa, prima lanciata da socialisti e comunisti, poi, con l’alleanza fra Psi e De nel primo governo del Centro-sini­stra sorto nel 1963, dai soli secondi, favorì l’estendersi dall’altra parte di una linea di di­fesa che, puntando sull’ “unità indifferenzia­ta” dei resistenti, colpiva ad un tempo sia la natura di classe della guerriglia, sia il grado di rottura con l’Italia di prima, da Cavour a Mussolini.

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Negli anni sessanta, dunque, la storiogra­fia sul fascismo e sulla Resistenza toccò il li­mite massimo di sudditanza all’ottica politi­co-istituzionale e la spinta più forte a uscirne in più larghi campi. Nei quindici anni fra il 1945 e il 1960 erano state le storie generali a rivelare più scopertamente il legame col par­tito o con la fazione: sia quelle sulla guerri­glia, dal Battaglia al Bendiscioli, dal Valiani al Carli Ballola, sia quelle sul ventennio, an­che la pur ricchissima sintesi del Salvatorelli e del Mira. Durante lo stesso periodo, anti­doto soltanto parziale erano stati i numerosi scritti memorialistici, spesso caldi di fede e di passione. Così, non soltanto fra gli studiosi, ma anche fra i cittadini, si era acuito il con­trasto fra la capacità della storiografia di af­ferrare l’ampiezza del tema e le esigenze che stavano emergendo dalla società italiana.

Cinematografia, letteratura, poesia, arti figurative avevano intuito meglio il fondo umano — la “cultura” , la “mentalità” — sul quale s’erano scontrati i due principali con­tendenti del conflitto. La storiografia aveva limitato la sua attenzione ai pensieri e alle azioni di essi, considerando di fatto — e con­tro le proprie proclamazioni pubbliche, dun­que come retorica — il “popolo” come og­getto e non soggetto di storia.

La chiave “continuità-rottura” finiva con l’aprire molte più porte che non quella dell’“unità della Resistenza”. Riesplodeva, a fianco d’una formula che nella sostanza guardava — da sinistra come da destra — al­la Resistenza quale pura “guerra di libera­zione nazionale”, l’attenzione ai contrasti di classe e alla guerriglia in quanto sede di sforzi di “rivoluzione sociale” . Irrompeva la polemica sulla Resistenza tradita o incom­piuta.

Il destino della storiografia di essere messa al muro delle sue specifiche responsabilità scientifiche e morali dalle differenze e con­trapposizioni della politica era reso ancor più manifesto dal fiorire in quegli anni di almeno tre grandi speranze: la “nuova frontiera” di

Kennedy, la Chiesa rinnovata dal Concilio Vaticano II di Giovanni XXIII, la “rivolu­zione culturale” di Mao Tze-tung. E dal muoversi di sempre più larghe masse su quel­lo ch’era il terreno più esemplare di verifica nell’azione di quelle speranze: la lotta di libe­razione del Vietnam. Né si può dimenticare il costituirsi spontaneo, contro le mene pro-fa- sciste del presidente del Consiglio Tambroni nel 1960, d’una coalizione tra i vecchi antifa­scisti del ventennio e della guerra partigiana e i nuovi antifascisti giovani-operai, e via via il pullulare di proposte che si collocavano al­la sinistra del Pei per esplodere nel 1967-1968 col movimento studentesco e nel 1969 con 1’ “autunno caldo” nelle fabbriche. Da ciò il rendersi incandescente, perché pietra di pa­ragone dei conflitti generali, del contrasto tra antifascismo e fascismo in tutte le sedi: da quelle della politica contingente a quelle dei programmi generali di conservazione o di mutamento dell’economia e della società, agli orientamenti ideologici come premesse necessarie delle specificazioni culturali. Spe­ranze e movimenti “dal basso”, inoltre, si in­nestavano nel vero spartiacque della storia sociale italiana, che non era stato né il ven­tennio né la lotta armata, ma la grande mi­grazione di popoli — 10, 12 milioni di perso­ne — che durante il boom dell’economia del paese (1958-1963) si era spostato e si stava spostando dal Sud al Nord, dalla campagna alla città. Ancora una volta, ma per una stra­da diversa, il “pubblico”, la realtà collettiva d’ogni giorno, premeva sulla storiografia perché estendesse i suoi territori e i suoi stru­menti di lavoro.

Neutralità e scelta

Quali diventarono, sul nostro tema, i punti del contendere?

L’unità antifascista e resistenziale venne usata come merce da vendere a prezzo più o meno alto a seconda che si venisse estenden­

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do la pressione di massa o si inasprisse la ri­sposta dei gruppi conservatori e apertamente di destra e fascisti. La sequela delle “stragi” compiute dal terrorismo nero dal 1969 in poi fu il termometro della febbre conflittuale nel politico e nel sociale. La formula “unità del­la Resistenza” venne tirata dal Pei verso il “compromesso storico”, prima (1973) come tesi enunciata dal segretario comunista Ber­linguer, poi (1976-1978) come prassi applica­ta sotto la guida del democristiano An- dreotti.

Quella storiografia che a sinistra era libera di sudditanze a partiti lo individuò come strumento di “mistificazione” perché presen­tava il suo precedente — l’unità della Resi­stenza — come accordo sicuro acquisito una volta per tutte e non come risultato da rag­giungere attraverso una ricerca continua, im­pedendo in tal modo una spiegazione storica dell’esaurimento della carica innovatrice del­la Liberazione.

I fautori della continuità si divisero essi pure in due schiere. Chi, come i rivalutatori del fascismo, si mise a sostenere la “obbietti­vità” di una posizione che si collocava come neutrale tra i “demonizzatori” (parola che diventerà negli anni seguenti di gran moda in Italia) e i fascisti tout court. Una tesi — dice­vano — necessaria per ricostituire l’unità de­gli italiani, per dimenticare un’età di feroci contrasti, un’età — ecco la formula — di “guerra civile” .

Chi, come coloro che avevano visto con dubbio non solo metodico l’insistenza con­vergente da destra e da sinistra sulla Resi­stenza quale unità e rottura, si apprestò a re­spingere anche la formula, di Giorgio Amen­dola, della “rivoluzione antifascista” , pur ri­conoscendo nella lotta contro il fascismo la base morale e culturale della Repubblica ita­liana. Costoro si avvalsero dell’esperienza metodologica e problematica fatta dalla sto­riografia francese e anglosassone negli studi di storia moderna per propugnare la necessi­tà che quest’esperienza venisse estesa alla

storiografia sull’età contemporanea e, nello specifico, sul fascismo e sulla lotta contro di esso. Era questione di non annegare passato e presente nella hegeliana notte in cui tutte le vacche sono nere. Era questione di non af­fondare nella palude della neutralità. Era questione di avere il coraggio di rischiare una interpretazione, cioè di scegliere secondo la “verità” scientifica e, inseparabilmente, se­condo una visione del mondo che si autode- nunciasse come coscienza etico-civile espres­sa da quella “verità” .

Fu dagli Istituti storici della Resistenza che si sviluppò l’azione più larga, lo sforzo coe­rente non d’uno o pochi ma di molti per ren­dere più aggiornata la ricerca storiografica e attraverso l’aggiornamento portarla a farsi più idonea a liberare lo studio e la conoscen­za del grande conflitto del 1919-1920 in atto in Italia dalle secche dell’ideologismo e dagli schematismi inevitabilmente nascenti da una visione puramente politico-istituzionale del passato. Più adeguata, dunque, anche alla coscienza delle avanguardie militanti e non lontana dall’opinione del cittadino medio. Soprattutto, più autonoma dai condiziona­menti di breve periodo, più solida nel guar­dare a continuità e rottura, cioè alle perma­nenze e ai mutamenti, i quali sono propri d’ogni orizzonte non “presentista” ma di “lunga durata” . Era anche la via per ripristi­nare la diversità di idee e, con essa, la chia­rezza, diciamo pure l’onestà intellettuale del­le ottiche interpretative. L’obbiettività non nasce — si disse e si scrisse allora — dalla neutralità ma dalla franchezza con la quale si denuncia il proprio angolo visuale senza ma­nipolare le fonti disponibili. Chi ha più filo, come interprete, fa più tela. E il lettore rima­ne libero di giudicare, non catturato dalle proclamazioni di una neutralità che non può — e perciò non deve — esistere.

