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1 CONSIGLIO SUPERIORE DELLA MAGISTRATURA NONA COMMISSIONE – TIROCINIO E FORMAZIONE PROFESSIONALE Incontro di studio sul tema: Corso “Giovanni Falcone e Paolo Borsellino” “Le tecniche d’indagine ed il ruolo del p.m. nelle indagini ordinarie e di criminalità organizzata” Roma, 7-11 maggio 2012 --------------------------------- LA RACCOLTA DELLE DICHIARAZIONI DEL COLLABORATORE DI GIUSTIZIA: il verbale illustrativo ed il regime di utilizzabilità delle dichiarazioni rese oltre i 180 giorni (appunti e … spunti per il gruppo di lavoro) RELATORE dott. Antonio Ardituro Sost. Proc. presso il Tribunale di Napoli Direzione Distrettuale Antimafia

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CONSIGLIO SUPERIORE DELLA MAGISTRATURA NONA COMMISSIONE – TIROCINIO E FORMAZIONE PROFESSIO NALE

Incontro di studio sul tema:

Corso “Giovanni Falcone e Paolo Borsellino” “Le tecniche d’indagine ed il ruolo del p.m.

nelle indagini ordinarie e di criminalità organizzata”

Roma, 7-11 maggio 2012 ---------------------------------

LA RACCOLTA DELLE DICHIARAZIONI DEL COLLABORATORE DI GIUSTIZIA:

il verbale illustrativo ed il regime di utilizzabilità delle dichiarazioni rese oltre i 180 giorni

(appunti e … spunti per il gruppo di lavoro)

RELATORE

dott. Antonio Ardituro Sost. Proc. presso il Tribunale di Napoli

Direzione Distrettuale Antimafia

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§ 1. Il Verbale illustrativo dei contenuti della collaborazione.

E’ un atto complesso di natura giurisdizionale e amministrativa, atteso che esso contiene

informazioni utilizzabili nel processo e fatti dai quali derivano anche conseguenze giudiziarie

ed amministrative, come la concessione delle misure di protezione; è stato definito il

documento programmatico della collaborazione, che contiene i fatti di maggior gravità e

allarme sociale conosciuti dal dichiarante.

Può essere acquisito (art. 16 sexies) su istanza di parte al fascicolo del P.M. ai fini delle

verifiche e delle contestazioni, nella parte in cui riferisce dei soggetti e dei fatti di cui al

processo.

Dalla sua redazione dipendono la concessione delle misure di protezione speciali e le

conseguenti indennità economiche, le attenuanti legate alla collaborazione (16 quinquies) ed i

benefici penitenziari (16 nonies: un quarto della pena o dieci anni in caso di ergastolo).

Deve contenere, ai sensi dei commi 1º, 2º, 4º e 5º dell'art. 16quater della legge n. 82/91

l’indicazione di :

• tutte le notizie utili alla ricostruzione dei fatti e delle circostanze sulle quali la persona è interrogata oltre che dei fatti di maggiore gravità e allarme sociale di cui è a conoscenza;

• le notizie utili alla individuazione e alla cattura degli autori dei fatti di cui è a conoscenza;

• le informazioni necessarie per la individuazione, il sequestro e la confisca del denaro e dei beni propri o altrui

• l'attestazione di non essere in possesso di altre notizie o informazioni su fatti di particolare gravità diversi da quelli indicati;

• l'indicazione dei colloqui investigativi eventualmente intrattenuti.

Alla fine dovrà attestare in una sorta di formula di chiusura di non essere a conoscenza di

altri fatti di questa natura1.

1 Il verbale illustrativo ha il suo precedente nel “verbale delle dichiarazioni preliminari alla collaborazione” e nel “verbale di informazioni ai fini delle indagini” introdotti dall’art. 2 del regolamento di esecuzione n. 687/94 previsti rispettivamente per il collaboratore e per il testimone. L’istituto fu oggetto di conflitto di attribuzioni da parte del Procuratore della Repubblica di Napoli e la Corte Cost. con sent. 420 dell’8/9/95 lo risolse nel senso che il P.M. non poteva essere indotto a redigere tali atti se li riteneva pregiudizievoli per le indagini; il problema si poneva in concreto perché l’atto era allegato alla proposta di ammissione al programma e finiva dunque agli della commissione centrale. Oggi il problema sembra risolto sotto un duplice profilo: il verbale illustrativo è innanzitutto previsto da una legge e non da un atto di normazione secondaria e poi non va più alla commissione. Cfr. gli elementi da inserire nella richiesta.

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E’ un atto complesso anche nella sua veste giurisdizionale poiché può contenere nello stesso

atto dichiarazioni rese dalla persona indagata, dichiarazioni rese nella posizione di indagato

in procedimento connesso, testimone assistito, testimone.

Per questa ragione appare preferibile procedere sempre agli avvisi di cui all’art. 64 c.p.p. e

qualificare l’atto come interrogatorio e verbale illustrativo della collaborazione. In definitiva

appare corretto procedere alla redazione del verbale illustrativo fin dal primo interrogatorio

reso al P.M. a seguito della dichiarazione di disponibilità a collaborare, proseguendo

attraverso la redazione di successivi atti di interrogatorio che andranno a comporre, tutti

insieme, compreso l’ultimo con la dichiarazione finale, l’intero verbale della collaborazione.

Si procederà dunque sempre con gli avvisi dell’art. 64 c.p.p. anche se le singole dichiarazioni

potranno di volta in volta assumere il valore di dichiarazioni di persona informata sui fatti,

indagato, indagato in procedimento connesso, testimone assistito.

Invero sull’utilizzabilità delle dichiarazioni rese successivamente alla chiusura del

verbale illustrativo occorre spendere qualche parola.

• Sono inutilizzabili nella fase delle indagini e per le misure cautelari le dichiarazioni su fatti

nuovi e diversi da quelli riferiti nei 180 gg., se attengono a fatti di assoluta rilevanza e gravità

a cui il dichiarante non aveva fatto alcun cenno nel verbale illustrativo.

• Sono utilizzabili le medesime dichiarazioni che si riferiscono a fatti di minore rilievo e che il

collaboratore ben può avere dimenticato se non richiesto espressamente. Di essi, in ogni caso ,

non è possibile fare uso per le contestazioni in dibattimento.

• Sono utilizzabili le dichiarazioni sui fatti tratteggiati durante la redazione del verbale

illustrativo in maniera sintetica con il riferimento al nucleo essenziale degli stessi, quando tali

dichiarazioni sono di specificazione e di integrazione delle prime (es. indicati nei 180 gg.

mandanti ed esecutori materiali di un omicidio con l’indicazione di massima della condotta,

indicata anche nel tempo e nel luogo, si specificano successivamente in maniera dettagliata le

modalità dell’azione)2. Si tratta di un’interpretazione che mitiga il rigore del termine imposto

dalla legge, di particolare utilità per le collaborazioni più rilevanti3.

• Sono utilizzabili le dichiarazioni diverse ed ulteriori, anche nuove, che siano rese in

dibattimento, nel contraddittorio fra le parti4. Per tali dichiarazioni appare necessaria

2 Cfr. Cass., sez. II, 3 dicembre 2002, Mazza. 3 Va segnalato fra l’altro che al termine di 180 gg. imposto dalla legge non si applica la sospensione per il periodo feriale. 4 Cfr. fra le altre, Cass., sez. I, 14 marzo 2002, Greco; Cass., sez. V, 13 marzo 2002, Bagarella.

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l’opportunità di una più rigorosa valutazione di attendibilità ad opera del giudice, proprio

perché “nuove”.

APPROFONDENDO :

In tema di redazione del verbale illustrativo dei contenuti della collaborazione di cui all’art.

16 quater L. 82/91, sono sorte una serie di prassi, fondate su diverse interpretazioni del

verbale illustrativo.

Secondo una prima interpretazione, il verbale illustrativo dovrebbe essere redatto nella fase

iniziale della collaborazione, con l’indicazione sintetica, da parte del collaboratore di

giustizia, dei fatti di maggiore rilevanza, con la possibilità di successive integrazioni mediante

interrogatori di approfondimento; qualora, sempre nel termine di centottanta giorni dalla

manifestazione di volontà di collaborare con la giustizia, il collaboratore intendesse riferire

ulteriori episodi, vi sarebbe una sorta di riapertura del verbale illustrativo, sempre mediante

l’inserimento di una narrazione sintetica da sviluppare successivamente.

Secondo altra interpretazione, durante il periodo dei 180 giorni il collaboratore dovrebbe

rendere degli interrogatori ordinari; all’esito, e prima della scadenza del termine sopra

indicato, dovrebbe essere redatto il verbale illustrativo dei contenuti della collaborazione,

contenente la testuale ed integrale ri-proposizione dei verbali di interrogatorio sino a quel

momento redatti, da trascrivere materialmente e da rileggere al collaboratore per la definitiva

conferma; una variante alla integrale trascrizione dei verbali precedenti nel verbale

illustrativo finale potrebbe essere costituita dalla messa a disposizione del collaboratore dei

verbali pregressi e successiva conferma del loro contenuto nel corso del verbale illustrativo.

Secondo una terza prassi, tutte le dichiarazioni del collaboratore, assunte nel termine di 180

giorni, dovrebbero essere redatte nelle forme del verbale illustrativo dei contenuti della

collaborazione, con compilazione di un verbale finale, di carattere meramente riepilogativo e

riassuntivo.

Ciascuna delle su esposte tesi presenta aspetti positivi ed aspetti negativi.

La prima interpretazione, ha il pregio di prevedere una redazione sintetica del verbale

illustrativo, da utilizzare come parametro per gli approfondimenti successivi; ma lascia aperto

il campo alla necessità di riaprirlo successivamente per fatti nuovi nei 180 gg.

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Per quanto riguarda la seconda interpretazione, essa interpretazione finisce per essere

eccessivamente formalistica, in quanto un verbale illustrativo finale si riduce ad una mera

rilettura di fatti già narrati in precedenza.

Per quanto attiene alla terza interpretazione, essa apparentemente urta contro la lettera della

legge, nella parte in cui, nel citare il verbale illustrativo dei contenuti della collaborazione, la

norma pare voler fare riferimento alla redazione di un solo verbale. Tuttavia, al di là di

questioni lessicali, tale interpretazione presenta sicuri vantaggi rispetto alle altre soluzioni:

• in primo luogo, prevedendo la contestuale redazione di verbale di interrogatorio e di verbale

illustrativo, consente di superare ogni problema allorquando il collaboratore si trovi in libertà:

infatti, essendo testualmente previsto, per il verbale illustrativo, l’obbligo della fonoregistrazione

ex art. 141 bis c.p.p., alla stregua di detta interpretazione tutte le dichiarazioni del collaboratore

saranno raccolte integralmente ed in maniera genuina, il che appare in perfetta sintonia con la

ratio della normativa;

• in secondo luogo, consente di evitare il defatigante ricorso all’apertura di un verbale illustrativo

ogni volta che il collaboratore ricordi un episodio non citato in precedenza, con l’esigenza di

redigere -separatamente- l’interrogatorio di approfondimento;

• in terzo luogo, consente di cristallizzare, in maniera definitiva e completa, il contenuto della

collaborazione resa nel termine dei 180 giorni, non lasciando spazio a dubbi e perplessità in ordine

a quanto sia poi utilizzabile a fini probatori;

• in quarto luogo, la circostanza che il verbale illustrativo venga conservato in apposito fascicolo

tenuto dal Procuratore della Repubblica (art. 16 quater-III comma L. 203/91) consente -anche alla

luce di quanto sarà esposto in prosieguo in tema di modalità di conservazione degli atti- di avere

sempre immediatamente a disposizione il contenuto dell’apporto di conoscenze di ciascun

collaboratore.

°°°°°

Alla luce di tutto quanto esposto, pertanto, pur nel rispetto delle molteplici interpretazioni,

appare preferibile l’impostazione secondo cui, entro il termine di 180 giorni dalla

manifestazione di volontà di collaborare con l’A.G., ogni verbale sia redatto nelle forme del

verbale illustrativo dei contenuti della collaborazione (preferibilmente con l’intestazione

verbale di interrogatorio di persona sottoposta ad indagini e contestuale redazione di verbale

illustrativo dei contenuti della collaborazione).

Entro il termine innanzi indicato, potrà essere redatto un verbale riepilogativo, in cui

saranno richiamati, per ciascuno dei verbali pregressi, gli argomenti di volta in volta affrontati

(il che potrà rendere più agevole, in ogni momento, la ricerca delle questioni trattate dal

collaboratore, e potrà essere utile per verificare -con immediatezza- la rilevanza e lo spessore

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della collaborazione); inoltre, in tale verbale finale, potranno essere inseriti i dati e le notizie

di cui all’art. 16 quater comma IV (attestazione sulla inesistenza di ulteriori notizie da

fornire), all’art. 16 quater comma V (indicazione dei colloqui investigativi eventualmente

intrattenuti) ed all’art. 12 comma I (attestazione riguardante il proprio stato civile, di famiglia

e patrimoniale; obblighi derivanti dalla legge, da pronunzie dell’autorità o da negozi giuridici;

procedimenti penali, civili ed amministrativi pendenti; titoli di studio e professionali;

autorizzazioni, licenze e concessioni).

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ANCORA:

o modalità di conservazione del verbale illustrativo: formazione, per ogni collaboratore

di giustizia, di un fascicolo, iscritto a modello 45 e assegnato a un magistrato, avente

per oggetto la gestione della collaborazione – in cui saranno inseriti gli originali di

tutti i verbali e custodite le registrazioni. Conterrà poi tutta la parte amministrativa

della collaborazione fino alla capitalizzazione ed oltre.

Formazione di un fascicolo mod. 21 con copia conforme del verbale di interesse (da

iscrivere per es. per 416 bis C.P., 629, 648 bis c.p. Art. 7 l. 203/91 ecc…). Tale

fascicolo serve anche per caricare le spese del procedimento evitando i problemi del

mod. 45. Se vi sono più procedimenti di riferimento in ciascuno andrà il relativo

stralcio del verbale. Occorre mantenere questa duplicità e modalità di custodia anche

per le dichiarazioni assunte dopo i 180 gg, di specificazione e dettaglio delle prime

dichiarazioni. Occorre che il fascicolo mod. 45 contenga tutte le notizie utili,

possibilmente anche quelle sugli esiti processuali delle dichiarazioni, per consentire

in ogni momento al magistrato delegato di valutare il tenore della collaborazione ed

esprimere i richiesti pareri.

o modalità di raccolta delle dichiarazioni e titolarità interna del procedimento relativo

all’escussione del collaboratore, differiscono in relazione alla organizzazione interna

dell’ufficio ed alle direttive del Procuratore. Appare comunque preferibile mantenere

un rapporto diretto ed unitario fra il dichiarante ed i magistrati delegati per la gestione

del collaboratore, salvo l’intervento di altri sostituti su specifiche vicende e

determinati procedimenti.

o revoca o sostituzione della custodia cautelare per effetto della collaborazione, che l'

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articolo 16-octies l. 45/011 subordina a una triplice condizione: 1) tenere o aver tenuto

una condotta di collaborazione che consenta la concessione delle circostanze

attenuanti, ordinarie o speciali; 2) la mancata acquisizione di elementi dai quali si

desuma l'attualità dei collegamenti del collaboratore con la criminalità organizzata; 3)

l'accertato rispetto da parte del collaboratore, ove soggetto a speciali misure di

protezione, degli impegni assunti a norma dell'articolo 12.

La rilevanza dell'intervento del Procuratore nazionale antimafia.

Il suo parere, infatti, affiancando e non sostituendo quello del Pm competente, svolge

una peculiare finzione con riferimento al patrimonio informativo della D.N.A., che

viene messo a disposizione del giudice, proprio per la verifica della assenza di

elementi che denotino attualità di collegamenti con la criminalità organizzata di tipo

mafioso. Inoltre si tratta di un parere espresso “da lontano” rispetto al P.M. titolare

del fascicolo o della collaborazione.

Va sottolineato come la disciplina della legge e dell’art. 16-octies in particolare

esclude che la revoca o sostituzione della custodia cautelare possano avere carature

premiali per il solo fatto che l'interessato tenga o abbia tenuto una condotta ai

collaborazione, anche se di questa sia già stata accertata la credibilità e utilità

processuale. La valutazione da effettuare è complessa e deve involgere una serie di

verifiche importanti. Pertanto quando il collaboratore è sottoposto a misura cautelare

per gravi fatti di reato (omicidio, estorsione, associazione di stampo mafioso), appare

opportuno utilizzare l’intero tempo di 180 giorni dall'inizio della collaborazione quale

termine minimo per accertare (o escludere) sia l'attualità dei collegamenti del

collaboratore con le strutture criminali esterne, che il rispetto da parte sua, ove

soggetto a speciali misure di protezione, degli impegni assunti a norma dell'articolo

12.

Inoltre occorre sempre considerare, ed eventualmente rappresentare al collaboratore e

al suo difensore, i casi in cui la custodia cautelare, detratta ex art. 137 c.p. dalla durata

complessiva della pena, eviterebbe la prospettiva di future carcerazioni per

l'espiazione del "quarto della pena inflitta", prevista dall'art. 16-nonies, comma 4, L.

82/91, come condizione per l'applicazione dei benefici penitenziari.

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Tali criteri di riferimento dovranno essere chiaramente comunicati al collaboratore

detenuto, fin dal primo interrogatorio, per non ingenerare inutili aspettative e

conseguenti delusioni.

E’ controversa, e diverse sono le prassi interpretative delle Direzioni Distrettuali

antimafia, la questione della concedibilità del regime degli arresti domiciliari al

collaboratore di giustizia nell’ambito dei reati per cui vige la presunzione di

pericolosità dell’art. 275 co. 3 c.p.p.

La Procura nazionale antimafia è attestata su una posizione di rigorosa e formale

applicazione della norma del codice di procedura penale e formula in materia pareri

contrari. Le Procure distrettuali sembrano adottare interpretazioni fra loro diverse. La

Direzione Distrettuale di Napoli ragiona nel senso di ritenere in punto di diritto

applicabile la misura meno afflittiva sulla base del combinato disposto dell’art. 275

co. 3 c.p.p. e del cit. art. 16 octies, valorizzando la natura speciale della legge sui

collaboratori; in effetti il legislatore ha testualmente previsto all’art. 16 octies l’ipotesi

della revoca e della sostituzione, senza distinguere in ordine al titolo di reato per cui il

collaboratore è detenuto. La previsione appare razionale e logica in considerazione

della specialità della situazione soggettiva del collaboratore che cumula,

generalmente, la duplice condizione di essere indagato/imputato per gravissimi reati

di criminalità organizzata, ed al tempo stesso dichiarante e fonte di prova dell’accusa

per quegli stessi fatti. Nel ragionamento, decisiva appare la concessione dell’art. 8 l.

203/91 da parte del giudice dell’udienza preliminare.

La Corte di Cassazione nella sentenza Cass., II, n. 16967 del 12 gennaio 2006, Cerfeda, dichiara: " In tema di misure cautelari personali applicate nei confronti di appartenenti ad associazioni mafiose, il riconoscimento (nel giudizio di merito) dell'attenuante di cui al D.L. 13 maggio 1991, n. 152, art. 8 (convertito nella L. n. 203 del 1991) fa venire meno, oltreché gli effetti penali sostanziali di cui al precedente art. 7, anche gli effetti penali processuali, e - segnatamente - il particolare regime cautelare di cui all'art. 275 c.p.p., comma 3. È infatti lo stesso legislatore, con la posizione della norma, a prevedere il venir meno delle particolari esigenze cautelari sottese alle disposizioni eccezionali di cui all'art. 7 della citata legge, tra le quali lo speciale regime cautelare ex art. 275 c.p.p., comma 3. Ciò, peraltro, non comporta il venir meno della necessità di una valutazione della pericolosità del soggetto, ma implica soltanto che tale giudizio va espresso, a norma degli artt. 274 e 299 c.p.p., in coerenza con l'accertamento della dissociazione dell'imputato dall'organizzazione mafiosa" (Cass. 6^, sent. 238 del 5/4/2000, P.M. in proc. Ignoto V.). E ancora: Qualora il soggetto nei cui confronti è stata proposta una misura di prevenzione sia stato ammesso allo "speciale programma di protezione" previsto per i cd. collaboratori di giustizia dal D.L. 15 gennaio 1991, n. 8, art. 10 (convertito con modificazioni in L. 15 marzo 1991, n. 82), il requisito della pericolosità dev'essere puntualmente accertato sulla base di elementi di fatto idonei a superare la presunzione (derivante dalla suddetta ammissione) che il proposto abbia reciso i propri legami con il mondo del crimine" (Cass. 1^, sent. 5668 dell'11/12/97, Gennaro)".

