La decolonizzazione angolana: lotta per l’indipendenza e guerra civile
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Fra guerra civile e lotta di classeIl ‘farsi’ della Resistenza modenese nel febbraio-marzo ’44
di Luciano Casali
Le pagine che seguono sono tratte dal secondo volume della Storia della Resistenza a Modena (sul quale l’autore sta lavorando) e ne costituiscono una prima stesura. Si tratta, in particolare, del capitolo in cui si dà conto del nascere di una ‘coralità resistenziale’ a partire anche da culture e percorsi individuali diversi. Proprio per questo carattere, di una analisi che si propone di esplorare le complesse vie che portarono le classi popolari ad un rifiuto del fascismo prima, alla scelta dell’impegno politico-militare poi, la fonte privilegiata non poteva essere che quella orale. L’autore ha quindi utilizzato una parte delle oltre quattrocento testimonianze da lui raccolte a partire dal 1968, mettendo in evidenza come, nella graduale adesione alla scelta partigiana nella pianura e nelle colline modenesi fra l’inverno 1943 e la primavera 1944, si configurano due poli distinti ma confluenti nel comporre il quadro complessivo: la “guerra civile” e la “lotta di classe”. È evidente infine come l’aver concentrato l’analisi sulla provincia di Modena non sia stata una scelta casuale, dati i caratteri di massa che assunse il fenomeno partigiano in quel territorio al centro della Pianura padana, l’egemonia che vi conquistò la scelta antifascista, la presenza di momenti emblematici per la storia della Resistenza italiana, quali l’eccidio di Monchio, la repubblica di Montefiorino, l’ampia partecipazione popolare e contadina.
Il saggio si presenta quindi utile anche ad un auspicabile dibattito.
The following pages are drawn from the second volume o f The History of the Resistance in Modena (on which the author is working at present) and represent a first draft of, in particular, the chapter in which he examines the birth o f a ‘broad-based’ Resistance, which had its roots in different cultural backgrounds and was founded on different individual choices. Because o f this character o f the Resistance, a clear insight into the complex ways that led the popular classes fir st to refuse Fascism, and then to become involved politically and militarily, can only be attained by the kind o f analysis Casali proposes here, i. e. one that is preferably based on ‘oral’ sources.
For this reason use has been made o f the more than four hundred interviews that have been conducted from 1968 onward. It is shown that as adhesion to the partisan movement in the plains and hills o f the Modena area gradually increased between the winter o f 1943 and the spring o f 1944, two distinct but converging components became significant in the overall picture that was taking shape: the “civil war” and the “class war”.
Finally, the focusing o f the analysis on the province o f Modena is not the result o f a casual choice. This is clear from the mass-character the partisan phenomenon assumed in that region in the middle o f the Po valley, the dominance o f the anti-fascist choice, and the occurence o f events that were symbolic fo r the history o f the Italian Resistance, such as the massacre o f Monchio, the Republic o f Montefiorino and the broad popular and peasant participation.
This essay is therefore intended to offer also a contribution to a possible debate.
Italia contemporanea”, marzo 1990, n. 178
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Comunità montana e ‘guerra civile’
In pianura come in montagna la gente era soprattutto stanca della guerra e per la maggioranza dei modenesi il conflitto era comunque finito l’8 settembre: si trattava di un discorso che veniva considerato chiuso in maniera definitiva. Chi era riuscito a tornare a casa e non era finito nei campi di prigionia tedeschi, aveva ricominciato a lavorare (o stava cercando di reinserirsi nell’attività lavorativa) e voleva restarsene tranquillo. In generale, quindi, e soprattutto dalle parti meno politicizzate della popolazione (e dopo vent’anni di fascismo si trattava della parte più numerosa) il primo e principale nemico non venne individuato negli “occupanti tedeschi” , ma nei fascisti, in coloro cioè che, fin dal loro riapparire, avevano dichiarato quale loro fondamentale scopo ideale il “dovere” di “mantener fede alla parola data”: continuare la guerra al fianco degli “alleati” . E principalmente a tal fine venne ripristinato il controllo politico-sociale attraverso le caserme dei carabinieri-Gnr, si operò con rastrellamenti, intimidazioni ed arresti di massa, si pubblicarono i bandi di chiamata alle armi e si tentò in tutti i modi di farli rispettare. Il nemico immediato, a livello popolare, non poteva apparire che nei fascisti, in coloro cioè che soprattutto si opponevano ai desideri e alle esigenze di massa.
Ma là dove la lotta armata dei ‘ribelli’ nacque all’interno di una attenta e precisa organizzazione, come furono i gappisti della pianura, gli obiettivi militari furono individuati sia nei fascisti che nei tedeschi e si tentò (con
minori o maggiori efficacia e risultati) di colpire immediatamente gli uni e gli altri, come dimostrarono le bombe che furono lanciate a Modena contro l’autorimessa Lancia, la gendarmeria tedesca e l’ufficio di reclutamento della Todt. In montagna, dove prevalsero a lungo l’ideologia dell’autodifesa, sostenuta da numerosi parroci, e la pratica di creare squadre armate decise unicamente a preservare ciascuna la propria comunità, il rifiuto della leva divenne in qualche modo semplice rifiuto dello stato fascista in quanto portatore di scelte non gradite (e non mancò di circolare la proposta di non pagare le tasse): la difesa dei giovani richiamati alle armi assunse più spiccati caratteri di guerra civile, almeno fino a quando, con il marzo 1944, anche i tedeschi non giunsero a condurre i rastrellamenti e quindi ad essere individuati anche loro come nemici. Ma in montagna emergevano puntualmente anche radici ben più antiche e riaffiorava talvolta il ricordo pungente delle violenze perpetrate dagli squadristi venti e più anni prima, soprattutto nelle località minori, dove “ci si conosceva tutti” e dove sembrava che l’olio di ricino e le manganellate del 1920- 1922 avessero lasciato tracce individuali difficilmente cancellabili.
Su questi aspetti le testimonianze non mancano, anche se sembrano voler sfuggire a più precise connotazioni. Solo Eligio Gigli di Boccasuolo ha sottolineato la presenza di fratture che passarono dolorosamente attraverso le stesse famiglie, spaccandole e contrapponendone i membri, e ricorda che la lotta assunse spesso i caratteri dell’odio e in qualche caso anche della vendetta1.
Il testo anticipa, in stesura non definitiva, parte del secondo volume della Storia della Resistenza a Modena, di cui il primo (Il rifiuto del fascismo) fu edito dall’Anpi di Modena nel 1980 e ad esso rinvio per i riferimenti di carattere generale e per la ricostruzione degli avvenimenti relativi al rifiuto della leva del 1943, alla formazione dei primi gruppi armati, all’organizzazione delle prime azioni di guerriglia in montagna e in pianura fino al gennaio 1944. La fonte principale è costituita da alcune delle oltre quattrocento testimonianze da me raccolte fra il 1968 e il 1987; le citazioni provengono dalle trascrizioni dattiloscritte che sono depositate presso l’Anpi modenese (i nastri originali sono conservati all’archivio dell’Istituto regionale per la storia della Resistenza di Bologna).1 “Abbiamo constatato che c’erano delle famiglie divise: un fratello della Repubblica di Salò e un altro fratello coi
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Mentre Ezio Vignaroli, di Lago, non ha esitato ad affermare che “per tutto il periodo partigiano” aveva tenacemente, ma inutilmente, cercato quel carabiniere che, nel febbraio 1944, lo aveva picchiato per ore all’interno della caserma di Montefiorino allo scopo di “convincerlo” non solo a rispondere al bando di leva, ma ad arruolarsi “volontariamente” nella Gnr2.
Anche altrove, come a Rubbiano, non mancò chi scelse la via della Rsi e questo aprì problemi di coscienza per quanti avevano optato per lo schieramento opposto. Così Ultimio Pagani: “C’erano dei ragazzi della Repubblica di Salò che noi conoscevamo, anche di Rubbiano; figurati se io dovevo uccidere uno di quelli! Non l’avrei ucciso. Però se ci fossimo scontrati in combattimento, che lui sparava, io avrei cercato di sparare per primo, pur sapendo che era una guerra ingiusta questa guerra, che era una cosa che non doveva succedere” .
E proprio ad un altro ‘ribelle’ di Rubbiano, Balìn, toccò incontrare nell’inverno 1943-1944 un amico che stava partecipando ad un rastrellamento contro i renitenti. Entrambi armati, si incontrarono al margine del castagneto e nessuno dei due sparò, ma neppure si salutarono; semplicemente finsero di non vedersi: “Eravamo amici, cresciuti insieme”.
La montagna modenese, in fondo, a causa dell’endemica situazione di sottosviluppo, aveva da sempre costituito un terreno fertile per il reclutamento nelle forze di polizia e tutti sapevano che “c’era gente nella Repubblica di Salò che non aveva nessuna colpa, che era nella Repubblica di Salò [...]
per mantenere la famiglia o per la facilità del guadagno senza far fatica” . Lina osservazione quest’ultima (ancora di Ultimio Pagani) che sembra voler dividere in ‘buoni’ e ‘cattivi’ i militi della Gnr, anche a seconda della loro provenienza territoriale, una classificazione che non serviva certamente a semplificare la individuazione dei veri ‘nemici’, oppure che implicitamente considerava tali solo coloro che tentavano di coinvolgere i montanari nelle vicende politiche e che volevano costringere all’arruolamento e alla adesione alla Rsi3.
