La recente storiografia sulla guerra civile spagnola · 8 Per le innumerevoli varietà dottrinali...

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La recente storiografia sulla guerra civile spagnola di Giorgio Rovida Nel decennio 1961-1971, gli storici che si è convenuto definire di scuola liberale (Hugh Thomas, Gabriel Jackson, Raymond Carr) hanno presentato le prime opere di sintesi sulla guerra e la rivoluzione, dando inizio a una rimozione dei detriti depositati dalla leg- genda e rinnovati, ancora dopo la seconda guerra mondiale, dalla polemica tra gli emi- grati. Questa operazione critica, prevalente- mente rivolta alla ricostruzione degli eventi politici e militari, e quindi anzitutto al rista- bilimento del fatto contro l’immagine propa- gandata, fu, per il temperamento degli autori e la disponibilità delle fonti, non particolar- mente attenta ai momenti e ai processi “rivo- luzionari” nella Spagna repubblicana. Pare- va non posta in discussione la interpretazio- ne tradizionale, per la quale i fatti di Barcel- lona del maggio 1937 e la caduta del governo Largo Caballero separavano nettamente due fasi: la prima, caratterizzata dalla disgrega- zione degli apparati dello Stato repubblicano dopo la ribellione militare e la insurrezione popolare, e dalla proliferazione di organismi “rivoluzionari” operanti sul terreno militare, economico, giudiziario, forme iniziali di un nuovo ordine sociale avviato verso il colletti- vismo, la autogestione o comunque il supe- ramento della Repubblica del 1931 e dei rap- porti economici fondati sulla proprietà indi- viduale; la seconda, caratterizzata invece dal sopravvento delle forze di restaurazione e di ripristino dell’autorità dello Stato repubbli- cano con la liquidazione dei poteri autoco- stituiti nel luglio-agosto 1936. Quindi una ri- voluzione sociale, nella quale si riconosceva- no gli anarco-sindacalisti della Cnt, gli anar- chici della Fai, ma anche gruppi della sini- stra socialista e del comuniSmo antistalini- sta, “frustata” o “tradita” ad opera dei par- titi repubblicani borghesi, dei socialisti mo- derati e principalmente del Pce, rigidamente osservante la strategia frontista del Comin- tern e le esigenze della politica estera sovie- tica. Questa linea interpretativa, che veniva di- rettamente dai violenti conflitti politici degli anni della guerra, si ritrova ancora in sfere storiografiche di diverso valore e differente fisionomia intellettuale: dal gauchisme di P. Broué e E. Témime1alle simpatie libertarie di Carlos Semprün-Maura2, ai lavori di B. Bol- loten3, dove poi tale linea diventa, da stru- mento interpretativo tesi da dimostrare con 1 Pierre Broué et Emile Témime, La Révolution et la guerre d ’Espagne, Paris, Editions de Minuit, 1961. 2 Carlos Semprün-Maura, Révolution et contre-révolution en Catalogne, Tours, Marne, 1964. 3 Burnett Bolloten, The Grand Camouflage. The Communist Conspiracy in the Spanish Civil War, London, 1961. The Spanish Revolution. The Left and the Struggle for Power during the Civil War, Chapel Hill, 1979. Trad. cast. : La revolución espahola. Sus origenes, la izquierda y la lucha por el poder durante la guerra civil espahola, Barcelo- na, Grijalbo, 1982. Italia contemporanea”, marzo 1987, n. 166

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La recente storiografia sulla guerra civile spagnola

di Giorgio Rovida

Nel decennio 1961-1971, gli storici che si è convenuto definire di scuola liberale (Hugh Thomas, Gabriel Jackson, Raymond Carr) hanno presentato le prime opere di sintesi sulla guerra e la rivoluzione, dando inizio a una rimozione dei detriti depositati dalla leg­genda e rinnovati, ancora dopo la seconda guerra mondiale, dalla polemica tra gli emi­grati. Questa operazione critica, prevalente­mente rivolta alla ricostruzione degli eventi politici e militari, e quindi anzitutto al rista­bilimento del fatto contro l’immagine propa­gandata, fu, per il temperamento degli autori e la disponibilità delle fonti, non particolar­mente attenta ai momenti e ai processi “rivo­luzionari” nella Spagna repubblicana. Pare­va non posta in discussione la interpretazio­ne tradizionale, per la quale i fatti di Barcel­lona del maggio 1937 e la caduta del governo Largo Caballero separavano nettamente due fasi: la prima, caratterizzata dalla disgrega­zione degli apparati dello Stato repubblicano dopo la ribellione militare e la insurrezione popolare, e dalla proliferazione di organismi “rivoluzionari” operanti sul terreno militare, economico, giudiziario, forme iniziali di un nuovo ordine sociale avviato verso il colletti­

vismo, la autogestione o comunque il supe­ramento della Repubblica del 1931 e dei rap­porti economici fondati sulla proprietà indi­viduale; la seconda, caratterizzata invece dal sopravvento delle forze di restaurazione e di ripristino dell’autorità dello Stato repubbli­cano con la liquidazione dei poteri autoco­stituiti nel luglio-agosto 1936. Quindi una ri­voluzione sociale, nella quale si riconosceva­no gli anarco-sindacalisti della Cnt, gli anar­chici della Fai, ma anche gruppi della sini­stra socialista e del comuniSmo antistalini­sta, “frustata” o “tradita” ad opera dei par­titi repubblicani borghesi, dei socialisti mo­derati e principalmente del Pce, rigidamente osservante la strategia frontista del Comin­tern e le esigenze della politica estera sovie­tica.

Questa linea interpretativa, che veniva di­rettamente dai violenti conflitti politici degli anni della guerra, si ritrova ancora in sfere storiografiche di diverso valore e differente fisionomia intellettuale: dal gauchisme di P. Broué e E. Témime1 alle simpatie libertarie di Carlos Semprün-Maura2, ai lavori di B. Bol- loten3, dove poi tale linea diventa, da stru­mento interpretativo tesi da dimostrare con

1 Pierre Broué et Emile Témime, La Révolution et la guerre d ’Espagne, Paris, Editions de Minuit, 1961.2 Carlos Semprün-Maura, Révolution et contre-révolution en Catalogne, Tours, Marne, 1964.3 Burnett Bolloten, The Grand Camouflage. The Communist Conspiracy in the Spanish Civil War, London, 1961. The Spanish Revolution. The Left and the Struggle fo r Power during the Civil War, Chapel Hill, 1979. Trad. cast. : La revolución espahola. Sus origenes, la izquierda y la lucha por el poder durante la guerra civil espahola, Barcelo­na, Grijalbo, 1982.

Italia contemporanea”, marzo 1987, n. 166

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un’opportuna selezione filologica. In tal mo­do il campo degli studi si è andato con gli an­ni un po’ ingombrando di formule arbitrarie o logore o da rifondare concettualmente. Elenco un po’ a caso: il “doppio potere” nel­la Spagna del 1936, le “collettivizzazioni”, la rivoluzione e la controrivoluzione durante il governo Largo Caballero, l’egemonia comu­nista durante i governi Negrin.