Subito emersero dilemmi interni al nesso continuità-rottura e funzionali alle scelte che riguardavano — come continuano a riguar­dare, in tutte le articolazioni necessarie ad at-

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tivare semplicistiche contrapposizioni — questo nesso. Cerco di indicarli nell’ordi­ne che mi pare più logico per l’analisi del tema.

Spontaneità e organizzazione, lotta naziona­le e lotta di classe

Nei primi anni dopo la Liberazione la “spon­taneità” era stata assunta a carattere princi­pale della scelta della lotta armata special- mente da storici o dirigenti del Partito d’A- zione (Calamandrei, Galante Garrone, Foa) preoccupati dei tentativi del Partito comuni­sta di monopolizzare il merito d’aver affer­mato e guidato il passaggio allo scontro tota­le. Negli anni sessanta, proprio per le grandi battaglie di massa che ho già ricordato come segnate dal crisma dell’antifascismo, furono invece studiosi cattolici (con particolare luci­dità Sergio Cotta) a sostenere che la Resi­stenza era stata in realtà una cosa diversa dall’antifascismo dei partiti nel ventennio. Mentre questo secondo rispecchiava diffe­renze dell’Italia liberale ormai vecchie, elita­rie, unicamente politiche, e tornava alla ri­balta nel 1943 come isolato dalla società ita­liana quale era venuta mutandosi sotto il fa­scismo, la prima rispecchiava un moto spon­taneo di massa, una “adesione socialmente indifferenziata”, non di classe, nella quale erano presenti tanto la “borghesia industria­le” quanto gli “strati più umili”, l’una e gli altri mossi da spinte “materiali” .

Più tardi, al tempo del compromesso stori­co, Cotta sarà ancora più esplicito, parlando di “movimento popolare arditamente inno­vatore ma largamente unitario e non ideolo­gicamente rivoluzionario, che indica il cam­mino da riprendere nel ritrovato accordo del­le forze politiche che allora vi parteciparo­no”. Unità che prima è vista come nascente dalla spontaneità, perché si vuole strappare ai comunisti il credito di guida della Resi­stenza. Poi, mutati i tempi politici ed estesasi

la contestazione mossa alla Repubblica dai “neri” e dagli ultrarossi, perché soltanto su un terreno di parità di meriti era possibile ri­costituire un minimo comun denominatore sul quale formare un governo di “unità na­zionale”, come significativamente fu chia­mato nel 1976-1978.

Riferimento polemico principale restava­no le tesi “organizzativistiche” proprie della tradizione settaria e dell’anima stalinista del Pei. Non più le formule di “Secondo Risorgi­mento” — patrocinate per la Resistenza da Togliatti fin dal 1945 — e di “movimento pa­triottico di unità popolare” — proclamate da Longo nel libro, del 1947, intitolato Un po­polo alla macchia. Ma quelle di Secchia sulla classe operaia come “avanguardia organizza­ta” della guerra partigiana: formule cresciute con la rottura del governo di unità nazionale nel maggio 1947, con l’attentato a Togliatti nel luglio 1948, con la reazione antioperaia degli anni 1948-1955.

La questione spontaneità-organizzazione rimase, dunque, per tutto il quarantennio dopo il 1945 come spia più o meno esplicita del contendere intorno al tema, più scoperto e scottante politicamente, dell’“unità della Resistenza”. Per la De — lo scrisse con chia­rezza Ernesto Ragionieri — fu un mezzo tat­tico per garantirsi quale erede della continui­tà dello Stato; per il Pei — fu detto da chi scrive e da altri — la via strategica da percor­rere per legittimarsi come partito nazionale, dopo i lunghi anni delle scomuniche fasciste e cattoliche, e poi come partito cofondatore della Repubblica e interno al suo sistema isti­tuzionale. Più a sinistra, dentro il Pei stesso (Secchia) e fuori (nei cosiddetti gruppi extra­parlamentari), l’atteggiamento ufficiale, di Togliatti e poi di Berlinguer, fu bollato, dal 1968 in poi, di rinuncia a portare fino in fon­do la istanza rivoluzionaria operaia quale si era espressa con grande forza negli scioperi, da quello del marzo 1943, ancora in regime mussoliniano, a quello “insurrezionale” del 18 aprile 1945.

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Spontaneità e organizzazione rimangono anche oggi, a mio parere (e si veda l’acuta sintesi di Giovanni De Luna), i due termi­ni-chiave per l’interpretazione del significato politico della guerra partigiana e del suo rap­porto con il periodo fascista.

Già negli anni del divampare più acceso di questa discussione, gli anni sessanta, da par­te di storici degli Istituti della Resistenza si era sottolineato il fatto che la stragrande maggioranza dei partigiani era costituita da giovani: (80-85%, e fra essi il 56,3 erano nati tra il 1920 e il 1925, il 40,8% tra il 1910 e il 1919, oppure — e questi senza obblighi di servizio imposti dalla Rsi — nel 1926-1927). Essi dunque nella quasi totalità non poteva­no aver militato nell’antifascismo clandesti­no se non, ma alcuni soltanto, nel periodo della guerra. Altre sollecitazioni, non politi­co-partitiche, ma esistenziali (morali, psico­logiche, “materiali”), li avevano spinti a ri­bellarsi al fascismo, prima in forme per lo più passive (non combattere, criticare, “mu­gugnare”), poi, di fronte al crollo totale del­lo Stato l’8 settembre 1943, con 1’“andare in montagna” e prendere le armi. La scelta di questa strada, essa stessa minoritaria (fra i relativamente numerosi ex militari “sbanda­ti” dei giorni dopo l’armistizio, solo nove o diecimila rimasero nella “bande” a fine di­cembre 1943), era stata prepolitica. Uno scat­to morale, l’intuizione personale che occor­resse recuperare l’identità risorgimentale del paese combattendo contro il nazifascismo, un atto di responsabilità e di assunzione di ri­schio per la grande maggioranza di giovani “ribelli” appartenenti al ceto medio (studen­ti, intellettuali in fieri in prima uscita, impie­gati, lavoratori indipendenti). Un’avanguar­dia peraltro ridotta rispetto a coloro che ave­vano nel ventennio assistito all’imporsi e al dominare del “duce”. L’antifascismo politi­co non spinse direttamente i più fra questi, ma poi cercò via via di organizzarli e in parte (in parte soltanto) riuscì a influenzarli, senza mai riuscire, durante i venti mesi dello scon­

tro frontale, a soggiogarli. Al naufragio dello Stato e della sua “autorità” sia morale sia coercitiva s’era aggiunta l’ambiguità della chiesa cattolica, divisa tra il desiderio del pa­pa di dar vita a una sorta di fascismo senza Mussolini, o a un regime militare, e la passione cristiana del clero vicino al “popolo di Dio”.