In una tale situazione non possono non apparire evidenti le difficoltà “a cominciare” la lotta armata, perché si ha la certezza che nella lotta ci si troverà costretti ad atti dolorosi e laceranti, che non sono soltanto nella scelta di uccidere deliberatamente un uomo, ma nella consapevolezza di trovare di fronte a sé un conoscente, un compaesano, un amico e di doverlo uccidere, prima che lui uccida te. Anche se i fascisti sono ‘cattivi’ e con i loro rastrellamenti costringono alla clandestinità, alla fame, a passare le notti all’addiaccio, a dormire sulla neve; anche se arrestano i genitori dei renitenti e li racchiudono nel campo di concentramento di Fos- soli (dal gennaio 1944 adibito a questa triste funzione, oltre a quella di campo di raccolta e transito per gli ebrei destinati ai lager del Reich)4; nonostante tutto ciò, i giovani scelgono sì la renitenza e le famiglie li sorreggono in tale scelta e a volte li incoraggiano, ma, in sostanza, la popolazione montanara resta contraria “a che si cominciasse a sparare” , perché non si voleva che si determinasse una situazione “che ci si ammazza l’u-
partigiani. La lotta diventava anche odio, perché il fascismo ci aveva portato anche degli odì. Chi aveva avuto manganellate e olio di ricino, era naturale che cercasse di dare indietro”, Eligio Gigli, Dalla Barbolini alla brigata Nello, Modena, dattiloscritto, 1969, p. 5.2 Ezio Vignaroli, Da alpino a partigiano, Montefiorino, dattiloscritto, 1969, p. 5.3 Ultimio Pagani, Da banditi a partigiani, Montefiorino, dattiloscritto, 1971, p. 8; Cesario Palandri, Rubbiano 1943, Montefiorino, dattiloscritto, 1969, p. 4.4 Sulle funzioni del Campo di Fossoli, cfr. Luciano Casali, La deportazione dall’Italia. Fossoli di Carpi, in Spostamenti di popolazione e deportazioni in Europa 1939-1945, Bologna, Cappelli, 1987, pp. 382 sgg.
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no con l’altro” . Tutto sommato, non era facile “entrare nel clima della guerra civile” e non era semplice accettare la “provocazione” fascista quando ciò avrebbe significato far sì che la comunità ed il villaggio intero fossero coinvolti nella lotta sanguinosa fra amici e fratelli, una lotta di cui non si riuscivano assolutamente a vedere o a determinare i confini e i limiti, una volta che fosse cominciata. Diventa difficile e contraddittorio, nel ricordo di molti, “giudicare” ad esempio Nello Pini, che sembrò superare “anche troppo rapidamente” problemi e scrupoli e che “uccideva [i militi] per il solo fatto che erano in divisa, per di più li uccideva anche dopo torture” . In fondo, come ricorda don Nino Monari, allora parroco di Toano, “i discorsi di ‘partigiano’ e di ‘antifascismo’ erano capiti tra sì e no”; la maggioranza della popolazione “non pensava neanche lontanamente di fare la guerra”, voleva semplice- mente essere “lasciata in pace” , restarsene tranquillamente “a casa propria”5.
Fu la dura decisione fascista di mettere ordine sull’Appennino, accompagnata dalla mostruosa strage di Monchio, che fece prendere la decisione e che forse fece dubitare molti della effettiva esistenza di qualche fascista ‘buono’, o gli fece pensare che, se fosse stato veramente ‘buono’, non avrebbe potuto continuare a rimanere in mezzo a quelli che si erano comportati in maniera così brutale. Fra quanti erano stati trucidati, c’erano amici, conoscenti, compaesani anche dei militi fascisti.
Sono comunque considerazioni e valutazioni che abbiamo trovato presenti quasi esclusivamente sull’Appennino, dove la
mentalità e le tradizioni cattoliche avevano conservato salde radici anche fra quei ‘sovversivi’ che si erano avvicinati già prima del fascismo al mondo ed alla visione dei rapporti filtrati attraverso una ideologia marxista.
Anche se, in linea di massima, concordiamo con Ermanno Gorrieri quando sostiene che “la Repubblica sociale italiana fu un fenomeno sostanzialmente trascurabile, che mai si sarebbe manifestato senza l’occupazione tedesca” , abbiamo non poche perplessità ad accettare le altre osservazioni che egli porta per sostenere che, per quanto concerne il modenese, “guerra civile non ci fu”, e che dal 1943 al 1945 si trattò “essenzialmente [...] di ribellione contro lo straniero occupante” . Secondo Gorrieri nel modenese si presero le armi contro tedeschi e fascisti “per un’esigenza di dignità civile e nazionale” e soprattutto quella lotta “ebbe il carattere di rivolta morale”, in quanto si combattè contro i significati più profondi che fascismo e nazismo avevano assunto nella storia d’Europa: “negazione della libertà, oppressione degli altri popoli, culto della violenza”6.
Ci pare evidente il manto retorico con il quale vengono ricoperte le ragioni, immediate e di fondo, che furono alla base della renitenza e della ribellione dei montanari modenesi, ai quali non poteva apparire così chiaramente il contesto più generale delle vicende europee. Le armi furono imbracciate per motivi più individuali (e potremmo quasi definirli in parte egoistici), al massimo legati alle scelte delle singole comunità; solo dopo venne — quando fu possibile — una
5 Le citazioni sono tratte, nell’ordine, dalle testimonianze di Mario Ricci, Reclus Monari, Carlo Ternelli e Nino Monari (Gelsomino Montecchi-Mario Ricci, Momenti ed episodi della lotta in montagna, Pavullo, dattiloscritto, 1970, p. 19; Reclus Monari, Testimonianza, Modena, dattiloscritto, 1969, p. 6; Carlo Ternelli, Aggiunte a “Carlino racconta”, Modena, dattiloscritto, 1970, p. 9; Nino Monari, Cappellano militare della Divisione Modena Montagna, Torre Maina, dattiloscritto, 1970, pp. 6-7).6 Ermanno Gorrieri, La Repubblica di Montefiorino. Per una storia della Resistenza in Emilia, Bologna, Il Mulino, 1966, p. 712.
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maturazione politica ed ideale, grazie alla ‘predicazione’ dei dirigenti politici ed alla presenza dei partiti antifascisti.
Non va dimenticato che negli anni venti e trenta, nonostante la propaganda clandestina comunista, anche grazie alle collusioni ed alla diretta collaborazione fra mondo cattolico e fascismo, fra chiesa e stato fascista, avevano avuto largo spazio e si erano fortemente radicate in Italia — e anche fra le popolazioni cattoliche delPAppennino modenese — le idee della violenza e della sopraffazione come fatti ‘necessari’. La predicazione cattolica nelle colonie (dall’Etiopia alla riconquistata Libia) era stata preceduta ed accompagnata dall’uccisione in massa di quanti si erano opposti alla conquista ed all’abbandono delle tradizioni e della religione originari, la ‘crociata’ contro la Repubblica spagnola aveva riproposto, come nel quindicesimo secolo, la eliminazione fisica di tutti gli ‘infedeli’ (che un tempo erano i ‘mori’ ed ora erano i ‘rossi’) ed aveva portato a momenti di intensa collaborazione — nella pratica e nella propaganda — della chiesa cattolica con i ‘volontari’ fascisti, i generali ribelli di Francisco Franco e i tecnici nazisti che sperimentarono nella penisola iberica le armi per la seconda guerra mondiale. E fu una ideologia di violenza e di superiorità ‘razziale’ che passò e si radicò in gran parte della popolazione italiana.
Basterebbe leggere alcune delle lettere che gli alpini piemontesi dell’Armir scrissero dal fronte russo, per rendersi conto di come profondamente quella propaganda fosse penetrata e si fosse resa portatrice di una mentalità di sopraffazione e razzista in gran parte dei nostri combattenti, per cui quegli
alpini ritenevano quasi un ‘diritto’ — appunto perché facenti parte di un gruppo etnico ‘superiore’ — battere e distruggere quei “porci” e quelle “bestie” (sono i termini che troviamo nelle lettere) che si opponevano loro e ai tedeschi di fronte a Stalingrado e nelle altre località dell’Unione sovietica7. E fu senza dubbio un trauma anche per gli alpini cattolici modenesi constatare improvvisamente i limiti di tale propaganda e di tale creduta superiorità etnica e assai dovette pesare quella sconfitta su quanti, fortemente indotti dalla fiducia nel binomio chiesa-stato, videro con l’8 settembre crollare questo e trovarono incerta e restia quella nelle sedi istituzionali (diverso, come sappiamo, fu il comportamento di molti parroci).
Claudio Pavone ha recentemente ricordato che proprio da parte di studiosi e protagonisti cattolici sono maggiori le difficoltà ad ammettere l’esistenza di una guerra civile quale componente della lotta di liberazione in Italia8. D’altra parte fu proprio all’interno del mondo cattolico e nelle aree in cui prevalente era l’influenza cattolica, che maggiori furono le spaccature e le contraddizioni e dove, in ultima analisi, più corposi furono gli elementi e le condizioni di una guerra civile che si scatenò fra quanti restarono legati all’ambigua ideologia clerico-fa- scista (che non venne respinta dalla chiesa dopo l’8 settembre) e quanti, pagando sulla propria pelle i dolorosi segni della sconfitta politica, militare ed ideologica e della conseguente delusione, decisero di porre la parola fine alle guerre, anche a quelle di cui la chiesa si era fatta o si sarebbe fatta sostenitrice proclamandole guerre sante o guerre di crociata.
7 Cfr. Nuto Revelli, L ’ultimo fronte. Lettere di soldati caduti o dispersi nella seconda guerra mondiale, Torino, Einaudi, 1971, pp. 457, 462, 468 e passim. Più in generale, cfr. L. Casali, Patria, giustizia, libertà, pace. Aspirazioni e mentalità dei combattenti dalla prima guerra mondiate alla Resistenza, in La cultura della pace dalla Resistenza aI patto atlantico, Ancona, Il lavoro editoriale, 1988, pp. 173 sgg.8 Claudio Pavone, La guerra civile, “Annali della Fondazione Micheletti” , 1986, n. 2, pp. 397, 412-415.