Le dimensioni e la portata delle diverse forme di incautación, colectivización, con­trol, nonché il funzionamento dei comitati rivoluzionari, devono essere sistematicamen­te studiati tenendo conto della varietà delle forme e del “localismo feroce che presiedeva la vita dei comitati”4. Non si tratta di cedere a tentazioni hispanizantes, ma di tenere pre­sente: che ogni ambizione globalizzante, tesa cioè a costruire un modello di organismo “rivoluzionario” attraverso l’astrazione, non è attuabile; che il localismo è, nel 1936, non più soltanto residuo della arretratezza, ma la forma che acquista ogni movimento “democratico” della società spagnola sepa­rata dallo Stato, e che su di esso quindi de­vono valutarsi le specificità spagnole, dall’a­narchismo rurale al tipo di organizzazione della Cnt; che, di conseguenza, le vecchie opere della militanza libertaria5, che conser­vano un valore testimoniale ma che sono quasi sempre prive di annotazioni critiche, devono essere sostituite da una esplorazione metodica, che abbia come obiettivo le tra­sformazioni sociali in ambito regionale o lo­

cale6; che soltanto sulla conoscenza delle strutture e del funzionamento reali degli or­ganismi “rivoluzionari” si può tentare un esame della attività reale di sindacato e par­titi tra il 1936 e il 1939, e naturalmente dei governi presieduti da Largo Caballero e Ne­grin i quali, significativamente, non hanno trovato a tutt’oggi i loro specifici storiogra­fi7 e restano quindi circondati da troppe va­ghezze, da generiche lodi per resistenza ai comunisti (il primo) o da vituperi per capito­lazione davanti agli stessi (i secondi).

Spunti di revisionismoIl merito del rinnovamento degli studi e

del superamento della vecchia impostazione credo si possa attribuire (pur con tutte le ri­serve che devono accompagnare attribuzioni del genere) a César Martinez Lorenzo, il cui volume Les anarchistes espagnols et le pou­voir, pubblicato a Parigi nel 1969, offriva impostazioni iconoclastiche che sulle prime vennero giustificate con la tendenza a consi­derare il lavoro più come una difesa dell’a­zione “revisionista” del padre dell’autore Horacio Martinez Prieto, segretario della Cnt nel 1936, che non come una analisi sto­riografica rigorosa. Certamente nel libro non mancano gli aspetti apologetici e le provoca­zioni nei confronti di una serie di feticci dell’u­niverso anarcosindacalista spagnolo; ma non mancavano nemmeno la rimessa in discussione e la ripresa problematica di quanto era ormai

4 Aurora Bosch Sànchez, Ugetistas y libertarios. Guerra civil y revolución en el Pais Valenciano, 1936-1939, Valen­cia, Deputation provincial de Valencia, 1983, p. 22.5 Per esempio, Frank Mintz, L ’autogestion dans l ’Espagne révolutionnaire, Paris, Bélibaste, 1970; Gaston Levai, Colectividades libertarias en Espaha, Buenos Aires, Proyeccion, 1972.6 La più recente storiografia spagnola si è già mossa in questo senso. Per esempio: J.L. Gutiérrez Molina, Colectivi­dades libertarias en Castilla, Madrid, 1977; L. Garrido, Las colectividades agrarias en Andalucia, Madrid, Siglo XXI, 1976; J. Casanova, Anarquismo y revolución en la sociedad rural aragonesa, Madrid, Siglo XXI, 1985; F. Moreno Gómez, La guerra civil en Cordoba, Madrid, Alpuerto, 1985.7 II primo eccellente tentativo di esplorazione della politica militare durante il governo Largo Caballero è quello di J. Aróstegui y J.A. Martinez, La Junta de Defensa de Madrid, noviembre de 1936-abril de 1937, Madrid, Comunidad de Madrid, 1984.

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come un dato, un saldo elemento di parten­za. Così, dalla dispersione dottrinaria della Cnt prima della guerra8, dalla vaghezza delle sue forme organizzative, dal rivoluzionari- smo “primitivo” Lorenzo poteva giungere ad asserire la “impossibilità” di una rivoluzione libertaria nella Spagna del 1936, e portare poi l’attenzione su un processo relativamente trascurato in precedenza (quando il ciclo rivoluzione-controrivoluzione veniva consi­derato chiuso col maggio 1937, e poco signi­ficativi apparivano quindi i successivi mo­menti di “restaurazione”), quello della rior­ganizzazione interna della Cnt e della Fai, in senso accentratore e burocratico, fino a toc­care posizioni lontanissime da quelle della tradizione libertaria.

Già nel 1937 il presidente della Repubblica, Manuel Azana, aveva osservato il carattere in­completo e frammentario degli eventi rivolu­zionari dell’estate 1936, che avevano disartico­lato l’ordine repubblicano esistente senza co­struire un ordine nuovo: “La democrazia esi­stente in Spagna è finita con l’inizio della guer­ra. Il sistema imperante da allora non è la de­mocrazia. È una rivoluzione che non è riuscita a realizzarsi e ha prodotto solo disordine, una invasione sindacale che è fallita dopo aver sof­focato e paralizzato lo Stato e il governo”9.

La tendenza sembra ora quella di un ritor­no a questa definizione dimenticata, deter­minandola nei suoi aspetti particolari contro la storiografia delle sommarie uniformazio­ni. Così Pierre Vilar presenta un quadro nel quale lo Stato repubblicano conserva la sua “legalità” pur nell’impotenza della maggio­ranza dei suoi apparati, mentre di fronte a es­so non si costituisce “un potere”, bensì ’’dei

poteri”, estremamente diversificati per la loro natura e localizzazione: “Si potè formare uno Stato borghese autonomo in Euskadi, fram­menti di potere — militare, economico, giu­diziario — esistettero a Madrid, Valencia, Barcellona” ; alla base persiste la varietà delle forme locali, poiché “il cantonalismo aveva dalla sua parte, questo non è trascurabile, la tradizione”... “Di fatto, non può parlarsi, come si sarebbe potuto fare per le Asturie nel 1934, di “dittatura del proletariato”10. Julio Aróstegui preferisce parlare di “poteri auto­nomi”, che si costituiscono nel corso della re­sistenza alla ribellione militare, colmando in qualche modo il vuoto lasciato dalla impo­tenza o dalla vacanza del governo centrale, poteri autonomi che non possono però essere generalmente considerati come “poteri rivo­luzionari” . Non c’è dubbio che la Spagna fu percorsa da una “ondata di consiliarismo”, ma anche qui la varianza locale dei nuovi orga­nismi diventa il tratto determinante: dalla Ca­talogna, dove la presenza del governo autono­mo e il ruolo svolto dall’anarcosindacalismo diedero agli eventi il loro carattere peculiare, al Paese basco, dove la situazione sociale esisten­te non subì mutamenti di rilievo, passando at­traverso tutta una serie di comités, juntas, consejos, risultanti non soltanto dalla azione di sindacati e partiti, ma anche di masse senza precedente militanza, senza escludere i casi di continuità di governo dell’autorità civile esi­stente magari con il concorso di un comitato. Ma alla domanda se uscì da tutto questo “una rivoluzione sociale profonda, completa, con­sumata” , la risposta è che tale rivoluzione fu sì un “fatto indiscutibilmente reale” , ma “ta­rato da una assoluta immaturità”11.

