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1 Lucio Saviani, Ciro Sbailò, Rino Cipriano LA QUESTIONE ISRAELO – PALESTINESE Seminario-laboratorio di Storia Contemporanea L.S.S. “Augusto Righi” - A.S. 2000-2001 Versione digitale a cura di Silvia Crupano Pubblicazione a cura di Pantarei Rivista elettronica registrata ISSN 1824-5781 www.pantarei.co.uk Tutti i diritti riservati © 2005

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L u c i o S a v i a n i , C i r o S b a i l ò , R i n o C i p r i a n o

L A Q U E S T I O N E

I S R A E L O – P A L E S T I N E S E

S e m i n a r i o - l a b o r a t o r i o d i S t o r i a C o n t e m p o r a n e a

L . S . S . “ A u g u s t o R i g h i ” - A . S . 2 0 0 0 - 2 0 0 1

Versione digitale a cura di Silvia Crupano

P u b b l i c a z i o n e a c u r a d i P a n t a r e i

R i v i s t a e l e t t r o n i c a r e g i s t r a t a I S S N 1 8 2 4 - 5 7 8 1

w w w . p a n t a r e i . c o . u k

T u t t i i d i r i t t i r i s e r v a t i © 2 0 0 5

Introduzione pag. 2 Colophon pag. 4 Scheda ospiti pag. 5 Bibliografia pag. 6 Links pag. 8 Cartine pag. 9 Cronologia pag. 25 Glossario pag. 38 Incontri pag. 42 Rassegna stampa pag. 127 Documenti pag. 128 Mostra fotografica pag. 149 Foto incontri pag. 160 Scheda Prof. L. Saviani pag. 161

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di

Lucio Saviani

Questo testo è il risultato del lavoro che tra la fine del 2000 e i primi mesi del

2001 ha svolto, all'interno del Liceo Scientifico "Righi" di Roma, il Seminario-laboratorio di storia contemporanea, da me coordinato, e che ha potuto costituirsi, prendere vita e organizzare le proprie sessioni di lavoro grazie all'impegno, alla determinazione e alla attiva partecipazione di un gruppo di studenti del Liceo.

Il lavoro che qui introduco si riferisce al lavoro del secondo anno di attività del seminario-laboratorio.

Il Seminario-laboratorio di storia contemporanea nasce infatti da una proposta degli studenti presentata come "Progetto Giovani" nell'a.s. 1999-2000. In quell'occasione mi fu chiesta dagli studenti, con relative raccolta di firme e presentazione al consiglio d'istituto, una serie di lezioni e di discussioni intorno alla storia italiana dal dopoguerra ad oggi. Prese così vita il corso "Le vicende di un'anomalia. L'Italia dal '43 alla caduta del Muro", che fece registrare risultati molto positivi e incoraggianti, in termini di impegno, interesse e partecipazione degli studenti. Il corso risultò anche primo all'interno di una graduatoria inerente i diversi corsi extracurricolari previsti dal POF, presentata e discussa in una riunione del Collegio dei Docenti di fine anno scolastico. Di questo risultato, ma soprattutto dei lavori prodotti e dall'esperienza vissuta nei mesi di attività, gli studenti e il coordinatore conservano il ricordo come ragione di soddisfazione e invito a continuare nell'esperienza avviata.

Anche il lavoro del secondo anno di attività del Seminario-laboratorio di storia contemporanea nasce dalla proposta degli studenti, di nuovo con relative raccolta di firme e presentazione al consiglio d'istituto. Il testo che qui introduco vuole essere dunque testimonianza anche del primo anno di attività del seminario; insieme alle firme e alla richiesta, ha fatto ritorno lo stesso spirito: l'impegno, il piacere, molti degli studenti della prima edizione, sono stati gli stessi. Alcuni studenti non più liceali sono talvolta tornati per gli incontri, così come a partecipare sono stati molti nuovi studenti di diverse classi e sezioni.

Il carattere seminariale e di laboratorio del corso risulta chiaramente espresso dal lavoro che qui sto introducendo: la partecipazione e l'impegno attivo degli studenti emerge come la chiave principale degli incontri. Tuttavia, a me come agli studenti, è parso opportuno non insistere su un accento - che a noi è parso vagamente retorico, a cui sembrano ricorrere alcuni aspetti della riforma scolastica - posto sulla parola "laboratorio" per quanto riguarda lo studio della storia. Parlare di laboratorio sembra ancora un po' forzato, per lo studio di un periodo o di questioni di storia contemporanea su cui gli studenti ancora scontano un deficit di informazioni, dovuto proprio all'organizzazione degli studi e dei programmi di

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scuola secondaria che soltanto da pochissimo tempo prevedono maggiore spazio per il '900. Anche per questo, per il nostro lavoro, appare la parola "seminario".

Ma al di là delle parole, è opportuno parlare delle cose: l'anno scolastico durante il quale ha lavorato, per la seconda edizione, il Seminario-laboratorio di storia contemporanea è stato anche l'anno della polemica sulla 'obiettività' dei manuali di storia nelle scuole superiori. Credo che nel testo che qui introduco ci sia anche spazio per una riflessione con la quale concludere questa premessa: gli studenti sono molto più responsabili, critici, attenti di quanto spesso, soprattutto lontano dalle aule, si pensa. Per verificarlo, basta essere altrettanto attenti e pronti ad incontrare gli studenti in quelle zone di lacuna che essi denunciano e per le quali esigono un riconoscimento esistenziale, prima ancora che didattico ed educativo.

Gli studenti del Seminario-laboratorio di storia contemporanea hanno compreso e fatto proprio un punto essenziale del corso: evitare di 'prendere parte', schierarsi, se questo impedisce o peggio ancora precede lo studio delle cose in cui si decide di sentirsi coinvolti. Ciò vale soprattutto di fronte ad argomenti, come "La questione palestinese" così densi e ricchi di sfumature, lati oscuri, paradossi, che possono rivelarsi indispensabili per una comprensione dei grandi temi e problemi che non si sono chiusi con il finire del Novecento.

Infine, ringrazio i docenti ospiti, i professori Ciro Sbailò e Rino Cipriano, per le loro rare qualità di disponibilità e di passione per la ricerca e la didattica; soprattutto per aver condiviso il lavoro e lo spirito del Seminario.

La paternità di questo testo appartiene soprattutto agli studenti, ai miei studenti di tante diverse classi, che hanno dedicato il loro tempo giovane e la loro passione a dare un senso particolare al "Progetto Giovani" e allo studio in generale, uno spirito che - sono convinto - può dare, di questi tempi, il senso migliore all'attività di docente e al lavoro nella scuola.

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Cronologie: Stefano Toppi Cartine: Tommaso Cerulli Irelli, Jessica Ferretti Glossario: Filippo Castiglia Elenco siti internet: Silvia Crupano Fotografie: Silvia Crupano, Stefano Toppi Trascrizione incontri: Silvia Crupano Rassegna Stampa: Massimiliano Borelli, Tommaso Sanna, Paolo

Manfré, Francesca Neri, Sarah Maltoni Documenti: Filippo Castiglia (diritto al ritorno),

Giacomo Capaldi (hezbollah, profughi, jihad), Silvia Crupano (scheda storica), Stefano Toppi (fotografie profughi), Enrica Frassineti (dossier associazione culturale)

Grafica e impaginazione: Silvia Crupano Copertina: Ramacandra Wong

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Ciro Sbailò

E' docente di Sociologia giuridica al Link Campus della University of Malta. Svolge inoltre attività didattica e di ricerca presso la LUISS-Guido Carli per "Diritti dell'Uomo" Dopo i primi studi sullo storicismo ("Etica, religione e storia in Ernst Troeltsch", Napoli, 1985), ha collaborato con Luigi Pareyson e Massimo Cacciari ("La rappresentazione della crisi", Roma-Napoli 1988, "Se muore il Dio della filosofia", Roma 1989,"‘Dalla morte di Dio. Secolarizzazione, rappresentazione”, Venezia, 1990). Alla fine degli anni

Ottanta ha intrapreso un’intensa attività pubblicistica e politica, collaborando, tra l’altro, a "Quaderni Radicali", "Il Sabato", "AlfaBeta", "Avanti!", "MondOperaio", "L'Opinione". Dal 1987 è professore di ruolo di filosofia e storia. Tra le sue ultime pubblicazioni vanno ricordati: “Davanti alla Legge. Giustizia e giudici nel tramonto della prima Repubblica” (Torino, Sintagma, 1996), la cura e prefazione del libro di Giuseppe Gargani “Giustizia e diritto”, (Torino, Sintagma 1997). Del 1998 è “Il sorriso di Zenone: il caso italiano e il destino della politica”, (Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane) con la prefazione di Giorgio Rebuffa. Ultimo lavoro pubblicato: “Politica e verità” (Torino, Edizioni Sintagma, 2000). Rino Cipriano Arabista. Direttore, dal 1987, dell'Istituto per la Diffusione della Cultura Araba e Mediterranea (sede di Caserta, affiliata alla Sede di Palermo), ne promuove le attività organizzando convegni, mostre e pubblicando la rivista Presenze Arabe. Consulente editoriale di riviste specializzate, ha pubblicato saggi ed articoli sul fenomeno dell'immigrazione e sull'Islàm. Ha compiuto, nei primi anni '80, studi, ricerche e specializzazioni presso l'Istituto Habib Bourghiba di Tunisi e l'Università 'Ain Shams del Cairo. Negli stessi anni, ha compiuto viaggi di studio e di lavoro nell'area magrebina e vicino-orientale (Egitto, Tunisia, Marocco, Algeria, Israele, Palestina) come membro di delegazioni per conto del Ministero degli Affari Esteri e della Regione Campania. Nel 1990 ha ricevuto l'incarico di consulente dalla Regione Campania per i programmi pilota di alfabetizzazione e rilascio di Diploma di Scuola dell'obbligo ad immigrati extracomunitari, partecipando in seguito, in qualità di relatore, a numerosi convegni sull'argomento. Dal 1989 è membro della Scuola di Studi Islamici presso l'Istituto Universitario Orientale di Napoli.

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TESTI CONSIGLIATI

MONOGRAFIE

Storia Universale Feltrinelli, Vol. XXXVI, tomo 3: "Il XX Secolo. Tensioni e conflitti nel mondo contemporaneo". Milano, 1986 (edizione in aggiornamento). AA.VV., La questione palestinese. I quaderni de L'Espresso, n. 1, Roma, 1986. AA.VV., Collana "Dossier Palestina", Guerra e guerra civile in Libano, 1983. Israele senza confini. Politica estera e territori occupati, 1984. Fatima, Leila e le altre. Incontro con donne palestinesi, 1985.Edizioni Ripostes, Salerno, 1985 M. Bendiscioli, A. Gallia, Documenti di storia contemporanea, Mursia, Milano, 1970 W. Benz, H. Graml, Tensioni e conflitti nel mondo contemporaneo, Feltrinelli, Milano, 1982 B. Etienne, L'Islamismo radicale, Rizzoli, Milano,1988 W. Eytan, I primi dieci anni di Israele, Comunità, Milano, 1960 T.L. Friedman, Da Beirut a Gerusalemme, Mondadori, Milano, 1990 N. Garria, Lo stato d'Israele, Editori Riuniti, Roma, 1983 Gruppo Interparlamentare di lavoro per la Pace Europa, Palestina, Israele, per una comunità di pace. Un dialogo tra i protagonisti, anno XII, n. 3-4, ed. Dedalo, 1989. G. Kanafani, Ritorno a Haifa G. Kanafani, La madre di Saad (entrambi disponibili in varie edizioni). G. Kanafani, E. Habibi, T. Fayyad, (a cura di I. Camera D'Afflitto), Palestina. Tre racconti

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"Uomini sotto il sole" (da cui è stato tratto anche un film); "Sestina dei sei giorni"; "Selim lo scemo". R Rémond, Introduzione alla storia contemporanea, Rizzoli, Milano, 1976 M. Rodinson, Israele e il rifiuto arabo. Settantacinque anni di storia, Einaudi, Torino, 1969 F. Steinhaus, La terra contesa. Storia dei nazionalismi arabo ed ebreo, Editori Riuniti, Roma, 1983 A. Triulzi, (a cura di) Storia dell'Africa e del Vicino Oriente, vol. IV de Il mondo contemporaneo La Nuova Italia, Firenze, 1979 G. Valabrega, Il Medio Oriente dal primo dopoguerra ad oggi, Sansoni, Firenze, 1973

MANUALI DI STORIA E STORIOGRAFIA C. Cartiglia, Storia, vol III . Il Novecento, tomo 1 (La politica) Loescher, Torino, 1997 De Luna, Meriggi, Tarpino, Codice Storia 3, Paravia, Torino, 2000 Giardina, Sabbatucci, Vidotto, Manuale di Storia, Laterza, Roma, 1992 A. Lepre, La Storia 3, Zanichelli, Bologna, 1999 A. Lepre, C. Petraccone, Presente e Passato, Principato, Milano, 1991 Molto materiale di studi e ricerche è possibile reperire presso la biblioteca dei Padri Bianchi, del PISAI, Pontificio Istituto di Studi Arabi e Islamici, di Roma (nei pressi di Piazza Mastai)

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www.medmedia.org/review/numero3/it/art7.htm

www.manitese.it/mensile/900/palestina.htm

www.ecn.org/reds/linkspalestina.html

www.jajz-ed.org.il/100/italy/concepts/mandato.html

www.storia900bivc.it/pagine/sitografie/sitografiamedioriente.html

www.arabcomint.com/gerusale.htm

www.italya.net/israele/israele.htm

www.tmcrew.org/int/palestina/index.htm

www.illaboratorio.net/rin_01.html

www.infomedi.it/precedenti/ottobre2000/reazioni.htm

www.tightrope.it/user/chefare/archivcf/cf26/medior.html

www.morasha.it/sefer/01_02/mejcher.htm

www.nostraterra.it/qumram/contributi/haertter.htm

www.itis.mantova.it/tesine/segala/israel2.htm

www.quipo.it/delirii/QPIndex.htm

http://digilander.iol.it/jml/lindale/ebraismo/ebraism.html

http://digilander.iol.it/jml/lindale/ebraismo/storiaisr.html

http://alberti.crs4.it/~ciano/PEACE/PALESTINA/index.html

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Cartine

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Carta 1 Dopo la prima guerra mondiale la Gran Bretagna ottiene dalla Società delle Nazioni il mandato sulla Palestina, regione vicina al Canale di Suez e alle vie di collegamento con l’India. Il 2 novembre 1917, con la dichiarazione Balfour <<il governo di Sua Maestà vede con favore l’instaurazione in Palestina di una costruzione nazionale (national home) del popolo ebraico>>. Il movimento sionista progetta uno stato ebraico: la scelta dei territori risponde a una logica religiosa, comprendendo tutti i territori dell’Eretz Israel, ma anche a esigenze geopolitiche, aggiungendo zone di rilevanza strategica ed economica. Nel 1922 la Gran Bretagna crea l’Emirato di Transgiordania, affidando al principe hashemita Abdallah il territorio ad est del fiume Giordano.

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Carta 2 Aumenta l’importanza della regione grazie al petrolio e aumenta l’ostilità tra la popolazione ebraica e quella araba. Tra i vari piani di spartizione di questi anni, il più importante è quello della Commissione Peel che divide la Palestina in uno Stato arabo e in uno Stato ebraico diviso in due dall’enclave di Gerusalemme che rimarrebbe sotto l’autorità britannica. Il piano è rifiutato sia dagli ebrei che dagli arabi

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Dopo la II guerra mondiale e l’Olocausto, gli argomenti a favore di uno stato sovrano ebraico si sono molto rafforzati a scapito del peso geopolitico degli arabi, considerando che il gran muftì si era schierato con Hitler.Le frizioni sul territorio tra arabi, ebrei e truppe britanniche aumentano. La Gran Bretagna decide di sottoporre il caso alle Nazioni Unite e annuncia un ritiro unilaterale per il maggio 1948. L’Onu propone un piano di spartizione con i due Stati divisi in più zone e Gerusalemme sotto il controllo internazionale. Il piano è rifiutato dagli arabi, ma accettato da Ben-Gurion.

Carta 3

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Carta 4

Il 14 maggio 1948 David Ben-Gurion proclama ufficialmente l’indipendenza di Israele, alla vigilia del ritiro delle truppe britanniche. Il 15 maggio Libano, Siria, Iraq, Transgiordania ed Egitto invadono il neonato Stato israeliano assediando le truppe ebraiche nella zona costiera di Tel Aviv. Sfruttando il cessate il fuoco e le divisioni nel fronte arabo, gli israeliani lanciano in agosto un’offensiva che sbaraglia le truppe arabe. Nel gennaio 1949 tutti gli Stati arabi limitrofi sono costretti a chiedere l’armistizio. Lo Stato ebraico riunisce ora tutta la fascia costiera (Gaza esclusa, che rimane sotto controllo egiziano), la Galilea a nord, il Negev fino al Mar Rosso e la parte occidentale di Gerusalemme. La Transgiordania, che nel 1950 diventa Giordania, si annette la Cisgiordania e Gerusalemme Est. Lo Stato arabo-palestinese previsto dall’Onu non viene alla luce.

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Carta 5 Nel giugno 1967 Israele lancia un attacco preventivo contro i vicini arabi: è la cosiddetta guerra dei Sei giorni. Gli israeliani conquistano il Sinai e la striscia di Gaza dall’Egitto, le alture del Golan dalla Siria e Gerusalemme Est e la Cisgiordania dalla Giordania. Il territorio controllato da Israele raddoppia.

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Carta 6 Dei Territori occupati Israele annette formalmente solo Gerusalemme Est. Gli altri territori diventano immediatamente oggetto di trattative: la restituzione della terra in cambio della pace (carta 7). Ma senza successo. In un attentato palestinese 11 atleti israeliani vengono uccisi alle Olimpiadi di Monaco del 1972. Nell’ottobre del 1973, dopo un iniziale successo, Egitto e Siria sono ancora una volta sconfitte nella guerra dello Yom Kippur. Nel 1978 Egitto, Israele e Stati Uniti sottoscrivono gli accordi di Camp David. Il Sinai torna all’Egitto, in cambio della pace tra Israele e il suo più pericoloso avversario. Nel marzo del 1978 Israele invade una prima volta il Sud del Libano. Interverrà ancora nel 1982, per poi ritirarsi nella <<fascia di sicurezza>> che evacuerà solo nel 2000 sotto il governo Barak.

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Carta 7 Dopo la guerra dei Sei giorni il generale israeliano Ygal Allon avanza una proposta di spartizione dei Territori occupati, in base a motivazioni prettamente strategiche.I territori della Cisgiordania più intensamente abitati da arabi tornerebbero sotto controllo giordano. Israele si annetterebbe Gerusalemme Est e dintorni, una fascia di 20 chilometri lungo il Giordano, parte della striscia di Gaza, le alture del Golan e la linea costiera da Eilat a Sharm Al-Sheikh. Il Sinai verrebbe restituito all’Egitto. In Cisgiordania tornerebbero sotto controllo giordano due enclavi, la zona a nord di Ramallah e la zona di Hebron, senza collegamento diretto con la Giordania. Gli arabi rifiutano non solo il piano ma anche l’esistenza stessa di Israele (i tre <<no>> di Khartoum del settembre 1967). Il piano fallisce ma resterà un punto di riferimento per militari e politici israeliani e sarà riproposto in varie versioni. Nel 1997 sarà ripreso da Netanyahu con alcune modifiche.

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Carta 8 Gli anni Settanta e Ottanta vedono emergere un nazionalismo palestinese e non più solo arabo-musulmano. Israele non annette altri territori ma comincia il fenomeno dei coloni israeliani. Nel dicembre 1987 comincia la prima Intifada, la ribellione dei palestinesi contro lo Stato israeliano. Nel dicembre 1988 su pressione del presidente americano Ronald Reagan, il leader palestinese Yasser Arafat condanna ogni forma di terrorismo e riconosce Israele. Nel 1989 cade il Muro di Berlino e due anni dopo scompare l’Unione Sovietica, a lungo difensore degli interessi degli Stati arabi. Nel 1991, dopo l’invasione del Kuwait da parte dell’Iraq, una coalizione internazionale guidata dagli Stati Uniti interviene a difesa degli emirati arabi ricchi di petrolio e sconfigge le truppe di Saddam Hussein, liberando il Kuwait. Molti paesi arabi si schierano dalla parte del Kuwait e degli Stati Uniti, il leader palestinese Arafat sceglie invece Saddam. Nell’ottobre del 1991 alla Conferenza di pace di Madrid cominciano i negoziati di Siria e Giordania con Israele. Nel 1992 i laburisti di Yitzhak Rabin vincono le elezioni in Israele e propongono un primo piano territoriale che per la prima volta non è rivolto agli Stati arabi ma al popolo palestinese.

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Carta 9 In contrapposizione al primo piano Rabin il nazionalista Ariel Sharon, all’epoca ex capo di Stato maggiore e ex ministro della Difesa, presenta un proprio piano, in base al quale verrebbero create zone di sovranità palestinese in Cisgiordania. Si tratta delle zone e delle città della Cisgiordania maggiormente popolate da arabi, ma prive di accesso alla Giordania e alle risorse idriche. L’intera Gaza passerebbe ai palestinesi. Nel 2000 Sharon, diventato intanto leader del Likud, presenta un nuovo piano, stavolta in contrapposizione a Barak (carta 10).

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Carta 10 Nel gennaio 1993 cominciano a Oslo negoziati segreti tra gli israeliani e l’Olp di Arafat, che il 13 settembre portano alla firma della Dichiarazione di princìpi di Washington. Israele riconosce l’Olp e concede limitata autonomia in cambio della pace e della fine delle rivendicazioni palestinesi sul territorio israeliano. Si inaugura la politica della pace a piccoli passi, rinviando le decisioni sulle questioni più controverse. Il 4 maggio 1994 israeliani e palestinesi firmano al Cairo un accordo con cui gli israeliani si ritirano dal 60% della striscia di Gaza e dalla città di Gerico: nasce quindi l’Autorità nazionale palestinese. Il primo luglio Arafat fa il suo ingresso trionfale a Gaza come leader della neonata Autorità. Il 28 settembre Arafat e Rabin firmano l’accordo di Taba (conosciuto come Oslo II) a Washington. Nuove aree passano sotto il controllo palestinese. La Cisgiordania viene divisa a macchia di leopardo in tre tipi di zone: A) a totale controllo palestinese (per lo più le città arabe); B) a controllo misto israeliano-palestinese; C) a controllo israeliano. Il 26 ottobre Israele e Giordania firmano il trattato di pace. Il 4 novembre Rabin viene assassinato. Nel maggio 1996 Binyamin Netanyahu vince le elezioni israeliane con un programma elettorale contrario al processo di pace progettato da Rabin e Peres. Nel gennaio 1997 Israele lascia l’80% della città di Hebron al controllo dell’Autorità palestinese, ma a marzo cominciano i lavori per la costruzione del complesso ebraico di Har Homa a Gerusalemme Est. Il 4 gennaio 1999 Netanyahu e Arafat firmano gli accordi di Wye Plantation che prevedono un ulteriore ritiro delle truppe israeliane dalla Cisgiordania. In un primo momento congelato, il ritiro viene poi gradualmente realizzato, in seguito ad accordi successivi, in base ai quali le aree sotto controllo totale palestinese e misto israeliano-palestinese arrivano al 42% della Cisgiordania (13% zona palestinese, 26% zona mista, 3% riserva naturale). Nel corso della campagna elettorale agli inizi del 2001, Sharon ripropone un piano già avanzato nei mesi precedenti: il futuro Stato palestinese comprenderebbe Gaza e il 42% della Cisgiordania già ceduto (unendo le zone B e C) senza ulteriori concessioni.

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Carta 11 A maggio del 1999 in Israele Ehud Barak vince le elezioni. L’8 novembre cominciano le trattative tra Israele e palestinesi per lo status finale. Il 15 dicembre Barak incontra il ministro degli Esteri siriano Farouk Al-Shara a Washington per il primo incontro ad alto livello tra i dirigenti dei due paesi, ma i negoziati non portano alla pace tra i due paesi, malgrado il ritiro israeliano dal Libano. L’inizio del 2000 vede il presidente Clinton fermamente deciso ad arrivare alla pace in Medio Oriente prima della fine del suo mandato. Fallito il tentativo di concludere un trattato di pace tra Siria e Israele, si concentra sul negoziato per lo status finale tra israeliani e palestinesi. Il 25 luglio però il nuovo summit di Camp David finisce senza accordo finale. Per la prima volta un premier israeliano accetta di mettere in discussione il controllo di Israele sulla totalità di Gerusalemme. Pur tra mille acrobazie linguistiche, la bozza di accordo accettata da Barak prevede una parziale amministrazione palestinese su Gerusalemme Est. Ma per i palestinesi non basta, anche per loro Gerusalemme è un tabù e Arafat rifiuta. Il 28 settembre Ariel Sharon, ora leader della destra del Likud, visita il Monte del Tempio, luogo santo musulmano, e i palestinesi si ribellano: comincia la seconda Intifada. A dicembre Barak si dimette e Israele si prepara per le elezioni del 6 febbraio. A gennaio risale l’ultimo tentativo di Clinton di trovare un accordo. La sua ultima proposta prevede il controllo da parte palestinese del 95% della Cisgiordania e dell’intera Gaza, in cambio della rinuncia al diritto di tornare nei luoghi d’origine in Israele da parte dei rifugiati palestinesi. A Gerusalemme i Luoghi Santi ebraici rimarrebbero sotto controllo israeliano, quelli arabi sotto controllo palestinese, la città sarebbe la capitale di entrambi gli Stati.

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Carta 12

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Carta 13

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Carta 14

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Carta 15

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1870-1880

-I gruppi Hoveve' Zion (gli amanti di Sion) in Russia e in Romania promuovono insediamenti agricoli in Terra d'Israele (allora chiamata Palestina)

1870 -Viene fondata a nord di Giaffa la scuola agricola "Mikve' Israel". 1882-1904 -Prima Alia' (immigrazione su vasta scala, tradotta letteralmente

ascesa), principalmente dall’Europa orientale, che comprende molti membri dei Hoveve' Zion.

1882 -Gli ebrei europei, soprattutto dall’Europa orientale iniziano a emigrare in Palestina a causa del crescente antisemitismo. -Viene pubblicato il libro "Autoemancipazione" di Leo Pinsker, nel quale egli lancia un appello per la formazione di un centro nazionale ebraico.

1885 -Nathan Bimbaum conia il termine "Sionismo" in una rivista periodica che propagava le idee del movimento Hoveve' Zion.

1895 -La popolazione della Palestina raggiungeva circa 500.000 persone di cui 47.000 ebrei che possedevano lo 0.5% del territorio.

1896 -Theodor Herzl, nel suo libro “Lo Stato ebraico” propone la creazione di uno stato ebraico o in Argentina o in Palestina asserendo che il problema dell'antisemitismo può essere risolto solo in questo modo.

1897

-29 agosto viene convocato il Primo Congresso Sionistico: adozione del programma di Basilea, nel quale si fa appello alla fondazione di una patria nazionale per gli Ebrei nella Terra d'Israele. Teodoro Herzl, colui che ebbe l'iniziativa del congresso, scrive nel suo giornale: "A Basilea ho fondato lo Stato Ebraico .... fra cinquant'anni tutti se ne renderanno conto". -Viene fondata l'Organizzazione Sionistica; Teodoro Herzl ne viene eletto presidente.

1898 -Secondo Congresso Sionistico: vengono poste le basi per la fondazione del Fondo Ebraico Coloniale, che diventerà in seguito la Banca Anglo Palestinese. -L'imperatore Guglielmo II di Germania visita la Palestina e si incontra con Teodoro Herzl anch'egli in visita nel Paese nello stesso tempo.

1899 -Il Terzo Congresso Sionistico adotta uno statuto completo. 1900 -Quarto Congresso Sionistico: vengono discusse in esso la persecuzione

dell'Ebraismo Rumeno e i problemi dei lavoratori Ebrei in Palestina. 1901 -Quinto Congresso Sionistico: l'Organizzazione Sionistica istituisce il

Fondo Nazionale Ebraico (Keren Kayemet Leisrael) con lo scopo di acquistare terreni in Terra d'Israele perché siano "eterno possesso del popolo ebraico".

1902 -Viene aperto a Gerusalemme l'ambulatorio Sha'are' Zedek (oggi un moderno ospedale) per fornire servizi sanitari gratuiti alla popolazione della città. -Sesto Congresso Sionistico; viene discussa l'offerta del governo britannico di un territorio in Uganda per l'insediamento ebraico; la

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proposta provoca una grande divisione nel movimento e nonostante fosse stata approvata dalla maggioranza dei delegati più tardi verrà abbandonata.

1903 -Viene fondata la Banca Anglo-Palestinese (oggi Bank Leumì) che diviene il principale istituto finanziario dell'Yishuv (Comunità Ebraica della Palestina).

1904-1914 -Iniziano a giungere gli immigrati della Seconda Alià, principalmente dalla Russia e dalla Polonia; i nuovi arrivati fondano un certo numero di nuovi insediamenti agricoli.

1904 -Muore Teodoro Herzl, padre del Sionismo politico. 1905 -Settimo Congresso Sionistico: David Wolfson viene eletto presidente

dell'Organizzazione Sionistica 1907 -Ottavo Congresso Sionistico: viene presa la decisione di procedere con

il Sionismo politico (sforzi internazionali per ottenere un documento ufficiale per gli Ebrei di Palestina) e con il Sionismo pratico (l'insediamento) ; si prende atto del fatto che ambedue sono necessari e che insieme formano un intero.

1908 -Inizia la pubblicazione a Gerusalemme di Hazvi', il primo quotidiano in ebraico. -Viene aperta a Giaffa un ufficio della Organizzazione Sionistica.

1909 -Viene costituita l'organizzazione Hashomer, che si assume la responsabilità della sicurezza degli insediamenti ebraici. -Nono Congresso Sionistico: per la prima volta vi prendono parte i rappresentanti dei lavoratori Ebrei in Palestina. -Nelle vicinanze di Giaffa viene fondata Tel-Aviv, la prima città completamente ebraica dell'era moderna. -A Degania, sulle rive del Lago Kinnere (Mare della Galilea o di Tiberiade), viene fondato dai giovani pionieri Ebrei il primo Kibbutz, combinando l'insediamento agricolo con un regime di vita collettivo.

1911 -Decimo Congresso Sionistico: Otto Warburg è eletto presidente dell'Organizzazione Sionistica.

1913 -Undicesimo Congresso Sionistico: viene presa la decisione di fondare l'Universita' Ebraica di Gerusalemme.

1914 -Con lo scoppio della I guerra mondiale, l’Inghilterra promette l’indipendenza a tutti gli stati arabi che combatteranno l’Impero ottomano.

1916 -La Gran Bretagna, la Francia e la Russia firmano il trattato di Sykes-Picot secondo il quale la Siria e il Libano devono sottostare al controllo francese mentre la Giordania, la Palestina e l’Irak a quello inglese.

1917

-400 anni di dominio ottomano giungono al termine con la conquista britannica; il generale inglese Allemby fa la sua entrata a Gerusalemme. -2 novembre Con la “dichiarazione Balfour” il governo inglese si dichiara disposto ad aiutare i sionisti ad istituire un “focolare

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nazionale”di ebrei in Palestina. Al momento della dichiarazione la popolazione totale della Palestina è di 700.000 persone: 574.000 mussulmani, 74.000 cristiani e 56.000 ebrei.

1918 -Soprattutto grazie agli sforzi di Vladimir (Zeev) Jabotinsky, viene costituita la Legione Ebraica, una unità militare di volontari Ebrei che combattono per la liberazione di Erez Israel(terra d’Isaele) dal dominio turco, nell'ambito dell'esercito britannico. -Primo incontro di Chaim Weizmann (allora Capo della Commissione Sionistica inviato dalla Gran Bretagna in Palestina e successivamente primo Presidente dello Stato di Israele), con l'Emiro Feisal, capo del movimento nazionalista arabo.

1919 -Weizmann e l'Emiro Feisal sottoscrivono un accordo di stretta collaborazione fra i loro movimenti nazionali; l'accordo viene in seguito ripudiato dagli Arabi nazionalisti.

1922 -L’Inghilterra prende il mandato per la Palestina e decide di dare la priorità agli interessi sionisti. Inizia l’immigrazione massiccia di ebrei.

1929 -Scoppia un'insurrezione araba in seguito a una disputa sui diritti di culto al Muro Occidentale di Gerusalemme (il Muro del Pianto dell'ebraismo). -Il capo spirituale della comunità islamica chiama alla guerra santa contro gli ebrei e le autorità britanniche. Gli ebrei di Palestina cominciano a formare reparti armati e da entrambe le parti cominciano gli attentati terroristici.

1933-1945 -Le persecuzioni e poi la Shoah: il genocidio degli ebrei europei e di altri ad opera dei nazisti durante la Seconda guerra mondiale danno forza al movimento sionista. -In Palestina continuano ad arrivare rifugiati in fuga dal nazismo. -La spinta per una nazione ebraica nella regione unifica l'ebraismo mondiale.

1936 -L'immigrazione ebraica in Palestina, cominciata nel diciannovesimo secolo, cresce grandemente negli anni Trenta, alimentata dai fuggitivi dalle persecuzioni naziste. Contemporaneamente è forte anche l'immigrazione araba da Siria e Libano. -L'opposizione araba all'immigrazione ebraica diventa violenta.

1937 -Il governo inglese propone la divisione del territorio con la creazione a nord-ovest di uno stato ebraico, l’unione della parte maggiore del paese alla Transgiordania e una zona comprendente Gerusalemme e Jaffa sotto il dominio britannico. Il piano viene rifiutato da entrambe le parti. -A seguito di una nuova sollevazione della popolazione araba, alcuni loro leader politici vengono deportati.

1939 -Il governo inglese dichiara di voler la convivenza pacifica tra arabi ed ebrei e di non voler creare uno stato ebraico contro la volontà della popolazione araba; limita l’immigrazione ebraica e l’acquisto di terre da parte di ebrei.

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1946 -Si intensifica l’immigrazione di ebrei. 1947 -22 luglio Attentato dell’Irgun Zvevi Leumì, comandata da Menachen

Begin, all’albergo King David, quartier generale dell’amministrazione britannica(che conteneva la documentazione dell’agenzia ebraica, sequestrata dagli inglesi, che metteva in pericolo migliaia di persone; l’albergo fu avvisato preventivamente). -29 novembre L’ONU propone di dividere la Palestina in uno stato ebraico e in uno arabo, mentre a Gerusalemme dovrebbe essere riconosciuto lo status internazionale(risoluzione 181). La risoluzione viene approvata: solo gli stati arabi votano contro. -dicembre L’Hagana (sionisti) sviluppa un offensiva la cui tecnica consiste nell’irruzione improvvisa nei villaggi palestinesi, generalmente di notte, e il ritiro dopo aver ucciso alcune persone e fatto saltare in aria qualche abitazione.

1948 -febbraio/marzo L’Hagana blocca tutte le strade che portano ai territori previsti dal piano di spartizione per lo stato ebraico e cominciano ad occupare i villaggi palestinesi vicini alle colonie ebraiche; sostituiscono le truppe britanniche che stanno andando via. Molti villaggi vengono distrutti. -9 aprile Strage degli abitanti del villaggio di Deir Yassin vicino a Gerusalemme.Vengono uccisi 254 palestinesi -19 aprile Viene conquistata la città di Tiberiade. Gli abitanti sono espulsi. -21 aprile Si intensificano i bombardamenti su Haifa, centro industriale importante. L’attacco finale alla città è tra il 22 e il 23. Le forze sioniste bloccano tutte le strade tranne quelle che vanno verso il porto, mentre radio Pagana incita in arabo la popolazione a mettersi in salvo. -27 aprile Vengono distrutti i villaggi palestinesi intorno a Giaffa. -28 aprile Comincia l’espulsione degli abitanti dalla Galilea orientale. -30 aprile Occupati i quartieri occidentali di Gerusalemme. -11 maggio Occupata Bisan, espulsi gli abitanti. 14 maggio Cade Acri ,ultima città della Galilea occidentale. Occupata Giaffa, espulsi gli abitanti. Attaccata la città vecchia di Gerrusalemme. -14 maggio Il giorno prima della fine del mandato inglese in medioriente Ben Gurion proclama lo stato d’Israele(77.2% del territorio,il 20.7% in più rispetto al piano ONU) con capitale Tel-Aviv .Scoppia la guerra: inizia l’emigrazione palestinese verso la Cisgiordania , la striscia di Gaza e verso i paesi arabi che creano dei campi profughi apposta. Altri ebrei dai paesi arabi e dall’Europa post-bellica sono pronti ad arrivare in Israele. Israele è riconosciuta immediatamente dagli Stati Uniti e l'URSS, seguita dagli altri paesi. -15 Maggio La Guerra d’Indipendenza: gli eserciti d’Egitto, Siria, Giordania, Libano e un contingente dall’ Iraq invade il nuovo Stato.In 15 mesi di combattimenti intensi, tutti gli invasori sono respinti. Israele

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è vittorioso e annette i territori di Galilea a nord e a sud si espande sino a Negev. Gerusalemme è divisa fra Giordania e Israele. -Circa 700.000 Palestinesi emigrano dalla Palestina nei campi profughi nei paesi arabi. -Viene fondata la IDF (forze di difesa di Israele), incorporando tutte le organizzazioni di difesa; nasce così l'esercito di Israele chiamato "Zhaal". -La guerra termina con accordi d’Israele rispettivamente con Egitto, Giordania, Libano e Siria. Israele occuperà la parte occidentale di Gerusalemme, mentre la città vecchia e la parte orientale resteranno alla Giordania. -La popolazione ebraica ammonta a 625.000 persone, il 33% degli abitanti. La popolazione palestinese viene stimata in 1.380.000 persone. Di questi 860.000 vivevano nei territori occupati da Israele dove poi ne rimarranno solo 160.000.

1949 -25 gennaio Prima elezione del parlamento israeliano. David Ben-Gurion è eletto Primo Ministro. Chaim Weizmann viene eletto primo Presidente. Gerusalemme viene divisa in due parti: ad oriente quella giordana e ad occidente quella israeliana. -11 maggio Israele viene accettata come 59° membro dell’ONU. -Operazione Tappeto Magico - comincia l’aliya di 55.000 ebrei dallo Yemen.

1950 -Le Operazioni "Ezrà" e "Nehemiah", portano ebrei iracheni (120.000 ) in Israele.

1951 -Il congresso sionista si riunisce a Gerusalemme per la prima volta. 1952 -Nuove elezioni ad Israele, Yzhak Ben-Zvi è eletto presidente.

-Israele partecipa per la prima volta ai giochi olimpici (Helsinki). 1953 -La situazione di sicurezza ai confini tra Israele e la Giordania

peggiorano, si registrano molti incidenti. -Moshe Dayan è nominato Capo delle forze armate dell'IDF. -Il Primo Ministro David Ben-Gurion va in pensione nel suo kibbutz, Sde- Boker.

1954 -Moshe Sharett diventa Primo Ministro. -L'Egitto ferma uno spedizioniere israeliano, Batta Galim, sul Canale di Suez, in contrasto con l'accordo di armistizio. -Immigrazione degli ebrei dall' Africa del Nord aumenta con il crescendo dell’antisemitismo in quei paesi. -Un attacco di terroristi infiltratisi dalla Giordania a Ma'ale Akrabim nel Negev settentrionale, provoca la morte di 11 passeggeri a bordo di un autobus israeliano.

1955 -Elezioni della Terza Knesset; David Ben-Gurion diventa nuovamente Primo Ministro. -Il Primo Ministro di Birmania visita ufficialmente Israele, è il primo leader straniero a visitare il paese.

1956 -Nasser (Presidente egiziano) nazionalizza il canale di Suez. Vuole

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l’unità del mondo arabo sostenendo quindi anche la causa palestinese. -Israele, con l’appoggio e la spinta di Francia e Inghilterra, attacca l’Egitto e occupa il Sinai e la striscia di Gaza. -Le Nazioni Unite, gli Usa e l'Urss premono e ottengono il ritiro di Israele. -Dopo il conflitto emigrano nel Paese 400.000 ebrei marocchini, algerini, tunisini ed egiziani. -Un soldato dell’esercito israeliano apre il fuoco sugli arabi del villaggio di Kfar Kassem colpevoli di non aver rispettato il coprifuoco. Ne uccide 49.

1957 -Israele si assicura il passaggio gratis per la sue spedizioni attraverso il Canale di Suez. -Aumenta l’immigrazione da paesi europei e Orientali - specialmente dalla Polonia e Ungheria - così come dall’Egitto.

1958 -Nel Kuait viene fondata “Fatah”, il movimento per la liberazione della Palestina di cui un fondatore è Yassir Arafat. -Egitto e Siria formano l’Unione delle Repubbliche Arabe. -La popolazione di Israele raggiunge i due milioni.

1963 -Ad Israele muore il Presidente e si dimette il Primo Ministro. Salgono al potere rispettivamente Zalman Shazar e Levi Eshkol.

1964 -Viene fondata l’OLP,organizzazione per la liberazione della Palestina che svolge la sua attività in Giordania.Comprende gruppi di guerriglia e organizzazioni di tipo sindacale.Elabora il concetto di stato democratico, cioè plurietnico e pluriconfessionale. -Yitzhak Rabin è scelto come Capo delle forze Armate israeliane.

1966 -La Coca Cola annuncia il suo progetto di aprire una fabbrica in Israele nonostante il boicottaggio arabo.

1967 -Arafat diventa Presidente dell’OLP. -Viene formato un governo israeliano di unità nazionale per controllare l’aumento delle forze militari arabe sui confini del paese. -5 giugno Dopo che le truppe Onu lasciano il Sinai, l'Egitto chiude il golfo di Aqaba alle navi di Israele, che risponde lanciando un attacco. Inizia la guerra dei 6 giorni. Israele, col sostegno americano, attacca Egitto, Giordania e Siria occupando la striscia di Gaza e il Sinai all’Egitto, Gerusalemme ovest e la Cisgiordania alla Giordania, e le alture del Golan alla Siria. Vengono distrutte le case dei palestinesi, requisite le loro terre, sequestrate le fonti d’acqua dalla striscia di Gaza, vengono cacciate circa 500.000 persone. Tra la popolazione si registra una forma di resistenza passiva detta sumud (volontà di restare aggrappati alla propria terra a qualunque costo). -Nei territori occupati vengono costruiti insediamenti. -Il Consiglio di sicurezza dell'Onu adotta la risoluzione 242, che chiede il ritiro israeliano dai territori occupati ma non specifica quanto del territorio debba essere restituito.

1968 -L’OLP formula un documento che nega l’esistenza dello stato d’Israele.

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-Un aereo viene dirottato dagli arabi da Roma ad Algeri. -Mapai, Ahdut Ha'avoda e Rafi si uniscono per formare il Partito Laburista di Israele.

1969/1970 -Dalle basi in Giordania i feddayn (partigiani arabi) compiono incursioni in Palestina scontrandosi con l’esercito di occupazione. -Muore il Primo Ministro israeliano, viene eletto Golda Meir in sua sostituzione. -Aerei Phantom acquistati dagli Stati Uniti arrivano in Israele.

1970 -settembre Una parte dell’OLP decide la creazione dello Stato palestinese. Inizia la guerra degli sceicchi locali contro i palestinesi. La guerra culmina nel settembre nero quando, con l’intervento dell’esercito israeliano, 20.000 palestinesi vengono uccisi e gli altri si rifugiano in Libano. Anche L’OLP sposta la propria sede in Libano. -La popolazione di Israele raggiunge i tre milioni.

1971 -Il console israeliano ad Istambul viene ucciso da terroristi. -Un nuovo movimento di protesta israeliano nasce sotto il nome "Pantere nere", è un movimento di ebrei provenienti dall’Africa del nord e di origini orientali.

1972 -settembre Alle Olimpiadi di Monaco un terrorista arabo uccide 11 atleti israeliani.

1972/73 -Raids israeliani in Libano. 1973 -Nasce il partito israeliano di destra Likud dalla fusione di Liberali ed

altri movimenti. -Muore David Ben Gurion e viene ucciso l’addetto israeliano ai rapporti militari a Washington. -Egitto e Siria lanciano un attacco coordinato a sorpresa attraverso il canale di Suez e le alture del Golan, durante la festività ebraica di Yom Kippur. Israele contrattacca e si impadronisce di ulteriori territori prima del cessate il fuoco sostenuto dall'Onu. -Il Consiglio di sicurezza adotta la risoluzione 338, che chiede di mettere immediatamente in pratica la risoluzione 242 sul ritiro israeliano.

1974 -Golda Meir forma il nuovo governo. -La commissione d’inchiesta israeliana per capire le responsabilità dell’impreparazione dell’esercito israeliano riconosce colpevoli i capi delle forze armate e non il governo il cui Primo Ministro, sottoposto a forti pressioni, si dimette. -Yitzhak Rabin diventa Primo Ministro. -Vengono firmati accordi tra Israele e Siria e tra Israele ed Egitto. -Nasce un partito israeliano che crede nella Grande Israele. -L’OLP viene riconosciuto dalla lega araba “unico rappresentante legittimo“ del popolo arabo della Palestina. -L’ONU ammette l’OLP come osservatore.

1975 -L’ONU associa il Sionismo al Razzismo. -L’Egitto riapre il canale di Suez.

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-In Libano la destra vuole disarmare i palestinesi, mentre anche la sinistra,,solidale con loro, si arma.

1976 -Il Primo Ministro Rabin si dimette per lo scandalo che vede coinvolta la moglie. -3 luglio Reparti speciali israeliani liberano 103 passeggeri ostaggio di terroristi tedeschi e arabi con un'azione all'aeroporto di Entebbe, Uganda.

1977 -Nuove elezioni in Israele con le quali dopo 20 anni di governo laburista, sale al potere il Likud e il Primo Ministro diventa Menachem Begin. -Il Presidente egiziano Sadat visita Israele rompendo il rifiuto arabo di riconoscere Israele.

1978 -Un autobus della linea Haifa-Tel Aviv viene attaccato da terroristi, 35 passeggeri vengono uccisi. -Beghin e Sadat ricevono il Nobel per la pace. -Azioni militari israeliane contro le basi terroristiche nel Libano. -L’ONU ordina l’immediato ritiro delle truppe israeliane dal Libano. -Yitzhak Navon diventa il quinto presidente di Israele.

1979 -Il presidente egiziano Anwar Sadat e il primo ministro israeliano Menachem Begin firmano il 26 marzo a Washington gli accordi di Camp David. E' il primo trattato di pace firmato tra Israele e uno degli avversari arabi. Israele accetta di restituire il Sinai all'Egitto entro tre anni. I progetti di autogoverno palestinese sulla Cisgiordania e la striscia di Gaza falliscono quando i leader palestinesi si rifiutano di presenziare ai colloqui israelo-egiziani.

1980 Viene aperta l’ambasciata israeliana al Cairo. 1981 L’aviazione israeliana distrugge il reattore nucleare iracheno a

Baghdad. -Viene riconfermato alle elezioni Begin. -Israele stringe legami ancor più forti con gli USA e annette le alture del Golan al proprio stato. -Assassinio di Sadat.

1982 -Viene ucciso l’ambasciatore israeliano a Gerusalemme. -Israele completa il ritiro dal Sinai nonostante molte proteste della popolazione che si era insediata in quelle zone. -La sede centrale di IDF in Libano, che si trova a Tiro, è distrutta da una bomba provocando 75 morti. -Attentato alla sinagoga di Roma. -giugno L’esercito israeliano e i falangisti cristiani del Libano uccidono più di 3.000 persone, in gran parte donne e bambini a Sabra e a Chatila in Libano il 26 e 27 settembre. -Il Ministro della difesa Sharon è considerato il responsabile dei massacri. -I paesi arabi tacciono e non condannano né gli israeliani né i falangisti cristiani !

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-La popolazione di Israele raggiunge i quattro milioni. 1983 -Un attivista di un associazione di pace viene assassinato da estremisti

di destra ebrei. -Beghin si dimette e il suo posto è preso da Shamir. -Chaim Herzog viene eletto sesto presidente.

1984 -Viene scoperto un movimento clandestino ebreo in Samaria e in Giudea, i suoi componenti vengono processati, condannati a 8 anni e poi gli viene concesso il condono dal Presidente israeliano. -Si forma un governo di unità nazionale con Primi Ministri Shimon Peres nel primo periodo e Shamir nel secondo. L’Operazione Moses porta 7.000 ebrei delle comunità d’Etiopia in Israele.

1985 -Viene ucciso il responsabile amministrativo dell’ambasciata israeliana al Cairo. -Un soldato egiziano apre il fuoco su un gruppo di turisti ebrei uccidendone 7. -due attentati all’aereopotro romano Fiumicino e sequeatro dell’Achille Lauro. -ottobre Gli israeliani bombardano il quartier generale dell’OLP a Tunisi.70 morti.

1987 -In Giudea, Samaria e nella striscia di Gaza (zone amministrate da Israele ma abitate prevalentemente da palestinesi) scoppia l’intifada (scrollare il giogo), ribellione civile palestinese che durerà per sette anni nonostante le repressioni cruente. -22 dicembre L’ONU deplora gli atti israeliani che violano i diritti del popolo palestinese.

1988 -Viene aperto un consolato israeliano a Mosca. -L’OLP riconosce, seppur indirettamente Israele, Arafat dichiara di rinunciare al terrorismo: il risultato è che gli USA stabiliscono un dialogo con l’OLP.

1990 -A Madrid iniziano trattative di pace per il Medio Oriente sostenute da URSS e USA alle quali partecipano Israele, Siria, Egitto, Libano,Giordania e una delegazione dei Palestinesi che formalmente non può essere identificata con l’OLP . -Centinaia di ettari di foreste vengono distrutti da incendi dolosi; colpevoli gli attivisti dell'intifada. -31 gennaio Guerra civile in Libano aggravata da uno scontro interno alle armate cristiane. -22 maggio L’Irak invade il Kuait contro il quale rivendica il possesso di un’area ricca di petrolio accusandolo di fare una politica di ribasso del prezzo del petrolio. L’ONU,pochi giorni dopo stabilisce (astenuti Yemen e Cuba) un embargo commerciale,finanziario e militare.Aerei americani con l’appoggio del governo saudita sono inviati in Arabia Saudita. Saddam Husayn dichiara ugualmente l’annessione del Kuait e invita Arabi e mussulmani a liberare La Mecca. I Palestinesi ne

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appoggiano la causa. -10 agosto La Lega araba in un summit al Cairo a stretta maggioranza (paesi del Golfo, Egitto, Siria e Marocco) decide di condannare l’Irak e di inviare un contingente militare in Arabia. Saddam vincola il proprio ritiro al ritiro israeliano dai territori occupati e al ritiro siriano dal Libano. -ottobre Gravi stragi di palestinesi tra cui la spianata delle moschee ad opera di Sharon. -29 novembre L’ONU (con voto contrario di Cuba e Yemen e astensione della Cina) autorizza l’uso della forza per ristabilire la sovranità del Kuait a partire dal 15 gennaio.