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Alcuni organi giudicanti dei Tribunali campani seguono questa impostazione, che

riporta la discussione al momento della valutazione in concreto ed in fatto delle

esigenze, senza vincoli giuridici presuntivi.

o Qualche riflessione è opportuna in ordine alle cd. collaborazioni a catena, cioè

quelle collaborazioni da parte di affiliati a clan camorristici che seguono – in più o

meno rapida successione logica e cronologica - ad altre di affiliati alla stessa

organizzazione. L'art. 9, comma 3, L. 82/91 dispone che, ai fini dell'applicazione

delle misure speciali di protezione, assumono rilievo le dichiarazioni intrinsecamente

attendibili e che presentino, inoltre, carattere di novità o – congiuntamente o

alternativamente - quello di completezza. Il legislatore ha poi aggiunto una previsione

residuale in base alla quale, le dichiarazioni che, in ragione di altri elementi appaiano

di notevole importanza, possono essere valutate positivamente ai fini della

applicazione delle speciali misure di protezione. E’ evidente che la collaborazione a

catena può pagare dazio in ordine al requisito della novità , ma va recuperata nei

termini della notevole importanza, in relazione al parametro dell’art. 192 co. 3 sulla

convergenza del molteplice e nell’ottica del giudizio e delle necessarie conferme e

riscontri incrociati che ivi possano fornire alle dichiarazioni dei primi collaboranti.

o I verbali resi dal collaboratore nell’ambito del verbale illustrativo della collaborazione

sono generalmente depositati con i necessari ed opportuni omissis sui fatti diversi da

quelli del singolo procedimento in trattazione. Del resto, come ricordato, il verbale

illustrativo può essere acquisito (art. 16 sexies) su istanza di parte al fascicolo del

P.M. ai fini delle verifiche e delle contestazioni, nella parte in cui riferisce dei

soggetti e dei fatti di cui al processo. Capita che la difesa chieda d il deposito di altre

parti o, comunque di conoscere se vi siano espressi provvedimenti di segretazione da

parte del p.m., a norma dell’art. 329 c.p. delle parti omissate. Tali richieste vanno

respinte. Esse si fondano su di un’interpretazione non condivisibile delle disposizioni

in materia di “obbligo del segreto” degli atti di indagine, com’è significativamente

rubricato la norma. La norma difatti dispone, in via generale ed astratta, che gli atti di

indagine siano obbligatoriamente coperti da segreto istruttorio, sino a che l’imputato

non ne possa avere conoscenza e comunque non oltre la chiusura delle indagini

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preliminari. Il riferimento alla chiusura delle indagini preliminari rende chiaro che la

norma intende riferirsi alle attività investigative strettamente relative al “fatto”

specifico per il quale si procede nel corso del procedimento e dunque ad una

determinata ipotesi di reato e non ad un termine di riferimento diverso.

La segretezza delle indagini, dunque, è imposta dalla legge e non è prevista alcuna

manifestazione di volontà da parte dell’organo d’accusa per esplicitarne il contenuto (per es.

rispetto ad altri fatti commessi da un indagato ma per i quali le indagini continuano, o con

riferimento ad atti di indagine ancora in corso nei confronti di co-indagati). Infatti i commi 2

e 3 del medesimo art. 329 c.p.p., completando il sistema, dispongono per le eccezioni

all’assetto normativo appena descritto, rendendo possibile pubblicare - prima della chiusura -

alcuni atti di indagine relativi ad un fatto specifico (comma 2) o, viceversa, secretare – anche

oltre la chiusura delle indagini – atti di indagine relativi al fatto per il quale si procede e nei

confronti del medesimo imputato per cui si procede (comma 3).

Solo in questi ultimi casi, è dunque, necessario procedere a decreto motivato ed, in

particolare, quando in relazione esattamente al fatto dedotto in imputazione ed al medesimo

imputato per il quale si procede, esistano ulteriori atti di indagine, ritenuti non pubblicabili.

La disciplina prevista per il genus “atti di indagine”, va del resto coordinata con le

disposizioni di cui all’art. 16 quater d. l. n. 8 del 1991, per quella species di atti di indagine,

costituita dalle dichiarazioni rese da soggetti durante la redazione del verbale illustrativo dei

contenuti della collaborazione. In tal caso, come si è detto il verbale, nella sua interezza, non

costituisce in senso stretto “atto di indagine”, tanto che esso va custodito in un “apposito

fascicolo” tenuto dal Procuratore della Repubblica, che - in particolare - è quello cd. a mod.

45. Il sistema sembra congegnato nel senso che le dichiarazioni, per così dire, divengono atti

di indagine conoscibili quand’esse “per estratto”, ossia nella parte in cui esse si riferiscono al

fatto per cui si procede ed allo specifico imputato, vengono estrapolate dall’apposito fascicolo

tenuto dal Procuratore della Repubblica ed allegate alla richiesta di rinvio a giudizio (la norma

fa riferimento espresso all’art. 416, comma secondo, c.p.p.). Ed infatti il legislatore

espressamente ha cura di chiarire che dovranno essere ritenute non più segrete unicamente le

dichiarazioni, “per estratto”, che siano relative al procedimento cui “rispettivamente e

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direttamente” si riferiscono. Ne deriva che non c’è bisogno di alcun provvedimento formale di

segregazione per le dichiarazioni omissate e non trasmesse, anzi non allegate al fascicolo del

pubblico ministero per il reato per cui si procede.

§ 2. Il testimone di giustizia. Nozione; redazione del verbale illustrativo.

La nozione della legge: art. 16 bis della legge 82/91 prevede che le speciali misure di

protezione, se ne ricorrono i presupposti, si applicano a coloro che assumono rispetto al

fatto o ai fatti delittuosi in ordine ai quali rendono dichiarazioni esclusivamente la qualità di

persona offesa dal reato, ovvero di persona informata sui fatti o di testimone, purché nei loro

confronti non sia stata disposta una misura di prevenzione, ovvero non sia in corso un

procedimento di applicazione della stessa.

Va subito evidenziato che la figura non coinvolge solo le conoscenze con riferimento ai reati

di mafia e terrorismo. Occorre verificare solo la attendibilità, non anche novità e completezza

delle dichiarazioni.

La commissione centrale in data 18 dicembre 2006 restringe il campo con una determina a cui

si atterrà per la concessione delle misure tutorie.

L’esperienza infatti ha evidenziato che non è corretto riferirsi alle nozioni tecniche del c.p.p.

poiché altrimenti si rischia di considerare testimoni di giustizia soggetti con gravissimi

precedenti penali, soggetti indagati dinanzi ad altra autorità giudiziaria, familiari di

personaggi di primo rilievo della criminalità organizzata e come tali in qualche modo da

ritenersi intranei al contesto criminale.

Ebbene la commissione ha tratto dalla previsione che i testimoni di giustizia non devono

essere stati sottoposti a misure di prevenzione, il dato più generale secondo il quale essi non

devono essere interessati da un giudizio di pericolosità sociale desunto da qualsiasi

informazione utili che il proponente o altre autorità possono fornire. In tal modo si eviterà si

qualificare come meri testimoni di giustizia soggetti con un rapporto di intraneità o

comunque di contiguità non occasionale con contesti criminali.

E’ evidente che occorre in qualche modo sottostare a tale definizione che in ogni caso appare

condivisibile, poiché si tratta di una sorta di interpretazione autentica che proviene

dall’organo che dovrà deliberare sulle misure di protezione e dunque qualificare la natura del

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dichiarante. Si ripropone qui il problema, che spesso fa capolino in questa materia, dei

rapporti fra l’ organo politico - amministrativo (Commissione Centrale) e l’ organo

giurisdizionale che gestisce la collaborazione ( p.m.)5.

Il problema della redazione del verbale illustrativo per il testimone di giustizia.

Fin dalla entrata in vigore della 1. 45/01 che ha introdotto rilevanti modifiche alla 1.

82/91 con riferimento alla tematica dei collaboratori di giustizia, tutti i commentatori e gli

operatori pratici che a quell'impianto normativo si erano avvicinati, avevano rilevato come

non pochi punti delle nuove disposizioni apparivano di difficile lettura anche per l'incerta

terminologia utilizzata.

Fra i tanti quesiti ermeneutici che si erano posti, uno aveva riguardato la nuova figura

dei cd testimoni di giustizia – termine quest'ultimo che se rendeva in modo

semplificato e chiaro a quale categoria ci si volesse rivolgere, era esso stesso del tutto a-

tecnico e, come si è visto, necessitante di una ulteriore specificazione in ordine ai

soggetti che in concreto potessero essere qualificati come tali.

Inoltre si pose immediatamente il problema del se anche questi soggetti dovessero

essere chiamati a redigere quella nuova figura di atto di rilevanza sia giurisdizionale

che amministrativa e cioè il cd verbale illustrativo dei contenuti della collaborazione

di cui all'art. 16 quater della 1. 82/91 come appunto emendato dalla 1. 45/01.

La dottrina che si era occupata dello specifico punto era apparsa subito divisa.

I fautori del no si erano soffermati sui seguenti punti:

Il verbale illustrativo era stato introdotto per sterilizzare il fenomemo delle cd.

"dichiarazioni a rate" dei collaboratori di giustizia e si manifestava pertanto

incompatibile con la figura del testimone (rectius della persona informata sui fatti),

soggetto che normalmente ha un ambito di conoscenze limitato e che tendenzialmente

può offrire il suo contributo alla giustizia con riferimento a limitate vicende processuali.

Alcuni spunti letterali sembravano confermare questa specifica lettura; in primo luogo

il comma 2 dell'art. 16 bis della 1. 82/91 come mod. dalla I. 45/01 indicava quale unico

requisito necessario per poter accedere ai benefici amministrativi previsti dalla legge

5 E' vero che contro eventuali provvedimenti è possibile il ricorso al Tar da parte degli interessati, ma è altrettanto vero che, ad esempio, per i p.m. della Dda richiedenti i programmi il diniego del programma di protezione non trova di fatto la possibilità di mezzo di gravame alcuno.

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quello che le dichiarazioni rese dal testimone dovessero avere il carattere della sola

attendibilità, a differenza di quelle del collaboratore per le quali si richiedono anche i

requisiti della novità e soprattutto della completezza; proprio tale ultimo carattere

appare strettamente connaturato al verbale illustrativo dei contenuti della

collaborazione, alla chiusura del quale il dichiarante (comma 4 art. 16 quater) è tenuto

ad affermare di non avere altre cose rilevanti da riferire.

Inoltre il primo comma dell’ art. 16 quater indicava l'esistenza di un obbligo di redazione del

verbale illustrativo per coloro che manifestano la volontà di collaborare con la giustizia;

volontà questa riscontrabile nel solo collaboratore di giustizia e non anche nel testimone che è

tenuto per legge a rendere dichiarazioni ed a renderle veritiere.

Infine argomento di non minore significato si traeva dalle conseguenze pratiche connesse alla

mancata redazione del verbale illustrativo e cioè l'impossibilità ex art. 16 quinques 1. 82/91

come mod. dalla 1. 45/01 di ottenere le circostanze attenuanti, impossibilità significativa per

collaboratore di giustizia e non per il testimone che si era limitato a riferire fatti a sua

conoscenza.

I fautori del si avevano fatto leva su altrettanti elementi letterali:

In particolare decisivo era apparso il riferimento al nomina 2 dell'art. 16 quater che

trattando del verbale illustrativo esplicitamente indicava quali informazioni non

andassero richieste ai cd. testimoni di giustizia, in tal modo rendendo evidente che il

testimone di giustizia era tenuto a sottoscrivere il verbale illustrativo.

Così per l’ art. 16 sexies che a proposito dell'esame dibattimentale del collaboratore

sentito come testimone, prevede che il giudice possa, su richiesta di parte far confluire

nel fascicolo del p.m. lo stralcio del verbale illustrativo.

In realtà gli argomenti letterali appaiono tutt' altro che decisivi, soprattutto se si tiene

presente che la legge è ricca di parole poco tecniche e di imprecisioni, per cui appare

davvero difficile trarre solo da essa soluzioni definitive.

Va, però, evidenziato che la Commissione centrale si è orientata per la tesi della

necessità anche per i testimoni di giustizia del verbale illustrativo e si tratta di una

presa di posizione certamente significativa, perché di conseguenza l'organo non

accederà a richieste di programma senza l'atto di cui all'art. 16 quater.

Occorre però tenere distinti gli effetti amministrativi da quelli giurisdizionali; invero la

Commissione sembra “pretendere” sottoscrizione di un verbale illustrativo inteso come

impegno del testimone a rispettare gli impegni che saranno poi cristallizzati nel contratto

di protezione. Si tratta di una sorta di “garanzia di serietà” assunta dinanzi al ap.m.

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quando si rilasciano le dichiarazioni. Dal punto di vista procedurale, sembra applicabile,

di conseguenza, l’obbligo di verbalizzazione ex art. 141 bis c.p.p.; diverso discorso merita

la questione della utilizzabilità delle dichiarazioni rese oltre i 180 gg. dunque fuori del

verbale illustrativo.

La Suprema corte, come sotto riportato, ha sempre escluso che alle dichiarazioni del

testimone di giustizia sia applicabile la sanzione di inutilizzabilità previste per il

collaboratore di giustizia per le dichiarazioni postume.

Ancora una volta emerge come l’interpretazione di istituti di carattere giurisdizionale è

influenzata dalle necessità amministrative. Infatti l’unica lettura possibile appare essere

quella di limitare la redazione del verbale illustrativo al soli testimoni che vogliono

accedere alle misure tutorie, considerato che l’unica reale esigenza di redazioen di tale

atto è quella di acquisire la volontà del testimone di sottoporsi alle speciali misure tutorie

previste dalla legge.

La lettura proposta è conforme sia alle finalità della norma di cui all'art. 16 bis sia

soprattutto alla funzione del verbale illustrativo che oltre ad avere valenza giudiziaria è,

anche per il collaboratore di giustizia, il necessario viatico per accedere al programma di

protezione.

Nei casi diversi il testimone che non intenda accedere a misure tutorie non dovrebbe

redigere verbale illustrativo alcuno, anche se il suo contributo di conoscenze dovesse

riguardare delitti di cui all'art. 51 c. 3 bis c.p.p. – Dunque, si è correttamente sostenuto, il

testimone di giustizia assume la sua connotazione non tanto per il fatto di essere teste

rispetto al processo, quanto per il fatto di non essere indagato rispetto al fatto per cui si

procede, di non essere collaboratore di giustizia e di chiedere un programma di misure

tutorie.

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Alcune massime in tema di verbale illustrativo della collaborazione.

Sez. 5, Sentenza n. 16199 del 01/03/2002 Ud. (dep. 03/05/2002 ) Rv. 221909 Presidente: Marrone F. Estensore: Fumo M. Imputato: Di Dio R ed altro. P.M. Monetti V. (Conf.) (Rigetta, Ass. App. Catania, 30 marzo 2001).

673012 PROVE (COD. PROC. PEN. 1988) - CHIAMATA DI CORREO - Collaboratori di giustizia - Soggetti che abbiano iniziato a collaborare prima delle entrata in vigore della legge 13.2.2001 n. 45 - Necessità di compilazione del verbale illustrativo dei contenuti della collaborazione - Esclusione.

I soggetti che abbiano concretamente ed effettivamente dato avvio alla collaborazione con la giustizia sotto il vigore della normativa previgente alla legge 13 febbraio 2001 n. 45, non sono tenuti alla redazione del verbale illustrativo dei contenuti della collaborazione (previsto dall'art 16 quater, introdotto dalla predetta legge n. 45/2001 nel corpo del D.L. 15 gennaio 1991 n. 8, conv. con modif. in legge 15 marzo 1991 n.82), atteso che, la utilizzabilità delle loro dichiarazioni, al pari della concedibilità delle attenuanti conseguenti alla collaborazione, come pure della eventuale proroga delle misure tutorie ed assistenziali, a suo tempo concesse, sono sinallagmaticamente legate alla già prestata collaborazione (oltre che -per quanto concerne le suddette misure - al perdurare dello stato di grave ed attuale pericolo), mentre la disciplina transitoria, introdotta dall'art. 25 della legge 13 febbraio 2001 n. 45 estende le nuove prescrizioni a chi abbia semplicemente manifestato la volontà di collaborare (ma non abbia, di fatto, ancora iniziato a rendere dichiarazioni collaborative), prima della entrata in vigore della novella legislativa.

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Sez. 1, Sentenza n. 41028 del 13/11/2002 Cc. (dep. 05/12/2002 ) Rv. 222713 Presidente: Sossi M. Estensore: Vancheri A. Imputato: Fiore. P.M. Abbate A. (Diff.) (Annulla con rinvio, Trib. Bari, 12 aprile 2002).

662008 IMPUTATO (COD. PROC. PEN. 1988) - DICHIARAZIONI - IN GENERE - Collaboratori di giustizia - Rinnovo dell'esame "ex" art. 26, comma 2, legge n. 63 del 2001 - Avvertenze di cui all'art. 64, comma 3, cod. proc. pen. rivolte in occasione della redazione del verbale illustrativo dei contenuti della collaborazione - Utilizzabilità delle dichiarazioni - Sussistenza.

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Le dichiarazioni rese da cd. "collaboratore di giustizia" in occasione del rinnovato esame prescritto dall'art. 26, comma 2, della legge 1 marzo 2001 n. 63 sul cd. "giusto processo" sono utilizzabili anche se le avvertenze previste dall'art. 64, comma 3, cod. proc. pen. risultano a lui rivolte non in quella sede, bensì nel corso della redazione del verbale illustrativo dei contenuti della collaborazione, in quanto la legge, nell'imporre il rinnovo dell'esame, non obbliga a formalizzarlo in un atto distinto dal citato verbale illustrativo.

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Sez. 1, Sentenza n. 2360 del 29/11/2005 Cc. (dep. 19/01/2006 ) Rv. 233195 Presidente: Silvestri G. Estensore: Riggio G. Relatore: Riggio G. Imputato: Bellavia. P.M. Cesqui E. (Conf.) (Annulla senza rinvio, Trib.sorv. Campobasso, 29 Aprile 2005)

563000 ISTITUTI DI PREVENZIONE E DI PENA (ORDINAMENTO PENITENZIARIO) - Benefici penitenziari a favore dei cosiddetti collaboratori di giustizia - Presupposti per la concessione - Redazione del verbale illustrativo dei contenuti della collaborazione - Regime transitorio - Collaborazione già ultimata alla data di entrata in vigore della disposizione - Necessità del verbale - Esclusione.

Ai fini della concessione di benefici penitenziari ai collaboratori di giustizia non è richiesta la redazione del verbale illustrativo dei contenuti della collaborazione, qualora questa si sia integralmente esaurita prima dell'entrata in vigore della L. n. 45 del 2001, nella cui disciplina transitoria è prevista la redazione del predetto verbale per coloro la cui collaborazione non è ancora cominciata, ovvero, pur essendo iniziata, è ancora in corso.

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Sez. 1, Sentenza n. 8836 del 10/01/2006 Cc. (dep. 14/03/2006 ) Rv. 233579

Presidente: Fazzioli E. Estensore: Riggio G. Relatore: Riggio G. Imputato: Cammalleri. P.M. Ciani G. (Parz. Diff.) (Rigetta, Trib. lib. Caltanissetta, 6 Giugno 2005)

664108 MISURE CAUTELARI - REALI - IN GENERE - Presupposti - Dichiarazioni contenute nel verbale illustrativo di collaboratore di giustizia - Requisiti - Coefficiente minimo di determinatezza al fine della successiva individuazione dei cespiti patrimoniali - Sufficienza.

I contenuti delle dichiarazioni assunte nel verbale illustrativo del collaboratore di giustizia, relativi a notizie utili all'individuazione di cespiti patrimoniali, devono avere un coefficiente anche minimo di determinatezza, tale da indirizzare e consentire l'inizio di indagini volte ad accertare l'esistenza di quei cespiti e l'inferenza rispetto al contesto procedimentale che giustifichi l'adozione di una misura cautelare reale e di un provvedimento ablatorio, restando escluso, quindi, che le informazioni fornite dal dichiarante debbano avere carattere di compiuta specificità.