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Lotta in pianura e ‘guerra di classe’
Dalla pianura modenese giungevano messaggi diversi e, anziché di guerra civile, si potevano sin dall’inizio trovare larghe tracce di guerra di classe. Quando si ricordavano gli scontri e le violenze del biennio rosso, li si connetteva direttamente non con episodi a carattere individuale, ma con lo squadrismo agrario di cui la provincia di Modena era stata uno dei centri principali. A Mirandola, secondo la testimonianza di Adolfo Pollastri, “più che antifascisti i contadini erano antipadrone: era il padrone e non il fascismo che faceva sentire direttamente il peso”. Simile atteggiamento era largamente diffuso perlomeno in altri due comuni della Bassa, Concordia e San Possidonio, dove, secondo Oreste Gelmini, si tendeva “a dare questo carattere di classe alla guerra di liberazione: fascista uguale padrone”. E siccome “molto spesso si identificavano veramente” , lo scontro tendeva ad assumere connotati che dividevano, ben più nettamente che in montagna, gli ‘amici’ dai ‘nemici’, per cui poteva anche capitare di ricevere un rifiuto (o di trovarsi di fronte a difficoltà) quando le organizzazioni politico-militari invitavano a colpire indiscriminatamente tutti coloro che indossavano la divisa della Rsi, in quanto non sempre in ‘quelli’ si individuava il ‘vero nemico’9.
Una mentalità molto diffusa nella Bassa e
tale che diede anche origine, in alcuni casi, a vere e proprie difficoltà quando si trattò di passare dalla organizzazione alla lotta vera e propria. Se il ‘vero nemico’ veniva individuato nel proprietario agrario e non nel fascismo, era contro quello che si sarebbe voluto e dovuto intervenire; non si giudicavano i fascisti come portatori di un vero ‘dominio’ e si accettò di colpirli solo quando fecero sentire direttamente e prepotentemente il peso della loro presenza. Si sarebbe voluto colpire ‘più in alto’ e l’attacco ai militi ad alcuni sembrava addirittura “una vigliaccheria”10.
Anche in pianura dunque fu necessario che i fascisti rompessero la tregua che tacitamente sembrava sorta dopo l’8 settembre e la nascita della Rsi.
Non mancarono quanti — furono anzi numerosi — trovarono nella occupazione straniera, e in maniera perspicua nella presenza dei tedeschi, motivo sufficiente per decidere un proprio preciso schieramento11.
Ma le scelte di massa, quelle cioè della maggioranza della popolazione, furono determinate dall’atteggiamento intollerante dei fascisti e dalla loro ‘pretesa’ di rimettere in funzione il ‘loro stato’ per continuare nella ‘loro guerra’. Non va dimenticato che “quelli che diventarono combattenti di primo piano, erano nella grande maggioranza
9 Adolfo Pollastri, Antifascismo e Resistenza a Mirandola, Modena, dattiloscritto, 1969, p. 5; Oreste Gelmini, Due paesi della Bassa: Concordia e San Possidonio. 1930-1943, Modena, dattiloscritto, 1970, p. 10. Particolarmente significativa, a questo proposito, la testimonianza di Galliano Chiossi relativa a Soliera: “Sentivo l’espressione popolare di chi era partigiano; sentivo gente che, come veniva accolta nel movimento armato, esclamava: ‘Finalmente ho un’arma in mano! adesso ammazzo il fascista, il mio padrone!’. Ecco, queste erano le prime espressioni. Ma perché ce l’avevano col padrone o con l’arciprete? Perché il fascismo era stato caratterizzato dalle pressioni del clero e dei padroni e non lo si voleva più tutto questo!”, Galliano Chiossi, L ’insegnamento della Resistenza: la pace, dattiloscritto, s.d., p. 3.10 A. Pollastri, Antifascismo e Resistenza, cit., p. 5; William Ghinosi, Il “lungo viaggio” del Gap n. 1 attraverso la Resistenza modenese, Modena, dattiloscritto, 1969, p. 4.11 Ricordiamo, tra i tanti, il nonantolese Augusto Vaccari: “Andai in montagna perché i tedeschi volevano che io facessi la guerra per loro; fare la guerra per loro mi sembrava un poco assurdo e mi trovai incarrarato lì” , Mario Miglioli-Augusto Vaccari, Ricordi partigiani, Modena, dattiloscritto, 1971, p. 4.
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ex-militari, cioè giovani che avevano conosciuto la durezza della guerra”12.
Essere “stanco di naia” è senza dubbio la risposta che più spesso abbiamo ricevuto alla domanda sul ‘perché’ della diserzione. Molti avevano subito quattro anni di conflitti, nelle condizioni difficili della guerra che era stata combattuta nei Balcani o al fronte orientale. Avevano provato l’esperienza degli attacchi partigiani in Jugoslavia o in Unione sovietica, una guerra ancor più dura per la sua atipicità e per la impreparazione generale di fronte ad un tipo di combattimento non conosciuto e non codificato dalle accademie militari. La scelta era semplicemente di non combattere ancora, senza precise idee su un significato più profondo o ulteriore da attribuire a tale comportamento. “Prima di tornare militare, volevo un po’ difendermi, se era possibile” , ci ha detto Cesario Palandri, quasi a significare una volontà di semplice rinvio della partenza; mentre Ugo Biagi, di Rosola, nel febbraio 1944 riunì un “consiglio di famiglia” e discusse con tutti la sua intenzione di non volere andare un’altra volta “lontano da casa”13.
Non si trattava comunque di una scelta né facile né di comodo, almeno per la maggior parte di coloro che la fecero in montagna. L’inverno 1943-1944 fu bruttissimo, con molta neve preceduta da settimane di piogge torrenziali: “un tempo bestiale” nel ricordo dei più (e non ci interessa verificare la realtà di una tale affermazione. Ciò che conta è la memoria di un periodo non certamente dei migliori!). Anche se quella pioggia e quella neve portarono con sé il vantaggio di rendere più difficile la caccia ai ‘ribelli’, soprat
tutto quando il rifugio, spesso collettivo o condiviso da gruppi consistenti di amici, veniva trovato nei metati o in luoghi abbastanza lontani dalle strade carrozzabili (allora meno numerose di oggi). Si trattava dunque molto spesso di decisioni collettive o di gruppi, che coinvolgevano le famiglie e intere comunità dalle quali, progressivamente, scomparivano tutti gli uomini validi e giovani. Cominciava così anche il primo impegno per le donne e le ragazze, quello di sfamare ed aiutare fratelli, fidanzati, mariti, un impegno che si sarebbe trasformato, dopo qualche mese o qualche settimana, nella scelta di seguirli nel loro itinerario da ‘ribelli’ a partigiani e che, dopo averle trasformate in vivandiere, in non pochi casi le avrebbe portate ad imbracciare un’arma al fianco dei loro uomini.
Naturalmente ci si trovò di fronte a numerose varianti, determinate direttamente dalle condizioni particolari delle singole zone, dalla dislocazione geografica dei singoli villaggi, dallo scrupolo legalista (o dallo zelo) dei singoli comandanti delle stazioni dei carabinieri14. Nella prima fascia collinare la vita dei renitenti sembrò poter continuare in maniera sufficientemente tranquilla fino al bando Graziani e solo dal febbraio 1944 cominciarono controlli, arresti, rastrellamenti più ‘duri’, o almeno tali che costrinsero, ad esempio, Pietro Bondi di Zocca a saltare dalla finestra di casa in piena notte e a fuggire nudo in mezzo alla neve, restando in quelle condizioni fino al mattino successivo. Gualtiero Barbieri di Montese se ne restò invece tranquillamente in casa “fino a quando i fascisti [ma più probabilmente si trattava
12 Vittorio Prandini-Maria Lea Cavarra, Tra paesani e compagni. Ricordi di vita e di lotta partigiana, Modena, Anpi, 1979, p. 78.13 C. Palandri, Rubbiano 1943, cit., p. 3; Ugo Biagi, Intervista, Modena, dattiloscritto, 1968, p. 1; ma cfr. anche la testimonianza di Zeffiro Silvestrini di Vitriola (Dalla brigata Nello alla brigata Dragone, Montefiorino, dattilo- scritto, 1969, p. 1).14 Sul ruolo esercitato dai podestà e dai commissari prefettizi quali coordinatori periferici delle esigenze di Salò e dei tedeschi rinviamo a L. Casali, Storia della Resistenza, cit., pp. 171 sgg.D
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di carabinieri e della Gnr] non vennero a cercar [lo]” . Anche a Costrignano si restò in casa fino al febbraio o al marzo 1944: donne e bambini montavano costantemente di sentinella nei dintorni del paese e, quando venivano avvistate in lontananza le forze dell’ordine, scattavano gli allarmi e tutti gli uomini scappavano nel castagneto o nei rifugi già organizzati. A Castelvetro, infine, chi non volle presentarsi alle armi potè restarsene tranquillo per molti mesi, alcuni addirittura fino al giugno 1944, in quanto (secondo il ricordo di Walter Benincasa) quella zona decentrata, lontana dai centri principali e dalle più importanti vie di comunicazione, fu quasi dimenticata “dalle autorità provinciali” e le pressioni per l’arruolamento cominciarono a divenire insistenti o ineludibili solo nella tardissima primavera15.
Da ‘ribelli’ a partigiani
Ma, giova ripeterlo, una cosa fu la diserzione, la disobbedienza alle regole dello stato che non venivano più condivise né accettate; altra cosa fu la scelta di passare dalla difesa all’attacco, alla guerriglia partigiana.