Al campo della spontaneità, ma con azio­ne d’efficacia crescente, appartiene anche l’adesione dei ceti “popolari” . Antifascismo esistenziale, dunque in primo luogo sponta­neo, fu infatti quello operaio e, dove si mani­festò, quello contadino. Non c’è dubbio, an­che se la tesi esclusivista dell’organizzazione non è ancora morta, che gli operai poterono, fin dal 1942-1943, riacquistare una loro for­za e cementarla, entro certi limiti, con l’av­vio a classe, cioè a forza, per ragioni “mate­riali” e non propriamente politiche, relativa­mente omogenea, sia perché generalmente dequalificata dal tipo di lavoro e portata ver­so salari e categorie più ravvicinate, sia per­ché l’economia bellica imponeva che si tenes­se conto delle loro richieste di vita, special- mente salariali e alimentari. Dopo l’8 settem­bre, la Rsi fu in gran parte il braccio armato volto a favorire le domande di mano d’opera avanzate dal Terzo Reich, e spesso i nazisti tedeschi si arresero ad una certa comprensio­ne fino a che riuscirono a ottenere, complice parte degli industriali, un certo grado di pro­duzione effettiva. Poi, quando gli scioperi del novembre-dicembre 1943 e quello, il più grande dell’Europa occupata, del marzo 1944, mostrarono che gli operai erano in pri­ma linea nella resistenza di fatto, si aprì la fase delle vere e proprie deportazioni di lavo­ratori in Germania, oltre quella della Todt. La primazia operaia (i partigiani armati crebbero di numero, fino a 30-35.000, solo dopo i bandi di richiamo emanati dalla Rsi in primavera) nel combattere i fascisti e i nazisti con le proprie armi tradizionali (scioperi, re­nitenze, sabotaggi, ecc.) venne via via meno, ma un forte contenuto di classe, anche que­sto esistenziale più che politico, rimase. Il

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Pei era presente con suoi uomini, la sostanza dell’opposizione operaia era dentro il “movi­mento”, e dentro il movimento doveva porsi l’avanguardia comunista per poter agire. Soltanto più tardi — come rilevò Claudio Dellavalle — il Pei riuscirà a collegare più strettamente le rivendicazioni economiche agli obbiettivi politici e, con l’insieme della sua azione,a conquistarsi la maggioranza ef­fettiva dei loro consensi. Come nel marzo 1943, fino alla primavera dell’anno seguente la spinta maggiore alla resistenza fu d’origi­ne operaia, ma in quanto il cemento dell’o­mogeneità era più naturalmente evidente e forte, come cemento di classe, nella fabbrica anziché nella società.

Ciò, dunque, mantiene un certo carattere di precedenza alla spontaneità rispetto all’or­ganizzazione. Ciò, tuttavia, non deve dimi­nuire l’importanza di questa come presenza orientativa nel terreno ancor vergine della preparazione ideologico-politica. E ancora: la storia del rapporto fra i due termini non è di contrapposizione, salvo eccezioni non fre­quentissime. È storia di intreccio quotidiano, e di dialettica reale, che si conserverà anche dopo la Liberazione.

Storia d’intreccio anche perché, nell’Italia occupata dai tedeschi, il rapporto tra sponta­neità e organizzazione è ogni giorno influen­zato da quello che in anni ormai non vicini tentai di definire antifascismo dei fascisti. In primo luogo, antifascismo di quegli indu­striali e banchieri che nel 1920-1922 e poi fi­no almeno all’autunno del 1942 furono i principali promotori, affiancatori e profitta­tori del fascismo.

Ai primi dell’autunno 1943 in alcune zone essi non esitavano ad appoggiare l’andare in montagna di giovani “sbandati” preoccupati di sfuggire alla chiamata dell’appena nata Rsi e alla minaccia di fucilazione come “di­sertori” : essi speravano in una vicina fine della guerra e contavano di farsene uno stru­mento per la “salvaguardia delle aziende” . Il prolungarsi del conflitto e la durezza del suo

quotidiano svolgersi li portò presto a non prendere posizione, a farsi consapevolmente neutrali, finanziando gli uni e gli altri in lot­ta, sia per mantenere le commesse belliche da parte fascista e nazista, sia per prepararsi ti­toli di salvezza nel caso previsto di vittoria degli Alleati e con essi dei partigiani. La dif­ferenza o, assai più spesso, l’ostilità nei con­fronti dei “rossi” , si tradusse in una sostan­ziale estraneazione dalla lotta armata, perché questa procurava difficoltà e veri e propri pericoli per l’incolumità delle strutture pro­duttive e interruzioni di lavoro e quindi ridu­zioni di profitti, oltre alle conseguenze mor­tali per le persone quali nascevano dalle rap­presaglie contro i colpi di mano e le imbosca­te dei partigiani. Era 1’“attesismo”, adottato come “linea politica definitiva”, in alcuni giunto fino a vedere la Rsi, scrive Luigi Ca­napini, come “ punto di riferimento per tutti quei ceti sociali che, pur non aderendo al fa­scismo repubblicano, volevano sottrarsi ad ogni scelta ed evitare, con la difesa delle tra­dizionali istituzioni che quel governo preser­vava, ogni deciso sbocco innovatore della crisi” .

Per queste vie, ma non solo per queste, l’antifascismo dei fascisti operò molto nega­tivamente anche nel campo della politica ge­nerale. In primo luogo, nei rapporti col go­verno del Sud e con gli Alleati.

L’iniziativa monarchica, gli Alleati e il peso del Mezzogiorno

Qui sta il nodo più gravido di conseguenze sia sull’efficacia militare della Resistenza, sia sulla capacità di questa di lasciare una sua eredità di mutamento. Continuità e rottura vi giocano la loro partita decisiva.

Anche su questi aspetti non sono mancate, in sede di interpretazione storiografica, impli­cazioni conseguenti alla politica contingente.

Nelle tesi di storici comunisti (specialmen­te di Carlo Pinzani) si è giunti fino a ridurre

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l’importanza, per la caduta del fascismo, de­gli scioperi del marzo 1943, per meglio poter dimostrare che il re e Badoglio, con l’arresto di Mussolini il 25 luglio, con l’armistizio e con la fuga del 9 settembre nella zona allea­ta, sferrarono un colpo non solo grave ma ir­reparabile contro l’iniziativa dei partiti anti­fascisti, e specialmente delle sinistre. Secon­do questa tesi, la difesa che gli Inglesi fecero del re e di Badoglio fu dovuta all’avere co­storo mantenuto strettamente in pugno la fi­gura di garanti dell’esecuzione dell’armisti­zio e di difensori della continuità dello Stato italiano. Continuità ch’era considerata es­senziale soprattutto da Churchill, scettico, anzi timoroso nei confronti di ogni movi­mento dal basso, tanto più se guidato da quegli antifascisti del ventennio ch’egli aveva sempre considerato — come Vittorio Ema­nuele III — dei révenants. Re e Badoglio, a detta di Pinzani, perseguivano lucidamente una “strategia di conservazione istituzionale e sociale della corona e del comando supre­mo tendente a promuovere l’uscita dal con­flitto senza scosse istituzionali” e a inserire il “paese nella sfera di influenza occidentale” .

Da altri si è tentato, inoltre, di ridurre le distanze tra Sud e Nord nel tempo della Resi­stenza. Alcuni studiosi, come il comunista Rosario Villari, hanno sottolineato che nel Mezzogiorno l’antico blocco agrario era en­trato in crisi dagli anni trenta e trovava negli anni della guerra, dopo lo sbarco degli Allea­ti in Sicilia in particolare, fenomeni di poten­zialità disgregatrice quali le occupazioni di terre da parte contadina. Senza sminuire l’importanza di questi fatti, non sembra tut­tavia ancora possibile, né è prevedibile lo sia in futuro, sopravvalutare i fermenti operai in Napoli e le insorgenze contadine in tutto il Sud. Né sottovalutare la forza ritardatrice e inquinatrice esercitata dal fatto che per molti mesi — e ancor prima dello sbarco in Sicilia — i canali di informazione degli Alleati sono gli italo-americani già succubi della propa­ganda ufficiale dell’Italia fascista, cioè la

mafia italo-americana, e il Vaticano al pro­prio vertice tendente a un fascismo senza Mussolini. Le incertezze degli Usa, durate a lungo, finiscono col coniugare i conflitti tra militari e civili e tra i vari centri di potere americano con le paure della mobilitazione operaia del Nord e le sollecitazioni delle for­ze sociali dominanti al Sud, indebolendo le prime intenzioni riformatrici.