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Sez. 1, Sentenza n. 19511 del 15/01/2010 Ud. (dep. 24/05/2010 ) Rv. 247198 Presidente: Fazzioli E. Estensore: Zampetti U. Relatore: Zampetti U. Imputato: Basco e altri. P.M. Fraticelli M. (Conf.) (Rigetta in parte, Ass.App. Napoli, 19 giugno 2008)

673001 PROVE - IN GENERE - Dichiarazioni dei collaboratori di giustizia che abbiano iniziato a collaborare prima dell'entrata in vigore della legge n. 45 del 2001 - Utilizzabilità - Deposito del verbale illustrativo - Necessità - Esclusione.

Le dichiarazioni dei cd. collaboratori di giustizia che abbiano iniziato a collaborare con l'autorità giudiziaria prima dell'entrata in vigore della legge 13 febbraio 2001 n. 45 (modifica della disciplina della protezione e del trattamento sanzionatorio di coloro che collaborano con la giustizia) sono utilizzabili anche senza che sia stato compilato il verbale illustrativo dei contenuti della loro collaborazione previsto dall'art. 14 della predetta legge.

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Sez. 6, Sentenza n. 14556 del 25/03/2011 Ud. (dep. 12/04/2011 ) Rv. 249729 Presidente: Di Virginio A. Estensore: Lanza L. Relatore: Lanza L. Imputato: Belluso e altri. P.M. D'Angelo G. (Conf.) (Rigetta in parte, App. Catania, 30 marzo 2009)

673001 PROVE - IN GENERE - Dichiarazioni dei cosiddetti "collaboratori di giustizia" - Utilizzabilità - Termine di centottanta giorni - Decorrenza - Indicazione.

Ai fini dell'utilizzabilità delle dichiarazioni res e dai cosidetti collaboratori di giustizia, il momento dal quale inizia a decorrere il termine di centottanta giorni entro cui la persona che abbia manifestato la volontà di collaborare deve rendere note al Procuratore della Repubblica tutte le notizie di cui è in possesso, coincide con la redazione del verbale illustrativo dei contenuti della collaborazione, e non con quello in cui tale volontà è stata solo genericamente manifestata.

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A PROPROSITO DELLE DICHIARAZIONI RESE DOPO I 180 GG. {58DF391C} /xw ay/application

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Sez. 5, Sentenza n. 46328 del 06/11/2007 Ud. (dep. 12/12/2007 ) Rv. 237979 Presidente: Calabrese RL. Estensore: Sandrelli GG. Relatore: Sandrelli GG. Imputato: Galletta e altri. P.M. Fraticelli M. (Conf.) (Rigetta, Ass.App. Catania, 19 Maggio 2006)

673012 PROVE - CHIAMATA DI CORREO - Collaboratore di giustizia - Dichiarazioni rese al dibattimento dopo il termine di centoottanta giorni dalla redazione del verbale informativo sui contenuti della collaborazione - Inutilizzabilità - Esclusione.

La sanzione di inutilizzabilità che, ai sensi dell'art. 16 quater, comma nono, del D.L. 15 gennaio 1991 n. 8, conv. con mod. in L. 15 marzo 1991 n. 82 (introdotto nel corpo del citato D.L. dall'art. 14 L. 13 febbraio 2001 n. 45), colpisce le dichiarazioni del collaboratore di giustizia rese oltre il termine di centottanta giorni, previsto per la redazione del verbale informativo dei contenuti della collaborazione, trova applicazione solo con riferimento alle dichiarazioni rese fuori dal contraddittorio e non, dunque, alle dichiarazioni rese nel corso del dibattimento, anche in considerazione del fatto che, se la collaborazione si manifesta proprio in tale fase processuale, all'interessato possono essere concesse, ai sensi dell'art. 16 quinquies, comma terzo, del D.L. n. 8 del 1991, le attenuanti conseguenti alla collaborazione, pur in mancanza del verbale illustrativo, che dovrà essere redatto successivamente.

Sez. 1, Sentenza n. 7258 del 21/12/2005 Cc. (dep. 27/02/2006 ) Rv. 234079 Presidente: Silvestri G. Estensore: Cassano M. Relatore: Cassano M. Imputato: Marchisciana. P.M. Esposito V. (Diff.) (Annulla con rinvio, Trib. lib. Caltanissetta, 6 giugno 2005)

664 MISURE CAUTELARI (Cod. proc. pen. 1988) - 108 REALI - IN GENERE MISURE CAUTELARI - REALI - IN GENERE - Collaboratore di giustizia - Nuova disciplina prevista dall'art. 14 L. 13 febbraio 2001 n. 45 - Dichiarazioni rese oltre il termine di centottanta giorni - Inutilizzabilità.

In tema di misure cautelari reali (nella specie un provvedimento di sequestro preventivo), le dichiarazioni rese da un collaboratore di giustizia oltre il termine di centottanta giorni (previsto dall'art. 16 quater, comma primo, D.L. 15 gennaio 1991 n. 8, conv. con modif. in L. 15 marzo 1991 n. 82, introdotto dall'art. 14 L. 13 febbraio 2001 n. 45), decorrente dall'inizio della collaborazione, sono inutilizzabili non solo nella fase dibattimentale di valutazione della prova ai fini della deliberazione della colpevolezza dell'imputato, ma anche in quella delle indagini preliminari e, in particolare, nell'ambito del procedimento cautelare. Il D.L. 15 gennaio 1991 n. 8, art. 16 quater,

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comma 1, convertito con modificazioni in L. 15 marzo 1991, n. 82, introdotto dalla L. 13 febbraio 2001, n. 45, art. 14 introduce una regola di esclusione probatoria e sancisce un divieto di utilizzabilità delle dichiarazioni rese contra alios dal collaboratore di giustizia - sentito dal pubblico ministero o dalla polizia giudiziaria - oltre il termine di centottanta giorni, decorrente dall'inizio della collaborazione, sempre che tali propalazioni abbiano ad oggetto episodi criminosi e soggetti diversi rispetto a quelli già in precedenza riferiti.

Sez. 1, Sentenza n. 5241 del 15/12/2005 Cc. (dep. 10/02/2006 ) Rv. 234078 Presidente: Fazzioli E. Estensore: Giordano U. Relatore: Giordano U. Imputato: Cammarata. P.M. Cedrangolo O. (Parz. Diff.) (Rigetta, Trib.lib. Caltanissetta, 6 giugno 2005)

664 MISURE CAUTELARI (Cod. proc. pen. 1988) - 108 REALI - IN GENERE - MISURE CAUTELARI - REALI - IN GENERE - Collaboratore di giustizia - Nuova disciplina prevista dall'art. 14 legge 13 febbraio 2001 n. 45 - Dichiarazioni rese oltre il termine di centottanta giorni - Utilizzabilità - Ragioni.

Ai fini dell'applicazione di una misura cautelare reale possono essere utilizzate le dichiarazioni rese da un collaboratore di giustizia dopo il termine di centottanta giorni, decorrente dalla manifestazione della volontà di collaborare previsto dall'art. 16 quater della legge 15 marzo 1991 n. 82, introdotto dall'art. 14 della legge 13 febbraio 2001 n. 45, atteso il tenore dell'art. 16 quater, comma nove, della legge citata che prevede l'inutilizzabilità delle suddette dichiarazioni solo come "prova" dei fatti in esse affermati ai fini del giudizio.

Sez. 2, Sentenza n. 2964 del 03/12/2002 Cc. (dep. 21/01/2003 ) Rv. 223480 Presidente: Morelli F. Estensore: Fantacchiotti M. Imputato: Mazza C. P.M. Frasso A. (Diff.) (Annulla con rinvio, Trib. Napoli, 3 dicembre 2002).

73 PROVE (Cod. proc. pen. 1988) - 012 CHIAMATA DI CORREO - PROVE (COD. PROC. PEN. 1988) - CHIAMATA DI CORREO - Collaboratore di giustizia - Dichiarazioni rese oltre il centottantesimo giorno da quello in cui fu manifestata la volontà di collaborare - Precisazioni e integrazioni su episodi già riferiti- Utilizzabilità.

Le disposizioni previste dall'art. 16 quater D.L. 15 gennaio n. 8 convertito in legge 15 marzo 1991 n. 82, che sanciscono la inutilizzabilità delle dichiarazioni rese dal collaborante decorsi i 180 giorni dalla manifestazione di volontà di collaborare non si applicano a quelle dichiarazioni rese come precisazione ed integrazione sollecitate dagli organi inquirenti per chiarimenti ulteriori sugli episodi già riferiti nei termini di legge, purché non portino alla individuazione di episodi criminosi nuovi e diversi o di ulteriori soggetti responsabili degli episodi già denunciati.

SUI TESTIMONI DI GIUSTIZIA

Sez. 2, Sentenza n. 42851 del 21/11/2002 Cc. (dep. 18/12/2002 ) Rv. 223411 Presidente: Lacanna P. Estensore: Macchia A. Imputato: Bertuca. P.M. Iacoviello FM. (Conf.)

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(Rigetta, Trib.Reggio Calabria, 7 febbraio 2002).

673001 PROVE (COD. PROC. PEN. 1988) - IN GENERE - Dichiarazioni dei c.d. "testimoni di giustizia" - Nuova disciplina prevista dall'art. 16 quater del d.l. 15 gennaio 1991, n. 8 come modificato dall'art. 14 della legge 13 febbraio 2001, n. 45 - Termine di centottanta giorni - Applicabilità - Esclusione.

Non è applicabile ai "testimoni di giustizia" la nuova disciplina prevista dall'art. 16 quater del d.l. 15 gennaio 1991, n. 8 (convertito nella legge 15 marzo 1981, n. 82), come modificata dall'art. 14 della legge 13 febbraio 2001, n. 45, prevista per i collaboratori di giustizia, che stabilisce a pena di inutilizzabilità, precisi limiti temporali (180 giorni) per la raccolta delle dichiarazioni eteroaccusatorie. (Fattispecie in cui la Corte ha evidenziato la netta distinzione esistente tra le figure del "collaboratore di giustizia" e quella del "testimone di giustizia", in base alla complessiva normativa di riferimento prevista per i secondi, in modo esplicito, nel capo II bis del d.l. 15 gennaio 1991, n. 8, nonché dalla specifica previsione di cui all'art. 16 bis , comma 1 l.c.).

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Sez. 2, Sentenza n. 42851 del 21/11/2002 Cc. (dep. 18/12/2002 ) Rv. 223412 Presidente: Lacanna P. Estensore: Macchia A. Imputato: Bertuca. P.M. Iacoviello FM. (Conf.) (Rigetta, Trib.Reggio Calabria, 7 febbraio 2002).

673001 PROVE (COD. PROC. PEN. 1988) - IN GENERE - Dichiarazioni dei c. "testimoni di giustizia" - Disciplina prevista dall'art. 16 quater d.l. 15 gennaio 1991, n.8 - Osservanza del termine di 180 giorni per la raccolta delle dichiarazioni- Necessità - Insussistenza. Sanzione dell'inutilizzabilità - Inapplicabilità.

Non è applicabile alle dichiarazioni dei c.d. "testimoni di giustizia" la disciplina prevista dall'art. 16 quater del d.l. 15 gennaio 1991, n. 8, introdotto dalla legge n. 45 del 13 febbraio 2001, ed in particolare il regime di valutazione delle prove disciplinato dall'art. 192, comma 3 cod. proc. pen. Infatti il "carattere di attendibilità" postulato dall'art. 16 quater non attiene ad una qualità soggettiva del dichiarante, tale da riverberare i suoi effetti in sede processuale, ma evidenzia soltanto la necessità di un sindacato di natura tipicamente amministrativa, destinato a verificare la sussistenza dei presupposti per l'applicazione delle speciali misure di protezione in favore della nuova figura dei "testimoni di giustizia", di cui allo specifico capo II bis del d.l. citato.

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penale

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Sez. 6, Sentenza n. 27040 del 22/01/2008 Ud. (dep. 03/07/2008 ) Rv. 241006 Presidente: Ambrosini G. Estensore: Mannino SF. Relatore: Mannino SF. Imputato: Aparo e altri. P.M. Geraci V. (Conf.) (Rigetta, App. Reggio Calabria, 26 Febbraio 2007)

673012 PROVE - CHIAMATA DI CORREO - Dichiarazioni dei cosiddetti "testimoni di giustizia" - Nuova disciplina prevista dall'art. 16 quater del D.L. 15 gennaio 1991, n. 8, come modificato dall'art. 14 della L. 13 febbraio 2001, n. 45 - Termine di centottanta giorni - Applicabilità - Esclusione.

Il termine di 180 giorni per la raccolta delle dichiarazioni accusatorie previsto per i "collaboratori di giustizia" dall'art. 16-quater D.L. 15 gennaio 1991, n. 8, convertito nella L. 15 marzo 1991, n. 82, come modificata dall'art. 14 della L. 13 febbraio 2001, n. 45, non è applicabile alle dichiarazioni rese dai "testimoni di giustizia".

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Sez. 1, Sentenza n. 14929 del 21/02/2008 Cc. (dep. 09/04/2008 ) Rv. 240136 Presidente: Siotto MC. Estensore: Corradini G. Relatore: Corradini G. Imputato: Carmignani. P.M. Passacantando G. (Diff.) (Dichiara inammissibile, Trib.sorv. Torino, 17 Aprile 2007)

563000 ISTITUTI DI PREVENZIONE E DI PENA (ORDINAMENTO PENITENZIARIO) - Benefici penitenziari - Disciplina i cui all'art. 58 ter. L. n. 354 del 1975 - Applicabilità ai "testimoni di giustizia" - Esclusione.

In tema di benefici penitenziari riconosciuti ai collaboratori di giustizia, la disciplina prevista dall'art. 58 ter L. 26 luglio 1975, n. 354 non trova applicazione con riferimento ai "testimoni di giustizia".

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CONSIGLIO SUPERIORE DELLA MAGISTRATURA

NONA COMMISSIONE – TIROCINIO E FORMAZIONE PROFESSIO NALE

Incontro di studio sul tema: Corso “Giovanni Falcone e Paolo Borsellino” “Le tecniche d’indagine ed il ruolo del p.m.

nelle indagini ordinarie e di criminalità organizzata”

Roma, 7-11 maggio 2012 ---------------------------------

La chiamata in correità o in reità: criteri di valutazione e ricerca dei riscontri anche in relazione alla fattispecie del concorso esterno in

associazione mafiosa

(appunti e … spunti per il gruppo di lavoro)

RELATORE

dott. Antonio Ardituro Sost. Proc. presso il Tribunale di Napoli

Direzione Distrettuale Antimafia

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IL CONCORSO ESTERNO IN ASSOCIAZIONE MAFIOSA (appunti per un dibattito6)

Tema centrale del dibattito in materia di indagini sui reati di criminalità organizzata, è

senz’altro quello sul “concorso esterno nell’associazione mafiosa”, di attualità anche per

effetto della decisione della Corte di Cassazione nel processo Dell’Utri e delle considerazioni,

non solo mediatiche, che seguirono la diffusione degli appunti della requisitoria del

rappresentante della Procura Generale in quella occasione.

Si tratta delle riflessioni che devono essere operate in ordine al contrasto dell’area grigia fra

mafia e società civile che trova innanzitutto nell’imprenditore, nel politico e nel pubblico

funzionario i soggetti protagonisti dell’infiltrazione nello strategico settore degli appalti e

delle commesse pubbliche.

Pur non essendo questa la sede per una approfondita analisi in materia, è evidente che un

primo spazio va dedicato sul punto al concorso esterno in associazione mafiosa, tralasciandosi

ogni riferimento alle ipotesi, non infrequenti, in cui la condotta dell’imprenditore e del

politico, per le sue connotazioni di stabilità e di coinvolgimento – compreso il relativo dolo

specifico7 - si caratterizza in termini di vera e propria partecipazione ex art. 416 bis c.p. Come

6 Riflessioni tratte in parte da un saggio in corso di pubblicazione per Giappichelli dal titolo “Le infiltrazioni dei

sodalizi mafiosi nell’acquisizione e nella gestione degli appalti pubblici”.

7 Sez. U, Sentenza n. 30 del 27/09/1995 Cc. (dep. 14/12/1995 ) Presidente: Guasco G. Estensore: Battisti M. Imputato: Mannino. (Conf.) (Rigetta, Trib. Palermo, 21 marzo 1995). Ai fini della configurabilità, sul piano soggettivo, del concorso esterno nel delitto associativo non si richiede, in capo al concorrente, il dolo specifico proprio del partecipe, dolo che consiste nella consapevolezza di far parte dell'associazione e nella volontà di contribuire a tenerla in vita e a farle raggiungere gli obiettivi che si è prefissa, bensì quello generico, consistente nella coscienza e volontà di dare il proprio contributo al conseguimento degli scopi dell'associazione.

Sez. 1, Sentenza n. 4043 del 25/11/2003 Ud. (dep. 03/02/2004 ) Rv. 229992 Presidente: Fazzioli E. Estensore: Mocali P. Relatore: Mocali P. Imputato: Cito. L'elemento soggettivo del delitto di associazione di tipo mafioso consiste nel dolo specifico, avente ad oggetto la prestazione di un contributo utile alla vita del sodalizio ed alla realizzazione dei suoi scopi, sia nel caso della partecipazione all'ente associativo che nel caso del cosiddetto "concorso esterno", così accomunando i responsabili nell'intenzione di commettere il "medesimo reato" secondo il postulato dell'art. 110 cod. pen. Il dolo del partecipe si distingue da quello del concorrente sotto il diverso profilo che il primo vuol fornire il descritto contributo dall'interno dell'associazione, mentre il secondo, in corrispondenza del carattere atipico di una condotta rilevante per effetto del citato art. 110, intende prestarlo senza far parte della compagine sociale.

Sez. U, Sentenza n. 33748 del 12/07/2005 Ud. (dep. 20/09/2005 ) Rv. 231672 Presidente: Marvulli N. Estensore: Canzio G. Relatore: Canzio G. Imputato: Mannino. P.M. Siniscalchi A. (Parz. Diff.) . (Annulla con rinvio, App. Palermo, 11 Maggio 2004).

In tema di associazione di tipo mafioso, ai fini della configurabilità del concorso esterno occorre che il dolo investa sia il fatto tipico oggetto della previsione incriminatrice, sia il contributo causale recato dalla condotta

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noto, la questione è stata oggetto di un intenso dibattito dottrinale e giurisprudenziale, oggi

stabilizzato per effetto della sentenza delle Sezioni Unite 12 luglio 2005, Mannino8, che ha fra

l’altro approfondito e sviluppato alcune considerazioni già oggetto della sentenza delle

SS.UU. 30 ottobre 2002, Carnevale9.

Per effetto di tali interventi possono farsi alcune considerazioni sulle caratteristiche della

fattispecie di concorso esterno, essendo pacifica la sua ammissibilità, con particolare

riferimento alla figura del politico e dell’imprenditore. Si tratta di un fattispecie a forma libera

che si aggancia alla natura plurisoggettiva del reato ex art. 416 bis c.p., che trova il suo

dell'agente alla conservazione o al rafforzamento dell'associazione, agendo l'interessato nella consapevolezza e volontà di recare un contributo alla realizzazione, anche parziale, del programma criminoso del sodalizio. (In motivazione la Corte ha precisato che deve escludersi la sufficienza del dolo eventuale, inteso come mera accettazione da parte del concorrente esterno del rischio di verificazione dell'evento, ritenuto solamente probabile o possibile insieme ad altri risultati intenzionalmente perseguiti).