8 Per le innumerevoli varietà dottrinali dell'idearium anarchico e anarcosindacalista prima della guerra civile, si vedano: A. Elorza, La utopia anarquista bajo la Segunda Republica, in “Revista de trabajo”, 1970, pp. 179-319; Xavier Paniagua, La sociedaci libertaria. Agrarìsmo e industrialización en el anarquismo espanol, 1931-1939, Barcelona, Grijalbo, 1982.9 Manuel Azana, Obrascomplétas, México, Oasis, 1968, vol. IV, p. 787.10 Pierre Vilar, in: Pierre Broué, Ronald Fraser, Pierre Vilar, Metodologia histórica de la guerra y revolución espaholas, Barcelona, Editorial Fontamara, 1980, p. 88.11 Manuel Tunón de Lara, Julio Aróstegui, Àngel Vinas, Gabriel Cardona, Josep M. Bricall, La guerra civil espano- la. 50ahosdespués, Barcelona, Labor, 1985, pp. 52-53.

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Una rivoluzione “immatura”?

Ora, che cosa significa rivoluzione “imma­tura”? Categorie di giudizio analoghe sono state usate dai “revisionisti” nel movimento libertario per cercare di spiegare il carattere effimero delle “conquiste sociali” del 1936, nonché l’abbandono da parte della Cnt e del­la Fai delle norme dottrinali e pratiche che fi­no a quel momento ne avevano regolato l’a­zione. Horacio Martinez Prieto e J. Garda Pradas hanno parlato di “impreparazione” dei libertari del 1936, impreparazione “psi­cologica” e “materiale”, ad imporsi nella zo­na repubblicana e a vincere la guerra12. Così anche Juan Garda Duran, per il quale la “formazione mentale” dei militanti della Cnt risultò ’’controproducente” perché contribuì a mantenere dispersa e disarticolata la nebulosa dei comitati rivoluzionari, e perché contem­plava l’agitazione e la lotta di strada, non l’azione disciplinata sul campo di battaglia: “La mia conclusione davanti a questi fatti è che la Cnt, come organizzazione rivoluziona­ria, non seppe né potè, data la sua forma­zione mentale assai primitiva, adattarsi a una tattica contro la quale (per mancanza di una visione d’insieme) eravamo stati da sempre”13.

Più precisamente, i comitati rivoluzionari, se si attribuirono spesso un “potere globale”, al di sopra delle tradizionali distinzioni tra legislati­vo, esecutivo e giudiziario, non seppero coordi­narsi né orizzontalmente né verticalmente: non si tentò mai di giungere a una struttura pirami­dale completa, che riuscisse a superare i livelli locali e regionali fino a un vertice rappresenta­tivo di tutte le istanze intermedie. “A differen­za della Russia tra il febbraio e l’ottobre 1917,

nel caso dei comitati spagnoli non si giunse mai a un congresso regionale o nazionale di comitati o alla istituzionalizzazione di un co­mitato esecutivo centrale. Gli organi regiona­li — il Comitato centrale delle milizie antifa­sciste di Barcellona, il Consiglio di difesa di Aragona, il Comitato esecutivo popolare di Valencia — non erano la cuspide di un “siste­ma” di comitati strutturato e basato sulla re­sponsabilità delle parti, bensì sorsero dal compromesso tra interessi sociali diversi e per accordo degli organismi superiori di decisio­ne delle organizzazioni partecipanti senza consultazione delle rispettive basi”14. Il che si­gnifica dire che non solo non si riuscì mai a sta­bilire un rapporto di tipo federativo tra comita­ti e poteri locali, che andasse nella direzione di una società post-rivoluzionaria secondo le con­cezioni proprie del movimento libertario (e questo per le resistenze negli organismi locali di fronte a ogni influenza esterna, vista come in­trusione), ma che nemmeno fu possibile garan­tire le trasformazioni economiche e sociali nella stabilità di un nuovo ordine politico­militare capace di fare fronte alle esigenze im­mediate della guerra.

Come è noto, il movimento libertario optò fin dall’inizio per la posizione di mantenimento dello Stato come organismo “tecnico” e “neu­trale”, di ratifica dei mutamenti intervenuti e di rappresentanza sul piano internazionale. Solu­zione quasi imposta, che non evitò le perma­nenti lacerazioni interne e la scomposizione tra gli ortodossi della anarchia, i rinnovatori radi­cali e spregiudicati alla Martinez Prieto, gli oscillanti fra fedeltà ai principi e esigenze di rinnovamento alla Abad de Santillàn. La ce­lebre formula usata da Juan Garcia Oliver il 20 luglio 1936, “comuniSmo libertario, che è

12 César M. Lorenzo, Les anarchistes espagnols et le pouvoir, Paris, Seuil, 1969, pp. 235-236.13 El movimiento libertario espanol. Pasado, presentey fu turo , Paris, Ruedo ibèrico, 1974, p. 195.14 Walther L. Bernecker, Anarchismus und Bürgerkrieg. Zur Geschichte der sozialen Revolution in Spanien, 1936- 1939, Hamburg, 1978. Trad, cast.: Colectividades y revolución social. El anarquismo en la guerra civil espanola, Bar­celona, Grijalbo, 1982, p. 410.

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uguale a dittatura anarchica, oppure demo­crazia, che significa collaborazione”15, pone­va una scelta apparente, proprio perché veni­va posta. La “impossibilità” della rivoluzio­ne anarchica, in Catalogna, veniva dalla con­statazione che il comuniSmo libertario pote­va essere instaurato solo da una dittatura co­munista libertaria contro gli altri gruppi anti­fascisti il che comportava: la volontà di co­struire un apparato repressivo capace di re­spingere qualsiasi opposizione, annientando al tempo stesso ogni possibilità di costruire quel tipo di comuniSmo; la capacità di svolge­re una simile operazione disponendo di un apparato organizzativo e di una militanza — quella della Cnt e della Fai — a dir poco ina­datte a qualsiasi attività accentrata e gerar- chizzata; la possibilità di dare inizio a una lot­ta su due fronti, assimilando implicitamente “fascisti” e “antifascisti”16. Nessuna delle tre condizioni, credo, fu mai seriamente conside­rata. Non restava che una via praticabile, rac­cordo con la Generalitat, l’entrata nel Comi­tato delle milizie e l’accettazione della perma­nenza dello Stato, nella illusione che lo si po­tesse confinare a un ruolo di rappresentanza.

Il dramma dell’anarchismo spagnolo sta in questo cerchio di impossibilità, che ne fisserà ilimiti. “[La collaborazione] era l’espressione di una forte corrente “revisionista” in seno al­la Cnt; determinò per mesi il corso della guer­ra e della rivoluzione in Catalogna e, al tempo stesso, mise in evidenza la mancanza di conce­zioni strategiche degli anarchici. In ultima istanza, fu una confessione, quella che le idee anarchiche anteriori sulla transizione dal capi­talismo al comuniSmo libertario non potevano semplicemente essere messe in pratica. Per la prima volta nella loro storia, il 21 luglio la Cnt e la Fai si aggiogarono al carro del compro­messo con le forze politiche di Catalogna”17.