1991 -Israele è bombardata dall’Iraq con missili Scud .Operazione Solomon - la maggior parte degli ebrei rimasti in Etiopia, 15.000, vengono portati in Israele con un ponte aereo. -La popolazione di Israele raggiunge i cinque milioni. -6 marzo Gorge Bush prende contatti con il governo conservatore di Yitzak Shamir e con re Hussein di Girdania per trovare una soluzione al problema palestinese. Il primo mostra caute aperture a un dialogo con la Siria e con gli Arabi.Il secondo propone contatti diretti fra la Giordania e Israele. -31 ottobre Iniziano i negoziati a Madrid fra Israeliani e, separatamente, Siriani, Libanesi, Giordani/Palestinesi che durano fino all’estate 1992. -16 dicembre L’ONU annulla la decisione che associa il Sionismo al Razzismo. -dicembre Espulsi da Israele 415 Palestinesi accusati di appartenere al gruppo terroristico Hamas.

1992 -23 giugno Il partito laburista vince le elezioni in Israele e Rabin (che ha guidato l’esercito israeliano durante la guerra dei 6 giorni), diventato Primo Ministro dichiara come obbiettivo primario la creazione di un regime autonomo nei territori occupati. -Cessa l’insediamento dei coloni nella striscia di Gaza e in Cisgiordania. Seguono rappresaglie israeliane nel sud del Libano.

1993 -Operazione Din-Veheshbon: dopo continui attacchi di Katyusha sulle località di confine a nord di Israele, l' IDF attacca basi di Hizbullah nel Libano meridionale. -24 marzo Ezer Weizmar è eletto presidente di Israele succedendo a Chaim Herzog. -14 aprile Israele accetta la risoluzione dell’ONU che impone il suo ritiro da Cisgiordania e Gaza. -13 settembre Accordo(accordo di Oslo) tra Israele(Rabin) e l’OLP(Arafat) per la creazione di una zona autonoma nella striscia di Gaza e a Gerico con il ritiro delle forze israeliane entro la primavera. L’accordo trova ostacoli tra i coloni, nella destra israeliana e all’interno

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dell’OLP. Si placa l’intifada. -L’OLP annuncia il riconoscimento di Israele. -dicembre Riconciliazione tra la Chiesa cattolica e il popolo ebraico.

1994 -gennaio/febbraio Proseguono al Cairo i contatti per il perfezionamento dell’accordo tra Israele(Shimon Peres) e l’Olp. -Aumenta la tensione con il moltiplicarsi di atti terroristici da parte di estremisti israeliani e di componenti di Hamas (25 febbraio, un ebreo estremista, Baruch Goldshtain, uccide 29 musulmani in preghiera a Hebron nella Grotta di Machpellà -tomba di Abramo-; un kamikaze palestinese si fa esplodere su un autobus a Tel-Aviv uccidendo 24 persone). -4 maggio Al Cairo vengono firmati gli accordi sulle modalità di applicazione dell’autonomia palestinese. -26 ottobre Firma del trattato di pace tra Israele e Giordania. Rabin, Peres e Arafat ricevono il premio Nobel per la pace a Stoccolma.

1995 -25 maggio Accordo tra Israele e Siria per la smilitarizzazione delle alture del Golan. -28 settembre A Washinton Arafat e Rabin firmanio l’accordo per la progressiva estensione dell’autonomia a 7 città della Cisgiordania. -4 novembre A Tel Aviv, durante una manifestazione per la pace, viene assassinato da un estremista ebreo Yitzhak Rabin. Il giorno dopo Shimon Peres viene nominato Primo Ministro.

1996 -20 gennaio Prime elezioni nelle Regioni autonome palestinesi. Arafat viene eletto con l’88,1% dei voti presidente. -Secondo l’accordo, uno dei primi atti del nuovo Consiglio dell’Autonomia dovrà essere la cancellazione dalla Costituzione degli articoli che prevedono la distruzione dello stato d’Israele. -Una serie di attacchi terroristici di kamikaze del movimento Hamas a Gerusalemme, Ashkelon e Tel Aviv provocano la morte di 60 israeliani. -Un'operazione militare viene svolta in Libano per controattaccare i missili Katiusha lanciati su Kiriat Shmonà e Galilea dai guerriglieri palestinesi in Libano. -29 maggio Con l’avanzata dei partiti religiosi alle elezioni in Israele vince di stretta misura il leader del Likud, Netaniahu, che afferma di voler continuare il processo di pace modificando tempi e priorità. L’ONU definisce illegale l’imposizione della giurisdizione israeliana su Gerusalemme est. -Il governo israeliano provoca la reazione rabbiosa degli arabi mettendo fine al blocco durato quattro anni della costruzione di insediamenti nei territori ocucpati.

1997 -15 gennaio Nuovo accordo tra Israele e l’Autorirà palestinese per il ritiro dell’esercito israeliano de Hebron e dalla Cisgiordania fra il marzo 1997 e l’agosto1998. -marzo L’accordo entra in crisi per la decisione del governo israeliano di costruire un quartiere ebraico a Gerusalemme est e per lo sventato

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tentativo da parte di due agenti segreti israeliani di uccidere un estremista arabo.Le difficoltà si acuiscono dopo alcuni attentati suicidi a Gerusalemme. Anche la liberazione del capo spirituale dell’organizzazione integralista Hamas da parte di Israele non ha effetti significativi.

1998 -Incontri separati alla Casa Bianca tra gli Usa e da una parte Yasser Arafat e dall'altra Benjamin Netanyahu non producono grandi progressi. Arafat chiede che Israele rispetti l'accordo di cessione della Cisgiordania ai palestinesi; Netanyahu chiede più garanzie sulla sicurezza di Israele. Dopo un incontro con l'inviato Usa, Israele resta ferma: nessun altro soldato sarà ritirato dalla Cisgiordania finché i palestinesi non daranno garanzie sulla sicurezza degli israeliani. L'impasse del processo di pace, durata un anno, continua. -14 maggio Celebrazione del 50°anniversario della nascita di Israele. -luglio Gli integralisti chiudono la scuola alle ragazze e eliminano i centri professionali femminili. -24 ottobre Accordo, firmato negli USA sotto la pressione di Clinton e del re Hussain, che prevede il ritiro israeliano dal 13% del territorio della Cisgiordania e la liberazione di 700 prigionieri palestinesi. -14 dicembre Il Consiglio dell’OLP vota la cancellazione dal proprio statuto della clausola che prevede la distruzione dello stato di Israele, in occasione della visita del presidente degli USA Bill Clinton. -21 dicembre Crisi del governo d’Israele, si va alle elezioni anticipate.

1999 -7 febbraio Muore re Hussain di Giordania e gli succede il figlio Abdullah. -17 maggio Elezioni in Israele, vince di larga misura il candidato laburista Ehdu Barak. I primi punti del suo programma sono : trattare il ritiro di Israele dal Libano meridionale e dare attuazione agli accordi di Way Plantation.Al suo trionfo non corrisponde l’affermazione del suo partito,così è costretto a formare una coalizione di governo ampia che esclude il Likud e comprende il partito di ortodosso Shas. -4 settembre Con la mediazione del presidente egiziano Mubarak ,viene firmato l’accordo di Sharem ha Sheik fra Israele e Autorità palestinesi per il ritiro israeliano da una parte dei territori occupati inCisgiordania, già deciso a Way Plantation. -Viene decisa la costruzione di una moschea di fronte alla Basilica dell’Annunciazione a Nazareth, con reazioni polemiche da parte del Vaticano. -L’ Alta Corte israeliana vieta l’uso della tortura da parte dei servizi segreti negli interrogatori dei prigionieri sospettati di attività terroristiche. -5 dicembre Iniziano i negoziati di pace tra Israele e Siria, ma si bloccano sulla questione del ritiro israeliano dal Golan. Le trattative vengono interrotte.

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2000 -21 marzo Papa Giovanni Paolo II atterra a Tel-Aviv.Visita i vari capi di governo fra cui incontra Arafat a Betlemme.Chiede perdono per gli atti di antisemitismo compiuti dalla Chiesa nei secoli. -24 maggio L’esercito di Israele abbandona il Libano. -11/25 luglio A Camp David si svolge un summit tra Clinton,Barak e Arafat che si conclude senza il raggiungimento di un accordo finale.Durante le feste di Rosh Hashannà e Kippur nei territori dell'Autonomia Palestinese scoppia una nuova ondata di violenza che provoca centinaia di morti fra i palestinesi e qualche decina tra gli israeliani. -Clinton invita con l’aiuto di re Abdallah e di Mubarak Arafat e Barak a rincontrarsi a Sharem ha Sheik, ma il tutto si conclude con un semplice cessate il fuoco che non viene rispettato. -9 dicembre Barak dà le dimissioni da Primo Ministro. Si ripropone come candidato del partito laburista per le elezioni del 6 febbraio 2001.

2001 -6 febbraio Sharon, leader del Likud succede a Barak con ampia maggioranza di voti. L’affluenza alle urne è stata particolarmente bassa.

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Antisemitismo: avversione nei confronti delle popolazioni semite. Antisionismo: avversione nei confronti del movimento sionista e per estensione nei confronti degli ebrei. Arabo: dell’Arabia o degli arabi, intesi come tutti i popoli di lingua araba, viventi in qualsiasi regione dell’Asia o dell’Africa, anche non musulmani, appartenenti al gruppo meridionale semitico. Etimo: dall’arabo Arab, forse nomade. Ashkenazita: nome dato agli ebrei originari dell’Europa centrale ed orientale. Etimo: dall’ebraico Ashkenaz, Germania. Camitico: appartenente alla grande famiglia etnica dei camiti, che comprende popolazioni non negridi dell’Africa nord - orientale. Etimo: dal nome di Cam, figlio di Noè, capostipite, secondo la Bibbia, delle stirpi africane. Colomba: fautore di una linea morbida, aperta a trattative nella risoluzione di questioni e controversie internazionali. Ebreo: appartenente agli ebrei, popolo di antica civiltà, costituitosi in unità nazionale e religiosa nella seconda metà del secondo millennio a. C., con lo stanziamento in Palestina, donde poi si diffuse in tutto il mondo e dove oggi si è ricostituito come unità etnica e politica. Etimo: dal greco tardo Hebraios, risalente al nome del presunto capostipite Eber. Embargo: divieto di esportazione di materiale strategico in paesi belligeranti. Etimo: dallo spagnolo Embarcare, impedire. Falco: sostenitore della maniera forte ed intransigente, non escluso il conflitto militare, per la soluzione delle controversie internazionali. Ghetto: nel passato, quartiere cittadino dimora, più o meno rigorosamente coattiva, degli ebrei. Etimo: dal veneziano Ghéto, fonderia su un’isoletta dove nel sec. XVI furono confinati gli ebrei. Integralismo: indirizzo ideologico che, partendo dal presupposto della assoluta validità dei propri principi, mira a stabilire la propria egemonia in campo religioso, politico e culturale, rifiutando qualsiasi alleanza o collaborazione con partiti o movimenti di ispirazione ideologica diversa.

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Intifada: la rivolta, iniziatasi nel 1988, degli arabi palestinesi all’interno dello Stato d’Israele e nei territori da esso occupati. Etimo: dall’arabo Intifad’ah, propriamente “sollevazione”. Israele: famiglia di Dio, popolo eletto. Etimo: dall’arabo Usrat Ilah. Israeliano: cittadino dell’odierno Stato d’Israele. Kibbutz: colonia agricola israeliana a struttura collettivistica. Tale struttura prevede l’assoluta uguaglianza di tutti i membri, la rotazione delle mansioni e l’esclusione dell’uso del denaro all’interno. Etimo: dall’ebraico Qibbus, riunione, assemblea. Nazionalizzazione: assunzione provvisoria o definitiva della proprietà del controllo o della gestione di servizi e mezzi di produzione da parte dello Stato. O. L. P.: (Organizzazione per la liberazione della Palestina). Organizzazione fondata a Gerusalemme nel 1964 da Ahmed al - Shuqueiri allo scopo di coordinare, sul piano politico e militare, le attività dei gruppi guerriglieri contro la presenza israeliana e al fine di costituire uno stato nazionale palestinese. Palestina: regione dell’Asia occidentale, compresa tra i rilievi del Libano e dell’Antilibano a Nord, il Mediterraneo a Ovest, il Negev a Sud, il deserto siriaco a Est. Comprende le regioni storiche della Galilea, della Giudea, della Samaria. Palestinese: abitante e nativo arabo della Palestina. Pogrom: sommossa sanguinosa contro gli ebrei, considerati, (talvolta col consenso delle autorità), capri espiatori del malcontento popolare. Profugo: costretto ad abbandonare la propria terra, il proprio Paese, la patria, in seguito ad eventi bellici, a persecuzioni o cataclismi. Profugo Palestinese: colui che, risiedendo in Palestina da almeno due anni prima del 1948, ha perso, a causa del conflitto arabo- israeliano, la casa ed i mezzi di sussistenza, divenendo profugo in uno dei paesi in cui l’U.N.R.W.A. offre assistenza, (Giordania, Libano, Siria, West Bank e Gaza). Etimo: dal latino profugere, composto di pro e fugere, fuggire. Rifugiato: individuo che, in seguito alle vicende del proprio paese, ha ottenuto asilo politico in un paese straniero.

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Sefardita: nome dato agli ebrei di Spagna fino al sec. XV ed ai loro discendenti attuali. Etimo: dall’ebraico Sefarad, Spagna. Semita: appartenente ad una popolazione del gruppo etnico - linguistico dei semiti, tradizionalmente associato a Sem, figlio di Noè secondo la Genesi, comprendente in antico gli assiri ed i babilonesi, i fenici e gli israeliti, sopravvivente oggi solo con gli arabi e gli ebrei. Sionismo: movimento politico fondato alla fine del XIX secolo, il cui nome si origina dall’opera dello scrittore N. Birmbaum (1864- 1937), che propugnò la creazione di uno stato confessionale ebraico in Palestina dove l’afflusso di ebrei aveva già portato alla fondazione delle prime comunità ebraiche. Etimo: derivato di Sion, dall’ebraico Siyon, nome di Gerusalemme. U.N.R.W.A. : United Nations Relief and Work Agency, agenzia dell’ONU per il soccorso e l’assistenza ai profughi. Dizionario della lingua italiana Devoto-Oli, Enciclopedia Zanichelli 1996

Incontri

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Prof. Lucio Saviani

19 Gennaio 2001 Saviani: Con gli incontri di quest’anno inauguriamo il nostro secondo laboratorio. Soprattutto, quest’anno prevediamo un lavoro finale in cui mettere insieme tutto il materiale raccolto. Un lavoro fatto insieme a testimonianza del nostro impegno comune. Vanno benissimo tutti i tipi di ricerche: su enciclopedie e su siti Internet; raccoglieremo testi, documenti, articoli, immagini, testimonianze, informazioni sulla questione palestinese e alla fine dovremo fare un lavoro di elaborazione delle fonti e dei documenti, discuterli e ordinarli secondo il percorso e il senso che sarà emerso dal nostro laboratorio. La “questione palestinese” è una questione, voi già lo sapete, intorno alla quale si è spesso tentati, e lo si fa troppo spesso, di prendere parte: gli studenti lo fanno, i docenti lo fanno, i ricercatori lo fanno, i docenti che sono stati studenti lo fanno; per quanto mi riguarda, io stesso quando ero studente tentai di essere di parte, di prendere parte nella questione. Io credo che questo lavoro che dobbiamo fare è invece un lavoro di riflessione, un esame critico di alcune questioni che non sono mai nette, precise, i contorni non sono mai così definiti; soprattutto quando si parla di ambiti culturali, le parole non sono mai definite, il significato non è mai preciso. Quindi non prendiamo posizioni o, se l’abbiamo già fatto, se qualcuno di noi si sente già da qualche parte, facciamo quel classico gesto filosofico: fare epochè, che originariamente significava la fermata della carovana o di un cavallo che sta facendo un percorso. Significa anche mettere fra parentesi, sospendere il giudizio. Ora scriveremo alcune date particolarmente significative, una sorta di cronologia provvisoria per cercare di entrare nella questione palestinese: 1897 – Primo Congresso Sionista 1917 – Occupazione inglese della Palestina 1948 – Nasce lo Stato di Israele e scoppia la prima guerra arabo-israeliana 1956 – Secondo conflitto arabo-israeliano 1967 – Guerra dei sei giorni: Israele sbaraglia i vari eserciti arabi alleati 1973 – Quarto conflitto arabo-israeliano, detta anche guerra dello Yom-Kippur 1982 – Guerra in Libano 1987 – Prima Intifada (1987-1992), oggi si parla di Seconda Intifada Per il 1973 troveremo anche la questione dell’austerity in Italia: si camminava a piedi, la domenica mattina si usciva a piedi, con i pattini. Oggi è un fatto abbastanza comune ma all’epoca fu scioccante, fu una cosa di cui parlarono televisioni, giornali, per molti giorni. La domenica si usciva a piedi, non per questioni ecologiche ma perché si doveva razionare il petrolio, non ce n’era, quindi “austerity”, austerità, cioè sacrificio.

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Nel ’72 a Monaco ci furono le Olimpiadi e un commando di palestinesi, entrato nel villaggio olimpico, fece una strage: uccise 11 atleti israeliani. Si sospesero le Olimpiadi, fu un evento atroce. Nell’ ‘82 ci fu la guerra in Libano, una strana guerra e vedrete perché in Libano ci sono i profughi palestinesi, perché il terrorismo palestinese mise la sua base in Libano e quindi perché Israele attaccò il Libano. Nel 1987 prende corpo la prima Intifada che durerà fino al ’92; oggi si parla di seconda Intifada, con i bambini palestinesi che lanciano le pietre. Vedete allora una questione che attraversa un intero secolo: tutto il Novecento è attraversato dalla questione palestinese. Ci sono quattro picchi, quattro date fondamentali che sono i quattro conflitti diretti tra arabi e israeliani: ’48-’56-’67-’73, ma tra queste date ce ne sono tante altre che segnano stragi, eccidi, Sabra e Chatila per esempio. Queste questioni toccarono spesso anche la sensibilità comune: l’arte, il cinema, il teatro, tutte le musiche del mondo giovanile si occuparono molto della questione arabo-israeliana. “Luglio, Agosto, Settembre Nero” fu uno dei cavalli di battaglia di un gruppo italiano di rock progressivo. Diciamo allora che è un problema che attraversa tutto il Novecento e vedrete che grazie alla comprensione, al tentativo di comprensione di questo conflitto, si potrebbero chiarire anche molte altre questioni meno localizzate, sia geograficamente che culturalmente, molte altre questioni del ‘900: come la prima e la seconda guerra mondiale, la guerra fredda, la decolonizzazione, l’imperialismo. Molti problemi del XX secolo si possono capire proprio attraverso questa questione, ancora irrisolta, dei palestinesi, di Israele e dei paesi arabi. Quindi è un problema che ci aiuta a capire meglio la Storia del Novecento, però per capirlo, o almeno per cercare di avvicinarci alla comprensione, dobbiamo partire da molto prima e dovete avere un po’ di pazienza perché dobbiamo parlare del sionismo. Che significa “sionismo”? Parleremo di sionismo, colonialismo, decolonizzazione, per arrivare al 1948 quando nasce e vedremo come nasce: già con una guerra lo Stato di Israele. Nasce un po’ di nascosto, nasce un giorno prima rispetto alla data fissata dall’ONU, per alcune questioni che vanno analizzate e vanno comprese. Allora, io comincerei con una frase di uno scrittore israeliano, che dice: “Ognuna delle parti in questo conflitto si batte non già contro un suo nemico, il suo avversario ideale, ma contro le ombre nevrotiche del proprio passato”. Già queste parole cominciano a rendere oscura tutta la questione arabo-israeliana. “Gli arabi non vedono noi – parlano gli israeliani – ma i Francesi, gli Inglesi, i Turchi – cioè vedono degli europei, che hanno avuto un ruolo fondamentale nella nascita dello Stato di Israele – tutti coloro che per secoli li hanno oppressi e massacrati. Per noi – gli ebrei – non sono gli Arabi: è Hitler, sono i nazisti, sono i Russi. Penso che il conflitto sia tra due mondi malati, nevrotizzati, ognuno si batte contro il proprio passato”. Questo diceva Amos Oz nel ’74 a proposito del conflitto. Non ci sono solo motivi culturali ma anche motivi seriamente storici che vanno analizzati. Badate bene, quando scoppia un conflitto tra arabi e israeliani, essi finiscono di essere arabi e israeliani e cominciano a essere chiamati i musulmani e gli ebrei. Tutte le volte da una parte e dall’altra assistiamo a tentativi, anche sanguinosi, di far saltare non tanto le scuole, i palazzi, ecc. ecc., ma i tavoli delle trattative di pace. Proprio quando si sta per arrivare ad un accordo di pace succede qualche cosa da

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parte delle ali estreme, integraliste di entrambe la parti: Rabin, sapete, non è stato ucciso da un palestinese o da un arabo ma da un terrorista israeliano che era contrario agli sforzi di pace fatti. Quindi ogni qual volta c’è un tentativo di giungere ad un accordo di pace e quando l’accordo di pace sta per essere firmato, succede qualche cosa per cui saltano le trattative. In questi giorni gli accordi vengono messi in crisi appena si intravede una possibilità di intesa. Quindi, ricapitolando, abbiamo visto dalla cronologia, provvisoria, che questo è un problema che attraversa tutto il Novecento e quindi ci fa capire meglio il nostro secolo, soprattutto i due conflitti mondiali, il secondo dopoguerra, la decolonizzazione, l’imperialismo e perciò oggi noi dobbiamo partire un po’ da lontano, dalla fine dell’Ottocento per arrivare al 1948, con la nascita dello Stato di Israele. Nei successivi incontri approfondiremo li discorso e vedremo chi sono i palestinesi, i profughi palestinesi, quanti sono, quante volte sono stati cacciati e hanno provato a rientrare; ci sono varie riprese in cui questi profughi si ritrovano o profughi in patria oppure proprietari di terre cacciati dal loro territorio, ospitati in Libano ecc.ecc. Vedremo meglio tutte queste cose sia con l’ospite arabista, Rino Cipriano, che con Ciro Sbailò che studia, in particolare, la questione israeliana. Dunque, partiamo dal Sionismo. La parola “Sionismo” viene da Sion, che è una delle alture su cui sorge Gerusalemme. Definizione: moderno movimento ideologico-politico volto a realizzare la definitiva emancipazione del popolo ebraico mediante la costituzione di un “focolare nazionale” indipendente nella patria storica del popolo biblico, cioè la Palestina”. Poi vedremo perché e che cos’è questo “focolare nazionale”. Quindi, quando parliamo di Sionismo intendiamo quel movimento che dalla fine dell’’800 fino ad oggi, attraverso varie organizzazioni internazionali, tende alla definitiva emancipazione del popolo ebraico e alla costituzione di uno Stato nella terra, per definizione, ebraica e cioè la Palestina. Diaspora, conoscete questo termine? Significa “dispersione” però questo testo ci fa notare una cosa piuttosto interessante, da chiedere poi anche al nostro esperto di questioni israeliane: la “diaspora” si chiama “tefuzah” che in ebraico non significa dispersione ma “esilio”. Esilio ha un significato molto diverso da dispersione: allontanamento dal proprio focolare nazionale, dalla terra in cui si è nati; quello è proprio il significato di “nazione”, “la terra in cui si nasce”. Sappiamo che prima della nascita di questo movimento politico, verso la fine dell’’800, ci sono stati molti tentativi nel corso dei secoli, nel ‘400-‘500-‘600-‘700, da parte di gruppi, di comunità ebraiche, di fare ritorno, non di andare in una terra dove fondare un proprio Stato, ma proprio di fare ritorno. Soprattutto nel ‘700, specialmente dopo la Rivoluzione francese, che voi sapete ha ridato dignità civile e politica agli ebrei, per quel discorso di emancipazione che faceva tutt’uno con gli ideali della rivoluzione francese. Subito dopo, la Restaurazione, che significò anche il ritorno dei ghetti, dell’emarginazione degli ebrei in tutta Europa; la Restaurazione fu anche questo. E quindi per questi tentativi da parte di comunità ebraiche che avevano conosciuto un momento di esaltazione e di speranza con la Rivoluzione francese, quando arrivò il periodo della Restaurazione ci fu un momento, naturalmente, di delusione e di mancata forza organizzativa, che segnò una battuta d’arresto di questo tentativo di ritornare alla propria nazione, di riconoscersi nella propria nazionalità, cioè in quanto ebrei, riconoscersi in uno Stato indipendente.

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1882: C’è un famoso scritto che si chiama “Autoemancipazione” di Leo Pinsker, uno dei principali teorici del Sionismo: egli scrive della necessità di emanciparsi, da parte del popolo ebraico, e di fare ritorno. Fate attenzione a questa storia del ritorno: vedrete che, stranamente, lo Stato di Israele ha rischiato di nascere in Uganda; quindi abbandoniamo per il momento questa nostra abitudine di pensare alla Terra Santa, gli ebrei, la Palestina. Lo Stato di Israele deve necessariamente, secondo l’ideologia sionista, nascere in Palestina; non era proprio così perché ci fu una prima Aliyah, cioè un primo flusso migratorio, cioè non più come accadeva nel ‘500, nel ‘600 e ancora nei primi anni dell’800 il tentativo di fondare qualche fattoria in queste terre, perché fino all’inizio dell’800 si trattò di questo: quando alcune comunità ebraiche tentavano di fare ritorno in Palestina cercavano di istituire una sorta di fattorie. La aliyah, flusso organizzato, cioè centinaia e centinaia di persone che tentano di fare ritorno in Palestina. Qui entra in gioco il discorso principale che facevamo prima: il sionismo. Uno scrittore ungherese di origine ebraica, Theodor Hertzl, fondatore del Sionismo moderno, non causò molti problemi politici o militari ma con lui e con la prima data della nostra cronologia, 1897, le cose cominciano a cambiare perché Hertzl scrive “Der Juden Staadt”, cioè “Lo Stato ebraico” che è del 1986; l’anno dopo Hertzl organizza la prima seduta storica del primo congresso sionista a Basilea, in Svizzera. Che significa congresso sionista? Partecipano 197 delegati eletti dalle comunità ebraiche di tutto il mondo, 70 di queste delegazioni vengono dall’Europa orientale, fatto importante, da tenere in considerazione: vedremo che prima la Russia, poi l’Unione Sovietica e poi la Russia post-sovietica hanno un certo peso nella popolazione di Israele. Allora, i delegati sono 197, di cui 70 dell’Europa Orientale. Alcuni esponenti del mondo ebraico pensarono la terra di Israele non come Palestina ma pensarono all’Argentina; quindi in queste prime battute, anche organizzative, del Sionismo moderno, la terra a cui fare ritorno da parte del popolo ebraico non è affatto detto che debba essere la Palestina ma alcuni parlano di Argentina. In questo primo congresso che succede? Furono approvati la bandiera e l’inno nazionale di uno Stato che non c’è! Fu fondata l’Organizzazione Sionista mondiale e fu votato il programma di Basilea, chiaramente impegnato a preparare proprio l’immigrazione degli ebrei in Palestina. Nel corso dei cinque o sei anni che seguirono, all’interno delle comunità rappresentate dall’Organizzazione Sionista mondiale cominciarono a prendere molto potere, molta importanza, le comunità ebraiche russe e lo si vide al terzo congresso, nel 1903, quando il gruppo dei sionisti di Sion, in gran parte provenienti appunto dalla Russia, respinse l’idea di Hertzl di accettare la proposta inglese di un circolo nazionale ebraico in Uganda; in seguito vedremo perchè c’entra l’Inghilterra con la Palestina. Nel frattempo ci sarà quella che chiamiamo la seconda Aliyah, cioè una seconda ondata migratoria verso la Palestina, quindi nei primi del secolo, prima della prima guerra mondiale e dovremo vedere poi nel 1917, e perché proprio nel 1917, quanti sono in effetti gli abitanti di questo territorio chiamato Palestina. Che cos’è la Palestina in quel periodo? A chi appartiene, se appartiene a qualcuno? Quanti sono gli abitanti, in che percentuale sono arabi e in che percentuale sono ebrei?

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Intanto scoppia la prima guerra mondiale, 1914, e il movimento sionista organizza dei corpi volontari ebraici che si battono a fianco degli alleati contro l’impero turco, altra radice antica di quella questione di cui parlava anche lo scrittore israeliano. C’è quindi una scelta di campo anche filo-europea e anti-ottomana, anti-islamica. A Londra il capo del movimento sionista mondiale, che non era più Hertzl, ma Wezmann, cioè proprio il maggiore fautore della soluzione Palestina, riesce a convincere gli inglesi ad appoggiare le richieste del suo memorandum che si chiama “Programma di re-insediamento ebraico in Palestina in accordo con le aspirazioni del movimento sionista”. Quindi gli ideali sono diventati un programma. Egli dunque convince gli inglesi, poi vedremo perché gli inglesi si ostinano a fare proposte, vengono invitati ad appoggiare proposte, ecc. Nel 1917 abbiamo la famosa “Dichiarazione Balfour”, dal nome del ministro inglese, che dice che il governo inglese è favorevole all’insediamento in Palestina di un focolare nazionale per il popolo ebraico e si impegna a fare ogni sforzo possibile per facilitare la realizzazione di questo obiettivo. Gli inglesi hanno un mandato sulla Palestina, dobbiamo capire però che significa avere un mandato per amministrare un altro Paese. Finora l’Inghilterra è quella che più direttamente è impegnata in Palestina; diciamo che la Palestina fino alla fine dell’’800 non era altro che una provincia meridionale della Siria e a partire da questi anni diventa mandato inglese. Perciò l’Inghilterra ora, tramite un documento scritto, si dice favorevole all’insediamento, in terra di Palestina, di un focolare nazionale per gli ebrei che intendono fare ritorno. Alla fine della guerra, inserita la Dichiarazione nel trattato di pace della Turchia e affidata la Palestina al mandato britannico per controllare l’applicazione dei principi della Dichiarazione e intrattenere i rapporti con la madrepatria, venne creata la Jewish Agency, cioè l’agenzia ebraica, che al tempo stesso dovette scontrarsi con i nuovi indirizzi filo-arabi dell’Inghilterra. Allora, fate attenzione. “Sionismo”, nel corso dei secoli, comincia a prendere sempre più la forma di un’organizzazione politica internazionale finché appunto non arriviamo alla fine dell’’800 con il primo congresso sionista mondiale. Siamo quindi all’inizio del Novecento, perciò dicevamo che la questione nasce con il Novecento e non è finita con il Novecento; la questione palestinese comincia a prendere questa piega, cioè il Sionismo diventa un’organizzazione politica internazionale con un congresso che produce dei documenti che non sono più soltanto libri di qualche scrittore ma sono documenti politici, programmi, che poi vengono anche presentati a capi di governo europei come l’Inghilterra, ma programmi di intervento, di organizzazione del re-insediamento. Questa è stata l’evoluzione abbastanza veloce del Sionismo moderno; siamo arrivati appunto al 1917 e alla fine della guerra con l’Inghilterra che ha il mandato sulla Palestina ed è ufficialmente, pubblicamente a favore di un re-insediamento in quelle terre degli ebrei di tutto il mondo e alla costituzione, proprio lì, non in Uganda, non in Argentina, non in altre parti del mondo, di uno Stato di Israele. Negli anni 20-30, anche per sfuggire alle persecuzioni naziste ci sono altri flussi migratori, tentativi di raggiungere la Palestina. In queste immigrazioni verso lo Stato di Israele, ci saranno grandi problemi organizzativi per il Sionismo che già doveva affrontare anche i primi attacchi arabi, già la questione è abbastanza calda; quando

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scoppierà il primo conflitto arabo-israeliano nel 1948, la questione ormai era già da decenni avviata. Studente: Ma il territorio era di proprietà inglese? Saviani: Non di sua proprietà, perciò poi dobbiamo occuparci di decolonizzazione e mandati. Per il momento sappiamo che questo territorio della Palestina è sotto il diretto controllo, controllo però non di invasione militare, non dovuto ad una vittoria in guerra ma a un mandato. Quindi secondo i canoni del diritto internazionale, l’Inghilterra ha il mandato, esercita il proprio controllo sulla Palestina. Diciamo quindi che l’organizzazione sionista mondiale ha già dei problemi a fronteggiare gli attacchi arabi, i tumulti di Jaffa (1921), l’eccidio di Ebron (1929 e 1936), i quali sono tollerati dall’amministrazione inglese e bisogna capire perché l’Inghilterra manterrà un atteggiamento abbastanza ambiguo in questa questione. Comincia già a configurarsi come “questione palestinese”, ci sono i primi attacchi arabi, ci sono microconflitti tra i nuovi residenti e quelli che già erano in quei territori. Studente: Tutti abitavano lì? Saviani: Non tutti; lì per arabi ora dobbiamo intendere: Transgiordania, Libano, Libia, Egitto, Siria, saranno tutti Stati impegnati nelle guerre con gli israeliani. Questo testo ci dice “Uscito l’ebraismo dalla tremenda prova del nazismo, ancora più gravi furono i compiti del movimento sionista alla fine della seconda guerra mondiale. Rinnovata la richiesta di uno Stato ebraico indipendente nel XXII congresso – dell’organizzazione sionista mondiale – del 1946, il sionismo dovette subito affrontare il rifiuto arabo di una spartizione della Palestina in due Stati: uno arabo e uno ebraico, deciso dall’ONU il 28 novembre del 1947” – qui siamo a un anno prima, nell’imminenza del primo grande conflitto tra arabi e israeliani. Nel 1947 c’è una proposta, una presa di posizione, una decisione dell’ONU che, per dirimere la questione che già prima del 1948, cioè prima della nascita dello Stato di Israele è ormai complicata e pericolosa, è già una polveriera – e vedremo anche perché, quali altri interessi sono in gioco in quegli anni in quel territorio– propone uno Stato arabo e uno Stato israeliano, cioè due territori confinanti, ma che possono vivere in pace. Quindi il rifiuto da parte degli arabi di una spartizione della Palestina in due Stati. Vedrete che questo oggettivamente sembra un rifiuto colpevole: c’è una dichiarazione dell’ONU, una proposta, una decisione che propone di affrontare e risolvere il problema dando a ciascuno uno Stato ma gli arabi si rifiutano. E quando sarà riproposta questa spartizione della Palestina tra arabi e israeliani, di nuovo gli arabi rifiuteranno. Entreranno in gioco anche altre questioni: gli integralismi, l’odio tra le due parti, ecc. Si arriva al 1948, il 14 maggio 1948 in cui, dice questo testo, “con la lotta armata nasce lo Stato di Israele”. Prima avevamo detto che nasce un po’ prima del previsto, un po’ prematuro, il giorno prima, e infatti era stato deciso che il 15 maggio l’Inghilterra avrebbe lasciato i territori in Palestina, finalmente, soprattutto da parte l’Inghilterra che non ne poteva più e più volte aveva pregato le Nazioni Unite di poter rimettere questo mandato – e vedremo perché – ed era riuscita a strappare questa data: il 15 maggio. L’Inghilterra, già da parecchi anni, non intende più stare lì a cercare di coprire, in modo alternato, gli uni e gli altri: è una politica abbastanza

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ambigua quella dell’Inghilterra, l’abbiamo detto sin dall’inizio. Infatti con la dichiarazione Balfour appoggia in tutto il discorso sionista poi però comincia ad ostacolare le prime immigrazioni degli ebrei in Israele e comincia anche a chiudere un occhio sulle piccole e isolate reazioni arabe nei confronti degli ebrei. Siamo arrivati allora al 1948: naturalmente l’abbandono da parte dell’Inghilterra avrebbe significato il rimettere il mandato e quindi creare le condizioni per la nascita dello Stato di Israele il quale invece di fatto nasce il giorno prima; dovremo vedere perché, che significa questa anticipazione. Allora, prima avevamo detto che arrivare al ‘48, cioè la nascita dello Stato di Israele ed il primo grande conflitto arabo-israeliano, avrebbe significato per noi riprendere un po’ questioni che riguardano il novecento in generale, le due guerre mondiali, il movimento sionista ecc. Dobbiamo parlare anche di un’altra questione per affrontare per bene la nascita di questo Stato di Israele. Questo è stato un tema ricorrente, lo vedremo anche nel ’56, nel ’67 e anche nel ’73, nei quattro grandi conflitti: i Paesi arabi sono innanzitutto più numerosi, sono alleati contro Israele e si scontrano con Israele, per questo ci servono delle cartine grandi e dettagliate dove ritrovare i nomi e i territori di cui sentiremo spesso parlare, quali sono i confini di Israele all’atto della sua nascita e dopo la prima guerra con gli arabi; sono “territori” guadagnati da Israele con vari conflitti che sono scoppiati con i Paesi confinanti, i quali territori però, nonostante delle dichiarazioni internazionali e cioè dell’ONU, non tutti sono stati restituiti nel tempo. Il problema dei profughi palestinesi. Quindi “territori” e “profughi” sono due concetti molto legati, non studieremo tanto i sei giorni della guerra del ’67, come l’esercito israeliano sbaragliò gli eserciti alleati, ma studieremo le conseguenze: il problema dei profughi, i palestinesi esiliati. Studente: Ma nel ’48 per “palestinesi” cosa si intende? Saviani: Centinaia di migliaia di persone che abbandonarono i territori di quella che era la Cisgiordania. Studente: Ma anche prima e dopo verranno abbandonati dei territori, nel ’48 e nel ’56 Israele e la Cisgiordania nel ’67. Saviani: Questo è importante perché non è soltanto circoscrivibile alla guerra del ’67, c’è il ’48, il ’56 ecc. Andiamo con ordine: nel ’48 ci saranno molti profughi, molti palestinesi dovranno abbandonare le terre in cui stavano; andranno in Libano, in Siria, nei Paesi arabi confinanti. Ci sono diverse ondate di profughi palestinesi: ci sono i profughi di prima generazione e i profughi della seconda generazione, cioè ci sono dei palestinesi che sono stati cacciati via dai territori dove erano nati, i quali territori erano gli stessi dai quali erano stati già scacciati i loro genitori. C’è un doppio status di profugo: c’è il profugo della guerra del ’48 e c’è il profugo delle guerre che sono venute dopo, i quali hanno perso diritti, e anche abitazioni spesso, nei territori da cui comunque erano già stati scacciati. Quelli del ’67 sono dei profughi alla seconda potenza, diciamo. Questo fatto implica anche diverse questioni giuridiche di estrema difficoltà perché vedremo che i profughi palestinesi quando hanno abbandonato le loro terre si sono portati dietro i contratti di vendita, cioè dei documenti che provano la loro proprietà, convinti che un giorno o l’altro sarebbero ritornati e ne avrebbero avuto bisogno.

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Vedremo poi nel tempo che valore hanno assunto questi documenti: questo problema lo tratteremo a parte. Oggi ci conviene arrivare al ’48, vedere dietro che c’è, questo mezzo secolo di storia del sionismo, vedere che significa la nascita dello Stato di Israele in Palestina, e per il momento abbiamo incontrato sempre e soltanto l’Inghilterra ma tra poco, passeranno sette anni, incontreremo gli Stati Uniti d’America, l’Unione Sovietica, che nel ’56 scongiureranno l’impiego delle armi atomiche durante la crisi del canale di Suez, cioè quando il presidente egiziano Nasser intenderà costruire una diga, diga di Assuan, sul Nilo per questioni di energia idroelettrica. L’Egitto non ha soldi per finanziare un’opera del genere e chiede un intervento internazionale, dei fondi internazionali, i quali vengono invece ostacolati da Francia e Inghilterra, non tanto da Stati Uniti e dall’Unione Sovietica. Nasser per tutta risposta nazionalizza la compagnia internazionale di Suez, canale che rende molto più comodo e facile il passaggio delle petroliere, problema che comincia a diventare esplicito. Questo significa che Nasser, cioè l’Egitto, potrà avvalersi di tutti i soldi che potrà ricavare dal passaggio delle petroliere: questo sarà il motivo scatenante dello scoppio del secondo conflitto tra Paesi arabi e Israele. Nel ’56 Israele è appoggiata da Francia e Inghilterra anzi si allea con Francia e Inghilterra, tenta pure di conquistare nuovi territori, senza riuscirci; fatto sta però che se non fosse per l’intervento di Usa e Unione Sovietica questo conflitto potrebbe prendere una piega imprevista all’inizio. Poi vedremo nel minimo dettaglio come andò sia il primo scoppio di questo conflitto, sia gli interessi un po’ più remoti: Nasser è il rappresentante del nuovo nazionalismo arabo. Allora, diciamo che il nazionalismo negli anni ’50 è abbastanza duro e pericoloso per gli anni che si stanno vivendo, sono gli anni della guerra fredda. Poi il ’56 è una data fatidica sia in Europa, sia per questa crisi arabo-israeliana. Parlando del nazionalismo, c’è una questione che dobbiamo affrontare per capire bene questo ruolo dell’Inghilterra in Palestina fino al ’48: quella che si chiama “decolonizzazione”. Per organizzare questo incontro ho utilizzato otto manuali diversi, di diversi periodi, di Storia contemporanea anche per vedere una volta di più come i discorsi sono fatti in modi naturalmente diversi, sono suggerite interpretazioni storiche diverse. Un famoso storico, per aprire una parentesi sul caso della Regione Lazio di cui si è tanto parlato in questi giorni, ha detto che la Storia è stata sempre scritta e riscritta; il vero compito dello storico è quello di tentare sempre di riscrivere la Storia, naturalmente senza forzare le fonti. Questo non è revisionismo storico, la Storia si scrive e si riscrive. La Storia del ‘500 che adesso noi leggiamo non è la Storia che leggevano gli uomini del ‘700, così come la Storia della contemporaneità degli uomini del ‘700 era diversa da quello che noi oggi leggiamo sul ‘700. Chiusa la parentesi. Allora, in questi testi ho ritrovato alcuni problemi che ci riguardano: decolonizzazione, imperialismo, sionismo. Vi leggerò alcune parti da testi diversi in modo da vedere come in effetti alcuni ripetono quello che hanno detto altri manuali, altri manuali tacciono certe cose, altri manuali sono molto più articolati e ci dicono anche particolari interessanti su alcuni argomenti. Allora, prima pagina che leggo per quanto riguarda la decolonizzazione: “Decolonizzazione è un termine che indica questo fenomeno storico che si è verificato – nel secondo dopoguerra, negli anni ’50 – in tutto il mondo tranne

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l’Europa”. Decolonizzazione significa che nel corso di pochi anni molti Stati che erano colonie, colonie soprattutto inglesi e francesi, raggiungono la loro indipendenza politica, cioè si riscattano dal loro essere coloni. La decolonizzazione è un discorso che riguarda anche l’Inghilterra e la Palestina. Noi siamo arrivati al punto che l’Inghilterra non vuole più essere mandataria di questo territorio, chiede continuamente all’ONU una conclusione, un aiuto per liberarsi da questo vincolo e sarà un problema comune anche ad altre potenze europee che avevano il loro sistema di colonie. Questo libro ci dice: “Gli anni del dopoguerra furono segnati da un impetuoso sviluppo del fenomeno della decolonizzazione che portò all’indipendenza nazionale moltissimi dei Paesi in passato dominati dalle potenze dell’Europa occidentale. Nella sola Africa si costituirono 40 nuovi Stati” – molti degli Stati africani che noi oggi conosciamo hanno sì e no 50 anni di vita, sono tutti ex-colonie. “Qualcosa di analogo anche se di dimensioni più ridotte si era già verificato dopo la prima guerra mondiale, quando in seguito alla distruzione di due imperi coloniali, quello turco e quello tedesco – praticamente le nazioni che erano state sconfitte nella prima guerra mondiale – si definì uno status di semi-indipendenza, cioè il protettorato, per Paesi come l’Egitto, l’Iraq e la Transgiordania”. Alcune questioni palestinesi e israeliane entrano anche nella vicenda della guerra del Golfo: ricordate quando durante la guerra, 10 anni fa, il dittatore iracheno Saddam Hussein a un certo punto lanciò dei missili che andarono a colpire Israele? Israele fu pregata di non rispondere a questa provocazione, di non reagire, di non pericolosamente allargare le parti in gioco nella guerra. Studieremo in seguito che Saddam Hussein faceva molto comodo all’occidente perché avversario dell’Iran. La guerra Iraq-Iran fu finanziata, con aiuti per l’Iraq, dagli Stati Uniti e dagli Stati europei. Quindi vedremo anche queste storie più recenti come hanno radici nel problema della decolonizzazione. Allora, prendo quest’altro testo che invece io trovato straordinariamente più preciso e particolareggiato. “Già la prima guerra mondiale ha dato un colpo forte al comunismo e all’imperialismo del mondo occidentale, le massime nazioni coloniali, Inghilterra e Francia, hanno proclamato di combattere per la libertà, hanno chiesto truppe ai popoli sottomessi; è apparsa quindi una contraddizione tra gli ideali di libertà e il colonialismo”. Questo libro non dice altro ma dice la stessa cosa da un altro punto di vista che mi sembra molto più produttivo. Il testo precedente ci ha detto che la decolonizzazione è un fatto della seconda guerra mondiale, del secondo dopoguerra, però già, dopo la prima guerra mondiale, alcuni Stati avevano una sorta di indipendenza perché gli imperi coloniali germanico e turco avevano perso la guerra. Quindi addirittura non parla di quelli che hanno perso, ma solo di quelli che hanno vinto e dice: “In fondo la decolonizzazione è un problema che nasce già dopo la prima guerra mondiale e nasce come problema perché la Francia e l’Inghilterra – che hanno vinto la guerra mondiale, anch’esse erano potenze coloniali, non solo quelle che hanno perso, anche loro avevano un sistema enorme di colonie, però che hanno fatto – hanno chiesto aiuto alle proprie colonie in termini anche di vite umane, soldati, per combattere la loro guerra e per vincerla. C’è quindi una contraddizione – dice questo libro – tra ideali di libertà e regime coloniale”. Francia e Inghilterra proclamano di combattere per la libertà ma per vincere la loro guerra di libertà sfruttano dei popoli a loro sottomessi: contraddizione! Combattere per la

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libertà e però mantenere dei popoli in stato di colonie. Dice ancora il testo: “Anche la seconda guerra mondiale arreca un gravissimo colpo al sistema coloniale e imperialistico degli Stati occidentali”. Parentesi: qui si dice sempre colonialismo e imperialismo, li si cita insieme. “Un colpo mortale soprattutto per un dato di fondo – sentite bene – : nel 1918, al termine della prima guerra mondiale, Inghilterra e Francia sono ancora tra le massime potenze coloniali – nel 1917 l’Inghilterra ha fatto anche la sua dichiarazione Balfour, quindi ha sposato il sionismo – e sono ancora in grado di contenere e controllare le spinte all’indipendenza dei popoli a loro sottomessi, ma ora, nel ’45, Francia, Inghilterra, Olanda, Belgio – che erano le potenze europee che avevano colonie in Africa e in Asia – sono scadute a un ruolo minore, sono molto lontane dalle due nuove nazioni leader dopo la seconda guerra mondiale: Stati Uniti e Unione Sovietica”. Non solo, vi è da aggiungere che gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica non hanno un passato di potenze coloniali – anzi, gli Stati Uniti sono nati da un problema di dipendenza di tipo coloniale, quindi il colonialismo non è un discorso che riguarda Stati Uniti e Unione Sovietica ma riguarda le potenze europee che già dopo la seconda guerra mondiale si sono molo indebolite. La Germania perché ha perso la guerra, la Francia e l’Inghilterra perché comunque sono uscite massacrate dal secondo conflitto mondiale. “L’Unione Sovietica e gli Stati Uniti premono sull’Europa affinché finisca il regime coloniale”. Perché il colonialismo è ormai un assetto che non è più in linea con i nuovi equilibri di potere. Già prima della fine della seconda guerra mondiale ci furono delle conferenze in cui i tre imminenti vincitori della Guerra, Stalin, Churchill e Eisenhower, cominciano a discutere del futuro assetto mondiale. Le nuove aree di controllo non coincidono più con le colonie degli Stati europei quindi sia gli Stati Uniti sia l’Unione Sovietica premono affinché il regime coloniale sparisca, perché non è più in linea con il nuovo ordine mondiale deciso. “In Medio Oriente – sentite questo brano – la Palestina, sin dalla fine dell’‘800, è sotto il controllo inglese ed è abitata da più di mille anni – questo testo ci dirà che questo controllo inglese era più formale che sostanziale – da popolazioni arabe, ma dagli anni tra il 1910 e il 1920 il governo britannico ha dato ad alcuni gruppi ebraici la possibilità di ritornare in quella che è stata una loro lontanissima patria”. Dichiarazione del ministro degli esteri inglese Lord Balfour: è riconosciuto ai gruppi ebraici di creare una sede nazionale. Gli ebrei si stabiliscono a Tel Aviv, Jaffa. Il numero degli immigrati, tra il 1920 e il 1940, cresce di molto, soprattutto perché molti ebrei fuggono dall’Europa. Nel 1945 vi sono in Palestina circa 550.000 ebrei e 1.250.000 arabi. Questa presenza ebraica crea in Palestina una situazione esplosiva: si accendono scontri tra ebrei e arabi, tra ebrei e inglesi”. L’Inghilterra non riesce a controllare questa situazione che ogni giorno appare più carica di rischi allora, quando la seconda guerra mondiale è terminata, la Gran Bretagna decide di lasciare alle Nazioni Unite la decisione relativa al futuro della Palestina”. Al momento del ritiro delle truppe inglesi, gli ebrei immediatamente proclamano, il 14 maggio, la nascita dello Stato di Israele. Questa soluzione è giudicata dagli arabi un atto di forza intollerabile tanto più che la fondazione di uno Stato ebraico avrebbe significato l’emarginazione religiosa, politica, sociale ed economica della maggioranza araba che già costituisce l’elemento socialmente inferiore della regione. Questo atto di forza immotivato è, dalla parte araba, giudicato intollerabile:

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dichiarare la nascita dello Stato un giorno prima della partenza delle truppe britanniche, va a colpire la parte che è anche socialmente più debole. “Tra il 15 maggio del ‘48 – quindi il giorno dopo, che poi sarebbe il giorno in cui l’Inghilterra avrebbe lasciato i territori – e il 25 gennaio del ’49, si apre il primo conflitto tra israeliani e arabi. Le forze arabe, che comprendono oltre ai palestinesi anche truppe dei vari Stati mediorientali, malguidate, senza coordinamento, sono sconfitte. Quasi un milione di palestinesi, espulsi dalla loro terra, vanno incontro ad una vita miserabile nei campi profughi messi a disposizione dai governi arabi. Ha così inizio un conflitto fra arabi e israeliani in Medio Oriente destinato col tempo a diventare sempre più acuto. Entrambi i contendenti accampano diritti antichissimi e sacri: per decenni non vi sarà il minimo margine per una trattativa”. Inoltre questo libro riporta due passi di due dichiarazioni, una filo-palestinese e una filo-israeliana, sulla nascita dello Stato di Israele. Io leggerei questa versione, con la quale finiamo per oggi. “Il 14 maggio del ’48, poco prima che scadesse il mandato britannico sulla Palestina, Ben Gurion, leader laburista – che diventerà il primo presidente dello Stato israeliano – proclamò la costituzione dello Stato di Israele di fronte ai delegati del Consiglio Nazionale ebraico che rappresentava gli ebrei immigrati in Palestina negli ultimi 10 anni e di fronte al movimento sionista mondiale. Si realizzava così il progetto votato nel primo congresso sionista del 1897 che aveva rivendicato il ritorno alla terra. Questa rivendicazione era stata riconosciuta nel 1917 dalla dichiarazione Balfour ed era stata poi confermata dalle Nazioni Unite nel ’47 che però decisero di amministrare direttamente Gerusalemme e di dividere la terra di Palestina formando due Stati, uno ebraico e uno palestinese, però la proposta non venne riconosciuta e gli arabi si rifiutarono di accettare la costituzione dello Stato di Israele in quella che consideravano la loro terra. Vi presentiamo un tratto dalla proclamazione di Ben Gurion. “La terra di Israele fu la culla del popolo ebraico, qui fu formata la sua identità spirituale, religiosa e nazionale. Qui esso conquistò l’indipendenza e creò una civiltà di significato nazionale ed universale. Qui esso scrisse e dette la Bibbia al mondo. Esiliato dalla Palestina, il popolo giudaico rimase ad essa fedele in tutti i paesi della sua dispersione, non cessando mai di di pregare e di sperare per il ritorno e la restaurazione della propria libertà nazionale. Spinti da questa storica associazione, gli Ebrei lungo tutti i secoli si sforzarono di tornare alla terra dei loro padri e di recuperare la dignità di Stato. In decenni recenti sono ritornati in massa. Essi hanno bonificato il deserto, fatto rivivere la loro lingua, costruito città e villaggi e stabilito una comunità vigorosa ed in continua espansione, con una propria vita economica e culturale. Cercarono pace, ma erano preparati a difendersi. Recarono la benedizione del progresso a tutti gli abitanti del paese. Il 29 novembre 1947 l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite ha adottato una decisione a favore della fondazione di uno Stato Ebreo indipendente in Palestina. E’ evidente diritto del popolo ebraico quello di essere una nazione come tutte le altre nazioni, nel suo proprio Stato sovrano. Di conseguenza, noi, membri del Consiglio Nazionale, rappresentando il popolo ebraico in Palestina e il movimento sionista mondiale, con questo mezzo proclamiamo la fondazione dello Stato Ebraico in Palestina con il nome di Medinat Yisraele.”