8 Sez. U, Sentenza n. 33748 del 12/07/2005 Ud. (dep. 20/09/2005 ) Rv. 231673 Presidente: Marvulli N. Estensore: Canzio G. Relatore: Canzio G. Imputato: Mannino. P.M. Siniscalchi A. (Parz. Diff.) (Annulla con rinvio, App. Palermo, 11 Maggio 2004) Il concorso esterno nel reato di associazione di tipo mafioso è configurabile anche nell'ipotesi del "patto di scambio politico-mafioso", in forza del quale un uomo politico, non partecipe del sodalizio criminale (dunque non inserito stabilmente nel relativo tessuto organizzativo e privo dell'"affectio societatis") si impegna, a fronte dell'appoggio richiesto all'associazione mafiosa in vista di una competizione elettorale, a favorire gli interessi del gruppo. Per la integrazione del reato è necessario che: a) gli impegni assunti dal politico a favore dell'associazione mafiosa presentino il carattere della serietà e della concretezza, in ragione della affidabilità e della caratura dei protagonisti dell'accordo, dei caratteri strutturali del sodalizio criminoso, del contesto storico di riferimento e della specificità dei contenuti; b) all'esito della verifica probatoria "ex post" della loro efficacia causale risulti accertato, sulla base di massime di esperienza dotate di empirica plausibilità, che gli impegni assunti dal politico abbiano inciso effettivamente e significativamente, di per sé ed a prescindere da successive ed eventuali condotte esecutive dell'accordo, sulla conservazione o sul rafforzamento delle capacità operative dell'intera organizzazione criminale o di sue articolazioni settoriali. In tema di associazione di tipo mafioso, assume il ruolo di "concorrente esterno" il soggetto che, non inserito stabilmente nella struttura organizzativa dell'associazione e privo dell'"affectio societatis", fornisce un concreto, specifico, consapevole e volontario contributo, sempre che questo esplichi un'effettiva rilevanza causale e quindi si configuri come condizione necessaria per la conservazione o il rafforzamento delle capacità operative dell'associazione (o, per quelle operanti su larga scala come "Cosa nostra", di un suo particolare settore e ramo di attività o articolazione territoriale) e sia diretto alla realizzazione, anche parziale, del programma criminoso della medesima. (In motivazione la Corte, rilevando come la efficienza causale in merito alla concreta realizzazione del fatto criminoso collettivo). costituisca elemento essenziale e tipizzante della condotta concorsuale, di natura materiale o morale, ha specificato che non è sufficiente una valutazione "ex ante" del contributo, risolta in termini di mera probabilità di lesione del bene giuridico protetto, ma è necessario un apprezzamento "ex post", in esito al quale sia dimostrata, alla stregua dei comuni canoni di "certezza processuale", l'elevata credibilità razionale dell'ipotesi formulata in ordine alla reale efficacia condizionante della condotta atipica del concorrente 9 Al momento della redazione di queste note è stata da pochi giorni depositata la motivazione della sentenza con la quale la Suprema Corte ha annullato con rinvio la sentenza della Corte d’Appello di Palermo che condannava per concorso esterno in associazione mafiosa il sen. Dell’Utri, su conforme richiesta del Procuratore Generale. Si può agevolmente sostenere che la Suprema corte faccia largo uso, stabilizzandone ancora una volta l’interpretazione, della Sentenza Mannino, che continua a rappresentare la guida ermeneutica in materia.

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ambito di applicazione al di fuori del contributo tipico prestato dal partecipe, ma che

contribuisce in ogni caso sul piano causale, all’esistenza o al rafforzamento dell’associazione

e, quindi, alla realizzazione dell’offesa tipica agli interessi tutelati dalla norma incriminatrice,

da parte di chi non si ritiene, e così non viene considerato dai soggetti appartenenti

all’associazione criminale, incluso nell’organizzazione e nella sua struttura10. Per questa

ragione la naturale capacità estensiva dell’art. 110 c.p. consente di valutare in concreto il

contributo di soggetti ontologicamente non partecipi che però, in concreto, prestano un

contributo serio ed apprezzabile al raggiungimento dei fini dell’associazione mafiosa o

camorristica, come nelle figure, emblematiche, dell’imprenditore e del politico non affiliati.

Già la sentenza Carnevale aveva affrontato il tema della “effettiva idoneità” del contributo del

concorrente esterno. La sentenza Mannino si è poi inserita in questo filone riprendendo fra

l’altro le linee tracciate in un’importante pronuncia in materia di colpa medica (S.U., 10

luglio 2002, Franzese), al fine di affermare che la rilevanza causale del contributo prestato

all’associazione dall’agente esterno deve essere apprezzata ex post e deve obbedire a uno

standard di certezza processuale e non di “mero aumento del rischio11”. Dunque la Corte

spiazza ogni velleità di far ricorso alla cd. causalità psichica da “rafforzamento

dell’organizzazione criminale” la quale consentirebbe di aggirare il compito probatorio e di

10 Del tutto superato il principio distintivo fondato sulla cd. “fibrillazione” dell’ente mafioso espresso nella nota sentenza Demytri - Sez. U, Sentenza n. 16 del 05/10/1994 Cc. (dep. 28/12/1994 ) Presidente: Zucconi Galli Fonseca F. Estensore: Battisti M. Imputato: Demitry. P.M. Aponte. (Conf.); (Rigetta, Trib. Salerno, 11 luglio 1994).

È configurabile il concorso eventuale nel reato di associazione per delinquere di stampo mafioso. (Nell'affermare il principio di cui in massima, la S.C. ha sottolineato la diversità di ruoli tra il partecipe all'associazione e il concorrente eventuale materiale, nel senso che il primo è colui senza il cui apporto quotidiano, o comunque assiduo, l'associazione non raggiunge i suoi scopi o non li raggiunge con la dovuta speditezza; è, insomma colui che agisce nella "fisiologia", nella vita corrente quotidiana dell'associazione, mentre il secondo è, per definizione, colui che non vuol far parte dell'associazione e che l'associazione non chiama a "far parte", ma al quale si rivolge sia per colmare vuoti temporanei in un determinato ruolo, sia, soprattutto, nel momento in cui la "fisiologia" dell'associazione entra in fibrillazione, attraversando una fase "patologica" che, per essere superata, richiede il contributo temporaneo, limitato anche ad un unico intervento , di un esterno, insomma è il soggetto che occupa uno spazio proprio nei momenti di emergenza della vita associativa).

11 “In tema di associazione di tipo mafioso, assume il ruolo di concorrente esterno il soggetto che, non inserito stabilmente della struttura organizzativa dell’associazione e privo dell’affectio societatis, fornisce un contributo concreto, specifico, consapevole e volontario, sempre che questo esplichi un’effettiva rilevanza causale e quindi si configuri come condizione necessaria per la conservazione o il rafforzamento delle capacità operative dell’associazione (o, per quelle operanti su larga scala, come Cosa Nostra, di un suo particolare settore o ramo di attività o articolazione territoriale) e sia diretto alla realizzazione, anche parziale, del programma criminoso della medesima”

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concludere in ogni caso “che la condotta atipica, se obiettivamente significativa,

determinerebbe comunque nei membri dell’associazione criminosa la fiduciosa

consapevolezza di poter contare sul sicuro apporto del concorrente esterno, e quindi un reale

effetto vantaggioso per la struttura organizzativa della stessa”.

Sotto il profilo dell’elemento psicologico, la Corte esige invece che la rappresentazione e

volontà dell’agente estraneo investano sia il fatto tipico oggetto della previsione

incriminatrice, sia il contributo causale recato dalla condotta dell’agente alla conservazione o

al rafforzamento dell’associazione, “agendo l’interessato nella consapevolezza e volontà di

recare un contributo alla realizzazione, anche parziale, del programma criminoso del

sodalizio”. Il concorrente esterno deve essere anche consapevole dei metodi e dei fini

dell’associazione, “a prescindere dalla condivisione, avversione, disinteresse o indifferenza

per siffatti metodi e fini, che lo muovono nel foro interno”.

Si tratta, dunque, del tipico apporto del politico o dell’imprenditore che, non essendo

partecipe dell’associazione, è in rapporto collusivo con essa per la trattazione di affari e

l’alterazione di gare d’appalto, per il concorrente interesse, che l’extraneus si rappresenta a

vuole, dell’associazione criminale e del concorrente esterno il quale, evidentemente, somma

il proprio fine egoistico a quello dell’organizzazione criminale12.

Senza dimenticare che, negli ultimi decenni, politicamente definiti della seconda repubblica,

in alcune realtà territoriali – quella casertana ne rappresenta un emblema - il rapporto

sinallagmatico fra concorrente esterno e gruppo camorristico, ha visto spesso confondersi nel

primo la duplice veste di imprenditore e politico.

Occorre dunque individuare quale sia il patto, serio ed incisivo, fra un soggetto estraneo al

clan ed il clan stesso, che ritiene a sua volta di rilievo la collaborazione e l’apporto del

concorrente per la realizzazione di parte del proprio programma criminoso. In molti casi entra

a far parte di questo accordo il sostegno alla campagna elettorale ed il procacciamento di voti

da parte del clan al politico. Già questo contributo risulta di assoluto rilievo per la

contestazione del reato, attraverso la verifica ex post dello scambio di favori imposta dalla

sentenza Mannino. Come evidenziato dalla giurisprudenza, il fatto stesso di prestarsi a

pilotare gli appalti comporta, oltre ad un oggettivo contributo al perseguimento del

12 La giurisprudenza ha ben chiarito che l’apporto del concorrente esterno ben può concretizzarsi in un solo atto, il cui valore è però altamente apprezzabile per l’associazione e rilevante alla verifica del contributo causale fornito al clan; come nel caso della sostanz ia le imposizione - at traverso la pressione eserc i ta ta da un’organizzaz ione maf iosa - d i una determinata impresa quale inter locutore pr iv i legiato o «unico» del la pubbl ica amministrazione per l ’a t tr ibuz ione d i un importante appal to da real izzarsi ne l terr i tor io d i inf luenza di un ente loca le, quando tale contesto s ia anche uno dei terr i tor i e le t t ivi ne i qual i la medesima assoc iaz ione cr iminale dispiega la propr ia capacità d i assogget tamento omertoso.

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programma criminoso del clan, anche la consapevolezza di apportare tale contributo e di

condividere la logica ed i metodi intimidatori ed omertosi dell’organizzazione, utili al fine

anche del raggiungimento di fini personali e propri del soggetto estraneo. Del resto il

concorrente movente autonomo consente di ritenere corretta la qualificazione di concorso

esterno rispetto a quella di partecipazione mafiosa, pur in alcuni casi sostenibile per effetto

della durata del rapporto, delle sue modalità e della presenza di una concreta affectio

societatis13.

Nei casi più significativi la condotta sinallagmatica non si ferma solo all’ipotesi dello scambio

elettorale, voti contro appalti, ma procede oltre, con la divisione degli utili degli appalti

pilotati e delle tangenti garantite dagli imprenditori in quote uguali fra il clan, il politico e gli

eventuali intermediari dell’operazione illecita. Dunque lo scambio si arricchisce, a fronte

dell’attribuzione dei lavori a imprese segnalate dal clan e che garantiscono serenamente certi

introiti fissi - necessari al mantenimento dell’organizzazione - anche dell’attribuzione di

denaro al politico o al funzionario pubblico compiacente, secondo lo schema tipico della

corruzione. E’ frequente poi la “contabilizzazione” del reciproco interesse ad evitare nei

confronti delle imprese assegnatarie di importanti e costosi lavori, l’uso della violenza per

estorcere denaro; il clan ne trae il vantaggio di ridurre al massimo il rischio di denunce o

accertamenti di polizia giudiziaria, relegando lo schema estorsivo solo al pizzo ai piccoli

commercianti, sicuramente meno pericoloso; il politico locale si garantisce pace e tranquillità

sul territorio e possibilità di portare a termine i lavori senza i soliti intoppi, con conseguente

vantaggio politico ed elettorale per le cose fatte e per la sua politica del fare, a voler

utilizzare una espressione oggi di moda. Fino a giungere alle prebende clientelari relative alle

assunzioni di personale “segnalato” e al finanziamento di iniziative culturali o sociali idonee

ad accrescere il consenso del politico, per terminare con il finanziamento di future campagne

elettorali per la cordata politica di riferimento.

Insomma l’accordo fra il clan ed il politico può risultare chiaramente stipulato fin dal

momento iniziale della campagna elettorale e dell’impegno a sostenerne l’elezione14, ovvero

13 Si parla in questi casi, correttamente, non di imprenditore mafioso, ma di mafioso imprenditore. 14 E’ nota a tal proposito la assoluta inidoneità della fattispecie prevista dall’art. 416 ter c.p. a reprimere il fenomeno del voto di scambio, laddove nei fatti lo scambio fra la mafia ed il politico quasi mai si fonda sul sinallagma voti-denaro, quanto piuttosto su quello voti-appalti o altre utilità. La carenza normativa, da tutti riconosciuta e denunciata ma paradossalmente mai oggetto di serie intenzioni di modifica legislativa, è fra le cause della necessità della giurisprudenza di elaborare una interpretazione del concorso esterno che ricomprenda tali situazioni. Del pari del tutto insufficiente è la normativa in materia di corruzione elettorale prevista per gli enti locali dagli art. 86 e 87 d.P.R. 570/1960, caratterizzata da pene edittali particolarmente basse, nonostante si tratti di norme a presidio della libertà elettorale che rappresenta uno dei beni giuridici più direttamente connessi con la salvaguardia dell’ordinamento democratico individuato dalla Costituzione, in quanto, evidentemente, l’alterazione delle regole per la individuazione dei rappresentanti istituzionali degli organi elettivi influenza il contenuto stesso della opzione democratica rappresentativa. Gli effetti di una così blanda disciplina diverrebbero

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può nascere o essere rafforzato a seguito dell’elezione, e successivamente concretizzato con

l’effettuazione di una serie di condotte tipiche di natura corruttiva e clientelare, tali da

superare di gran lunga la soglia minima richiesta dalle pur restrittive interpretazioni

giurisprudenziali oggi prevalenti15.

Quanto all’imprenditore16, muovendo dal noto insegnamento della Suprema Corte che

poi assolutamente inconsistenti se si applicasse alla lettera l’art. 100, comma secondo, D.P.R. 570/1960, secondo cui l’azione penale per i reati elettorali si prescrive nel termine di due anni dalla data del verbale ultimo delle elezioni. La Suprema corte però in più sentenze, fra cui vale la pena ricordare Cass. Sez. V, n. 957 del 20.1.2004, Caminiti, ha affermato il fondamentale principio secondo cui quando sia contestata anche l’aggravante di cui all’art. 7 l. 203/1991, non si applica la prescrizione breve di cui all’art. 100: In tal senso, allora, deve ritenersi che la complessa fattispecie del delitto di cui all’art. 87 comma 2 DPR 670/1960 aggravato ai sensi dell’art. 7 1.203/1991 che aumenta la pena sino alla metà ed enfatizza l’assoluta gravità del reato richiamando un elemento decisivo della fattispecie di cui all’art. 416 bis cod. pen. (“il procurare voti per sé o per altri” qui al fine di agevolare le attività dell’associazione criminosa) - non sia ricomprensibile tra i reati contemplati nel T.U. 1960, trattandosi di un delitto non soltanto assai più grave ma anche e comunque sicuramente diverso, per i distinti elementi fortemente caratterizzanti, da quello di cui al comma 2 dell’art. 87: alla condotta dell’associato diretta ad inquinare l’elettorato onde favorire la consorteria mafiosa della quale egli fa parte - introdotta nell’area di rilevanza penale e quindi sanzionata con normativa successiva al T.U.: art. 11 bis DL 8.6.1992 n. 306 conv. con modif. in L. 7.8.1992 n. 356 - non può dunque essere esteso il regime eccezionale della prescrizione abbreviata e, dunque, operando quello ordinario risultante dagli artt. 157 e 160 cod. pen., ne deriva che il delitto de quo … omissis». Principio ribadito in Cass. Sez. 3, Sentenza n. 38836 del 10/10/2006 Cc. (dep. 23/11/2006 ) Rv. 235492 Presidente: Lupo E. Estensore: Sensini MS.: In tema di reati elettorali, la previsione di un termine prescrizionale breve, contenuta nell’art.100 D.P.R. 16 maggio 1960, n.570, in quanto fortemente derogatoria del regime prescrizionale generale contenuto negli artt.157 e 160 cod. pen., è riferibile ai soli reati previsti dal medesimo testo normativo e non è suscettibile di interpretazione estensiva, così che non è applicabile ai reati elettorali per i quali sia contestata anche la circostanza aggravante ad effetto speciale prevista da una diversa normativa, come quella contenuta nell’art.7 D.L. 13 maggio 1991, n.152, convertito con L.12 luglio 1991n.203. 15 Va comunque ricordato l’orientamento, che la stessa sentenza Mannino del 2005 sostiene, secondo cui in alcune concrete situazioni anche solo la mera disponibilità scaturente dallo scambio di promesse è già essa stessa tale da costituire un valido contributo alla conservazione o al rafforzamento del sodalizio, idoneo a integrare il concorso esterno, quando per esempio l’uomo politico abbia caratura tale per cui la sua promessa di disponibilità a compiere alcune specifiche e ben chiare attività, possa già essere apprezzata quale contributo sufficiente a ritenere il concorso esterno, a maggior ragione se ad essa segue l’elezione e dunque il fatto di ricoprire l’incarico che in concreto consentirà di mantenere la promessa, senza dover provare la effettiva realizzazione di quelle condotte specifiche (es. turbativa di appalti). 16 Irrinunciabile il richiamo alle argomentazioni della sentenza della Suprema Corte, Sez. 1, Sentenza n. 84 del 05/01/1999, Cabib: In primo luogo, deve sottolinearsi che corrisponde ad una inaccettabile astrazione generalizzante il modello sociologico di comportamento adottato come parametro dal tribunale del riesame, ad avviso del quale nelle zone dell'Italia meridionale dominate da organizzazioni di stampo mafioso gli imprenditori sono costretti a venire a patti con i gruppi criminali, trovandosi nella ineluttabile necessità di accettare richieste di tipo estorsivo. La tesi assume come postulato un dato di natura socio-economica e criminale non sussumibile nella categoria delle regole di comportamento e delle massime di esperienza. La tesi, infatti, è sprovvista di approfondita verifica e non è collaudata da un rigoroso vaglio delle concrete e peculiari connotazioni della vicenda che forma oggetto del processo, con riferimento particolare ai contatti, alle trattative, agli accordi, alle "riunioni preventive" con gli esponenti politici e amministrativi e con i gruppi camorristici, che hanno preceduto l'aggiudicazione dell'appalto dei lavori dell'asta valliva dei Regi Lagni e che hanno accompagnato l'esecuzione degli stessi. Solo una siffatta indagine, conformata al doveroso rigore argomentativo e saldamente ancorata agli specifici fatti da valutare, avrebbe potuto giustificare la conclusione accolta nell'ordinanza impugnata, nella quale, invece, la tesi del rapporto di tipo estorsivo tra camorra e imprenditori, con questi ultimi in costante posizione di non resistibile coartazione, poggia su ambigue formule definitorie (come quella della "contiguità soggiacente"), che si risolvono, in definitiva, in una indiscriminata