“L’entrata nel Comitato delle milizie si­gnificò per gli anarchici non solo una rottura con la loro tradizione di antipoliticismo radi­cale, ma anche con i loro principi di demo­crazia diretta. I membri anarchici del Comi­tato non erano stati eletti; la decisione di par­tecipare e la designazione dei delegati furono opera del più alto livello senza consultazione con la base. Con ciò, la Cnt e la Fai intra­prendevano un cammino che sarà loro dop­piamente fatale: la collaborazione con i par­titi politici e la partecipazione governativa temporanea che ne risultò diminuiranno la loro figura di ‘rappresentanti della alternati­va totale’ senza dar loro in cambio nessun vantaggio degno di nota. Inoltre, questo por­tò, in seno alla Cnt e alla Fai, alla forma­zione di gerarchie e all’allontanamento de­gli organismi superiori di decisione dalla ba­se degli affiliati. E questo significò, come conseguenza della ‘burocratizzazione’ che compiva i primi passi, l’inizio della fine del­la dottrina organizzativa basata sulla demo­crazia diretta difesa dall’anarchismo spa­gnolo”18.

La partecipazione della Cnt al governo Largo Caballero non fu quindi atto improv­viso e imprevisto, ma 1’“ultimo gradino di una lenta scalata” la “consacrazione di una collaborazione crescente” che, dal piccolo comitato di villaggio ai comitati-governo di Catalogna, delle Asturie, di Aragona e di Malaga, “aveva operato un mutamento pro­fondo nella psicologia dei militanti, disgre­gato il dogma e liquefatto le regole, i principi e le tattiche dell’anarchismo”. “La parteci­pazione cominciò in realtà fin dal momento in cui gli uomini della Cnt si lanciarono nella lotta contro i ribelli senza altro scopo che quello di sbarrare la strada al fascismo e sen­za un piano rivoluzionario premeditato: il re­

15 D ejulioajulio. Un aho de lucha, Barcelona, 1937, p. 195.16 C.M. Lorenzo, Les anarchistes espagnols, cit., pp. 236-237.17 W.L. Bernecker, Colectividades, cit., p. 386.18 W.L. Bernecker, Colectividades, cit., p. 396.

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sto non fu che il seguito logico di questo im­pegno iniziale posto sotto il segno della improvvisazione”19.

In questo quadro, il declino dall’anarco- sindacalismo nel corso della guerra non viene fatto dipendere, come in precedenza, soltan­to da ragioni “esogene”20, come l’azione del governo centrale e in minor misura anche di quello catalano, l’andamento della guerra, la dipendenza della Repubblica dall’Urss e l’in­fluenza del Pce, l’ostilità dei gruppi del Fron­te popolare. Semmai il progredire di queste cause andrebbe via via valutato in relazione alla incidenza delle contraddizioni “endoge­ne”; il che contribuirebbe probabilmente a chiarire luoghi rimasti opachi o inesplorati; per esempio, il ruolo della sinistra socialista e della Ugt nei primi dieci mesi del conflitto21.

È stato scritto che l’andamento della guer­ra fu in larga misura influenzato dal conflit­to interno al Psoe tra l’ala di Largo Caballe­ro e il gruppo centrista di Prieto, conflitto acuito anziché composto dalla lotta contro il nemico comune. Non si tratta ovviamente di una vicenda personale, ma di un diverso at­teggiamento di fronte agli scopi di guerra e alla riorganizzazione dello Stato repubblica­no. Prieto aveva puntato fin dal 1935 sulla ripresa della alleanza tra socialisti e repubbli­cani (unica possibilità di ritorno alla politica riformista del primo biennio repubblicano) ed era stato con Manuel Azana il costruttore del cartello elettorale del gennaio 1936, al quale avevano aderito le altre organizzazioni operaie. Dopo le giornate di luglio la sua vi­sione delle cose non era nella sostanza mutata; diffidava non solo della verbosità rivoluziona­ria, ma anche delle capacità costruttive di mo­vimenti popolari scomposti; il suo obiettivo era

la concentrazione del potere civile e militare nelle mani di un governo regolare; quindi mi­rava al ristabilimento dell’ordine repubblica­no nelle retrovie per poter condurre efficace­mente la guerra contro la fazione insorta.

Largo Caballero, che dalla fine del 1933 era andato raccogliendo intorno a sé le fazio­ni “rivoluzionarie” del Psoe e della Ugt, ave­va aderito alla coalizione elettorale per ragio­ni tattiche, convinto che le elezioni servissero unicamente a consentire la consumazione dell’ultima fase del governo repubblica- no-borghese, e quindi l’inizio della transizio­ne a un regime operaio. Nell’agosto 1936 i giornali della sinistra socialista cercarono di elaborare una concezione della rivoluzione spagnola sulla base delle trasformazioni che stavano avvenendo nel paese, con un nuovo governo rivoluzionario, una unione federale delle varie zone in lotta e un nuovo comando militare unificato, ma organizzato in un nuo­vo ordine che riconoscesse la realtà dei repar­ti miliziani e evitasse restaurazioni burocrati­che con disciplina imposta dall’alto. Ma quando, il 4 settembre, si formò il governo di coalizione presieduto da Largo Caballero, nella sua dichiarazione d’intenti scomparve ogni accenno alla rivoluzione spagnola: tutti gli scopi del governo erano subordinati alla necessità di vincere la guerra, ogni questione di ordine politico era rinviata per l’esigenza dell’unità degli sforzi. Con questo la sinistra socialista si allineava sulle posizioni di Prie­to, dei partiti repubblicani e del Pce, favore­voli alla ricostituzione degli apparati dello Stato repubblicano e alla formazione di un nuovo esercito? O si trattava soltanto di un adattamento momentaneo, reso necessario dalla gravità dei rovesci militari? E se Largo

19 C.M. Lorenzo, Les anarchistes espagnols, cit., p. 220.20 W.L. Bernecker, Colectividades, cit., pp. 441-442.21 Non esiste uno studio della sinistra socialista dopo il luglio 1936. Sul socialismo in generale durante la guerra civi­le si veda il recente saggio di M. Tunón de Lara in: Santos Julia (a cura di), El socialismo en Espaha, Madrid, Funda- ción Pablo Iglesias, 1986.

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Caballero rappresentava la frazione sociali­sta favorevole a un esercito di milizie22, per­ché i rapporti con la Cnt raramente uscirono dalla vecchia atmosfera di reciproco sospet­to? Anche in questo caso il peso della tradi­zione era tale, tanto tra i sindacalisti che tra gli anarcosindacalisti, da precludere qualsia­si possibilità di intesa?