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Il secondo documento invece è di parte araba e contrasta le tesi di Israele: “La Palestina era una terra araba. Il diritto arabo alla Palestina riposa su tre distinti motivi: il primo è il diritto naturale del popolo a rimanere in possesso della terra del suo diritto di primogenitura; il secondo è che gli Arabi palestinesi vi hanno vissuto per più di 1300 anni; il terzo è che essi sono tuttora i legittimi proprietari della maggior parte delle dimore e dei campi nei quali gli israeliani attualmente vivono e lavorano. Quarant’anni fa la Palestina era un paese arabo nella stessa misura di altre parti del mondo arabo. Gli Arabi sono decisi a respingere qualsiasi sistemazione che non riconosca il loro pieno diritto alle loro dimore ed alla loro patria”. Per concludere, leggiamo un tratto della dichiarazione dell’OLP che contesta la legittimità giuridica e politica dell’esistenza dello Stato di Israele: “Lo sapevate:

1) Che quando ‘la questione palestinese’ fu creata dagli inglesi nel 1917, più del 90% della popolazione palestinese era araba?…e che c’erano non più di 56.000 ebrei?

2) Che più della metà degli ebrei che vivevano in Palestina allora erano di recente immigrazione, ed erano giunti in Palestina negli anni precedenti per sfuggire alle persecuzioni in Europa?…e che neanche il 5% della popolazione nata in Palestina era costituito da ebrei?

3) Che allora gli arabi palestinesi erano proprietari del 97,5% delle terre, mentre gli ebrei (sia quelli nati in Palestina, sia quelli di recente immigrazione) avevano soltanto il 2,5% delle terre?

4) Che durante i trent’anni di regime d’occupazione britannico, i sionisti riuscirono ad ottenere solo il 3,5% delle terre in Palestina, benchè il governo britannico li favorisse?…e che gran parte di queste terre furono date direttamente ai sionisti del governo britannico, e non furono comprate ai proprietari arabi?

5) Che perciò, quando l’Inghilterra affidò la risoluzione del problema palestinese alle Nazioni Unite nel 1947, i sionisti non possedevano che il 6% di tutto il territorio palestinese?

6) Che, nonostante questi fatti, l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite decise la formazione di uno ‘Stato ebraico’ in Palestina?…e che l’Assemblea garantì a questo nuovo Stato circa il 54% del territorio palestinese?

7) Che Israele occupò immediatamente …l’80,48% di tutta la Palestina? 8) Che questa espansione territoriale ebbe luogo, in massima parte prima del 15

maggio 1948: prima, cioè, del termine formale del mandato britannico e del ritiro delle forze britanniche dalla Palestina, prima che gli eserciti arabi si muovessero a protezione dei palestinesi, e prima che scoppiasse la guerra arabo-israeliana?”.

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Giacomo Capaldi (5B), Tommaso Pio Cerulli Irelli (4D), Silvia Crupano (4D),

Jessica Ferretti (4D), Sarah Maltoni (5L), Paolo Manfré (5L), Francesca Neri (5L),

Ginestra Odovaine (3G), Marta Osnaghi (2D), Tommaso Sanna (5L),

Stefano Toppi(4D), Ramacandra Wong (2N)

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Prof. Lucio Saviani e Prof. Rino Cipriano

23 Gennaio 2001

Cipriano: Vorrei cominciare subito con una citazione di un giurista palestinese che è presidente dell’associazione dei giuristi palestinesi: “Tutte le grandi realizzazioni nella storia dell’umanità erano state dei sogni; col tempo, i sogni si sono realizzati. Noi due nazioni, due stati, possiamo vivere insieme, lavorare insieme, coltivare insieme il nostro giardino in libertà e in pace” ( Fayez Abu Rahmi ). Da questa dichiarazione nasce il concetto di giardino comune, di quella striscia di terra che, a nostra memoria, da più di duemila anni vede scorrere sangue senza interruzione di sorta. E c’è un altro motivo di fondo ricorrente: il possesso della terra. Vorrei uscire un po’ da quelli che sono i canoni ufficiali dei mezzi di comunicazione di massa, delle ideologie dell’una e dell’altra parte, e proporre un’analisi della questione palestinese seguendo una strada che vada un po’ al di là di questi canoni tradizionali. Tanto per cominciare, la questione palestinese viene sempre identificata come una lotta fra due popoli; io comincerei a dire che questione palestinese è una lotta fra tre popoli, o meglio ancora è una lotta fra tre religioni che si ispirano fondamentalmente ad un solo dio, quindi parliamo delle tre più grandi religioni monoteiste che esistono sulla terra: l’Ebraismo, il Cristianesimo e l’Islam, che partono tutti e tre da un unico testo: dall’Antico Testamento. “In principio era il verbo”, si dice in italiano, nel Corano e nella Torah è scritta la stessa cosa anche se in lingue diverse. "E Dio era questo verbo". Allora, abbiamo visto che si tratta di tre popoli, di tre religioni, di un solo dio e, neanche a farlo apposta, di una sola terra. Alla questione religiosa si affiancano altre due questioni: una ovviamente politica ed una economica che si è innestata nel corso dei secoli e che rappresenta un po’ lo scheletro intorno al quale ruotano tutta una serie di eventi che hanno interessato la Storia e chi interessano oggi la cronaca, con fortune alterne, da una parte e dall’altra. Pensate un po’: la prima deportazione che è stata fatta risale addirittura al 1.300 a.C. e fu operata dai Babilonesi a danno degli Ebrei, che furono sconfitti e sottomessi e infine deportati a Babilonia, rinchiusi in un ghetto dal quale poi riuscirono a venire fuori e ripresero le armi contro Babilonia. Tratteremo di quelli che sono i fondamenti della questione palestinese, approfondiremo questo aspetto religioso che abbiamo anticipato, faremo un cenno all’integralismo, parleremo ancora meglio dell’aspetto religioso, dando un poco quelli che sono i primissimi cenni sull’Islam, sui musulmani e su questa religione e poi tratteremo della questione politica e della questione economica. Dunque, innanzi tutto, perché si tratta di tre popoli, perché parliamo di tre popoli e non già di due popoli in lotta fra di loro? Perché sì, è vero, ci sono palestinesi ed ebrei che si fronteggiano, con vittime dall’una e altra parte purtroppo, però vediamo che i protagonisti non sono solo i ragazzi dell’Intifada, o i ragazzi e le ragazze che si arruolano nell’esercito, un grosso interesse è rappresentato dalla presenza dei vari

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segretari di stato militari, dei commissari europei, dei vari capi di stato, vedi Mubarak, presidente dell’Egitto, vedi la Siria, vedi la Giordania, cioè c’è tutto un insieme di interessi in quella zona. Per cui il terzo protagonista, anche se non è quello che materialmente impugna le armi o lancia le pietre con le fionde, è l’occidente e il cristianesimo, se lo guardiamo anche dal punto di vista religioso. Ulteriore passo indietro, dal punto di vista religioso: tutto comincia, per tutte e tre le religioni, dalla trascendenza, dalla conoscenza di Cristo. In termini religiosi, i tre monoteismi si distinguono:

o Nel Giudaismo. L’accesso alla trascendenza, alla conoscenza di Dio, avviene attraverso la mediazione, e quindi il possesso, della terra promessa da Dio al suo popolo Israele. La terra è santa e attraverso l’insediamento nella terra promessa i Giudei attuano la promessa di Dio e realizzano l’alleanza.

o Nel Cristianesimo. La conoscenza di Dio avviene attraverso la mediazione del Cristo, figlio di Dio, del Dio fatto uomo, venuto a vivere tra gli uomini e tra di loro in un luogo preciso che è la Chiesa. Quindi l’accesso a Dio avviene attraverso la mediazione del clero.

o Nell’Islam. Non c’è mediazione e non c’è il concetto del possesso della terra perché la religione nasce tra i profughi.

Ciascun individuo accede direttamente a Dio in quanto coscienza autonoma e l’espressione è data dalla preghiera. Il muslim prega anche da solo, ovunque si trovi, perché è in comunicazione diretta con Dio. Nell’ Islam si verifica un’importante liberazione della persona da qualsiasi mediazione per vivere la trascendenza di Dio. In sostanza è l’intero complesso della religione che funziona come contatto col Dio.

Per la religione ebraica, fondamentalmente questa conoscenza avviene attraverso il possesso della terra, la terra promessa. Israele è formato dalla famiglia, dalla gente, dal popolo, il popolo eletto; gli ebrei dicono: quella terra mi tocca perché me l’ha promessa Dio. Quindi Israele significa la famiglia, il popolo, il clan, il nucleo parentale con esattezza. E’ un sistema sociale primordiale basato sul patriarcato, sulla terra, sulla residenza unica, sulla famiglia che, a seconda dei figli, si accresce per diventare sempre più importante; tanto che vedremo che i musulmani cominciano a contare la loro epoca non dalla nascita di Maometto o dalla rivelazione del Corano ma dalla data dell’Egira, letteralmente significa “scissione del legame tribale”. A un certo punto Maometto, nel corso della sua storia, si ribella alla sua tribù, se ne va dalla Mecca a Medina e qui fonda la religione; la data esatta in cui si spezza questo legame tribale e in quel momento esatto nasce l’Islam, è il 625. Quindi cominciano a contare gli anni dal 625 circa a venire giù. Gli Ebrei abitavano quella terra dai tempi di Mosè e prima di Mosè, dai tempi di Abramo i prima di Abramo, e con un particolare sistema sociale ed economico – che vedremo. Successivamente arrivarono i cristiani che contestavano un po’ questo discorso del possesso della terra come sistema per la conoscenza di Dio: per loro si può arrivare a Dio attraverso la mediazione di qualcuno, e quindi il clero. Pare che Gesù avesse detto a Pietro non “Pietro tu sei la pietra e su questa pietra io fonderò la

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mia chiesa” ma “su questa pietra io fonderò la mia casa” che è un concetto un po’ diverso. Sta di fatto che il momento di transizione alla Conoscenza avviene attraverso la mediazione di una casta: il clero. Questa è la novità che duemila anni fa portò il cristianesimo. Dopo altri seicento anni circa arrivò Maometto che, pur riconoscendo la fondatezza delle religioni che lo avevano preceduto, quindi l’ebraismo ed il cristianesimo, interpretò in un certo modo i passi dell’Antico Testamento, in particolare quelli in cui si parla dei cristiani che credono in un solo dio, creatore del cielo e della terra, che non ha generato né fu generato. In particolare, egli dice: ma come fa una persona che non ha generato, né fu generata ad avere un figlio? Quindi negò questa discendenza diretta del cristianesimo dalla divinità e disse che no, Gesù come Isaia, come Ezechiele, come Elia e come tanti altri, era stato un profeta, egli stesso è un profeta ed è il sigillo dei profeti – io sono l’ultimo, dopo di me non ci saranno più profeti – e si chiude il ciclo delle grandi religioni rivelate esattamente con la rivelazione del Corano che è la parola di Dio, a Maometto. Maometto non ha scritto il Corano, non ha inventato nulla che non fosse stato già detto da altri in precedenza, non ha fatto altro che essere ispirato dall’arcangelo Gabriele e ricevere la parola di Dio. Saviani: Questi discorsi sembrano portarci un po’ lontano dalla nostra questione, ma vedrete tra un attimo che non è così perché fra poco parleremo – e noi poi ci ritorneremo anche quando non ci sarà il professor Cipriano – della questione del Jihad, che spesso sentiamo come “la” Jihad ma è “il” Jihad: vedremo cosa significa. Le cose di cui stiamo parlando sono alcuni dei problemi che stanno alla base, sono fondamentali, per capire la questione del Jihad e quindi di gran parte del conflitto arabo – israeliano. Cipriano: Tutto questo discorso è anche alla base della questione palestinese come questione dell’autodeterminazione dello stato palestinese; cioè la ricerca di una mediazione che dia, in cambio della pace, il possesso della terra. Difatti, per esempio, nel 1982 dopo l’invasione del Libano, Sabra e Chatila ed episodi molto tristi, noi abbiamo visto che c’era un forte interesse dello stato d’Israele nei confronti del controllo del territorio e proprio del controllo dei popoli che aveva come confinanti. A distanza neanche di una ventina d’anni, la situazione sembra che stia per evolvere diversamente: in questi giorni si sta attraversando un periodo molto favorevole per i palestinesi, che vede un po’ in crisi tutta la struttura e il macchinoso sistema inventato dall’Occidente per garantire una pace. Cosa significa questo? Che nel 1982 noi avevamo, e soprattutto negli anni successivi, dopo l’invasione del Libano, dopo il Congresso dei Vertici dell’OLP, una situazione di disgregazione della dirigenza dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina; Arafat era riconosciuto come un leader indiscusso per quanto riguardava l’organizzazione, ma i singoli appartenenti al fronte popolare dell’OLP – Al-Fatàh, Amal – erano dei micro-organismi che facevano capo a degli interessi… . Ad esempio, torniamo al problema della terra: Al-Fatàh non fa altro che rappresentare i proprietari terrieri, la borghesia fondiaria palestinese che era stata spodestata dalle proprie terre all’ingresso degli ebrei in Palestina. Saviani: Attenzione a questo particolare: cominciamo ad entrare nel vivo di alcune questioni abbastanza particolari che ci fanno vedere da vicino alcune cose che di

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solito, attraverso i mas media non riusciamo a cogliere. L’immagine che passa per lo più è: palestinesi povera gente che ha perso casa e terra da una parte e una forza militare dall’altra. Ora stiamo già vedendo che Al-Fatàh è un’organizzazione sì palestinese, che però rappresenta un gruppo di interesse, interesse economico: i proprietari palestinesi. Quindi i palestinesi sono anche una lobby, anche abbastanza forte… Cipriano: Sì, un particolare che vorrei sottolineare: durante l’invasione del Libano, la moneta ufficiale di Israele, nonostante Israele avesse vinto, si svalutò. Questo perché? Perché tutti i palestinesi e i libanesi rimisero tanti di quei soldi, di quell’oro, di lingotti, pezzi d’oro da un chilo, da un carato, per cui nonostante i carri armati avanzassero, arrivò una pioggia di denaro che indebolì in maniera incredibile lo sheqel – la moneta israeliana – che ancora oggi, dal 1982, esiste come sheqel pesante. A un certo punto l’inflazione diventò così incontrollabile che dovettero ricorrere a delle manovre di emergenza, ed è stato, che io sappia almeno, l’unico caso al mondo in cui chi vince una guerra vede svalutare la propria moneta a favore della moneta del vinto. Questo sta a significare anche un’altra cosa: che fondamentalmente si tratta di un confronto tra popoli, tra mentalità molto in conflitto tra di loro – questo magari lo approfondiremo quando tratteremo la questione economica. Diciamo che il Libano fino a qualche tempo fa era considerato la Svizzera dell’Oriente: conti bancari cifrati protetti, niente estradizione per reati di natura finanziaria. Fondamentalmente questi popoli si combattono perché sono uguali: appartengono a due famiglie diverse, ciascun membro deve avere la supremazia su quel territorio. Tranne un po’ l’aspetto religioso, non è che vi siano grosse differenze per quanto riguarda gli usi, le abitudini, tra gli ebrei e i palestinesi; dico i palestinesi per il momento e non dico in generale i musulmani perché i palestinesi non sono tutti musulmani – questo è uno dei discorsi che affronteremo. Il problema della religione, grosso modo, è delineato così: l’ebraismo è una religione antichissima, millenaria, ed è una cultura degna del massimo rispetto da parte di tutti. Essi sono stati i primi ad aver immaginato un Dio unico: i primi monoteisti. Un breve excursus tutt’intorno: le altre religioni, per esempio gli egiziani, i zoroastriani, erano tutti sistemi costituiti sulla base del politeismo: Iside, Osiride, ecc., un sistema di nove divinità per garantire l’esistenza del mondo e della religione. Grosso modo lo stesso discorso, solo che il numero era sette, per Istar e tutte le religioni, diciamo, assiro-babilonesi. Di contro abbiamo poi un sistema, parliamo della religione islamica, che è fondato fortemente su questa unicità di Dio, che nega ogni altra ingerenza: infatti non esiste il clero, non esistono preti, non esiste mediazione, se non il rapporto diretto tra il credente e la divinità. Ritorniamo al problema della terra…il possesso della terra ci accompagnerà sempre in questo discorso. Soprattutto adesso, parlando del momento favorevole ai palestinesi. Perché? Il momento favorevole ai palestinesi si ha nel momento stesso in cui viene riconosciuto lo Stato di Israele; uno Stato per esistere ha bisogno di territori. Quando i palestinesi hanno accettato e riconosciuto la proprietà della terra a queste persone, allora ecco che si può gestire tranquillamente la pace. Senza il riconoscimento di questa proprietà, di questi possedimenti, non si sarebbe mai potuto trattare la pace. Con la morte dei due sovrani, quello giordano e quello

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siriano, e con queste due nuove figure giovani (hanno studiato in Occidente, sono comunque benvoluti dal loro popolo, quindi godono dell’appoggio delle istituzioni) è un po’ mutato lo scenario, anche se sostanzialmente si tratterebbe di vedere se la Giordania stringe la mano alla Siria per formare un unico fronte intorno ad Israele. Dall’altro lato c’è l’Egitto, che è sempre più proiettato a paese leader di un intero continente, dell’Africa, che sta cominciando, nonostante ci sia anche il problema del fondamentalismo, a gestire questa sua immagine, per il momento, e spera quanto prima in una rinascita in termini economici. Per cui, se si chiude ancora quest’alleanza, si avrà un Israele completamente isolato in un territorio in cui dovrebbe essere definita, all’inizio di Israele, la sentinella dell’Occidente nel Medio Oriente. Ecco, questo ruolo di sentinella sta cominciando a venire sempre meno, anche perché gli armamenti oggi sono in possesso un po’ di tutti: non dimentichiamo che dietro c’è una grossa riserva, sia in termini militari che in termini strategici, che sono Iraq e Iran. Dopo la pace molto probabilmente costituiscono dei veri e propri serbatoi, tant’è che Saddam Hussein l’ha dimostrato: quando? Durante la guerra del Golfo, bombardava Gerusalemme. Saddam Hussein sarà pazzo per tante altre cose ma non è talmente pazzo che mentre combatte gli americani in Kuwait lancia i missili su Gerusalemme e su Tel Aviv e su Eschalon, che praticamente sta nel Mediterraneo. E’ stato un po’ per mostrare i muscoli, perché poi al di là degli edifici e di qualche leggero ferito, grossi danni in termini bellici non ne hanno fatto. Però, per dire: “io sto qua e ti colpisco”. Il momento in cui si riuscisse a compattare il fronte che circonda Israele con questa grossa riserva strategica data da circa 30 milioni di persone sarebbe una questione critica – non dimenticate che fino alla guerra del Golfo l’Iraq era la quarta potenza mondiale a livello di armamenti, ovviamente tutti armamenti per il 50 per cento americani e poi il resto un po’ da tutto il mondo. Saviani: L’alleanza tra Siria, Giordania, Libano, Egitto, l’abbiamo trovata, o in atto o semplicemente temuta, quando abbiamo accennato ai diversi conflitti arabo-israeliani, cioè nel ’48, nel ’56, nel ’67, nel ’73: sono le date dei quattro principali conflitti tra arabi e israeliani. Quando vedremo da vicino i quattro conflitti, in una di queste guerre vedremo che questa alleanza fu semplicemente temuta da Israele, non era ancora in atto, ma Israele condusse un attacco preventivo nel vedersi accerchiata. Cipriano: Sì, in effetti buona parte delle operazioni che sono state fatte sia dal terrorismo israeliano, sia il discorso proprio della guerra dei sei giorni che fu un attacco preventivo, oltre che le guerre diplomatiche, servirono proprio a frammentare questo fronte. Tornando ad analizzare il discorso religioso in rapporto a quello che viene definito integralismo, anche qui io farei un’altra distinzione e comincerei a distinguere tra un integralismo musulmano, chiamiamolo così, e un integralismo ebraico. Quest’ultimo, dal momento che non ci sono grosse, come dire, divisioni all’interno della religione, è collegato più che altro ad una interpretazione più o meno rigida della Torah; l’integralismo musulmano invece, potrebbe avere delle radici ancora più lontane, addirittura potrebbe essere fatto risalire al periodo delle scuole coraniche. In un certo periodo si sono avuti degli adepti di una scuola, i fratelli della purezza, che predicavano la pratica dell’Islam, del Corano, molto rigida, cioè

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un’applicazione pedissequa di quello che è il contenuto del Corano, rifiutando quelle che potevano essere le interpretazioni, le esegesi e i commenti, se non addirittura le dottrine che le varie scuole religiose avevano fatto derivare dalla lettura e dall’interpretazione della parola di Dio rivelata nel Corano. L’integralismo ebraico è semplicemente una lettura più o meno rigida della Torah; all’interno della religione ebraica esiste una “casta”, i Rabbini, il cui compito non è altro che quello di studiare, interpretare e tramandare l’Antico Testamento, quello che viene chiamato la Torah. Esistono delle regole poi che non sono scritte nel libro ma che fanno parte di una pratica quotidiana e vengono rigidamente tramandate. Ad esempio, un appartenente ad una famiglia rabbinica difficilmente può sposarsi con una persona che non appartenga al suo stesso rango, tant’è che è diffusa tra gli ebrei l’emofilia: perché i matrimoni vengono celebrati tra consanguinei; attenzione, il motivo sì è religioso, però torno a rimarcare il fatto che alla base c’è sempre il discorso di non disperdere la terra, di non uscire dall’asse ereditario, in quella che è poi la spartizione e il controllo del territorio. Quindi resta tutto nell’ambito del clan, della famiglia estesa, della tribù: l’importante è che noi non facciamo uscire fuori da questo nostro controllo, che si attua attraverso la gestione familiare, questi beni, questa proprietà. Nel caso dei rabbini diventa proprio un discorso di casta: si sposano tra di loro, lavorano, anche se non rappresentano il clero, non sono dei preti, non hanno nulla a che vedere con il concetto così come lo possono avere i cristiani. Poi c’è da tener conto anche di un altro fatto. Bisogna cominciare a distinguere la composizione delle due parti. La terza parte è quella nascosta: l’Occidente, la cristianità. Io parlerei addirittura di nuove Crociate: se voi andate un po’ indietro e pensate al discorso delle Crociate che si ebbero dopo l’anno 1000, vedrete che gli europei che andavano lì a combattere, Goffredo di Buglione, Riccardo Cuor di Leone, era gente che non è che andasse lì perché voleva la terra, andava lì perché voleva liberare il Santo Sepolcro; quindi non era un discorso di partecipazione alla spartizione del territorio. La stessa cosa sta avvenendo adesso, perciò io mi convinco sempre più che possiamo parlare di nuove Crociate, cioè questo Occidente che comunque ci tiene ad essere presente lì, in quella città dove in un raggio di 2-300 metri quadrati, grosso modo, abbiamo: la Moschea più sacra cara ai musulmani, Kubbat-il-Sakhràh, la Cupola d’Oro, dove abbiamo ciò che resta del Tempio degli ebrei, il Muro del Pianto, l’unica parete che è rimasta in piedi del loro tempio e dove c’è il Santo Sepolcro che avrebbe dovuto custodire le spoglie di Gesù. Tutto questo si svolge in un’area che avrà circa 200 mq di lato! E quindi è lì che ci sono grossi interessi. Attenzione perché, tra l’altro, quando parliamo di cristianità non parliamo soltanto di Vaticano, di cattolici: parliamo di ortodossi, di quelli che vedremo adesso e che poi stanno, paradossalmente, da una parte e dall’altra ed è un vero vespaio. Tutto nasce da Abramo, il patriarca; sposa Sara e ha Isacco. Ha una schiava, Agar, e ha Ismaele (tutti questi sono semiti, Isacco gli ebrei, Ismaele gli arabi), perché c’è quest’usanza rimasta tuttora nella religione musulmana, che un uomo può sposare anche più di una donna, massimo quattro, previa garanzia di mantenimento. Cioè, un uomo non può sposare una donna se non può garantirle lo stesso tenore di vita che lei faceva presso la sua famiglia. Poi deve pagare una sorta di “cauzione” al padre della ragazza, quella che possiamo definire anche una dote (quindi non è la donna come da noi che porta la dote ma è l’uomo che la versa) ma

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non è un comprare perché in alcuni casi viene restituita e non viene data come prezzo per la figlia ma come riscatto, cioè è come se lui affrancasse questa donna dall’appartenere alla famiglia originaria. Noi occidentali accusiamo spesso i musulmani: “ma voi siete dei barbari perché sposate anche fino a quattro donne”; la risposta che mi sono sentito spesso dare è “sì, però da noi non esiste l’adulterio”. In pratica non esiste l’adulterio perché con questo sistema del riconoscimento religioso e legale del concubinaggio tutto funziona senza fare una piega. Chiaramente devono essere d’accordo tutti: non è che il marito torna a casa e dice “questa è la nuova moglie”, non è assolutamente così; anzi, in molti casi è la prima moglie che spinge il marito a prendere in sposa una nuova donna, o almeno questo succedeva fino a qualche tempo fa. Occorre fare ulteriori tre distinzioni: una distinzione etnica, una distinzione di nazionalità e una distinzione religiosa. Una parentesi: a circa 40 anni gli uomini diventavano eremiti, si isolavano sulle montagne e si avvicinavano a Dio e questo spesso avveniva sotto l’effetto di sostanze allucinogene che servivano a dare una sensazione di distacco dalla quotidianità, dalla pratica, dalla vita materiale e cercare, attraverso la meditazione, di conoscere il sovrannaturale. Erano pratiche molto diffuse. Pensate, tra l’altro, che i primi resti di birra furono trovati nella tomba di un faraone egiziano! Il nostro termine “assassino” deriva da una setta sciita che furoreggiò per un certo periodo in Turchia e che prima di commettere le note efferatezze strangolava chi non era musulmano, e prima ancora di fare questo faceva uso di Hashish, per cui il loro nome era Hashishiùn, cioè “coloro che consumano hashish”. A quel tempo ne consumavano quantità incredibili, andavano proprio in uno stato di totale esaltazione e noi abbiamo ereditato il nostro termine “assassino” e il verbo “assassinare” da questa setta. Una notazione circa la numerologia: in Mesopotamia, qualche migliaio di anni prima, si era fondato il sistema sessagesimale e quindi tutta la concezione del mondo terreno e ultraterreno era concepita sulla base di questi numeri. Gesù era ebreo – apro e chiudo un’altra parentesi – nasce da una famiglia ebrea, Giuseppe era operaio ebreo. Il vero nome di Gesù era Aisa ed era detto il Messia. Letteralmente, “colui che veniva unto”; come quando in Grecia si accoglieva un ospite: gli si faceva fare un bagno, gli si davano tuniche bianche, ecc. e il verbo “matahah” significa “cospargere di olio” ed era chiaramente una pratica diffusa. Lo facevano anche con i faraoni quando morivano: li ripulivano di tutti gli organi interni e li cospargevano di olii che servivano a mantenere integro il corpo. Come se si fosse voluto dare lustro alla persona, la si lavava e la si cospargeva di questi olii profumati. Poi pian piano cominciò a significare una persona prescelta nell’ambito dei culti delle varie religioni, come dire, un vescovo, un cardinale, un Papa. Veniva unto perché era una persona importante. Ecco perché Gesù veniva chiamato anche Messia: non perché fosse stato materialmente unto. Poi possiamo fare delle distinzioni, come avevo detto prima: una sulla base della nazionalità, delle parti che stanno agendo in quei territori.

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Sarah Hagar ETNIA = SEMITI ABRAMO

Noè, Sam, Cam, Abramo ISACCO ISMAELE EBREI ARABI

NAZIONALITA’ EBREI : Americani Russi Polacchi, ecc. GENERAZIONE DI ISRAELIANI ( INCLINI ALLA PACE ) PALESTINESI: con vari passaporti

A questo proposito, la cosa comincia a complicarsi perché abbiamo gli ebrei e i palestinesi; ma gli ebrei possono essere: russi, americani, giordani, tedeschi, spagnoli, che da tutto il mondo sono approdati in Israele portando fondamentalmente la loro testimonianza religiosa in quanto ebrei e portando contemporaneamente la loro testimonianza di cittadini di questi Paesi. Ecco perché da un punto di vista anche culturale Israele è un Paese molto ricco, perché effettivamente c’è questa unione, questa fusione, favorita dalla religione. Dall’altra parte i palestinesi possono avere i passaporti più svariati, cioè, sono palestinesi e poi vanno in giro con passaporto giordano, siriano – raramente – egiziano, di qualche Paese africano, quasi mai con passaporti di Paesi occidentali. Fondamentalmente abbiamo un’unica nazionalità: i palestinesi, mentre al contrario gli ebrei sono il frutto di diverse nazionalità. Quindi ciò che accomuna i palestinesi è il fatto di essere la gente di quel posto, ciò che accomuna gli ebrei è il fatto che da tutto il mondo sono arrivati in quel posto. Vedete come sotto sotto continua ad essere presente il discorso del rapporto con il territorio, il possesso della terra, e parliamo sempre della Terra Promessa, della Terra Santa. Saviani: Quindi, i palestinesi accomunati dall’unica nazionalità e dunque appartenenza ad una nazione – dicevamo l’altra volta che “nazione” è “la terra in cui si è nati” – e vediamo che gli ebrei sono accomunati invece dal fatto di essere ebrei ma la nazionalità è ciò che li divide, nel senso che vengono da diverse Nazioni e sono ritornati in Israele. I palestinesi sono un’unica nazionalità anche se con diversi passaporti. Quindi ciò che accomuna gli uni in un caso non accomuna gli altri nell’altro caso. Cipriano: Un’altra cosa da considerare è che di recente comincia ad essere presente, dal ’40-’50, una nuova generazione di ebrei: gli israeliani, cioè quelli che esistono da quando esiste lo Stato di Israele. Tra le altre cose va sottolineato che essi sono molto più inclini alla pace, molto più propensi alla convivenza nel giardino comune che dicevamo in apertura, rispetto a quelli che sono i loro padri.

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Saviani: Personaggi che vedremo quando affronteremo i diversi conflitti degli anni ‘50, ‘60 e ’70: Moshè Dayan, lo stesso Rabin. C’è un momento nella storia di Israele in cui le forze armate e diciamo, gli alti gradi delle forze armate, hanno avuto un grosso peso e le persone e da Ben Gurion in poi – Ben Gurion, abbiamo visto l’altra volta, è il primo presidente di Israele – troveremo dei nomi, anche ricorrenti, di generali che purtroppo legheranno il loro nome ad episodi molto tristi di questo conflitto. Cipriano: Il terzo aspetto, quello religioso, investe un poco i presupposti che si erano creati prima, perché grosse differenze all’interno della religione ebraica non esistono. Ci sono gli Yiddish, gli Ashemiti, però si tratta di sfumature sull’interpretazione ma che non creano dissensi, dei vuoti religiosi all’interno dell’intero sistema religioso ebraico. RELIGIONI EBREI : più o meno fondamentalisti a seconda della lettura rigida della TORAH Sunniti PALESTINESI: Musulmani Sciiti (AMAL) Maroniti Cristiani--------Ortodossi Come abbiamo detto che Al-Fatàh rappresentava i latifondisti palestinesi, Amal rappresentava gli sciiti palestinesi anche in Libano. Poi abbiamo i Cristiani… Saviani: I palestinesi cristiani. Cipriano: A loro volta maroniti e ortodossi, i Drusi. Poi abbiamo anche i cattolici e, secondo percentuali bassissime… Saviani: ebrei. Cipriano: No, perché qua nasce un altro problema: l’ebreo palestinese non può esistere in quanto tale. Saviani: Perché mi pare di aver capito che l’incontro di stamattina ricordava anche un’associazione di ebrei palestinesi. Cipriano: Ma è diverso. Saviani: Ebrei palestinesi. Cipriano: E’ diverso, gli ebrei palestinesi sono quegli ebrei che sono rimasti di religione ebraica, non sono mai fuoriusciti con la Shoah dai confini, sono sempre rimasti là, hanno sempre goduto della condizione di protetti. Studente: Quindi si può dire ebrei palestinesi ma non palestinesi ebrei. Cipriano: Sì, anche perché c’è un concetto di base, pratico: ebreo è colui che nasce da madre ebrea. Questo significa che nella religione ebraica un concetto quale l’apostasia che viene ammesso nell’Islam… Saviani: Sapete cosa significa “apostasia”? “Apostata”? “Apostasia”, fare “apostasìa”, essere un “apostata”, è colui che passa ad altra religione. Cipriano: Nell’Islam apostasia significa “perdita della propria identità”, in quanto se non sei musulmano, è come se tu non avessi identità da un punto di vista

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religioso. Puoi conservare tutti i documenti che ti rilascia il Comune, però hai perso la tua identità in quanto membro, soggetto, di una precisa struttura. L’ebreo, una volta che è diventato tale, si sente ebreo. Se tua madre era ebrea, sei ebreo per tutta la vita. Anche se andrai ad abbracciare un’altra religione, resterai sempre ebreo. E’ anche un concetto di tradizioni, di costumi, di forte potere che hanno acquisito a livello economico gli ebrei. E qui affrontiamo l’aspetto della questione economica. E’ dovuto al fatto che esiste un vincolo talmente forte tra queste persone, diciamo che la loro economia è tutta atta alla libera circolazione di beni mobili, quindi ecco perché gli ebrei hanno grossa familiarità al controllo delle banche, dei sistemi monetari, finanziari, mobiliari in generale. Mentre dall’altra parte, pur avendo la stessa mentalità, è tutto fortemente concentrato sulla libera circolazione delle merci. I più grossi commercianti che ci siano mai stati, sono stati gli arabi, tant’è che molte delle cose che noi abbiamo e i loro nomi, provengono da loro. Saviani: Allora, per concludere, una parentesi breve, ma vi assicuro molto interessante sui nomi che vengono dall’arabo, parole che usiamo tutti i giorni e che il prof. Cipriano ci aiuterà a scoprire. Cipriano: Ecco un’ipotesi che ci riguarda un po’ tutti messi insieme. Allora, badate bene, ebrei e arabi hanno avuto anche lo stesso linguaggio che deriva dall’aramaico, Gesù parlava aramaico, poi a sua volta l’aramaico si è distinto in a. imperiale e a. del deserto, che è diventato, sottoforma di sub-lingue più che di dialetti, l’ebraico e l’arabo. Infatti per dirvi, “sole” in arabo si dice “shams”, in ebraico si dice “shemesh” quindi, vedete, la radice è molto simile. “Cinque” si dice “khamsa” in arabo, “khemesh” in ebraico. In italiano ci sono delle parole che provengono da quelle lingue: nel dialetto campano per esempio, i frutti che provenivano dall’India, che noi in Italia abbiamo conosciuto soprattutto grazie a questi popoli, contengono il nome con il quale sono stati importati; per esempio le arance noi le chiamiamo in dialetto “i purtualle” che viene dalla parola con cui le hanno importate gli arabi, e in arabo le arance si chiamano “purtualle”; le pesche, che da noi sono le “persiche” perché venivano dal Golfo Persico, quindi dalla zona del Mar Rosso, in arabo si chiamano “barqùq”; in dialetto noi le chiamiamo “percoche”. E poi, per dire, “harshùf” in italiano “carciofo”; “laimùn” “limone”. Saviani: Anche “Italia” mi pare, no? Cipriano: Sì, ecco una cosa su cui vorrei farvi riflettere: in arabo esiste un verbo, “taala” che significa “essere lungo”, in una forma verbale “intaala”, che è la stessa forma, significa “essere stretto e lungo”. Fate un po’ un paragone: come è l’Italia come forma geografica? E’ stretta e lunga, quindi l’aggettivazione “quella che è stretta e lunga”, si fa così, con la ipsilon prima della “a”: “intaalya”, la enne è una debole, cade, da cui “Itaalya” che significa “quella che è stretta e lunga”. Cipriano: Ovviamente non è che vi siano esempi solo a Napoli: a parte il fatto che in Sicilia gli arabi sono rimasti 300 anni, pensate un po’ a tutte le città in Italia che hanno dei nomi tipo “Caira”, oppure “Cairo”, come Cairo Montenotte. In genere che facevano? Venivano con le navi, scendevano, facevano scorribande. Quando arrivavano i turchi, che in effetti non erano turchi e neanche saraceni, ma berberi o arabi più in generale, penetravano anche verso l’interno e si accampavano. Là dove avevano qualche scaramuccia perché battaglie non ce ne sono mai state, tranne che

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in Sicilia, cambiavano il nome ai villaggi: li chiamavano “Al-Qàhira” che significa “in nome della vittoria”, cioè “qui abbiamo vinto e ci restiamo”. Ciò accadeva alle città soprattutto prossime alle coste. Se andiamo un po’ più indietro nel tempo, noi vediamo che dal Libano attuale, che all’epoca era la Fenicia, si staccarono un paio di tribù che, per motivi di terre, non poterono stare lì e andarono via, arrivarono su delle isole e là si fermarono; voi vi chiederete: come si chiamavano? Una tribù si chiamava Sheklesh e la Sicilia è stata quindi fondata dai fenici, un’altra era Sherdana e fondò la Sardegna. Queste sono una chiara testimonianza dell’origine di queste parole. Chiudendo anche il discorso sugli integralismi, queste differenziazioni servono a dimostrare che l’argomento religioso è un po’ il paravento dietro il quale vengono nascoste molte altre motivazioni assai più serie: i soldi, il controllo delle popolazioni. Fondamentalmente però, il controllo dei flussi di capitale che inevitabilmente passa su quella striscia di terra. L’integralismo, quello che ci viene propinato in quanto tale, non è assolutamente un fenomeno religioso, in quanto esso nasce come reazione al capitalismo e all’imperialismo. Anche perché c’è questo movimento che va contro questa penetrazione all’interno ed è un fenomeno da considerare bene in questo senso. Quindi non è che il fanatico religioso vuol combattere tutti gli americani; dicevamo prima che neanche Khomeini si è potuto permettere questo lusso. Saviani. Prima di cominciare l’incontro, parlavamo appunto di Khomeini e della Guerra Santa, parlavamo di Jihad. Cipriano: Il Jihad, attenzione, la Guerra Santa, è una cosa che non esiste in questo momento: per poter essere proclamato un Jihad c’è bisogno di alcune condizioni fondamentali: 1) il Jihad è proclamato da un califfo: non esiste più il califfo; califfo significa “vicario” di Maometto; quindi non esiste più un impero basato sulla religione islamica. Il califfato è caduto intorno al 1500-1600 e da allora non è esistito più. E’ stato l’impero più ampio che sia mai esistito in tutta la storia dell’uomo e si basava sul Corano che al tempo stesso era testo religioso e codice civile. 2) Il Jihad deve essere dichiarato in quella che è la casa della guerra; tutti i territori che sono opposti e controllati dalla religione islamica, sono casa della pace. Il Jihad, che è Guerra Santa, deve essere combattuta fuori. Allora, in Palestina, come è possibile il Jihad se esse è una “casa della pace”? Quindi è un controsenso e non può essere dichiarata. 3) La sua purezza: il Jihad si fa nei confronti di tutte le eresie; ebbene, i cristiani non sono infedeli perché sono gente del Libro, vengono anche loro dallo stesso Libro, l’Antico Testamento. Quindi io posso fare la guerra contro i confuciani, ecc. ma non contro i cristiani. Non può essere Santa una guerra contro persone che sono considerate credenti, che hanno un Dio. E’ un controsenso religioso, tant’è che nel caso della guerra e dei conflitti, più o meno contro gli americani, Khomeini parlava di una guerra contro Satana, definendo gli USA “Satana”, ma non parlava di questa guerra come di “Santa”, non poteva farlo.