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distingue l’imprenditore-vittima dall’imprenditore-colluso17, la condotta penalmente

giustificazione della illegalità diffusa e nella configurazione di una causa di non punibilità, non prevista dall'ordinamento, costituita dalla "non esigibilità" delle condotte conformi alle prescrizioni della legge. In proposito deve sottolinearsi che se è vero che in talune zone le organizzazioni criminali di stampo mafioso controllano, direttamente o indirettamente, le attività economiche, è non di meno certo che, nella valutazione dei rapporti tra mafia e imprenditori che operano in quei territori, l'indagine del giudice non può fondarsi su aprioristici ed astratti stereotipi socio- criminali, la cui applicazione conduce a generalizzate criminalizzazioni o, viceversa, al riconoscimento di vaste aree di impunità, entrambe altrettanto ingiustificate perché svincolate da un effettivo e serio vaglio delle variabili e contingenti peculiarità delle singole fattispecie. Si tratta di un'indagine indubbiamente delicata e complessa, nella quale al prudente apprezzamento del giudice è affidato il difficile compito di individuare la fluida linea di confine tra lecito e illecito e di distinguere le situazioni nelle quali l'imprenditore è complice delle organizzazioni criminali da quelle nelle quali egli è la vittima, il soggetto passivo delle attività delinquenziale … avrebbe dovuto chiedersi se, alla stregua delle risultanze processuali, possa o non realmente considerarsi come vittima di estorsioni l'imprenditore che, nell'attivarsi per l'acquisizione dell'appalto di un opera pubblica di rilevantissimo valore, abbia contemporaneamente instaurato rapporti col ceto politico-amministrativo e con organizzazioni camorristiche, coi primi per assicurarsi l'aggiudicazione del contratto e con le seconde per rimuovere preventivamente gli ostacoli all'esecuzione dei lavori, accollandosi un programmato costo concordato sulla base di una sorta di "accordo di non conflittualità" e di "patto di protezione". Nel caso in cui al quesito dovesse darsi risposta negativa, riconoscendo che in tale ipotesi non esiste una condizione di ineluttabile coartazione, l'ulteriore passaggio logico-giuridico dell'indagine demandata al giudice di merito è costituito dalla identificazione delle categorie penalistiche nelle quali deve essere inquadrata la condotta di un tale imprenditore, dovendo stabilirsi - in stretta correlazione con la specifica situazione probatoria e con l'effettivo contributo apportato al rafforzamento dell'associazione camorristica - quale sia la qualificazione giuridica più appropriata e, in particolare, se il fatto debba ricondursi nell'art. 416 bis c.p., nella forma della partecipazione o, piuttosto, del concorso esterno, in riferimento alla diversa posizione assunta rispetto all'attività dell'associazione stessa, nel senso che laddove dovessero accertarsi la compenetrazione e l'inquadramento nella struttura dell'organismo criminale dovrà ritenersi senz'altro sussistere la condotta tipica del delitto associativo (consistente, appunto, nella partecipazione), mentre, in mancanza di tale inserimento, dovrà considerarsi configurabile il concorso da parte dell'"extraneus" ai sensi dell'art. 110 c.p., qualora dovesse riscontrarsi l'esistenza di un suo contributo consapevolmente e volontariamente prestato per il mantenimento e per il consolidamento dell'organizzazione mafiosa. 17 Sez. 1, Sentenza n. 46552 del 11/10/2005 Cc. (dep. 20/12/2005 ) Rv. 232963, D’Orio . Cfr., anche, Sez. 5, Sentenza n. 39042 del 01/10/2008 Cc. (dep. 16/10/2008 ) Rv. 242318, Samà: “… È rag ionevo le indiv iduare i l c r i ter io d is t in t ivo t ra imprend itore "col luso" e imprend itore "v i t t ima" nel fat to che i l pr imo, a d if ferenza del secondo, ha consapevolmente e vo lontar iamente r ivo l to a proprio pro f i t to l 'esser venuto in re lazione con i l soda l izio mafioso, entrando consapevolmente e volontariamente in un sistema i l lec i to d i eserciz io del l ' impresa contradd ist in to da appalt i e commesse ot tenut i g razie a l l ' in termediazione maf iosa, ed ha in ta l modo t rasformato l 'o r ig inario danno ingiusto subi to ( i l costo insi to nel dover sot tostare al l ' imposizione del p izzo o di a l t re costr iz ioni maf iose onde ev i tare danni maggiori ) in una sorta di r isvol to negat ivo di un ben più consistente ingiusto vantaggio ( i l benef ic io insi to ne l la possib i l i tà d i assicurarsi i l legalmente una posizione dominante a scapi to del la concorrenza, nonché r isorse e/o l inee di credi to a prezzi d i favore, s ino a godere di un sostanzia le monopol io su un dato terr i to r io ). In a l t r i termini , è rag ionevole considerare imprend itore "col luso" quel lo che è entrato in un rapporto sinal lagmatico di coin teressenza con la cosca maf iosa, ta le da produrre vantagg i ( ing iust i in quanto garant i t i dall 'apparato strumentale maf ioso) per entrambi i contraent i e ta le da consent i re, in partico lare, a l l ' imprend itore d i imporsi su l terr i to r io in posiz ione dominante grazie a l l 'ausi l io del soda l izio , i l cu i apparato int imidatorio s i è reso d ispon ibi le a sostenere l 'espansione dei suo i a f far i in cambio del la sua disponib i l i tà a fornire r isorse, serviz i o comunque ut i l i tà a l sodal izio medesimo (quando non r isul t i add ir i t tura la prova di una relaz ione t r i la terale , ta le da coinvolgere anche qualche esponente del ceto po l i t ico-amminist rat ivo in una gest ione spart i to r ia dei pubbl ic i appa lt i ) . Una vol ta provato i l suddetto s inal lagma criminoso, la condotta del l ' imprendi tore "col luso" sarà conf igurabi le come partecipazione ovvero come concorso eventua le ne l reato associat ivo, a seconda dei casi e conformemente a i parametr i stab i l i t i dal la g iur isprudenza d i questa Corte d i legi t t imi tà (c fr . , da ul t imo, Sezion i Un ite , Sentenza n. 33748 del 12 lugl io 2005, dep. 20 set tembre 2005, Mannino, rv. 231670-

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rilevante è quella che a fronte del pagamento al clan di soldi ed utilità economicamente

significative per il sostentamento dell’organizzazione e dei suoi affiliati - anche detenuti -

consente di ottenere, in quanto soggetti di riferimento, appalti e concessioni attraverso

l’alterazione delle regole a presidio della trasparenza e della imparzialità della pubblica

amministrazione. Gli imprenditori, del resto, proprio nel settore degli appalti sono funzionali

all’essenza stessa dell’organizzazione mafiosa, in quanto consentono di godere dello

strumento necessario ad esercitare il controllo di questo strategico settore dell’economia, in

ossequio al dettato dell’art. 416 bis co. 3 c.p., fornendo un contributo dall’esterno ma

altrettanto essenziale quanto quello di un affiliato dedito ad estorsioni o ad omicidi.

Del resto gli intrecci fra gli imprenditori ed il clan sono continui e di natura complessa e la

realtà imprenditoriale radicata nel territorio a lungo dominato dalle organizzazioni criminali,

tende a creare un proprio modello di adattamento, evidentemente al duplice scopo, non solo di

non rimanere stritolato dalle pretese dell’associazione mafiosa, ma anche di sfruttarne le

caratteristiche per emergere nel mercato18.

Occorre tornare, per così dire, alla norma, e cioè alla previsione dell’art. 416 bis co. 3 c.p. che

delinea compiutamente il sistema di sfruttamento mafioso delle risorse pubbliche, e – più in

generale – di attuazione dello speciale programma criminoso dell’associazione, sistema volto

– sinteticamente – al controllo o allo sfruttamento delle risorse economico imprenditoriali, e

che necessita di alcuni protagonisti indispensabili19.

231673): si avrà par tecipazione qua lora i l soggetto r isu l t i inser i to stab i lmente ne l la st ru ttura organizzat iva del l 'associazione e r isul t i averv i consapevo lmente assunto un ruolo speci f ico, funzionale al perseguimento de i f in i cr iminosi o d i un settore d i essi ; s i avrà invece concorso eventua le qua lora i l soggetto - pr ivo del l 'a f fect io societa t is e non essendo inser i to nel la st rut tura organ izzat iva del l'ente - ag isca dal l 'esterno con la consapevolezza e vo lontà di fo rni re un contr ibuto causale al la conservazione o a l raf forzamento del l 'associazione nonché al la rea l izzazione, anche parzia le, del suo programma criminoso. Al contrar io, s i dovrà considerare imprendi tore "v i t t ima" quel lo che, sogg iogato da l la forza di in t imidazione del v incolo associa t ivo e dal la cond iz ione di assogget tamento e di omertà che ne deriva, non tenta di ven ire a patt i con la mafia per r ivolgere a proprio vantaggio i l re la t ivo apparato st ru tturale - st rumenta le basato sul l ' in t imidazione, ma cede a l l ' imposiz ione mafiosa (versando tangent i a l la cosca o piegandosi a prestazion i d i a l t ro t ipo) e subisce il re lat ivo danno ingiusto l imi tandosi a perseguire - se mai - un ' intesa con i l sodal iz io crimina le al so lo f ine di tentare di l imi tare ta le danno” 18 Ed è spesso difficile discernere in fatto fra la categoria della collusione e quella della vittima; molto frequentemente lo stesso imprenditore è inizialmente vittima del sistema e solo con il passare del tempo e delle relazioni con il clan, ne diventa in qualche modo complice, attratto dai vantaggi che tale relazione è in grado di procurargli. Di contro, in alcuni casi, gli imprenditori collusi e complici, tentano di mascherarsi da imprenditori vittime, anche attraverso la presentazione di strumentali denunce di estorsione contro ignoti o, addirittura, nei confronti di soggetti appartenenti ad organizzazioni criminali in quel momento perdenti rispetto ad altre. 19 « … per acquisire in modo diretto o indiretto la gestione o comunque il controllo di attività economiche, di concessioni, di autorizzazioni, appalti e servizi pubblici o per realizzare profitti o vantaggio ingiusti per sé o per altri ovvero al fine di impedire od ostacolare il libero esercizio del diritto di voto o di procurare voti a sé o ad altri in occasione di consultazioni elettorali …»,

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La strategia complessiva che consente di realizzare l’obiettivo tipicamente (nel senso

normativo) caratterizzante l’associazione mafiosa, in altri termini, difficilmente può fare a

meno di una relazione sociale sistematica che promuova rapporti preferenziali con

l’amministrazione pubblica e l’imprenditoria privata, specialmente locale.

Il tipo di relazione sociale postulato dall’art. 416 bis, comma terzo, c. p., ed instaurato

dall’associazione mafiosa con la realtà imprenditoriale, in effetti, non si connota più,

unicamente, sul tradizionale schema di soggezione tra vittima ed estorsore, ma si manifesta

assai frequentemente come un rapporto di collaborazione che, in una sorta di sinergia

complessiva, valga a procurare alla struttura criminale il potere di controllare il territorio e di

intercettare le risorse che la medesima imprenditoria produce, anche in relazione alla

captazione delle commesse pubbliche.

In quest’ottica lo sfruttamento dell’impresa da parte dell’associazione criminale non è affatto

parassitario, almeno non nel senso classico, in quanto l’associazione criminale pone

anch’essa a disposizione dell’imprenditoria e della medesima pubblica amministrazione una

risorsa, certamente illecita ma assolutamente determinante per l’arricchimento complessivo di

tutti i partecipi al sistema.

L’assoggettamento omertoso, il controllo del territorio e la capacità di interloquire con i

protagonisti da una posizione di forza, rappresentano evidentemente una risorsa in senso

tecnico ed economico, che non solo vale a sbaragliare la concorrenza, ma anche ad aggirare

procedure di evidenza pubblica e difficoltà burocratiche.

Questa connotazione del rapporto scambievole tra l’impresa privata e la struttura criminale

non è fantasiosa o meta-giuridica20.

20 E’ sempre la sentenza Cabib, cit., a tracciare del resto la strada in questa così intrigante materia: Occorre osservare che, nello sviluppare le proprie censure, involgenti la congruenza logica e giuridica della motivazione, il P.M. ricorrente ha fatto ampio riferimento a considerazioni di ordine socio-criminologico, cercando di inquadrare la vicenda, di cui è protagonista il Cabib, in schemi e categorie ricavati dall'analisi di esperienze rilevate nei territori nei quali è più forte la presenza di criminalità organizzata di stampo mafioso. In tale ottica, a sostegno delle critiche mosse contro l'ordinanza impugnata, il P.M. ha dedotto che: a) la camorra, al pari di "cosa nostra" si è da tempo costituita come "soggetto politico" creando, grazie anche ad una sistematica infiltrazione nei pubblici appalti, una vasta rete di imprenditori e di commercianti legati ai vari clan; b) i vertici dei gruppi camorristici hanno costituito una vera e propria oligarchia nelle cui mani è concentrata la gestione, nell'ambito del territorio controllato, non solo di tutte le attività criminose - compreso lo sfruttamento parassitario, di tipo estorsivo, delle altrui attività - ma anche di attività economiche e finanziarie per il tramite di imprese facenti capo ad associati o a persone di fiducia del gruppo criminale; c) gli enormi flussi finanziari, provenienti dagli appalti per l'esecuzione di grandi opere pubbliche, hanno dato origine ad accordi trilaterali tra camorra, ceto politico-amministrativo e imprenditori di elevato livello, i cui convergenti interessi creano meccanismi attraverso i quali la "tassa criminale" - risultante dal "costo-camorra" e dal "costo di corruzione" - viene riversata sulle Pubbliche Amministrazioni e, in definitiva, sulla collettività. Il tema della rilevanza dei risultati delle indagini storico- sociologiche sulla valutazione, in sede giudiziaria, dei fatti di criminalità di stampo mafioso rappresenta un argomento ampiamente dibattuto, la cui base giustificativa deve essere individuata nello stesso modello di associazione mafiosa recepito dall'art. 416 bis c.p., per la definizione del quale la l. 13.9.1982, n. 646, ha tipizzato regole di esperienza tratte dall'analisi sociologica delle principali organizzazioni criminali, prime fra tutte "cosa nostra" e "camorra"

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Il dibattito è affiorato anche nella giurisprudenza di legittimità. Secondo un primo indirizzo, rafforzatosi soprattutto dopo l'entrata in vigore della citata l. 646/82, l'interpretazione dei fatti di criminalità organizzata deve muovere dalla premessa che l'associazione mafiosa è dotata di "precisa identità sociologica e giuridica" (Cass., Sez. VI, 12 giugno 1984, Chamonal) e richiama noti fenomeni di grave antisocialità esattamente individuati e circoscritti sotto il profilo concettuale, sotto quello sociologico e sul piano legale (Cass., Sez. I, 29 ottobre 1969, Tempra), con precise specificità delle manifestazioni e dei modi di operare, esternantisi nel controllo di attività economiche. nelle intimidazioni sistematiche e nella infiltrazione dei propri membri nei settori politico ed economico (Cass., Sez. I, 8 giugno 1976, Nocera; v., in riferimento alle profonde mutazioni storiche delle organizzazioni criminali verificatesi con il passaggio dalla "vecchia" alla "nuova" mafia, Cass., Sez. I, 24 gennaio 1977, Condelli e Cass., Sez. I, 16 dicembre 1971, Di Maio). In termini ancora più netti, è stato ritenuto, già prima della l. 646/82, che, "essendo la mafia qualcosa di reale e di riconoscibile nei suoi atteggiamenti e nei suoi modi di essere, in un certo ambiente culturale, geografico ed etnico comportamenti e costumanze mafiose colorano gli indizi aliunde tratti in una articolata significazione ai fini della prova dell'associazione per delinquere" (Cass., Sez. I, 25 marzo 1982, De Stefano ed altri). Un opposto orientamento nega la possibilità di utilizzare i risultati delle indagini di tipo sociologico e criminologico quali massime di esperienza che, nella tecnica di argomentazione probatoria, siano applicabili con il ruolo di criteri di valutazione delle risultanze processuali, contestandosi che esista una definita identità sociologica dei fenomeni associativi di stampo mafioso, dato che le strutture organizzative e le modalità operative di essi appaiono multiformi, dotati di elevata variabilità e di una sorprendente capacità di adattamento alle più diverse contingenze: con la conseguenza che i risultati delle osservazioni sociologiche sulla mafia non sono riconducibili nelle categorie del notorio e delle massime di esperienza impiegabili dal giudice nell'interpretazione delle prove (Cass., Sez. VI, 16 dicembre 1985, Spatola; Cass., Sez. I, 29 maggio 1989, Ollio). Alla base del diverso modo di affrontare il delicato e complesso problema è riconoscibile la giustificata preoccupazione - avvertita anche da larga parte della dottrina che l'impiego di dati socio- criminologici nei processi di criminalità organizzata di stampo mafioso possa determinare la sovrapposizione di modelli di ordine ideologico e socio-politico sulla corretta applicazione da parte del giudice dei criteri legali di valutazione delle prove, dettati dall'art. 192 c.p.p., alla luce dei quali deve considerarsi indubbiamente censurabile l'uso di tecniche di valutazione degli elementi probatori fondato su astratte generalizzazioni e su modelli comportamentali non convalidati da precise e concrete verifiche delle risultanze processuali. La chiave per la soluzione dell'importante questione deve essere, dunque, identificata nella piena esplicazione del principio del "prudente apprezzamento" e nella rigida osservanza del dovere di motivazione, integranti il nucleo essenziale del precetto enunciato dall'art. 192, dall'applicazione dei quali deriva che la valutazione del giudice non deve uniformarsi a teoremi e ad astrazioni, ma deve fondarsi sul rigoroso vaglio dell'effettivo grado di inferenza delle massime di esperienza elaborate dalle discipline socio-criminologiche e deve, soprattutto, stabilire la piena rispondenza alle specifiche e peculiari risultanze probatorie, che, sul piano giudiziario, rappresentano l'imprescindibile e determinante strumento per la ricostruzione dei fatti di criminalità organizzata dedotti nel singolo processo. Una simile equilibrata metodologia valutativa è stata seguita anche nella giurisprudenza di questa Corte, che ha riconosciuto l'esistenza di un vizio di motivazione censurabile nel giudizio di legittimità allorquando, in presenza di modelli comportamentali cosi pregnanti da potere essere reputati come "regola" dell'organizzazione criminale, il giudice di merito abbia assunto tali modelli come dati certi e inderogabili, di per sè soli idonei a fornire gravi indizi di colpevolezza ai sensi dell'art. 273 c.p.p., e abbia trascurato di procedere alla rigorosa verifica della riconducibilità della specifica e concreta situazione probatoria nella regola enucleata dal l'osservazione, anche sociologica, del codice dell'agire mafioso (Cass., Sez. I, 14 settembre 1994, Buscemi). In altri termini, pur dovendosi ammettere che una adeguata comprensione dei fenomeni associativi di stampo mafioso non puo prescindere dai risultati di serie ed accreditate indagini di ordine socio-criminale, deve, tuttavia, senz'altro escludersi che la massima di esperienza che può ricavarsene possa esimere il giudice dall'osservanza del dovere di ricerca delle prove indispensabili per l'accertamento della fattispecie concreta che forma oggetto della singola vicenda processuale che egli è chiamato a definire. Ditalché, conclusivamente, devono considerarsi erronee entrambe le posizioni estreme, sia quella che ammette l'uso indiscriminato di schemi sociologici, avulsi dalle singole e specifiche situazioni probatorie, sia quella che nega, puramente e semplicemente, qualsiasi rilevanza ai dati avvalorati da obiettive realtà ambientali analizzate dalle discipline socio-criminologiche, dovendo, invece, ritenersi che il giudice deve tenere conto, con la doverosa cautela, anche dei predetti dati quali utili strumenti di interpretazione dei risultati probatori, dopo averne vagliato, caso per caso, l'effettiva idoneità ad essere assunti ad attendibili massime di esperienza e, principalmente, dopo avere ricostruito, sulla base dei mezzi di prova a sua disposizione, gli specifici e concreti fatti che formano l'oggetto del processo.

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Una spia evidente di tale assetto di interessi si coglie a più riprese in numerose inchieste

giudiziarie ed è piuttosto consueto che l’associazione criminale favorisca, nella conquista di

una posizione dominante o nell’attribuzione di quote di mercato significative, un imprenditore

strutturalmente affiliato o almeno vicino alla struttura criminale21. E’ in al tri termini

assai frequente che l ’antecedente causale o i l motivo per la commissione del

delit to di cui all ’art . 513 bis c.p. a favore di un determinato imprenditore,

risiedano in una relazione qual if icata tra l ’ imprenditore in questione e la

struttura criminale.

Si tratta dunque di realtà imprenditoriali che rappresentano esattamente lo strumento

attraverso il quale l’associazione criminale agisce per la commissione del fatto di cui all’art.

416 bis, comma terzo, c. p., non diversamente da come – osando un paragone in un altro

universo giuridico – le società cartiera appaiono strumentali al delitto di false fatturazioni e

falso in bilancio.

Se la realtà criminale prefigurata dall’art. 416 bis, comma terzo, c. p. non è costituita dal

modello oleografico di associazione mafiosa, costantemente impegnata in conflitti armati ed

in traffici di stupefacenti ma è – diremmo soprattutto – una entità formata per acquisire in

modo diretto o indiretto la gestione o comunque il controllo di attività economiche, di

concessioni, di autorizzazioni, appalti e servizi pubblici o per realizzare profitti o vantaggio

ingiusti per sé o per altri ovvero al fine di impedire od ostacolare il libero esercizio del diritto

di voto o di procurare voti a sé o ad altri in occasione di consultazioni elettorali … tale

struttura – in senso anche fisico – riposa sulle imprese che consentono la realizzazione dei fini

prospettati.

In questo senso deve essere allora necessariamente considerata, una volta ultimata la lettura

del comma terzo, la disposizione del medesimo art. 416 bis, ma al comma settimo, c. p. E’

cioè del tutto evidente che, nella chiave di lettura economico sociale che il legislatore imprime

quando conia l’attuale fattispecie incriminatrice di associazione mafiosa, le cose che servirono

alla commissione del reato, di quel reato disegnato dal comma terzo, sono, elettivamente gli

strumenti societari impiegati per ottenere il controllo o la captazione delle risorse pubbliche o

l’alterazione della concorrenza.

Senza questa struttura è assolutamente impossibile ottenere quel fine. In quest’ottica la

maggiore o minore floridezza delle aziende o la loro crescita esponenziale sul territorio, per

21 Clamorosa ed emblematica la vicenda di Renato Grasso, imprenditore di livello nazionale nel settore del gioco e delle scommesse, capace di istaurare rapporti in posizione di parità con alcune decine di organizzazioni camorristiche e di collaborazione stabile con omologhi imprenditori siciliani e calabresi, a loro volta capaci di entrare in relazione con le organizzazioni mafiose locali.