L’impressione è che la sinistra socialista e il suo leader oscillassero tra una incerta vi­sione di rivoluzione sociale e la volontà di dare del governo una immagine autorevole, obiettivi difficilmente compatibili nella Spa­gna della fine 1936. Il nuovo governo riuscì a riformare le forze di polizia e l’apparato giudiziario, diede inizio alla rifondazione dell’esercito, ottenne successi in campo mili­tare, ma non seppe allargare le basi politiche della sua influenza. Personalmente Largo Caballero finì per andare incontro a un rapi­do declino, probabilmente perché mirò a una posizione di equidistanza al di sopra delle parti che alla lunga non riuscì a regge­re: diventò, agli occhi degli anarcosindacali­sti, il rappresentante della vecchia burocra­zia ministeriale, compartecipe della politica di statalizzazione difesa da comunisti, socia­listi prietisti e repubblicani borghesi; mentre costoro vedevano di lui principalmente la prudenza nell’attaccare la nebulosa dei co­mitati e il regionalismo delle forze armate. Ancora nel maggio 1937 il governo non era riuscito a riprendersi il potere di coordinare le azioni militari; i diversi fronti di guerra ri­spondevano a criteri autonomi di decisione e di operazione. Così agivano, secondo scelte proprie e locali, le colonne aragonesi, il go­verno basco, i consigli delle Asturie e di San­tander, la Generalitat catalana23. Sulla passi­vità di Largo Caballero, particolarmente nei

confronti della “ribellione e insubordinazio­ne” del governo catalano, della “usurpazio­ne” dei poteri dello Stato, scriveva il presi­dente Azana (rappresentativo del gruppo di forze a tendenza “statalista”) di considerare i politici della Generalitat responsabili di uti­lizzare la guerra con lo scopo preminente di consolidare le posizioni politiche della na­zione catalana.

Per esempio, la spedizione contro Maior­ca dell’agosto 1936 era stata decisa, secondo il presidente della Repubblica, per la “tarta- rinesca vanità, petulanza e ambizione” dei catalinisti, che volevano costruire la “grande Catalogna” con l’Aragona e le Baleari: il “programma di Jaime il Conquistatore” e il “più enorme esempio” della “guerra provin­ciale e locale” che la Repubblica stava su­bendo24.

Stupisce quindi che, data la complessità della situazione politico-militare e la portata dei problemi pendenti, si sia potuta ridurre la crisi del governo Largo Caballero a una manovra del Pce, mosso dalla volontà di in­frangere il principale ostacolo ai suoi piani di egemonia nelle forze armate. È quanto fa ancora invece il recente Historical Dictiona­ry o f the Spanish Civil War25, che sembra troppo spesso subire l’influenza di una sto­riografia dalle impostazioni un po’ somma­rie e sbrigative, e che dimentica tra l’al­tro che la crisi di governo del maggio 1937 fu determinata, oltre che dai comunisti, dai repubblicani borghesi e dai socialisti di Prieto.

Anche la contrapposizione schematica tra sostenitori della priorità dello sforzo bellico e gruppi rivoluzionari sembra poco precisa. Nel luglio 1936, il Pce si presentava come di­fensore della “repubblica democratica” ; a

22 Aa.Vv., La guerra civil espanola, cit.,p.261.23 Aa.Vv., La guerra civil espanola, cit., p. 263.24 M. Azana, Obrascomplétas, cit., vol. IV, pp. 798 e 777-778.25 A cura di James W. Cortada, London, Greenwood Press, 1982, pp. 289-291.

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partire dal marzo 1937 cominciò a parlare di “repubblica democratica parlamentare di nuovo tipo, con un profondo contenuto so­ciale”. La reale portata di questa proposta ri­mase vaga, dato l’esito della guerra. Si può pensare che i comunisti riconoscessero ele­menti di irreversibilità nelle trasformazioni operate nell’estate 1936. Come scrive Ronald Fraser: “La lotta reale... non verteva intorno alle collettivizzazioni per sé — il Pce non si opponeva ai collettivi volontari di produzio­ne — bensì intorno al controllo politico della rivoluzione”26. Nello stesso senso vanno le testimonianze di comunisti raccolte dal me­desimo Fraser: “Il vero problema, secondo lui, non stava nel fatto che un settore fosse impegnato nel fare la rivoluzione e l’altro nel dedicare ogni sforzo alla guerra. Il vero pro­blema era come fare la rivoluzione, che tipo di rivoluzione doveva essere”27. Questo si­gnifica forse dire che la politica comunista andava, non nel senso della distruzione della “rivoluzione” , bensì nella integrazione di questa nell’ambito del “profondo contenuto sociale” della Repubblica di nuovo tipo? Questa politica di integrazione si collocava poi nel quadro del rafforzamento dell’auto­rità centrale del nuovo Stato. Ma con quale obiettivo finale? La risposta di Bolloten è che la manovra “sottile” del Pce consistesse nell’approntare dietro una sovrastruttura de­mocratica accentrata dietro la quale fosse possibile allo stesso partito controllare le principali leve di potere dello Stato28.' Secon­do Manuel Tagiiena Lacorte, tutta la politica del Pce (accentramento dei poteri, esercito regolare, comando unico, rigida economia di guerra, ordine e disciplina) era diretta a pre­

parare la seconda tappa del piano. “Fino al­l’ultimo giorno di guerra, i comunisti non si proposero di mettersi al posto del governo, e tutto il loro lavoro fu orientato a supplire, molte volte nell’ombra, le carenze che il go­verno manifestava. Poiché non si conseguì la vittoria, non vi fu l’opportunità di passare all’inevitabile seconda tappa della politica stalinista dèi fronte popolare, l’eliminazione dei partiti alleati e la presa del potere”29. Non diverse sembrano le considerazioni di Edward Hallet Carr, forse non definitive e pubblicate postume da Tamara Deutsch: il Pce come lucido strumento della volontà sovietica, che dietro la facciata del fronte popolare se­condo una rigorosa pianificazione dei movi­menti, “avanza inesorabilmente verso il completo controllo dei supremi organi del governo spagnolo, che divenne, come i suoi nemici lo definirono, il fantoccio di Mosca”30.

La tesi ha probabilmente il difetto di uni­formare concezioni diverse, e diverse moda­lità di applicazione, della politica di fronte popolare, quelle che si elaborarono e pratica­rono rispettivamente prima e dopo la secon­da guerra mondiale, in un quadro internazio­nale completamente mutato. Se tale politica, come appare indubitabile, obbedì, prima e dopo, alle esigenze della politica estera sovie­tica, si deve riconoscere che è assai improba­bile che il gruppo dirigente moscovita, teso come fu, almeno fino alla fine del 1938, a tranquillizzare, quando non a compiacere, i governi francese e britannico, fosse disposto a mettere in pericolo anche soltanto le possi­bilità di una intesa vitale, quella antinazista, per trasformare la Spagna in una “democra­zia popolare” .

26 Broué, Fraser, Vilar, Metodologia, cit., p. 119.27 Ronald Fraser, Recuérdalo tu y recuérdalo a otros, Barcelona, Grijalbo, 1979, II, p. 31.28 Historical Dictionary, cit.,p . 134.29 Manuel Tagiiena Lacorte, Testimonio de dosguerras, Barcelona, Pianeta, 1978, pp. 92-94. Prima edizione: Méxi­co, Oasis, 1973. Così anche: Julian Gorkin: Espaha, primer ensayo de democraciapopular, Buenos Aires, Associa­tion Argentina por la Libertad de la cultura, 1961.30 Edward H. Carr, The Comintern and the Spanish Civil War, London, Macmillan, 1984.