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Massimo E. Baroni (studente Psicologia), Massimiliano Borelli (5L),

Giacomo Capaldi (5B), Stefano Filippo Castiglia (4B),

Tommaso Pio Cerulli Irelli (4D), Silvia Crupano (4D), Sayaka De Matteo (5B),

Jessica Ferretti (4D), Silvia Giacomini (5M), Sarah Maltoni (5L), Paolo Manfré (5L),

Francesca Neri (5L), Ginestra Odovaine (3G), Marta Osnaghi (2D),

Giulia Riva (3N), Tommaso Sanna (5L), Ramacandra Wong (2N)

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Prof. Lucio Saviani

30 Gennaio 2001

Saviani: I testi che utilizzeremo sembrano sovrapporsi, naturalmente parlano delle stesse cose, ma sarà nostra cura vedere come ne parlano e quali sono le differenze. Vedremo quindi come certe notizie sono elaborate e riportate diversamente in vari testi. La volta scorsa abbiamo visto che Israele nasce il 14 maggio 1948, un giorno prima rispetto al previsto; anche il 15 maggio era stata una data nuova, una modifica del primo accordo con le Nazioni Unite: l’Inghilterra aveva stabilito di rimettere il mandato alle Nazioni Unite e di lasciare i territori della Palestina il 1° agosto del ‘48. A un certo punto abbiamo visto che l’Inghilterra non regge più la situazione: scontri, disordini continui tra arabi ed ebrei residenti o che continuano ad arrivare dopo la seconda guerra mondiale, chiede addirittura di anticipare al 15 maggio, data che resterà sempre non ufficiale perché la nascita effettiva dello Stato di Israele sarà il giorno prima. Segnamoci questa data, 14 maggio ’48: un mese prima accade qualcosa di molto brutto, il 9 aprile fu perpetrato un eccidio – uno tra i tanti – vedrete che nel 1982 questo confronto tra arabi e israeliani molto spesso si macchia di sangue con stragi, eccidi, attentati ma soprattutto stragi di villaggi palestinesi. Vedrete anche che molto spesso, tre volte, assisteremo a veri e propri esodi, esodi di palestinesi, che somigliano molto all’esodo dal Kosovo, all’esodo dei curdi: persone che camminano perché devono andare da qualche parte ma non si sa dove, sicuramente non nella terra dove abitavano. Il primo eccidio è questo del 9 aprile: un commando guidato da Menchem Begin – Begin sarà poi il capo del governo di Israele negli anni ’70, molti statisti d’altronde hanno un passato da militari – massacra 250 tra uomini, donne e bambini nel villaggio di Deir Yassin, un episodio che un giornalista ebreo definirà “la macchia più nera nella Storia ebraica”. Il 14 maggio, con la dichiarazione di Ben Gurion, nasce Israele ma nasce con questa pagina nera. Un altro testo che parla del ’48 – è una guerra che va fino al gennaio ’49 – dice: “l’Inghilterra non riesce a controllare la situazione, la situazione è dovuta alle continue immigrazioni di ebrei da ogni parte del mondo, soprattutto dall’Europa, dopo la seconda guerra mondiale. La situazione è esplosiva, si accesero scontri infiniti tra ebrei ed arabi e tra ebrei e inglesi, l’Inghilterra non riesce a controllare la situazione che ogni giorno appare più carica di rischi, allora quando la seconda guerra mondiale è terminata la Gran Bretagna decide di lasciare alle Nazioni Unite la decisione relativa al futuro della Palestina e annuncia che il 15 maggio 1948 si sarebbe ritirata dalla regione.” Ma c’era già una data, quella di agosto: essa viene anticipata. “Al momento del ritiro delle truppe inglesi gli ebrei immediatamente proclamano, il 14 maggio ’48, la nascita dello Stato di Israele”. Abbiamo capito dunque che la Gran Bretagna annuncia alle Nazioni Unite che il 15 maggio abbandonerà quei territori; “al momento del ritiro delle truppe inglesi – quindi capiamo il 15 – gli ebrei immediatamente proclamano, il 14 maggio ’48, la

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nascita dello Stato di Israele” quindi non appare chiaro quello che lì era chiaro e cioè che lo Stato di Israele nasce in anticipo. Su questo punto gli arabi insisteranno molto, addirittura diranno che lo Stato di Israele è nato in modo illegale, al di là di ogni risoluzione dell’ONU e del diritto internazionale. Gli arabi ovviamente punteranno molto su questa cosa, caricheranno anche i termini della questione, sta di fatto che però vedete che la questione è controversa. Questa soluzione è giudicata dagli arabi un atto di forza intollerabile, tanto più che la fondazione di questo Stato emarginerà la parte già socialmente più svantaggiata della Palestina, che tra l’altro è la stragrande maggioranza degli abitanti. “Tra il 15 maggio del ‘48 e il 25 gennaio del ’49, si apre il primo conflitto tra israeliani e arabi. Le forze arabe, che comprendono oltre ai palestinesi anche truppe dei vari Stati mediorientali – qui dobbiamo intendere Giordania, Siria ed Egitto – mal guidate, senza coordinamento, sono sconfitte. Quasi un milione di palestinesi, espulsi dalla propria terra, vanno incontro ad una vita miserabile nei campi profughi messi a disposizione dai governi arabi.” Riflettiamo: un milione di profughi significa esodo, significa che, se avessimo avuto allora i mezzi di telecomunicazione di oggi, avremmo visto un milione di profughi palestinesi essere spinti fuori dalle proprie terre. “Ha così inizio un conflitto fra arabi e israeliani in Medio Oriente destinato col tempo a diventare sempre più acuto. Entrambi i contendenti accampano diritti antichissimi e sacri: per decenni non vi sarà il minimo margine per una trattativa”. Quest’altro testo ci dice che gli eserciti arabi in questa guerra, furono Egitto, Siria, Giordania. A fine guerra abbiamo una spartizione dei territori della Palestina: Galilea a Israele, diciamo la parte meridionale; Giudea alla Giordania, quindi la parte orientale, che era chiamata la Cisgiordania; la Striscia di Gaza va all’Egitto e Gerusalemme viene divisa in due, il settore occidentale agli ebrei, quello orientale alla Giordania. Qui c’è un altro particolare: un milione di profughi viene accolto dal re Abdullah. Sembra che in realtà ebrei e giordani abbiano concordato, con la protezione degli inglesi, il realizzarsi di questa situazione che diverrà ufficiale nel 1950 quando la parola “Palestina” viene bandita. Non si potrà più nemmeno parlare di Palestina nel senso che non esisterà più nemmeno il nome della Palestina. La Giordania è uno Stato indipendente con cui Israele confina a est; fino a questo momento la Giordania si è chiamata Transgiordania, faceva parte dei territori decolonizzati dopo la seconda guerra mondiale; la Cisgiordania sarà un territorio interno ad Israele che confina con la Giordania. Passiamo adesso al 1956. Si apre un nuovo conflitto. Avrete capito che dalle prime immigrazioni sioniste della seconda metà dell’’800, la dichiarazione Balfour del 1917, la situazione in Israele è stata sempre di conflitto permanente che però non arriva mai ad uno scontro frontale tra i due eserciti, vi arriva solo quattro volte. Ma fra una data e un’altra c’è sempre un conflitto fatto di incursioni, scaramucce alle Nazioni Uniti, guerra civile. Nel 1956 siamo in piena epoca di guerra fredda: il ’56 è l’anno della rivolta in Ungheria in Europa e quindi della conseguente invasione dell’Ungheria da parte dell’Unione Sovietica; il ’56 è anche l’anno in cui cominciano ad essere resi noti alcuni fatti interni dell’Unione Sovietica, le “purghe” di Stalin, Stalin che è morto da poco, da tre anni; insomma il 1956 è un anno piuttosto importante nella Storia

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contemporanea. Il ’56 è anche l’anno della crisi di Suez dove troviamo Nasser che è il presidente dell’Egitto, di questa repubblica ben vista e appoggiata dall’Unione Sovietica e quindi non ben vista da Israele, presidente di una repubblica nazionalista di vago stampo socialista, un militare che ha fatto un colpo di Stato e nel 1952 sale al Governo e vuole prendere la leadership dei Paesi arabi. Studente: I palestinesi si trovano in Giordania? Saviani: Sì, fino al 1970, al settembre nero, quando vengono cacciati fuori e sterminati dalla Giordania perché non tollera più la presenza dei Palestinesi che organizzano attentati, le cui ritorsioni si abbattono anche sulla Giordania. Anche in Libano troveremo due villaggi, Sabra e Chatyla, dove ci saranno centinaia di persone sterminate. Siamo ancora nel ’56. Questo libro è molto chiaro: “Si apre una delle crisi più dure del dopoguerra. Accadono questi fatti: Nasser ha progettato, per irrigare parti in zone desertiche, evitare inondazioni periodiche e potenziare le fonti energetiche del Paese, un incanalamento delle acque del Nilo con una diga, con la costruzione di una grande diga ad Assuan”. Quindi è un problema di energia, un grande progetto che mira a potenziare economicamente, e quindi anche politicamente e militarmente, l’Egitto. Perché, appunto, Nasser ha questa mira di egemonia per quanto riguarda i Paesi del Medio Oriente. Naturalmente questo viene compreso dagli Stati Uniti, e il libro dice: “quest’opera comporta un onere finanziario che gli egiziani non sono in nessun modo in grado di sostenere: gli Stati Uniti boicottano quest’impresa e fanno fallire un progetto di finanziamento occidentale” quindi Nasser aveva chiesto un finanziamento ad Europa e Stati Uniti che però questi ultimi boicottano. “Allora Nasser compie un’azione spettacolare che innescherà una reazione a catena: il 26 luglio del ’56 decreta la nazionalizzazione della compagnia internazionale del canale di Suez, – la compagnia ricorderete che gestisce il passaggio delle navi per il canale di Suez e quindi è quella che riscuote i pedaggi – nazionalizzare questa compagnia significa incamerare tutti i proventi nelle casse egiziane. Inghilterra e Francia hanno molti e importanti interessi legati al canale, di natura sia strategia, sia economica e sollecitano un intervento armato di Israele dove si trova al potere l’energico Ben Gurion. Dopo una serie di accordi segreti, le truppe israeliane di Moshè Dayan – con una benda sull’occhio, all’epoca era proprio l’emblema delle forze armate israeliane – attaccano, senza preavviso, nella notte tra il 29 e il 30 ottobre, gli avamposti egiziani con una marcia fulminea verso Gaza e il Sinai: l’esercito egiziano è travolto. Gli Stati Uniti condannano l’intervento” – ecco perché è importante il ’56, perché è l’anno in cui emerge con maggiore chiarezza che è finita l’epoca del colonialismo prima maniera, quello prima della seconda guerra mondiale, lo dicevamo anche l’altra volta: dopo la seconda guerra mondiale l’ordine mondiale è garantito e gestito da due potenze mondiali che non sono né la Francia né l’Inghilterra ma Stati Uniti e Unione Sovietica. “Gli Stati Uniti condannano l’intervento anche perché non risponde ai loro interessi un rilancio dell’influenza di Francia e Gran Bretagna in Medio Oriente – quindi la condanna degli Stati Uniti è più un fatto che riguarda i rapporti tra Stati Uniti e Europa, quindi Francia e Inghilterra, piuttosto che un discorso di pace in Medio Oriente – perché sono state due potenze che non sono l’Unione Sovietica o gli Stati Uniti, ma due potenze ex-coloniali europee ad aver preso l’iniziativa. L’Unione

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Sovietica, il 6 novembre, indirizza agli aggressori, Francia, Gran Bretagna ed Israele, un ultimatum: minaccia il ricorso alle armi atomiche sicché l’aggressione deve per forza chiudersi il giorno stesso.” Quindi così finisce questo secondo conflitto, con una presa di posizione, una condanna, da parte degli Stati Uniti e addirittura un ultimatum di un ricorso alle armi atomiche da parte dell’Unione Sovietica. Questa guerra appare periferica ma invece sono in gioco gli interessi economici e politici di tutto il mondo. A dicembre le ultime truppe anglo-francesi abbandonano l’Egitto; all’insuccesso dell’intervento franco-britannico si aggiunge quello di Israele la cui azione è stata condannata dall’ONU e le cui forze militari devono, all’inizio del ’57, abbandonare il Sinai e Gaza. Vediamo come su un altro testo la vicenda viene affrontata: “Nasser nel ’56 ordinò la nazionalizzazione della compagnia internazionale del canale di Suez – un colpo di mano come risposta alla negazione del finanziamento – allo scopo di assicurare all’Egitto i soldi dei pedaggi pagati dalle navi per transitare attraverso il canale. Il provvedimento colpiva direttamente gli interessi economici europei, bloccando la via del petrolio fra il Golfo Persico e il Mar Mediterraneo. La Francia e la Gran Bretagna decisero di intervenire militarmente, contingenti di truppe arabe, francesi, ecc. ecc. L’URSS manifestò subito una totale solidarietà con Nasser minacciando di schierare il suo esercito per aiutarlo. Il 22 novembre del ’56 le truppe arabo-francesi abbandonarono il territorio egiziano lasciando libero il canale. L’Egitto vieta ad Israele la navigazione nel canale di Suez – quindi ritornò ad essere una questione tra Egitto e Israele sarà così per molti anni – e nel golfo di Aqaba, all’ingresso del Mar Rosso”. Il golfo di Aqaba è un golfo stretto e lungo che sta a sud di Israele, la parte proprio più meridionale ed è l’unico sbocco sul golfo per la città, e quello è un punto strategico, sul golfo di Aqaba, per Israele, perché Aqaba è una città israeliana che rappresenta uno sbocco sul mare del sud. Quindi tutto ritorna ad uno stato pre-bellico dopo quell’ultimatum dell’Unione Sovietica. Per quanto riguarda il terzo conflitto dobbiamo dire ancora qualche cosa, che ci ricorda questo testo: “Dopo la conclusione del conflitto arabo-israeliano del ’56, la tensione fra le due parti non ha accennato a diminuire” abbiamo detto che prima e dopo la situazione tra Israele e gli Stati arabi rimane sempre conflittuale; alla fine della guerra del ’56 comunque non si ha una pace, non è possibile nemmeno parlare di tregue, si ritorna uno stato di conflitto latente, che scoppia ogni tanto, in qualche modo, ma non in termini di guerra di eserciti. Questo accadrà con il terzo conflitto nel 1967. Nel ’67 Nasser è appoggiato dall’Unione Sovietica, qui il libro dice “l’Unione Sovietica arma gli arabi, così come Stati Uniti, Francia e Inghilterra armano gli israeliani. Nasser annuncia il blocco delle navi che attraversando il golfo di Aqaba riforniscono Israele” – vedete quindi che l’azione di Nasser è più mirata contro Israele . “A questo punto, il 5 giugno, Israele assume l’iniziativa militare” – badate bene: è Nasser ad iniziare, a fare la prima mossa, però ripeto queste prime mosse si fanno sempre in una situazione di tensione, non di pace, non di reciproco riconoscimento degli Stati, tra la fine di un conflitto aperto e un altro.

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Studente: Il fatto che gli USA appoggiano Israele e l’URSS appoggia gli arabi nasce da fatto politico o da interessi? Cioè, perché per esempio gli americani appoggiano gli israeliani e non gli arabi? Saviani: Gli Stati Uniti d’America hanno interesse ad avere uno Stato alleato che faccia da zona controllata, da punto di controllo, in quella parte del Medio Oriente. Così come la Corea e il Vietnam saranno delle regioni del mondo in cui gli USA hanno interesse a presidiare o ad avere come Stati alleati che controllino. La decolonizzazione ha portato alcuni Stati a comportarsi in un certo modo e a costruire una serie di alleanze e di rapporti di amicizia con altri popoli che geograficamente rientrano in alcune zone di influenza; alla fine della seconda guerra mondiale ci saranno alcune conferenze dove verranno stabilite le zone geografiche di influenza; il Medio Oriente è un territorio di confine, non fisicamente, tra le zone di influenza delle due superpotenze: Stati Uniti e Unione Sovietica. Qui siamo al ’67: “l’esercito israeliano di Moshè Dayan occupa Gerusalemme, l’Alta Galilea, le Alture del Golan, Gaza, Sharm-el-Sheikh, respinge in Giordania la Cisgiordania e occupa tutto il Sinai”. Con questa guerra dei sei giorni Israele diventa molto più grande: tutto il Sinai, le alture del Golan, che sono confinanti con la Siria, che è un altro degli Stati mediorientali che entrano sempre in coalizione contro Israele, cioè l’Egitto e la Giordania.” Il 10 giugno del ’67, dopo una guerra durata sei giorni, la vittoria di Israele è totale: la guerra dei sei giorni alimenta in modo notevole innanzitutto la tensione tra Unione Sovietica e Stati Uniti, perché la vittoria israeliana modifica in modo radicale i rapporti di forza nel settore – rapporti di forza non intesi tra israeliani ed arabi ma tra americani e russi – perché i territori occupati da Israele sono assai grandi” – i territori in proporzione si raddoppiano rispetto a prima. Gli Stati Uniti sono quelli che armano Israele così come l’Unione Sovietica arma gli arabi ma non c’è mai un conflitto diretto tra le due superpotenze, in tutti gli altri conflitti scoppiati in tutto il mondo durante la famosa guerra fredda non ci fu un intervento diretto. Allora, prendo ancora due testi, per passare all’ultimo dei quattro conflitti che dobbiamo prendere in esame, quello del 1973, detto anche guerra dello Yom Kippur. Chi sono ancora le forze in campo? Sono sempre quelle, naturalmente. Ed è sempre l’Egitto a porsi come Stato-guida di una coalizione di Paesi arabi. Questo libro ci dice: “La disfatta della guerra dei sei giorni – io me la ricordo, fu veramente una disfatta, ne parlarono tutte le televisioni, uno Stato piccolo, nato da nemmeno vent’anni, attaccato per l’ennesima volta da una coalizione di Paesi non solo si difende ma sbaraglia gli eserciti avversari occupando dei territori che prima non gli appartenevano quindi andando ad invadere territori nemici, e tutto questo in sei giorni – ebbe per gli arabi di vasta portata, segnò il declino di Nasser e della sua politica di oltranzismo panarabo – cioè questa politica di organizzazione e fortificazione di una regione panaraba, un tentativo di mantenere ferma non solo una coalizione militare ma persino una sorta di confederazione anche politica ed economica araba, di cui Egitto è lo Stato-guida, questa era la politica di Nasser – e indusse ad un atteggiamento più prudente la Giordania e gli altri Stati moderati della zona”. Arabia Saudita e Giordania sono gli Stati arabi moderati, quelli più aperti, insieme al secondo Arafat, al dialogo e al riconoscimento reciproco tra Israele e gli Stati confinanti. Ci sono invece dei Paesi più oltranzisti, più duri e sono la

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Libia e la Siria e alcune frange dell’OLP. Questa guerra del ’67 determinò “il distacco dei movimenti di resistenza palestinese di origine dell’OLP dalla tutela dei vicini arabi” quindi anche i palestinesi, l’OLP in particolare, si staccò dalla tutela dei Paesi arabi, diventò un’organizzazione indipendente e autonoma. Arafat era già capo di uno di questi movimenti di liberazione palestinesi, Al-Fatah; diventa ora il capo riconosciuto di tutto l’OLP e l’OLP pone le sue basi in Giordania, creandovi una specie di Stato nello Stato. Quindi non tanto, non solo i Palestinesi si trovano in Giordania, ma soprattutto questa organizzazione politica armata che è l’OLP. Il re di Giordania Hussein, esposto alle rappresaglie israeliane a causa degli attentati terroristici dei fedayin, reagì con una sanguinosa prova di forza: nel settembre 1970, il cosiddetto “settembre nero”, mobilitò le sue truppe contro i fedayin e contro i palestinesi che, dopo aver avuto miglia di morti, furono costretti a riparare nel vicino Libano, che ora proprio a causa della presenza dei palestinesi e dei fedayin entra in gioco. Nel 1970 muore Nasser e questo cambia molto la politica dell’Egitto; il suo successore, Sadat, deciso a recuperare il Sinai, preparò accuratamente il confronto con Israele. Nel ’72 c’è la più sanguinosa, famosa strage perpetrata dai fedayin palestinesi contro gli ebrei di Israele: nel ’72 c’erano i giochi olimpici a Monaco e un commando di palestinesi armati si introdusse, non si sa come, nel villaggio olimpico e uccise 11 atleti israeliani nelle stanze dove erano alloggiati. Furono sospese le olimpiadi. Naturalmente fu scelta dai palestinesi proprio quell’occasione per avere una risonanza mondiale. Nell’ottobre del ’73 Sadat, deciso a riprendersi il Sinai occupato militarmente dagli israeliani, attacca il giorno della festa ebraica dello Yom Kippur. Studente: E’ una giornata di pentimento per i peccati da parte di tutta la comunità, un periodo di riflessione generale, un giorno in cui dal tramonto a quello successivo tutta la comunità si rifugia nella cinta muraria per tutto il giorno per cui un attacco a Kippur è un attacco a sorpresa perché è tutto chiuso, sono tutti in casa o in sinagoga. Saviani: Infatti dice il libro “le truppe egiziane attaccarono di sorpresa le linee israeliane dilagando nel Sinai – quindi si riprendono il Sinai – ma Israele riuscì a capovolgere le sorti del conflitto grazie anche a massicci aiuti americani e a respingere gli attaccanti”. “Al momento del cessate il fuoco la guerra del Kippur aveva ottenuto scarsi risultati sul piano territoriale” ebbe pesanti risultati, invece, sul piano politico e psicologico perché il libro ci dice che in quell’occasione “per gli egiziani crollò questo mito dell’invincibilità israeliana. Da un lato quindi gli egiziani poterono sostenere di aver lavato l’onta del ’67, cioè la perdita del Sinai, dall’altro la chiusura del canale di Suez e il blocco petrolifero decretato dagli Stati arabi, contro i Paesi occidentali amici di Israele, diede alla crisi una dimensione globale e rese gli Stati Uniti più sensibili al dialogo con gli arabi”. Questa fu una delle due novità che subentrarono con Sadat al potere in Egitto in questo quarto conflitto con Israele. Prima novità: le conseguenze della guerra non sono eclatanti per quanto riguarda i territori in questione, sono eclatanti per quanto riguarda il resto del mondo: la questione della chiusura del canale di Suez e soprattutto il blocco petrolifero. Dicevamo l’altra volta

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che erano gli anni dell’austerity perché non c’era petrolio; i Paesi arabi adottano questa politica: sanno che, a differenza dell’America, l’Europa e il Giappone non hanno risorse petrolifere. In più gli americani cominciano, anche a causa di questo blocco petrolifero che però non li ha toccati direttamente, a fare una politica più morbida con gli arabi, in questo seguiti da Sadat. Quest’ultimo l’anno dopo, ’74-’75, dà dei segnali contrastanti: manda via i tecnici sovietici che sono lì in Egitto e comincia una serie di aperture filo-occidentali, nel ’77 il presidente egiziano compie il famoso, clamoroso viaggio a Gerusalemme e presenta, personalmente, in un discorso al parlamento israeliano, la sua offerta di pace. Questo gli varrà il premio Nobel per la pace. Sadat comincia a fare una serie di aperture perché si accorge che questa politica oltranzista non ha avuto buon esito, non ha dato buoni frutti. Anzi, hanno perso due guerre e sono costretti ad una politica di riarmo molto gravosa; Sadat capisce che è più opportuno cambiare strategia in politica estera, manda via i sovietici e comincia a guardare più verso occidente. Partecipa, con la mediazione del presidente americano Jimmy Carter, agli accordi di Camp David nel settembre ’78. C’è quindi l’incontro tra Sadat e il primo ministro israeliano Menachem Begin: l’Egitto ottenne la restituzione del Sinai e firmò un trattato di pace con Israele, marzo ’79. Una pace che ha rappresentato un evento storico ed è sopravvissuta anche alla morte del presidente Sadat che, non a caso, viene ucciso nell’ ’81 in un attentato di integralisti islamici, durante una cerimonia pubblica mentre era sul palco delle autorità. Gli accordi di Camp David prevedevano ulteriori negoziati per un regolamento totale nella regione e per la soluzione del problema dei profughi palestinesi ma questi negoziati non furono nemmeno avviati. L’ostacolo principale viene in un primo tempo dall’opposizione degli Stati arabi e dell’OLP che hanno denunciato il tradimento dell’Egitto e rifiutato ogni trattativa con il nemico storico. Quindi da una parte questi stessi trattati di pace non vanno avanti come avrebbero dovuto perché c’è questa opposizione interna dell’OLP e degli Stati arabi che denunciano il tradimento. Effettivamente, come abbiamo detto prima, agli inizi degli anni ’80 gli Stati arabi moderati, in particolare Giordania e Arabia Saudita, e la stessa dirigenza dell’OLP assumono una posizione più morbida mentre Siria, Libia e frange più estremiste delle organizzazioni palestinesi, fondano il “fronte del rifiuto”, cioè rifiuto di riconoscere Israele, riconoscere gli accordi di Camp David e rifiuto anche di procedere oltre su quella strada. Queste frange estremiste ancora oggi sono sempre in azione, soprattutto quando pare che si stia per raggiungere un qualche accordo. Non riconoscono più Arafat ma da tempo non riconoscono più nemmeno l’OLP. E qui entra in gioco l’integralismo, non sono posizioni che si possono scindere da un’interpretazione religiosa dei fatti, i famosi Hezbollah ecc., vedremo almeno quattro sigle diverse di organizzazioni palestinesi che continuamente boicottano i processi di pace. Siamo ormai agli anni ’80: dopo Camp David, l’Egitto si è sganciato, ormai ci sono degli Stati “morbidi” arabi, Giordania e Arabia Saudita, il “fronte del rifiuto” Libia, Gheddafi, la Siria e frange oltranziste palestinesi. Nell’ ’87 i Palestinesi nei territori occupati, Cisgiordania e Striscia di Gaza, hanno dato vita ad una lunga e diffusa rivolta detta “intifada”, in arabo “risveglio”, contro gli occupanti che hanno reagito con una dura repressione. In Cisgiordania, che è

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una regione di Israele confinante con la Giordania, ci sono molti profughi palestinesi e lì ha inizio la prima intifada alla fine dell’ ’87, di indiscutibile carattere popolare dato che sono le stesse madri a spingere i ragazzi a lanciare le pietre contro gli occupanti. Nell’ ’82, invece, in Libano ormai ha preso quartier generale l’OLP, non più in Giordania quindi. E dal Libano ora partono iniziative di guerriglia e attentati palestinesi. Nell’ ’82 l’esercito israeliano invade il Paese e ci sono due stragi in due villaggi. Sono precedute da un’altra strage, nel ’76, al villaggio profughi palestinese di Tell al-Zatar, nome e data che dobbiamo ricordare perché insieme a Deir Yassin nel ’48, rappresentano le pagine più nere della Storia di questo conflitto. Nell’ ’82 ci sono due massacri, quelli di Sabra e Chatyla dove agì direttamente l’esercito israeliano. Leggiamo ora un altro testo. “Nell’ ’88-’89 si sono prodotti importanti nuovi sviluppi: per un verso il Libano ha continuato a disgregarsi”, negli anni ’80 il Libano fu un po’ come la Jugoslavia negli anni ’90, guerra interna, era uno Stato pluriconfessionale, c’erano cristiani, palestinesi, ebrei, cristiani ortodossi, e c’erano guerre interne anche tra le diverse fazioni interne alle singole confessioni, c’era una situazione conflittuale permanente”, – infatti entrò nel linguaggio corrente l’espressione “è una situazione libanese” oppure “sembra un Libano”, perché lì letteralmente non si capiva da dove partivano le prima mosse, quali erano le motivazioni, le alleanze che continuamente cambiavano, - finché abbiamo visto che nell’ ’82 Israele invade il Libano che, per molti anni, sarà territorio di guerra, le immagini del Libano dell’epoca erano solo grattacieli a pezzi, palazzi, anche belli, moderni, distrutti, tra l’altro il Libano era il rifugio di molti facoltosi europei. Nell’ ’88 Arafat, leader dell’OLP, proclama uno Stato palestinese e fonda un “governo in esilio” assumendo una linea più moderata verso Israele, di cui ha finalmente riconosciuto l’esistenza. Le altre organizzazioni palestinesi invece continuano la loro lotta contro l’Egitto e continuano a non riconoscere il diritto all’esistenza di Israele e sono appoggiati da Siria e Libia, il cosiddetto “fronte del rifiuto”. Nel 1991 Libano e Siria firmano un trattato: in sostanza in Libano torna la pace ma sul Libano si esercita di fatto una forte egemonia siriana. Poi c’è la conferenza internazionale di pace in Medio Oriente dove si nutrono molte speranze di soluzioni pacifiche nelle relazioni tra Paesi arabi e Israele – ormai quando si dice Paesi arabi non si deve più intendere anche l’Egitto perché ha risolto la sua posizione dopo la guerra del ’73. Nel ’92 in Israele vincono le elezioni i laburisti, che portano al potere Isaac Rabin. Queste speranze non vengono deluse infatti nel ’93 si ha il reciproco riconoscimento di Israele e dell’OLP, ormai non più terroristica, (si è affrancata dal suo passato, ma come organizzazione riconosciuta dall’ONU e da Israele che ha a capo Arafat il quale ha fondato un suo Stato palestinese “in esilio”). Prima di Rabin c’era Isaac Shamir, capo della fazione delle “aquile” cioè l’ala dura e intransigente, mentre Isaac Rabin era il capo delle colombe, cioè dei più moderati, meno intransigenti e aperti a un dialogo. E vince Rabin contro Shamir. Nel ’94 c’è il ritiro dell’esercito israeliano dalla Striscia di Gaza e da Gerico, in Cisgiordania, e in queste località si installano le autorità di autogoverno palestinese

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presiedute da Arafat. Diventano praticamente i territori palestinesi autogovernati dai palestinesi, confinanti ma differenti dai territori occupati dagli israeliani dove ci sono i palestinesi che non sono andati via, che non hanno abbandonato quei luoghi. Nel ’95, mentre gli estremisti palestinesi hanno proclamato Arafat “nemico del popolo” e scatenano un’ondata di violenza – quindi Arafat ha anche dei problemi con i suoi, con i palestinesi che non lo riconoscono e non riconoscono la sua soluzione – dall’altra parte gli estremisti israeliani uccidono, nell’ottobre, il primo ministro Rabin per punirlo del tradimento perpetrato e per aver iniziato trattative di pace con gli arabi. Quindi vedete un po’, specularmente, è la situazione che si è verificata per quanto riguarda Sadat e gli egiziani: gli integralisti islamici lo puniscono per la sua via pacifica nei confronti di Israele, Isaac Rabin invece, il capo delle colombe, capo laburista israeliano, viene punito degli integralisti ebrei per il tradimento, per aver ceduto anche dei territori ad Arafat. Questo è quanto, per il momento, noi dobbiamo ricordare.

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Massimiliano Borelli (5L), Giacomo Capaldi (5B), Stefano Filippo Castiglia (4B),

Tommaso Pio Cerulli Irelli (4D), Silvia Crupano (4D), Jessica Ferretti (4D),

Silvia Giacomini (5M), Simone Liuzzi (4H), Sarah Maltoni (5L), Paolo Manfré (5L),

Francesca Neri (5L), Ginestra Odovaine (3G), Marta Osnaghi (2D),

Giulia Riva (3N), Tommaso Sanna (5L), Stefano Toppi(4D), Ramacandra Wong (2N)

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Prof. Lucio Saviani e Prof. Ciro Sbailò

6 Febbraio 2001

Saviani : Sapete che oggi è una giornata molto particolare: in Israele si vota e il più probabile vincitore delle elezioni è Sharon. Sapete che oggi è anche la giornata della collera indetta dai Palestinesi Oggi il nostro ospite è il prof. Ciro Sbailò, docente dell’Avogadro ma anche all’Università di Malta e alla Libera Università San Pio V; è anche giornalista, quindi ci sarà prezioso, oggi, avendo noi portato la rassegna stampa e ci farà vedere le cose anche da un punto di vista “professionale”, cioè come la stampa riporta gli avvenimenti. Il prof. Ciro Sbailò è un filosofo, ha pubblicato recentissimamente un bellissimo libro che si chiama “Politica e verità” che vi consiglio perché vi farà considerare delle questioni legate alla nostra attualità da un punto di vista che vi potrà sembrare un po’ bizzarro: parte da Platone, quindi vi toccherà rivedere tutto Platone, e dove vedrete che a un certo punto si parla di realtà virtuale. Tuttavia tutte queste questioni ci riportano in gran parte a Platone. Quindi mi sento di consigliarvi questo libro anche perché ormai sono quasi vent’anni che io e lui ci conosciamo e abbiamo anche avuto dei maestri, almeno uno, anche se in anni diversi, in comune: Massimo Cacciari. Quindi ora gli lascio la parola. So che oggi ci parlerà di antisemitismo, è una questione che abbiamo toccato, ma un po’ marginalmente, quando abbiamo parlato del Sionismo. Vedrete che antisionismo e antisemitismo non sono sempre la stessa cosa. Sbailò: Tempo permettendo… Saviani: Poi, la prossima volta farà un discorso molto interessante su Italia e Israele, sulla politica italiana negli ultimi decenni nei confronti di Israele e nei confronti dei palestinesi. Quindi vedremo molte cose che ci faranno capire ancora meglio e più da vicino la questione di cui stiamo parlando. Ora gli lascio la parola. Naturalmente, il prof. Sbailò sa che questo è un laboratorio quindi potete intervenire quando volete. Sbailò: Se dobbiamo fare un laboratorio allora è anche bene approfittare dell’occasione per chiarire alcune cose immediatamente riguardo al sistema elettorale israeliano e al sistema di governo, cioè la ragione per la quale si è arrivati a questo scontro diretto tra Sharon e Barak. Prima non c’erano scontri diretti, lo scontro era più mediato dalle organizzazioni politiche. Allora, Israele non possiede una costituzione scritta, questo sul modello anglosassone; ricordiamo che la Storia costituzionale israeliana è figlia in parte di quella anglosassone. Non possiede una costituzione scritta ma possiede una serie di norme che danno vita a un sistema costituzionale, poiché un sistema può dirsi costituzionale non soltanto quando c’è una costituzione scritta, ovvero una “legge fondamentale” da tutti riconosciuta e accettata indipendentemente, ma anche quando c’è una costituzione riconosciuta come tale, cioè ci sono una serie di norme e di princìpi che valgono come tali. Voi prendete per esempio

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l’Inghilterra: è sicuramente un sistema costituzionale ma non ha un testo scritto; quindi “sistema costituzionale”, cioè significa un sistema nel quale esiste la separazione e l’equilibrio tra i poteri. Il sistema elettorale in Israele è un sistema fondato sui partiti ed è un sistema proporzionale con un ruolo fondamentale svolto dalla sinistra israeliana nella prima fase di politicizzazione della società israeliana e successivamente poi dalla destra, centro-destra, come vogliamo chiamarlo, israeliano e si è creato questa sorta di bipolarismo. Nel sistema elettorale puro il primo ministro precedentemente era nominato dall’assemblea, questo perché essendo un sistema fondato su un bi-partitismo più o meno non perfetto, sicuramente non perfetto, ma che grosso modo sembrava funzionare, allora il capo dell’esecutivo, che tuttavia non ha grandissimi poteri, veniva nominato dall’assemblea, dal Parlamento. Cos’è successo nel frattempo? E’ successo nel frattempo che, soprattutto dopo il crollo del comunismo, sono arrivati in Israele moltissimi ebrei provenienti da altre regioni dell’Europa orientale, regioni che prima erano sotto il dominio comunista, Russia soprattutto; addirittura in una certa fase, il governo israeliano si è dovuto preoccupare di dover evitare infiltrazioni di persone che arrivavano in Israele insieme agli ebrei russi per poi utilizzare questo come piattaforma migratoria verso altri paesi. C’è stato addirittura questo problema, di russi che si univano ai gruppi di ebrei. Questo ha provocato un moltiplicarsi dei soggetti politici israeliani, soggetti diciamo, naturalmente voi conoscete immagino, la differenza: c’è il gruppo askenazita e quello sefardita: gli askenaziti sono quelli dell’Europa orientale, Germania, eccetera, dal nome tedesco che indica quella zona, i sefarditi dal nome della penisola iberica, grosso modo gli ebrei della penisola iberica, ma poi comprendendo tutta l’area, tutto il bacino d’influenza del dominio iberico, cioè anche parte del nord-Africa, no? Per farvi un esempio, Baruch Spinoza, filosofo che voi tutti conoscete, era un ebreo sefardita; Isaac Singer, scrittore che voi, credo, conosciate, è un ebreo askenazita, così come Albert Einstein. Allora si sono moltiplicati i partiti in Israele; essendosi moltiplicati i partiti, è successo che il sistema politico stava cominciando a collassare, perché quando si moltiplicano i partiti, è più difficile governare, soprattutto poi con un presidente di nomina parlamentare; quindi c’era una crisi di governabilità in Israele e quindi è stato adottato il sistema presidenziale: cioè il presidente, il capo del governo, il capo dell’esecutivo, viene eletto dal voto popolare. Però con una scadenza diversa rispetto al Parlamento: un anno in più, cinque invece di quattro; cioè c’è questo slittamento che serve appunto proprio per dare…Perché si elegge il presidente della repubblica popolare? Per far sì che i consensi confluiscano su due, tre personalità al massimo e quindi si determina poi una sorta di bipolarizzazione del sistema e quindi il sistema è più governabile; quindi i partiti sono molti ma, grosso modo, le coalizioni sono due. Insomma, un po’ come quello che s’è cercato di fare in Italia; questo ha provocato una personalizzazione dello scontro politico che già è stato presente per esempio con Nethanyau. Una personalizzazione dello scontro politico che prima non c’era in Israele; c’è stata proprio una contrapposizione di leadership, cioè anche prima c’era, ma adesso si è istituzionalizzata. Ecco perché adesso il problema è che Barak è descritto come perdente; attualmente però c’è Sharon che sta vincendo e che è considerato

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“falco”, mentre Barak è considerato “colomba” tenendo presente una cosa: che, come mi è stato autorevolmente ricordato, la pace in Israele l’hanno fatta sempre i falchi, mai le colombe; cioè Begìn, per dirne uno. Perché? Voi avete la cronologia davanti: quand’è che Israele riesce a intavolare la pace? Quando ha sistemato le questioni dal punto di vista dell’ordine pubblico e della sicurezza dei confini, altrimenti non può intavolare un processo di pace. Questo per un fatto elementare che è legato alla nascita stessa dello stato israeliano, che è uno stato che nasce sul problema della delimitazione dei confini e del controllo dell’ordine pubblico all’interno. Ecco perché si dice che Sharon potrebbe fare la pace in Israele, cosa che magari Barak non potrebbe fare. Sharon, oltretutto, questa è la carta che si sta giocando, in questo momento voi avrete visto che Sharon è dato per vincente, ma al tempo stesso cerca di mantenere un atteggiamento abbastanza cauto, da “colomba”: perché? Perché Sharon spera di fare un governo di coalizione con il suo avversario. E perché spera di fare un governo di coalizione con il suo avversario, lui che è una tigre, un bulldozer? Perché, intanto, se vuole fare la pace ha bisogno del consenso di tutti, ha bisogno di unire il paese intorno a un progetto di pace, un progetto, ovviamente, basato sulla capacità militare di Sharon; la seconda ragione è che il Parlamento è frammentato, quindi se Sharon vince e ha il Parlamento contro, bisogna andare alle elezioni anticipate e in quella situazione potrebbe ripresentarsi un personaggio come Nethanyau che potrebbe fare ombra a Sharon. Elezioni anticipate però non del capo del governo, ma del parlamento, perché tra poco in Israele sarà votata la sessione di bilancio, cioè la legge finanziaria: quando un parlamento non riesce ad approvare la legge finanziaria, naturalmente si sciolgono le camere. Ecco perché Sharon sta mantenendo un atteggiamento cauto. Questa introduzione non era prevista però siccome oggi si vota, io voglio che voi usciate di qui con gli strumenti per capire quello che succede, per non cadere nelle banalizzazioni dei titoli dei telegiornali che sono fatali. Questo riguarda tutti i parlamenti; se un parlamento non approva la sessione di bilancio…cos’è la sessione di bilancio? E’ quando si tira una riga e si dice: abbiamo speso questo, abbiamo guadagnato questo e perso quest’altro; l’anno prossimo spenderemo questo, quest’altro e quest’altro. E’ il bilancio dello stato, no? Se non si riesce ad approvare il bilancio, bisogna sciogliere le camere, cioè si va alle elezioni di nuovo e allora Sharon teme che una nuova campagna elettorale lo possa indebolire. Questo per capire certe dinamiche interne. Vado avanti. Noi siamo partiti dalle elezioni israeliane: io voglio tenere ancora presente questo tema e voglio partire, siccome sono convinto che nel particolare ci sia l’universale e in ogni giorno, in ogni attimo della giornata, è possibile rintracciare una scintilla del senso universale delle cose, in senso fortemente cusaniano, da alcune cose che dice Gad Lerner sul Corriere della Sera di oggi. Gad Lerner è uno dei più importanti giornalisti italiani, è ebreo; è stato direttore del TG1 per un certo periodo, poi s’è dimesso in seguito ad una polemica. E’ di Milano, il cognome Lerner credo che sia di origine germanica, però non sono sicuro. Dunque, comincia con una cosa interessante: dice che siccome c’ è il conflitto sul recinto delle moschee, che poi sarebbe un luogo sacro, anche per gli ebrei, perché è il luogo dove ci fu il mancato sacrificio di Isacco, dove Maometto poi pregò

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prima di ascendere, è stato proposto dagli americani praticamente, di affidarlo alla sovranità divina: pragmatismo mistico americano! E Gad Lerner spiega perché in questo momento Barak è in difficoltà persino nei confronti del suo elettorato tradizionale; la ragione è questa: che mentre precedentemente era stato possibile instaurare un dialogo con gli arabi, questa volta all’offerta di fondare lo stato palestinese con un pezzo di Gerusalemme capitale, la controparte araba ha risposto picche. Ma come? Il temerario Barak vi offre la possibilità di fondare questo stato e voi alzate la bandiera verde dell’Islam? Allora è vero che siamo nemici mortali. Il nemico palestinese restituisce l’identità comune ad Israele che l’ aveva perduta. Allora, segnatevi bene questo passaggio e adesso apriamo una parentesi, una parentesi che fa vedere perché la questione israeliana è una questione nodale nella storia dell’Occidente: perché voi sapete che cos’è la globalizzazione, il processo di deterritorializzazione, no? Avete mai sentito parlare di questo? Cioè la politica si deterritorializza, si spiritualizza, diventa puro spirito appunto e le stesse guerre diventano operazioni virtuali, quasi. Bene, allora: nell’età della deterritorializzazione, nell’età della spiritualizzazione dei conflitti, nell’età della virtualizzazione di ogni confronto bellico, per cui tutto ormai si risolve…i confini,…lo stato-nazione non c’è più, sta scomparendo, i conflitti sono conflitti deterritorializzati perché le grandi aziende sono ormai a livello trans-nazionale, le giurisdizioni nazionali non ci sono più e si stanno dissolvendo di fronte a questo processo di globalizzazione. Insomma, in quest’epoca di spiritualizzazione, cioè di rarefazione, di intellettualizzazione dei conflitti, abbiamo i seguenti fenomeni: per vincere una guerra, occorre occupare materialmente, con gli “scarponi”, il suolo dell’avversario, se no non si vince: né da mare, né da cielo; questo ce lo hanno insegnato l’esperienza dell’Iraq e della Bosnia. Oggi, nell’età della migrazione totale, in tutti i paesi, compresa questa nascente nazione che è l’Europa unita, stanno rafforzando le politiche di difesa territoriale, aumentano le spese per le operazioni di polizia ai confini territoriali, aumentano gli stanziamenti militari per le operazioni di terra, truppe da sbarco, cioè operazioni di terra, non guerre…; in questa, che doveva essere la fase, della spiritualizzazione di tutti i conflitti, stanno aumentando le preoccupazioni sulle questioni terrestri, il controllo del suolo, e la maggior parte dei conflitti in atto, sono conflitti di carattere territoriale; e il conflitto per eccellenza attualmente in atto, riguarda alcuni metri quadrati di terra e il controllo su alcuni suoli dove ci sono delle tombe, dei muri, delle mura sepolte, tombe sepolte… Questo ve lo dico perché è vero che c’è la globalizzazione, ma è pur vero che ci sono questioni che riguardano la “terrestrità” dell’uomo, questioni assolutamente ineludibili, e quindi non c’è da scandalizzarsi, da meravigliarsi, per quello che sta accadendo in Israele. Noi ci meravigliamo, ci scandalizziamo, perché pensiamo che il progresso coincida con la spiritualizzazione dei conflitti. Questa è una visione un po’ gnostica; purtroppo la terrestrità non si può dissolvere. Saviani: Come l’uranio impoverito. Sbailò: Come l’uranio impoverito. Quindi non si può dissolvere questo problema. Perciò non ci dobbiamo meravigliare di quello che succede in Israele. Chiusa parentesi, ma questa segnatevela bene perché la riprenderemo poi. Allora, vi ricordate quella cosa che ha detto Lerner? Bene, adesso vi racconto un’altra cosa:

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nel 1840, in Francia, un gruppo di intellettuali ebrei, decise di fare questa proposta: perché non eliminiamo dal vocabolario la parola ‘ebreo’? Noi che siamo così ben integrati, ormai siamo il fior fiore della società francese, della scienza, siamo già in epoca positivistica ormai, siamo lì. E lasciamo l’aggettivo ‘israelita’; noi siamo francesi, cittadini francesi, di fede mosaica; il termine ‘ebreo’ indica una diversità etnica, un’appartenenza culturale, tradizionale, religiosa, che suona un po’ pesante, no? Viviamo in una società che ha bisogno di fluidificare tutto, questo termine “ebreo” è un po’ una striatura sul processo, diciamo così, di fluidificazione; rappresenta un residuo un po’ antipatico, ecco: quindi eliminiamolo. Insomma, fecero questa proposta; a un certo punto, siamo sempre nella seconda metà dell’Ottocento, arriviamo a delle crisi gravi nell’ambito -qui dopo ne riparleremo- nell’Europa orientale, dove gli ebrei si erano trasferiti dopo le persecuzioni subite nell’età moderna in Europa e dove si erano formate delle importantissime comunità. Questi ebrei arrivarono in Francia e non avevano l’abbigliamento dei loro, come dire, non correligionari ma fratelli, perché l’appartenenza non è determinata dall’adesione alla fede religiosa nel caso degli ebrei, ma l’appartenenza a una storia, a una memoria; erano vestiti un po’ meno bene: diciamo così con questi pellicciotti addosso, i colbacchi, poi parlavano yiddish: l’yiddish è una lingua, non un dialetto, che è scritta in caratteri ebraici ma ha una grammatica di tipo tedesco ed è la lingua dei grandi scrittori dell’Europa orientale: Singer per esempio. E’ una commistione di varie lingue: tedesco, polacco, russo, ebraico ovviamente. L’yiddish è una lingua mobile e interessante: infatti per esempio, c’era Kafka che voleva studiarlo, imparare l’yiddish e c’è tutta una tradizione yiddish naturalmente, Singer è il più gran nome ma c’è tutta la tradizione, diciamo così, ebraico-orientale, anche della tradizione chassidica, quella rappresentata da uomini come Martin Buber, per esempio. Saviani: Ortodossi? Sbailò: Si, diciamo ebrei ortodossi, però io sto un po’ attento perché oggi ‘ortodosso’ significa una cosa, allora significava un’altra cosa, capisci? Oggi ‘ortodosso’ significa opporsi alla laicizzazione, allora l’ortodosso era il depositario di una memoria storica che consentiva poi anche l’adeguamento, il confronto, il dialogo. Comunque, arrivano questi ebrei dall’Oriente e si crea, come dire, un certo imbarazzo in una parte della società ebraica francese più evoluta rispetto a questi ebrei che rappresentavano un po’ quello che si voleva dimenticare, si voleva rimuovere. Non necessariamente la religione è adesione fideistica, perché io non parlo come ebreo nel senso che non lo sono, però ho sempre frequentato, spesso sono stato presso comunità ebraiche, e l’esperienza che io ho fatto dell’ebraismo questo io lo trovo appunto compatibilissimo con il cristianesimo insomma, in questo l’espressione di Giovanni Paolo II mi sembra riassumere il senso, ‘dei fratelli maggiori’; cioè non è una questione fideistica, è una questione di appartenenza no? Noi siamo abituati a partire sempre dalla coscienza, e quindi dall’adesione; consideriamo la fede come un atto di consapevole scelta e di rappresentazione di possibilità. Ma lì, nell’ebraismo, c’è una cosa diversa: c’ è l’adesione a un percorso, una storia, una memoria, che è una cosa diversa dalla fede; cioè l’ebreo,

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dice un grande filosofo ebreo, non crede ma ricorda, che è una cosa un po’ diversa; una cosa poi che ha ricordato David Grossman nel testo che forse conoscerete, ‘Vedi alla voce: amore’. Ma penso anche alla “cuginanza ebraica” di cui parla Saul Bellow. Saviani: C’è un bell’articolo di Grossman su La Repubblica di qualche settimana fa. Probabilmente ce l’abbiamo nella rassegna stampa. Sbailò: Avete bisogno di articoli? Io posso farvi avere una rassegna stampa, se vi interessa, su questi temi. Allora, si crea quest’imbarazzo e mette un po’ in crisi questi ebrei che addirittura volevano rimuovere la loro appartenenza. Ecco, adesso io vi leggerò un passo di Alain Finkielkraut che è uno scrittore francese, giovane, ebreo, il quale dice : “Ma a che pro, visto che Hitler imporrà il livellamento con i campi di sterminio?”. Vi ricordate la frase di prima che ha detto Lerner? E io vi leggo questa: “a che pro questa differenziazione, se poi Hitler imporrà il livellamento con i campi di sterminio”? Questa è una provocazione che io vi faccio: cioè la identità, la questione dell’identità del territorio non è un’invenzione degli ebrei, è un prodotto della storia del Novecento; cioè a un certo momento, le differenze scompaiono di fronte al rischio dell’annientamento dell’identità o dell’identità nazionale. Finkielkraut, è anche lui un ebreo giovane, credo che abbia la stessa età di Lerner, quindi è figlio della generazione che ha conosciuto la Shoah. E’ la storia che t’impone a un certo momento la riscoperta, la scoperta dell’identità e l’autodifesa. Non è un’invenzione degli ebrei. Allora, per capire questo, noi dovremo capire un altro fenomeno, il fenomeno fondamentale, io qui io mi permetto di enunciare una mia posizione - poi possiamo discuterne quando volete - e cioè che la Shoah è il fenomeno fondamentale del Novecento, forse di tutto il millennio, cioè il fenomeno nel quale emerge il problema fondamentale, diciamo, dell’uomo occidentale, cioè il suo rapporto con la questione della dignità umana che è incarnata nell’esperienza del Monoteismo. L’ebraismo custodisce questo senso della dignità della persona legata al monoteismo, perciò non è una questione di fede, è una questione di memoria e del problema della dimensione della memoria stessa. Cioè, diciamo che l’antisemitismo è il luogo in cui si rivela una tendenza inquietante della civiltà occidentale, che è la tendenza, appunto, all’annientamento dell’individuabilità, cioè della persona come un insieme di qualità irriducibili, non dissolvibili, terrestri, non assimilabili. Cioè la persona è il residuo ineliminabile di ogni processo di distruzione della memoria, e siccome l’ebraismo custodisce questo senso della memoria della persona, l’antisemitismo è la forma in cui si manifesta propriamente questa tendenza. In questo senso il Papa quando parlava dei ‘fratelli maggiori’, non intendeva fare un complimento, intendeva esprimere un dato concreto, effettivo, di memoria concreta, non di adesione stilistica ad un fatto, ad un evento religioso. Non una suggestione mistica. Con questo voglio dire che la questione è: nulla si comprende, neanche delle elezioni, se non si comprende che cos’è l’antisemitismo, non si comprende neanche la nascita di Israele. Ora, io conosco molti ebrei che sono tiepidi nei confronti di Israele, anzi dicono che io sono sionista, qualcuno di loro mi dà del sionista quando parliamo di questo. Quindi, voglio dire, la questione dell’ebraismo, dell’antisemitismo, non coincidono necessariamente con la

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questione del rapporto con lo stato d’Israele, mi spiego? Cioè si può essere benissimo ebrei ma non necessariamente d’accordo con Israele: c’è addirittura qualche ebreo che nega la legittimità dello stato d’Israele, addirittura questo. Comunque, tornando a noi, la questione dell’antisemitismo come questione epocale; qui vi racconterò un episodio recente: 1987, c’è un crollo della Borsa; un giornale di Milano, che si occupa di finanza, esce con un articolo nel quale fa i nomi di alcuni finanzieri, i quali si sono salvati dal crollo. Indovinate un po’ che cosa avevano in comune questi finanzieri? Erano ebrei. Allora, 104 anni prima, Germania, 1873, stessa identica cosa, stesso articolo. Per non parlare degli articoletti che sono usciti durante il 1929, dopo il crollo di Wall Street; sempre questi nomi: ma…il tizio…si è salvato, no? Senza neanche dire che è ebreo, ma sottintendendo, collegavano, poi il lettore ci arrivava. E così si formava l’idea di questo complotto finanziario giudaico internazionale. Quindi l’antisemitismo ha un grande alleato: l’ ignoranza. Pochissime persone conoscono effettivamente gli ebrei, a parte i grandi nomi: Einstein, Marx, Spinoza, cioè i grandi, ma tutto sommato molti di noi non sanno. Vi faccio un esempio: secondo voi, quanti ebrei ci sono in Italia? Chi non lo sa proprio, può rispondere secondo un’ idea. Io ho fatto un test questa mattina ai miei studenti; allora, uno mi ha risposto 10 milioni, un altro mi ha risposto un quarto della popolazione, un altro massimo un milione, insomma queste più o meno erano le cifre; allora, non sono più di 60.000. Questi sono i dati ufficiali: comunque, adesso i dati che avevano erano 46.000, però adesso sono aumentati…Però, voi direte, che c’entra adesso questo “46.000” ? Sapete perché questo accade? Questo è un retaggio dell’antisemitismo, è un retaggio inconscio dell’antisemitismo, è un retaggio della disinformazione. Saviani: E’ possibile che ci siano altri ebrei che non lo dicono? Sbailò: A questo ci arriviamo. Cosa significa essere ebrei? C’è una bellissima frase di Carlo Rosselli, straordinario, grande uomo, martire della libertà, socialista liberale, scrittore, giornalista, ebreo torinese, il quale diceva: ‘io non vado in sinagoga, non leggo la Toràh, non osservo le prescrizioni, mangio quello che mi pare, ma io sono ebreo’. Però di questo dobbiamo parlare a parte. Tu fai parte della comunità, ti riconosci in qualche modo come dire, aderisci alla tradizione, ma di questo parleremo tra un po’. L’ essere ebreo non si può identificare con una specifica adesione a un qualche cosa, è una memoria appunto, una tradizione e noi abbiamo difficoltà a pensarlo e a comprenderlo questo. Questa è una cosa che spiegava benissimo Walter Benjamin, altro ebreo non osservante, filosofo, che si suicidò al confine tra Francia e Spagna perché stava per essere catturato dai nazisti. Carl Löwith, lo conoscete? Saviani: Freud. Sbailò: Ma io parlavo di quelli che avevano problematizzato la loro adesione all’ebraismo; Hannah Arendt, conoscete Hannah Arendt? Allora… Studente: richiesta di chiarimento sul nesso tra i due crolli della Borsa e l’antisemitismo. Sbailò: Sì, quella cattiva informazione, cioè quel modo di parlare del disastro della Borsa, attribuendone quasi la responsabilità agli ebrei, è un frutto dell’ antisemitismo. Cioè, se io dico: “E’ scoppiato il colera a Milano”,