Sono fatti che incideranno, soprattutto dopo la Liberazione dell’Alta Italia, dal pun­to di vista del mutamento sociale, non c’è dubbio. Ma per l’esito politico-istituzionale immediato — quello che contò decisivamen­te nell’impianto del nuovo potere in Italia dopo la fine della lotta armata — l’effetto fu molto scarso. Lo provano la nascita, quasi ovunque, di Cln che, mentre nel Nord erano l’organo politico dirigente la lotta, nel Sud erano formati da opportunisti ed ex-fascisti. Ciò tolse base specifica innovativa al Cln centrale di Roma, rendendolo ben diverso da quello che il 16 ottobre 1943 aveva espresso con un duro ordine del giorno la volontà di sostituirsi alla monarchia come “governo straordinario dotato di tutti i poteri costitu­zionali dello Stato” . Ciò rese inefficace il convegno dei Cln meridionali tenutosi a Bari il 28 e 29 gennaio 1944, la cui azione finì pre­sto con l’arenarsi sulla richiesta, in sé debole, dell’abdicazione del vecchio re. Mancava l’impegno nella lotta conosciuto di fronte al­la dura alleanza tra fascisti e occupanti nazi­sti dal Nord e da una parte del Centro, e la conseguenza non potè essere se non quella di rendere più forti la monarchia e il governo Badoglio e le tendenze restauratrici del go­verno militare alleato. La presto mancata epurazione del personale fascista negli appa­rati dello Stato (questori e prefetti del Regi­me, per esempio, restavano in gran parte ai loro posti), la fiacchezza, o per meglio dire inesistenza, dei rapporti con la Resistenza (che il re temeva come aperta sconfessione di fatto della sua ventennale collaborazione col fascismo), la timidezza con la quale si dichia­

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rò guerra alla Germania il 13 ottobre 1943 e si fecero proposte di affiancamento di un esercito italiano a quelli alleati (del resto la risposta alla chiamata di leva fece addirittura nascere un vasto “Movimento non si parte” e gli angloamericani non consentirono più di54.000 armati), il riconoscimento tacito delle posizioni tradizionali di potere economico e spesso l’uso in incarichi-chiave di esponenti di questo: ecco i punti principali che prepara­no il condizionamento negativo che, sia pure con minor pesantezza di quanto la storiogra­fia abbia detto nei primi vent’anni dopo l’a­prile 1945, ha agito non solo sul rapporto fra Nord e Sud ma anche sulla genesi della Re­pubblica italiana.

La tesi secondo la quale fin dal 1943 l’ini­ziativa politica del re e di Badoglio indebolì le chances di cambiamento ha senza dubbio una parte di verità, ma nella sua perentorietà è troppo chiaramente legata al desiderio di ridurre — soprattutto per il Pei — la respon­sabilità di chi non perseguì con forza l’ob- biettivo stesso del cambiamento. Si è voluto mostrare che, già nel momento in cui nasce, la Resistenza è per merito degli avversari pri­vata delle capacità di diventare lo stimolo a una vera e propria rottura. Resta vero, ad ogni buon conto, che molte “precondizioni” dell’indebolirsi di questo stimolo furono dentro l’antifascismo. Così le dimissioni di Bonomi, il 24 marzo 1944, da presidente del Cln centrale, con conseguente crisi di questo. Così, e più, la “svolta di Salerno” operata pochi giorni dopo da Togliatti proveniente da Mosca, presto seguita dalla politica del “partito nuovo” e della “democrazia pro­gressiva”: oggi le opinioni su di essa sono forse meno divise che nove anni fa. L’elo­quenza dei documenti diplomatici, i muta­menti politici, l’ovvio buon senso, se atte­nuano il bisogno di attribuirla ad un perento­rio comando di Stalin, rendono sempre più difficile negare che soltanto entro una situa­zione nella quale la svolta convergeva con fi­ni congrui alla politica mondiale dell’Urss

(fini, in ogni caso, che gli stessi comunisti ri­conoscono), potè aprirsi quello che al Pei ed ai suoi storici appare un disegno originale, “italiano”, del proprio capo. E resta il fatto che da esso parte il processo di riconoscimen­to sostanziale, con l’avallo a Badoglio come primo ministro, della continuità dello Stato. La liberazione di Roma, il 4 giugno 1944, non altera il cammino, sebbene il decreto emanato il 25 giugno dal governo presieduto da Ivanoe Bonomi impegni, sulla base delle deliberazioni della conferenza interalleata di Mosca dell’ottobre 1943, a convocare la Co­stituente. Il problema istituzionale è bensì ri­conosciuto come esistente, ma lo si rinvia a guerra finita. E intanto la legislazione fasci­sta sopravvive (salvo quella riguardante il Tribunale speciale), l’epurazione viene impo­stata anche da Bonomi in modo destinato a rimanere inefficace, e anche nel “patto di Roma” (la fondazione del sindacato unico nel giugno 1944) non mancano elementi di continuità. Per questa via le istituzioni tradi­zionali riprendono forza, i poteri visibili e in­visibili del vecchio “sistema” si rassodano, gli Alleati, prima dubbiosi — specialmente gli americani — sull’opportunità di una dife­sa dell’esistente, a poco a poco si convincono della necessità di stringere i freni rispetto ad ogni passo liberalizzatore. Pesa sempre più forte sia il timore della crescente vivacità mo­strata dai soggetti sociali innovatori sia il so­spetto di possibili influenze sovietiche.

Soltanto il 25 agosto, e con grande pru­denza, il governo romano delega il Clnai “a dirigere la guerra dei patrioti contro i tede­schi e i fascisti” , e le trattative iniziate dopo la decisione, il 9 giugno, di formare nel Centro-Nord un comando unico di quello che viene chiamato ufficialmente il Corpo Volontari della Libertà (Cvl) giungono fati­cosamente all’inizio di novembre a imporre ad esso un comandante moderato (il generale Raffaele Cadorna, figlio del generalissimo della prima guerra mondiale) incaricato di frenare l’esercito della guerriglia. I protocol­

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li di Roma del 7 dicembre vincolano poi i partigiani a obbedire alle direttive alleate e a disarmarsi al termine della guerra, mentre il 25 dello stesso mese una dichiarazione con­giunta tra il Clnai e il ministero affossa il “terzo governo indipendente” , cioè il gover­no di fatto espresso nel Nord dalla Resisten­za armata. Così, mentre Kesselring conduce la più terribile offensiva su tutto l’arco alpi­no contro i partigiani e Alexander li invita col suo “proclama” del 13 novembre 1944 a sospendere le operazioni, si arriva nello stes­so mese, durante la crisi ministeriale, al di­sconoscimento di fatto delbautorità del Cln nel formare il governo. Ancora una volta non basta che lo storico guardi all’atteggia­mento rigido degli Alleati. Deve misurare il peso della divisione delle sinistre (solo il Pei partecipa al nuovo ministero Bonomi). E ciò significa la fine sostanziale delle possibilità per il massimo organo politico degli antifa­scisti di porsi come novità alternativa al vec­chio vertice dello Stato.