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Sono da aggiungere poi i rapporti di forza interni e il progressivo declino di popolarità del Pce nel 1938, dovuto principalmente a due ordini di ragioni: da una parte, il suo essere e apparire come tenacemente risoluto alla guer­ra a oltranza, e quindi l’essere fatto responsa­bile delle miserie della Repubblica quando or­mai si era fatta strada una generale rassegna­zione alla sconfitta; dall’altra, la sistematica politica di noyautage praticata dai comunisti negli organismi statali, tra le forze armate, nei centri di potere in generale, finì per farli appa­rire a tutti come una minaccia e per sviluppare un po’ dovunque un “anticomunismo feroce”. La considerazione diffusa era: “Si sta facendo la guerra per la libertà della Spagna, non per una vittoria che metta il paese nelle mani dei comunisti”31. Questo, in definitiva, rendeva impossibile qualsiasi politica unitaria che non fosse congiunturale. Non soltanto non veniva saldata la divisione tradizionale del movimento operaio spagnolo, ma si indeboliva la stessa po­litica di unità antifascista predicata dai comuni­sti a partire dal 1934. Diversamente dal modello francese, non si diede mai il caso, nella vicenda del Fronte popolare spagnolo, di un patto tra forze operaie che non si rivelasse poi un abra- zo de Vergara o una mera dichiarazione di in­tenti. Si è a lungo ripetuto che la caduta del governo Largo Caballero coincise con la fine della “rivoluzione” e la progressiva restau­razione dell’autorità centrale, ossia con la vit­toria dei comunisti e con il predominio di questo partito appoggiato dal nuovo presi­dente del Consiglio, Juan Negrln. “Il fatto che Negrin seguisse la linea comunista — scrive PHistorical Dictionary — è illustrato non soltanto dalla nomina di comunisti alla posizione chiave, ma anche dall’avere egli aderito religiosamente alla politica di resi­

stenza di Stalin, predicata nella convinzione che la Gran Bretagna e la Francia sarebbero state costrette alla fine a intervenire in difesa dei loro interessi”32. Che Negrin sia stato fino alla fine il campione della resistenza a oltran­za, è fuor di dubbio; meno certe invece le as­serzioni sul predominio politico e sul regime costruito, o in costruzione, nella Spagna re­pubblicana dopo il maggio 1937. Sembra in­fatti sempre meno sostenibile la tesi di una egemonia comunista incontrastata, al riparo di un governo fantoccio. Pierre Vilar, che giu­stamente lamenta la mancanza di studi critici sull’argomento e la persistenza degli stereotipi, vede nel periodo dei governi Negrin non una dittatura di partito, né tanto meno una dittatu­ra del proletariato, ma una “dittatura di guerra, giacobina”33, il che richiama alla memoria un classico dimenticato, Espagne, creuset politi­que di Henry M. Pachter.

Pachter aveva già notato, nel 1938, che nella Spagna dell’estate 1936, in luogo di un ordine rivoluzionario, vi era stata semplicemente una mancanza di ordine34 e che illusione era stata quella degli anarchici di poter utilizzare l’in­volucro vuoto del vecchio Stato senza perdere il controllo delle trasformazioni reali dell’eco­nomia e della società e senza creare un appa­rato di potere specifico. Questo vuoto doveva essere inevitabilmente occupato da chi orga­nizzava la nazione per la guerra, e il tipo di oc­cupazione era inevitabilmente correlato alla forma di quella organizzazione.

“La guerra civile degenerava in conflitto in­ternazionale, il fattore militare prevaleva sul fattore politico e sociale, l’organizzazione del­la nazione rimpiazzava la rivoluzione... I gia­cobini del 1793 offrirono una nuova concezio­ne di esercito e di amministrazione; in Spa­gna, centocinquanta anni dopo, le classi più

31 R. Fraser, Recuérdalo..., cit., II, pp. 41-42.32 Historical Dictionary, cit., p. 361.33 Broué, Fraser, Vilar, Metodologia, cit., p. 89.34 Henri Rabasseire (Henry M. Pachter), Espagne, creuset politique, Paris, Fustier, 1938. Trad, cast.: Espaha, crisolpo­litico, Buenos Aires, Proyección, 1966, p. 118.

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avanzate dal punto di vista sociale erano anti­centraliste e toccò ai termidoriani riprendere l’opera dei giacobini... Per una lotta naziona­le si richiedeva uno Stato nazionale e un eser­cito regolare. Sotto la direzione della sua for­za armata popolare e delle sue organizzazio­ni, la Spagna creò un organismo nazionale. L’organizzazione giacobina finiva di forgiare quella che si conosce come nazione moderna. Il popolo spagnolo, per secoli indifferente nei confronti dello Stato, per la prima volta do­vette identificarsi con il suo governo. Tale ri­voluzione ideologica e organica portò il po­polo spagnolo a varcare la soglia dei tempi moderni e lo mise al passo con le altre nazio­ni; non si trattava certamente della rivoluzio­ne sognata, e fino a un certo punto si potreb­be dire che era incompatibile con questa. La nazione spagnola fu tragicamente strappata ai suoi sogni e risvegliata in circostanze con­traddittorie: non vi era nessuna relazione tra ciò che voleva essere e quello che doveva esse­re... In effetti, non aveva realizzato la rivolu­zione sociale, e per questo le si impose la ri­voluzione democratica e nazionale... I sinda­cati e i federalisti non erano riusciti a creare, partendo dal basso, i desiderati organismi di coordinamento; i giacobini e i commissari avevano organizzato unicamente i settori da essi dominati, e i numerosi aspiranti giacobi­ni in continua rivalità giunsero, ancora meno dei federalisti, a un accordo rispetto alla que­stione del centralismo. Il vuoto che esisteva nella organizzazione nazionale fu quindi riempito dalla vecchia burocrazia, dai rappre­sentanti dello Stato fossile, dagli uomini di ieri; in sintesi, da quelli che a Madrid e a Bar­cellona chiamavano gli uomini di Valencia”35.

Quello di Pachter era già un invito a non esaurire la storia della Repubblica durante la

guerra civile entro lo schema di una lotta tra il potere legale, democratico-borghese, e il potere rivoluzionario popolare36. Al di là delle visioni rivoluzionarie, la guerra metteva a nudo la realtà sociale del paese, che quelle visioni aveva contribuito ad alimentare. Nel momento in cui entrava in liquidazione, il vecchio apparato statale rivelava la sua vera natura, che neanche la Repubblica dopo il 1931 era riuscita a modificare: una sovrappo­sizione centralistica, burocratica e militare, su un corpo atomizzato e disorganico, forma­to di parti insolidali. Questa frantumazione sociale e geografica, che non poco aveva con­tribuito al fallimento immediato della ribel­lione militare, diventava la debolezza più gra­ve non appena la lotta di strada dava inizio a una guerra. I libertari non potevano mettere fine al particolarismo, che era in loro parte es­senziale, perché su di esso erano fino a quel momento vissuti. È noto, per esempio, come le colonne miliziane difficilmente si dessero un raggio di azione più vasto di quello com­prendente la difesa della propria organizza­zione, della propria città o provincia. Non diversamente agivano i regionalismi; quan­do, nell’estate 1937, il governo repubblicano cominciò a cercare di ridurre le prerogative della Generalitat nei limiti dello statuto del 1932, il presidente Azana così riassunse le reazioni di uno degli esponenti politici del ca- talanismo: “Il governo della Repubblica, che mostra in tutto una condotta vacillante, de­bole, disorientata, è fermo e pare sapere do­ve va solo quando si tratta della Catalogna. L’unico elemento agglutinante l’attuale go­verno è la sua politica catalana... la Catalo­gna si troverà alla fine della guerra privata del suo regime. Così, i giovani catalani che stan­no al fronte non sanno perché si battono”37.