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poi aggiungo: “E in città infatti c’è il prof. Ciro Sbailò, che è di Napoli e il prof. Lucio Saviani che è di Caserta”, che ho fatto? Studente: Gli untori. Sbailò: Esatto. Cioè, “Epidemia di colera a Milano”, poi sotto: “oggi in città erano presenti il prof. Ciro Sbailò, che è di Napoli e il prof. Saviani, che è di Caserta”. Che ho fatto? Ho posto le premesse perché i milanesi girino casa per casa per prendere i napoletani e buttarli fuori. Quanti ragazzini vengono investiti dalle automobili? Però quando lo fa un albanese diventa un caso nazionale: è il meccanismo della criminalizzazione. Che cos’è l’antisemitismo? Allora, io ogni volta che faccio una lezione su questo argomento, cambio qualcosa, cambio sempre. Perché? Perché l’antisemitismo è complicato da definire. Si dice: ci sono molti antisemitismi; bè, è vero, ci sono molte forme di antisemitismo, ma io voglio capire qual è la forma specifica dell’antisemitismo che fa sì che vi siano molte forme di antisemitismo.Cosa c’è che tiene insieme le varie forme di antisemitismo? Allora, cominciamo col dire subito, e io qui vi lancerò anche delle provocazioni, poi dopo starà a voi raccoglierle o rigettarle: l’antisemitismo non è razzismo. Ci sono forme di razzismo unite all’antisemitismo, per esempio Ku Klux Klan in America negli anni ’20 e le campagne antisemite, ma io direi antiebraiche, finanziate da Ford, quello delle automobili; quello è antisemitismo razzista, ma l’antisemitismo come forma specifica non è razzismo, può essere collegato al razzismo ma non è propriamente razzismo. Innanzi tutto perché non esiste la razza ebraica, a meno che non esista anche la razza…cioè, se esiste la razza napoletana, va bene, allora esiste anche quella ebraica. A quel punto sì, ma esiste un popolo, una tradizione napoletana che si configura anche in tante cose materiali, concrete, anche di gestualità, ma perché c’è un modo di agire, ma non esiste una razza napoletana. Ma il razzismo poi non c’entra, perché il razzista tende a disprezzare l’altro e a ritenerlo inferiore. L’antisemita non necessariamente disprezza l’ebreo e non necessariamente, anzi quasi mai, lo ritiene inferiore. Lo teme, lo odia, ma il timore e l’odio sono una cosa diversa dal disprezzo. E’ un po’ difficile fare del razzismo di quel genere nei confronti di un popolo che ha dato…insomma i nomi li abbiamo già fatti, e potremmo farne ancora, no? Abbiamo dimenticato il campo della musica ma potremmo anche andare lì, l’arte, la pittura! Sì, ci hanno provato ma insomma…In Italia fecero un giornaletto che si chiamava “Difesa della razza” ma non è quello l’antisemitismo. Quindi io ritengo che l’antisemitismo non sia razzismo; può integrarsi col razzismo ma la sua forma specifica non è il razzismo. Non è antisionismo, ovviamente: l’antisionismo non è razzismo e non è neanche antisemitismo evidentemente. Questo però, attenzione, non significa che la questione ebraica può essere separata dalla questione israeliana molto nettamente. Questo è un altro imbroglio; è l’imbroglio che poneva in essere l’Unione Sovietica: l’Unione Sovietica si è sempre proclamata antisionista e contro ogni forma di antisemitismo, tanto è vero che ogni tanto sfoggiava come fiore all’occhiello qualche intellettuale, qualche scienziato ebreo, tranne poi magari qualche altro mandarlo nei campi di lavoro. Però questa è un’ipocrisia; non si possono identificare ma non si possono neanche separare del tutto, perché lo stato d’Israele nasce dopo la Shoah. E questo non si può ignorare,

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non è un dato che possiamo prendere alla leggera. Certo, il progetto sionista nasce prima della Shoah. Ma dopo la Shoah assume un significato radicalmente diverso. Allora mettiamola in questi termini: per rivendicare il loro posto come nazione nell’ambito, diciamo così, della civiltà europea occidentale, in un certo qual modo, pur essendo collocati fuori dell’Europa, ma molto vicini tutto sommato. Questo pone un altro problema, cioè il problema del rapporto tra il concetto di nazione, il concetto di stato e il concetto di popolo, no? Cioè quand’è che nasce il problema di avere uno stato? Quando si deve difendere l’identità, altrimenti non c’è il processo di statualizzazione ma se mai di disgregazione. Ma questo è un problema che toccheremo successivamente. Quindi, l’antisemitismo non è neanche un pregiudizio generalizzato nei confronti degli ebrei: io posso avere pregiudizi verso i romani, verso i marocchini, verso gli zingari, verso i milanesi; o verso gli ebrei, ma sono pregiudizi, non hanno niente a che fare con l’antisemitismo. I pregiudizi che si possono avere contro gli ebrei non necessariamente coincidono con l’antisemitismo. L’antisemitismo è un’altra cosa.Io mi spingo ancora più in là e vi dico che l’antisemitismo si può dare varie giustificazioni: religiose, economiche, razziali; può tentare delle coperture, delle argomentazioni, ma non è nessuna di queste coperture che si dà. C’è stata una lettura in chiave marxistica in passato, in particolare un teorico che si chiamava Leòn, ma comunque vari autori, che identificavano, vedevano la questione ebraica riassumersi nella questione del popolo-classe, cioè gli ebrei sono un popolo-classe. Che cos’è un popolo-classe? E’ una entità politica nella quale la collocazione sul piano dei rapporti di classe si riassume all’interno di rapporti comunitari nati dentro una certa tradizione. Cioè, questa collocazione è determinata da una certa posizione storica, da una certa appartenenza comunitaria; e quindi gli ebrei sarebbero un po’ la contraddizione vivente del processo di unificazione dei mercati, di razionalizzazione dei mercati, di fluidificazione dei mercati, di unificazione, come si dice in linguaggio tecnico, di liberalizzazione dell’istituto contrattuale, cioè tutti possono comprare tutto e tutti possono vendere tutto e tutti possono vendere tutto da tutti, no? Cioè l’idea per la quale non c’è più il feudalesimo, in cui io posso vendere e comprare solo queste cose, un altro si occupa di altre cose, cioè non c’è la libertà contrattuale assoluta. Gli ebrei, diciamo, dentro questo processo di razionalizzazione del mercato avrebbero rappresentato una contraddizione, perché coltivando questa loro identità, sarebbero entrati in contrasto con questo processo e quindi, in qualche modo, hanno un po’ riassunto in sé le contraddizioni di questo processo e sono diventati oggetto di discriminazione. Ma questo può essere un paradigma interessante, che ha avuto varie versioni, però onestamente, non soddisfacente per comprendere cos’è l’antisemitismo. Perché non mi spiego poi perché si determini l’aggregazione, perché si determini l’identificazione di questi soggetti; cioè il difetto di tutte le spiegazioni, di tutti i paradigmi classisti, economicisti, è quello che poi non mi spiegano il senso dell’aggregazione, la ragione per cui si costituisce un soggetto. Che cosa c’è che a un certo punto unifica e fa sì che si determini questo popolo-classe? Allora, quindi non è soddisfacente il paradigma del popolo-classe. Allora, vediamo un po’ a livello fenomenologico come si

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presenta la discriminazione contro gli ebrei: il mercante cristiano del tardo Medioevo che cerca d’incamerare i beni del concorrente ebreo, è antisemita? Ma forse farebbe lo stesso un mercante cattolico con uno protestante nell’età moderna; non c’è una forma specifica in questo caso. Così come, per esempio, quando in URSS viene proibito l’insegnamento della religione ebraica come le altre, è antisemitismo questo? Neanche questo. Ecco allora che noi dobbiamo distinguere bene il problema, dobbiamo capire che cosa c’è di specifico nell’antisemitismo. Io non vi dico che adesso ve lo dirò, ma almeno cominciamo a vedere cosa non è. Cominciamo dai romani. I romani sicuramente non erano antisemiti; siccome erano agricoltori, contadini e guerrieri, avevano una certa diffidenza nei confronti dei popoli mercanti, dei popoli mobili: i Fenici per esempio -neanche dei Greci si fidavano tanto - e gli Ebrei, cioè tutti i popoli che sfuggivano ai loro paradigmi abbastanza, come dire, ‘ruspanti’, no? Loro non avevano dei paradigmi molto raffinati, diffidavano un po’ ma certamente non si può parlare di antisemitismo nei romani. Erano preoccupati certamente del nazionalismo ebraico, per dirla con termini odierni, cioè di questa fedeltà a Israele, alle proprie origini, ma diciamo che i provvedimenti, anche quando c’è la questione dei sacrifici e gli ebrei si ribellano, anche lì è stato dimostrato che non si trattava di una pretesa religiosa dell’imperatore, cioè l’imperatore non voleva imporre agli ebrei il sacrificio agli dei per una questione di religione, ma per una questione politica, cioè per dimostrare che lì c’era l’imperium, in una fase di crisi politica generale. Arriviamo al IV-V secolo: l’antisemitismo neanche qui, non lo vediamo. Cioè abbiamo la persecuzione degli ebrei da parte della Chiesa, una persecuzione che tuttavia non raggiunge mai dimensioni di massa; intanto non ci dimentichiamo che il primo papa è un ebreo, oltre al fondatore del cristianesimo, ma anche il primo papa e tutta la gerarchia ecclesiastica per un lungo periodo continua ad essere ebraica. C’era un po’ un atteggiamento, che vediamo per esempio anche in san Paolo nei confronti degli altri ebrei, di sfida, come a dire: perché vi intestardite a non riconoscere il fatto che ormai il Messia è venuto. Successivamente si afferma il mito dei “deicidi”, cioè l’ebreo deicida, perché avrebbe ucciso il Messia; intanto, come ho già detto, anche Gesù era ebreo e quindi non abbiamo certamente noi il diritto di mettere il naso in una questione loro, giusto? Quindi che c’entra “deicida” ? L’accusa di “deicidio” nasce all’interno della diaspora ebraica, non ha nulla a che fare con l’antisemitismo. E’ un’accusa che non ha senso al di fuori della polemica all’interno della diaspora ebraica. In ogni caso, fondata o meno, non ha nulla a che fare con l’antisemitismo. Qui voglio fare una precisazione anche sui ‘farisei’ . Per voi che cosa indica questa parola? Ecco, se io dico ‘sei un fariseo’, che cosa intendo dire? Intendo dire una persona ipocrita. Benissimo, questa è una balla pazzesca; cioè i veri nemici di Gesù non erano i farisei ma i sadducei, i quali non credevano alla vita dopo la morte, erano praticamente i burocrati del Tempio e sono quelli che, alla fine poi, fanno condannare Gesù. Gesù invece aveva un rapporto amichevole-conflittuale con i farisei, perché si è capito che, grosso modo Lui veniva da quella scuola. Il fariseo invece era colui che contestava l’attaccamento dei sadducei a certe formalità e continuava la tradizione orale, cioè il confronto, l’interpretazione e coltivava anche uno stile di vita molto rigoroso, molto serio. Il

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conflitto tra i farisei e Gesù è il conflitto tra persone che, tutto sommato, hanno un avversario comune, che è il sadduceo. Quindi la parola “fariseo” porta completamente fuori strada; cioè noi vediamo da un lato questi ebrei formalisti e Gesù, invece non è vero perché Gesù con questi ebrei farisei aveva un rapporto di amichevole conflittualità. Quindi questa è un’altra leggenda, per esempio, che poi è scivolata man mano nel nostro inconscio senza che ce siamo resi conto. Torniamo a noi: quindi durante la Chiesa ci sono delle persecuzioni ma la comunità ebraica viene anche a volte protetta. Andiamo all’età carolingia: nell’età carolingia, voi conoscete la tesi di Henry Pirenne, uno storico francofono, non francese, è belga, che formula la seguente tesi: <<Maometto e Carlo Magno>>. Cioè, nell’età carolingia l’Europa, come dire, si chiude, l’impero si contrae, gli spazi si chiudono e quindi c’è una generale riduzione dello spazio politico, civile ed economico. In questo periodo gli ebrei hanno una funzione importantissima, perché hanno mantenuto i contatti col Medio Oriente e comunque mantengono i contatti in genere in Europa; quindi hanno una importantissima funzione per le attività di scambio e di prestito. Saviani: Questa interpretazione di Pirenne è anche l’idea di fondo che soggiace alla mostra di Carlo Magno fatta qui a Roma, sull’Europa, sull’idea e sulla sua nascita; non so se avete visto questa mostra. Sbailò: Tra l’altro gli ebrei hanno avuto una funzione importante per la nascita dell’Europa, perché hanno garantito la circolazione, voi sapete che un corpo senza circolazione muore, no? Gli ebrei hanno garantito la comunicazione all’interno e tra l’interno e l’esterno. Quindi non esiste praticamente persecuzione antiebraica in questa fase. Successivamente, io adesso accelererò un po’, tanto riprenderò la prossima volta, perché voglio dedicare una ventina di minuti a un confronto, alle vostre domande. Quand’è che cominciano a manifestarsi in Occidente i primi sentimenti forti contro gli ebrei? Proprio quando questa funzione di comunicazione non è più garantita, non è più necessaria, cioè quando, dopo i grandi viaggi nel XII secolo, viaggi per terra, stiamo parlando ancora di spostamenti alla Marco Polo, mercanti eccetera, con la nascita dei primi nuclei di quelli che poi saranno gli istituti di credito, viene meno questa funzione di collegamento degli ebrei che, in quanto esterni e al tempo stessi interni alla cristianità, svolgevano un ruolo di interfaccia. Voi sapete che, per esempio, nella lotta con l’Islàm, spesso i cristiani venivano fatti prigionieri e venivano schiavizzati; questi schiavi naturalmente poi venivano riscattati sulla base di una certa somma di denaro. Ed era una delle fonti di reddito della comunità islamica nel bacino dell’Europa. I mercanti ebrei invece avevano più o meno libero accesso sulle sponde anche islamiche, dipende dal periodo ma insomma, c’era per lo più questa possibilità e molte volte i mercanti ebrei venivano in contatto con questi mercati islamici che avevano questi schiavi cristiani, e i mercanti ebrei li riscattavano di tasca propria e li portavano in Europa. Questa è un’altra cosa che non si sa, per esempio, degli ebrei: che hanno salvato, che hanno riscattato parecchi…Va bè, è un aspetto importante ma un po’ secondario rispetto al filo del discorso. Non sono più indispensabili all’economia e a questo punto non servono più per prestare il denaro ai principi, ai potenti, e vengono rinchiusi in un ambito molto ristretto, che è l’ambito del prestito piccolo,

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alla popolazione povera, agli artigiani. Di qui, poi nasce il mito dell’usura, degli ebrei Shylock, il personaggio del “Mercante di Venezia” di Shakespeare.. Perché nasce? Perché, essendo confinati in questo ambito, non avendo la possibilità di acquistare terra, e questo spiega perché poi alla fine il problema della terra ritorna sempre in questa storia, di possedere e di esercitare altre professioni, ed essendo ai cristiani vietato prestare soldi con interesse ed essendo però necessario che qualcuno lo facesse, alla fine tutto poi ricade nell’ambito di competenza degli ebrei. Quindi vengono, come dire, rinchiusi in questo ghetto virtuale che però molto spesso s’identifica con un ghetto reale. Tra l’altro, sapete da dove deriva la parola ‘ghetto’? Moltissime cose non si sanno; ghetto è il luogo dove, a Venezia, si coniavano le monete; c’era il ‘getto’, no? Ghéto, dove si coniava. E siccome nel ghetto c’erano gli ebrei, poi la parola ghetto indica il luogo dove vengono tenuti gli ebrei. Quindi diciamo, abbiamo, poi, le varie escursioni: Inghilterra 1290, Francia 1306-1394, Spagna 1492, Portogallo anche, e poi Regno di Napoli, eccetera eccetera. Quindi abbiamo una situazione di degrado della condizione degli ebrei orientali e uno spostamento verso la Russia, la Polonia, l’Oriente, la Germania orientale, la Prussia. E perché gli ebrei vanno in queste aree? Perché si spostano? I principi, i potenti di quelle aree vogliono che gli ebrei vadano in quelle aree: perché? Vi ricordate com’era lo sviluppo economico intorno al ‘600 di queste aree dell’Europa orientale, della Russia, nel ‘500-‘600? Com’era rispetto all’Europa occidentale? Era molto, molto basso. C’era una situazione di feudalesimo, c’era una situazione che addirittura forse potremmo paragonare all’Europa carolingia, cioè una situazione di chiusura; l’ebreo serviva per far circolare, per rianimare, per mettere in moto. Poi venivano dall’Occidente, quindi rappresentavano un canale di comunicazione con quello; e qui per un certo periodo gli ebrei sono protetti dalle autorità e qui si sviluppa la straordinaria cultura yiddish. Però in questo periodo abbiamo anche, fino al ‘700…e fino al ‘700 la condizione degli ebrei in Europa occidentale sarà misera, mentre invece si svilupperà molto la cultura dell’Europa orientale, la cultura yiddish. Allora, ragazzi, quando per esempio vediamo un ebreo askenazita israeliano o newyorkese, come dire, orgoglioso della propria tradizione, così legato alla propria cultura, bè, dobbiamo capire da dove viene questo; cioè cosa c’è, qual è il retroterra. Il retroterra è nella funzione culturale, politica ed economica, che gli ebrei hanno svolto nell’Europa orientale nell’età moderna, fino al Novecento. E’ da lì che derivano Woody Allen, certe sue battute si capiscono solo se si capisce questo: il suo rapporto con Dio, il suo rapporto col Talmùd, con la madre, perché dietro c’è tutta questa tradizione, questo ruolo enorme che hanno avuto. Il teatro yiddish: qua ci sarebbe da perderci un po’ di tempo…Voi dovreste sapere che Broadway, l’avanspettacolo americano, in parte nasce proprio per opera di attori yiddish, questa è un’altra cosa importante. E allora ecco, bisogna capire il ruolo che hanno svolto. Saviani: Apro una parentesi sullo spettacolo e la musica. Per esempio, l’opera di Robert Zimmermann, sarebbe il nome di Bob Dylan. Sbailò: L’ultimo profeta ebreo del Novecento, patriarca… Saviani: Bob Dylan, quando scrisse la canzone che poi è rimasta nella storia della musica popolare, “Blowing in the wind”, non aveva i soldi per fare il disco;

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glieli prestò un amico ebreo, italiano. Attualmente è uno più illustri studiosi italiani dei media: è Furio Colombo, ebreo italiano che si trovava in America. Sbailò: Si, adesso è direttore dell’Unità, comunque è uno dei massimi giornalisti italiani. Bene, molto interessante, oltretutto non lo sapevo. Allora, cosa succede nell’Europa orientale? In Europa orientale abbiamo un progressivo indebolimento del potere centrale; abbiamo, come dire, una rimonta della borghesia locale nei confronti del potere del sovrano e quindi abbiamo anche qui un indebolimento già visto, come è successo in Europa nel ‘200, nel ‘600, con l’affermarsi della borghesia locale: l’ebreo non serve più. Siamo a metà ‘800, inizio ‘900. Comincia la migrazione di massa dall’Europa orientale verso la Francia, verso la Germania e verso gli U.S.A. perché sono perseguitati intanto con i pogrom, in Europa orientale. Pogrom è una sorta di parola che indica appunto questo movimento popolare che porta a distruggere le case degli ebrei, incendiarle, perseguitarli, ucciderli. Questo deriva dal fatto che venivano intanto diffuse delle voci sul fatto che avvelenavano i pozzi. Per esempio, quando ci fu la peste nera in Europa, nella metà del ‘300 (1348-1350), sapete che si diceva che gli ebrei avevano avvelenato i pozzi. Qualcosa del genere accadeva anche per altre calamità: se c’era la carestia, se il raccolto andava male, se un bambino moriva di una malattia infettiva, qualsiasi cosa succedeva, la polizia zarista poi agiva naturalmente in direzione di un rafforzamento di questi pregiudizi, questo provocava appunto questi fenomeni di persecuzione: l’ebreo era il colpevole per eccellenza. Tutto questo per due ragioni: primo per giustificarsi, ma anche per liberarsi di un soggetto politico ed economico che aveva acquisito una sua autonomia, una sua identità e che adesso ostacolava, secondo loro appunto, l’espansione dei loro stessi affari. Facciamo un esempio concreto per capirci, preso dall’Europa del ‘200- 300, perché le situazioni si somigliano: fino a qualche tempo prima, l’ebreo svolgeva la funzione di cambiavalute, teneva i contatti tra le diverse aree, eccetera; se io sono un mercante e comincio ad avere dei contatti, faccio una mia banca, è chiaro che il mio concorrente ebreo diventa un ostacolo; cioè, mentre prima mi era di aiuto, adesso è diventato mio concorrente e quindi comincio ad accarezzare l’idea di cacciarlo e incamerare i suoi beni e i suoi contatti, la sua credibilità, il suo nome. Questo l’abbiamo ricostruito basandoci sul fatto di questa duplice collocazione dell’ebreo, che è integrato nella cristianità senza essere cristiano, cioè rappresenta una memoria, ma non tutti appunto poi amano avere una memoria. E’ questo è il problema: cioè tu mi stai chiedendo perché l’antisemitismo ed è la questione intorno alla quale stiamo girando. Professor Kamm… Kamm: Volevo dire, non avendo patria non erano protetti da nessuno no? Non è un caso no. Sbailò: Gli ebrei francesi, tedeschi, polacchi, non avevano gli stessi diritti dei francesi, dei tedeschi e dei polacchi. Se si naturalizzavano, se chiedevano la cittadinanza sì, altrimenti restavano comunque ebrei. Kamm: Anche se magari combattevano per quel Paese in cui stavano. Sbailò: Ecco, basti vedere il caso Dreyfuss; era un ufficiale decorato, che si era battuto, ebreo: viene accusato di spionaggio a favore della Germania. Poi dopo si è dimostrato che era completamente falso ma lui stava rischiando di fare una

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brutta fine. E qua arriviamo al punto, alla Shoah: la Shoah livella tutto. Cioè: o eri integrato, disintegrato, outsider, se avevi cambiato religione, non c’entra niente; questo ci fa capire che cosa è l’antisemitismo: l’antisemitismo è una questione che non può essere ridotta né a razzismo, né a puro pregiudizio culturale. Abbiamo l’indebolimento del potere centrale, l’avanzare di una borghesia, diciamo così, aggressiva, nei paesi dell’Europa orientale e quindi il diffondersi di atteggiamenti ostili nei confronti degli ebrei. Tuttavia non abbiamo ancora l’antisemitismo vero e proprio; io qua concludo, poi dopo volevo chiedere alcune cose. L’antisemitismo nella forma specifica in cui noi lo conosciamo, l’antisemitismo nel senso specifico di aggressione alla cultura dell’ebraismo, a ciò che l’ebraismo rappresenta, noi lo vediamo effettivamente esprimersi solamente dopo la sconfitta della Germania nella Grande Guerra, anche se ha le sue radici nel romanticismo politico tedesco, nel mito della Mutter Erde, della “madre Terra”. L’antisemitismo come problema globale, cioè non solo problema culturale, ma religioso e politico, questo antisemitismo, si sviluppa soltanto dopo la sconfitta della Germania nella guerra, cioè si sviluppa dopo il fallimento della costruzione del grande Reich, dopo il fallimento del tentativo tedesco di costruire un grande stato-nazione, di superare il gap con le altre grandi nazioni che avevano costruito il loro impero precedentemente, soprattutto la Francia e l’Inghilterra; nasce dunque col mito del complotto ebraico contro la Germania. E di che cosa vengono accusati gli ebrei da parte dei tedeschi? Vediamo anzitutto cosa confluisce nell’antisemitismo tedesco: la paura dell’alta borghesia per il bolscevismo, e siccome si temeva, si diceva, che gli ebrei erano bolscevichi, questo elemento era utilizzato per costruire argomenti contro gli ebrei. Nel gruppo dirigente bolscevico c’erano molti ebrei: Trotzkij ad esempio. Poi un disagio della sconfitta e quindi la crisi dell’identità e la paura della deterritorializzazione dello spirito tedesco, cioè la paura di diventare una semplice cultura e di perdere l’aggancio al potere, agli equilibri europei e poi veniva sfruttato anche questo elemento dell’odio popolare nei confronti dei capitalisti, guarda caso erano capitalisti ebrei; poi, vediamo che la realtà non era così. E allora: qual è l’accusa fondamentale che una parte della cultura tedesca rivolge nei confronti dell’ebraismo? Udite, udite: questo viene espresso da uno dei più grandi giuristi, personalmente lo ritengo un grandissimo giurista e viene espresso in maniera camuffata, non esplicita, perché era troppo intelligente e aveva troppo pudore per esprimere esplicitamente certe cose, si chiama Carl Schmitt, era un tedesco cattolico, grande giurista, filosofo del diritto, filosofo della politica, politologo, storico; qual è l’accusa che egli fa balenare e che in effetti è la radice vera, o quantomeno il rizoma che può condurci alla radice vera dell’antisemitismo? E’, sentite un po’ il paradosso, il fatto che gli ebrei sono un popolo senza terra, sono il popolo della deterritorializzazione, della perdita delle radici, il popolo dell’affermazione dello spazio liscio, dei grandi commerci internazionali, delle grandi potenze marittime, il popolo che ha causato, che è alla radice di questo processo e la cui cultura è uno degli elementi che ha portato alla fine dello jus publicum europaeum. Il titolo dell’opera è “Il Nomos della Terra”. In altre parole, il popolo che era stato privato della terra, il popolo a cui si tentava di tagliare continuamente le radici, il popolo la cui identità veniva contestata, questo popolo

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era accusato di aver dimenticato la terra in nome della fluidificazione dei rapporti, era il popolo che voleva annientare le identità, il popolo del quale si volevano recidere le radici; cioè abbiamo un processo straordinario, terribile, diabolico, io non esito a definirlo tale, anche perché sto pensando a certe pagine di Meinecke, ‘Il nazismo come opera diabolica’, o a certe pagine del grande Benedetto Croce, pagine dimenticatissime, sull’Anticristo, processo terribile in cui trasformiamo la vittima in nostro carnefice. Trasformiamo il popolo che custodisce la memoria e la cui memoria ci mantiene nell’ambito della civiltà del rispetto della persona, nella fonte della nostra distruzione. E’ una cosa, un’operazione che ha, giustamente come dice Meinecke, del diabolico. E’ la pietra di scandalo, questa è l’interpretazione che io qui lancio, la provocazione. Cioè, nell’immaginario collettivo, gli ebrei venivano accusati di essere immagine dello sradicamento; è vero che l’ebreo è errante radice, è vero che l’ebreo è dislocalizzazione, ma è errante radice come richiamo all’importanza della radice perché la radice è così importante che non può essere fissata in un punto, perché la trascendenza è così importante che non può essere ridotta in una rappresentazione, per questo è errante radice e memoria. E allora ecco che alla base dell’antisemitismo c’è proprio questa avversione profonda, sorda, come dire, al ‘dasein’, all’esserci proprio, dell’ebraismo e al suo costituirsi come errante radice, cioè come una radice che disloca, che ti radica, proprio perché ti tiene lontano dall’affezionarti a qualche cosa di specifico, a un simbolo, a una rappresentazione specifica. Però questo è appunto il senso nostro, greco, anche di civiltà, cioè della parresia, cioè del confronto, del tenersi aperti, no? Allora, abbiamo cominciato col sistema elettorale israeliano e siamo finiti su Carl Schmitt. Qual è il nesso? Il nesso c’ è: infatti abbiamo cominciato con un problema giuridico e abbiamo finito con un giurista. Intanto tengo a sottolineare questo e perché alla base c’ è questo: cioè, perché esiste oggi un problema, una questione, israeliana? Perché c’ è un problema politico-culturale di fondo che riguarda l’intera civiltà. Non possiamo affrontare questi problemi a prescindere da questo contesto. Questo era il senso del mio intervento. Io mi fermo qua e volevo intanto vedere se ci sono domande e poi chiedere al professor Kamm che conosce benissimo la realtà, perché l’ha vissuta personalmente, dei rapporti tra arabi e israeliani e mi ha spesso raccontato come in realtà, i contrasti che ci sono, sono spesso frutto di sovrapposizioni politiche, ma in realtà la possibilità del dialogo sul piano culturale è molto ampia, essendoci stato un periodo di dialogo, soprattutto nel Nord Africa e anche in Israele. E’ così? Kamm: Sono stato in Israele alcuni anni… Sbailò: In un kibbutz, vero? Kamm: Sì, noi eravamo nel nostro kibbutz e avevamo degli arabi che facevano addirittura la guardia armata di notte. Avevamo delle squadre di gente che lavorava da noi con i quali studiavamo la sera, io studiavo lo spagnolo con loro; c’era un ottimo rapporto, per me. Io ero lì alla fine degli anni ’50, inizio anni ’60, poco prima dell’arrivo della migrazione nordafricana degli ebrei, dopo la guerra del ’67: già prima gli ebrei del Nord Africa (Libia, Egitto, Tunisia, eccetera) cominciavano ad affluire in Israele in quegli anni e sono poi stati il nucleo della Destra; la Destra in Israele è nata dopo il ’67: c’ è stato questo esodo massiccio

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degli ebrei ma non solo; tutti gli europei in Nord Africa sono tornati: gli italiani per esempio, che erano in Libia, in Tunisia, eccetera, sono tutti tornati dopo la guerra del ’67. E lì, comunque, in Israele, questo nucleo è stato il nucleo della Destra. Mi ricordo che negli anni in cui c’ero io, gli anni di cui vi dicevo, la Destra era forse il 2-3%, non di più. Sbailò: I laburisti erano di più. Kamm: E anche i partiti religiosi erano veramente irrilevanti come potere; c’era un centro-sinistra abbastanza forte, la Sinistra era abbastanza forte ed erano quasi tutti askenazim, cioè erano quasi tutti provenienti dall’Est, anche gente proveniente dall’Est prima della guerra, quindi gente migrata negli anni ’20, negli anni ’30… Sbailò: E c’era anche un altissimo livello culturale. Kamm: Bè, questo nei kibbutz di sinistra c’è sempre stato. Il teorico era Borofov, un comunista ebreo russo che era il teorico di questa…Quindi chiaramente in tutto il mondo dell’Est la cultura era abbastanza seguita: la gente studiava musica, studiava matematica, anche a livello operaio la gente studiava abbastanza, quindi anche in Israele era la stessa cosa. E gli arabi che lavoravano con noi avevano percepito questa cosa e quindi nel kibbutz c’era una grande apertura verso di loro proprio perché la sinistra si è sempre adoperata per una pace fattiva, poteva fare questa pace. Poi appunto, la Destra, questa è la mia lettura, e i partiti religiosi che l’ hanno appoggiata, hanno sfasciato un po’ tutto. Sbailò: Sì, sì. Però, perché questi nuovi arrivi hanno rafforzato la Destra? E’ questo il punto. Kamm: Perché gli ebrei che erano stati in Nord Africa avevano subìto persecuzioni di ogni genere. Sbailò: Quindi ritorniamo sempre là. Kamm: Per un motivo o per un altro, insomma; c’era sempre qualche buon motivo. E poi naturalmente, quelli che venivano a soffrire della situazione, erano certamente le classi più disagiate. Per esempio, io ero in Libia in quegli anni, ero bambino nel ’45-’47, ci sono stati dei pogrom degli arabi verso gli ebrei, loro nemmeno sapevano che la mia famiglia era ebrea, perché mio nonno materno era stato uno dei creatori della scuola italiana in Libia, erano tutti professionisti, praticamente non c’erano questi problemi con gli altri italiani. Invece erano quelli dei ghetti, gli ebrei locali, ad essere sottoposti a queste persecuzioni e appena hanno potuto, se ne sono andati in Israele. Sbailò: Ma gli ebrei provenienti adesso dalla Russia? Kamm: Questi sono gli ultimi. Sbailò: Sono gli ultimi. Sono poi la grande maggioranza in alcuni quartieri, in alcune aree. Kamm: Certo gli ebrei in Russia erano abbastanza numerosi, veramente milioni di persone, ma molti sono andati in America, in Canada, nei paesi di grande immigrazione e una certa parte è andata in Israele. Anche perché riuscivano ad avere il permesso di uscire solo se andavano in Israele; dovevano pagare un tanto. E’ giusto, secondo me, che pagassero per i loro studi, per quello che lo stato russo aveva pagato per loro, per farli studiare. Questo è stato visto come uno strapotere, invece secondo me è abbastanza giusto: è un’indennità che la Russia pretendeva.

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Tutta questa gente, è chiaro, è gente che ha sofferto in qualche modo: parliamo di quelli del Nord Africa ma anche dei russi; c’è stato sempre un antisemitismo strisciante. Insomma, se noi leggiamo la letteratura dell’Ottocento, vecchi libri di Tolstoj eccetera, tutti i grandi romanzieri dell’Ottocento, troviamo sempre la figura dell’ebreo o ridicolizzata o stigmatizzata; se era ricco era accusato di certe cose, se era povero veniva accusato di altre, quindi…Quello che dicevo prima, un popolo che aveva perso la patria, naturalmente viene considerato debole e, come avviene anche per gli animali…Voglio dire, avrete visto nella trasmissione Superquark un branco di leoni che assaltano un branco di gnù: o aspettano che passi o che si isoli il più piccolo oppure l’animale malato, vecchio. E’ così, no? L’avete visto: questo succede anche tra noi umani, purtroppo. Invece volevo dire un attimo un’altra cosa: le leggi razziali del ’38, queste leggi vergognose, hanno colpito gente che aveva giurato fedeltà all’Italia, che non pensava assolutamente nemmeno a Israele o altro. Per esempio, nella famiglia di mia madre, mio nonno, 1860 Livorno, è stato un pittore di casa Savoia, ha avuto un fratello garibaldino, ha insegnato all’estero, i figli sono cresciuti in Africa, il mio zio maggiore è stato uno dei grandi architetti del periodo del fascismo, quindi ha creato, ha costruito, insieme ad altri la Libia, ha combattuto tra l’altro nella prima guerra mondiale, quando c’ è stata la legge del ’38, da un giorno all’altro, lui era il direttore del Genio Civile in Libia, era un personaggio pubblico, in pratica: è stato degradato, ha perso tutto. Dopo la guerra, chi è riuscito a sopravvivere poi è stato reintegrato, però per esempio mio padre…era un polacco che si era laureato in Chimica in Cecoslovacchia perché in Polonia gli ebrei non potevano andare all’università, poi è venuto a fare Farmacia a Perugia, qui in Italia: era innamorato dell’Italia, ha sposato un’italiana, faceva il farmacista a Roma; con la legge del ’38 l’hanno mandato a casa, in Polonia, a morire insieme a tutta la sua famiglia; solo una sorella si è salvata in Sud America. Voglio dire: mio padre era innamoratissimo dell’Italia; siccome era ebreo straniero, è stato cacciato via: queste storie sono tantissime, c’ è gente che dice che non è vero, che è tutto falso, tutto inventato Sbailò: Sono i revisionisti… Kamm: Continuano a ripetere sempre le solite cose: gli ebrei sono tutti ricchi…io vivo con il mio stipendio di scuola, c’è tanta gente povera, ci sono tanti ebrei poveri, ci sono sempre stati, quindi è una grossa balla. Sbailò: Sì, ma infatti non è un caso che questi argomenti propagandistici vengano spesso utilizzati anche sul piano internazionale; allora perché non si può separare completamente la questione israeliana dal discorso ebraico, anche se vanno distinti? Perché io posso provare molta antipatia per Sharon, posso considerarlo un pericolo pubblico, una bestia, un animale, d’accordo, però non si possono completamente isolare, e non si può comprendere l’una senza comprendere…non si può comprendere la questione israeliana senza comprendere quello che nell’emisfero occidentale, non stiamo parlando di una remota regione dell’Asia, nel cuore della civiltà europea, è accaduto e continua ad accadere. A cicli. Kamm: Bisognerebbe studiare, secondo me, il perché di questa ciclicità. Io, per esempio, quando ero in Israele, stavo benissimo: eravamo lì un gruppo di italiani,

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svizzeri e austriaci, siamo stati inseriti in questo kibbutz, insomma siamo stati benissimo. A un certo punto, noi italiani soprattutto, molti di noi italiani, siamo tornati in Italia, perché abbiamo scoperto, stando lì, che eravamo più italiani che non israeliani. Perché questo? Perché io, per lo meno, avevo amici dalle elementari, medie, ho sempre avuto amici cattolici, non sono stato assolutamente mai chiuso; già la mia famiglia non veniva da un ghetto; comunque non mi sono mai sentito parte di una minoranza, nel modo più assoluto. Ho sposato una cattolica, non abbiamo mai discusso di religione perché eravamo d’accordo che tutto sommato la religione è essenzialmente un fatto intanto personale e intimo e poi, condividendo un po’ la posizione marxista, la religione è una sovrastruttura. Sbailò: L’oppio dei popoli. Tu sai che su questo non sono d’accordo. Kamm: Non è l’oppio dei popoli ma è una sovrastruttura. Sbailò: Bene, grazie al professor Kamm che col suo contributo ci ha permesso di arricchire l’incontro di vita vissuta. Io vorrei sapere, ci sono domande, questioni? Studente: In qualche modo gli ebrei sono sempre stati perseguitati in quanto sono sempre una parte debole all’ interno della società? Sbailò: L’immagine usata dal prof. Kamm è terribilmente convincente e infatti qualcuno dice che l’antisemitismo è la parte bestiale dell’uomo, della civiltà, che lotta per riemergere, riappropriarsi dell’uomo nella sua interezza, in questo caso il popolo debole. L’uomo si dovrebbe distinguere dalla bestia perché non segue l’istinto della soppressione del debole; in questo caso, la parte bestiale, “l’istinto della bestia” come diceva Max Weber, prevale. Saviani: Domande, interventi? Chiudiamo ringraziando di cuore il prof. Sbailò e il prof. Kamm nostro ospite. Bene, come già vi avevo preannunciato, l’incontro di oggi è stato molto particolare rispetto anche al nostro corso in generale. Ci vediamo tutti il 21. Sarà presente anche il nostro arabista, il prof. Cipriano, che ci arricchirà di conoscenze anche per quanto riguarda parole arabe, la politica internazionale araba e gli integralismi.

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Giacomo Capaldi (5B), Stefano Filippo Castiglia (4D), Silvia Crupano (4D),

Jessica Ferretti (4D), Francesca Neri (5L),

Stefano Toppi(4D), Ramacandra Wong (2N)

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Prof. Lucio Saviani

14 Febbraio 2001

Saviani: Oggi parliamo dei profughi palestinesi, vedremo chi sono e qual è la loro storia. Ho portato anche del materiale: uno è la rivista “Limes”, tratta di geopolitica, quindi di confini, spostamenti, politica internazionale, questo numero è interamente dedicato ad un tema: “Israele/Palestina, la terra stretta”, che ci fa ripensare anche al discorso sulla terra che ci ha fatto il prof. Cipriano. A pag. 117 abbiamo un articolo che si chiama: “Atlante geopolitico del conflitto israelo-palestinese. Dal mandato britannico sulla Palestina agli accordi di Oslo, dal piano Peel a quello Clinton. Attraverso le cartine la storia del conflitto arabo-israeliano e delle proposte di pace. La fine del tabù di Gerusalemme”. In una pagina ci sono tre cartine che vanno dal mandato della Gran Bretagna sulla Palestina al piano ONU del ’47, poi c’è un primo piano sui piani ONU del ’49 e del ’67, il piano di pace con l’Egitto, il piano Rabin e il piano Sharon del ’92 e il piano Clinton del 2000/2001 e poi c’è una interessante cartina, “Israele e noi”, che mette a confronto le dimensioni di Israele e Italia. Queste cartine sono accompagnate da delle schede che spiegano a cosa sono dovuti i vari assetti e cosa comportano. Questo lavoro di “Limes”, credo, dovrebbe essere presente nel nostro dossier finale. Oggi parleremo del diritto al ritorno dei profughi palestinesi. E’ un problema la cui soluzione è irrinunciabile. Per quanto riguarda la parola “profugo” dobbiamo capire bene cosa significa e fare una distinzione tra varie parole che spesso usiamo in maniera impropria: che significa “profugo”, che significa “rifugiato”, che significa “esiliato”, che significa “esule”, che significa “emigrante”. Sono parole che vanno analizzate un po’ più da vicino. Io ho portato anche dei documenti e dei racconti presi da Internet, anche per fare da pendant al discorso del popolo e della terra dell’altra volta. Uno si intitola “La Palestina, uno spazio fisico e un luogo della mente” e l’altro, dell’associazione Manitese, “Palestina, la terra negata”. Quest’ultimo dice: “Un solo dato, tanto per cominciare a farsi un’idea della situazione. Il 70% dei palestinesi, più di cinque milioni, sono rifugiati: un terzo di loro vive da 50 anni nei campi profughi di Gaza, Cisgiordania, Libano, Siria, Giordania, gli altri dispersi tra paesi arabi e resto del mondo– quindi già questo primo dato dovrebbe farci riflettere – Più dell’80% abita a meno di 100 chilometri dai suoi luoghi d’origine. Nessuno vuol essere risarcito, tutti vogliono tornare alle loro terre – vedremo anche il discorso del diritto al ritorno che è irrinunciabile – Ma da 50 anni Israele, nonostante la risoluzione 194 dell’ONU che sancisce il diritto al ritorno, emessa nel 1948 e riconfermata ben 110 volte, rifiuta di riaccoglierli. Non solo: l’UNRWA, la sezione speciale dell’Alto Commissariato ONU per i Rifugiati che si occupa dei profughi palestinesi, riceve sempre meno finanziamenti – quindi abbiamo anche quest’altra questione, che il problema sociale è sempre meno visto e meno finanziato – Stati Uniti e Israele vogliono liquidarla, perché la sua semplice esistenza è la testimonianza di una tragedia che i due paesi vorrebbero semplicemente cancellare”. Qui troverete delle frasi e anche dei

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toni che vi sembrano abbastanza schierati, evidentemente dalla parte dei palestinesi, ma alla fine invece ci sarà una sorpresa che ovviamente non vi anticipo. Prendo l’altro documento. Li alternerò, così anche i toni si alterneranno. Questo ci dice: “Al centro della causa palestinese ci sono i profughi palestinesi. La risoluzione totale del conflitto palestinese-israeliano ed il raggiungimento di un accordo di pace globale nel Medio Oriente, significa che, fra i vari problemi, è necessario affrontare e risolvere quello dei profughi palestinesi”. Quindi quello di cui sta parlando non è uno tra i tanti e tanti problemi che affliggono quella parte del Medio Oriente, ma è IL problema. Cioè, risolvere il conflitto significa risolvere il problema dei profughi. Vi ho anche portato un articolo di Grossman, ebreo, che parla del diritto al ritorno dei profughi palestinesi, quindi avremo tre fonti. “Il fallimento nel raggiungimento di una soluzione soddisfacente al problema, costituisce una minaccia costante al raggiungimento di una pace durevole, della stabilità e sicurezza della regione. La forza fisica, le intimidazioni psicologiche, il terrore e la legittima paura per la propria sicurezza, sono le ragioni che stanno dietro l’espulsione e l’esodo dei profughi palestinesi dalla loro terra, la Palestina, nel 1948. Costretti, dopo la catastrofe del 1948, ad accettare l’insostenibile fardello dell’esilio, quasi in un tentativo di negare l’esilio, i profughi palestinesi conservarono le chiavi delle loro vecchie case e gli atti delle loro terre, insieme a qualsiasi documento attestante un legame con le proprietà perse” – vi ricordate il discorso del prof. Cipriano sul possesso della terra e su tutto quello che poteva essere letto in questa chiave? Ecco, qui ritorna. “Restavano aggrappati a questi documenti come se dovessero servire da un momento all’altro. E anche se non servivano, tuttavia erano la prova che i possessori non erano dei nomadi derelitti, ma gente con uno stato sociale e diritti, detentori di case e proprietà. Anche coloro che si erano rifiutati di partire o erano rimasti nelle proprie abitazioni, a rischio della propria vita, alla fine diventarono profughi in patria” – quindi abbiamo già due situazioni diverse quando parliamo dei profughi palestinesi. “Costretti a lasciare i loro villaggi, rimasti completamente disabitati in quanto l’esercito israeliano aveva costretto gli abitanti a trasferirsi in un unico villaggio. Le terre e le proprietà, che avevano lasciato dietro di loro, finirono sotto la supervisione del governo e vennero dichiarate proprietà assenteiste” – vedremo che dietro questa parola c’è una questione importante. “I Palestinesi, come nazione, furono ‘vittimizzati’ nel 1948. In quell’occasione persero molto di più che case e proprietà. Persero una patria. La coscienza palestinese –anche di coloro che non furono espulsi o non fuggirono nel 1948 - è stata travolta, plasmata da questa grande tragedia”; per i palestinesi la catastrofe del ’48 è un momento fondamentale del loro autointerpretarsi come popolo e come nazionalità. “Nel corso degli anni l’UNRWA (the United Nations Relief And Work Agency) ha costantemente rivisto la definizione di profugo palestinese, fino al raggiungimento dell’attuale definizione. Con essa si dichiara che ‘il profugo palestinese è colui che, risiedendo in Palestina da almeno due anni precedenti il conflitto del 1948, ha perso, a causa del conflitto, la casa ed i mezzi di sussistenza, diventando profugo in uno dei paesi in cui l’UNRWA offre accoglienza (Giordania, Libano, Siria, West Bank, Gaza) ” vi ricordate “Settembre Nero”, il massacro dei palestinesi da parte della Giordania, la guerra in Libano, le stragi di Sabra e Chatyla? Questa dunque è la definizione ufficiale di “profugo palestinese”. “Anche se il numero di profughi che rientrano in

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questa categoria è aumentato da 914.000 nel 1950 a oltre tre milioni nel 1995 – quindi significa che a causa del conflitto la maggior parte dei palestinesi sono diventati profughi. Nella definizione si dice che “profugo palestinese è colui che a causa della guerra del ’48 ha perso la casa e i mezzi di sussistenza” ma dire che nel ’95 si è arrivati ad oltre tre milioni significa che questa definizione deve accogliere, inglobare anche altre questioni: non ci sono stati solo i profughi della guerra del ’48 ma anche quelli delle guerre dopo, che sono stati a suo tempo scacciati e che ora Israele rifiuta di riaccogliere. Oltre ai tre milioni del ’95, “esistevano alcuni gruppi di esuli palestinesi che non rientravano nella definizione dell’UNRWA”. Quindi alcuni gruppi di esuli non rientravano in questa definizione, bisognava risiedere in Palestina dal ’46 e avere perso tutto a causa della guerra, allora erano profughi e venivano ospitati dalla Siria, dal Libano, dalla Giordania, ecc. Studente: I profughi di oggi sono profughi anch’essi? Saviani: Sì, erano ragazzini quindici anni fa, nella prima Intifada. Per il momento abbiamo la definizione ufficiale che si riferisce alla catastrofe del ’48, quando ottocentomila palestinesi dovettero abbandonare le loro terre; nel ’95 però superano i tre milioni. “Questi ultimi riguardano alcune centinaia di migliaia di Palestinesi di ‘villaggi di frontiera’, sul lato giordano delle linee d’armistizio, che avevano perso i propri mezzi di sussistenza una volta che erano stati tagliati fuori dai campi sul lato israeliano del confine; in situazioni simili si trovarono alcuni abitanti di Gaza, qualche migliaio di beduini tagliati fuori dalle tradizionali aree di pascolo e alcune migliaia di Palestinesi indigenti. Agli inizi degli anni ’50, c’erano oltre 300.000 persone in queste condizioni e che non rientravano nella definizione di profugo dell’UNRWA: venivano chiamati ‘altri rivendicatori’, che l’UNRWA non era in grado di assistere per mancanza di fondi. La guerra del giugno 1967 creò una nuova categoria – circa 800.000 in base ad una stima palestinese, mentre il numero ufficiale dato da Israele era 200.000; questi si trovarono ad essere definiti profughi per la seconda volta, in quanto avevano lasciato la propria casa nel 1948 e, successivamente, la loro residenza temporanea nella striscia di Gaza o nella West Bank” – quindi vengono cacciati di nuovo e questa volta non più dalla loro terra d’origine ma addirittura dal luogo dove erano stati costretti a riparare dopo il ’48. “Si trattava di Palestinesi che, ancora una volta, erano fuggiti, per ragioni di sicurezza, con la speranza di poter tornare, una volta che i bombardamenti e gli spari fossero terminati; altri furono catturati al di fuori del paese allo scoppio della guerra; altri ancora a cui fu impedito il ritorno, perché i documenti di viaggio israeliani erano scaduti prima che avessero avuto la possibilità di rinnovarli” quindi ci sono diverse tecniche per non riconoscere il ritorno. Ora entra in gioco una questione di carattere burocratico: i documenti sono scaduti e quindi non più validi. “D’altra parte, i profughi del 1967 non riescono a capire perché è proibito loro il ritorno alle loro case e terre nella West Bank e a Gaza. Volendo fare uno sforzo di comprensione, il ritorno alle proprie case in Israele da parte dei profughi del 1948 potrebbe essere considerato una minaccia alla maggioranza ebraica e all’equilibrio demografico in Israele, ma non si può comprendere perché Israele si opponga al ritorno dei profughi o rifugiati alle loro case nella West Bank o Gaza, che nessuna influenza ha sull’equilibrio demografico in Israele” quindi anche i motivi che sono stati addotti per non riaccogliere i profughi almeno nei territori fuori di Israele non

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si capiscono. “La Dichiarazione dei Principi firmata fra Israele e l’OLP nel 1993, permette di condurre il dibattito, sul problema dei profughi palestinesi, su due livelli. Dei profughi del 1967 si sta discutendo tra israeliani e giordani. Dei profughi del 1948 si discuterà, presumibilmente, nella fase finale degli incontri fra Palestinesi ed Israeliani” quindi di questo problema, dei profughi, per cui i palestinesi rivendicano il diritto la ritorno e in vista di questo hanno conservato le chiavi e tutti i documenti, se ne parlerà solo nelle battute finali. Certamente alcuni palestinesi che si riconoscono nell’OLP riconoscono lo Stato di Israele e quindi, rinunciando al ritorno dei profughi, ammette l’esistenza degli ebrei ma ammette anche quello che Israele dice e cioè che il ritorno in massa dei profughi altererebbe gli equilibri demografici israeliani e sarebbe molto pericoloso perché non si capisce come, e in poco tempo, i palestinesi, convivendo naturalmente con gli israeliani, possano riconoscere come loro patria quello Stato di Israele che fino a poco prima era un nemico mortale, quindi anche il ritorno dei profughi è una questione abbastanza complicata e anche una volta ritornati i problemi non finirebbero, anzi. Vedremo che gli israeliani sono abbastanza monolitici nella loro posizione politica, al contrario di Arafat. Qui abbiamo una sorta di cronologia molto breve sui vari atteggiamenti che Israele ha assunto nel corso del tempo nei confronti dei profughi palestinesi. “Nel corso della propria storia Israele ha adottato tre approcci, tra essi collegati, al problema dei profughi. Primo, mostrare indecisione e temporeggiare di fronte alla richiesta di risposta alle proposte riguardo il ritorno dei profughi palestinesi, in particolare all’applicazione della risoluzione 194 dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, che richiede che venga concesso il ritorno dei profughi palestinesi alle proprie case ed il pagamento di un compenso a coloro che non vogliono ritornare. Secondo, creare dei casi con gli stessi pretesti che Israele usava per affrontare le pressioni esterne della comunità internazionale e, allo stesso tempo, per annullare qualsiasi decisione che non fosse di suo gradimento” – lo vediamo anche oggi, gli integralisti creano dei casi che possono essere o diplomatici o terroristici o semplicemente provocatori, da una parte e dall’altra, succede sempre qualcosa, ogni qual volta si intravede un barlume di speranza per una pace nei territori, per cui saltano tutte le trattative. “Questa tattica, che ha il medesimo approccio che, sin dal periodo precedente al ’48, il movimento sionista aveva adottato verso il problema palestinese, rimane la caratteristica più durevole della politica israeliana verso i palestinesi” – quindi non tanto prendere tempo quanto creare dei pretesti per cui tutto si sospende. “-Terzo, adottare procedure burocratiche che offuschino, se non complichino, la discussione del problema ed impediscano di fatto la realizzazione di qualsiasi procedimento concordato”. Abbiamo visto, allora, che Israele ha questi tre diversi comportamenti per fronteggiare il pressante problema dei profughi, quindi differire nel tempo la questione, poi far saltare i piani con dei pretesti e adottare procedure burocratiche che complichino la discussione del problema e impediscano di fatto la realizzazione di qualsiasi progetto. “Tre le argomentazioni regolarmente usate da Israele, che vanno a sostegno di queste ragioni. La prima è il problema della sicurezza, abbondantemente usato per giustificare la proibizione del ritorno dei profughi, sia in Israele che nei territori palestinesi” – capite dunque che un attentato, una bomba,