Ottavio Tassi ha scritto che, quando il 13 febbraio 1944 si recò in montagna ad ‘ispezionare’ la formazione Rossi, sulla autocorriera che lo portava da Sassuolo verso la zona di Montefiorino “i passeggeri non parlavano che di partigiani” e tutti lo facevano apertamente e “in modo favorevole” , con termini a volte entusiastici16. Si tratta di una testimonianza di particolare valore per il
ruolo di organizzatore politico-militare giocato in quel periodo da Zero Zero. Ma altre testimonianze sottolineano invece maggiori perplessità e fanno comprendere i motivi del consenso per le azioni armate che, nei primissimi mesi del 1944, mettevano in crisi il sistema repressivo fascista, aiutavano il consolidarsi della renitenza, contribuivano, a volte, a migliorare l’alimentazione della popolazione; tale consenso non era scevro da dubbi ed interrogativi e non si era per niente tramutato in unanime adesione a quella scelta. Eligio Gigli di Boccasuo- lo ricorda che molti si chiedevano chi fossero in effetti quegli uomini che giravano armati e per quali motivi si comportassero in quel modo. E a volte si trattava proprio di chi, pur esplicitando con tali interrogativi dei dubbi più o meno diffusi e accettando l’aiuto dei ‘ribelli’, non esitava poi a definirli “dei vagabondi, dei lazzaroni, gente che non ha voglia di lavorare” . Almeno “per i primi sei mesi” (e quindi, all’incirca, fino ai mesi di febbraio o marzo del 1944) i montanari si mantennero su un atteggiamento di attesa, facendo prevalere quella che don Sante Bartolai ama definire una “tradizionale prudenza” e che Domenico Zanaglia non esita a condannare drasticamente come “mentalità da assenteisti” e un poco “opportunistica”17. Un atteggiamento comunque che sembra essere stato particolarmente diffuso e che è ricordato anche da Ultimio Pagani quando afferma: “Se devo dire che nei primi tempi eravamo visti molto bene, non lo posso dire [...]. Noi eravamo dei ribelli, eravamo dei matti, non ce
15 Testimonianze di Pietro Bondi, Gualtiero Barbieri, Narciso Rioli e Walter Benincasa (Sara Prati-Giorgio Rinaldi, “Quando eravamo i ribelli... ”. La Valle del Panaro nella Resistenza, Modena, Anpi, 1978, pp. 178, 191; Narciso Rioli, Le origini della Resistenza a Costrignano, Maranello, dattiloscritto, 1969, p. 3; Walter Benincasa, Il I battaglione della brigata Selvino Folloni, Modena, dattiloscritto, 1969, p. 2).16 Ottavio Tassi, Le prime azioni di guerriglia sull’Appennino modenese, “Rassegna di storia” , 1984, p. 170.17 E. Gigli, Dalla Barbolini alla brigata Nello, cit., p. 3; Sante Bartolai, Le origini della Resistenza nella Valle del Dragone, Savoniero, dattiloscritto, 1970, p. 1; Domenico Zanaglia, Dalla Matteotti alia Corsini, Fanano, dattilo- scritto, 1970, p. 5.
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l’avremmo mai fatta [...]. Però non di meno non abbiamo mai avuto nessuno che ci facesse la spia. Questa è la verità e bisogna dirla”18.
Dal dicembre 1943 nella zona di Monte- fiorino erano cominciati i rastrellamenti, che si erano ripetuti in gennaio e febbraio 1944. Il prelevamento degli ostaggi nel primo caso, dei genitori dei renitenti in seguito fecero sì che la popolazione non fosse d’accordo su qualsiasi azione che aumentasse i rischi: “ci imponeva di filare diritti”19.
Infine restava un altro problema che non era chiarito fino in fondo e sul quale le testimonianze sono tutt’altro che concordi. Se le ‘autorità’ definivano i renitenti e i primi partigiani come ‘banditi’, tutti unificando in un termine denigratorio o comunque negativo, non va dimenticato che in quella situazione di caos i banditi veri e propri esistevano sul serio. Scorazzavano, rapinavano, rubavano e in qualche caso uccidevano, mentre coloro che avrebbero dovuto essere i custodi dell’ordine pubblico erano più impegnati a dare la caccia ai ‘banditi-renitenti’ che non a reprimere la delinquenza comune, che a volte agiva organizzata in vere e proprie bande armate.
Fra le numerose denunce elencate nei ‘notiziari’ giornalieri della Guardia nazionale repubblicana è difficile distinguere e separare gli atti di banditismo vero e proprio dalle azioni dei primi gruppi partigiani organizzati, in quanto sempre di ‘banditi’ si trattava per gli estensori di quelle rapide annotazioni. Può costituire una discriminante l’annotazione che i ‘banditi’ avevano provveduto al pagamento dei generi ‘rapinati’, come il cuoio prelevato il 1° marzo in Palagano a Francesco Bonaccorsi o il tabacco, per lire 372,50, consegnato forzosamente a Rocchet
ta Sandri nello stesso giorno da Luigi Foc- cianti. Maggiori dubbi su eventuali fini patriottici dell’azione possono aversi a proposito delle dodicimila lire in contanti e cinquantamila in gioielli prelevati da individui armati e mascherati il 3 marzo a Montegibbio, o per il portafoglio sottratto a Ponte Dolo il 4 marzo20. Numerose rapine consumate fra il gennaio e il febbraio 1944 venivano puntigliosamente segnalate dalla “Gazzetta dell’Emilia”21 che tendeva evidentemente a dipingere con i colori più foschi la situazione della montagna. E molte di tali azioni conservano (forse proprio per responsabilità dei cronisti della “Gazzetta”) un carattere ambiguo, se non sempre decisamente negativo, ed è difficile decidere a chi attribuire alcuni colpi che sembrano più determinati dal valore, anche commerciale, delle merci che non dalle necessità immediate di sopravvivenza di gruppi, sbandati o organizzati.
Possiamo evidentemente trovare motivi anche politici nella irruzione fatta il 2 febbraio nell’abitazione di Sesto Zanotti di Rubbiano, “fiduciario dei lavoratori dell’industria” (potremmo anche chiederci quali e quanti “lavoratori dell’industria” esistessero a Rubbiano...). Il 21 gennaio a Vitriola furono presi di mira i negozi di Emilio Barozzi e Luigi Neri, dai quali furono asportati viveri, indumenti, terraglie e liquori e fu lasciata una ricevuta del Comitato di liberazione nazionale. Meno giustificata la rapina di un orologio ai danni di Aleardo Malagoli, sempre di Vitriola, di cui dà notizia la “Gazzetta” del 29 marzo 1944.
In ogni caso resta evidente la difficoltà, per quanti subivano la visita notturna di uomini armati, di distinguere fra patrioti e banditi, anche perché normalmente tutti
18 U. Pagani, Da banditi a partigiani, cit., p. 9.19 C. Palandri, Rubbiano 1943, cit., p. 6; C. Ternelli, Aggiunte a “Carlino racconta”, cit., p. 2; Mario Ricci in G. Montecchi-M. Ricci, Momenti ed episodi della lotta in montagna, cit., pp. 18-19.20 Gnr 6 e 8 marzo 1944. Per il ‘colpo’ del 3 marzo, il testo originale riporta un inesistente Monteciccio di Sassuolo, un probabile errore di dattilografia in luogo di Montegibbio.21 La maggior parte è trascritta in E. Gorrieri, La Repubblica diMontefiorino, cit., pp. 115-117.
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tendevano a qualificarsi come ‘ribelli’ e a coprire il loro operato dietro proclamazioni patriottiche e giustificazioni politiche, vere o false che fossero. Come ricorda Emilio Nic- cioli, furono le stesse formazioni partigiane, quando raggiunsero forza e possibilità di movimento sufficienti, che supplirono alla assenza della polizia e cercarono di riportare, in qualche caso sin dall’invemo 1943- 1944, un “certo ordine” . Anche dalla pianura, fra i dirigenti provinciali del partito comunista, fu posto, con sollecitazioni e preoccupazione sempre maggiori a partire dal febbraio 1944, il problema di “intervenire per bonificare l’ambiente” e “moralizzare la lotta”22.
Queste osservazioni di Bruno Gombi (che nell’estate successiva avrebbe assunto l’incarico di Ufficiale di collegamento fra la provincia di Modena e il comando partigiano regionale) introducono necessariamente un ulteriore problema: anche all’interno del movimento partigiano esistevano individui, o frange più o meno marginali, che approfittavano della situazione per quelli che possiamo genericamente indicare come interessi
personali. A volte si trattava di uomini come Rediùn, “un poco di buono”, ma, tutto sommato, niente di più che “un ladruncolo [che] rubava galline”23. Ma in altri casi ci si trovò di fronte a personaggi che raggiunsero posti di responsabilità e di comando all’interno delle prime ‘bande’.
Il caso più noto è certamente quello di Alberto Fini, nativo di Castelfranco Veneto, ma residente a Montefiorino e quindi piuttosto noto nella Valle del Secchia per i suoi precedenti: “Un losco individuo, agile come una scimmia e robusto come un boxeur. Imprigionato più volte, evaso dal carcere, per molto tempo membro della troupe di un circo, pendevano sul suo capo varie accuse di omicidio. Vestiva da cow-boy, con alti stivaloni di pelle, due revolver appesi costante- mente alla cintura”24.