35 Ivi, pp. 199-201.36 Che è poi ancora lo schema di Joan Estruch, Historia del Pce, I, (1920-1939), Barcelona, El Viejo Topo, 1978, p. 95.37 M. Azana, Obrascomplétas, cit., vol. IV, p. 790.

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Il “giacobinismo” del regime di Negrin (non solo dei comunisti e dei socialisti mode­rati) diventava quindi una ripresa, in bello, della politica tentata da Azana nel 1931-32, l’integrazione di società e Stato e la forma­zione di un centro di autorità, riconosciuto dalla nazione, al di sopra e contro il libertari­smo e il regionalismo centrifugo. Un regime di accentramento democratico che si trovava ad affrontare problemi non dissimili da quel­li delle retrovie franchiste, dove era in atto un accentramento restauratore delle forme di dominazione sociale anteriori al 1931. Alla fine della guerra, nessuno dei due processi paralleli e contrari aveva raggiunto risultati definitivi. Nella Spagna franchista, anche se non vi erano dubbi sugli obiettivi sociali del­la ribellione, mancava un modello politico alternativo alla Repubblica unanimemente accettato; non vi era una forza politica ege­mone, si ripiegò quindi sulla formazione di un potere militare esclusivo38. Nella Spagna repubblicana, se non si accetta la versione tradizionale dell’egemonia comunista, resta­va tutto da definire, almeno all’interno del quadro giacobino.

Su questo punto, la vecchia interpretazio­ne del dinamismo e della aggressività del Pce contro lo stato di impotenza e di progressiva disgregazione delle altre forze del campo re- pubblicano dopo il maggio 1937, è quasi ro­vesciata da Fernando Claudin, che vede inve­ce il dinamismo comunista costretto dalla politica frontista ad agire in funzione degli obiettivi di restaurazione altrui.

Per il Pce, soltanto dopo la vittoria la stra­da sarebbe stata aperta alla rivoluzione so­cialista, ma per vincere la guerra bisognava mantenere l’alleanza antifascista, nazionale e internazionale. E il ruolo degli “alleati” fu,

per Claudin, “molto più importante” di quello generalmente loro attribuito. Azana e Prieto erano per la restaurazione della Re­pubblica, ma non intendevano vincere la guerra in condizioni tali da dover riconoscere il predominio del Pce. L’obiettivo di Azana, come mostrerebbero “con assoluta chiarez­za” le sue memorie, era la restaurazione della Repubblica del 14 aprile, e la sua tattica “ser­virsi in una prima fase del Partito comunista come diga al caballerismo e all’anarconsin- dacalismo, per poi, in una seconda fase, ri­durre all’impotenza il Pc” . “Analoga”, per Claudin, la linea di Prieto e Negrin: le stesse memorie mettono in evidenza la “stretta col­laborazione” Azana-Prieto-Negrin nella se­conda fase della guerra39. Il secondo punto cardinale di questo programma, oltre alla salvezza della Repubblica, doveva essere una pace negoziata con i ribelli e garantita dalle potenze. “Ho ricapitolato i miei vecchi punti di vista: Pace-Repubblica-Patto di garanzia in base al quale in Spagna non vi sarà ditta­tura né bolscevismo. Conservando le istitu­zioni repubblicane, per quanto riguarda l’es­senziale, sono possibili molte concessioni”40.

Questa impostazione capovolge anche la ricostruzione tradizionale della crisi del go­verno Largo Caballero. Non più l’attacco dei comunisti contro un premier che “costituiva una minaccia per i loro disegni”, in pratica il controllo dell’apparato militare41, bensì una operazione condotta da comunisti, repubbli­cani e prietisti, ma con il “proposito dei re- pubblicani e dei riformisti del partito sociali­sta di far apparire i comunisti come i respon­sabili della eliminazione di Largo Caballe­ro”. Questi aveva infatti posto come condi­zione per la riassunzione della Presidenza an­che il reincarico al ministero della Difesa.

38 Aa.Vv., La guerra civil espahola, cit., p. 48.39 Fernando Claudin, La crisis del movimiento comunista, Paris, Ruedo ibèrico, 1970, p. 184.40 M. Azana, Obrascomplétas, cit., vol. IV, p. 761.41 Historical Dictionary, cit., pp. 135-136.

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Socialisti e repubblicani non erano d’accor­do, ma “accettarono a condizione che ac­cettassero i comunisti” . 1 comunisti non si piegarono a Largo Caballero, ma non si op­posero poi a che il ministero della Dife­sa fosse occupato da Prieto, già allora sul­le posizioni del presidente della Repubbli­ca. “Azana e Prieto sapevano che questa li­nea coincideva con quella del governo so­vietico e che per questo non rischiavano molto accettando le esigenze di Caballero: i comunisti non si sarebbero piegati a transa­zioni”42.

Ottenuto questo primo successo, la “troi­ka” Azana-Prieto-Negrin si orientò verso la progressiva riduzione delle posizioni di forza costruite dai comunisti nella amministrazio­ne dello Stato, nell’esercito, nei centri di po­tere locali. Persino Dolores Ibàrurri credette di cogliere nei socialisti una “tendenza alla dittatura”43. “Se il Pce aveva rinviato ogni idea di dittatura del proletariato... i riformi­sti — in stretta alleanza con i repubblicani — non avevano rinunciato a restaurare la ditta­tura della borghesia”44.

Anche la crisi ministeriale dell’aprile 1938 e le dimissioni di Prieto non mutarono l’o­rientamento di fondo del piano Azana, per il quale era necessario “resistere”, non “vince­re”, ma si dovettero principalmente al diver­gere delle valutazioni: “mentre Azana e Prie­to consideravano la guerra ormai perduta (i franchisti stavano sfondando il fronte meri­dionale e isolando la Catalogna dal resto del territorio della Repubblica), Negrin pensava alla possibilità di prolungare la resistenza fi­no a innestare il conflitto spagnolo sulla in­combente guerra europea”45.

Quindi, non più un ministro della Difesa vittima dei comunisti e della loro asfissiante presenza nelle forze armate46, ma, al contra­rio, scarsa attenzione di Claudin a quest’ul­timo aspetto della azione comunista, proba­bilmente per la stessa ragione per la quale i molti elementi originali del suo lavoro sem­brano talvolta un po’ forzosamente inqua­drati in quello che ne costituisce il supporto generale, cioè la critica della strategia dei fronti popolari, come di una trappola che aveva fatto il Pce prigioniero dei suoi suc­cessi. L’alleanza antifascista e la presenza sovietica avevano portato, per la prima vol­ta nella sua storia, il Pce a raggiungere il li­vello di forza politica nazionale, e quindi al­la possibilità di aprire alla sua influenza tut­ta una serie di settori della società civile e e militare spagnola; ma la necessità della poli­tica estera sovietica e dell’antifascismo ren­devano impotente l’influenza acquisita e fre­navano il partito davanti a una rivoluzione che nel progetto comunista internazionale del tempo si era presentata subito come “inop­portuna”.

Talune delle interpretazioni di Claudin, ap­parse anni fa come paradossali, sembrano confermate dalle relazioni inviate da Togliatti, tra il 1937 e il 1939, alla direzione del Comin­tern e pubblicate nel 197947, relazioni che, più in generale, dovrebbero considerarsi come una occasione per un riesame di molte certezze.