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motivi paralleli e legittimi, o la proporzione tra i redditi dichiarati e la capacità patrimoniale

effettiva cedono il passo alla valutazione della funzione strumentale che le imprese assolvono,

o decidono consapevolmente di assolvere per il mantenimento del (sotto) sistema mafioso che

caratterizza un determinato territorio. La presunzione di pericolosità dell’impresa che si

presenti con redditi sproporzionati rispetto alle proprie capacità, dunque, cede il passo alla

valutazione non presuntiva, ma reale, della chiara utilizzazione dell’impresa medesima per la

realizzazione dello scopo illecito previsto dalla fattispecie associativa: il legislatore qui

compie una valutazione in termini di relazione sociale non economica.

Anche (o forse soprattutto) un’azienda florida e con i conti in regola può essere impiegata

dalla struttura criminale per perseguire i propri obiettivi. Il consenso all’impiego di quello

strumento, in forma stabile o secondo una relazione finalistica rispetto alla realizzazione del

singolo reato di turbativa d’asta o di alterazione delle regole della concorrenza, svela la

relazione qualificata che interviene tra l’azienda (ed evidentemente l’imprenditore che la

governa) con la struttura criminale, relazione che evidentemente può essere apprezzata a vario

titolo quando si discute dell’illecito penale che compie il suo gestore (416 bis, 110-416 bis,

513 bis, 353 c. p. etc.) ma che si riverbera sempre nell’impiego dell’azienda considerata come

struttura portante per la realizzazione dell’associazione criminosa descritta dall’art. 416 bis,

comma terzo, c. p.

Ma se la valutazione in ordine al valore dell’azienda impiegata dall’associazione criminale

camorra deve essere strutturale, è evidente per converso che la destrutturazione

dell’associazione incriminata passa attraverso la sottrazione della medesima azienda al clan

criminale, come appunto osserva l’art. 416 bis, comma settimo c. p. (legittimando dunque,

nella fase delle indagini, un sequestro anticipatorio ex art. 321 c.p.p. e successivamente una

confisca ex art. 240 c.p., che non scomodi la più impegnativa norma dell’art. 12 sexies l.

356/92 che richiede l’accertamento della sproporzione economica), giacché si tratta – né più

né meno – che di una risorsa dell’associazione22.

22 In questo ambito si vuole sottolineare come sia difficile confrontarsi e misurarsi con imprese che hanno una lunga storia apparentemente legale e che nel tempo hanno acquisito importanti fette di mercato, moltiplicando a dismisura i fatturati per cui, pur accertatane la qualità mafiosa dell’imprenditore, risulterà gravoso il compito di dimostrare la sproporzione economica. Più agevole sarà percorrere la strada indicata, che trae origine dalla lettura dell’art. 416 bis co. 3 e dalla consapevolezza della reale funzione strumentale dell’imprenditore colluso per il perseguimento del programma dell’associazione. Si è così teorizzata la categoria degli imprenditori strumentali, quale sottoinsieme degli imprenditori collusi, evidenziandone la natura aziendale consistente e la sostanziale autonomia imprenditoriale rispetto al contesto mafioso; si tratterebbe cioè di imprenditori capaci di instaurare un rapporto basato esclusivamente sulla reciproca convenienza rispetto a determinate prestazioni e singoli affari, magari in settori ove occorre una particolare specializzazione e capacità produttiva, in campi di azione esclusivamente legali, secondo il principio della doppia morale: la mafia non mi appartiene e non ne sono condizionato, ma mi è utile in determinasti contesti, che difficilmente posso ritenere criminali, perché non caratterizzati ad azioni violente e condotte imposte con la forza.

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Del resto non può in questa sede non rimarcarsi che nelle compagini sociali delle imprese di

cui ci si occupa, esistono quasi sempre precise spie di presenza dell’intreccio trilaterale

politica - imprenditoria – mafia/camorra23, a testimoniare che il sistema delle imprese è

funzionale e strumentale all’affermazione del sistema corruttivo - camorristico. Naturalmente

le spie di presenza vengono calibrate con estrema prudenza e saggezza per cui le persone

coinvolte sono sicuramente identificabili ma non troppo visibili; la presenza contestuale della

camorra e della politica oltre ad esserci, si deve vedere e non vedere, quel tanto che basta ad

essere riconoscibile senza però dare eccessivamente nell’occhio.

Si comprende, così, come anche gli “apparentamenti” in Associazioni Temporanee di

Imprese trovano origine e si rinvigoriscono con la medesima linfa derivante dai rapporti

criminali con il clan che controlla il territorio e settori strategici dell’economia come edilizia e

rifiuti. Le A.T.I. sono uno degli strumenti privilegiati per garantire la partecipazione alle gare

anche a ditte che singolarmente considerate non ne hanno i requisiti minimali, e dunque sono

strumento per la realizzazione di quel medesimo programma criminoso di cui si è detto; non

infrequente il connubio fra imprese mafiose e imprese di elezione della politica, a cui

garantire l’appalto per ottenere il contestuale raggiungimento di un programma criminale

capace di assicurare risorse a tutti i protagonisti: il clan eserciterà il suo potere di controllo sul

territorio, godrà di significativi introiti, dimostrerà di avere la capacità di garantire alla

popolazione posti di lavoro legali; gli imprenditori spiazzeranno la concorrenza delle imprese

legali, ottenendo l’appalto e garantendosi la possibilità di lavorare in condizioni di diffusa

illegalità (lavoratori in nero, scarse condizioni di sicurezza, evasione fiscale); i politici

acquisiranno consenso elettorale criminale, possibilità di esercitare il clientelismo dei posti di

lavoro e finanziamenti illeciti per le successive campagne elettorale.

23 Ci si riferisce alla presenza di soggetti nei ruoli di amministrazione, del collegio sindacale, o fra i lavoratori, che hanno legami in qualche modo documentabili con uomini del clan (parentele, anche lontane, comparaggio, affinità, frequentazione); alla non occasionale compartecipazione in A.T.I. o altri rapporti imprenditoriali con soggetti economici a loro volta collegati ad organizzazioni criminali; alla contiguità dell’imprenditore a precise cordate politiche di cui alcuni esponenti sono riconducibili alla criminalità o in rapporto stabile con essa; alla capacità di tali cordate politiche di condizionare l’attribuzione di appalti in settori strategici per la criminalità organizzata quale quello dei rifiuti e delle grandi opere pubbliche di portata regionale o nazionale.

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Qualche massima interessante

Sez. 2, Sentenza n. 21621 del 19/03/2001 Ud. (dep. 28/05/2001 ) Rv. 219109 Presidente: De Chiara F. Estensore: Danza D. Imputato: Marra G. P.M. Geraci V. (Diff.) (Rigetta, App. Min. Napoli, 30 marzo 2000).

673 PROVE - 008 valutazione PROVE (COD. PROC. PEN. 1988) - DISPOSIZIONI GENERALI - VALUTAZIONE - Chiamata di correo - Elementi di riscontro individualizzanti - Necessità - Utilizzo di rilievi di ordine logico - Possibilità.

In caso di unica chiamata di correità, le dichiarazioni rese a carico dell'imputato debbono trovare riscontri probatori individualizzanti ; questi, tuttavia, possono essere dedotti dagli elementi di causa e la valutazione del giudice può basarsi anche su rilievi logici che in modo coerente e fondato riconducano all'imputato riscontri singolarmente non univoci rispetto alla sua persona.

Sez. 1, Sentenza n. 9531 del 22/03/1999 Ud. (dep. 23/07/1999 ) Rv. 215129 Presidente: Fazzioli E. Estensore: Bardovagni P. Imputato: PG in proc. Merlino. P.M. Palombarini G. (Diff.) (Annulla con rinvio, Ass. App. Messina, 6 febbraio 1998).

673 PROVE - 012 CHIAMATA DI CORREO - PROVE (COD. PROC. PEN. 1988) - CHIAMATA DI CORREO - Dichiarazioni rese ex art. 210 c.p.p. - Riscontri - Natura, pertinenza e criteri di valutazione.

In tema di valutazione delle dichiarazioni rese ex art. 210 cod. proc. pen., il riscontro richiesto dalla legge non deve necessariamente consistere in una prova distinta della colpevolezza dell'incolpato, che renderebbe superflua la verifica delle dichiarazioni accusatorie, ben potendo essere ravvisato in elementi fattuali o logici che ne dimostrino per taluni effetti la veridicità e, integrandosi con esse, ne garantiscano l'attendibilità anche "ab extrinseco". Ed invero tali dichiarazioni se risultano già riscontrate con riguardo al fatto nella sua obiettività, rafforzano l'attendibilità intrinseca del dichiarante e si proiettano sull'ulteriore controllo da effettuarsi in ordine al contenuto individualizzante delle dichiarazioni, per il quale i riscontri, pur sempre necessari, non richiedono una forza dimostrativa particolarmente accentuata. Ne consegue che le dichiarazioni accusatorie rese ex art. 210 cod. proc. pen. richiedono riscontri di qualsiasi natura, ma comunque attinenti alla individuale posizione dell'incolpato, la cui idoneità a confermare l'attendibilità del dichiarante va valutata con minor rigore quando la vicenda da questi narrata sia già nei suoi aspetti obiettivi riscontrata.

Sez. 6, Sentenza n. 45441 del 07/10/2004 Cc. (dep. 24/11/2004 ) Rv. 230755 Presidente: Romano F. Estensore: Colla G. Relatore: Colla G. Imputato: Fanara. P.M. Cedrangolo O. (Parz. Diff.) (Rigetta, Trib. Palermo, 2 Marzo 2004)

664006 MISURE CAUTELARI (Cod. proc. pen. 1988) - PERSONALI - disposizioni

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generali - condizioni di applicabilità - gravi indizi di colpevolezza - Dichiarazioni accusatorie di persona incolpata del medesimo reato o di reati connessi o collegati - Criteri di valutazione - Carattere almeno parzialmente individualizzante degli elementi di riscontro - Necessità - Sussistenza.

Al fine della valutazione dei gravi indizi necessari per l'adozione di misure cautelari personali, il combinato disposto del comma primo bis dell'art. 273 e dei commi terzo e quarto dell'art. 192 cod. proc. pen. impone che le dichiarazioni accusatorie del correo (o della persona perseguita per reati connessi o collegati) siano verificate attraverso elementi di conferma che attengano alla persona accusata in specifica relazione al fatto che le viene attribuito, e che assumano dunque portata individualizzante. Per altro, essendo la verifica pertinente ad una fase segnata dalla fluidità dell'incolpazione, in cui non è richiesta certezza della colpevolezza ed è invece sufficiente al riguardo un consistente grado di probabilità, la "individualizzazione" del riscontro può essere anche solo tendenziale o parziale (fattispecie nella quale sono state considerate utili, a supporto della chiamata di correo per un sequestro di persona maturato in contesto mafioso, dichiarazioni ed elementi che confermavano la contiguità dell'accusato ai vertici dell'organizzazione intervenuta per la gestione del sequestro in una determinata fase esecutiva). (Conf. Sez. VI, 7 ottobre 2004, n. 45442, non massimata).

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Sez. 2, Sentenza n. 10967 del 17/12/2004 Cc. (dep. 21/03/2005 ) Rv. 231028 Presidente: Morgigni A. Estensore: Fiandanese F. Relatore: Fiandanese F. Imputato: Romito. P.M. Monetti V. (Conf.) (Annulla con rinvio, Trib. Bari, 16 Luglio 2004)

673012 PROVE (Cod. proc. pen. 1988) - CHIAMATA DI CORREO - Causale del delitto - Elemento di riscontro individualizzante - Configurabilità - Ragioni.

La causale del delitto rigorosamente argomentata può costituire elemento di fatto suscettibile di riscontro individualizzante ad una chiamata in correità intrinsecamente attendibile.

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Sez. 1, Sentenza n. 19867 del 04/05/2005 Cc. (dep. 25/05/2005 ) Rv. 232601 Presidente: Sossi M. Estensore: Silvestri G. Relatore: Silvestri G. Imputato: Lo Cricchio. P.M. Galasso A. (Conf.) (Rigetta, Trib. lib. Palermo, 6 Dicembre 2004)

664006 MISURE CAUTELARI (Cod. proc. pen. 1988) - PERSONALI - disposizioni generali - condizioni di applicabilità - gravi indizi di colpevolezza - Chiamata in correità de relato effettuata dal collaboratore di giustizia - Elementi di conferma - Riscontri estrinseci individualizzanti - Necessità - Ragioni.

In tema di misure cautelari personali, la chiamata di correo de relato, effettuata da un collaboratore di giustizia, può costituire grave indizio di colpevolezza, ex art. 273, comma primo bis, cod. proc. pen., solo quando è sorretta da riscontri esterni individualizzanti, in quanto tali, aventi valore dimostrativo non solo in ordine all'accertamento della verificazione del fatto di reato, ma anche in ordine alla sua attribuzione e riferibilità al soggetto colpito dalla misura restrittiva della libertà personale; infatti, l'art. 273, comma primo bis, cod. proc. pen. introdotto dall'art. 11 della legge n. 63 del 2001, attuativa della legge costituzionale sul giusto processo - interpretato alla luce degli art. 3, comma primo e 27, comma secondo, Cost. che costituiscono il fondamento del sistema cautelare - impone, con il rendere applicabili le disposizioni generali sulle prove, richiamandone esplicitamente talune, tra cui l'art. 192, commi terzo e quarto, cod. proc. pen., l'osservanza delle regole di esclusione e di valutazione probatoria anche nella materia cautelare, equiparando nella sostanza il valore dei gravi indizi di colpevolezza a quello della prova e richiedendo che i primi possiedano il crisma della elevata probabilità o dell'elevato grado di credibilità razionale, nel quale si identifica la certezza processuale. Con la conseguenza che - alla luce della nuova disciplina di cui all'art. 273, comma primo bis succitato - i gravi indizi non sono altro che "una prova allo stato degli atti" , valutata dal giudice allorché la formazione del materiale probatorio è ancora in itinere e non è stato sottoposto al vaglio del contraddittorio dibattimentale ed è precisamente questo aspetto dinamico e non la loro differente capacità dimostrativa a contraddistinguerli rispetto alla prova idonea a giustificare la pronuncia di condanna.

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Sez. 2, Sentenza n. 780 del 02/12/2005 Cc. (dep. 11/01/2006 ) Rv. 233024 Presidente: Nardi D. Estensore: Davigo P. Relatore: Davigo P. Imputato: P.M. in proc. D'Angela. P.M. Galasso A. (Diff.) (Annulla con rinvio, Trib. lib. Lecce, 26 Luglio 2005)

673012 PROVE - CHIAMATA DI CORREO - Dichiarazione relativa ad un reato riconducibile ad un'associazione per delinquere - Riscontro individualizzante - Appartenenza

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del chiamato al sodalizio - Sufficienza - Condizioni. .

In tema di valutazione probatoria della chiamata di correo, il riscontro indiv idualizzante alla dichiarazione accusatoria, relativa alla partecipazione alla commissione di un reato riconducibile ad un'associazione per delinquere, può essere costituito dal dato dell'appartenenza del chiamato al sodalizio criminoso, purché tale appartenenza sia accertata anche sulla base di elementi diversi ed autonomi. (La Corte nella specie ha rilevato, con pronuncia di annullamento con rinvio, la necessità di verificare se la partecipazione dell'indagato al sodalizio di tipo mafioso, risultante da sentenza di condanna in primo grado, presentasse carattere di autonomia e potesse nel caso concreto essere valutato quale riscontro individualizzante alla chiamata in correità per un attentato incendiario in danno di un soggetto, che si era rifiutato di vendere un'autovettura al cognato di uno dei capi del detto sodalizio).

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Sez. 1, Sentenza n. 1560 del 21/11/2006 Ud. (dep. 19/01/2007 ) Rv. 235801 Presidente: Fabbri G. Estensore: Corradini G. Relatore: Corradini G. Imputato: P.G. in proc. Missi. P.M. Monetti V. (Diff.) (Annulla con rinvio, Ass.App. Napoli, 4 Maggio 2006)

673012 PROVE - CHIAMATA DI CORREO - Chiamata in reità - Valutazione - Riscontri - Necessità - Natura.

In tema di valutazione della chiamata in reità, i necessari riscontri individualizzanti possono essere offerti anche da elementi di natura logica e da un'altra dichiarazione, sia pure "de relato" , purchè sottoposta ad un pregnante vaglio critico e purchè consenta di collegare l'imputato ai fatti a lui attribuiti dal chiamante in reità, non necessariamente con specifico riferimento al frammento di fatto a cui quest'ultimo ha assistito.

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Sez. 2, Sentenza n. 13473 del 04/03/2008 Ud. (dep. 31/03/2008 ) Rv. 239744 Presidente: Carmenini SL. Estensore: Fiandanese F. Relatore: Fiandanese F. Imputato: Lucchese e altro. P.M. Galasso A. (Conf.) (Rigetta, Ass.App. Palermo, 12 Gennaio 2007)

673012 PROVE - CHIAMATA DI CORREO - Riscontro - Pluralità di chiamate di correo - Valutazione - Criteri.

In tema di valutazione della prova, i riscontri esterni alle chiamate in correità possono essere costituiti anche da ulteriori dichiarazioni accusatorie, le quali devono tuttavia caratterizzarsi: a) per la loro convergenza in ordine al fatto materiale oggetto della narrazione; b) per la loro indipendenza - intesa come mancanza di pregresse intese fraudolente - da suggestioni o condizionamenti che potrebbero inficiare il valore della concordanza; c) per la loro specificità, nel senso che la c.d. convergenza del molteplice deve essere sufficientemente individualizzante e riguardare sia la persona dell'incolpato sia le imputazioni a lui ascritte, fermo restando che non può pretendersi una completa sovrapponibilità degli elementi d'accusa forniti dai dichiaranti, ma deve privilegiarsi l'aspetto sostanziale della loro concordanza sul nucleo centrale e significativo della questione fattuale da decidere.

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Sez. 6, Sentenza n. 24469 del 05/05/2009 Ud. (dep. 12/06/2009 ) Rv. 244382 Presidente: Di Virginio A. Estensore: Ippolito F. Relatore: Ippolito F. Imputato: Bono e altro. P.M. Delehaye E. (Diff.) (Annulla con rinvio, App. Palermo, 30 giugno 2006)

602013 REATI CONTRO L'ORDINE PUBBLICO - DELITTI - ASSOCIAZIONE PER DELINQUERE - IN GENERE - Associazione di tipo mafioso - Prova del vincolo associativo - Frequentazioni e contatti con soggetti affiliati al sodalizio criminale - Rilevanza - Limiti - Indicazione.

In tema di associazione di tipo mafioso, la mera frequentazione di soggetti affiliati al sodalizio criminale per motivi di parentela, amicizia o rapporti d'affari, ovvero la presenza di occasionali o sporadici contatti in occasione di eventi pubblici e in contesti territoriali ristretti, non costituiscono elementi di per sé sintomatici dell'appartenenza all'associazione, ma possono essere utilizzati come riscontri da valutare ai sensi dell'art. 192, comma terzo, cod. proc. pen., quando risultino qualificati da abituale o significativa reiterazione e connotati

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dal necessario carattere individualizzante.

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Sez. 1, Sentenza n. 29383 del 24/06/2009 Ud. (dep. 16/07/2009 ) Rv. 244303

Presidente: Chieffi S. Estensore: Bricchetti R. Relatore: Bricchetti R. Imputato: Sergi e altri. P.M. Di Casola C. (Parz. Diff.) (Rigetta in parte, Ass.App. Milano, 27 ottobre 2008)

673012 PROVE - CHIAMATA DI CORREO - Riscontri individualizzanti - Dati risultanti dai tabulati telefonici - Sussistenza.

I dati emergenti dai tabulati telefonici relativi a conversazioni intercorse tra apparecchi di telefonia mobile in uso a soggetti chiamati in correità ben possono costituire elemento di riscontro esterno individualizzante alle dichiarazioni accusatorie del chiamante, in assenza di plausibili spiegazioni alternative dei contatti avuti tra essi in luoghi e momenti significativi ai fini dell'accertamento del reato.