Di qui, con tutta chiarezza, i gravi limiti che all’“eredità” resistenziale pose il bino­mio Mezzogiorno-Alleati, nel quale la pre­senza del secondo termine non è da sola pre­ponderante. Si tratta d’un intreccio di spinte e controspinte, che la stessa storiografia la quale ha lavorato per ridurre il peso del pri­mo termine ha, con le nuove ricerche docu­mentarie a Washington e a Londra, rivelato operanti nel senso di una prevalenza conser­vatrice. Le nuove energie emergenti dalla so­cietà meridionale non poterono, cioè, con­trobattere l’influenza di quelle tradizionali, rafforzate dalla presenza in loco della mo­narchia, e ne venne un grande, se non decisi­vo, stimolo alla vittoria nazionale della con­tinuità rispetto alla rottura.

Già allora uno dei più acuti militanti poli­tici, Vittorio Foa, l’aveva visto, e in un suo saggio fondamentale del 1947 lo aveva con­fermato, con una lucidità che il tempo non ha appannato. Non, dunque, le manovre re­gie intorno all’8 settembre, ma tutto il peso

combinato delle forze economiche, sociali e politiche conservatrici del Sud e degli interes­si e pregiudizi inglesi, nonché delle iniziative di inserimento nel governo dei comunisti — dall’interno, dunque, degli innovatori — mi­narono l’idoneità della Resistenza a portare i propri ideali al successo.

Comunità contadina e partigiani

Sulla bilancia sembrano pesare in senso in­verso per quasi tutto il 1944 gli elementi di forza costituiti nel Centro e nel Nord dagli operai prima, dai partigiani e dalle popola­zioni poi. Ma anche dentro di essi si vanno inserendo germi di corrosione.

Ho già accennato al contegno ambiguo de­gli industriali e dei banchieri e, più latamen­te, di quell’antifascismo che ho definito “dei fascisti” . Aggiungo subito che, via via che la guerra sembra svelare un esito determinato, cioè la sconfitta dell’Asse, molti industriali e banchieri allacciano o ritessono trame dirette col potere economico privato negli Usa e in Gran Bretagna, a precostituire una colloca­zione postbellica nel grande mercato occi­dentale: gli esempi offerti dalla storiografia sono negli ultimi anni numerosi. Il nodo del­l’antifascismo dei fascisti, tuttavia, non è so­lo qui. Il mutamento delle condizioni di lavo­ro dalla primavera in poi tarpa le ali alla spinta contestativa e per certi versi virtual­mente rivoluzionaria degli operai, costretti dalle vicende dell’economia di guerra e dal rastrellamento tedesco di mano d’opera a ri­nunciare all’arma dello sciopero. I movimen­ti dei braccianti sono imponenti nell’estate in alcune regioni del Centro e le occupazioni di terre nel Sud, ma, mentre non possono avere la potenza incisiva della massa d’urto esi­stente nelle fabbriche, provocano negli agra­ri e nei piccoli e medi proprietari paure che si riveleranno più tardi non favorevoli al nuo­vo. Tra città e campagna si torna, con l’ac­crescimento numerico dei partigiani e il raf­

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forzamento della loro azione militare, a gio­care una partita storica che nel presente di al­lora favorisce forse la spinta a cambiare ma al tempo stesso prepara le condizioni di un futuro freno.

È il problema contadini e Resistenza, cer­tamente fondamentale per la collocazione della Resistenza dentro la storia d’Italia del prima e del dopo e ciò nonostante in gran parte da affrontare con prospettive e stru­menti nuovi.

Le fasi della ricerca storiografica sono sta­te in proposito diverse. Esse, pur avendo ri­sentito delle contingenze politiche, sono state percorse soprattutto dai grandi cambiamenti sociali che già ho ricordato, quelli iniziati sul finire degli anni Cinquanta e sviluppatisi so­prattutto nel decennio Sessanta. Prima di es­si la storiografia antifascista non aveva nu­trito dubbi sull’asserzione che la maggioran­za delle popolazioni rurali, già diffidente verso il ruralismo di Mussolini e tendente a restare il più possibile estranea a una chiara professione di fascismo, avesse parteggiato per i “ribelli” .

Non pochi documenti di commissari o co­mandanti e memoriali di combattenti aveva­no però via via rivelato diffidenza e anche ostilità da parte di molti contadini, restii a fornire i viveri, a nascondere i braccati, a te­ner duro di fronte ai rastrellatoti, soprattut­to là dove prevalevano i piccoli proprietari. Le pagine entusiastiche di Salvemini e di Bat­taglia sul coinvolgimento dei contadini in una politica “collettiva” come fatto nuovo nella storia italiana erano state, è vero, con­trobilanciate dal richiamo di Valiani ai pro­fitti del mercato nero, mentre Legnani rileva­va che i partiti antifascisti non avevano mo­strato di tener presenti e capire a fondo i pro­blemi delle campagne.

Soltanto di recente, però, la storiografia, diversamente dai partiti rimasti quasi sordi alla “modernizzazione” del paese, ha fatto, specialmente ad opera degli Istituti che stu­diano il movimento italiano di liberazione

dal fascismo, un primo passo innanzi. Ha cominciato a negare validità a una considera­zione unitaria del mondo delle campagne, di­verso secondo ragioni geografiche, diverso secondo ragioni sociali. Condizioni struttu­rali e di coltura dei terreni, non solo in rela­zione all’altitudine, e condizioni di figura so­ciale (braccianti, mezzadri, affittuari, piccoli o medi proprietari, ecc.) impongono a chi non voglia essere generico e quindi impreciso di studiare le singole realtà locali separata- mente e poi comparativamente. Ecco un compito importante, e molto assorbente, per gli storici. Questo convincimento metodolo­gico apre di per sé la strada a un uso più si­stematico e più aggiornato delle scienze so­ciali quantitative e a un intreccio di quest’uso con l’adozione di strumenti antropologici. Con la penetrazione, circa dieci anni fa, delle suggestioni inglesi di storia orale, si aprì un confronto fra il 1943-1945 nella sua realtà sincrona e i decenni, anzi i secoli passati nella loro dimensione diacronica: un confronto basato sulla convinzione che i mutamenti nella vita contadina sono di lungo o lunghis­simo periodo e che quindi vanno sottratti a osservazioni contingenti. Di qui non solo la raccolta delle testimonianze, soprattutto nel­la forma delle “storie di vita”, ma la pratica più larga delle scienze umane qualitative, e in primis dell’antropologia culturale, della sto­ria delle tradizioni popolari, del folclore, ol­tre che una rilettura dei testi letterari, visivi, figurativi, variamente musicali.

Io credo — e alcuni recenti convegni degli Istituti storici della Resistenza hanno cammi­nato su questa linea — che si debba fare stra­da l’idea che l’antifascismo e la Resistenza siano da riesaminare alla luce di interpreta­zioni del proprio passato, della propria lunga storia collettiva fornite, per così dire, dalla “gente”, da molti: ognuno collabora, con la sua personale e individuale memoria, a co­struire tante storie quanti punti di vista, of­frendo così allo storico professionale un ma­teriale il cui interesse non sta nell’esattezza

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di singoli dati ma nella diretta partecipazione umana al ricordo d’un passato vissuto collet­tivamente, nell’immagine di sé dentro il pro­prio mondo che a distanza di anni si dipinge.