Da esse si ricava innanzitutto l’immagine di un partito comunista tendente, in alcune sue manifestazioni settarie, a considerarsi vi­cino al potere totale, e, nello stesso tempo, costantemente circondato da opposizioni te­mibili che lo riconducono, in più di una oc-

42 F. Claudin, La crisis del movimiento comunista, cit., pp. 611-612.43 M. Azana, Obrascomplétas, cit., vol. IV, p. 819.44 F. Claudin, La crisis del movimiento comunista, cit., p. 612.45 F. Claudin, La crisis del movimiento comunista, cit., p. 612.46 indalecio Prieto, Còrno y por qué sali del Ministero de Defensa Nacional, Paris, Imprimerie Nouvelle, 1939 e Epistolario Prieto-Negrìn. Puntos de vista sobre el desarrollo y consecuencias de la guerra civil espanola, Paris, Im­primerie Nouvelle, 1939.47 Paimiro Togliatti, Opere, IV, I, Roma, Editori Riuniti, 1979.

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casione, su posizioni francamente difensi­ve48. Si ricava inoltre l’impressione di partito lontano dalle immagini consuete del monoli­tismo comunista. È, per esempio, considera­ta “molto pericolosa” la situazione esistente tra i quadri comunisti dell’esercito, che “non sentono l’autorità del Cc” e non evitano una “inammissibile lotta fra loro, che mina la di­sciplina, l’autocontrollo, ecc.”49. Poi, le reti massoniche, che la direzione del Pce non è in grado di contrastare. “Ci sono molti massoni all’interno del partito e mi accorgo che sono massoni prima che comunisti. I funzionari di polizia comunisti e massoni, prima delle riu­nioni di partito, tengono le loro riunioni di frazione. Fatti simili mi vengono segnala­ti anche nell’esercito”50. (Ma in questo caso la prudenza è sicuramente d’obbligo, visto che Togliatti, giusto lo spirito del tempo, tende spesso ad accoppiare trotskismo e mas­soneria come potenze del male e del tradi­mento).

Un altro elemento che il “consigliere” del Comintern deve costantemente cercare di con­trollare è il settarismo sempre riaffiorante nel partito, settarismo che dà a molti le “ver­tigini” e, per esempio, la convinzione che il successo su Largo Caballero, nel maggio 1937, dipendesse esclusivamente dai comunisti, “dimenticando che i centristi, Prieto, aveva­no giocato un ruolo molto importante sia nella preparazione che nella soluzione della crisi” . Queste valutazioni trionfalistiche ave­vano fatto emergere opinioni erronee e peri­colose: che gli anarchici avessero “perduto tutta la loro influenza” e che il partito potes­se ormai “porre la questione della sua ege­

monia e lottare appartamente per questa ege­monia nel governo e nel paese”51.

Al contrario, le difficoltà contro le quali il partito si era battuto durante il governo Lar­go Caballero avevano assunto, secondo To­gliatti, una “forma nuova” ed erano rimaste “egualmente acute”; da un certo punto di vi­sta la situazione era “ancor più pericolosa di prima”. E questo per la formazione di un blocco di opposizione (comprendente cabal- leristi, trotskisti, anarchici) che manteneva legami con repubblicani e “probabilmente” con il governo Negrin. Il blocco concentrava i suoi attacchi contro i comunisti appoggian­dosi alle centrali sindacali, che di fatto diri­gevano “se non tutta, per lo meno quasi tutta l’economia del paese”52. Nel settembre 1937 Largo Caballero manteneva nel sindacato “posizioni molto importanti”53. Ancora alla fine del gennaio 1938: “L’Esquerra conserva una influenza molto grande fra le masse, concentra nelle sue mani l’enorme maggio­ranza delle amministrazioni locali. La Cnt è ancora molto forte, influenza in modo deci­sivo la maggioranza del proletariato della ca­pitale. Anche il Poum rimane forte e svolge nelle fabbriche un lavoro di scavo molto pe­ricoloso”54.

Quanto ai rapporti con il governo Negrin, si parla di “isolamento” dei ministri comuni­sti55 e di sorde inerzie e resistenze alle propo­ste e alle pressioni del Pce. Nella relazione del 21-22 aprile 1938 si scrive: “Da novembre il partito pone il problema di correggere la politica militare del governo. Senza risultati pratici... le conversazioni con Prieto, che si svolgono in tono sempre amichevole, non ar-

48 Vedasi per esempio la relazione datata 15 settembre 1937.49 P. Togliatti, Opere, cit., p. 278.50 P. Togliatti, Opere, cit., p. 286.51 P. Togliatti, Opere, cit., pp. 267-268.52 P. Togliatti, Opere, cit., pp. 261-262.53 P. Togliatti, Opere, cit., p. 276.54 P. Togliatti, Opere, cit., p. 306.55 P. Togliatti, Opere, cit., pp. 287-288.

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rivano ad alcun risultato. Le conversazioni con Negrin hanno per risultato delle promes­se. Negrin riconosce che noi abbiamo ragio­ne, ma non cambia nulla. Il consiglio di guerra non funziona. Il partito cerca di cam­biare la situazione con la sua azione indipen­dente, ma riesce a farlo solo in misura limita­tissima, urtando contro l’indifferenza e l’o­stilità generali degli organi del ministero del­la Difesa”56.

Oltre alle resistenze vengono dal gover­no anche atti che sembrano di ostilità, come la dichiarazione contro la campagna di stam­pa antisovietica, formulata in modo tale da “suggerire subito l’idea che il governo l’a­vesse fatta solo cedendo a una qualche pres­sione!”57; o il risultato “scandaloso” del processo al Poum, terminato “senza alcu­na condanna seria” per l’azione “nefasta” del ministro della Giustizia, il socialista Gonzàlez Pena, “caduto sotto l’influenza del trotskismo”58.

Con il presidente della Repubblica “favo­revole al compromesso con i ribelli” e il pre­

sidente del Consiglio, “uomo senza scrupoli” e “destrorso”; con il ministro della Difesa del quale la “sola cosa chiara” era 1’“azione sistematica per ridurre la posizione del parti­to comunista all’interno dell’esercito” , il che aumentava le possibilità di una politica di compromesso59; con la gente di strada che, a Valencia, si congratulava annunciando la pa­ce imminente, con il “disfattismo aperto” a Barcellona60, a partire dalla fine del 1937 il Pce sembra più impegnato in una logorante resistenza interna contro i fautori di una pa­ce negoziata e ridotto alla costante ricerca di mutevoli alleati, tra confabulazioni di perso­ne e di gruppi, che non lucidamente impe­gnato ad aprire seconde tappe nel processo rivoluzionario.

Anche se soltanto alcune delle precedenti indicazioni dovessero essere confermate dal­la ricerca storiografica, bisognerebbe rasse­gnarsi ad abbandonare gran parte delle esal­tanti certezze che finora ci hanno sostenuto.

Giorgio Rovida

56 P. Togliatti, Opere, cit., p. 314.57 P. Togliatti, Opere, cit., p. 264.58 P. Togliatti, Opere, cit., p. 286.59 P. Togliatti, Opere, cit., pp. 282-284.60 P. Togliatti, Opere, cit., p. 286.