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è funzionale alla parte avversa che sostiene la propria posizione giustificandola con il problema della sicurezza. Vi ricordate la strana situazione della morte dei due soldati israeliani? Un diplomatico italiano disse: “mah, qui, circola questa voce nei corridoi dell’ONU, che in fondo quei due soldati israeliani sono stati mandati dagli stessi israeliani a morire, perché era chiaro che andare là dopo quello che era successo significava farli linciare; però questo poteva servire ad Israele per riacquisire un po’ di benevolenza da parte dell’opinione pubblica dopo che c’era stata l’uccisione di quel bambino palestinese vicino al padre” – vi ricordate le immagini che circolarono continuamente su tutti i mass media. Quindi vedete che il rapporto tra palestinesi e israeliani è pieno di sfaccettature e strane strategie, ci sono molte ombre. “La seconda è il vecchio problema demografico, sempre invocato da Israele per giustificare l’impedimento del ritorno dei profughi palestinesi alle loro case del ’48, col pretesto che ciò costituirebbe una minaccia al carattere ebraico dello stato”. Parentesi, dovremo anche vedere, nell’altro documento, perché comunque è un termine ricorrente che quindi va conosciuto, cosa sono i famosi “territori occupati”. “-La terza argomentazione è di ordine legale, usata da Israele e dai suoi sostenitori per controbattere che il diritto al ritorno in patria, come stipulato nella risoluzione 194 dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, non può essere applicato al caso palestinese. All’infuori dell’offerta fatta da Israele nel 1948, dietro pressione degli Stati Uniti, di accettare 100.000 profughi del 1948, da allora Israele non ha mostrato nessun’altra disponibilità del genere. All’epoca l’offerta fu rifiutata dagli arabi perché ritenuta troppo bassa e di conseguenza fu ritirata da Israele. Per circa cinquant’anni, Israele ha costantemente rifiutato persino di trattare del problema dei profughi del 1948, se non all’interno di una risoluzione generale del conflitto arabo-israeliano, che all’epoca si riteneva essere un obiettivo molto lontano”. Capite? Israele ha rifiutato di trattare il problema in quanto tale, anche se i profughi sono milioni; ha accettato l’ipotesi di prendere in considerazione il problema soltanto però all’interno di una risoluzione globale del conflitto, che però in quel periodo era abbastanza remota, anche qui quindi si trattava di un differire, di un ritardare, di un allontanare, una presa d’atto, almeno una presa d’atto, del problema. “Non deve sorprendere quindi che Israele sia riuscita a collocare il problema dei profughi del ’48 in fondo all’agenda della dichiarazione dei principi, lasciandola alle discussioni finali” – quello che abbiamo detto prima: si sta già discutendo dei profughi del ’67 però di quelli del ’48 se ne parlerà alla fine di tutto; questo è un atteggiamento doppiamente significativo perché mettere questa questione in fondo all’agenda significa, innanzitutto, non riconoscerne l’urgenza e, secondo, non riconoscerne l’importanza, come fosse un’appendice. “Per quanto riguarda i profughi del 1948, il cui destino entrerà nelle discussioni finali, stando all’accordo di Oslo, non esistono segnali che mostrino che Israele si sia preparata al ritorno di alcun profugo del 1948.Esiste un accordo ufficioso secondo il quale, in determinate circostanze, Israele potrebbe concedere il ritorno di un numero di profughi fra i 50.000 ed i 75.000, una percentuale molto ristretta rispetto ai quasi 2,7 milioni di profughi palestinesi registrati dall’UNRWA; una scelta simbolica volta a placare l’opinione pubblica internazionale. Questa, tuttavia, rimane una possibilità remota in quanto la concessione del ritorno ad un numero, pur esiguo, di profughi viene concepita da Israele come un’ammissione di colpa del loro esodo nel

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’48, per il quale Israele è responsabile”; quindi, sostanzialmente, per altre parti, diciamo, più intransigenti della politica interna israeliana, anche questa ipotesi potrebbe essere in sostanza un’ammissione di responsabilità e di colpa: se tu riconosci il diritto al ritorno anche solo a mille persone stai comunque ufficializzando una tua presa d’atto dell’errore che hai fatto in passato. “Alcuni osservatori, per esempio Slomo Gazit, un osservatore israeliano, suggeriscono che, come gesto finale per porre fine al secolare conflitto con i palestinesi, Israele dovrebbe o accettare di rilasciare una dichiarazione, oppure entrare a far parte di un corpo internazionale, come l’Assemblea Generale presso le Nazioni Unite, la quale dovrebbe approvare una risoluzione, sostitutiva della risoluzione 194, che prendesse atto della sofferenza umana dei profughi palestinesi. Tuttavia questo gesto non dovrebbe essere considerato un’ammissione di colpevolezza, avendo solo l’intento di prendere atto dei risvolti psicologici e morali del problema dei profughi” cioè, è una tattica, un escamotage politico e diplomatico: sostanzialmente permette ad Israele di uscire fuori da questo impaccio e di uscirne a testa alta, senza dover per forza dare alla sua decisione un senso di ammissione di colpa. “In altre parole, pur nelle migliori circostanze, la posizione israeliana non può minimamente avvicinarsi a quella palestinese. Israele, alla fine, concederà il ritorno ad alcune migliaia di profughi palestinesi della guerra del 1967, dilazionando l’ingresso in un lungo arco di tempo. L’attenzione di Israele sarà rivolta fondamentalmente ai residenti precedenti al 1967 e non a coloro che erano profughi già dal 1948 e si sono trovati respinti per la seconda volta, in conseguenza della guerra del ’67” – quindi anche qui la posizione di Israele sarà abbastanza vaga: accoglierà solo alcune migliaia di profughi e solo quelli della guerra del ’67, non quelli del ’48, e tra quelli del ’67 non quelli che erano già stati esiliati nel ’48 ma solo quelli che erano residenti da prima del ’67. Concludiamo con questo documento: “Mentre i palestinesi, con l’appoggio di altri governi, continuano a fare riferimento alla Risoluzione 194 dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite, come nel dicembre 1993, gli americani e, da sempre prima di essi, gli israeliani, hanno trattato questa risoluzione come irrilevante nella soluzione del problema dei profughi, all’interno del quadro in cui si stanno svolgendo le discussioni per i lavori di pace. In altre parole, il compito principale è diventato trovare il modo per abbellire, o meglio svilire, la risoluzione 194 allo scopo di svuotarla e quindi eliminarla dai documenti delle Nazioni Unite. La posizione palestinese è stata, fino ad ora, caratterizzata da debolezza politica, economica ed organizzativa, oltre che da mancanza di coordinamento con gli altri governi arabi e dall’assenza di progetti concreti di vasta portata, in grado di assorbire il ritorno dei profughi, che fossero del ’48 o del ’67. Diventa imperativa, quindi, una discussione onesta ed aperta sul problema dei profughi, all’interno delle comunità profughe palestinesi. Questa dovrebbe includere un plebiscito autonomo che stabilisca quanti profughi vogliono realmente esercitare il diritto di rimpatrio e quanti vogliono rimanere dove sono, purché vengano loro assicurati sicurezza ed un trattamento dignitoso nel nuovo contesto in cui si trovano. La Società Nazionale Palestinese dovrebbe, quanto meno, istituire proprie leggi per il rimpatrio e la cittadinanza. Il fallimento di una soluzione soddisfacente al problema dei profughi, è garanzia del protrarsi del conflitto palestinese-israeliano per un altro secolo”.

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Ora sentite cosa dice quest’altro documento, un po’ più ‘narrativo’: “Come possono convivere due popoli per i quali la vittoria è la sconfitta dell’altro, la gloria dell’uno è la gloria dell’altro? Ne sanno qualcosa gli insegnanti dell’unica scuola materna-elementare che da vent’anni accoglie sia bambini palestinesi che israeliani. Si chiama ‘Oasi di pace’ (in ebraico Nevè Shalom, in arabo Waahat as-Salaam) e si trova in territorio israeliano, tra le dolci e brulle colline che dividono Tel Aviv da Gerusalemme. Ma praticare la pace non è facile in questa terra contesa dove tutto è doppio, persino le indicazioni stradali, scritte in arabo e in ebraico oltre che in inglese. Il 15 maggio, nell’Oasi della pace, viene celebrato separatamente, soprattutto per volontà dei genitori palestinesi, che non vedono perché si debba fingere una simmetria in una situazione che è tutto fuorché simmetrica. E poi, sottolineano, noi non abbiamo nessuna indipendenza da festeggiare” – il 15 maggio, lo ricordate, era la data ufficiale della nascita dello Stato di Israele anche se poi di fatto nacque il giorno prima. “Oggi sulla Montagna delle Tentazioni si arriva in funivia, e per vedere quel che resta delle Mura di Gerico si paga il biglietto. Ma per le strade c’è ancora chi viaggia in cammello, e i ragazzini sorvegliano le greggi di capre a dorso d’asino. Eccoli gli insediamenti ebrei, incongrui pezzi di metropoli fortificati e sorvegliati dall’esercito in cima alle colline del deserto roccioso e ondulato che circonda Gerico. Intorno, piccoli accampamenti di tende di juta e baracche di lamiera, qualche capra e qualche asino: è quel che resta della comunità beduina che gli israeliani hanno cacciato con le armi qualche anno fa. Nonostante gli impegni presi a Oslo, gli insediamenti – incentivati dal governo con stipendi maggiorati, sovvenzioni, prezzi delle case bassissimi – continuano ad aumentare, mentre i palestinesi vengono cacciati e le loro case demolite. Gli insediamenti sono 140 e ci vivono 175.000 coloni (più altri 180.000 a Gerusalemme est), collegati da strade sorvegliate che isolano i villaggi arabi. Le due risoluzioni ONU sul ritiro dei coloni dai Territori – la 242 del 1967 e la 338 del 1973 – sono rimaste, come sempre, inascoltate. Il sistema escogitato per rubare la terra è semplice e geniale: grazie alla ‘Absentees Property Law’ (la legge sulle proprietà assenti), il governo può espropriare le terre che non vengono coltivate per un certo numero di anni perché i proprietari sono ‘assenti’ (leggi rifugiati) o perché mancano di acqua e di mezzi, e cederle a un istituto statale che le vende a privati ebrei. In questo modo, al momento dell’accordo finale, previsto nel settembre di quest’anno, Israele avrà buon gioco nel rivendicare come propri buona parte dei territori palestinesi e nell’impedire il ritorno dei cinque milioni di profughi, il 70% del popolo palestinese”. Quindi con questa legge, quando si arriverà in fondo all’agenda e si dovrà trattare del diritto al ritorno dei profughi, ci si ritroverà in una situazione di diritto, cioè, sono territori comprati legalmente dallo Stato israeliano e rivenduti a privati; quindi, dove dovrebbero tornare i profughi se quelle terre sono state vendute, non sono più di loro proprietà? “La libertà di movimento e la situazione economica sono addirittura peggiorate rispetto ai tempi dell’occupazione. Nella cosiddetta ‘zona C’, ancora sotto il controllo israeliano, che comprende il 68% della Cisgiordania e della striscia di Gaza, i palestinesi sono ormai solo il 5% del totale. I palestinesi possono muoversi liberamente solo nelle zone A e B, meno del 30% della loro terra, controllate in tutto o in parte dall’Autorità Nazionale Palestinese. Non possono entrare in Israele, non possono andare dalla Cisgiordania a Gaza, non possono recarsi a Gerusalemme che

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pure è la loro vera capitale, non possono accedere alle strade che collegano gli insediamenti se non hanno appositi permessi, che naturalmente devono pagare, in cui viene specificato il motivo, la destinazione e la durata (a volte solo poche ore) della visita. Le autorità israeliane possono concederli o no senza nessuna spiegazione e anche bloccarli completamente. I militari israeliani possono trattenere per ore ai check point i palestinesi che vogliono passare o rimandarli indietro. Per gli oltre 100.000 arabi che lavorano in Israele – spesso pagati meno del salario minimo legale – questo significa perdere centinaia di giorni di lavoro all’anno e, in molti casi, essere licenziati”. E’ chiaro che questo è un documento esplicitamente schierato, ma, come poi vi ho detto, c’è una sorpresa… “Espropri, demolizioni di case, discriminazioni sistematiche degli arabi che vivono a Gerusalemme est per costringerli ad andarsene. Migliaia di arresti, spesso senza accuse precise né processi. L’ 85% dei detenuti palestinesi viene torturato: privazione del sonno per settimane, scosse elettriche, bruciature di sigaretta. C’è chi viene appeso al soffitto per le caviglie e chi viene picchiato con bastoni elettrificati. Israele è l’unico paese ‘democratico’ in cui la tortura era legale fino al settembre scorso, quando una sentenza dell’Alta Corte di Giustizia l’ha vietata. Ma la destra ha presentato una proposta di legge, firmata da un terzo dei membri del Parlamento, per autorizzarla di nuovo. Difficile che passi, ma solo per timore dell’opinione pubblica internazionale. E dove non arriva Israele provvede, sotto pressione israeliana, l’Autorità Palestinese: arresti di massa, detenzioni senza processo, processi sommari, tortura e pena di morte. Giornali censurati o chiusi, giornalisti imprigionati. Dei 20 intellettuali palestinesi che il novembre scorso hanno firmato un documento di critica al governo, 12 sono stati arrestati e gli altri otto, protetti dall’immunità perché parlamentari, sono stati picchiati o sparati. Chi mi fa quest’elenco di soprusi e atrocità, in un modesto ufficio di Gerusalemme ovest, è una brunetta minuta sui trent’anni. Si chiama Yael Stein, è ebrea e lavora per B’tselem, un’associazione israeliana che difende i diritti umani, che qui vuol dire, di fatto, difendere i palestinesi. ‘Penso che il comportamento di Israele verso di loro sia tra i più ingiusti e rivoltanti della storia umana. Ho cominciato a capirlo verso i vent’anni, quando è scoppiata l’Intifada. Per questo ho deciso di studiare legge e di lavorare qui, i primi anni come volontaria. Ho tanti amici palestinesi’. E israeliani? Esita. ‘Qualcuno che mi sostiene c’è, altri mi criticano ferocemente. Ma non me ne importa’ ”. Un’ultima cosa: “Mutaz Husseini lavora per il Palestinian Agricultural Relief Committee. Nato nell’83 come piccolo gruppo di agronomi volontari, oggi assiste, in 248 villaggi, circa la metà della popolazione rurale palestinese, a cui offre formazione, assistenza tecnica, piccoli crediti, indagini di mercato per individuare i prodotti più vendibili e assistenza nella distribuzione. ‘Gli israeliani, in 30 anni di occupazione, hanno fatto di tutto per ostacolare lo sviluppo palestinese: ci sono ancora villaggi senza acquedotti, elettricità, telefono, per non parlare della scarsità di scuole e ospedali’, racconta Mutaz. ‘E continuano a boicottarci: requisiscono le strade che abbiamo aiutato a costruire, ci vendono pesticidi di pessima qualità, hanno sequestrato il 90% dell’acqua. Hanno la tecnologia per andare a pescare nelle falde idriche più profonde, mentre ai palestinesi non è permesso scavare pozzi di più di 250 metri. Molti villaggi sono costretti a comprare a caro prezzo l’acqua dalle

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autobotti israeliane. In compenso, controllano tutta la nostra economia: non possiamo esportare liberamente perché Israele s’impone come intermediario, ci obbliga a comprare i suoi prodotti a prezzi altissimi e acquista i nostri per pochi soldi, per poi magari rivenderli al doppio sul mercato mondiale come se fossero suoi.’ […] L’emarginazione si misura anche da dettagli minuscoli: una carta telefonica internazionale comprata a Gerusalemme (Israele) funziona da qualsiasi paese del mondo ma non dalla Palestina. Ma quello che impressiona di più è la sistematica negazione dell’altro come soggetto. I più recenti manuali di storia in uso nelle scuole israeliane non accennano neppure all’esistenza dei palestinesi. ‘Un’identità non ne nega un’altra’, ha scritto Mahmud Darwish, poeta palestinese. ‘La posizione ideologica di Israele impone ai palestinesi di leggere come illegittime la propria storia e la propria esistenza su questa terra. Per quanto ancora continuerà l’insistenza sul diritto ideologico di formulare l’immagine dell’altro, la sua voce, il suo rapporto con se stesso, persino le sue reazioni a ciò che l’israeliano desidera che sia o non sia?’ […] La povertà e il rispetto dell’ambiente, a dispetto dei luoghi comuni, vanno spesso insieme, a volte forzatamente. Basta guardare i tetti palestinesi dall’alto: una distesa di pannelli solari e cisterne per conservare e riscaldare l’acqua”. Quindi ora sappiamo anche questo: abbiamo capito che il problema dei profughi non è UN problema ma IL problema, abbiamo capito che se si risolve questo problema, magari è possibile pensare anche ad una risoluzione globale del conflitto. Ma se questo problema non si affronta, oppure non lo si interpreta come problema, oppure lo si affronta ma non lo si risolve, oppure, al limite, se ne accetta in qualche modo la gravità ma non la responsabilità da parte israeliana e però si danno soltanto segnali minimi di interessamento, mettendolo in fondo all’agenda, finché si farà così – cominciamo a capire – il conflitto non è destinato a risolversi in breve tempo. Questi milioni di profughi non sono un’appendice, non sono un tassello di tutto il mosaico della situazione arabo-israeliana, ma sono IL problema da affrontare. Per questo oggi ho portato questi documenti e li ho letti, per capire meglio insieme l’urgenza, l’improrogabilità e l’importanza di questa situazione.

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Massimiliano Borelli (5L), Giacomo Capaldi (5B), Stefano Filippo Castiglia (4D),

Silvia Crupano (4D), Jessica Ferretti (4D), Sarah Maltoni (5L), Paolo Manfré (5L),

Francesca Neri (5L), Stefano Toppi(4D), Ramacandra Wong (2N)

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Prof. Lucio Saviani, Prof. Rino Cipriano e Prof. Ciro Sbailò

21 Febbraio 2001

Sbailò: Io mi prendo la responsabilità di porre alcune questioni metodologiche, perché parlerò qui, non certamente da esperto dei problemi medio-orientali, c’è già il prof. Cipriano, quanto piuttosto da persona che per una serie di scelte e casualità si deve occupare di politica, di giornalismo e d’informazione. Voglio partire dal punto di vista dell’informazione, il mio problema è l’informazione adesso, perché? Perché è finita la guerra fredda e tuttavia si continuano ad utilizzare, sul piano della comunicazione, i paradigmi della guerra fredda. Questo è estremamente pericoloso perché utilizziamo vecchi strumenti per comprendere una situazione estremamente nuova, dove non ci sono più i due riferimenti fondamentali – gli USA e l’URSS – ma ce n’è uno solo con una serie di soggetti mobili. Quindi: noi diciamo una cosa e ne intendiamo un’altra, ci vengono date informazioni a volte distorte e comunque le interpretiamo male. Io faccio una sintesi; non so se riuscirò a portare a termine il mio ragionamento perché vorrei lasciare un po’ di spazio al prof. Cipriano. Allora, partirò stigmatizzando la cattiva informazione sulla questione israeliana, soprattutto a danno di Israele e partirò da questo per dire che si continua a fare cattiva informazione, rendendo un pessimo servizio anche ai palestinesi, soprattutto ai palestinesi; basti per esempio vedere con quanta rapidità noi associamo l’OLP, che so, Arafat, con l’integralismo: Arafat è un laico, nel ‘64 l’OLP è un’organizzazione laica, politica, i dirigenti palestinesi sono persone che hanno una mentalità del tutto laica, molto occidentale, e con l’integralismo dal punto di vista culturale della formazione non hanno assolutamente nulla a che vedere. Questo è un esempio di disinformazione. Altro esempio è quando si parla delle ‘inermi’ folle palestinesi senza fare distinzioni. Perché non sono inermi, non sono affatto inermi; certo dipende dal contesto in cui ci si trova ma usare sempre questo aggettivo ‘inerme’… questo è un caso di cattiva informazione. Quindi sono stati costruiti dei paradigmi che si sono più o meno formati intorno al 1967 sulla stampa italiana, nel periodo della guerra dei sei giorni: sono nati dei modelli che per pigrizia noi italiani continuiamo ad adottare; questo si vede dal modo in cui viene gestita l’informazione. Ciò è estremamente pericoloso perché, e questa vorrebbe essere la conclusione del mio discorso, non so se riuscirò a portarlo a termine, non possiamo più permetterci di avere cattiva informazione su quello che accade in quell’area, per il semplice fatto che noi europei siamo chiamati a risolvere concretamente i problemi in quell’area, non essendoci più un sistema di equilibrio tra due potenze. Gli Stati Uniti, al di là delle apparenze, tenderanno sempre di più a rinchiudersi nei propri interessi. Noi europei e soprattutto noi italiani, al centro del Mediterraneo, saremo chiamati a svolgere parte attiva per una serie di ragioni, siamo direttamente coinvolti. Io allora comincerei stigmatizzando alcune cose. Naturalmente gli eccessi ci sono da una parte e dall’altra, io stigmatizzerò soprattutto gli eccessi e le distorsioni nei confronti di Israele per la semplice ragione che sono quelli che meno si notano.

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Allora, immaginate che un gruppo di persone profani la tomba di San Pietro, immaginate la reazione che si può avere sulla stampa per i cattolici. Ora, all’inizio di ottobre una folla ubriaca e urlante di giovani ha assaltato la tomba di Giuseppe. C’è stato un po’ di sconcerto, qualche deplorazione, nessuna levata di scudi; un giornale italiano ha sottolineato che si tratta della ‘presunta’ tomba di Giuseppe, sarebbe come dire che se profanano la tomba di San Pietro giustamente un teologo protestante può dire ‘ma quella non è la tomba di San Pietro quindi perché vi arrabbiate?’ no?! Sapete questo no, che per i protestanti quella non è la tomba di San Pietro. Poi il 12 ottobre scoppia un incidente in Israele e tutte le televisioni del mondo occidentale trasmettono non stop le informazioni. TUTTE, tranne una: l’Italia. Il nostro è l’unico Paese dove non c’è il non-stop informativo, come se la cosa non ci riguardasse. In uno di questi servizi trasmessi negli Stati Uniti, c’è una foto: c’è un soldato israeliano vicino a una persona sanguinante e nella didascalia si legge: ‘la repressione israeliana nei territori occupati’. E’ una bugia, perché quella persona sanguinante è uno studente americano ebreo tirato fuori da una macchina e picchiato e il militare israeliano era lì per cercare di salvargli la vita, e tra l’altro senza usare le armi. Il giorno dopo i giornali americani si correggono, ripubblicano con lo stesso spazio la stessa foto chiedendo scusa. Intanto cosa succede in Italia? A ora di cena si comincia a sapere qualcosa sulle televisioni e si vede un elicottero israeliano che lancia un razzo: dopo un po’ un qualcosa che esplode in mezzo alla folla. Ora, come reazione “pavloviana”, uno che dice? Gli israeliani hanno sparato sulla folla. Non è vero! Perché al giornalista dovrebbero dare il premio Pulitzer! Come mai il cameraman si trova lì sapendo che l’elicottero arriva da lì, quindi riprende l’elicottero, poi riprende…è stata un’associazione voluta da chi ha fatto il servizio; bastava cambiare inquadratura. E appunto siamo al fatidico 12 Ottobre, a quello che succede a Ramallah: che cosa succede a Ramallah? Tre israeliani militari che erano lì per una serie di ragioni, in macchina tutti e tre, vengono presi, portati in una caserma, linciati, i loro corpi vengono fatti oggetto di scempio, succedono delle cose pazzesche; credo che l’avrete visto. Un ragazzo mostra alle telecamere le mani grondanti di sangue. Passano alcune ore: Barak, che è il premier israeliano, decide una misura di rappresaglia, informa la popolazione di evacuare, lancia questo missile, non ci sono morti, ci sono dei feriti credo, ma, insomma, non succede niente di particolarmente grave, posto quello che di solito succede da quelle parti. Un missile e, il giorno dopo, titoli di alcuni giornali: ‘La furia di Israele’, ‘Israele bombarda la pace’; la notizia del linciaggio a Ramallah - non sto parlando di tutti i giornali ma di alcuni che comunque fanno opinione - viene data dopo, addirittura nell’editoriale troviamo scritto che per comprendere quello che succede in Israele, bisognerebbe rileggere un libro di Marx, ‘La questione ebraica’, dove appunto Marx riprende, lui ebreo tra l’altro, geniale, discendente di rabbini, insieme a delle analisi molto acute, anche alcuni stereotipi del vecchio antisemitismo germanico. Insomma: a tutti i costi, si vuole dipingere qui, in questa fase, si cerca di far capire, che c’è un mostro. In questo periodo viene molto stigmatizzato il comportamento dell’attuale premier israeliano, che è Ariel Sharon, il quale fa una provocazione: va sulla spianata delle moschee che per i musulmani è sacra. In quel periodo però, non era premier Sharon,

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era semplicemente il capo di un partito e aveva una posizione notoriamente intransigente. Comunque, calpesta effettivamente il suolo, fa questa provocazione, stigmatizzata soprattutto in Israele; però qua c’è una differenza, perché anche qui vorrei invitarvi.. se qualcuno di voi ha la fortuna della tv satellitare, di confrontare i telegiornali israeliani con gli altri telegiornali dell’area: sui telegiornali israeliani si possono sentire le critiche, feroci, a Sharon, cosa che non si vede sugli altri telegiornali rispetto ai leader politici degli altri paesi dell’area. Gravissima, dunque, la provocazione; Sharon tuttavia non è il capo, in quel momento, del governo e in ogni caso... Saviani: Lo è diventato. Sbailò: Lo è diventato, anche purtroppo grazie alle contraddizioni non risolte, però questo è un altro discorso. C’è chi dice che è stata colpa di Arafat, che ha indebolito Barak, ma qui ci addentriamo in una disputa. Io voglio semplicemente offrirvi un punto di vista possibile, che può essere accettato o meno, ma di cui va tenuto conto. Anche nei momenti più duri, tranne che forse in un caso, il professor Cipriano mi correggerà, Israele non ha mai vietato l’accesso ai luoghi di culto. Non mi risulta che sia mai successo, tranne forse una volta ma credo che fosse qualcosa di molto specifico, non so, ora mi sfugge. Viceversa, gli arabi, quando hanno avuto la possibilità, hanno distrutto le sinagoghe e hanno vietato l’accesso ai luoghi di culto. Bambini di nove anni sono stati armati, addestrati al martirio; insomma di tutto questo non si è tenuto conto quando c’è stata la polemica su Sharon, che effettivamente ha fatto un gesto odioso. Tra l’altro lo stesso giorno però, intendiamoci, lo stesso giorno, se non vado errato, in cui Ariel Sharon fa la sua provocazione, Barak propone la spartizione di Gerusalemme, cioè: assistiamo ad una provocazione o ad una democrazia in crisi e a un conflitto tra le parti, un gioco tra le parti? Quindi la situazione va vista nella sua complessità. Lo stesso giorno in cui Barak dice: dividiamo Israele a metà, cioè fa una proposta che è stata considerata da molti una proposta avanzata...successivamente non è che la ritira, successivamente scoppia il conflitto; non è una questione di ritirare, smentire. Stiamo parlando del momento in cui viene attribuita a Sharon la responsabilità... E’ chiaro che dopo è scoppiato un conflitto e Sharon naturalmente ha sempre sostenuto le sue posizioni, che Gerusalemme è unica, non può essere divisa. E arriviamo alla vicenda di Cristiano. Cipriano: Volevo fare una piccola notazione: non è sufficiente che qualcuno dichiari indivisibile un luogo che di per sé è già un’aggregazione di parti diverse: cioè Gerusalemme, lo dicevo pure la volta scorsa, è la città in cui sono ben visibili, si materializzano queste tre religioni fondamentali, ebraismo, cristianesimo e islàm. Quindi, è indivisibile? Ma di per sé già è divisa, se vogliamo Sbailò: Di per sé è già divisa. Va bé, un protocollo politico-giuridico, naturalmente. Cipriano: Diciamo che quella più che altro è una determinazione assolutamente politica. Sbailò: E’ una determinazione politico-giuridica, non è che si può dividere ciò che è già diviso. Cipriano: Però allo stesso tempo Gerusalemme è anche il luogo dove coesiste tutto questo: cioè queste divisioni, queste differenze, queste diversità, soprattutto d’interpretazione della divinità, hanno coesistito per millenni.

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Sbailò: Allora, arriviamo alla famosa lettera del giornalista Cristiano, di cui credo avete sentito parlare; che cosa succede? Che un giornalista della RAI accusa alcuni telegiornali privati di aver mandato in onda le immagini del linciaggio dei tre soldati israeliani e dice questo: ‘miei cari amici in Palestina, ci congratuliamo con voi e pensiamo sia nostro dovere di farvi un quadro degli eventi di quanto è accaduto lo scorso 10 ottobre in Ramallah; una delle emittenti private italiane che è in concorrenza con noi, e non l’emittente televisiva ufficiale italiana, ha ripreso gli eventi. (Normalmente un giornalista riprende gli eventi!). In seguito, la televisione israeliana ha trasmesso le immagini attribuendole a delle emittenti italiane, creando così l’impressione nel pubblico che si trattasse della RAI. Vogliamo sottolineare a tutti voi che le cose non sono andate così, cioè non è stata la RAI a fare quelle riprese perché noi abbiamo sempre rispettato, e continueremo a farlo, le procedure giornalistiche con l’autorità palestinese’. Non si è mai capito quali siano queste procedure; infatti è stata fatta un’interrogazione, il presidente della RAI non ne sa nulla. Non possono esistere procedure, cioè un giornalista non può concordare col governo quello che deve fare, fosse anche il governo più legittimo del mondo, no? Figuriamoci poi in una situazione dove ci sono due realtà politiche che confliggono e che rivendicano la titolarità e la giurisdizione: non esiste, è fuori da ogni deontologia professionale. Cristiano ha poi cercato di difendersi, ha chiesto scusa, ha cercato di giustificarsi, ma tuttavia se n’è dovuto andare. Però questo è un caso: cioè, che cosa ha fatto questo giornalista? Si è scusato dicendo: ‘non siamo stati noi a riprendere’... che cosa? Perché non bisognava riprendere il massacro dei tre? Il massacro dei tre soldati non doveva essere ripreso. In quel caso non ha funzionato il meccanismo che di solito viene messo in atto; allora vuol dire questo: che c’è un paradigma rispetto al lavoro giornalistico, un paradigma che non è giornalistico. Saviani: Scusa, posso aprire una parentesi brevissima? C’è stato però anche il caso di quell’incidente diplomatico... Sbailò: Vento, l’ambasciatore Vento; io non mi pronuncio in materia perché lui ha detto che non... io devo prendere atto. Mentre Cristiano implicitamente ha ammesso. Saviani: Qual è il fatto? Sbailò: E’ successo che al nostro ambasciatore all’ONU è stata attribuita la seguente frase: ‘ma in fondo quel massacro l’hanno voluto gli israeliani per accreditarsi e per fare le vittime’. E’ scoppiato il caos. In realtà pare che Vento non abbia detto così, ma abbia detto invece: ‘stanno cercando di diffondere la voce che gli israeliani hanno fatto questo’. Qualcuno ha colto la frase... Però certamente questo è indice del clima che esiste attualmente intorno alla questione. Quindi il messaggio di questo primo blocco di cose che io vi propongo è il seguente: controllare le fonti, cioè l’informazione sulla questione israeliana-palestinese non è un’informazione sempre credibile; io vi ho messo in risalto naturalmente un aspetto, che è il mio, che io ho scelto come mio approccio, come mio punto di vista ma in generale vale questo: lì è difficilissimo capire effettivamente i fatti, perché vengono ancora utilizzati paradigmi, guerra fredda e quindi si tratta di un’area molto delicata, una situazione molto delicata, non possiamo permettercelo. Quindi abbiamo visto praticamente che, tendenzialmente, si vuole vedere Israele come il grande mostro e i palestinesi... tra l’altro questa confusione continua che c’è tra palestinesi: arabi, causa araba, nazione araba. La prima domanda che io faccio al professor Cipriano a cui poi

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spero che potrà rispondere: ma si può parlare di nazione araba effettivamente oppure no? Io ho dei dubbi e quali sono i rapporti dei palestinesi con gli arabi? Cipriano: Per me si tratta di una provocazione, infatti era uno dei temi. Sbailò: Esatto. Esiste la nazione araba? E quali sono i rapporti per esempio tra mondo arabo e mondo palestinese? Diciamo che, ultimamente, forse giustamente, si è infranto un mito del passato: qual era questo mito? Il mito del popolo d’Israele come popolo che aveva ormai trovato la propria identità politica intorno a leadership “pacifiste” e “progressiste” come quella di Rabin. Questo era un mito costruito. Però simmetricamente, non è venuto meno l’altro mito, cioè la situazione è asimmetrica, è questo il rischio: cioè una sorta di asimmetria nella rappresentazione. Noi abbiamo giustamente focalizzato la questione israeliana, la vediamo con chiarezza, vediamo i limiti della classe dirigente israeliana, anche del loro sistema istituzionale e quindi ci siamo ‘tolti gli occhiali’ del pregiudizio, dell’ideologia. Dall’altra parte non ci siamo ancora tolti gli occhiali dell’ideologia sulla questione dei palestinesi e degli arabi; cioè continuiamo a utilizzare due pesi e due misure, nel senso che da una parte ci siamo liberati dell’ideologia, dall’altra continuiamo ad adottare paradigmi ideologici. E per esempio non teniamo conto del fatto che Israele in quell’area, con tutti i suoi limiti, è una grande democrazia, guidata fino a ieri da un partito che si richiamava a una delle tradizioni fondamentali della politica europea che è il partito laburista ed è una democrazia nella quale si discute, ci si confronta, c’è un movimento che si chiama ‘Peace Now’, dove ci sono forti dissensi nei confronti della politica del governo, dove è possibile manifestare apertamente questi dissensi. Israele non ha una Costituzione scritta, ma ha una costituzione materiale dove si prevede il rispetto delle libertà delle opinioni. Io non conosco a perfezione tutte le Costituzioni arabe, ma mi pare che al primo posto c’è il riconoscimento dei diritti umani ma viene stabilito che l’islàm è la religione naturale dell’uomo e tutto è sottoposto alla legge islamica, dopo di che c’è il massimo riconoscimento dei diritti individuali ed è anche questa la ragione per la quale io insisto nel considerare la questione palestinese diversa dalla questione araba. Perché l’OLP di Arafat non può, secondo me, essere assimilata alla questione arabo-islamica in quanto tale. Secondo me, lo sforzo dev’essere proprio quello di essere più pragmatici su questo punto. Per esempio, noi abbiamo avuto per anni, in Occidente, la parte, diciamo più progressista o pretesa tale, del nostro schieramento politico, in una posizione che un grande marxista israeliano, che è Jahari, definì negli anni ‘70 ‘antisemita’. Cioè lui accusò una parte del mondo politico italiano, cioè la sinistra italiana, di essere antisemita. In Italia è stato coltivato il mito di Nassèr... Saviani: Ricordate Nassèr? La situazione egiziana nel 1956? Sbailò: Nassèr era uno che aveva avuto rapporti stretti con i servizi segreti tedeschi, con la Gestapo, e che manifestò pubblicamente il proprio disappunto per la sconfitta della Germania. Io mi chiedo: ma i palestinesi non sono forse stati al centro di uno scontro politico? Fior d’intellettuali italiani, faccio i nomi: Renzo Foa, Umberto Terracini, Miriam Mafai, Furio Colombo (Furio Colombo e Renzo Foa poi curiosamente entrambi direttori de l’Unità); tutte queste persone, con alcune delle quali ho avuto anche qualche colloquio su questo tema - che purtroppo non sono riuscito a trovare, altrimenti ve l’avrei portato – furono interrogati sulle ragioni di

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questa preconcetta ostilità, di questa manipolazione informativa. Il punto cruciale viene visto nella guerra dei sei giorni che voi conoscete bene: diciamo che la guerra fredda ha imposto, in qualche misura, una visione ideologica del conflitto tra i palestinesi o meglio, una parte dei palestinesi, ma comunque i palestinesi come popolo sicuramente, e lo stato d’Israele. Un conflitto che poteva avere varie configurazioni, non è detto che tutti i conflitti territoriali debbano configurarsi come guerra; invece questo è diventato il luogo in cui si sono praticamente riassunte, e in qualche misura esasperate, tutte le contraddizioni del periodo della guerra fredda. Purtroppo noi non viviamo più in un mondo dove possiamo permetterci l’utilizzo di questi paradigmi; poi viviamo in un mondo in cui le crisi non sono più prevedibili come quelle di una volta, non solo in Medio Oriente, dove c’è una crisi che non è scollegabile rispetto a quella del petrolio; non ci dimentichiamo che dal Càucaso fino al Golfo, c’è il 60% della produzione mondiale del petrolio. Quindi non possiamo, in questa fase, prevedere quali possano essere le evoluzioni nelle crisi. Abbiamo un contrasto tra la locomotiva economica degli Stati Uniti d’America, che al di là delle crisi, comunque riesce sempre ad imporsi, e le crisi ad andamento ‘a termosifone’ del Sud Est asiatico e il fiato corto dell’Europa, nonché la povertà crescente nell’America Latina (perché da qualche tempo ci siamo dimenticati dell’America Latina). Ora tutto questo fa sì che una crisi come quella israeliana non possa più essere riportata dentro schemi precostituiti, non può essere più controllata, non è più governabile così come lo era una volta. Gli U.S.A. si sentono ormai, e sono, l’unica grande potenza; ora, è fatale in questo caso, che possano accadere due cose: una è quella del tentativo di isolamento che forse ci sarà; l’altra è quella di tentare di isolarsi ma al tempo stesso di continuare comunque, sia pure indirettamente, a esercitare un ruolo, come dire, poliziesco, di grande poliziotto planetario. Ma non è un ruolo che piaccia agli americani, necessariamente; tuttavia è un ruolo che è nelle cose. A questo punto vi chiedo, c’è una frase di Solana, della NATO, l’ha detta a una riunione: ‘more Europe’, più Europa; cioè, dov’è l’Europa rispetto alla questione Israele-Palestina? E’ questo il punto. Ma voi capite che se noi continuiamo a interpretare quel conflitto come se da una parte ci fosse l’URSS e dall’altra parte l’America, per cui gli uni sono sempre buoni e gli altri cattivi, dipende dallo schieramento che si adotta, noi non capiamo che cosa sta succedendo lì. Saviani: Scusa, una parentesi: ho l’impressione che però, per esempio, in Iraq ci sia una ‘less Europe’, no? Sbailò: ‘Less Europe’ sì . Adesso apriamo una parentesi, già che me lo dici: lì c’è intanto l’azione militare che è stata praticamente decisa solo da Bush; in realtà è scattato un automatismo con le forze militari britanniche, perché c’è un accordo; ma lì c’è stato un automatismo di dispositivo militare. Per quanto riguarda la questione dell’Iraq, io onestamente non saprei come interpretarla questa iniziativa di Bush. C’è un fatto reale: indubbiamente è vero che l’embargo è una misura infame, di per sé, perché mentre io adotto il paradigma poliziesco e dico che non sono contro i serbi ma contro Milosevic, non sono contro gli iracheni ma contro Saddam Hussein, e però al tempo stesso riconosco poi invece l’esistenza di uno stato nazionale e quindi di una etnia che si identifica in questi confini e che quindi va penalizzata per questo stesso fatto. Cioè mentre disconosco la sovranità nazionale e agisco come un poliziotto, al tempo stesso poi penalizzo chi abita in quell’area,

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adottando un paradigma stato nazionale. Questa è una forte contraddizione in atto in questo periodo; tra l’altro c’è da dire che è lo stesso paradigma utilizzato per l’arresto di Pinochet. Quindi chi è contrario dal punto di vista proprio giuridico ai bombardamenti in Iraq o contro Milosevic, dev’essere contrario anche all’arresto di Pinochet. Cioè il meccanismo mentale è quello, il meccanismo giuridico è quello. Quindi c’è questa contraddizione in atto, indubbiamente. C’è da dire, dall’altra parte, che Saddam Hussein stia, si dice, naturalmente non abbiamo prove, utilizzando gli aiuti economici per il riarmo e che non stia utilizzando invece la possibilità di annullare l’embargo per quanto riguarda i beni di prima necessità. In Europa, in Occidente, vengono esportati prodotti medici prodotti in Iraq; com’è che allora gli iracheni sono senza medicine? Posto che l’embargo, come tale, è una misura contraddittoria rispetto alla politica di carattere, come dire, dei diritti umani e quindi della deterritorializzazione della tutela dei diritti umani e dell’esaurimento del principio di sovranità, posto questo, non si capisce però come mai gli iracheni sono senza medicinali mentre i prodotti iracheni vengono venduti in tutto il mondo. E comunque, per quanto riguarda la questione che sollevavi e cioè la presenza dell’Europa, certamente in quel caso non c’è stata l’Europa; ma l’Europa non c’è obiettivamente, non esiste da un punto di vista europeo, perché finché non ci sarà una struttura giuridico-politico-militare, sia pure altamente umanitaria e pacifista, ma che comunque formalmente venga riconosciuta come tale, non c’è il soggetto europeo. Studente: Ma Saddam è visto come un punto di riferimento anche dai palestinesi? Sbailò: Mah, bisogna vedere com’è la leadership palestinese in questo momento: se tu ti riferisci ad Arafat, Al-Fatah... Certamente c’è stata una fase in cui Saddam Hussein alle popolazioni palestinesi sembrava il grande vendicatore. Studente: Lei pensa che Bush abbia bombardato perché è con Israele e contro i Palestinesi? Sbailò: No, questo onestamente... mi chiedi un parere? Non un’informazione evidentemente, perché non ce l’ho: il mio parere è che non c’entri niente, perché l’interesse degli americani in questo momento è di far calmare Israele e di fare l’accordo con i palestinesi, che io sappia. Cioè gli americani in questo momento non sono proprio schieratissimi e sono abbastanza diffidenti nei confronti della nuova leadership israeliana; quindi soprattutto poi i repubblicani che tradizionalmente sono più tiepidi verso Israele; Bush è repubblicano, quindi non credo assolutamente che ci sia questo. Dunque io lancio queste domande, queste provocazioni: il mio obiettivo fondamentale di oggi, a differenza dell’altra volta, che era quello di cercare di delineare un orizzonte problematico, è soprattutto quello di stimolarvi a prestare maggiore attenzione al problema dell’informazione, perché non è possibile esercitare un ruolo consapevole in quell’area senza avere informazioni adeguate e continuando ad adottare paradigmi da guerra fredda. Concludo ponendo un’altra domanda al professor Cipriano: il rapporto che gli altri paesi arabi hanno avuto con i palestinesi, per esempio la Giordania negli anni ‘70, la Siria, lo stesso Libano, contando i profughi, e vorrei sapere anche perché, ricordo che nel ‘47 non ero nato, il gran muftì di Gerusalemme invitò i palestinesi ad abbandonare i territori. Cioè veramente i palestinesi da questo punto di vista, se noi ci togliamo le lenti delle ideologie, li vediamo veramente come al centro di una macchinazione e,

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paradossalmente, Israele può essere il loro miglior alleato. Naturalmente tra questi alleati, come dall’altra parte, ci possono essere persone che non vanno d’accordo, ma, come dire, è che questa possibilità sia tutta dentro la tradizione della politica, della diplomazia e della cultura europea, come ha ultimamente scritto Edgàr Morin proprio su questo punto e come ci ricorda continuamente il povero David Grossman che, hai voglia a scrivere! E’ da tempo che egli cerca di indicare questa traccia, farci vedere realmente come sono le cose, perché la guerra fredda è finita ma se noi continuiamo ad adottare questi paradigmi, la questione diventerà assolutamente, per quanto ne so, ingovernabile. Saviani: Il discorso del professor Sbailò era una necessaria e ottima integrazione del discorso fatto all’inizio del nostro lavoro, cioè il non prendere delle parti immediatamente, cercare innanzitutto di conoscere, se è possibile, storicamente i vari aspetti della questione e poi, soprattutto, di vedere come viene comunicato, come siamo informati della situazione palestinese negli ultimi anni e mesi. Il professor Sbailò faceva anche un accenno alla questione dei profughi: io direi di far introdurre l’intervento del professor Cipriano dalla relazione di Castiglia sull’articolo sui profughi, un discorso che comunque ritornerà. Il professor Cipriano quindi risponderà alle questioni poste e a sua volta ci porrà delle questioni da dibattere. Castiglia: Il titolo dell’articolo è: ‘Il diritto al ritorno è irrinunciabile’, l’autore è As’ad Abdul Rahman. Fa un’analisi di quattro tipi di diritto che, secondo lui, e anche secondo le Nazioni Unite, hanno i palestinesi e sono: il diritto al ritorno, alla restituzione, al risarcimento e all’autodeterminazione. Il diritto al ritorno è un diritto essenziale ed irrinunciabile, perché secondo quanto detto anche da J.M.M. Chan nel suo ‘The Right to a Nationality as a Human Right [...]’ del ‘91, che afferma che ‘nel caso di un cambiamento di sovranità, tutte le persone che abbiano un reale ed effettivo legame con il nuovo stato acquisiranno automaticamente la nazionalità del nuovo Stato’, i profughi palestinesi sarebbero effettivamente israeliani perché hanno un legame di territorialità con il nuovo stato formato. Invece sono stati cacciati, ma il fatto che se ne siano andati non implica il fatto che essi non possano tornare; dice infatti che il diritto al ritorno, che è tra l’altro un diritto personale, implica che ciascuna persona che esce da quel paese, ha tutto il diritto di tornarci quando vuole e a ritornare ad avere, nello stesso tempo, tutti i diritti che aveva prima di andarsene. Saviani: La famosa questione del ritorno. Castiglia: Sì, ...dalla Convenzione di Ginevra. Ciò che dovrebbe effettivamente mantenere questi diritti è un organismo dell’ONU, l’UNRWA, che è effettivamente l’unico organismo internazionale che legittima l’esistenza della questione dei profughi palestinesi. Cosa sta pensando di fare Israele? Sta tentando di eliminare l’UNRWA, sta tentando di mediare, attraverso delle compensazioni economiche ai profughi, allo scopo appunto di eliminare l’UNRWA. Questo succede perché Israele sostiene che la restituzione economica dei danni per esempio, dev’essere personale perché il diritto al ritorno è effettivamente un diritto personale, non va data all’organizzazione, va data a ciascuna persona e a chi vuole effettivamente tornare in Palestina. La posizione che l’autore prende nell’articolo, quello che emerge, decisamente è filo-palestinese, ma tendente a cercare una

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mediazione tra palestinesi ed ebrei. Infatti lui sostiene che i profughi palestinesi potrebbero effettivamente tornare in Israele occupando quegli spazi che sono stati lasciati dagli israeliani con l’abbandono dei kibbutz, perché nell’articolo dice che l’11% della produzione agricola, che era effettivamente fatta dai kibbutz, è stata abbandonata, ossia ci sono dei campi liberi in Israele che nessuno occupa e sono incolti. Il rientro dei palestinesi incrementerebbe anche la produzione agricola. Quello che emerge però è una cosa che mi sono chiesto io: perché mai Israele non debba rispettare dei diritti universali, perché è logico da un punto di vista giuridico, perché poi dice anche che gli ebrei di tutto il mondo hanno goduto di tutti quanti questi diritti, sin dalla diaspora. Non ho capito questo e poi il fatto dell’espropriazione, ossia il governo israeliano ha espropriato le terre dei profughi palestinesi che le avevano abbandonate, ma le ha espropriate secondo le leggi dettate dall’ONU o ha inventato una nuova legge per cui lo ha fatto? Cipriano: No, non è che ha inventato una legge per espropriare la terra, di fatto le ha espropriate. Castiglia: Le ha espropriate ma non ha risarcito i profughi? Cipriano: Fermo restando che una premessa è doverosa, che s’aggancia un po’ anche all’invito fatto del professor Sbailò poc’anzi: l’informazione, le informazioni, comunque sono di parte, comunque fanno parte di una serie di messaggi, di segnali, di versioni, che l’una e l’altra parte, e per me, la terza parte che è l’Occidente, che comunque lotta in questo processo, deve lanciare all’opinione pubblica mondiale. Anche perché la questione palestinese non dev’essere vista, questo è un ulteriore invito, come una questione che riguarda soltanto due fazioni in guerra. E’ un problema che riguarda innanzitutto uno scacchiere molto importante che è il Mediterraneo, perché finché c’è instabilità in quella regione, comunque ci sarà instabilità in tutta quest’area, quindi una parte dell’Asia, il Medio Oriente, una parte dell’Africa, tutta la zona del Magreb e della Valle del Nilo e del Sinai, e tutta l’Europa meridionale se vogliamo. Ovviamente, al Magreb è attaccato il resto dell’Africa, al vicino e Medio Oriente è attaccato il resto dell’Asia e all’Europa Meridionale è attaccato il resto dell’Europa. Quindi diciamo che geograficamente più di un continente è coinvolto in questa situazione e il problema è una questione che riguarda l’opinione pubblica nella sua totalità, non soltanto due fazioni contrapposte. Per il discorso delle terre, degli espropri, non è che gli israeliani sono andati là e hanno detto: “queste terre sono nostre, andate via”. Diciamo che, fra le altre cose, ci sono state anche delle garanzie ben precise da parte innanzitutto delle Nazioni Unite per favorire questo processo di acquisizione dei territori: sono cose cioè che non sono state fatte con degli abusi, anche perché si è pensato in una maniera preventiva a garantire, a livello di diritto internazionale, la possibilità di questi insediamenti. Castiglia: Quindi è stato legittimato. Cipriano: Si, diciamo che è stato legittimato: è stato fatto un lavoro precedente all’insediamento per legittimare queste acquisizioni. Tra l’altro, la creazione di uno stato, quale è stata quella di Israele, non avrebbe certo potuto basarsi su un abuso: sarebbe stato innanzitutto un precedente di una rilevanza importante e poi, immaginate un po’ quante persone avrebbero potuto fare la stessa cosa in altre parti del mondo.