Se unanimi sono i giudizi su Fini, contraddittorie, ma tutto sommato egualmente negative, le testimonianze su Nello Pini, uno dei primi e più coraggiosi combattenti della Valle del Secchia25. Si potrebbero citare altri casi, come quello del bandito che agiva sempre da solo spostandosi per tutta la monta-
22 Emilio Niccioli, L ’oasi di Fontanaluccia, Saliceta san Giuliano, dattiloscritto, 1971, p. 4; Bruno Gombi in Ricordi di Toetti, Modena, dattiloscritto, 1971, p. 14. La presenza di “banditi, profittatori del momento [che] compiono nefandezze anche non molto lontano di qui” era registrata nel suo ‘diario’ da suor Imelde Ranucci già il 10 settembre 1943, una data del tutto improbabile o perlomeno approssimativa (Lagrime e sangue. 8 settembre 1943- 30 maggio 1945, Modena, Teic, 1979, p. 10).23 Testimonianza di Carlo Ruggì e U. Pagani (Dalla brigata Nello, cit., pp. 3-4). Secondo le stesse testimonianze, “Rediùn” fu ucciso da Nello Pini con due colpi di pistola alla testa, una scelta di giustizia sommaria che destò molte perplessità fra gli stessi partigiani.24 Pietro Alberghi, Morte sull’aia, Villa Minozzo, Comitato XX Resistenza, 1964, p. 30; ma cfr. anche L. Casali, Storia della Resistenza, cit., pp. 348-349.25 Unanimemente negativi i giudizi a partire dal maggio 1944, per alcuni il comportamento di Nello sarebbe stato corretto nei tre mesi precedenti. E. Gorrieri, pur condividendo sostanzialmente quest’ultima tesi, non esita a ricordare che “la voce popolare” lo indicava quale responsabile dell’omicidio di Francesco Casini, ucciso a bastonate a scopo di rapina sulla strada di Montecerreto nel 1940, prima dello scoppio della guerra. Note, ma vale la pena riportarle ancora una volta, le memorie di suor Imelde Ranucci: “È l’eroe ormai, qui, leggendario, vincitore dei re- pubblicani nelle imboscate di Savoniero e del Mulino del Grillo. È audace e coraggioso, ma lo dicono troppo sanguinario, o, meglio, incosciente del suo giudizio di condanna che infligge personalmente, senza nulla indagare, a quasi tutti gli individui un po’ sospetti, che gli vengono presentati, dei quali egli, assolutamente, non si fida e, senza alcun processo, li fa fucilare e seppellire sotto un palmo di terra. Sul monte a levante di Palagano, si contano a decine le vittime che giacciono in una fossa comune o sotto un pioppo. Molti saranno stati responsabili, ma parecchi risultano veramente innocenti” , E. Gorrieri, La Repubblica di Montefiorino, cit., p. 157; I. Ranucci, Lagrime e sangue, cit., p. 27.
Fra guerra civile e lotta di classe 73
gna su un cavallo: fu ucciso dagli uomini di Armando nel maggio 194426.
Come è ovvio, il fenomeno fu più diffuso in montagna e coinvolse, secondo la testimonianza di Ultimio Pagani e contrariamente a quanto si potrebbe credere, non degli sbandati o della gente casualmente capitata o rifugiatasi sull’Appennino modenesereggiano, ma abitanti della zona che agivano per lo più coperti da maschere27. Non mancarono però anche casi di banditismo organizzato in pianura e nella stessa città di Modena. Si può ricordare, a tale proposito, il gruppo di rapinatori che aveva il proprio recapito — o meglio il magazzino — in via Daria. Essi andavano a compiere le proprie ‘azioni’ spacciandosi per partigiani e portavano via tutto, dalle coperte alla biancheria, oltre naturalmente al denaro ed ai preziosi e a quant’altro trovavano. Individuati dai gappisti dopo lunghe ed accurate indagini, furono arrestati, fucilati e lasciati esposti lungo la via Emilia ed accanto ad essi fu appeso un cartello sul quale era spiegato che erano stati giustiziati perché “rubavano a nome dei partigiani”28.
Si trattava dunque di porre delle chiarezze che all’inizio non esistevano o non erano sempre possibili, anche per evitare che la propaganda fascista — che in pratica equiparava i partigiani ai ladri — assumesse spessore o acquisisse credito. Se il caso Fini fu risolto abbastanza rapidamente (e purtroppo, in quelle condizioni, non esistevano soluzioni diverse dalla eliminazione fisica), il caso Nello sembrò protrarre nel tempo
troppi elementi di ambiguità, mentre anche sullo stesso comandante della formazione sassolese, Giovanni Rossi, si accumulavano dubbi e giudizi non sempre favorevoli, anche a causa dei modi con i quali intratteneva i rapporti con la popolazione, con le ‘reclute’ appena giunte, con gli stessi componenti della brigata29. Furono così mesi di un difficile equilibrio e di forti contrasti fra la gente della montagna, incerta su un proprio schieramento più aperto e totale, cui sembravano spingerla la scelta a favore della renitenza ampiamente operata dai giovani e le minacce nazifasciste. Ma contemporaneamente tutto appariva ancora troppo confuso e quando, dal febbraio 1944, gruppi sempre più numerosi di giovani giudicarono necessario prendere contatto con i ‘banditi’, nella maggior parte dei casi si giunse alla creazione di cosiddette formazioni locali le quali rappresentarono sì un passo in avanti, verso un maggiore impegno ed una scelta definitiva, ma furono anche una ulteriore mediazione: si continuava a rimanere nelle vicinanze del proprio villaggio, prevalevano le teorie di difesa su quelle di attacco e si sceglievano capi conosciuti, amici del paese e dei quali ci si poteva fidare fino in fondo. A prescindere da questi problemi, in montagna esisteva una certezza: in qualche modo ‘tutti’ sapevano non solo che esistevano bande organizzate, ma anche dove si trovavano o dove era possibile entrare in contatto con loro, se e quando si giungesse alla decisione di schierarsi decisamente da quella parte.
In pianura era evidentemente impossibile
26 Testimonianza di Pellegrino Martino (L ’antifascismo diPavullo, Pavullo, dattiloscritto, 1970, p. 12).21 U. Pagani, Da banditi a partigiani, cit., p. 10.28 Mario Barozzi, Intervista, Modena, dattiloscritto, 1968, p. 9 (non è stato possibile datare con precisione l’episodio).29 Cfr. L. Casali, Storia della Resistenza, cit., pp. 346 sgg.: “Le prime azioni avevano quasi il carattere di bande armate che rubacchiavano [...]. Si pensi a Rossi”, Ugo Ferri, La formazione del capitano Nardi, Vignola, dattilo- scritto, 1972, p. 4; “Ci siamo presentati a Rossi [il 21 febbraio 1944]. Ci ha fatto tanta paura che avevamo voglia di tornare a casa subito”, Luigi Dieci in La brigata Dragone: episodi e testimonianze, Montefiorino, dattiloscritto, 1969, p. 6; Giovanni Rossi mostrava “indifferenza a tutto ciò che poteva essere elemento di disciplina, di buon vicinato, di buon comportamento verso la gente”, C. Ternelli, Aggiunte a “Carlino racconta”, cit., p. 2.
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contare su basi partigiane, su territori più o meno controllabili dai partigiani, su zone di difficile accesso per le forze di polizia e dell’esercito repubblicano. Anche per qualcuno (come Franco Bellei, ad esempio) che era già convinto della necessità di schierarsi attivamente dalla parte di quanti avevano cominciato ad agire, il problema reale era il come fare: “Che qualcuno metteva i chiodi a tre punte sulla strada lo si sapeva, ma non si sapeva chi, come, quando” . E si potrebbero elencare altre esperienze del tutto identiche, da Piumazzo a Sassuolo30. Proprio per garantire nel miglior modo possibile gli embrioni organizzativi, si faceva circolare la voce che i ‘ribelli’ avevano le loro basi in montagna; se e quando succedeva ‘qualcosa’ in pianura, erano stati i “ribelli della montagna” che erano scesi a valle e se ne erano ripartiti per le loro sedi sicure ed inaccessibili dopo aver compiuto la loro azione. Spesso si trattava semplicemente di scritte a catrame sui muri o della affissione notturna di qualche volantino, azioni senza dubbio di notevole valore politico, ma che ben difficilmente potevano giustificare lo spostamento dei misteriosi ed inafferrabili ‘ribelli’ dalle loro lontane sedi fino alla Bassa modenese. Spesso così la fantasia popolare galoppava o veniva aiutata a galoppare.
Dopo una affissione di manifestini a Concordia, ci fu chi giurò di aver sentito e visto i ‘ribelli’, che erano arrivati in autocarro occupando il centro del paese, avevano sparato a lungo con mitragliatrici ed altre armi automatiche ed infine erano tornati sulle montagne di Parma. Era una via illogica e misteriosa che univa chissà perché l’Appen- nino parmense alla lontanissima Concordia.
In maniera non dissimile, anche a Formig- gine uno o due camion di ‘ribelli’ erano scesi dalla montagna (questa volta modenese) e avevano fatto tutta una serie di “cose che non si sapeva bene quali fossero”, ma ciò aumentava la carica simbolica e di mistero che circondava i “famosi ribelli della montagna” . Infine avevano affisso qualche manifestino sui muri del paese prima di sparire, misteriosamente come erano comparsi31.
Era comunque dalla montagna che giungevano le notizie, sia pure confuse, sulle azioni che mettevano in discussione il sistema di potere di quello stato nato dopo l’8 settembre 1943 e delle sue forze armate. Sia nella valle del Panaro che in quella del Secchia le caserme venivano assaltate e disarmate da forze di opposizione il cui numero e la cui potenza di fuoco si moltiplicavano di giorno in giorno, raggiungendo le centinaia di uomini armati di mitragliatrici, cannoni e carri armati. Ed era così la montagna che esercitava un fascino particolare e costituiva un richiamo nei confronti di molti fra coloro che avevano deciso di disertare o di non presentarsi alle chiamate di leva. Si attendevano la fine dell’inverno, la scomparsa della neve e l’arrivo della buona stagione per raggiungere le formazioni che si era certi fossero consistenti, bene organizzate, formidabili sotto tutti i punti di vista, soprattutto quello dei mezzi e delle armi a disposizione. Era la riproposizione di una visione romantica ed ottocentesca della lotta, che trovava punti di riferimento precisi nelle storie studiate a scuola e nelle leggende diffuse anche dalla retorica fascista a proposito del risorgimento nazionale, di
30 Franco Bellei, La formazione “Italia libera ”, Modena, dattiloscritto, 1971, p. 2. “Gira e gira non trovammo la via”, Arnaldo Ballotta; “Io non sapevo come prendere contatto [...]. Non sapevo a chi chiedere [...]. Come facevo a dire: ‘Io voglio scappare’?”, Clemente Fiori (Arnaldo Ballotta-Nello Zanasi, I partigiani di Castelfranco nella “Stella Rossa”, Castelfranco, dattiloscritto, 1970, p. 8; La brigata Dragone, cit., p. 3).31 O. Gelmini, Due paesi della Bassa, cit., p. 18; Ezio Bompani, La brigata Roveda, Modena, dattiloscritto, 1970,
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Garibaldi, dei fratelli Bandiera, di Mazzini. In qualche modo anche le continue notizie di “azioni banditesche” che la “Gazzetta” quasi quotidianamente divulgava costituivano un ulteriore elemento di conferma della complessità organizzativa e della forza dei ‘ribelli’.