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Sez. 6, Sentenza n. 29425 del 09/07/2009 Cc. (dep. 16/07/2009 ) Rv. 244472Presidente: Lattanzi G. Estensore: Citterio C. Relatore: Citterio C. Imputato: Marrazzo. P.M. Di Casola C. (Parz. Diff.) (Annulla con rinvio, Trib. lib. Salerno, 06 maggio 2009)

664006 MISURE CAUTELARI - PERSONALI - DISPOSIZIONI GENERALI - CONDIZIONI DI APPLICABILITÀ - GRAVI INDIZI DI COLPEVOLEZZA - Chiamata in correità - Riscontri esterni individualizzanti - Possibile interpretazione alternativa lecita dei fatti - Requisiti dei riscontri.

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In tema di valutazione della chiamata in correità in sede cautelare, in presenza di una situazione fattuale riconducibile in astratto a più interpretazioni alternative, di cui una lecita, i riscontri alle dichiarazioni accusatorie devono esprimere non solo qualità ed idoneità individualizzante, ma devono altresì risultare significativi in ordine alla scelta della direzione di lettura della fattispecie concreta.

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Sez. 3, Sentenza n. 3255 del 10/12/2009 Ud. (dep. 26/01/2010 ) Rv. 245867 Presidente: Lupo E. Estensore: Squassoni C. Relatore: Squassoni C. Imputato: Genna. P.M. Salzano F. (Diff.) (Annulla con rinvio, App. Milano, 19/06/2008)

673012 PROVE - CHIAMATA DI CORREO - Riscontri esterni - Carattere individualizzante - Necessità.

I riscontri esterni alla chiamata di correità richiesti dall'art. 192 cod. proc. pen. devono essere individualizzanti, nel senso che devono avere ad oggetto direttamente la persona dell'incolpato e devono possedere idoneità dimostrativa in relazione allo specifico fatto a questi attribuito.

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Sez. 1, Sentenza n. 19517 del 01/04/2010 Cc. (dep. 24/05/2010 ) Rv. 247206 Presidente: Fazzioli E. Estensore: Silvestri G. Relatore: Silvestri G. Imputato: Iannicelli. P.M. Iacoviello FM. (Diff.) (Annulla con rinvio, Trib. lib. Catanzaro, 06 agosto 2009)

664006 MISURE CAUTELARI - PERSONALI - DISPOSIZIONI GENERALI - CONDIZIONI DI APPLICABILITÀ - GRAVI INDIZI DI COLPEVOLEZZA - Chiamata in

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reità o correità - Elementi di conferma - Riscontri estrinseci individualizzanti - Necessità - Ragioni.

In tema di valutazione della chiamata in reità o correità in sede cautelare, le dichiarazioni accusatorie rese dal coindagato o coimputato nel medesimo reato o da persona indagata o imputata in un procedimento connesso o collegato integrano i gravi indizi di colpevolezza soltanto se esse, oltre ad essere intrinsecamente attendibili, risultino corroborate da riscontri estrinseci individualizzanti, tali cioè da assumere idoneità dimostrativa in ordine all'attribuzione del fatto reato al soggetto destinatario di esse, ferma restando la diversità dell'oggetto della delibazione cautelare, preordinata a un giudizio prognostico in termini di ragionevole e alta probabilità di colpevolezza del chiamato, rispetto a quella di merito, orientata invece all'acquisizione della certezza processuale in ordine alla colpevolezza dell'imputato.

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Sez. 5, Sentenza n. 18097 del 13/04/2010 Cc. (dep. 12/05/2010 ) Rv. 247147 Presidente: Ambrosini G. Estensore: Vessichelli M. Relatore: Vessichelli M. Imputato: Pmt in proc. Di Bona. P.M. D'Angelo G. (Conf.) (Rigetta, Trib. lib. Napoli, 24 novembre 2009)

664006 MISURE CAUTELARI - PERSONALI - DISPOSIZIONI GENERALI - CONDIZIONI DI APPLICABILITÀ - GRAVI INDIZI DI COLPEVOLEZZA - Chiamata in correità - Assenza di riscontri individualizzanti - Operatività della regola di giudizio di cui all'art. 192, comma terzo, cod. proc. pen. - Esclusione.

In tema di misure cautelari personali, la chiamata di correo quale grave indizio di colpevolezza, oltre che essere apprezzato nella sua attendibilità intrinseca, deve essere supportato da riscontri esterni individualizzanti in grado di dimostrarne la compatibilità col "thema decidendum" proprio della pronuncia "de libertate" e di giustificare, quindi, la razionalità della medesima, essendo l'esigenza della "corroboration" - che inerisca non solo alle modalità oggettive del fatto descritto dal chiamante ma anche soggettivamente indirizzata - imprescindibile nell'ambito di una valutazione che è strumentale all'adozione di un provvedimento, quale quello restrittivo della libertà, dagli effetti rigorosamente "ad personam".

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Sez. 1, Sentenza n. 16674 del 10/12/2010 Ud. (dep. 29/04/2011 ) Rv. 249956 Presidente: Giordano U. Estensore: Tardio A. Relatore: Tardio A. Imputato: V.. P.M. Volpe G. (Conf.) (Rigetta, App. Reggio Calabria, 28/09/2009)

673012 PROVE - CHIAMATA DI CORREO - Principio di frazionabilità - Conseguenze.

La valutazione della chiamata in correità che contenga accuse nei confronti di più persone deve avvenire in modo frazionato per verificare l'esistenza dei riscontri individualizzanti a carico di ciascun accusato, non potendo estendersi l'affidabilità delle dichiarazioni del chiamante, che pure trovino conferme oggettive negli accertati elementi del fatto criminoso e soggettive nei confronti di uno dei chiamati, a un altro chiamato sulla base di reciproche inferenze totalizzanti.

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Ed in tema di riscontro logico e della sua idoneità a corroborare la chiamata di correo: Premesse le consuete indicazioni quanto ai parametri del vaglio di attendibilità intrinseca

della dichiarazione (coerenza logica, fermezza, carenza di intento calunniatorio, carattere

disinteressato, costanza) per connotare il concetto di “elemento confermativo

dell’attendibilità”, individuato dal legislatore nella disposizione di cui all’art. 192 c.p.p., deve

infatti tenersi a mente:

���� Il principio della "libertà del riscontro " (Cass. Sez. Unite 21/4/1995, Costantino),

secondo cui la corroborazione della chiamata in reità deve trarsi da elementi o dati

probatori certi, aprioristicamente non determinati né determinabili (seppur privi di

carattere indiziante), anche di natura logica, tali da inerire al narrato e idonei a

relazionarsi al fatto di reato ovvero all'attendibilità del propalante ;

���� L’idoneità integrativa del cd. "riscontro logico” (Cass. 17/2/1996, Sez. VI, n.

204439, Cass. 30/1/1992, I Sez. e Cass. 17/2/1990, Sez. VI), secondo il quale è

“possibile che i riscontri siano costituiti, oltre che da elementi rappresentativi, da

elementi logici finanche dotati di tale consistenza da resistere a quelli di segno

opposto dedotti dall’imputato”;

���� La “corroborazione logica” come effetto della falsificazione della versione

difensiva, secondo cui “il riscontro può non avere alcuna idoneità probatoria rispetto

al Thema decidendum, ma solo in riferimento a tale chiamata per la parte in cui

quest’ultima costituisce accusa nei confronti del giudicabile: tale potrebbe essere la

totale inverosimiglianza accertata obiettivamente o in base a regole di esperienza,

della versione definitiva, in netto contrasto con quella del chiamante intrinsecamente

attendibile e riscontrata ora circostanza al contorno” (Cass. 20/12/1993, II Sez.);

���� La corroborazione “individualizzante” fondata sul comportamento dell’accusato

: il comportamento dell’imputato, quando – in modo ingiustificabile – rifiuti

cooperazione all’assunzione di una prova rilevante, quale il rifiuto di sottoporsi ad un

prelievo non invasivo (Sez. 2, Sentenza n. 44624 del 08/07/2004 Ud. (dep. 17/11/2004

) Rv. 230245 : “Il rifiuto dell'imputato di consegnare o lasciar prelevare materiale

biologico utile alla comparazione del DNA, quando non siano state prospettate allo

scopo modalità invasive o comunque lesive dell'integrità e della libertà personale,

costituisce, se non motivato con giustificazioni esplicite e fondate, elemento di prova

valutabile dal giudice a fini di ricostruzione del fatto, anche in qualità di riscontro

individualizzante della chiamata in correità.(Fattispecie relativa al rifiuto opposto da

persona accusata d'omicidio di consentire la comparazione del proprio DNA con

quello ricavabile da alcune formazioni pilifere rinvenute all'interno di un casco che,

stando alle dichiarazioni di un collaborante, era stato utilizzato durante l'esecuzione

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del delitto); Sez. 1, Sentenza n. 37108 del 20/09/2002 Ud. (dep. 05/11/2002 ) Rv.

222527 “È legittimamente valutato, come elemento di prova integrativo, il rifiuto

ingiustificato dell'imputato a sottoporsi al prelievo necessario per l'esame

comparativo del DNA (nella specie sui residui piliferi rinvenuti in un passamontagna

utilizzato dall'autore di una rapina a mano armata), in quanto tale rifiuto può essere

liberamente apprezzato dal giudice nella formazione del suo convincimento e anche

utilizzato come riscontro individualizzante alla chiamata di correo. (V. Corte cost., 9

luglio 1996 n. 238) ; Sez. 6, Sentenza n. 1472 del 02/11/1998 Ud. (dep. 04/02/1999 )

Rv. 213448 “Qualora l'imputato sia stato sottoposto coattivamente a prelievo di

sangue da sottoporre a perizia ematologica, il risultato della prova così conseguita,

contrastando con quanto affermato dalla sent. n. 238 del 1996 della Corte cost. - che

ha dichiarato l'incostituzionalità dell'art. 224 cod. proc. pen. nella parte in cui

consente al giudice di disporre misure aventi incidenza sulla libertà personale

dell'imputato senza che siano previsti dalla legge i casi e i modi per l'espletamento di

tale attività - è inutilizzabile, e ciò anche qualora il prelievo sia stato effettuato in

epoca antecedente alla predetta sentenza, posto che i divieti di utilizzazione

probatoria operano fino al momento della decisione e non solo nel momento di

acquisizione della prova, in tal modo dovendosi applicare, relativamente a tale

materia, il principio "tempus regit actum". Peraltro, il rifiuto ingiustificato

dell'imputato di sottoporsi spontaneamente al prelievo, non essendo motivato da

ragioni inerenti all'invasione della propria sfera corporale e quindi alla violazione

della libertà personale, ma da argomenti pretestuosi, può essere valutato dal giudice

come elemento di convincimento (nella specie, come riscontro individualizzante a

chiamata di correo”); dai principi sovra esposti deve estendersi il significato di

riscontro al caso di rifiuto a cooperare ad una ricognizione, a sottoporsi a saggio

fonico, grafico o video (nei casi, per es., di perizia antropometrica); di rifiuto di

sottoporsi utilmente ad un confronto; al comportamento dell’imputato che presenti una

dichiarazione d’alibi falsificata ovvero costruisca ingiustificatamente un alibi (Sez. U,

Sentenza n. 6682 del 04/02/1992 Ud. (dep. 04/06/1992 ) Rv. 191231 L'alibi fallito va

considerato come elemento del tutto agnostico sul piano probatorio, e dunque, non

costituente neppure un indizio; solo nel caso in cui sia stata acquisita "aliunde" la

prova della responsabilità esso può costituire un elemento integrativo, di chiusura del

costrutto probatorio. L'alibi costruito è, invece, indicativo di una maliziosa

preordinazione difensiva ed ha una sua valenza indiziante che, a differenza di quello

fallito, lo pone tra gli elementi, secondo l'esperienza, probatoriamente rilevanti; esso

però deve essere preso in esame considerandolo dapprima nella sua intrinseca

strutturazione in rapporto alla situazione processuale concreta e poi valutandolo in

correlazione con gli altri elementi indiziari acquisiti. (La Cassazione ha evidenziato

che la "costruzione" dell'alibi non porta alla necessaria conseguenza logica della

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responsabilità, restando aperta la possibilità del ricorso a tale strumento anche da

parte dell'innocente eventualmente a corto di argomenti difensivi di fronte al peso di

pregnanti elementi a suo carico); del comportamento dell’imputato che si attivi –

direttamente o indirettamente – per subornare, intimidire o comunque indurre alla

ritrattazione od al silenzio la fonte d’accusa; del comportamento dell’imputato che

mistifichi (o tenti di farlo) le prove a suo carico o gli elementi di riscontro

dell’attendibilità “intrinseca”;

���� La cd. "funzione gregaria o accessoria" del riscontro, per il quale la “(...) funzione

processuale del riscontro è quella di confermare l’attendibilità delle dichiarazioni

accusatorie, così da rendere tali elementi in posizione subordinata e accessoria

rispetto alla prova derivante dalla chiamata, avendo essi idoneità probatoria rispetto

al Thema decidendum, non da soli ma in riferimento alla chiamata” (Cass 22/1/1997

Sez. VI n. 5649);

���� Il principio della cd. “efficacia traslativa intern a del riscontro individualizzante”,

secondo cui quando "la stessa dichiarazione contenga più accuse nei confronti della

stessa persona, può non ritenersi necessario un riscontro individualizzante per ogni

singolo fatto, in considerazione che in forza di una valutazione complessiva ed in

mancanza di elementi contrari, può logicamente ritenersi che l'autore di un

determinato delitto possa essere l'autore di delitti della stessa specie, commessi nello

stesso contesto o in contesti analoghi" (Cass 1/3/1996 Pizzata); Cass. Sez. II,

10.6.2005, n. 21998, in Guida al diritto, 2005, n. 31, per la quale: «In tema di

“riscontri esterni” alla chiamata in correità, legittimamente il giudice di merito può

procedere attribuendo al singolo riscontro un’efficacia traslativa attribuendone

valenza anche rispetto a episodi diversi cui il medesimo direttamente si riferisce. Ciò

in quanto, la cosiddetta efficacia traslativa interna del riscontro individualizzante, di

regola non consentita (giacché, altrimenti, la confermata attendibilità delle

dichiarazioni su un fatto o su una persona basterebbe a rendere automaticamente

confermata la caratura probatoria delle dichiarazioni di quella stessa fonte su ogni

altro fatto e soggetto coinvolto, facendo venir meno la stessa ratio essendi della

cosiddetta corroboration), deve, invece, ammettersi nei casi in cui i singoli episodi

delittuosi si inseriscano in un’attività che renda verosimile anche le responsabilità

dell’imputato per gli episodi privi di specifico riscontro. Infatti, allorché il chiamante

in correità rende dichiarazioni che concernono una pluralità di fatti-reato commessi

dallo stesso soggetto e ripetuti nel tempo, l’elemento di riscontro esterno in ordine ad

alcuni di essi fornisce sul piano logico la necessaria integrazione probatoria a

conforto della chiamata anche in ordine agli altri, purché sussistano ragioni idonee a

suffragare un tale giudizio e a imporre una valutazione unitaria delle dichiarazioni

accusatorie, quali l’identica natura dei fatti in questione, l’identità dei protagonisti o

di alcuni di loro, l’inserirsi dei fatti in un rapporto intersoggettivo unico e

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continuativo, atteso che gli elementi integratori della prova costituita da dichiarazioni

rese da un imputato dello stesso reato o di un reato connesso, ex articolo 192, comma

3, del Cpp, possono essere della più varia natura, e quindi anche di carattere logico,

purché riconducibili a fatti esterni a quelle dichiarazioni … Inscindibilità del tessuto

narrativo – nel che sta l’essenza della impossibilità di operarne una valutazione

frazionata in punto di attendibilità – e corrispondente “efficacia traslativa” dei

riscontri esterni che quella attendibilità abbiano confermato, sia pure con riferimento

a taluni soltanto dei momenti “centrali” in cui quel tessuto si è venuto a dipanare,

rappresentano, dunque, gli speculari termini di una medesima “fenomenologia

probatoria”, quale è quella, appunto, postulata dalla regola di giudizio sancita

dall’art. 192, commi 3 e 4, del codice di rito»; cfr., in senso del tutto conforme, Cass.

Sez. IV, 16.2.2005, n. 5821, Alfieri, in www.italgiureweb.it: «Sempre in tema di

riscontri esterni, va ancora ricordato che legittimamente il giudice di merito può

procedere attribuendo al singolo riscontro un'efficacia traslativa attribuendone

valenza anche rispetto a episodi diversi cui il medesimo direttamente si riferisce. Ciò

in quanto, secondo un principio interpretativo senz'altro condivisibile, la cosiddetta

efficacia traslativa interna del riscontro individualizzante, di regola inammissibile,

deve, invece, ammettersi nei casi in cui i singoli episodi delittuosi si inseriscano in

un'attività che renda verosimile anche le responsabilità dell'imputato per gli episodi

privi di specifico riscontro. Infatti, allorché il chiamante in correità rende

dichiarazioni che concernono una pluralità di fatti-reato commessi dallo stesso

soggetto e ripetuti nel tempo, l'elemento di riscontro esterno in ordine ad alcuni di

essi fornisce sul piano logico la necessaria integrazione probatoria a conforto della

chiamata anche in ordine agli altri, purché sussistano ragioni idonee a suffragare un

tale giudizio e ad imporre una valutazione unitaria delle dichiarazioni accusatorie,

quali l'identica natura dei fatti in questione, l'identità dei protagonisti o di alcuni di

loro, l'inserirsi dei fatti in un rapporto intersoggettivo unico e continuativo, atteso che

gli elementi integratori della prova costituita da dichiarazioni rese da un imputato

dello stesso reato o di un reato connesso, ex art. 192, comma 3^, c.p.p., possono

essere della più varia natura, e quindi anche di carattere logico, purché riconducibili

a fatti esterni a quelle dichiarazioni». Quanto poi alla possibilità di individuare il

riscontro per il reato scopo traendolo dalla compartecipazione ad un settore

specializzato del gruppo mafioso, Cfr. per es. Cass. Sez. V, n. 36451 del 15.09.2004,

Vullo ed altri, in www.italgiureweb.it, rv. 230240, per la quale costituisce riscontro

alla partecipazione ad un omicidio riconducibile ad una determinata organizzazione,

«la comprovata appartenenza dell'imputato al relativo "gruppo di fuoco”, sul

presupposto che le fonti ulteriori rappresentavano tale "gruppo” come formazione

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composta da pochissime persone e stabilmente utilizzata per le azioni omicidiarie di

interesse del clan24».

Di seguito si evidenziano, ed è importante sottolinearlo, alcune valutazioni proposte dalla

giurisprudenza in casi in cui, disponendosi unicamente della cd. “prova logica” (riferibilità di

un delitto ad una associazione criminosa / responsabilità – quali esecutori – di membri del

gruppo / posizione apicale dell’imputato in seno al gruppo), si è pervenuto ad un giudizio di

colpevolezza in capo al mandante, seppure limitatamente al procedimento cautelare.

Si rileveranno inoltre altre decisioni in cui un simile ragionamento inferenziale non è stato

ritenuto sufficiente (salvo verificare il grado di insufficienza, nel caso di procedimento “de

libertate”).

E’ bene rammentare che le conclusioni di seguito tratteggiate riguardano casi in cui manchi

una prova diretta di responsabilità, ossia situazioni caratterizzate dalla mancanza di una

chiamata in correità in ordine alla specifica responsabilità per il delitto scopo.

In una primissima decisione in materia di terrorismo alto-atesino degli anni ’70, viene

affermato a sezioni unite (Cass. Sez.un. 18/3/1970, Kotler + altri) che “…in caso di

un’organizzazione di tipo politico-militare, destinata ad operazioni di tipo bellico (…) a

coinvolgere i capi o dirigenti, anche massimi, dell’organizzazione nella responsabilità delle

operazioni compiute dai gregari (…) non basta questa loro condizione di gerarchi, la quale

non autorizza logicamente, di per sé sola, la presunzione che quanto compiuto dalle squadre

d’azione sia stato ordinato dai capi, occorrendo la prova positiva dello specifico mandato

emesso volta per volta …” desumibile, peraltro, dalla prova che gli autori materiali non

avessero operato “fuori dei suoi ordini e della sua consapevolezza”.