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Castiglia: L’ONU ha legittimato queste acquisizioni e poi con la risoluzione 194 è tornato indietro? Cipriano: Allora, alla domanda sull’ONU io volevo rispondere anche prima con un’altra domanda, anche se non è corretto fare così: l’ONU ha bisogno di finanziamenti per poter esistere come struttura; chi è il maggiore finanziatore dell’ONU ? Castiglia: L’America? Cipriano: Allora è normale che certi equilibri, anche all’interno dell’organismo, debbano essere rispettati e mantenuti, in un interesse molto lato, quindi molto virgolettato, dell’umanità. Cioè, se io che sono lo stato, il gruppo di rappresentanza di determinati interessi economici e quant’altro, debbo mantenere in piedi questa struttura, perché a sua volta questa struttura garantisca l’applicazione di determinati istituti giuridici, allora è normale che una buona parte della mia politica internazionale venga riversata all’interno di questa struttura. Capiamoci: questa non è un’accusa all’Organizzazione delle Nazioni Unite, non è che si sta dicendo che l’ONU è un organismo ‘venduto’, oppure l’ONU sta nelle mani degli ebrei. Sbailò: Anche perché poi di solito le risoluzioni dell’ONU sono state contrarie come sai; e non solo, ma l’America ormai non paga più l’ONU e quindi essa è da tempo invece schierata, a partire dagli anni ‘80 in poi, ma forse anche prima, in una chiave completamente diversa. C’è stata una risoluzione dell’ONU contro la reazione israeliana e l’unica nazione europea che si è astenuta è stata l’Italia: le altre hanno votato a favore. Su questo poi si può aprire un discorso: perché l’Italia si è astenuta, ma c’è una ragione specifica ed è quella che si comincia a capire che là bisogna essere più neutrali possibili. Cipriano: Teniamo sempre conto di una cosa: che determinati, come li chiamavi tu prima, diritti universali vengono calpestati. Rendiamoci anche conto che stiamo parlando di una regione dove c’è di fatto uno stato di guerra, (e quindi il razzo cui accennava prima Sbailò, le mani insanguinate del fanatico palestinese), dove sono stati calpestati dei diritti universali ben più importanti del possesso della terra; stiamo parlando della vita umana, del diritto delle persone a vivere. Quindi, se ci poniamo degli interrogativi, io sono sempre dell’opinione che dobbiamo farceli a 360 gradi. Non possiamo parlare di legittimazione o rivendicazione di alcuni diritti, quando poi altri diritti ben più importanti vengono calpestati ogni attimo, ogni minuto, dall’una e dall’altra parte. Il concetto fondamentale, secondo me, è quello di essere contro le azioni di violenza. Poi ci tenevo a partire, ad avviare questo mio intervento, cominciando man mano a rispondere, ad accettare l’invito alla discussione del prof. Sbailò. Il discorso dei rapporti tra stati arabi e i palestinesi nella zona, Giordania anni 70, ecc. : è mia convinzione, al di là di quelle che poi sono le evidenze storiche e politiche e quelle di più recente attualità, che questi rapporti sono regolati tra Palestinesi e Arabi, da una politica di opportunità, di convenienza. Noi vediamo che quando, per esempio, la Giordania aveva ancora la speranza di riappropriarsi di quella striscia di territorio della Cisgiordania, a seconda della situazione, faceva scattare la politica di solidarietà nei confronti dei Palestinesi. Quando queste sue speranze venivano meno, perché magari i palestinesi puntavano a quel medesimo

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pezzo di terra per poter costituire il loro stato, allora ecco che si interrompevano i rapporti. La Siria? La Siria ha fatto un po’ il “galletto” nello scacchiere. Era la potenza militarmente ben preparata; ecco allora che quando arriva Israele c’è la prima diffidenza. La Siria era il paese che a livello economico - militare appariva il più forte, aveva una presenza più autorevole nella regione, autorità che è stata minacciata innanzitutto dall’avvento di Israele e poi anche da questo interessamento dell’opinione pubblica mondiale verso altri soggetti, tra cui i palestinesi. Ovviamente, uno degli interessi della Siria è anche quello dello sbocco sul Mediterraneo, del controllo degli scambi commerciali che avvengono attraverso il Mediterraneo. Avere un paio di corazzate ormeggiate sulle sponde di questo mare non fa mai male! Si diventa uno dei protagonisti di un processo, chiamiamolo di pace, che poi implica comunque molte altre cose, soprattutto a livello economico. Il commercio? Vogliamo parlare della finanza, delle banche? Parliamo del Libano a questo punto. Saviani: Sì. Perché parliamo del Libano parlando delle banche? Cipriano: Parliamo del Libano perché, tra le altre cose, esso era definito la Svizzera dell’Oriente: c’era un sistema bancario molto sostenuto, tant’è che anche dall’Italia, ricordo Felice Riva, quelli che erano gli imprenditori più in vista, quando dovevano portare i soldi in luoghi sicuri, li portavano o in Svizzera o in Libano perché lì avevano delle rendite superiori, non erano soggetti a controlli. Il Libano era anche un po’ questo paese dove, se andavi in particolari periodi dell’anno, la mattina potevi andare tranquillamente a sciare, la sera facevi il bagno nel Mediterraneo; quindi era un posto molto gradevole dal punto di vista climatico. Questo sempre prima della guerra, appunto per questo grosso flusso di soldi che c’era. Fiorentissimo tra le altre cose, era il contrabbando dell’oro, cioè là buona parte delle riserve di Fort Knox in America provengono da ... Saviani: Dalla Fenicia ! Cipriano: Esatto, da sempre terra di commerci. Per quanto riguarda poi l’embargo di cui si parlava prima, delle azioni militari, l’Iraq, il recente bombardamento da parte di Bush, fermo restando che condivido in pieno la tua interpretazione, aggiungo una postilla: non vedo attualmente una connessione tra la questione palestinese e l’Iraq, anche perché l’Iraq deve vedere come fare per uscire da solo da questa situazione, figurarsi se può accollarsi in questo suo cammino un altro ferito che può essere la Palestina! La mia opinione è che noi ci stiamo trovando di fronte ad una sorta di politica - spettacolo: io ricordo la guerra del Golfo, dove tutte le sere in casa nostra entrava, tramite la CNN, il portavoce di Saddam Hussein che dava la sua versione dei fatti mentre poi una voce commentava un’altra versione, che magari poteva essere quella degli ebrei o dell’Occidente; insomma, alla fine noi non abbiamo mai capito cosa fosse successo. Però ci siamo trovati davanti allo schermo di casa nostra questo bel videogioco dove non morivano i visitors, morivano degli esseri umani, dove giocavamo, da spettatori, a fare la guerra. Saviani: Voi ricordate qualcuna di queste scene di Bagdad di notte? Cipriano: Oto Melara, un’azienda di La Spezia che produce armi, aveva fabbricato per Saddam Hussein dei carri armati in sagoma, cioè sagome di cartonato, compensato e quant’altro, che dietro avevano un motore perché i missili americani erano a puntamento intelligente e quindi erano guidati da un infrarosso. Bastava

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una qualsiasi fonte di calore per attirare il puntamento di questi missili e farli esplodere. Allora, gli iracheni simulavano colonne di carri armati che erano fatti di cartone, praticamente riprodotti in grandezza naturale. Sbailò: E’ significativo che sia stato un italiano ad avere questa idea perché questo è un ideale. Cipriano: Un missile che sta sotto uno degli aerei che venivano impiegati, se non sbaglio erano gli F114, costa 700-800 milioni. Un carro armato può costare 2-3 miliardi: chiaramente io spendo 700/800 milioni per distruggere 3-4 miliardi all’avversario perché c’è una certa convenienza. Con un costo minore, infliggo un danno che ha un costo superiore: in quel caso, chiaramente, quel carro armato fatto in quel modo costava una decina di milioni e gli alleati gettavano miliardi su queste sagome, alimentate da motorini che producevano calore sufficiente ad attirare i puntatori dei missili. Anche questo, a mio modo di vedere, contribuisce a creare questo evento da dare poi in pasto ai mezzi di comunicazione, perché poi effettivamente il problema della guerra del Golfo era ben altro rispetto a quello che è apparso sui nostri schermi. ‘More Europe’, come è stato detto prima: una cosa che mi ha deluso profondamente è stata che, al di là di tutte quelle che possono essere le motivazioni, le interpretazioni e le opinioni, secondo me c’è stata una ‘No Europe’. Secondo me, Solana (segretario Nato) ha taciuto, non ha neanche commentato questa cosa e per il ruolo che riveste, per l’incarico che ha, secondo me deve dire qualcosa. Il suo silenzio, a mio modo di vedere è scandaloso. C’è stato questo recente bombardamento in Iraq: Solana, che è il responsabile della Nato, non ha assolutamente commentato questa cosa, c’è chi dice per imbarazzo, c’è chi dice perché sapeva e allora era un silenzio/assenso. Io non voglio entrare nel merito delle interpretazioni, semplicemente questa latitanza dell’Europa e di Solana, in quanto europeo nella Nato, socialista ecc., secondo me è grave. Io non voglio assolutamente inventare la dichiarazione di Solana; qualunque essa sia mi sta bene: quello che non condivido è questo silenzio. Il collega Sbailò si poneva prima il quesito di una nazione araba: ebbene, una nazione araba esiste, è quella che si chiama “Al Wàtan Al ‘Arabiyya”. Letteralmente significa ‘la patria araba’. E’ un concetto di unione panaraba, panislamica, al centro del quale però esiste non tanto un concetto di nazione, non tanto un concetto di Stato, quanto un concetto di unità religiosa. Quindi noi parliamo di una nazione araba dove però esistono i presupposti di un’unione religiosa di fondo. Studente: E’ simile al discorso di Nasser? Cipriano: Quella è un’altra cosa: perché Nasser, nelle sue manie di grandezza, riprendeva un vecchio progetto, peraltro realizzato, dei faraoni egiziani di qualche migliaio di anni prima, lui univa una parte, mentre il Wàtan Al Arabiyya comprende anche quelle nazioni che non sono esplicitamente di lingua araba o anche non di etnia, che però rientrano nell’Islam. Saviani: Ricordate quando l’altra volta parlammo della diga di Assuan? Ebbene, qualche anno dopo fu costruita, qualche chilometro più a sud e con un altro nome: si chiamò ‘Lago Nasser’. Cipriano: Sì, poi fu anche necessario spostare addirittura una collina che tra l’altro al suo interno aveva un tempio, interamente scavato nella roccia, all’esterno c’erano

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due Ramses seduti. Gli italiani riuscirono a smontare pezzo per pezzo tutta questa collina con il tempio annesso all’interno e nel sotterraneo e a spostare tutto più a sud e a ricostruirlo tale e quale a prima. Studente: Ma la patria araba quant’è grande? Cipriano: Immagina un posto dove tu puoi camminare giorni e giorni e ti senti sempre a casa tua; parliamo di 10-15 giorni di cammino in automobile non a piedi. Ecco, questa è l’ Al Wàtan Al ‘Arabiyya. Se parti da Marrakesh, da Agadir, che sta sull’Atlantico, e cominci a camminare andando verso Est, dopo quindici giorni ti troverai ad Aqaba, per esempio, sul Mar Rosso: lì avranno la tua stessa religione, la tua stessa lingua e più o meno si ciberanno così come tu ti cibi qui a casa tua. Questo, grosso modo, può essere il concetto dell’ Al Wàtan Al ‘Arabiyya. Sbailò: Questa è la domanda che ti volevo fare: questa è una cosa che esiste ma esiste un po’ al di sopra pure di quelli che sono gli interessi politici, economici e giuridici delle persone; Gabrieli lo chiamava ‘un afflato spirituale’, forse è il vecchio concetto di cristianità che è ancora più forte. Cipriano: Sì, perché il concetto di cristianità comunque aveva la barriera linguistica, cosa che non hanno queste persone. Il latino per esempio, che era la lingua ufficiale. Sì, qui esiste un arabo classico che è parlato dai dotti ma grosso modo è lo stesso arabo parlato dal popolo; il popolo lo parla più al livello di, diciamo, dialetto. Sbailò: Per semplificare: la lingua del Corano e la lingua della Casbah sono la stessa cosa mentre invece nell’Europa di Carlo Magno la lingua della Bibbia e la lingua del borgo non erano la stessa cosa. Mi volevo agganciare a quello che dicevi tu prima. Il problema del territorio: si è sviluppata una polemica su questo punto, e si sviluppa ancora, sul fatto che il concetto di Islam è indissolubile da quello di controllo territoriale, quindi non ha senso considerare l’Islam una vecchia religione rispetto alla quale adottare i vecchi paradigmi del confronto religioso, della tolleranza... lì è una questione territoriale non una questione religiosa. E quindi anche in questa luce va visto l’atteggiamento nel conflitto che c’è . Cipriano: Sono perfettamente d’accordo. Anche perché sul discorso della tolleranza c’è una bellissima espressione che parla della tolleranza come concetto non tanto di indifferenza (badate bene che c’è un versetto coranico che si presta a molteplici interpretazioni: ‘A voi la vostra religione, a me – musulmano - la Religione’. Allora, io la prima volta che l’ho letto ho detto ‘Bei classisti!’. Cioè: a voi la Vostra religione...’ come se fosse un prodotto da discount, una cosa dozzinale e a me ‘La Religione’ con tutte le maiuscole, a cominciare dall’articolo!) Nella pratica poi, quando si è andati allo studio di quello che è stato il Califfato, la teocrazia islamica se vogliamo, perché in alcuni momenti l’hanno realizzata, questa tolleranza invece si è rivelata un profondo interesse verso gli altri; per esempio, ‘il protetto’, vale a dire il cittadino ebreo o cristiano che voleva rimanere ebreo o cristiano, non era costretto alla conversione dai musulmani, anche quando questi sono arrivati in Europa. Semplicemente la cosa si risolveva in denaro: bastava che questo pagasse una tassa e godeva di questo statuto di ‘protetto’, cioè ‘quello è cristiano però paga la tassa, lasciamolo stare’. Però badiamo bene, c’è da fare una distinzione: non stiamo parlando dei palestinesi in particolare ma dei musulmani più in generale; c’è sempre stata una profonda curiosità e un profondo desiderio di

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conoscenza dell’altro ed è questo che ha reso accettabile la loro tolleranza e il loro dominio. Il califfato è stato l’impero più esteso nel territorio che sia mai esistito nella Storia e tutto questo, se vogliamo, si basava sul nulla perché un esercito vero e proprio non esisteva, non esisteva un sistema di amministrazione centrale, anche quando i califfi stavano a Bagdad avevano bisogno di una specie di vice-califfo a Cordova perché l’impero era talmente ampio che da soli non ce la facevano ad amministrare tutto; un impero molto strano, durante il quale anziché investire nei settori quali l’armamento, le fortificazioni, si investiva in cultura, in opere di idraulica, costruzioni di giardini e quant’altro. Il califfato è cominciato verso il 700 ed è cominciato a crollare intorno al 1400, però il grosso periodo di unità, di solidità del califfato è stato negli anni tra il 1000 e il 1200, il massimo splendore, poi è stato tutto un continuo recuperare questioni che si stavano corrompendo e così via. Un’altra cosa molto interessante a cui accennava prima Ciro Sbailò era quella delle costituzioni arabe che si agganciava al discorso della nazione araba: le costituzioni arabe all’inizio, se si può parlare di costituzioni. Sbailò: Io ritengo che non si possa parlare di costituzioni Cipriano: Adesso spiego perché no. Adesso sì, per il semplice fatto che per esempio l’Arabia Saudita ha avviato un protocollo di intesa con la Svizzera per cui i giure-consulti svizzeri sono andati nel paese e stanno cercando di creare una costituzione perché in effetti alcuni paesi, - l’Arabia Saudita è uno di questi, - si basano sulla Shari’a, che è la legge coranica, la legge religiosa. A questo punto va fatto un discorso di contestualizzazione di quello che è il Corano, perché al tempo stesso rappresentava il testo religioso in cui erano contenute le norme di vita, che regolano la pacifica convivenza tra musulmani, e anche fra non musulmani, e allo stesso tempo rappresentava anche il codice civile: in un libro era contenuto tutto, non c’era possibilità di errore. Ovviamente gestire una nazione avendo come punto di riferimento un unico testo è difficile, perché le casistiche che si possono presentare sono le più svariate. Subito a fianco a questo si è cominciato a collocare le tradizioni, la vita del profeta, come egli si comportava, perché per dare interpretazioni bisognava pure attingerle da qualche parte e quindi laddove queste non erano contemplate nel Corano si attingeva un po’ alla tradizione, ai racconti. Questi racconti, per essere poi validati, avevano bisogno di una catena di persone che potevano sostenerne la validità e prima di poter arrivare ad un episodio del genere bisognava tirar fuori tutto il repertorio, cioè “Giovanni ha sentito dal vecchio, che ha sentito da Mario, che a sua volta l’ha visto scritto in questo libro, che è stato fatto ecc…che l’ha sentito dalla voce del Profeta”. Perché poi tutto questo andava fatto risalire ad un atteggiamento, ad una massima o ad un’espressione che derivava direttamente dal Profeta, perché attraverso di lui si era rivelata la verità. Quando si parla di religione e soprattutto quando si parla di Islàm, bisogna tener conto del fatto che non è possibile scindere il contesto dal testo: il testo è il Corano e addirittura quando parliamo di Corano ci troviamo di fronte ad uno Statuto coranico, questo Statuto contempla la parola, che è quella di Dio, e l’azione. Per molti anni si è vissuto con questo testo che era l’unica fonte di ispirazione religiosa, civile e giuridica. Poi piano piano la cose hanno dovuto subire una metamorfosi. Pensiamo alla Tunisia: la Tunisia è tra i paesi arabi quello più vicino all’Europa,

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non solo geograficamente ma anche come mentalità, atteggiamenti, e la Tunisia da alcuni anni ha adottato una costituzione prendendo un modello italiano, spagnolo, francese, ecc. Mubarak, quando parla alla televisione, fa continui riferimenti alla costituzione egiziana: è stata un po’ ritagliata dalla costituzione inglese e dal sistema francese. Uno Stato moderno, o uno Stato che si apre alla modernità, non può poggiare le sue fondamenta su un testo scritto nel 600 d.C. scritto neanche però dalle persone che lo avevano concepito, nel senso che Maometto era analfabeta, alcuni dicono epilettico, (aveva queste visioni durante le quali gli appariva l’Arcangelo Gabriele che gli portava su dei materiali più disparati, su dei pezzi di pergamena, su delle stoffe, su dei pezzi di coccio, di legno, rivelazioni che gli venivano da Dio - l’Arcangelo Gabriele era un messaggero di Dio - e lui non sapendo scrivere, le riferiva alle persone che gli erano intorno, le quali a loro volta le scrivevano). Poi c’è stato il grosso lavoro dei quattro Califfi ortodossi, che è stato quello di mettere insieme questo materiale dai supporti più disparati. Molte volte, interpretare anche quella che era la scrittura. Già l’arabo è quello che è: basta sbagliare un puntino per cui una lettera si legge in modo diverso e assume tutto un altro significato. Alcune parole, poi, si scrivevano nello stesso modo per cui o sapevi, dal contesto, cosa significava quella parola, o non avresti mai potuto attribuirle un significato. Quindi immaginate un po’ quello che ne è venuto fuori! Questo lavoro di sistemazione del testo è andato avanti nel corso di centinaia di anni e gli si è data pure una forma che potesse essere utilizzata anche da un punto di vista giuridico e come elemento per le norme sociali. Tornando sempre ai temi che sono stati affrontati prima da Ciro Sbailò, torno a sottolineare il discorso dell’informazione. Lui parlava delle differenti forme di informazione: io sono perfettamente d’accordo perché questo è quello che io chiamo il ‘media-marketing’. Il giornalista a cui faceva riferimento lui - sentii per caso un’intervista notturna passata su RaiDue, lui era in collegamento telefonico - addirittura disse: ‘Ma io ho dovuto fare così perché voi non sapete noi giornalisti italiani come siamo costretti a vivere’. Sbailò: Ma infatti lui ha fatto ammenda, ha detto ‘io ho sbagliato’, ha ammesso quello che ha fatto. Cipriano: Apro e chiudo una parentesi: io ho un amico giornalista che vive a Gerusalemme e scrive per il Manifesto, Michele Giorgio. Ha confermato che viene esercitata una certa pressione anche sui giornalisti stranieri che vivono in quei territori, ovviamente si intuisce il perché. Anche lui era della mia opinione: tutto sommato, siccome lo scoop l’aveva fatto Mediaset, la Rai doveva rispondere a questo scoop. Un po’ una risposta tra uffici marketing, sempre secondo il mio modo di vedere. Un altro elemento di cui bisogna sempre tener conto, ed è un concetto difficile secondo me anche da riuscire a concepire, è che in Israele noi abbiamo due soggetti, non è che abbiamo un esercito contro un altro esercito, non abbiamo due fazioni che si contrappongono sul campo di battaglia armi alla mano ecc., anche nel discorso dell’Intifada: quei ragazzi che tirano le pietre ai soldati e poi scappano via, la mattina dopo magari coi libri sotto il braccio passano accanto agli stessi soldati che il giorno prima hanno fatto oggetto delle loro sassaiole. Si parla di persone che vivono le une contro le altre ma allo stesso tempo le une a fianco alle altre, nello

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stesso territorio e hanno una vita in comune. Nel governo Barak ci sono i rappresentanti dei palestinesi, la lobby, chiamiamola, palestinese, il ministro arabo: Israele non amministra un territorio fatto soltanto di ebrei, di proprietà soltanto degli ebrei, lo Stato di Israele sorge su un territorio che nella stragrande maggioranza è nelle mani dei palestinesi, la maggior parte delle terre che compongono lo Stato di Israele non sono proprietà degli ebrei ma dei palestinesi, degli arabi, di cristiani, di maroniti e di tanta altra gente che vive lì, che non ha una collocazione netta, precisa, aperta. Noi ci troviamo in effetti di fronte a delle cose incredibili: nella spianata delle moschee abbiamo la Kubbat-il-Sakhràh, che è la pietra sulla quale si dice Maometto sia asceso al cielo -quindi non è morto, è semplicemente ‘asceso’ al cielo- e intorno alla quale è stata costruita la cupola rivestita d’oro che si vede nelle cartoline, che è uno dei luoghi santi dell’Islam, e infatti in arabo ‘Kubbat-il-Sakhràh’ significa proprio ‘la cupola della roccia’. Poco più avanti, ma proprio poco più avanti, c’è il Muro del Pianto, che è IL luogo per eccellenza degli ebrei e quello non glielo può negare nessuno, (io non ho una posizione schierata a favore degli ebrei però se sono una persona che ha un minimo di discernimento, come faccio a negare a queste persone il diritto al loro culto presso quel luogo?! Quello era il loro tempio che fu distrutto dai Romani, tutta la loro concezione è lì, davanti a ciò che resta di quel tempio. Io non ho nessun diritto, chiunque io sia, di negare a quelle persone di andare a pregare lì). E poco poco più in là, c’è il Santo Sepolcro. E poi, sempre a proposito di nazione araba, si sta cercando di far passare, presso quei popoli, un concetto di nazione-Stato, concetto che, se vogliamo, è tipicamente occidentale. Sbailò: Pace di Westfalia, 1648. Cipriano: E che si applica in Europa e che vede il suo culmine intorno al XVIII-XIX secolo. Da una parte abbiamo, parliamo degli ebrei, forte non tanto questo concetto di Stato-nazione quanto quello di ‘Israel’, ‘la famiglia’, ‘il popolo di Dio’. Studente: Apparentemente sembrano due cose diverse: da una parte la famiglia, il nucleo familiare e dall’altra il popolo di Dio. Cipriano: Coincidono. Sbailò: L’ebreo non crede, ricorda. Le cose coincidono. Cipriano: E’ come se lui fosse un’enorme famiglia estesa di 30 milioni di persone. E’ una cultura nella quale bisogna nascere, innanzitutto, e nella quale bisogna essere allevati. Per noi è diverso, per noi i valori sono altri. Dall’altra parte invece, mi riferisco ad una buona parte dei palestinesi ma non a tutti, perché abbiamo visto l’altra volta che non tutti poi sono arabi e musulmani, esiste il concetto di comunità religiosa la “umma” - neanche a farlo apposta le radici di “umma” sono le stesse di “mamma”, che si dice “um”- quindi nella comunità c’è la madre Saviani: Però la “um”, “mamma”, è maschile. Cipriano: Sì perché lì il concetto di trasmissione avviene attraverso la donna ma deve avvenire in modo lineare attraverso il padre, quindi per poter fondere le due cose, è come se io chiamassi mia madre ‘mammo’! E nel ‘mammo’ io ho intessuti questi processi. Saviani: Quindi la “umma” è femminile.

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Cipriano: Ed è la comunità, ed è quindi il concetto di appartenenza, perché il concetto di mamma nel bambino è quello ‘sei mia, mi appartieni, io sono tuo, ti appartengo, sono il figlio...’ però allo stesso tempo noi apparteniamo a un qualcosa di più grande che sta intorno a noi ed è la ‘umma’. La umma che è l’insieme delle famiglie, l’insieme delle tribù, l’insieme dei clan. Sbailò: E’ estremamente interessante questo concetto dell’appartenenza territoriale. Oltretutto è disperante perché significa che non c’è niente da fare là! Cipriano: Non c’è niente da fare? Sbailò: Io sono convinto che sia molto difficile venirne fuori. Cipriano: Difficile sono d’accordo, ma che non ci sia niente da fare no, perché facendo proprio quella che è l’anamnesi storica del caso che abbiamo di fronte, ve lo dissi pure l’altra volta, se proprio vogliamo fare un discorso di diritti e rivendicazioni, quella terra apparteneva agli ebrei dalla notte dei tempi. Quanti Stati avevamo in Europa che prima esistevano e poi non sono esistiti più? Alcuni di questi sono tornati ad esistere: penso all’Estonia, quella che una volta si chiamava Slavonia, ecc., sono tornati ad esistere in seguito alle nuove determinazioni e ai nuovi assetti geo-politici che si sono creati nell’area. Sbailò: Se mi permetti mi inserisco un attimo. Secondo me, io credo che qui possiamo fissare alcuni punti. Primo, la questione dei dati di fatto, l’informazione, il fatto che questi dati di fatto diventano sempre più importanti in misura dell’esaurirsi della situazione precedente, quindi diventa sempre più difficile giudicare le cose obiettivamente. L’altro punto fondamentale è una visione il più possibile obiettiva, oggettiva, di quella che è la realtà del mondo islamico, delle sue categorie culturali. Quanto ne sappiamo noi? Ne sappiamo pochissimo. Io leggo qui di allarmi terroristici ecc. Questo significa che la questione palestinese, israelo-palestinese, non è una delle tante questioni di cui ci dobbiamo occupare ma è la questione chiave del Mediterraneo. Perché l’Europa unita sarà forte se riesce a giocare un ruolo in quell’area e nel Mediterraneo, altrimenti se non ci riesce, come diceva un grande giurista tedesco, Carl Schmitt, che cito spesso ma al quale sto dedicando i miei studi per combatterlo, ‘il sovrano è colui il quale decide nello stato di emergenza’ e prima ancora il vecchio Hegel nella Fenomenologia dello Spirito diceva: ‘il signore è tale soltanto se riesce a rischiare la vita’. Ora, se noi non riusciamo ad intervenire in Medio Oriente, il problema è la terra. L’Islam non è una religione spirituale, è una religione terrestre. Ora, nell’età della globalizzazione, stiamo assistendo a questo: che la terra è la pietra dello scandalo, cioè il problema, il residuo, ‘l’uranio impoverito’, di cui non riusciamo a liberarci. Hai voglia a fare moneta virtuale ecc, il problema lì è la terra! Cipriano: Dunque, non è possibile aspettare che il conflitto si auto-estingua. E un problema anche dell’Europa, per quel discorso che facevamo prima di stabilità e di equilibri politici: se noi abbiamo pace, se abbiamo equilibri politici, se non abbiamo guerra, riusciamo a far partire la prima cosa, che sono gli scambi commerciali, se ci sono gli scambi commerciali poi c’è il benessere, per tutti, nessuno escluso. Questo conflitto è il principale elemento di instabilità in una delle regioni che poi si trova al centro di processi di trasformazione nell’assetto internazionale. Una cosa importante sulla quale io insisto sempre è che l’Europa non deve limitarsi ad un’offerta. Bisogna

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andare giù con una proposta che debba poter essere accettata da tutte le componenti schierate e per fare questo bisogna lavorarci, bisogna tornare a lavorarci, bisogna mediare, bisogna vedere quali sono i punti che non vanno bene, bisogna anche lavorare diplomaticamente sull’uno e sull’altro fronte, bisogna cercare delle convergenze. E’ innegabile che alla fine di tutto questo in quelle zone noi abbiamo due vincitori e allo stesso tempo due sconfitti. Noi abbiamo Israele e i palestinesi che nel momento stesso in cui si dichiarano vincitori, e lo possono fare a ragion veduta, nel momento stesso sono due popoli sconfitti. Io sono stato in Israele, a Gerusalemme, a Tel Aviv, in questi posti qui: vedere ragazzi come voi, della vostra stessa età, che girano con lo zaino, con il mitra carico, con il caricatore inserito, sono delle situazioni incredibili. Vedere persone di 17-18-20 anni, persone molto giovani, che vanno in giro con il badge dei Pokemon, per dirvene una, e il mitra carico, con pallottole che vi ammazzano, vi passano da parte a parte, è un contrasto che mi ha lasciato interdetto. Ragazzi come voi che, beninteso, ridono, vanno in discoteca, si truccano prima di scendere, quando hanno finito il loro turno di servizio appendono la divisa poi mettono scarpe alla moda, jeans sdruciti. E quindi vedere questi forti contrasti veramente ti fa dire: “ma questo qui, in questo momento, è il vincitore, perché ha l’arma carica al fianco, o è lo sconfitto perché gli viene negata la sua gioventù, gli viene negato di essere una persona normale?”. Guardate che non è bello, secondo me, andare in giro con un’arma carica al fianco e col pupazzetto, col coniglietto di peluche: e chi sei in quel momento? Sei un guerriero? O sei uno che vuole vivere il suo tempo, la sua epoca, la sua libertà, la sua gioia di essere diciottenne, ventenne? E questo vale anche per i bambini dell’Intifada. L’Intifada poi è un discorso ancora molto più ampio, ancora molto più aperto. Dall’87 l’Intifada è stata la dichiarazione di vittoria, se vogliamo, dei palestinesi ma al momento stesso con l’Intifada comincia la loro sconfitta, il loro essere vittime; le famiglie fanno i figli perché quei figli devono essere consegnati a questa guerriglia, a questa forma di protesta, di contrasto dell’avversario israeliano. Per cui capiamo bene che quando i termini della questione si spostano a questo livello, ecco, noi non possiamo più parlare di vincitori e di sconfitti perché comunque al di fuori di quei territori, magari anche qui in mezzo a noi, c’è chi è diviso: ‘io sto con la Palestina’, ‘io sto con Israele’ e quindi questo dimostra come si possa essere vincitori e sconfitti allo stesso tempo. Vincitori perché comunque poi riesce a creare un’opinione pubblica che ti sostiene a livello internazionale, con falsa propaganda anche. Però alla fine poi sei uno sconfitto perché il momento stesso in cui esci di casa ti può scoppiare qualcosa a due metri di distanza e perdi la vita. Io ho provato a varcare la frontiera tra Egitto e Israele ed è stata una cosa allucinante. Eravamo un gruppo, io viaggiavo con mezzi di fortuna; a un certo punto sono arrivato lì e mi hanno detto: ‘ma lei da dove viene?’ ‘Dall’Egitto. E perché ?’ e tutta una serie di domande. Viaggiavo con passaporto italiano e avevo una strana somiglianza con un ‘Carlos’! Non ti dico i guai che ho passato! M’hanno preso e m’hanno chiuso da una parte. Dopo che si sono accertati chi fossi, perché tra l’altro io avevo un credito del Ministero degli Esteri, hanno controllato, hanno avuto conferma, m’hanno rimesso insieme agli altri e mentre facevamo questo, continuamente una persona girava e guardava nei posacenere, guardava nelle borse, chiedeva a tutti quanti di aprire valige, borse, borsette: il pericolo delle bombe era

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incredibile, è una delle zone di confine più calde del momento. Dopodiché ci hanno presi e messi tutti in un recinto con un filo spinato e due guardiani: così, in attesa della coincidenza, un autobus, che, per malasorte, è arrivata dopo un’ora e un quarto mentre noi eravamo in una zona desertica, con un filo spinato, due sentinelle armate e un sole a 45 gradi; siamo stati dalle undici di mattina all’una così! Naturalmente sì, noi ce la siamo presa con quei disgraziati, ma come dargli torto? Perché poi, come passavi, vedevi camion saltati in aria abbandonati sul ciglio della strada dalla parte egiziana; i cannoni sbucciati, tipo banane, che erano ancora lì lasciati a testimonianza di quelli che erano gli effetti devastanti della guerra. Mentre si attraversava il Sinai si vedeva un’enorme distesa di sabbia e all’improvviso usciva una figura umana che si avvicinava. Voi vi avvicinavate ed era un soldato, là sotto era tutto vuoto e c’erano tutti cannoni puntati, nonostante ci sia una fase di ‘distensione’ ecc. ecc, sotto la sabbia ci sono obici puntati, dall’una e altra parte. Non si vede nulla sopra, perché poi ci sono i satelliti che rilevano tutto, non si vede nulla, solo all’improvviso spunta il classico soldato che chiede un passaggio e dice semplicemente “portatemi a casa”. Capivi che c’era la guerra da questi particolari, per queste cose che vedevi. Per cui alla fine, e tornando anche al discorso che facevamo l’altra volta, io sono comunque della convinzione che il conflitto si risolve una volta che si definisce la questione della terra. Così, allo stesso tempo, come si pone una questione di diritto: innanzitutto il diritto al legittimo possesso di quella terra, perché il possesso ci deve essere e non basta che ci sia con la compravendita, il possesso deve essere legittimato. E poi i diritti che scaturiscono dall’osservanza di un patto: tra quelle persone deve essere fatto un patto, così come ci sono sempre stati patti, e sulla base dei patti che venivano di volta in volta stipulati, anche se per brevi periodi, brevi che possono essere stati anche cento e più anni, è stato possibile raggiungere la pace. Però badate bene, la cosa più difficile è questo delicato equilibrio, l’osservanza del patto: ‘ci sto io, ci sei anche tu. Ho diritto ad esserci io, hai diritto ad esserci anche tu’. Faccio subito un esempio di come, alla fine secondo me, questo processo effettivo comincia ad essere sentito, al di là delle propagande, anche dalle parti in causa: il nuovo leader che è stato eletto come primo ministro in Israele, Sharon, il giorno prima della sua elezione, aveva tuonato: “adesso che vado al governo distruggo questo, distruggo quello”, perché aveva bisogno ovviamente del consenso e ha puntato sulla paura della gente, sulla paura degli ebrei, sulla paura dei coloni e delle persone che si sentono minacciate. Provateci a vivere in uno stato di guerra, avreste paura anche voi, ho avuto paura anche io a viverci come visitatore; se viene qualcuno che ti dice “non ti preoccupare, io da domani faccio in modo che tu possa girare tranquillamente per le strade ecc., con la forza delle armi” io ti credo, perché l’esercito israeliano è all’avanguardia, è un esercito moderno, la polizia oltre che l’esercito, il servizio segreto, fra le altre cose, è anche ben dotato. Il giorno dopo essere stato eletto, ha cominciato a fare una clamorosa retromarcia, ha cominciato a cercare il dialogo, vuole andare avanti, e in fretta, verso il processo di pace, non vuole più, come giustamente diceva Ciro Sbailò, questo appoggio incondizionato dell’America, soprattutto quando con Bush c’è questa, chiamiamola, raffreddatura rispetto a quella che poteva essere un’amministrazione dei ‘democrats’ americani, e

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allora dice “sì, la pace io ve la voglio garantire, voglio darvi tutto ciò di cui avete bisogno, però l’elemento fondamentale prima della pace è che bisogna vincere la diffidenza” e la diffidenza viene dalla paura che loro si sveglino una mattina e gli salti l’auto sotto casa, che escano per andare a fare la spesa al mercato e gli arrivi un missile lanciato da un elicottero o che vadano a prendere l’autobus per andare a scuola e un pazzo imbottito di tritolo gli si schianti contro l’autobus e lo faccia saltare in aria. Quella è la paura, quello è il vero ostacolo da superare se si vuole arrivare ad un processo di pace. Superare questa paura, come una volta diceva Arafat “io ho messo dietro le spalle la mano con il mitra e sto porgendo la mano con l’ulivo” allora io dico, parafrasando Arafat, “posiamolo il mitra e porgiamo tutte e due le mani, soprattutto quella in cui c’è l’ulivo” se veramente vogliamo arrivare a questa soluzione di pace, perché poi, al di là di quelle che sono le facili demagogie, torno a ripetere, si tratta di due civiltà antichissime, degne del massimo rispetto e dai profondi valori spirituali e sociali. Saviani: Ringraziamo i nostri ospiti. La nostra esperienza continua con il lavoro che dovremo fare di elaborazione e di selezione dei materiali per produrre il nostro testo.

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Silvia Antonucci (giornalista), Massimo E. Baroni (studente Psicologia),

Massimiliano Borelli (5L), Giacomo Capaldi (5B), Stefano Filippo Castiglia (4D),

Silvia Crupano (4D), Jessica Ferretti (4D), Silvia Giacomini (5M),

Sarah Maltoni (5L), Paolo Manfré (5L),

Tommaso Sanna (5L), Ramacandra Wong (2N)

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Rassegna Stampa

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Documenti

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Palestina (Rizzoli Larousse 2000)

Regione storica del Medio Oriente tra il Libano e l'Hermon a nord, il Deserto Siriaco a est, la regione desertica che forma, poi, la penisola sinaitica a sud, il mar Mediterraneo a ovest. Il nome antico era Terra di Canaan dopo la conquista israelitica, secc. XIII- XII a.C., fu designata anche come Terra d'Israele; il nome di Palestina, nella forma Syria Palaestina, cioè la regione sira dei Filistei, diventò comune (per indicare tutta la regione) dall'epoca ellenistica. Dal 931 a.C. fu divisa tra i due regni ebraici, di Israele a nord, che nell'882 ebbe la sua nuova capitale a Samaria, e di Giuda, a sud, con capitale Gerusalemme. A questa divisione politica si sovrappose la divisione regionale; Giudea al sud, Samaria al centro, Galilea al nord. Secondo i tempi col nome di Palestina si compresero anche le regioni che avevano costituito gli antichi regni di Ammon e di Moab a est del Giordano e del Mar Morto. Storia La conquista di Gerusalemme a opera dei Romani (66-70) dopo la prima rivolta giudaica, segnò la diaspora definitiva del popolo ebraico, che inutilmente tentò di riacquistare l'indipendenza nel II sec. (seconda rivolta giudaica di BarKokheba, 132-135). Con l'affermazione del cristianesimo (costruzioni promosse da Costantino e da sant'Elena nei Luoghi santi), la Syria Palaestina diventò meta di pellegrinaggi e centro di diffusione del monachesimo. Gravi danni subì la regione nel VII sec. per le invasioni del sassanide Cosroe II (presa di Gerusalemme, 614) e degli Arabi (conquista di Antiochia, 636, e di Gerusalemme, 637), che la sottrassero definitivamente ai Bizantini, islamizzandola e arabizzandola in profondità. Il califfo ‘Umar vi stabilì un regime di tolleranza religiosa e tentò di garantire a Gerusalemme la preminenza sugli stessi Luoghi santi dell'Islam. Nel X sec. la Palestina passò ai Fatimidi d'Egitto e nel successivo ai Turchi Selgiuchidi (conquista di Gerusalemme, 1076). I nuovi conquistatori, mentre furono abbastanza tolleranti con gli ebrei, resero difficile ai cristiani l'accesso ai Luoghi santi, perseguitando talora i pellegrini e i cristiani indigeni (1011, distruzione della chiesa del Santo Sepolcro per ordine del califfo Al- Hakim). L'Occidente cristiano reagì con le crociate (secc. XI-XIII), che portarono alla conquista del Levante e alla costituzione degli Stati latini d'Oriente; questi, e soprattutto il regno latino di Gerusalemme, furono tramite prezioso per i mercanti latini che esercitarono i loro traffici con l'Oriente senza dover dipendere dai Bizantini e dai Turchi. In questo periodo (secc. XII-XIII) gli ebrei costituirono una ridottissima comunità spesso priva addirittura della sinagoga. I musulmani riuscirono gradualmente a distruggere il regno di Gerusalemme (1187, battaglia di Hattin e caduta di Gerusalemme; 1291, conquista di San Giovanni d'Acri) e la regione siriaco-palestinese passò sotto i Mamelucchi d'Egitto. Effimera fu la restaurazione cristiana nei Luoghi santi a opera di Federico II (trattato di Giaffa con il sultano Al-Malik al-Kamil, 1229), poiché la Città santa fu riconquistata dai musulmani nel 1244. Nel XIVe XV sec. si ebbe una certa immigrazione di Ebrei (quelli provenienti dalla Germania furono però osteggiati dai correligionari palestinesi); le espulsioni dei Sefarditi dai paesi iberici (1492 e 1495) portarono a una nuova e più consistente immigrazione (90.000 circa nel Levante, e 10.000 in Gerusalemme nel XVI sec.). Ai Mamelucchi d'Egitto nel XVI sec. subentrarono gli

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Ottomani (1517-1917), la cui amministrazione, salvo il periodo di Solimano il Magnifico, impoverì sia la popolazione araba sia le comunità ebraiche talora soccorse dalle congregazioni giudaiche europee (per es. quella veneziana nel 1601). Nel XVIII sec. ci fu il fallito tentativo di conquista napoleonica (febbraio-maggio 1799) e nel XIX l'occupazione del viceré di Egitto Mehmet Ali (1831-1840): per quanto effimera, questa fu benefica per taluni miglioramenti nell'amministrazione; la popolazione ebraica (ridottasi a Gerusalemme sulle 5.000 unità) fu accresciuta da nuovi immigrati askenaziti; in genere le comunità mantennero scrupolosamente le tradizioni giudaiche pur avendo anche adottato lingua e costumi della maggioranza araba. L'infittirsi dei rapporti con l'Occidente portò una certa prosperità con la fondazione di scuole, ospedali e istituzioni culturali; frequenti si fecero le spedizioni scientifiche di ricerca storica e archeologica (per es. i viaggi di Renan). Man mano che in Europa si affermavano nazionalismo e antisemitismo, l'immigrazione ebraica assunse maggiore consistenza e nuove caratteristiche. Nel XX sec. in seguito alla prima guerra mondiale e al crollo dell'Impero ottomano, la Palestina passò sotto l'amministrazione prima militare (1918-1920), poi civile (1920-1923) della Gran Bretagna, alla quale nel 1922 la Società delle Nazioni affidò il mandato sul paese. Il mandato entrò in vigore l'anno successivo. In seguito alla trasformazione dell'Organizzazione sionistica in Agenzia ebraica (1922) e all'aumento dell'immigrazione ebraica (specie dopo l'applicazione della politica razziale di Hitler, 1933), il paese fu teatro di sanguinosi disordini. Gli Arabi, temendo di essere ridotti a una minoranza rispetto agli Ebrei, dal 1935 al 1939 condussero una rivolta armata contro gli Inglesi. Lo scoppio della seconda guerra mondiale sospese le misure di pacificazione previste dal Libro bianco inglese del 1939. Al conflitto gli Ebrei parteciparono con un corpo di 27.000 volontari; alcuni commandos, istruiti dal generale Wingate e comandati da Dayan, furono impiegati nella campagna di Siria del 1941. Gli Arabi invece contribuirono con 13.000 uomini ma non celarono le proprie simpatie per il gran mufti di Gerusalemme, fuggito a Berlino nel 1941. Il rifiuto britannico di accogliere le raccomandazioni del congresso sionistico di New York (1942) per la costituzione dello Stato ebraico, la formazione della Lega araba (1945), l'organizzazione di un'immigrazione clandestina e di un nuovo terrorismo ebraico (Irgun, gruppi Stern, 1945-1946) persuasero la Gran Bretagna alla rinuncia del mandato (1947-1948). Poche ore prima dell'effettiva cessazione del mandato (15 maggio 1948) fu proclamato lo Stato d'Israele, subito attaccato dagli Stati arabi. Nel 1949 la commissione mista d'armistizio delle Nazioni Unite divise la Palestina in tre settori: il territorio di Gaza, occupato dall'Egitto; la maggior parte della Giudea e della fossa del Ghor (o del Giordano), attribuite alla Giordania; l'alta Galilea, gli altipiani occidentali e il Negev assegnati a Israele. Tale divisione, seppur rispettata nel fatto, non fu mai intimamente accettata dagli Arabi e la “questione palestinese” rimase aperta, esasperata dal problema dei profughi (1 milione 250.000 nel 1956) rifugiatisi nei territori dei diversi Stati arabi confinanti e vissuti in condizioni di estrema miseria. Nel 1964 i profughi furono inquadrati militarmente nell'Organizzazione per la liberazione della Palestina (OLP) di Ahmad Shukayri, di cui la guerra dei sei giorni (giugno 1967) mise in luce la fragilità.