Radicamento della Resistenza e repressione fascista
Anche in questo caso è necessario precisare che il tessuto aveva aspetti più variegati e presentava zone di diversa colorazione, nelle quali più facilmente avvenne il collegamento ideale e concreto con l’organizzazione politi- co-militare clandestina. In primo luogo si trattava di quelle località dove la presenza comunista era stata costante e l’attività dei comunisti aveva dato vita già da tempo a punti di riferimento ben precisi, come a Mirandola, dove si cominciò ben presto “a raccogliere i frutti del lavoro svolto dal 1942” e si riuscì così ad “affrontare il problema della salvaguardia dei giovani, non solo nascondendoli, ma mettendoli in condizione di combattere”. Era una situazione del tutto particolare e nella quale non era necessario agire “con molto spirito di clandestinità” , se non nei confronti di quanti erano notoriamente fascisti32. A Paganine di Modena, dopo le azioni dinamitarde del 1° marzo, che impressionarono particolarmente la gente in quanto sembravano indicare l’esistenza di una organizzazione non più o non soltanto in montagna (e si trattava di una organizzazione efficiente e preparata per una attività complessa), “ci fu una vera e propria esplo
sione dell’opinione pubblica” . Anche a Paganine i nuclei del partito comunista costituivano da tempo un punto di riferimento ed erano da sempre noti e conosciuti a livello di massa, tanto che “il movimento cominciò a gonfiarsi di giorno in giorno”33.
Va da sé che in quei mesi larga parte ebbe la propaganda orale e che anzi questa fu in molti casi determinante per il convincimento soprattutto nei centri minori delle campagne e nella collina. Sui posti di lavoro, a veglia nelle stalle, nelle osterie, durante le feste da ballo, ovunque fosse possibile incontrare dei giovani, fu sempre presente qualcuno che avviava la discussione. A volte erano i ‘più vecchi’, come a Renno e Gaiato, che introducevano il discorso sulle scelte da fare ‘oggi’, ricorrendo ad esempi della loro gioventù o degli anni precedenti l’avvento del fascismo al potere. Spesso nelle osterie o nelle feste che si svolgevano in case private avevano luogo dei veri e propri comizi improvvisati e rapidi, di cui nella valle del Panaro fu protagonista anche lo stesso Armando, che allora usava uno “strano linguaggio”, misto di vocaboli modenesi, italiani, francesi e spagnoli. A Gaggio di Piano si giunse ad organizzare vere e proprie assemblee alle quali venivano invitati tutti i giovani le cui classi erano chiamate alle armi, sia nel novembre 1943 che nel febbraio 1944, e si cercò di fare opera di persuasione affinché nessuno andasse ad arruolarsi nell’esercito di Salò. Anche a Piumazzo furono organizzate riunioni “di massa” in pieno giorno (se ne fece carico Ettore Bruni), riunioni che, tuttavia, non riuscirono a toccare tutti gli interessati, viste le difficoltà che Ballotta incontrò — lo abbiamo già accennato — per mettersi in contatto con le forze antifasciste34.
32 Arturo Galavotti, La linea politica del Pei modenese, Modena, dattiloscritto, 1969, p. 12; O. Gelmini, Due paesi delia Bassa, cit., p. 8; O. Gelmini, Memorie di vita partigiana, Modena, dattiloscritto, 1969, p. 5.33 Fernando Camellini, Dal Gap di Paganine al Comando della brigata “Antonio Gramsci", Modena, dattiloscritto, 1969, p. 4. Il 1° marzo erano state fatte saltare contemporaneamente tutte le linee ferroviarie che confluivano sul capoluogo.34 Testimonianze di Armando Borelli, G. Montecchi, Ferdinando Balugani, N. Zanasi (F. Balugani-A. Borelli, Castelfranco 1920-1943, Castelfranco, dattiloscritto, 1964, p. 3; L ’antifascismo di Pavullo, cit., pp. 7, 16; F. Baluga-
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Particolarmente significativa la vera e propria occupazione di Cavezzo che avvenne nel corso del mese di febbraio: i partigiani sostarono alcune ore nella località, scrivendo ovunque, cantando “inni patriottici”, dimostrandosi insomma padroni del paese, all’interno di quello che Gelmini ha definito “un grande lancio pubblicitario” che investì l’intera zona in quel periodo. Si trattava di iniziative che portavano ad un notevole fermento fra la popolazione, soprattutto in un momento decisivo come fu quello a ridosso del bando Graziani: dimostrazioni sia pure, tutto sommato, di facile esecuzione come fu quella di Cavezzo rendevano evidente a livello di massa che esisteva una forza capace di una buona organizzazione e in grado di rimanersene indisturbata per le vie e per le piazze di un comune, nonostante i presìdi e le pattuglie dei tedeschi e fascisti35. Anche azioni di questo tipo mostravano che esisteva ‘qualcosa’ e che una qualche scelta alternativa al servizio di leva era possibile; in qualche modo si mettevano al corrente i giovani “della possibilità di sottrarsi all’esercito fascista e anzi di combattere contro di esso nell’esercito partigiano”. Si trattò senza dubbio di una attività di cui è facile sottovalutare la complessità ed i pericoli ed i cui risultati ovviamente non potevano essere immediati, ma anche essa diede un proprio im
portante contributo per conquistare la “fiducia della popolazione” e quindi pose in qualche modo le “premesse” per le azioni armate che sarebbero seguite dopo qualche tempo36.
Per quanto è possibile constatare, le forze antifasciste sembrarono molto più attente e preoccupate di quelle fasciste di fronte al problema di ottenere un largo e stabile consenso; a più riprese gli stessi tedeschi sottolinearono la necessità che i loro alleati tenessero un diverso atteggiamento ed un comportamento più consono alla necessità di rapportarsi positivamente alla popolazione. Fra i molti documenti, possiamo ricordare il Rapporto sulle bande redatto dall’Aok 14 il 31 dicembre 1944, nel quale veniva avvertita la “importanza decisiva” che assumeva la “collaborazione della popolazione civile” per ottenere una “pacificazione duratura” e risultati stabili nella lotta contro le bande partigiane. Era quindi necessario che le truppe rispettassero la popolazione, ma soprattutto era indispensabile “richiamare nel modo più energico” le truppe italiane (cioè i fascisti repubblicani) a “comportarsi correttamente e in particolare ad evitare saccheggi”37. Sempre a proposito dei fascisti repubblicani, è noto il giudizio espresso dal generale Frido von Senger und Etterlin soprattutto nei confronti degli aderenti alle Brigate
ni-N. Zanasi, Il contributo di Gaggio alla Resistenza, Castelfranco, dattiloscritto, 1964, p. 4; A. Ballotta-N. Zana- si, Ipartigiani di Castelfranco, cit., p. 2).35 O. Gelmini, Primavera ed estate nella Seconda Zona, Modena, dattiloscritto, 1970, pp. 2-3; Luigi Borsari, Le origini della Resistenza nella II Zona, Modena, dattiloscritto, 1970, p. 10 (edito in Autobiografia, intervista a cura di L. Casali, in “Gianni” Luigi Borsari partigiano pubblico amministratore dirigente dell’Ancr, Modena, Ancr, 1985, pp. 22, 24). Franca Gorrieri (La Resistenza nella bassa modenese. Da iniziativa di minoranze attive a movimento popolare di massa (1943-1944), Modena, Teic, 1973, p. 95) tende a sminuire il valore dell’occupazione di Cavezzo dal momento che non si trattò di una “azione armata”, sottovalutando evidentemente la necessità di costruire la Resistenza ed un consenso di massa che portasse alla scelta antifascista.36 Testimonianza di Alfredo Tosi (Antifascismo e Resistenza a Castelfranco, Castelfranco, dattiloscritto, 1964, p. 4).37 “Auch die bei solchen Unternehmen beiteiligten ital. Truppen müssen nachdrücklichst darauf hingewiesen wer- den, sich korrekt zu verhalten und insbesondere Fliinderungen zu unterlassen”, Armeeoberkommando 14, Banden- lagebericht, den 31. dez. 1944 (MA DDR, WF-03/12102, Blatt 6935).
Fra guerra civile e lotta di classe 77
nere, “capaci di assassinare chiunque, di compiere qualsiasi nefandezza”, e sull’ “a- nima nera” del fascismo emiliano, Franz Pagliani38.