In tema di terrorismo politico-eversivo degli anni ’80 è stata poi ripetutamente affermata dalla

giurisprudenza di merito la responsabilità, a titolo di concorso morale, per i reati commessi in

sede locale dai partecipi (militanti di base) della banda armata denominata “Brigate rosse”,

dei componenti degli organi collegiali di vertice, sia centrale che locale, partecipi alle

decisioni dirette ad individuare le iniziative criminose e gli obiettivi generali orientati

all’eversione, senza che occorresse la prova concreta della partecipazione attraverso direttive

specifiche o agevolazioni materiali (vedi Ass. Torino, 26/7/1983, Acella; Ass. Genova,

24 Sez. 5, Sentenza n. 36451 del 24/06/2004 Ud. (dep. 15/09/2004 ) Rv. 230240 , secondo cui “Ai fini della valutazione della chiamata di correo, nel giudizio sul merito dell'imputazione, costituisce riscontro individualizzante un qualunque elemento di prova che provenga da fonte diversa, che riguardi la sfera personale dell'accusato e che sia riconducibile al fatto da provare, o perché direttamente lo rappresenta o perché ne fornisce conferma, in via indiretta, attraverso un procedimento logico-deduttivo. Ove nel caso concreto gli elementi di riscontro corrispondano a tale nozione, la loro valenza confermativa costituisce oggetto di una valutazione in fatto, che sfugge al sindacato di legittimità, sempre che il giudice dia conto con motivazione congrua e completa del proprio apprezzamento. (Nella specie la Corte ha ritenuto insindacabile la valutazione di adeguatezza, quale riscontro dell'accusa concernente un omicidio riconducibile ad una determinata organizzazione, della comprovata appartenenza dell'imputato al relativo "gruppo di fuoco", sul presupposto che le fonti ulteriori rappresentavano tale "gruppo" come formazione composta da pochissime persone e stabilmente utilizzata per le azioni omicidiarie di interesse del clan).

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26/2/1983, Azzolini; Ass. Roma 24/1/1983, Andriani), ciò variamente argomentando su

presupposti fattuali (pienezza del controllo del vertice sulle appendici del gruppo; reato

satellite locale rientrante in una campagna istigatrice perseguita a livello nazionale), giuridici

(assunzione di specifiche responsabilità in ragione del ruolo assunto) ovvero metagiuridici

(lettura evoluzionista della norma di cui all’art. 110 c.p. per effetto della pratica impossibilità

di risalire ai veri mandanti).

Tale parziale semplificazione nell’accertamento probatorio è stato peraltro definitivamente

superato con la decisione della Cassazione, Sez. Un., 21/10/1992, Marino, con la quale - nel

ribadire i principi che regolano il concorso di persone nel reato e, quindi, richiamando la

necessità di un collegamento causale, sia pur solamente morale, tra il delitto ed soggetto

chiamato a risponderne - si reputa l’insufficienza di ricostruzioni inferenziali di tipo

congetturale basate sul ruolo dirigenziale od organizzativo del soggetto nell’associazione,

purchè beninteso “il ruolo non sia valorizzato, (allorchè) si inserisca in un complesso di altri

elementi specifici, nel quale – per la rilevanza dell’insieme – la soglia della sua singola

rilevanza generica venga superata”.

Sul versante del tema associativo di stampo mafioso si è ugualmente ritenuto

insufficiente il cd. “riscontro d’ambiente” con il quale si vuole riferire all’associato il reato

fine collegato all’associazione, pur ritenendo il rilievo di tale elemento, laddove confortato

con altri elementi oggettivi d’accusa (così Cass. Sez. I, 1/4/1992, Bruno); nella specificazione

di tali elementi vengono poi indicati particolari dati fattuali (spendita del nome del partecipe

nell’esecuzione del reato fine; frequenti contatti diretti ed indiretti; accollo dell’onere di

assistenza legale e materiale delle persone arrestate nella flagranza del reato satellite: in tal

senso vedi Cass. Sez. I, 2/4/1996, Alfano) atti ad integrare la prova della riferibilità al

partecipe dell’associazione, quale concorrente morale, del reato satellite.

Conformemente, in tema di responsabilità dei componenti della cd.“cupola palermitana” per il

reato fine “eccellente” commesso da membri associati (nella specie si verteva della

sussistenza della gravità indiziaria per l’omicidio ai danni del dott. A. Scoppelliti) si evidenzia

come “(…) le decisioni concernenti tali delitti (…) non possono essere prese individualmente

dagli aderenti all’associazione mafiosa, ma previo concerto dell’organo decisionale centrale,

Coerentemente a tale assunto (…) appare corretto ritenere che, una volta riconosciuta

l’esistenza (…) di un organismo collegiale centrale, composto da un ristretto numero di

associati ed investito delpotere di deliberare, con efficacia vincolante, in ordine alla

commissione o meno di singoli fatti criminosi da considerare di particolare rilievo perla vita

dell’associazione, deve ritenersi, fino a prova contraria (in assenza di elementi che siano

indicativi dell’estraneità o contrarietà di alcuni di essi alla decisione presa) che i componenti

del suddetto organismo siano corresponsabili dell’avvenuta perpetuazione dei fatti decisi

dall’organismo di cui fanno parte” (così Cass., Sez. I, 28/12/1993, Brusca ed altri).

In linea la Sez. 2, Sentenza n. 780 del 02/12/2005 Cc. (dep. 11/01/2006 ) Rv. 233024 : “ In

tema di valutazione probatoria della chiamata di correo, il riscontro individualizzante alla

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dichiarazione accusatoria, relativa alla partecipazione alla commissione di un reato

riconducibile ad un'associazione per delinquere, può essere costituito dal dato

dell'appartenenza del chiamato al sodalizio criminoso, purché tale appartenenza sia

accertata anche sulla base di elementi diversi ed autonomi. (La Corte nella specie ha

rilevato, con pronuncia di annullamento con rinvio, la necessità di verificare se la

partecipazione dell'indagato al sodalizio di tipo mafioso, risultante da sentenza di condanna

in primo grado, presentasse carattere di autonomia e potesse nel caso concreto essere

valutato quale riscontro individualizzante alla chiamata in correità per un attentato

incendiario in danno di un soggetto, che si era rifiutato di vendere un'autovettura al cognato

di uno dei capi del detto sodalizio).

La giurisprudenza ha poi enucleato l’adeguatezza del cd. Riscontro “analogico”, utilizzato per

sanzionare un caso di condotta criminale sistematica, sorretta da rigide regole interne.

Vedi Sez. 6, Sentenza n. 3945 del 15/02/1999 Ud. (dep. 25/03/1999 ) Rv. 213883 : “In tema

di valutazione della prova a norma dell'articolo 192,terzo comma, cod. proc. pen., accertata

la convergenza di plurime chiamate in correità, l'esistenza concretamente storicizzata di

modalità di comportamenti che, di necessità, non avrebbero potuto essere diversi da quelli

ampiamente descritti in relazione ai singoli ripetuti episodi, giustifica che per lo specifico

fatto addebitato la dichiarazione accusatoria possa essere (quantunque solo in apparenza)

una sola, posto che il riscontro individualizzante è nello stesso ripetersi uniforme e

necessitato delle condotte. (Fattispecie in tema di reiterati fatti di corruzione consumati da

militari della Guardia di Finanza).

Quanto poi al tema dell’adeguatezza della chiamata in reità – “de relato” – per

l’integrazione della corroborazione, si rileva che anche la chiamata in reità possa confermare

una chiamata in correità.

Analizzando infatti la sostanza del riscontro convergente, questo può ben essere costituito da

una dichiarazione “de relato”, riferita da fonte credibile, che attinga l’informazione dallo

stesso dichiarante (ovviamente in un momento stragiudiziale, pre-procedimentale).

In proposito la Cass. 29/5/1996, Sez. VI n. 1315 ha infatti ritenuto che “la chiamata di correo

ed il riscontro probatorio estrinseco devono integrarsi reciprocamente e formare oggetto di

un giudizio complessivo circa la validità della chiamata in correità. Di conseguenza la

deposizione testimoniale del terzo che riferisce in ordine a circostanze apprese direttamente

dal dichiarante, le quali costituiscono oggetto della chiamata, pur non potendo attingere al

minimo di sufficienza quale autonoma prova della colpevolezza del chiamato, proprio per la

derivazione di conoscenza da un unico referente, ben può costituire - nella globale

valutazione del giudice - l’elemento di riscontro oggettivo ed esterno dell’attendibilità della

chiamata in correità, in considerazione dell’apporto di conoscenza di elementi certi, anche

esterni al thema probandum, cioè del fatto in imputazione”; ciò, evidentemente,

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sull’elementare presupposto di un rigoroso controllo dell’attendibilità della rivelazione, sia

in riferimento al suo autore immediato, sia alla fonte originaria dell’accusa, pur talora

estranea al processo (così Cass. 30/6/1993, VI Sez).

Analogamente la Sez. 6, Sentenza n. 937 del 07/11/2001 Ud. (dep. 10/01/2002 ) Rv. 220384 ,

Presidente: Fulgenzi R. Estensore: Conti G. Imputato: Agosta ed altri. P.M. Fraticelli M.

(Conf.) , secondo cui “In tema di valutazione della prova, l'elemento di riscontro oggettivo ed

esterno dell'attendibilità della chiamata in correità, richiesto dall'art. 192, terzo comma, cod.

proc. pen., può essere costituito anche dalla deposizione testimoniale resa dal terzo in ordine

a circostanze apprese direttamente dal dichiarante, quando quest'ultima apporti autonomi

elementi di prova circa l'attendibilità del chiamante diretto sul "thema probandum", cioè sul

fatto di cui all'imputazione”.

Più estesa la pronuncia della Sez. 5, Sentenza n. 2542 del 30/06/1993 Cc. (dep. 04/09/1993 )

Rv. 195840, Imputato: Tornese. (Conf.) secondo cui “Le dichiarazioni rese ai sensi dell'art.

192, terzo comma cod. proc. pen. dal coimputato del medesimo reato o da persona imputata

di reato connesso sono suscettibili di riscontri oggettivi o soggettivi (quali le dichiarazioni di

altri soggetti) che confortino l'attendibilità dell'accusa. La chiamata di correo "de relato",

che esige rigoroso controllo, sia in riferimento al suo autore immediato, sia in relazione alla

fonte originaria dell'accusa, che spesso resta estranea al processo, può trovare riscontro

anche nelle dichiarazioni di un soggetto che affermi di aver ricevuto dal chiamante la

medesima confidenza. (Fattispecie in tema di misure cautelari personali: la S.C. ha affermato

che la detta confidenza costituisce valido riscontro alla chiamata e non già pseudo-riscontro,

inammissibile come tale, in ragione del diverso contesto, specie cronologico, in cui è stata

resa, in quanto antecedente di un tempo apprezzabile la chiamata "de relato", sì da escludere

l'ipotizzabilità di collusioni). (V. Sez. 5, c.c. 30 giugno 1993, n. 2540, Dell'Anna).

Sez. 6, Sentenza n. 1315 del 29/05/1996 Ud. (dep. 13/02/1997 ) Rv. 208174 , Schemmari

La chiamata di correo, insufficiente da sola per pervenire a un giudizio di colpevolezza, e il

riscontro probatorio estrinseco, elemento per sua natura privo della consistenza di prova

autosufficiente di colpevolezza, devono integrarsi reciprocamente e formare oggetto di un

giudizio complessivo circa la validità della chiamata in correità. Di conseguenza, la

deposizione testimoniale del terzo, che riferisce in ordine a circostanze apprese direttamente

dal dichiarante, le quali costituiscono oggetto della chiamata in correità, pur non potendo

attingere al minimo di sufficienza quale autonoma prova della colpevolezza del chiamato,

proprio per la derivazione di conoscenza da un unico referente, ben può costituire, nella

globale valutazione del giudice, l'elemento di riscontro oggettivo ed esterno dell'attendibilità

della chiamata in correità, in considerazione dell'apporto di conoscenza di elementi certi

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anche esterni al "thema probandum", cioè del fatto di cui all'imputazione (Conforme Sez. 5,

Sentenza n. 32692 del 13/05/2003 Ud. (dep. 01/08/2003 ) Rv. 225805 .

Onde cogliere lo spazio attribuito dalla Giurisprudenza al principio del riscontro logico,

giova segnalare che la giurisprudenza giunge a dare significato anche all’inerzia

dell’incolpato ed a contegni non direttamente a lui riferibili

Si richiamano le sentenze che seguono:

Sez. 2, Sentenza n. 8996 del 15/11/1989 Ud. (dep. 22/06/1990 ) Rv. 184679 , Presidente:

CRUCIANI M. Estensore: ALTIERI E. Imputato: FANIGLIULO. P.M. DI CICCIO.

(CONF) : “Ai fini della valutazione della chiamata in correità, non è necessario che gli

elementi di riscontro siano obiettivi, potendo essere anche di ordine logico, come la

concorrenza di gravi elementi indiziari, la sussistenza di più chiamate in correità concordanti

le eventuali ritrattazioni dei collaboranti, ove se ne accerti la natura mendace. ( V mass n

183119; ( V mass n 181854; ( V mass n 179788; ( Conf mass n 181608, e ivi cit.).*

Sez. 6, Sentenza n. 16058 del 22/04/1989 Ud. (dep. 18/11/1989 ) Rv. 182574 , Presidente:

SALAFIA V. Estensore: ODDONE V. Imputato: MORELLI. P.M. MAMMARELLA.

(CONF) , “Una chiamata di correo, quando sia intrinsecamente attendibile perché

spontanea, dettagliata, disinteressata, non contrastata da elementi regolarmente acquisiti al

processo, e trovi anche conferma in elementi estrinseci di riscontro, anche se

successivamente ritrattata, ben può essere dal giudice di merito, al pari di qualsiasi altro

elemento probatorio, posto a fondamento di un giudizio di condanna.

Sez. 4, Sentenza n. 3241 del 09/02/1996 Ud. (dep. 28/03/1996 ) Rv. 204546 , Presidente:

Scorzelli F. Estensore: Sciuto C. Imputato: Federici ed altro. P.M. Cedrangolo. (Conf)

secondo cui “Il silenzio, garantito all'imputato come oggetto di un suo diritto processuale,

non può essere utilizzato, in contrasto con tale garanzia,quale tacita confessione di

colpevolezza. Ciò, però, non può comportare una limitazione legale della sfera del libero

convincimento del giudice sicché la convinzione di reità può legittimamente basarsi sulla

valorizzazione in senso probatorio di idonei elementi in ordine ai quali il silenzio

dell'imputato viene ad assumere valore di mero riscontro obiettivo.

Sez. 5, Sentenza n. 12182 del 14/02/2006 Ud. (dep. 06/04/2006 ) Rv. 233903, Presidente:

Pizzuti G. Estensore: Marini P. Relatore: Marini P. Imputato: Ferrara. P.M. Viglietta G.

(Conf.)

“ In virtù del principio "nemo tenetur se detegere", l'imputato può non rispondere su fatti

leggibili "contra se" e negare la propria responsabilità anche contro l'evidenza; tuttavia, al

giudice non è precluso valutare la condotta processuale del giudicando, coniugandola con

ogni altra circostanza sintomatica, con la conseguenza che egli, nella formazione del libero

convincimento, può ben considerare, in concorso di altre circostanze (nella specie la

sorpresa in flagranza di reato dell'imputato ad opera della polizia), la portata significativa

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del silenzio mantenuto dall'imputato, su circostanze potenzialmente idonee a scagionarlo

(nella specie la mancata giustificazione della propria presenza all'interno di una scuola

elementare in cui era stato sorpreso insieme ad altri a smontare infissi).

Sez. 5, Sentenza n. 2335 del 21/12/1988 Ud. (dep. 15/02/1989 ) Rv. 180527 , Presidente:

MIELE R. Estensore: BADIA G. Imputato: PAVONI. P.M. VIALE. (CONF) , “Il principio

secondo cui l'imputato non ha l'Obbligo di rispondere alle contestazioni che gli vengono

rivolte non comporta una limitazione legale della sfera del libero convincimento del giudice,

che può legittimamente esercitarsi anche sulla portata significativa del silenzio mantenuto

dall'interrogato su circostanze su cui questi, potendo fornire indicazioni di dati che

potrebbero scagionarlo e contribuire all'accertamento della verità, si rifiuti di farlo. In tal

caso non può dirsi che il silenzio - garantito all'imputato come oggetto di un suo diritto

processuale - venga utilizzato, in contrasto con tale garanzia, come tacita confessione di

colpevolezza giacché il convincimento di reità nel giudice viene a formarsi non sulla

valorizzazione confessoria del silenzio, bensì sulla valorizzazione in senso probatorio di

elementi già idonei a suffragare un giudizio di colpevolezza, in ordine ai quali il silenzio del

soggetto viene ad assumere valore di mero riscontro obiettivo. ( V mass n 172226; ( Conf

mass n 168222).*

Sez. 3, Sentenza n. 5863 del 01/03/1982 Ud. (dep. 12/06/1982 ) Rv. 154201 , Presidente:

SEVERINO M. Estensore: IANNACCONE P. Imputato: DI BITETTO. P.M. FURINO.

(CONF) , secondo cui “Il principio secondo cui l'imputato non ha l'Obbligo di rispondere alle

contestazioni che gli vengano rivolte non comporta una limitazione legale della sfera del

libero convincimento giudiziale, che può legittimamente esercitarsi anche sulla portata

significativa del silenzio mantenuto dall'interrogato su circostanze in cui, potendo fornire

indicazioni di dati che potrebbero scagionarlo e contribuire all'accertamento della verità, si

rifiuti di farlo. In tal caso non può dirsi che il silenzio, garantito all'imputato come oggetto di

un suo diritto processuale, venga utilizzato in contrasto con tale garanzia come tacita

confessione di reità, giacché il convincimento di reità nel giudice viene a formarsi non nella

valorizzazione confessoria del silenzio, bensì sulla valorizzazione in senso probatorio di

elementi già idonei a suffragare un giudizio di colpevolezza, in ordine ai quali il silenzio del

soggetto viene ad assumere valore di mero riscontro obiettivo. ( V mass n 145706).*

Sez. U, Sentenza n. 6682 del 04/02/1992 Ud. (dep. 04/06/1992 ) Rv. 191231

Presidente: Zucconi Galli Fonseca F. Estensore: Feliciangeli U. Imputato: P.M., p.c.,

Musumeci ed altri. P.M. Viale. (Parz. diff.), “L'alibi fallito va considerato come elemento del

tutto agnostico sul piano probatorio, e dunque, non costituente neppure un indizio; solo nel

caso in cui sia stata acquisita "aliunde" la prova della responsabilità esso può costituire un

elemento integrativo, di chiusura del costrutto probatorio. L'alibi costruito è, invece,

indicativo di una maliziosa preordinazione difensiva ed ha una sua valenza indiziante che, a

differenza di quello fallito, lo pone tra gli elementi, secondo l'esperienza, probatoriamente

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rilevanti; esso però deve essere preso in esame considerandolo dapprima nella sua intrinseca

strutturazione in rapporto alla situazione processuale concreta e poi valutandolo in

correlazione con gli altri elementi indiziari acquisiti. (La Cassazione ha evidenziato che la

"costruzione" dell'alibi non porta alla necessaria conseguenza logica della responsabilità,

restando aperta la possibilità del ricorso a tale strumento anche da parte dell'innocente

eventualmente a corto di argomenti difensivi di fronte al peso di pregnanti elementi a suo

carico).

Sull’efficacia traslativa della rinuncia ex art. 599 co. 4 c.p.p. seguita da una dichiarazione

spontanea ammissiva della responsabilità da parte del correo vedi Sez. 1, Sentenza n. 4689 del

06/02/1992 Ud. (dep. 15/04/1992 ) Rv. 189869 , Presidente: Sibilia S. Estensore: Sibilia S.

Imputato: P.G. e Baraldi ed altri. P.M. Frangini. (Conf.)secondo cui “L'eventuale rinuncia

dell'imputato, ai sensi e per gli effetti dell'art. 599 comma quarto c.p.p., al motivo di appello

concernente l'affermazione della responsabilità penale, quando sia accompagnata da una

spontanea e incondizionata ammissione di colpevolezza, può costituire, al pari di una

confessione stragiudiziale, elemento probatorio suscettibile di valutazione, anche nei riflessi

della posizione processuale di altri imputati. (Nella specie, sulla scorta di detto principio, la

Corte ha ritenuto corretta l'argomentazione dei giudici di merito i quali, in presenza di una

chiamata in correità riguardante più soggetti, avevano considerato come valido elemento di

riscontro nei riguardi di uno di essi il fatto che altro chiamato, in identica posizione, nel

rinunciare al gravame sul punto concernente la propria responsabilità, aveva ammesso la

propria partecipazione ai fatti)” .