Tutto ciò non deve, tuttavia, andare per proprio conto, dimenticando la complessità degli intrecci e dei piani. In primo luogo, de­ve essere collocato in un riesame — in Italia ancora raro — della storia della comunità contadina, in quanto sistema politico-ammi­nistrativo locale, sede di una cultura millena- ristica, di atteggiamenti di chiusura a difesa verso l’esterno — sia esso potere centrale o invasore — contemporaneamente di un di­sputare anche molto duro per l’egomonia in­terna e di un contrapporsi alla città ma al tempo stesso un farsene oggetto di gelosia e di invidia. La vecchia regolamentazione della comunità, tutta a pro’ dei locali e tutta con­tro i forastieri, è il punto di partenza, in un paese come l’Italia che nel 1945 aveva ancora il 49% di mano d’opera agricola, per capire il rapporto tra popolazioni locali e partigiani armati. Diverso è l’atteggiamento quando questi ultimi sono figli della propria terra, diverso quando sono esterni. Il senso di “ap­partenenza” gioca come convergenza e come repulsione: si tratta di misurare i singoli spe­cifici casi. La “cultura” della guerriglia, ben nota alle vecchie tradizioni contadine di ri­bellione, di riots come nel Seicento e Sette­cento improvvisi e violenti, ha un suo bilan­cio di dare e avere nella misura in cui le ban­de armate partigiane contraccambiano le proprie requisizioni con la difesa contro le razzie e le distruzioni e violenze fasciste e na- ziste. Si preferisce chi è dei nost, ma non sen­za prezzo.

Invece, di fronte alla città, e a quella parte di essa che è sfollata nel villaggio, i contadini sono ancora fortemente diffidenti: il merca­to nero è l’arma con la quale si vendicano di quello che considerano un vassallaggio mille­nario. Nel 1943-1945 la campagna ha la sua rivincita, di dignità, anzi, in certi casi, di pre­stigio, di ricchezza, di potere — i tre parame­

tri della superiorità. Dall’altra parte, il rifu­giarsi dei cittadini presso di loro non è senti­to solo come un fatto di protezione fisica dalla guerra (soprattutto bombardamenti, coprifuoco), né di facilitazione alimentare, ma anche, più o meno consapevolmente, co­me ritorno alla primazia della famiglia pa­triarcale, della vicinìa, del contesto e concer­to della “frazione”, più in generale, della na­tura.

La ripresa, in Italia, degli studi sulla storia della famiglia nell’età moderna consentirà — io credo — altri sviluppi importanti su que­sto aspetto della guerra di liberazione. Più in generale, sarà possibile intendere meglio i confini fra il rapporto umano e quello politi­co e sociale. Absalom descrisse con attenzio­ne anni fa il contegno fiero di contadini che salvarono migliaia di prigionieri alleati e non vollero compensi a guerra finita. Chi ha vis­suto l’esperienza della guerriglia sa che la ge­nerosità dei valligiani e dei lavoratori dei campi nel dare cibo, nel nascondere, nel pra­ticare l’omertà contro le spie e contro i ra- strellatori era un fatto individuale, non col­lettivamente organizzato, un fatto privato, anche se diffuso, non pubblico, per usare due termini oggi di moda. In Italia, poi, nel quadro familiare-comunitario, il clero basso, i parroci, le suore, quando furono, e non po­chi, a fianco dei partigiani, lo furono non co­me “parte” segnata da connotati ideologici o politici, ma come singole persone. Lo furono non soltanto come ministri del cristianesimo, ma anche, e forse più, come intellettuali orga­nici del mondo rurale, come gestori spirituali e rituali dei momenti cruciali della vita (batte­simo, matrimonio) e della morte (funerali). L’acquisizione delle fonti ecclesiastiche (diari dei preti, libri parrocchiali) ha confermato largamente quanto resta nel ricordo dei pro­tagonisti della lotta, e lo seppero i fascisti e i nazisti che spesso dovettero cedere al soccorso e alla mediazione di questi modesti profeti o confessori di uomini soggetti da sempre alla su­balternità di fronte al potere locale e centrale.

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Da queste osservazioni si dovrà comunque partire anche per capire ciò che è stato finora difficile intendere, cioè la supremazia della De e dei moderati, dopo, in zone (per esem­pio il Cuneese, il Friuli) dove la Resistenza ebbe altro segno politico e culturale, al cen­tro del quale era pure una rigorosa volontà di usare pienamente la violenza quando reputa­ta necessaria. Non affrontato se non per cen­ni, questo è un altro tema per collocare l’Ita­lia partigiana nel corso della storia dal fasci­smo alla repubblica.

Dall’attesismo alla banda, dalla banda alla zona libera

I.’ultimo punto che consente di cogliere la Resistenza in se stessa, nei suoi particolari caratteri, ma, come dicevo, anche nei suoi effetti, come prodotto — ancora una volta —- del prima e produttrice del poi, è quello della lotta armata nel suo nascere, nel suo corso, nel suo finale insurrezionale e, con­temporaneamente, nel suo farsi governo (le “zone libere”).

Come già ricordato, nelle prime settimane dopo l’8 settembre 1943 vanno in “monta­gna” militari sbandati, alcuni per scelta mo­rale, altri con consapevolezza politica ma senza esperienze militari, per esempio Galim­berti, Livio Bianco, i più perché timorosi d’essere braccati dalla Rsi nella fase di co­struzione dei suoi apparati repressivi o, in al­cune zone, dalle truppe naziste diventate di fatto non più alleate ma occupanti. In parte tendono a rimanere il meno possibile, anche perché non mancano industriali che pensa­no, come ho detto sopra, di servirsene per il momento, previsto come drammatico, del cambio di potere al termine, che si crede vici­no, del conflitto. I comunisti e i giellisti ri­tengono necessario preparare un tipo di lotta non limitato a nuclei di esperti sabotatori, come vorrebbero gli Alleati (importante in questo senso quanto Me Caffery disse a Cer-

tenago in Svizzera il 3 novembre 1943 a Parri e a Valiani), ma esteso a una vera e propria “guerra di popolo”. Non si trattava tanto dell’esperienza spagnola del 1936-1939, o, più lontano nel tempo, dei ricordi garibaldini e mazziniani. Si trattava della lucida consa­pevolezza che operando, partigiani e fascisti, entrambi a casa propria, soltanto la scelta degli italiani da quale parte stare avrebbe de­ciso le sorti del paese. Sono settimane, qual­che mese (fino al freddissimo inverno 1943- 1944), nei quali la popolazione è più lontana da quelle bande armate che si collocano sulle alture alpine, appenniniche, collinari. Essa è pronta a dar rifugio, abiti, cibo, e soccorso di varia natura, non a prender posizione per i “ribelli”, in una combinazione di generosità umana e di attesismo, qualche volta alimen­tata in loco dalla parola cristiana del prete. Su questo, ormai, la storiografia (che vi ha lavo­rato per molto tempo quasi esclusivamente) è giunta a un largo accordo. D’accordo, inol­tre, che via via (e specialmente dopo la costi­tuzione, nel gennaio 1944, del Cln dell’Alta Italia) l’azione armata è venuta crescendo e assumendo diffusione ed efficacia sempre maggiori, sia per il radicarsi delle bande nel territorio, sia per l’addestrarsi dei combatten­ti alla guerriglia e alle sue norme peculiari.

Superata in partecipazione, efficacia e in­tensità, come già ho detto, dalla lotta ope­raia fino alla primavera del 1944, l’azione ar­mata dei partigiani giunge al suo culmine nell’estate 1944, quando tocca là piena arti- colazione di territorio e di formazione, cioè il nodo fondamentale della sua origine e natu­ra autonoma (e, anche, autonomistica). Or­mai restano ancora bande dette “autonome” perché libere da espliciti condizionamenti di partito (molte, però, sono di fatto monarchi- che-moderate), ma la parte maggiore è ag­gregata sotto segni di partito (40-50% sono formazioni Garibaldi, controllate in sostan­za dal Pei; 30% Giustizia e Libertà, ispirate al PdA; molto meno le socialiste Matteotti e le democristiane Fiamme Verdi).