Non vogliamo naturalmente generalizzare, ma soltanto sottolineare la presenza, probabilmente maggioritaria fra quanti aderirono alla Repubblica sociale, di una componente estremamente violenta, spesso assolutamente priva di scrupoli, solo raramente attenta ai problemi posti da una necessaria (o almeno opportuna) conquista del consenso. La esigenza prioritaria e fondamentale per la Rsi di giungere il più rapidamente possibile alla creazione di un complesso di forze armate che le dessero un minimo di credibilità come stato e le consentissero di poter trattare in qualche modo con gli alleati tedeschi, determinò il prevalere e l’accentuarsi dei caratteri meno riflessivi e provocò conseguentemente un aggravamento ed una accentuazione dell’ostilità o dell’indifferenza da parte della popolazione. Non vogliamo né possiamo contestare il giudizio che Giuseppe Bulgarelli ha espresso a proposito del fascio repubblicano di Campogalliano: “Vi era andata dentro praticamente tutta la feccia del paese [...]. Erano dei delinquenti fuori misura”39. È certo comunque che i metodi che troppo spesso la Rsi adottò per
‘convincere’ erano più adatti ad ingenerare paura e terrore piuttosto che consenso e sortirono più spesso l’effetto di allontanare che non quello di avvicinare. Il taglio delle cravatte che subirono gli studenti di Concordia, accusati esplicitamente di essere dei “borghesi” e di non amare il “rude” spirito militare della Rsi, non ne convinse nessuno ad abbandonare la “comoda” giacca e sostituirla con la divisa grigioverde. Sempre a Concordia “un gruppo di ‘repubblichini’ nottetempo imbrattò con scritte minacciose a catrame e simboli di paura e di morte le case degli ex gerarchi che non avevano ancora aderito alla Rsi. Non venne risparmiata l’entrata della chiesa parrocchiale, ad ammonimento dei benpensanti”40.
A questi atteggiamenti violenti, spavaldi e sprezzanti facevano seguito le imposizioni e soprattutto quella imposizione che meno era gradita: continuare la guerra e rispondere ai bandi di leva. Ai risultati negativi, si rispose con i rastrellamenti, gli arresti, le deportazioni, le percosse. Egidio Sighinolfi di Cavezzo fu arrestato e picchiato quattro volte nel tentativo di farlo recedere dalla sua ostinazione a non arruolarsi. Alla fine fu costretto a prendere una decisione e nel marzo 1944 si “arruolò” nei partigiani41.
L’apparato repressivo costruito per ottenere risultati positivi in merito alla formazio-
38 Frido von Senger und Etterlin, Krieg in Europa, Colonia-Berlino 1960 (trad, it.: Combattere senza paura e senza speranza, Milano, il Borghese, 1969, p. 500).39 Giuseppe Bulgarelli, Antifascismo e Resistenza a Campogalliano, Modena, dattiloscritto, 1970, p. 5.40 Aldo Pozzetti, Brevi considerazioni generali sulla Resistenza nella Zona 2, Modena, dattiloscritto, 1970, pp. 3-4. “La maggior parte degli studenti liceali ed universitari di Concordia rifiuta di iscriversi [al Pfr]. Una domenica gli allievi ufficiali della Gnr di stanza in paese prelevano con la forza a un caffè alcuni studenti che stanno giocando a carte e li porta a teatro ad assistere ad una adunata. Ai più riottosi venne tagliata la cravatta” , ivi, p. 4. Un altro episodio, questa volta relativo a Gaggio di Piano: “Eravamo [Aronne Simonini e Novello Corradini] lì seduti attorno ad un tavolo [del Dopolavoro] e si beveva un bicchiere di vino, quando, inaspettato, entra un noto caporione fascista locale. Questi dà uno sguardo in giro e poi si dirige verso di noi. Con gesto improvviso estrae un pugnale che conficca diritto e con violenza sul centro del tavolo. Mentre la lama vibra sinistra e scintilla minacciosa, l’indesiderato personaggio si mette a sedere ed afferma: ‘E adesso parliamo’. Aronne lo fissa severamente per un attimo, poi, lentamente, si alza senza distogliere lo sguardo e, deciso, si incammina verso l’uscita [...]. Una volta fuori dal locale inforchiamo le biciclette e, soltanto prima di lasciarci, Aronne apre la bocca per dire: ‘Ora basta. Dobbiamo liberarci di questa gente’”, A. Ballotta, Aronne Simonini, Castelfranco, Anpi, [1982], p. I .41 Egidio Sighinolfi, Ricordi della lotta antifascista, Luzzara, dattiloscritto, 1969, p. 1.
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ne di un esercito per la Repubblica di Salò fu notevole e praticamente assorbì gran parte delle forze armate che avevano inizialmente aderito alla Rsi. A fianco della rete delle stazioni dei carabinieri, furono creati reparti mobili della Gnr di rinforzo e pronto intervento che ebbero sede soprattutto in Emilia, in Toscana e in Lombardia; ad essi fu spesso affidato l’incarico di intervenire per mantenere l’ordine pubblico, intendendo con ciò soprattutto garantire la esecutività dei bandi42.
Proprio in tal senso può essere interessante verificare la distribuzione geografica per province dei militi di rinforzo e constatare una loro prevalenza nelle medie città emiliane, durante il mese di marzo 1944 sottoposte ad una più attenta e pesante vigilanza che non i maggiori centri industriali, forse nella speranza di più ampie possibilità di recupero e di più facili interventi risolutori. I dati numerici rendono evidente una concentrazione di truppe di rincalzo nelle due province di Modena e Reggio Emilia (rispettivamente con 263 e 293 militi), truppe destinate forse agli interventi ‘risolutivi’ che caratterizzarono la primavera 1944 e per i quali furono utilizzati non solo i militi della Gnr, ma anche i ragazzi di leva, da pochissimi giorni chiamati alle armi e quindi privi di addestramento, oltre che di una preparazione anche
psicologica adeguata ad intervenire contro i primi gruppi armati dell’Appennino e soprattutto contro gli abitanti dei pacifici e disarmati villaggi, che furono distrutti ed incendiati.
Furono le azioni repressive che convinsero della necessità di scegliere e chi ‘scelse’ così premuto e condizionato lo fece molto spesso senza alcuna precisa motivazione, se non quella di allontanare il più possibile la data dell’arruolamento. Anche la ‘scelta’ parti- giana avvenne, almeno in una parte rilevante dei casi, all’interno di tale ottica, oppure derivò semplicemente da una somma di considerazioni negative: contro la guerra, contro il fascismo, contro il nuovo forzato allontanamento dalla casa, dalla famiglia, dagli affetti43.
Oppure furono le ripetute percosse e l’arresto dei genitori che forzarono in una diversa direzione, non certo spontanea né gradita, e anche per indurre a ciò l’intervento armato fu indispensabile. Il 16 gennaio 1944 un reparto misto di Gnr ed SS italiane, forte di quattrocentodieci uomini, aveva eseguito un rastrellamento nell’alta valle del Secchia, a seguito del quale erano state arrestate cin- quantadue persone, tra cui il parroco e il medico di Costrignano, ma per il resto genitori di renitenti. A Frassineti erano state incendiate “per rappresaglia” le case di Luigi Bar-
42 Militi Gnr di rinforzo alle stazioni dei carabinieri alla data del 6 marzo 1944, Gnr 9 ottobre 1944-XXII, p. 40. Nell’Emilia Romagna erano collocati 1312 militi di rinforzo, pari al 34,6 per cento del totale, in Toscana 796 (21 per cento) e in Lombardia 701 (18,5 per cento).43 “O presentarsi sotto la Repubblica di Salò, o andare nei partigiani. Però, se debbo dire la verità, non so perché abbiamo scelto una cosa anziché l’altra. Abbiamo fatto i partigiani ed il perché lo sapevamo fino ad un certo punto: i fascisti erano gente che a noi non piaceva” (U. Pagani). “Vi era evidente l’orientamento a nascondersi, a rendersi innocui, invece che contribuire in modo decisivo alla Resistenza” (D. Zanaglia). “A casa non ci sentiamo sicuri; i tedeschi e i fascisti fanno i rastrellamenti al mattino presto e ci possono portare via. Perciò abbiamo deciso di venire. In principio venivamo più per protezione che per decisione di combattere” (E. Gigli). “Circolava insistente la voce che quanto prima saremmo stati liberati dalle forze anglo-americane. Quindi da parte nostra non c’era nessuna volontà di andare in Germania; ma, a parte la nostra non-volontà, c’era questo fattore di imminente liberazione che ci spingeva a cercare la via [di] come guadagnare tempo. Quindi cominciammo a riflettere e ragionare per vedere come arrivare al movimento partigiano per potere sfuggire a questo obbligo di chiamata” (A. Ballotta); U. Pagani, Da ribelli a partigiani, cit., p. 4; D. Zanaglia, Dalla Matteotti alla Corsini, cit., p. 1; E. Gigli, Dalla Barbolini alla brigata Nello, cit., p. 4; A. Ballotta-N. Zanasi, Ipartigiani di Castelfranco, cit., p. 7.
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bati e Massimo Maestri (che poi sarebbero stati uccisi il 18 marzo)44.
Senza dubbio il bando Graziani potè indurre a qualche riflessione ed ingenerare incertezze e tentazioni in quanti ormai da mesi vivevano in una situazione di grandi difficoltà e pericoli che ricadevano anche sull’intero nucleo familiare. Forse alcune delle speranze che per mesi avevano sostenuto ed aiutato i renitenti in quel loro rifiuto si andavano affievolendo. Molti avevano creduto che “il nuovo fascismo sarebbe durato pochi giorni”: pur restando diffusa la convinzione di una estrema debolezza del nuovo potere, i “pochi giorni” stavano evidentemente moltiplicandosi. Anche la “liberazione imminente”, che sembrava certa nell’autunno 1943 e nella quale si sperava, auspicando una ripresa offensiva degli alleati allo sbocciare della primavera, restava sì certa, ma appariva come meno “imminente” . Non mancavano poi tentativi di persuasione anche da parte dei genitori, che in qualche caso ritennero possibile concedere un po’ di fiducia alle promesse avanzate dal bando Graziani45. Tuttavia, in un certo senso, furono gli stessi fascisti che riuscirono a dissuadere una parte di coloro che intendevano rispondere positiva- mente all’invito del maresciallo Graziani.