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Ciò significa che è giunta ad imporsi larga­mente la convinzione che la Resistenza sia, comunque, un movimento con tratti non so­lo militari ma politici e che si debba puntare anche sulla massima maturazione di questi ultimi (s’intende, con i loro diversi colori) nei singoli combattenti. Di là dall’istituzione, già ricordata, del comando unico del Corpo Volontari della Libertà, rimasto in gran par­te sulla carta, la scelta politica fu la strada sia per intensificare le operazioni militari, rima­ste all’autonoma decisione delle bande, sia per passare gradualmente dallo scatto mora­le alla consapevolezza dei fini generali. Con l’allargarsi numerico e il rafforzarsi delle formazioni locali si venne configurando con maggiore pienezza quella che anni fa chiamai la banda come “microcosmo di democrazia diretta”, della quale occorrerebbe riuscire a fissare meglio i modi di nascita e di sviluppo, le procedure di decisione, le vie di esecuzione e di controllo. Al centro della ricerca dovreb­be essere la maturazione d’una spontaneità non più, per così dire, spontaneistica ma fat­ta di iniziativa e di solidarietà combinate con lo sforzo di istruzione da parte dei più colti (le lezioni, i volantini, i giornali, i libri) e di educazione da parte dei veci o combattenti più esperti, spesso coordinata e posta su car­ta scritta dal commissario politico, con “ta­gli” diversi a seconda del colore della banda, e oggi documentabile con materiali (vedi ad es. gli studi di F. Omodeo Zorini) seri e non di rado assai belli.

Non si ebbe se non in casi rari una sovrap­posizione politica coattiva alla composizione sociale delle bande. I dati statistici su questa sono molto scarsi. Si può tuttavia dire che sui 70-80 mila partigiani dell’estate, i quali raggiungeranno i 120-130 mila alla vigilia della Liberazione, il grosso è dovunque di contadini e di operai (con molte variazioni percentuali); per il resto, studenti e impiega­ti. Si avrà un buon contributo alla conoscen­za del nesso spontaneità-organizzazione e del rapporto partigiani-popolazioni quando si

raggiungerà una conoscenza quantitativa sufficiente di questo dato.

Anche dal dato sociale e da quello cultura­le dipende, nell’estate-autunno 1944, la sorte delle “zone libere”, delle cosiddette repubbli­che partigiane nate in Liguria, nell’Ossola, nel Monferrato, nell’Oltrepò pavese, a Mon- tefiorino, in Carnia e Friuli, e durate da tre settimane a tre mesi. Queste sono state abba­stanza studiate e i risultati hanno avuto le ne­cessarie comparazioni. Una partecipazione diretta ancora legata a schemi di gerarchia economico-sociale, salvo eccezioni (ma an­che la più avanzata, in Carnia, dà il voto ai capifamiglia, come nei vecchi comuni medie­vali e nelle recenti latterie sociali), una legi­slazione aperta nei problemi di contatto umano ma timida sulle questioni di fondo, a partire da quelle fiscali. L’incerto sistema di relazioni fra il potere armato e le giunte elet­te diede scarso respiro politico alle zone libe­re, ma specialmente il tempo breve e il perdu­rare della minaccia nemica. Nell’insieme, pe­rò, mentre il costituirle fu un forte rischio militare (e talvolta portò a esiti tragici), l’im­pegno politico fu di grande valore per il “morale” delle popolazioni. Se i primi passi verso l’autogoverno rivelarono una comples­siva incapacità di trasferirvi i moduli demo­cratici della banda partigiana, l’esempio fu di per sé subito, e restò dopo la loro fine, mobilitante.

La fine dei Cln e il ritorno dello Stato

Se fu causa di limiti nelle zone libere, di­rettamente o indirettamente dominate dai partigiani, la debolezza dei Cln fu anche al­l’origine dell’assenza di una guida “giacobi­na” al movimento di liberazione in generale. Le ragioni sono chiare: rappresentanze di partito, nei Comitati, non sempre complete né autentiche; clandestinità e dunque diffi­coltà di fornire una propria immagine au­torevole alla popolazione; distanza troppo

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grande dal vivere quotidiano della gente e da quello dei combattenti; equivalenza all’inter­no fra i partiti presenti e difficoltà a decidere nel caso di non unanimità. Per queste ragioni non trovò vera attenzione l’importante deci­sione, presa fra l’agosto e l’ottobre 1944, do­po vivaci discussioni, di portare dentro i co­mitati la rappresentanza degli “organismi di massa”, specialmente i Gruppi di difesa della donna e il Fronte della gioventù. Non miglio­re efficacia, salvo casi non numerosi, ebbero i Cln periferici, in particolare quelli azienda­li, i quali per altro erano intesi dai partiti co­me destinati a sostituire, anzi a mutare, i co­mitati di agitazione, vera espressione — que­sti — della forza rivendicativa degli operai nelle fabbriche. Pochi, poi, i Cln di cascina, di banca, d’ufficio, di categoria.

Ma la causa più grave di debolezza dei Cln non fu interna, bensì esterna. Fu la politica di partito. Politica dapprima istintiva, di af­fermazione di sé, spesso anche faziosa nelle forme. Politica in seguito voluta come linea precisa. Già la discussione aperta il 20 no­vembre 1944 da una lettera del Partito d’a­zione che rivendicava ai Cln il compito di es­sere le cellule del nuovo Stato, gli strumenti della “rivoluzione democratica”, mostrò, a cavallo fra il 1944 e il 1945, che la loro sorte era di soccombere agli accordi di partito. Le tesi ormai vincenti al Sud si sovrapposero a quelle dei combattenti nel Centro e nel Nord senza lasciarle sviluppare con convinzione sufficiente. Togliatti ribadiva con insistenza la formula dell’alleanza dei tre partiti di mas­sa. Dalla liberazione, il 4 giugno 1944, di Ro­ma, avevano fatto — lo dicevo sopra — passi da gigante i tiepidi o nemici dei Cln. Era pre­vedibile che l’insediamento, all’indomani della liberazione dell’Italia occupata dai na­zifascisti, di un governo presieduto dal capo “morale” della Resistenza armata, Ferruccio Parri, non sarebbe stato seguito da una dura­tura vittoria del “vento del Nord”. Gli orga­ni tradizionali — dalla luogotenenza alle pre­fetture,. dalla magistratura e dall’esercito

alle questure e ai carabinieri, dalle varie istanze amministrative ai sindacati — torna­vano a poco a poco favoriti dall’arrendevo­lezza delle sinistre, in particolare dei comuni­sti, convinte che bastasse “stare” nel gover­no. Il totale fallimento dell’epurazione, san­cito già nel 1945 dalla faziosità antipartigia­na delle sentenze e poi dall’amnistia del 1946, fece sì che la decisione del governo De Gasperi, insediatosi nel dicembre 1945, di ri­pristinare i prefetti e questori di carriera e di facilitare il ritorno dei tecnici e dei dirigenti nelle aziende fosse accolto senza grandi rea­zioni.

Perciò si può dire che l’ultimo successo dei Cln, condiviso con le formazioni armate, fu l’insurrezione. Coronamento, dunque, salvo che a Roma, della guerra partigiana e dell’at­tività legislativa dei comitati, particolarmen­te viva — ancora dopo la vittoria militare — in Toscana. L’Italia del Nord fu trovata da­gli Alleati già liberata e, prima che essi bloc­cassero tutto, ci fu un periodo, spesso di po­chi giorni, di vero regime autonomo in liber­tà. Poi, favoriti dalla obbiettiva difficoltà di ricostruire strutture produttive e mercati di compravendita e di lavoro, l’antifascismo dei fascisti alleati con la monarchia e con gli angloamericani vinse la battaglia decisiva.

L’importanza dell’insurrezione non è stata ancora studiata a sufficienza. All’interno della Resistenza si dovette fronteggiare l’insi­stenza dei partiti del Sud per non farla o atte­nuarla. E si dovettero subire la missione Me- dici-Tornaquinci del 26-29 marzo 1945, il pe­rentorio invito a Parri e a Cadorna a recarsi il 27 marzo a Caserta, il radiomessaggio del generale Clark il 10 aprile. Il Clnai affidava il comitato insurrezionale a uomini di sini­stra, Valiani, Pertini e Sereni, ma doveva te­ner conto di queste pressioni di Roma e degli Alleati, tutte chiaramente volte a impedire che l’insurrezione fosse popolare, anzi che si facesse: l’attesismo era indicato come legge per il timore che il forte intervento di classe del movimento di liberazione italiano pre­

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valesse su quello “nazionale” . Quando le in­tenzioni e i piani per l’insurrezione saranno adeguatamente conosciuti nelle articolazioni locali, molto di più si potrà dire.

Ciò che sembra difficile contestare è il va­lore militare della Resistenza conclusasi con l’insurrezione. Essa era stata capace di tenere costantemente bloccate ben 14 divisioni tede­sche e fasciste e di dimezzare la produzione industriale; la grande parte del territorio del­la Rsi era stata liberata prima dell’arrivo del­le truppe angloamericane: “il contributo par­tigiano alla vittoria alleata in Italia — si leg­ge in un rapporto della Special Force — fu assai notevole e sorpassò di gran lunga le più ottimistiche previsioni. Con la forza delle ar­mi essi aiutarono a spezzare la potenza e il morale di un nemico di gran lunga superiore ad essi per numero. Senza queste vittorie partigiane non vi sarebbe stata in Italia una vittoria alleata così rapida, così schiacciante e così poco dispendiosa” . Anche il bilancio dei caduti non era disprezzabile. Sotto il se­gno della scelta, dell’iniziativa, della respon­sabilità, della sfida erano morti 45.000 parti­giani, 10.000 civili, 32.000 deportati, 30.000 combattenti all’estero dopo l’8 settembre 1943, 26.000 a fianco degli Alleati; e 21.000 erano i mutilati. Dai dati conosciuti e dalle nuove ricerche emerge certamente come se­gno, come fonte e come esito della vicenda la contraddizione, ma pure e perciò l’utilità del rapporto tra spontaneità e organizzazio­ne per misurare quello fra continuità e rot­tura.

In breve: alPinterno delle forze italiane, la Resistenza resta un grande momento come tentativo e come realtà, in sé stessa, di rottu­ra. Resta come rottura l’aver salvato l’identi­tà e l’unità nazionale, cancellando il peggio e il più della degenerazione fascista rispetto al­l’eredità risorgimentale. Ingiusto non ricor­dare che solo la lotta partigiana consentì di avere i titoli per salvare Trieste, per limitare a piccole zone il passaggio alla Francia di ter­re italiane. E che solo essa salvò il paese da

una divisione quale quella subita dalla Ger­mania. Non trascurabile, anche, la ripresa dell’autonomismo in forme aggiornate, di reale crescita dell’autogoverno. Per certi ver­si — qui sono gli storici comunisti a insistere più degli altri — la rinascita dei partiti dopo il loro annientamento da parte fascista: ma qui si apre la discussione ancora in atto. A me, come ad altri, sembra anche alla luce di quarant’anni di logoramento della “for­ma-partito” , che Ragionieri pecchi di ottimi­smo nel definirli “l’unica forma di associa­zione veramente autonoma delle classi socia­li” e per questo l’unico potere alternativo al­la continuità dello Stato. Il tasso di continui­tà in essi esistente va ben al di là della loro misura quantitativa, del loro apparire come partiti di massa: occorre non dimenticare che anche il partito fascista fu un partito di mas­sa. Questa definizione può coprire, dunque, contenuti molto diversi!

All’esterno degli atteggiamenti italiani, non pare dubbio che l’avvicinarsi degli Usa, sotto la presidenza Truman, alla diffidenza propria della Gran Bretagna, timorosa di possibili sviluppi di rivoluzione o, meglio, di contestazione dal basso, fu decisivo per l’ab­bandono dei disegni di new deal in Italia e per l’avvio alla individuazione della De come il partito più sicuro su cui appoggiare gli sforzi per mantenere il paese come alleato e la chiesa come il garante ideologico di un blocco politico e sociale anticomunista.

Per il resto, il nocciolo della politica di ri- costruzione fu il frutto di convergenze dal­l’interno e dall’esterno provenienti dalle for­ze del grande capitale.

I primi segni della ricerca d’inserimento della produzione italiana nel mercato occi­dentale e le connesse esigenze di ripristino delle condizioni del sistema capitalistico, presto raggiunti dai contrasti fra Usa e Urss, già alleati e nel 1946 in cammino verso la guerra fredda, consolideranno in Italia nel 1947, con la rottura del governo unitario, e nel 1948, con la grande vittoria elettorale del­

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la De, la restaurazione sostanziale dell’appa­rato produttivo e di quello statale.

Nettamente positivo, e risultato congiunto della lotta partigiana e dell’interesse degli Alleati occidentali, il bilancio politico-istitu­zionale. Cioè, il ripristino d’un assetto fon­dato su libere elezioni, e la libera scelta della repubblica. Merito italiano, sia pure indebo­lito dalla eccessiva prevalenza dei moderati, la stesura d’una Costituzione abbastanza avanzata nelle sue formulazioni program­matiche, sebbene timida nella parte prescrit­tiva. Il coinvolgimento diretto nel rischio­so impegno quotidiano del mondo contadi­no, che nella prima guerra mondiale aveva visto catturati dallo Stato i suoi figli per essa mandati a soffrire e a morire lontano dalla famiglia, trovò una parte — i brac­cianti — toccata notevolmente dal desiderio di novità, rimasto anche fra gli occupanti di terre al Sud, ma un’altra — i piccoli proprie­tari — forse ancora volta al ritorno del pas­sato come proprietà esclusiva e come vecchi stereotipi culturali. Gli operai delle grandi città a lungo restii ad accettare le parole di prudenza mescolate a speranze di rivoluzio­ne — la “doppiezza” delle parole d’ordine “unità nazionale” e “democrazia progressi­va” intese come “rivoluzione” — del princi­pale loro partito, ma frenati definitivamente nei giorni dell’attentato a Togliatti tre anni dopo, il 14 luglio 1948. I dirigenti e i tecnici aziendali presto riassorbiti nella forma men­tis produttivistica e nella disciplina padrona­le. Gli intellettuali, o liberi di far opinione

ma esposti all’attacco dei partiti, o a questi subalterni e in pericolo di perdere il sale specifico della propria “professione” o fun­zione critica. La “grande speranza” subi­to delusa dalla permanenza dell’apparato dello Stato dei vecchi funzionari cresciuti nel clima di prepotenza e corruzione del fa­scismo.

Il tempo del coinvolgimento nella lotta era stato troppo breve. L’Italia della “ricostru­zione” restava più agricola che industriale. Solo a cavallo degli anni sessanta, come già ho ricordato, si avrà quella grande svolta nella società che porterà verso la “moderniz­zazione” . Ancor oggi, tuttavia, a quaran­tanni dalla fine del conflitto, la continuità col passato incide fortemente sugli apparati dello Stato, sulla legislazione, sui modi di comando effettivo nelle fabbriche, sulle ge­rarchie di potere nell’economia. Le difese contro il tentativo in corso di cambiare la coinè ideale che è al fondamento della Re­pubblica, cercando di confondere antifasci­smo e fascismo di ieri sotto subdole formule — contro la “guerra civile” , per la concor­dia nazionale — non sono così forti come dovrebbero. La “neutralità”, mascherata dall’“obbiettività” , è il pericolo nascente dall’affievolimento dello spirito di scelta e di sfida della resistenza al fascismo. Il rigore scientifico della storiografia è forse l’arma principale per sostenere l’impulso morale ne­cessario a non lasciar passare quel tentativo.

Guido Quazza