Il 29 marzo furono fucilati a Castelfranco dieci giovani, detenuti in quel carcere. La loro uccisione avvenne presumibilmente come rappresaglia in seguito ad una azione parti- giana compiuta il 26 marzo vicino a Sassogui- dano e che era costata la vita a cinque militi e ad un sottotenente della Gnr; ufficialmente, essi furono accusati di “partecipazione a bande armate contro i poteri dello stato, nonché
di renitenza alla leva [...] e uccisione di soldati e guardie repubblicane” . Secondo quanto fu pubblicato dalla “Gazzetta dell’Emilia” il 30 marzo, i dieci, rei confessi, erano stati catturati da reparti dell’esercito e della Gnr nella zona di Pavullo mentre, “con le armi alla mano, esplicavano la loro attività terrorista” . Una “giusta e severa sentenza”, sempre secondo la “Gazzetta”, era stata loro inflitta dal Tribunale militare straordinario: la pena di morte mediante fucilazione alla schiena.
Si trattava di una congerie di bugie ed invenzioni. Molto probabilmente non era stato neppure convocato il tribunale, dal momento che non c’era assolutamente nulla di cui accusare i dieci disgraziati: sette od otto di essi (a seconda delle fonti) si erano addirittura presentati spontaneamente proprio contando sulla clemenza garantita dal bando Graziani. Secondo una dichiarazione di don Giovanni Battista Santi, alla fine di febbraio il commissario di Ps di Pavullo, Garusi, aveva arrestato i familiari di numerosi renitenti alla leva. “A seguito di ciò, le famiglie si allarmarono molto”, cosicché, “dietro assicurazione delle autorità repubblicane”, otto ragazzi si erano presentati “entro la data dell’8 marzo 1944” . Proprio don Santi era stato interessato e si era recato personalmente dal commissario Garusi e dal reggente il Pfr di Pavullo, Giordano Bruno Rivaroli, i quali gli avevano garantito che “ai giovani non sarebbe stata applicata nessuna pena grave, ma che sarebbero stati mandati ai rispettivi corpi” . Quale dei capi repubblicani di Pavullo aveva poi, contrariamente alle garanzie date, chiesto la loro testa come rappresaglia?
Lo stesso comando generale della Gnr il 30
44 Gnr 31 gennaio 1944-XXII, p. 7. L’11 febbraio ad Albareti un gruppo di renitenti (fra cui Gelsomino Montec- chi, Egidio Montecchi, Renzo Leoni, Antonio Bertoni, Remo Serafini e Antonio Covili) assalì l’autocorriera che trasportava da Pavullo a Modena le madri di alcuni di loro che erano state arrestate. Durante il breve conflitto a fuoco con i Gnr di scorta, le donne riuscirono a fuggire, ma furono arrestate nuovamente alcune settimane più tardi e portate a Fossoli. Due finirono poi in Germania (L ’antifascismo di Pavullo, cit., pp. 12, 16).45 Giovacchino Rocchi, La formazione Fanano, Fanano, dattiloscritto, 1970, p. 1; A. Ballotta-N. Zanasi, I partigiani di Castelfranco, cit., p. 7. “Ce ne stavamo occultati in un fienile e vennero alcune madri nostre a trovarci e ad invitarci a presentarci”, G. Montecchi, in L ’antifascismo di Pavullo, cit., p. 14.
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aprile ricostruiva in termini corretti gli avvenimenti e sottolineava l’assurdità dei provvedimenti presi dalle autorità di Pavullo e le reazioni che essi avevano provocato, prima delle quali una “rilevante contrazione della presentazione dei renitenti e disertori”46.
L’Appennino modenese usciva pesantemente ferito e mutilato dalle azioni fasciste, che avevano colpito, nel corso del mese di marzo, entrambe le vallate lasciando lutti ed incendi, ma senza debellare il fenomeno del ribellismo47. Secondo Adamo Pedrazzi, anzi, “tutti” erano ormai convinti che non si trattasse in verità di “banditismo” e gli stessi tedeschi ne erano palesemente “preoccupati”48. Ovunque fosse possibile, aumentava il reclutamento nelle file partigiane e sempre più al distretto militare di Modena si preferiva il ‘distretto’ di Montefiorino49.
Dall’aprile 1944 mutò il ‘segno’ delle vicende. Le storie individuali e delle diverse
comunità sembrarono confluire un poco alla volta a formare il più complesso mosaico di una lotta di massa e il ‘filo rosso’, che era stato pazientemente tessuto dopo l’8 settembre, parve cucire assieme e unire ad uno scopo comune le precedenti spinte ribellistiche diversificate.
Nella pianura scioperi e manifestazioni si sommarono ed affiancarono progressivamente all’intervento gappista (nelle campagne, ed in special modo nel Carpigiano, si giungeva alla creazione di vere e proprie ‘zone franche’, segno evidente di una rapida e stretta connessione della lotta sociale e di massa con la lotta armata); sull’Appenni- no le formazioni ‘locali’ accettarono di abbandonare le azioni difensive, che avevano caratterizzato la guerriglia in febbraio e marzo, e riconoscevano la necessità di accettare un comando unificato che, con Davide ed Armando, le guidava ad una fase
46 L’esecuzione, proseguiva il documento del comando generale della Gnr, era avvenuta “fra scene oltremodo strazianti, essendo stati fucilati uno alla volta, alla presenza di tutti i condannati”. Tale ferocia, che era stata risaputa, aveva ancor più dissuaso altri che forse intendevano presentarsi: “il modo in cui è stata eseguita [Quell’uccisione] ha talmente indispettito i giovani, specie delle zone montane, che diversi fra essi hanno finito per arruolarsi coi ribelli” . Né andava dimenticato che il bando Graziani portava la firma dello stesso Mussolini: così le fucilazioni di Castelfranco mostravano in quanto conto si teneva “da parte degli organi periferici [...] la generosità del Duce” . I dieci, fucilati nel cortile del forte di Castelfranco, erano: Sante Adami (Renno, anni 21), Bruno Badiali (Renno, anni 20), Renato Camatti (Renno, anni 19), Ubaldo Gherardi (Renno, anni 21), Gervasio Maletti (Renno, anni 21), Teodorino Manfredini (Ca Matta, anni 19), Walter Martelli (Montefiorino, anni 21), Egidio Montecchi (Montorso, anni 25), Massimo Patarozzi (Renno, anni 19), Romano Vandelli (Renno, anni 20). Il Tribunale militare straordinario condanna a morte un gruppo di sbandati, “Gazzetta dell’Emilia”, 30 marzo 1944; dichiarazione firmata da don G. Battista Santi, Pavullo 28 luglio 1945 (A. ANPI.MO, A/VA); E. Gorrieri, La Repubblica di Montefiorino, cit., pp. 187-188; Elenco di vittime modenesi nelle rappresaglie nemiche compiute entro e fuori il territorio della provincia dal 1 gennaio 1944 a! 23 aprile 1945, “Rassegna annuale dell’Istituto storico della Resistenza in Modena e provincia”, n. 3, 1962, p. 7; Gnr 30 aprile 1944-XXII, p. 44; Riservato a Mussolini. Notiziari giornalieri della Guardia nazionale repubblicana novembre 1943-giugno 1944, Milano, Feltrinelli, 1974, p. 164; Adamo Pedrazzi, Cronaca dell’occupazione nazi-fascista di Modena 1943-1945, dattiloscritto, pp. 757-758 (A.ISR.MO); Giampaolo Pansa, L ’esercito di Salò nei rapporti riservati della Guardia nazionale repubblicana 1943-1944, Milano, Insmli, 1969, pp. 73-74. Cfr. anche Gnr 6 maggio 1944-XXII, che ribadisce la diminuita presentazione degli sbandati.47 Come è noto il 18 marzo 1944 a Monchio, Costrignano, Susano e il 20 marzo a Cervarolo truppe italiane e tedesche attaccarono i villaggi e ne distrussero le popolazioni inermi provocando 153 vittime totali. Cfr. Guerrino Franzini, Storia della Resistenza reggiana, Reggio Emilia, Anpi, 1966, p. 104 e Pietro Alberghi, Attila sull’Appennino. La strage di Monchio e le origini della lotta partigiano nella Valle del Secchia, Modena, Istituto storico della Resistenza, 1969, pp. 229 sgg.48 A. Pedrazzi, Cronaca, cit., p. 712 (sub die 11 marzo 1944).49 Per l’origine dell’espressione, diffusa in pianura e in montagna, cfr. Luigi Arbizzani-L. Casali, Montefiorino, distretto partigiano, in Saggi e notizie sulle “zone libere” nella Resistenza emiliana, Imola, Galeati, 1970, p. 7.
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offensiva: un ‘esercito’ sempre più numeroso si spostava per tutta la collina, si impegnava in combattimenti complessi e manovrati ed eliminava progressivamente i vari presidi e le stazioni dei carabinieri-Gnr. A metà giugno nasceva la ‘repubblica’ di Montefiorino.
Gli aspetti di ‘guerra civile’ e di ‘lotta di
classe’, che avevano indotto al ribellismo diffuso, restavano semplici componenti che avevano caratterizzato il ‘farsi’ del più ampio e complesso affresco della lotta di liberazione nazionale. Cambiavano i comportamenti e gli atteggiamenti individuali e di gruppo.
Luciano Casali
Luciano Casali, docente di Storia contemporanea all’Università di Bologna, si è occupato di storia dei partiti politici fra Ottocento e Novecento, dell’antifascismo e della Resistenza, dei fascismi europei. Dal 1989 è direttore dell’Istituto regionale per la storia della Resistenza e della guerra di liberazione dell’Emilia Romagna. Tra le sue opere: Il movimento di liberazione a Ravenna (tre voli.; Ravenna 1963, 1964, 1977); Gastone Sozzi e il partito comunista in Romagna (Roma, Editori Riuniti, 1980); Bologna 1920. Le origini del fascismo (Bologna, Cappelli, 1982); I sovversivi (Forlì, 1989); Per una definizione della dittatura franchista (in uscita presso Angeli, Milano, nella primavera 1990).