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La guerra del 1967 inoltre permise a Israele di controllare tutta la Palestina con l'occupazione di Gaza, della Cisgiordania e del settore arabo di Gerusalemme. Mentre Israele si insediava nelle posizioni conquistate, perseguendo la politica delle “frontiere sicure” e respingendo la risoluzione n. 242 dell'ONU, la resistenza palestinese si riorganizzava. Essa si presentava divisa in varie formazioni (Al- Fatah, Fronte popolare di liberazione della Palestina FPLP, Fronte democratico popolare di liberazione della Palestina FDPLP, ecc.), ma sostanzialmente unita contro Israele. A partire dal 1969 la resistenza ebbe nell'OLP, passata sotto la direzione di ‘Arafat, una sorta di governo- ombra della nazione palestinese in grado di collegare i diversi movimenti e di stabilire rapporti con gli Stati arabi. Tuttavia, l'attività terroristica di alcuni gruppi creò seri problemi con i paesi che accoglievano i profughi e nei quali si trovavano le basi della resistenza, in particolare nel Libano e nella Giordania. Il primo ridusse la libertà d'azione dei Palestinesi dopo il raid israeliano contro l'aeroporto di Beirut (1968), mentre nella seconda si giunse a una guerra aperta tra l'esercito di re Husayn e i fedayin nel settembre 1970. In seguito la guerriglia si trasformò in terrorismo indiscriminato specie con la nascita di formazioni estremiste, tra le quali una chiamata Settembre nero in onore dei morti nella strage operata dall'esercito giordano. Sempre più frequenti divennero gli episodi di pirateria aerea e gli attacchi contro la popolazione civile. Il 1972 fu un anno particolarmente cruento con la strage dell'aeroporto di Lydda e quella di Monaco in occasione delle Olimpiadi. L'attività terroristica registrò in quegli anni un'allucinante escalation, alimentata, anziché repressa, dai bombardamenti operati dall'esercito israeliano contro i campi profughi. Dopo la guerra del Kippur (ottobre 1973), che ridimensionò il mito della superiorità militare di Israele, il problema palestinese entrò in una fase nuova, benché l'attività terroristica perdurasse (strage di Fiumicino nel dicembre 1973 e incursioni di fedayin in territorio israeliano). Si iniziò infatti a parlare di uno Stato palestinese, ‘Arafat intervenne per la prima volta all'ONU, dove fu votata (novembre) una risoluzione in favore del diritto dei Palestinesi ad avere una patria; l'OLP ottenne da più parti riconoscimenti come legittima rappresentante del popolo palestinese (malgrado il ruolo le fosse conteso dal re di Giordania). Ogni tentativo di risolvere la questione, però, si infranse di fronte al rifiuto del governo israeliano, deciso a mantenere il confronto esclusivamente sul piano militare. Il fatto nuovo fu costituito dal tentativo dell'OLP di inserirsi nella struttura amministrativa dei territori occupati, riuscendo a far eleggere i propri candidati, presenti nel Fronte nazionale, nelle elezioni municipali, tenutesi in Cisgiordania nell'aprile 1976. Il fenomeno venne ostacolato dal governo israeliano, che però non poté stroncarlo del tutto. Dopo un attentato di fedayin a Hebron (maggio 1980) alcun sindaci palestinesi furono arrestati ed espulsi, mentre i sindaci di Nablus e Ramallah subirono gravi attentati (giugno). Ad acuire le tensioni nei territori occupati contribuì soprattutto la politica di confisca delle terre arabe e l'aumento degli insediamenti ebraici nei territori occupati. L'ONU condannò tale politica israeliana e denunciò la sistematica violazione dei diritti umani, ma tale condanna non ebbe conseguenze per Israele. La resistenza palestinese, dopo il “settembre nero” giordano, aveva intanto rafforzato le sue basi in Libano. La guerra civile in questo paese finì quindi per coinvolgere l'OLP, che pure si era dissociata, e la

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popolazione civile, contro la quale si diressero gli attacchi delle forze cristiane e dell'esercito siriano. L'opinione pubblica rimase colpita dal lungo assedio cui venne sottoposto il campo profughi palestinese di Tell al-Zatar. L'OLP, che nel 1976 era entrata a far parte a pieno titolo della Lega araba, seppe dimostrare in questo periodo la propria accortezza politica, resistendo alla pressione dei diversi governi arabi che tendevano a subordinarla ai loro interessi, e la propria efficienza militare resistendo agli attacchi sia dei Siriani che degli Israeliani. La linea politica dell'OLP si trovò invece in difficoltà in seguito ai negoziati egizio-israeliani e l'organizzazione respinse anche l'autonomia della Palestina, prevista negli accordi di Camp David. Un valido appoggio la resistenza palestinese trovò dal 1979 nell'Iran islamico e nel 1981 ‘Arafat venne accolto trionfalmente a Teheran. Nel 1982 Israele invase il Libano, arrivando ad assediare la capitale nel tentativo di allontanare dai confini le basi palestinesi. La resistenza di questi ultimi e i massacri compiuti da falangisti libanesi con la copertura israeliana nei campi palestinesi di Sabra e Chatyla tramutarono il successo militare in sconfitta politica per il governo israeliano, che da quel momento dovette contrastare la crescente opposizione pacifista tra il popolo israeliano stesso. Israele poteva però contare, benché Begin avesse respinto il piano di pace americano, sul sostegno dell'amministrazione Reagan, mentre la resistenza palestinese si dilaniava in lotte intestine e il mondo arabo si divideva tra i sostenitori dell'Iran e gli alleati dell'Iraq nella lunga guerra che contrappose i due paesi del Golfo Persico. A prendere iniziative per risolvere la questione palestinese fu re Hussein, che propose la formazione di uno Stato palestinese confederato con la Giordania. La proposta portò all'avvicinamento tra l'OLP e la Giordania e nel 1984, quando Hussein decise di riprendere le relazioni con l'Egitto, l'iniziativa fu approvata da ‘Arafat. Si intensificarono anche le iniziative per la convocazione di una conferenza di pace per il Medio Oriente, ma tutti i piani proposti incontrarono l'opposizione del governo israeliano, che, da parte sua, intensificò la colonizzazione dei territori occupati. Nel 1986 però i rapporti tra Giordania e OLP divennero nuovamente tesi e le sedi della resistenza palestinese nel territorio giordano furono chiuse. La svolta avvenne con lo scoppio dell'intifada nei territori occupati. La dura repressione dell'esercito israeliano scosse l'opinione pubblica internazionale, colpita anche dagli atti terroristici dei servizi segreti israeliani all'estero contro i dirigenti palestinesi. L'OLP ottenne diversi riconoscimenti internazionali e nel luglio 1988 il re giordano annunciò la rottura dei legami legali e amministrativi con la Cisgiordania, riconoscendo di fatto l'OLP quale unico rappresentante del popolo palestinese. In Israele l'intifada e le iniziative internazionali provocarono la crisi nel governo di coalizione nazionale, ma le elezioni del novembre 1988 ribadirono l'equilibrio tra partito laburista e Likud. Nello stesso mese il consiglio nazionale palestinese, riunitosi ad Algeri, decise di accettare la risoluzione n. 242 dell'ONU, riconoscendo di fatto il diritto di esistere allo Stato d'Israele (rafforzato anni dopo, 24 aprile 1996, dalla cancellazione formale dell'articolo della Carta del 1964 in cui si enunciava l'obiettivo della distruzione di Israele) e proclamò lo Stato indipendente di Palestina. In dicembre si aprì il dialogo tra OLP e Stati Uniti, i quali nel febbraio 1989 arrivarono a condannare la politica israeliana nei confronti dell'intifada. L'invasione del Kuwait da parte dell'esercito iracheno distolse l'attenzione dalla questione palestinese e l'appoggio, seppure

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tiepido, dato dall'OLP a Saddam Hussein provocò una serie di attacchi politici ad ‘Arafat. Nel frattempo in Israele si assisteva alla massiccia immigrazione ebraica dall'Unione Sovietica e dagli altri paesi dell'Est europeo, tutti aspiranti coloni in Palestina. Gli anni Novanta videro dispiegarsi un'intensa diplomazia che portò inizialmente alla conferenza plurinazionale per la pace in Medio Oriente svoltasi a Madrid nel 1991, sotto l'egida degli Stati Uniti e la presenza dell'Unione Sovietica; ma il grande successo (dovuto molto alla volontà di mediazione del nuovo governo laburista israeliano) fu lo storico incontro del 13 settembre 1993 (avvenuto a Washington e per il quale ‘Arafat, Peres e Rabin furono insigniti del premio Nobel per la pace nel 1994) in cui, oltre al riconoscimento reciproco, fu firmata la “dichiarazione di principio sulle disposizioni interinali di autonomia” per i territori occupati. Essa prevedeva l'entrata in vigore della stessa a un mese di distanza (13 ottobre), seguita dal trasferimento ai Palestinesi di alcune competenze amministrative, dalla costituzione di un comitato di arbitraggio, uno di collegamento israeliano-palestinese e uno di cooperazione economica israeliano-palestinese, dall'apertura di un negoziato per il ritiro (entro due mesi) delle forze militari israeliane e dell'elezione di un Consiglio (autorità provvisoria di gestione palestinese che avrebbe dovuto portare allo scioglimento dell'amministrazione israeliana); entro tre anni avrebbero dovuto aprirsi i negoziati per lo statuto definitivo di autonomia e sulle questioni in sospeso. L'accordo (detto “di Gaza e Gerico”) più definito fu poi siglato l'anno successivo al Cairo (4 maggio). Secondo quanto stabilito, nel maggio 1994 l'autorità di controllo dei territori delle due città fu assunto dai Palestinesi; fu ripristinata la legislazione vigente prima dell'occupazione israeliana e prese forma il nuovo governo palestinese con una sua propria amministrazione; in più, nel 1995, l'accordo fu ampliato sulle competenze dell'autonomia palestinese in Cisgiordania (accordo “di Taba”). Ma fin dall'inizio la linea distensiva trovò una feroce opposizione dalle frange estremistiche delle due parti, la tensione, alimentata da attentati e repressioni, rimase altissima fino a culminare con l'assassinio di Rabin da parte di un fondamentalista ebraico (4 novembre 1995). Il fragile equilibrio della pace si ruppe anche se inizialmente qualche passo fu ancora fatto verso l'attuazione degli accordi. Nel gennaio 1996 si svolsero le prime elezioni palestinesi, boicottate da Hamas, Fronte democratico per la liberazione della Palestina e Fronte popolare, e ‘Arafat fu eletto presidente dell'Autorità nazionale palestinese, il suo partito si aggiudicò 65 seggi su 88 del Consiglio. L'evento decisivo per l'interruzione del processo di pace furono le elezioni israeliane del 29 maggio successivo che furono vinte dal Likud e portarono al governo il conservatore Benjamin Netanyahu. Ricominciò così la politica di appoggio a nuovi insediamenti ebraici nei territori occupati, accelerazione dell'acquisto di manodopera straniera non palestinese, isolamento dei territori occupati, rivendicazione di Gerusalemme, ecc. Davanti a queste scelte i Palestinesi non poterono che irrigidirsi e, malgrado le critiche più volte espresse dalla comunità internazionale, Israele ha proceduto nella non mediazione, disertando per periodi più o meno lunghi la tavola delle trattative e sempre alzandosi da questa con un niente di fatto. Una schiarita nel cielo della pace si è concretizzata dopo le elezioni anticipate israeliane con il ritorno dei laburisti al potere, nella persona di E. Barak.

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Medio Oriente ( Gedea Multimediale ) Lessico Termine con cui si indica l'insieme dei Paesi costieri del Mediterraneo orient. (Turchia, Siria, Libano, Israele, Egitto) e inoltre l'Iraq, l'Iran, Cipro, la Giordania e l'Arabia. Nell'accezione più vasta il M. comprende anche l'Afghanistan, la Libia e il Sudan. In ingl., Middle East. Storia: fino alla seconda guerra mondiale L'insieme dei problemi (questione mediorientale) connessi all'avvenire dell'area, popolata quasi esclusivamente da Arabi, che fino al 1914 era stata il fianco merid. dell'Impero ottomano, appare la prosecuzione, al di là della scomparsa dell'Impero, di uno dei temi della tradizionale Questione d'Oriente. La fine della I guerra mondiale suscitò diffuse speranze d'indipendenza e di libertà nel M.: in particolar modo quegli Arabi che avevano collaborato con gli Inglesi contro i Turchi confidavano nella possibilità di costituire un grande regno arabo sotto la guida dello sceriffo della Mecca Husayn. Ma nel corso della guerra la Gran Bretagna aveva preso altri impegni: con i sionisti, ai quali era stata promessa la creazione di un “focolare nazionale ebraico” in Palestina, e con i Francesi, ai quali era stata assegnata una vasta zona d'influenza da Beirut a Mosul. Alla conferenza della pace fu la logica imperiale che s'impose nettamente. Di qui una prima fase (1919-20) dall'impronta decisamente repressiva che vide sconfitto dai Francesi l'esercito arabo di Damasco, soffocati i moti nazionalisti egiziani, debellate le tribù ribelli della Mesopotamia. Più avanti prevalse la tendenza a creare dei sistemi imperiali, all'interno dei quali l'egemonia occid. fosse mitigata, senza però essere messa in dubbio, da concessioni nei riguardi dei nazionalisti locali. La Gran Bretagna promosse la trasformazione dell'Iraq da territorio sotto mandato a Stato indipendente (1930); concesse prima l'indipendenza e poi (1936) un trattato relativamente avanzato all'Egitto; affidò la parte transgiordanica del mandato palestinese ad !Abd Allah ibn al-Husayn, uno dei figli di Husayn (a un altro, Faysal, era toccato il regno iracheno); tuttavia in Palestina non fu in grado di trovare una soluzione che soddisfacesse gli Arabi come gli Ebrei. Da parte sua la Francia, potenza mandataria in Siria e Libano, si comportò con maggior rigidità: una breve parentesi di collaborazione con i nazionalisti siriani (1936-38) fu bruscamente chiusa dalla cessione di Alessandretta alla Turchia. La diffusa avversione anticolonialista che predominava nell'area sul finire degli anni Trenta condusse molti nazionalisti arabi a simpatizzare con le potenze dell'Asse: la manifestazione più preoccupante di questa tendenza si ebbe nell'Iraq, dove nel 1941 i militari filogermanici presero il potere. Ma, nonostante questa e altre minacce, il controllo dell'area finì per rimanere nelle mani degli Alleati, che nel luglio strapparono Siria e Libano al regime di Vichy. La Gran Bretagna approfittò della debolezza di de Gaulle per assicurarsi una posizione egemonica anche in Levante: Londra appoggiò i nazionalisti locali e Siria e Libano divennero due Repubbliche indipendenti. Ma questi vantaggi tattici – ai quali si potrebbe aggiungere la creazione, nel 1945, di una Lega Araba sotto la regia inglese – si dissolsero sotto il peso della crisi sopravvenuta nell'immediato dopoguerra. La

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Gran Bretagna non fu all'altezza della tradizione e delle proprie ambizioni: incapace di rifondare i propri rapporti con l'Egitto e con l'Iraq, vide il proprio prestigio gravemente compromesso dalla nascita di Israele sulle rovine del mandato palestinese. Storia: dalla I guerra arabo-israeliana al 1956 Lo shock causato dalla sconfitta araba nella I guerra arabo-israeliana (1948-49) parve dapprima esaurirsi in reazioni all'interno dei singoli Paesi arabi: nel 1949 un colpo di Stato portò i militari al potere in Siria, nel 1952 fu la volta dell'Egitto. Anzi sembrò che l'avvento di regimi diretti da una classe politica più “moderna” potesse consolidare la presenza occidentale nell'area: nel 1954 fu sottoscritto un trattato anglo-egiziano che poneva fine a un decennio di travagliati rapporti; nel 1955 il Patto di Baghdad diede un colpo di spugna al contenzioso tra la Gran Bretagna e l'Iraq. Ma la decisione anglo-statunitense di fare dell'Iraq il pivot di un'organizzazione di difesa regionale in funzione antisovietica spinse Nasser e la gran maggioranza dei nazionalisti arabi su posizioni ostili all'Occidente. L'Egitto scoprì il neutralismo, acquistò armi dalla Cecoslovacchia. Ma l'anno spartiacque fu il 1956: le pesanti condizioni con le quali Washington e Londra accompagnarono la proposta di finanziare la costruzione della diga di Assuan fecero fallire l'estremo tentativo di recuperare l'Egitto. Nasser decise la nazionalizzazione della Compagnia universale del canale di Suez. Storia: dalla II guerra arabo-israeliana al 1967 Dopo settimane di inutili trattative, Gran Bretagna e Francia decisero di ricorrere alla forza e organizzarono, assieme a Israele, quella che fu chiamata l'“aggressione tripartita” (ottobre-novembre 1956).L'affare di Suez, militarmente una secca sconfitta, politicamente una vittoria per Nasser, segnò la fine del vecchio colonialismo: Washington e Mosca, ostili alla spedizione franco-britannica, divennero da allora i principali interlocutori nell'area. Nel mondo arabo il nasserismo trovò in Suez un trampolino di lancio: una svolta a sinistra in Giordania fu soffocata nel 1957, ma nel 1958 la Siria decise di fondersi con l'Egitto nella Repubblica Araba Unita (R.A.U.) e l'Iraq conobbe un colpo di Stato militare repubblicano e progressista, mentre nel Libano soltanto un diretto intervento statunitense permise di evitare preoccupanti sviluppi. Tuttavia dopo il 1958 la posizione di Nasser conobbe un rapido deterioramento: Kassem (!Abd al Karin Qasim), il leader della rivoluzione irachena, riprese sotto nuovi paludamenti e con l'appoggio sovietico l'antica politica di Baghdad di rivalità nei confronti della R.A.U.; nel 1961 la Siria, delusa dall'esperienza unitaria, uscì dalla R.A.U. Una nuova svolta parve profilarsi nel 1962-63: rivoluzione filoegiziana nello Yemen, colpi di Stato guidati dal Ba!th in Siria e Iraq. Ma l'intervento egiziano nello Yemen si rivelò quanto mai controproducente e il Ba!th abbandonò il progetto federale a tre accarezzato nel corso del 1963. Nasser risalì la china nel 1964, quando si riunì al Cairo la prima Conferenza dei capi di Stato arabi: sembrò che la “solidarietà araba” contro “le mire espansionistiche dei sionisti” divenisse, o ridivenisse, un leit-motiv per gli Arabi. La mancata soluzione dell'affare yemenita, che opponeva di fatto Arabia Saudita e R.A.U., riportò alla luce la tradizionale opposizione tra progressisti

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e conservatori, due campi alle spalle dei quali esercitavano pressioni sempre più pesanti Stati Uniti e Unione Sovietica. Storia: dalla III guerra arabo-israeliana al 1972 Fu questo contesto che nel 1967 alimentò il terzo conflitto arabo-israeliano, risoltosi con una rapida vittoria di Israele, che conquistò il Sinai, la Cisgiordania e le alture di Golan. Il “nuovo 1948” condusse a una riedizione della politica dei vertici, una politica fondata su un'intesa “pratica” tra la R.A.U., che rinunciava a esportare la rivoluzione, e il blocco conservatore, che in cambio offriva consistenti aiuti finanziari. Inoltre il fallimento dei governi e degli eserciti arabi rilanciò il movimento della guerriglia palestinese, alla ribalta della scena mediorientale tra il 1968 e il 1970. Quest'ultimo anno vide l'avvio di una nuova fase della tormentata questione mediorientale. In Giordania fu schiacciato il movimento palestinese (ma le ultime basi furono espugnate nel 1971), la cui libertà d'azione fu ristretta al Libano, anche qui non senza contrasti e conflitti. In Egitto la scomparsa di Nasser condusse al potere il moderato Anwar as-Sadat, incline a contenere maggiormente l'influenza sovietica nell'area e quindi disposto a migliorare le relazioni con gli Stati Uniti: del resto lo stesso Nasser aveva accettato quel piano Rogers che prevedeva una soluzione pacifica del conflitto arabo-israeliano. Nel 1971 la nascita, sulla carta, di una Federazione delle repubbliche arabe tra Egitto, Siria e Libia parve consolidare l'evoluzione dei regimi progressisti verso un islamismo riformista e anticomunista. Storia: dalla IV guerra arabo-israeliana al 1982 Ma il fatto che il sensibile miglioramento dei rapporti tra U.S.A. e U.R.S.S. (1972-73) non portasse ad alcun ammorbidimento delle tesi israeliane convinse Egitto e Siria a lanciare un attacco contro Israele (ottobre 1973). La guerra, conclusasi con limitate acquisizioni territoriali da parte di Israele, costituì un successo politico per Egitto e Siria. Si sviluppò infatti un movimento di solidarietà tra i Paesi arabi che, utilizzando la propria posizionequali esportatori di petrolio, indussero i Paesi della C.E.E. ad assumere posizioni filoarabe, mentre l'Assemblea Generale dell'O.N.U. riconosceva (22 novembre 1974) l'O.L.P. quale rappresentante del popolo palestinese. Dopo gli accordi tra Israele ed Egitto (febbraio 1974) e Israele e Siria (maggio) per il disimpegno militare sui rispettivi fronti, l'Egitto riaprì il Canale di Suez (giugno 1975) e firmò un altro accordo con Israele (settembre) che portò a un indebolimento della solidarietà interaraba. Mentre Israele, favorevole ad accordi bilaterali con gli Stati arabi, persisteva nel subordinare il ritiro dai territori occupati alla conclusione di un trattato di pace, i Paesi arabi si dividevano in un gruppo, guidato dall'Egitto, deciso ad affrettare i tempi della distensione e un altro, favorevole a una trattativa globale, che poneva come condizione preliminare a ogni trattativa il ritiro di Israele da tutti i territori occupati e il riconoscimento dei diritti dei Palestinesi. Mentre la mediazione degli U.S.A. portava agli accordi di Camp David tra Egitto* e Israele (settembre 1978), restava irrisolta la questione palestinese che finì per fare del Libano la sede principale del confronto militare arabo-israeliano; la presenza nel Paese di basi dell'O.L.P. e le rappresaglie israeliane in territorio libanese radicalizzarono la crisi politico-sociale e la conflittualità tra

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O.L.P. e milizie cristiano-maronite cui pretese di porre fine la Siria invadendo il Paese (v. Libano). Storia: dall'invasione del Libano al 1990 Mentre si moltiplicavano i fattori di divisione del mondo arabo (tensioni ai confini tra Iraq e Siria e tra Siria e Giordania, differenti posizioni dei singoli Stati di fronte alla guerra tra Iraq e Iran), Israele, nel giugno 1982, invadeva il Libano merid., determinando l'allontanamento dell'O.L.P. dal Paese. Successivamente l'invio a Beirut di una forza multinazionale di pace sembrava aprire una fase di tregua; ma già alla fine del 1983 si intensificavano da un lato la lotta tra l'O.L.P. e i gruppi palestinesi sostenuti dalla Siria, dall'altro le offensive tra le forze libanesi arabe e quelle cristiane. Il ritiro (1984) degli uomini della forza multinazionale di pace e quello (1985) degli Israeliani determinavano la ripresa della lotta fra le varie fazioni conclusasi sostanzialmente solo nel 1990 con l'intervento siriano, che metteva fine alla sobillazione del generale maronita Michel Aoun contro il presidente, anch'esso maronita, Elias Hrawi. Per tutti gli anni Ottanta la situazione di crisi nell'area era stata aggravata da altri conflitti. Nel 1979 l'U.R.S.S. invadeva l'Afghanistan per sostenervi un regime fedele, ma incontrava una forte resistenza armata che le sue truppe non riuscivano a piegare. Dopo il disimpegno militare sovietico (1989) le formazioni ribelli riuscivano gradualmente a impossessarsi di tutto il territorio conquistando (1992) la capitale, ma per i numerosi contrasti all'interno delle varie fazioni armate la situazione in Afghanistan rimaneva lungi dall'essere normalizzata. Nel 1980 l'Iraq attaccava l'Iran dando il via a una sanguinosa guerra che lasciava sul terreno oltre un milione di morti e si concludeva solo nel 1988 con una situazione di stallo. Storia: dalla guerra del Golfo ad oggi Un'ulteriore iniziativa irachena, questa volta contro il Kuwait invaso nel 1990, faceva salire nuovamente la tensione internazionale e l'O.N.U. autorizzava l'uso della forza per liberare il piccolo regno arabo. La guerra del Golfo*, conclusasi con la sconfitta dell'Iraq (1991) favoriva una ridislocazione delle forze dell'area, particolarmente della Siria nell'occasione alleatasi con gli U.S.A. Questo fatto, insieme alla fine del bipolarismo, determinava un diverso scenario in cui, pur rimanendo aperte molte questioni, tracui quella curda, si rendeva possibile l'avvio di una fase di cauta distensione nell'area. In questo quadro poteva andare in porto l'iniziativa statunitense di avviare una conferenza di pace che mettesse intorno allo stesso tavolo Arabi, Palestinesi e Israeliani per discutere le soluzioni di una duratura sistemazione della regione. La conferenza, che, apertasi a Madrid nel novembre 1991, nel 1992 proseguiva i suoi lavori negli U.S.A., riceveva nuovi impulsi dai risultati delle elezioni politiche in Israele (1992), vinte dai laburisti. Benché ancora lontano da una conclusione soddisfacente per tutte le parti e ostacolato anche dai ripetuti scontri che continuano a verificarsi nei territori occupati e soprattutto nel Libano meridionale, il negoziato avviato nel 1991 ha alimentato un moderato ottimismo riguardo al futuro dell'area.

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Decolonizzazione (Gedea Multimediale ) Lessico sf. [sec. XX; da decolonizzare]. Processo di evoluzione storico-politica che ha condotto i territori sotto tutela coloniale all'emancipazione e all'indipendenza. Storia In via generale la d., intesa come fenomeno di attualità storica, può ricollegarsi ai due conflitti mondiali e alle conseguenze da essi determinate. Il concetto appare tuttavia applicabile anche a un passato più remoto e trova precedenti significativi nel sec. XVIII (ribellione delle colonie inglesi dell'America del Nord e nascita della Confederazione degli Stati Uniti) e nel sec. XIX, allorché le colonie spagnole dell'America Centrale e Meridionale e il Brasile si liberarono dal giogo delle rispettive metropoli conseguendo l'indipendenza. La stessa creazione (in conseguenza del rapporto Durham del 1839) dei Dominions come entità autonome in seno all'Impero inglese (Canada nel 1867, Australia nel 1900, Nuova Zelanda nel 1907, Unione Sudafricana nel 1910) può ascriversi nel quadro d'una d. ante litteram. Coi due conflitti mondiali, e in particolare col secondo, la d. acquistò però un significato e una portata più chiari e determinanti. Il primo conflitto mondiale, pur non intaccando sostanzialmente le posizioni del colonialismo, fu già apportatore di fermenti e di principi nuovi: la risoluzione votata nel dicembre 1917 dal Partito laburista inglese per l'internazionalizzazione delle colonie e sostenuta dallo stesso Partito socialista italiano; i 14 punti del presidente Wilson recepiti in parte dalla Carta della Società delle Nazioni; l'istituzione dei Mandati internazionali sotto il controllo della stessa Società delle Nazioni; il sorgere e lo svilupparsi negli Stati Uniti di movimenti per l'emancipazione della razza negra e degli africani (movimento panafricano del Du Bois e movimento pan-negro del Garvey); la prima presa di coscienza da parte dei sudditi di colore, chiamati a combattere a fianco degli Alleati, furono tutti elementi destinati a svilupparsi e ad affermarsi nel periodo compreso tra i due conflitti mondiali. Con la II guerra mondiale l'antitesi colonialismo-anticolonialismo si fece più acuta. Vanno ricordate talune solenni enunciazioni e impegni di carattere internazionale, quali: la Carta Atlantica che, già nel 1941, riconosceva «il diritto di tutti i popoli a scegliersi la forma di governo sotto la quale desideravano vivere e a vedere restaurati i diritti sovrani e l'autonomia a favore di coloro che ne erano stati privati»; la formulazione, nel 1945, della Carta delle Nazioni Unite, con la quale le potenze coloniali si assumevano il «sacro mandato» di «sviluppare l'autogoverno e di prendere in debita considerazione le aspirazioni politiche dei territori non autonomi» (art. 73) e di «promuovere il progressivo avviamento all'autogoverno e all'indipendenza» dei territori in amministrazione fiduciaria (art. 76); la successiva Dichiarazione Universale dei Diritti dell'Uomo, votata nel 1948 dalle stesse Nazioni Unite, che, ripudiando qualsiasi forma di discriminazione razziale, di soggezione politica e d'ingiustizia

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sociale ed economica, suonava condanna inappellabile del colonialismo. Su un piano ancor più diretto e specifico, le conferenze di Bandung (1955), del Cairo e di Accra (1957-58) rappresentarono tre momenti decisivi dell'anticolonialismo. Particolare valore e un consistente apporto dinamico furono poi conferiti al processo di d. dalle élites e dai movimenti nazionalisti africani e asiatici che espressero leaders autorevoli, destinati a sostenere una parte di primo piano nella lotta per l'indipendenza dei rispettivi Paesi. Né vanno dimenticati, in questo contesto, l'azione condotta dal comunismo internazionale, risoluto sostenitore dell'anticolonialismo e dell'antimperialismo, lo stesso atteggiamento anticolonialista degli Stati Uniti, la posizione spesso liberale della Chiesa, il contributo del sindacalismo quale componente politica dei nazionalismi afroasiatici. Tutti questi fattori, e altri di minore rilievo, dovevano portare, dopo la II guerra mondiale, al superamento del fatto coloniale e all'affermarsi della d. che ha interessato soprattutto l'Africa e l'Asia e si è concretata nell'indipendenza della quasi totalità dei territori. La d. politica non ha però coinciso con la d. economica, le condizioni di sottosviluppo del Terzo Mondo hanno costretto i Paesi di recente indipendenza a conservare vincoli e a ricevere aiuti dalle ex potenze coloniali o dagli altri Paesi industrializzati, considerati spesso lesivi, anche sul piano morale, della libertà conquistata. Questa situazione di fatto viene oggi indicata col termine di neocolonialismo. Storia: decolonizzazione in Africa Il primo conflitto mondiale ebbe in Africa riflessi limitati ma significativi. Le colonie ex tedesche anziché essere annesse direttamente dalle potenze vincitrici furono a esse affidate come Mandati dalla Società delle Nazioni. In vari territori coloniali (Tunisia, Algeria, Marocco, Senegal, Sudan anglo-egiziano, Nigeria, Sierra Leone, Kenya, Gabon, ecc.) cominciarono tra la I e la II guerra mondiale a costituirsi associazioni e movimenti di carattere politico, guidati da leaders di grande prestigio, come Burghiba, Azikiwe, Kenyatta, Gueye, Mba, ecc. Tuttavia, allo scoppio del secondo conflitto mondiale i soli Paesi indipendenti dell'Africa (un'indipendenza condizionata, tra l'altro, da ipoteche di vario genere) erano l'Egitto, la Liberia e l'Unione Sudafricana. Ma già nel 1941 l'Etiopia (conquistata nel 1935-36 dall'Italia) riacquistava la sua indipendenza. Quindi, in conseguenza del Trattato di pace di Parigi del 1947, l'Italia rinunciava ai suoi possedimenti coloniali, del cui destino l'O.N.U. decideva con due risoluzioni del 1949 e del 1950. La Libia diventava indipendente il 24 dicembre 1951, la Somalia era affidata in amministrazione fiduciaria alla stessa Italia per un periodo di 10 anni (abbreviato poi di 5 mesi), l'Eritrea era costituita in entità autonoma federata all'Impero etiopico a partire dall'11 settembre 1952. In definitiva la d. trovava il suo primo e più concreto incentivo in Africa proprio nelle decisioni riguardanti le ex colonie italiane. Su gran parte del continente le forze politiche si erano andate, subito dopo il 1945, organizzando in partiti popolari di carattere territoriale (come, p. es., il Convention People's Party di Nkrumah nel Ghana) o interterritoriale (come, p. es., il Rassemblement Démocratique Africain di Houphouet-Boigny nell'Africa Occidentale ed Equatoriale Francese), facendosi portatrici di rivendicazioni di chiaro tenore nazionalista e anticolonialista. Nel 1956 accedevano all'indipendenza il Sudan

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anglo-egiziano, la Tunisia e il Marocco, seguiti nel 1957 dalla Costa d'Oro che assumeva il nome di Ghana. La Francia, intanto, dopo la Loi Cadre del 1956, dava vita nel 1958, col generale De Gaulle, alla Comunità francese*. Fautore della piena indipendenza, Sekou Touré rifiutò l'ingresso della Guinea nella comunità e ne proclamò l'indipendenza (2 ottobre 1958). Il 1960 fu l'anno cruciale della d. in Africa: 14 territori amministrati dalla Francia (Camerun, Togo, Senegal, Sudan occid., Madagascar, Alto Volta, Dahomey, Niger, Costa d'Avorio, Ciad, Rep. Centrafricana, Gabon, Rep. Pop. del Congo, Mauritania) e Nigeria, Somalia ex italiana e Somaliland, Rep. Dem. del Congo, accedevano all'indipendenza. Sola nota drammatica fu il Congo ex belga, il cui iter verso l'impegnativo traguardo s'era svolto all'insegna dell'improvvisazione e della disarmonia. Negli anni successivi la d. interessava la Sierra Leone e il Tanganica (1961), l'Algeria (unica indipendenza scaturita da un lungo e sanguinoso conflitto), il Ruanda, il Burundi e l'Uganda (1962), Zanzibar e il Kenya (1963), il Malawi, già Nyasaland, e la Zambia, già Rhodesia del Nord (1964), la Gambia (1965), il Botswana, già Bechuanaland, e il Lesotho, già Basutoland (1966), e infine Maurizio, la Guinea Equatoriale, già Guinea Spagnola, e Swaziland (1968). Alla prima d., avvenuta tra il 1951 (Libia) e il 1968, fece seguito una pausa di 6 anni. La caduta, nel 1974, della dittatura portoghese e la dichiarazione ufficiale del 27 luglio 1974, con la quale il nuovo governo di Lisbona s'impegnava sulla via della d., inauguravano la seconda fase delle indipendenze africane, apertasi nello stesso 1974 con la Guinea-Bissau e proseguita nel 1975 col Mozambico, le isole del Capo Verde, le isole Sâo Tomé e Principe, l'Angola. Al di fuori del quadro dell'Africa ex portoghese, si realizzavano ancora tre indipendenze: quelle delle isole Comore (1975), delle isole Seicelle (1976) e di Gibuti (1977). A parte le modeste dipendenze amministrate dalla Gran Bretagna, Francia e Spagna, la d. in Africa, sul piano politico, si può considerare definitivamente conclusa alla fine degli anni Ottanta con la caduta dell'apartheid. Nello Zimbabwe (ex Rhodesia) solo con la revisione costituzionale (1987) si aboliscono i privilegi politici dei bianchi consentendo una reale libertà alla popolazione nera; in Namibia la piena indipendenza viene raggiunta nel marzo 1990, mentre nella Rep. Sudafricana la liberazione di Nelson Mandela* (febbraio 1990) e le successive elezioni multirazziali del 1994 che lo vedono vincitore sanciscono la fine della discriminazione razziale. Tuttavia tutto il fenomeno storico della colonizzazione e della successiva d. lascia aperti notevoli problemi, da quelli economici a quelli della stabilità politica, a quelli dei numerosi contrasti per motivi di confine o interetnici (Marocco-ex Sahara Occ., Libia-Ciad, Somalia-Etiopia, Etiopia-Eritrea, ecc.) per i quali il continente africano del dopoguerra è teatro di continui conflitti. Storia: decolonizzazione in Asia Difficile una sintesi rapida e unitaria della d. in Asia, dove in molti casi il concetto stesso di colonialismo sembra applicabile solo in maniera parziale o anomala rispetto al modello tipico, all'immagine che il termine stesso evoca, quella cioè di un'amministrazione diretta e autoritaria da parte di una potenza occidentale (bianca, cristiana, industrializzata) su una popolazione totalmente diversa (di colore,

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non cristiana, preindustriale). Il processo di d., in Asia, iniziò attraverso una graduale presa di coscienza di élites intellettuali dei Paesi colonizzati. In linea di massima si può dire che una prima fase non ebbe i caratteri della lotta frontale contro i Paesi colonizzatori, anzi, i piccoli gruppi “illuminati” non pensavano che a introdurre nei rispettivi Paesi i valori e le istituzioni europee (soprattutto inglesi) nella convinzione (quasi sempre delusa) di avere in questo progetto l'appoggio dei bianchi stessi (basti pensare all'anglofilia dei primi leaders del Congresso indiano o alle forme di religione sincretistica, dai T'ai-p'ing ai caodaisti vietnamiti). Inoltre, l'espansionismo giapponese, se da un lato allargava lo specifico impero coloniale giapponese (comprendente a diverso titolo Corea, Taiwan, Manciuria e, poi, i territori conquistati durante la II guerra mondiale), allo stesso tempo minava di fatto la presenza occidentale del continente. Questo spiega come e perché numerosissimi combattenti della d. asiatica si siano schierati al fianco dei Giapponesi durante l'ultimo conflitto mondiale, dall'indiano Chandra Bose all'indonesiano Sukarno, al birmano Aung San. Già prima della fine del conflitto, comunque, il governo britannico, con una revisione delle costituzioni, concesse una maggior rappresentanza agli autoctoni per cercare di frenare i movimenti indipendentistici. In India non riuscì tuttavia a contenere il movimento di disobbedienza civile e nel 1945 il governo laburista pensò di sostituire al vincolo coloniale un'associazione volontaria favorendo l'autodeterminazione dei popoli e vincolandoli nel Commonwealth. Nel marzo del 1947, 250 delegati di 25 Paesi asiatici, riuniti a Nuova Delhi, espressero chiaramente l'intenzione di respingere qualsiasi tentativo di ritorno offensivo delle potenze coloniali; il 15 agosto dello stesso anno India e Pakistan proclamarono la propria indipendenza, lo stesso fecero nel 1948 Ceylon e Birmania. Il Commonwealth, non senza resistenza, si trasformò per permettere l'ingresso dei nuovi membri. Solo più tardi, nel 1957, raggiunse l'indipendenza la penisola malese e ancora più tardi il Borneo Settentrionale (1963) che entrò a far parte della Malaysia. Hong Kong sopravvive ancora come colonia britannica, ma il Trattato cino-inglese del 19 dicembre 1984 stabilisce che quel territorio tornerà alla Cina dal 1º luglio 1997 con un'ampia autonomia amministrativa e il mantenimento per 50 anni dell'attuale sistema economico. Più complessa fu la soluzione del problema nelle colonie olandesi e nell'Indocina francese; nelle Indie Olandesi il governo dell'Aia tentò di frenare l'evolversi della situazione con una vera e propria guerra coloniale ma nel 1950, internazionalmente isolati e osteggiati all'O.N.U., i Paesi Bassi dovettero riconoscere l'indipendenza della Repubblica Indonesiana. In Indocina, dopo decenni di guerriglia e poi di guerra aperta, non interrotti che per brevi momenti dopo gli aleatori accordi di Ginevra con i Francesi (1954) e di Parigi con gli Americani (1973), Viet Nam, Cambogia e Laos raggiunsero finalmente (1975) l'indipendenza eliminando le forze filoamericane dai rispettivi Paesi. Nel 1946, gli Stati Uniti avevano pacificamente lasciato le Filippine. Goa e gli altri territori minori sono entrati a far parte dell'India in seguito a un'azione militare di quest'ultima nel 1961, mentre Macao rimane per ora dipendenza portoghese (secondo un accordo sottoscritto a Pechino nel 1987, tornerà sotto la sovranità cinese nel 1999, e godrà di ampia autonomia mantenendo invariato per almeno 50 anni l'attuale sistema economico e sociale). Nel Medio Oriente, Siria e Libano furono evacuati nel 1946 dalle truppe francesi (formalmente l'indipendenza era stata

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proclamata nel 1941, ma l'applicazione era stata rinviata alla fine del conflitto), mentre la Gran Bretagna, che già nel 1932 aveva concesso l'indipendenza all'Iraq, incapace di comporre la rivalità tra Arabi e Israeliani, nel 1947 chiese l'intervento dell'O.N.U. che stabilì una suddivisione del territorio; questo assetto fu inficiato dal primo scontro tra Arabi e Israeliani in concomitanza col quale fu proclamata l'indipendenza dello Stato d'Israele (1948). Ma proprio il permanere di una situazione di forte conflittualità tra Paesi arabi e Israele ha determinato nel corso di successive guerre (1956, 1967, 1973, 1982) un allargamento dei territori israeliani nella regione e una conseguente loro colonizzazione in particolare in Cisgiordania e Gaza. Bibliografia H. Labouret, Colonisation, Colonialisme, Décolonisation, Parigi, 1952; H. Deschamps, La fin des empires coloniaux, Parigi, 1959; W. M. Mac Millan, La via verso l'indipendenza, Roma, 1963; K. Nkrumah, Neo-colonialism. The Stage of Imperialism, Londra, 1965; P. Auphan, Histoire de la décolonisation, Parigi, 1967; S. Berstein, La décolonisation et ses problèmes, Parigi, 1969; R. Delavignette, Du bon usage de la décolonisation, Parigi, 1969; C. Giglio, Colonizzazione e decolonizzazione, Cremona, 1971; G. Vedovato, Decolonizzazione e sviluppo, Firenze, 1973; G. Calchi Novati, La decolonizzazione, Torino, 1983.

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Sionismo ( Gedea Multimediale )

Lessico sm. [sec. XIX; da Sion, una delle alture su cui sorge Gerusalemme]. Moderno movimento ideologico-politico volto a realizzare la definitiva emancipazione del popolo ebraico mediante la costituzione di un “focolare nazionale” indipendente nella patria storica del popolo biblico: la Palestina. Gli antecedenti storici di tale movimento sono certo molto antichi e andrebbero ricercati nei tempi più lontani della diaspora* ebraica, o addirittura nel profondo legame politico-religioso che unisce il popolo mosaico alla terra promessa. Cenni storici: Il sionismo dalle origini a T. Herzl. Durante tutti i lunghi secoli della diaspora (ma la storiografia ebraica non parla di “dispersione”, tefuzah, bensì di galut, che letteralmente significa esilio) non venne mai meno negli Ebrei un sentimento di accorata nostalgia per l'antica patria perduta, né la sofferta aspirazione di ritornarvi un giorno. Furono, anzi, questi due stati d'animo, strettamente legati al sentimento religioso, alla base del messianismo* ebraico, di tanto in tanto, nei periodi più bui delle persecuzioni e dei massacri, personificato da alcuni falsi messia che suscitavano al loro passaggio speranze ed entusiasmi nelle comunità ebraiche martoriate e prostrate, promettendo la liberazione e un prossimo ritorno in Palestina (p. es. gli episodi di D. Reubeni, 1524, S. Molcho, 1530, S. Zevi, 1665, J. Frank, 1756). Perché i tempi fossero maturi per la nascita del moderno s. si dovettero attendere anzitutto gli esiti della Rivoluzione francese, che concedendo la piena emancipazione giuridica e politica agli Ebrei contribuì a ridare loro il senso del valore di una pari dignità personale per Ebrei e non Ebrei; in secondo luogo le involuzioni della Restaurazione*, allorché, ripristinati quasi ovunque i ghetti e le “interdizioni israelitiche”, gli Ebrei risentirono maggiormente i contraccolpi della perdita della loro dignità umana da poco conquistata; e, da ultimo, il diffondersi inarrestabile dei programmi indipendentistico-nazionali degli altri popoli. Ma allora il s. dovette necessariamente sorgere e svilupparsi come reazione al rinascente antisemitismo dell'Europa occid. e ai continui pogrom dell'Europaorientale. Da principio si ebbero dunque così (con scarso successo) i primi parziali tentativi di colonizzazione della Palestina (fondazione della fattoria modello di M. Montefiore nel 1856 e della scuola di agricoltura di Mikveh Israel voluta da Ch. Netter nel 1870), mentre con altrettanto scarso seguito Zvi Hirsch Kalischer e M. Hess (Roma e Gerusalemme, 1862) cominciarono a teorizzare la necessità di creare uno Stato ebraico in Palestina a rifugio dei connazionali perseguitati. Analogamente, non molto maggiore successo ebbe anche L. Pinsker con lo scritto Autoemancipazione (1882). Tuttavia, egli con questo suo opuscolo riuscì in parte a influenzare i movimenti Choveve Zion (Amanti di Sion, 1881) e Bilu (1882; nome derivante dall'acrostico del versetto di Isaia II, 5: Beth Jakov Lechù Venelechah, casa di

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Giacobbe alzati e vieni), che animarono la Aliyah, cioè la prima modesta immigrazione ebraica in Terra Santa, dove fondarono le colonie di Zikhron Yaakov, Petach Tikvah e Rishon Le-Zion. Insomma, alla fine del sec. XIX il s. politico rimaneva un ideale vissuto da piccole minoranze fra stenti incredibili e in modo precario. Chi ne fece, con instancabile attività e trascinanti doti di propagandista ispirato, un movimento di ampie dimensioni fu T. Herzl. Cenni storici: l'opera di T. Herzl Questi, inizialmente tipico rappresentante dell'ebraismo mitteleuropeo colto e integrato, sotto lo shock dell'antisemitismo francese esploso in modo virulento in occasione del processo Dreyfus, si fece banditore di un programma sionista pubblicando nel 1896 Der Judenstaadt (Lo Stato ebraico), dove sosteneva come unica soluzione possibile della “questione ebraica” la costituzione di uno Stato ebraico. Certo, in tale scritto non era ancora stabilita una chiara connessione necessaria fra Terra d'Israele e Stato ebraico da fondare (alcuni esponenti del mondo ebraico, infatti, pensarono anche all'Argentina o all'Africa), ma già era compresa da Herzl la necessità di “organizzare le masse ebraiche” in senso politico nazionale. A tale scopo, Herzl promosse il I Congresso sionista, tenuto a Basilea il 29 agosto 1897, cui parteciparono 197 delegati eletti dalle comunità ebraiche di tutto il mondo (70 provenivano dall'Europa orient.) e in seno al quale furono approvati la bandiera e l'inno nazionale, fondata l'Organizzazione sionista mondiale e votato il Programma di Basilea, chiaramente impegnato a preparare e favorire l'immigrazione degli Ebrei in Palestina in vista di un loro “focolare nazionale garantito dal diritto pubblico internazionale”. Per attuare simili impegni sia sul piano diplomatico sia su quello economico-finanziario (inizialmente assunti direttamente da Herzl), vennero in seguito creati appositi organi, quali la Jewish Colonial Trust e il Keren Kayemet Le-Israel (fondo nazionale ebraico), destinati a raccogliere fondi per l'acquisto di terre in Palestina e sottoposti al controllo annuale del Congresso sionista mondiale, che in tal modo fungeva da organo supremo dell'ebraismo intero. Ben presto però, in seno a tale organo, le forti comunità della Russia andarono prendendo sempre più potere. Lo si vide al VI Congresso (1903) allorché il gruppo dei Sionisti di Sion, in gran parte provenienti appunto dalla Russia e capeggiati da Ch. Weizmann, respinse l'idea di Herzl di accettare la proposta inglese di un Circolo nazionale ebraico in Uganda, riaffermando definitivamente la scelta “palestinese” del movimento. Nacque allora la scissione dei moderati di I. Zangwill, che diedero vita all'International Jewish Territorial Organization, favorevole a un insediamento ebraico in America Latina o in Africa. Frattanto in Russia, mentre infuriavano i pogrom di Kisinev e d'ottobre (a seguito dello scoppio della I Rivoluzione russa, 1905) il movimento sionista veniva sempre più diffondendosi sia sotto l'influenza del socialismo umanitario (predicato nella “religione del lavoro” di A. D. Gordon) sia sotto quelle del s. culturale (A. Haam, H. N. Bialik) determinando quella II Aliyah (detta anche dei pionieri) che trasferì in Terra d'Israele i propri ideali di eguaglianza sociale e dignità nazionale, disseminando la Giudea e la valle del Giordano di villaggi collettivi (kibbutz) o cooperativi (moshav). In tale modo allo scoppio della I guerra mondiale, nonostante le crisi politiche interne, il s. poteva già vantare al proprio attivo un forte incremento

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della popolazione ebraica in Palestina, una larga diffusione in essa della lingua e della cultura ebraica a discapito dei vecchi dialetti del galut (yiddish e ladino) e un'estesa opera di bonifica agricola.Cenni storici: il sionismo nel periodo delle due guerre mondialiLa I guerra mondiale fermò le realizzazioni pratiche del s., ma lo rilanciò sul piano politico internazionale. Durante la guerra, infatti, vennero organizzati corpi volontari ebraici (il Sion Mule Corps e la Legione Ebraica), che si batterono a fianco degli Alleati contro l'Impero turco; ma soprattutto, a Londra, Weizmann (nuovo capo del s. dopo la morte di Herzl) riuscì a convincere gli Inglesi ad appoggiare le richieste del suo memorandum Programma di reinsediamento ebraico in Palestina in accordo con le aspirazioni del movimento sionista. Ne nacque la Dichiarazione Balfour (1917) secondo la quale il governo inglese si diceva «favorevole all'insediamento in Palestina di un focolare nazionale per il popolo ebraico» e si impegnava a fare «ogni sforzo possibile per facilitare la realizzazione di questo obiettivo». Alla fine della guerra, inserita la Dichiarazione nel trattato di pace con la Turchia e affidata la Palestina al mandato britannico, per controllare l'applicazione dei principi della Dichiarazione e intrattenere i rapporti con la potenza mandataria, venne creata la Jewish Agency (Agenzia Ebraica, A.E.), che molto spesso dovette scontrarsi con i nuovi indirizzi filoarabi d'Oltremanica. Le nuove ondate di antisemitismo in Europa orient., prima e dopo l'avvento del nazismo in Germania, alimentarono correnti di immigrazione ebraica sempre più numerose (e spesso clandestine) creando gravi problemi organizzativi agli organismi del s. che già dovevano affrontare anche i primi attacchi arabi (tumulti di Jaffa, 1921; eccidio di Hebron, 1929; tumulti del 1936) tollerati dall'amministrazione inglese. Per garantire la sicurezza degli insediamenti ebraici, l'A.E. organizzò allora la formazione di “autodifesa” Haganah, mentre contemporaneamente proseguiva negli sforzi per risolvere i gravi problemi economici e sociali dei nuovi immigrati continuando nelle opere di bonifica territoriale, fondando altre comunità agricole e i primi opifici, creando inoltre una rete di infrastrutture sociali (scuole, ospedali, servizi pubblici) per una popolazione ormai salita (nel 1939) a 450.000 abitanti, di cui 145.000 ripartiti in 270 centri rurali. Uscito l'ebraismo dalla tremenda prova del nazismo, ancora più gravi furono i compiti del movimento sionista alla fine della II guerra mondiale.Cenni storici: il sionismo dopo la fondazione dello Stato d'IsraeleRinnovata la richiesta di uno Stato ebraico indipendente (XXII Congresso, 1946), il s. dovette subito affrontare il rifiuto arabo di una spartizione della Palestina in due Stati (uno arabo e uno ebraico), decisa dall'O.N.U. il 28 novembre 1947, e arrivare con la lotta armata alla proclamazione dello Stato d'Israele il 14 maggio 1948. Ma neppure allora la sua funzione poté dirsi esaurita. Nella sua tensioneuniversalistica di liberazione ebraica doveva rendere possibile l'immigrazione di ogni ebreo in Israele (“legge del ritorno”, 1950) e soprattutto organizzare l'inserimento nella vita dello Stato della nuova corrente migratoria proveniente dagli Stati arabi (Yemen, Iraq, Marocco, ecc.): i nuovi arrivati, che nel giro di 5 anni raddoppiarono la popolazione iniziale di Israele, provenivano da Paesi dove avevano sempre vissuto in condizioni di inferiorità morale nello squallore dei mellah e al di fuori di ogni contatto con gli sviluppi del mondo moderno e della civiltà occidentale. La convivenza di questi Ebrei “orientali” con i più istruiti ed evoluti Ebrei europei poteva sfociare in conflitti sociali non sempre evitabili e di

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enorme pericolosità in una situazione di accerchiamento bellico e di isolamento internazionale dello Stato. Il s., nei suoi organismi esterni e nazionali, è oggi caratterizzato da una straordinaria vivacità e pluralità di voci, espressione di varie tendenze politiche (religiose o laiche, liberali, socialiste e comuniste, ecc.) molto spesso anche complicate dallo scottante problema dei rapporti con gli Arabi e dalle rivendicazione dei Palestinesi a costituire una propria entità statale. Proprio la questione dei territori occupati ha radicalizzato alcune posizioni in seno al sionismo. Ne è riprova la nascita (1974) del Gush emunim (blocco dei fedeli), un gruppo sionista oltranzista, contrario alla restituzione del Sinai all'Egitto (1982) e decisamente schierato a difesa dei coloni dei “territori” organizzandone, anzi, l'aumento. Assertore dell'annessione dei territori occupati, durante il governo del Likud il Gush emunim ha esercitato una larga influenza negli ambienti conservatori e di stretta osservanza religiosa. La vittoria elettorale dei laburisti nel 1992 ha fatto risalire le quotazioni del s. di sinistra, propugnatore di una concreta trattativa con gli Arabi e i Palestinesi sfociata poi nella firma dell'Accordo di Washington (13 settembre 1993) tra Israele e O.L.P. Contro il s. (inteso come elemento di discriminazione razziale e quindi negatore di qualsiasi integrazione con il circostante mondo arabo) si era pronunciato l'O.N.U. nel 1975, con una controversa risoluzione poi revocata nel 1991. Per gli stessi motivi Israele era stato estromesso dall'U.N.E.S.C.O. nel 1975. Bibliografia C. Roth, Storia del popolo ebraico, Milano, 1962; E. Levyne, Judaïsme contre sionisme, Parigi, 1969; N. Weinstock, Storia del Sionismo, Roma, 1970; L. Poliakov, Dall'antisionismo all'antisemitismo, Firenze, 1971; Autori Vari, Zionism, Gerusalemme, 1973; R. J. Zwi Werblowsky, Le Sionisme, Israël et les Palestiniens, Gerusalemme, 1976; M. Buber, Sion, storia di un'idea, Genova, 1987.

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La Palestina era una terra araba. Il diritto arabo alla Palestina riposa su tre distinti motivi:

• il diritto naturale del popolo a rimanere in possesso della terra del suo diritto di primogenita;

• gli arabi palestinesi vi hanno vissuto per più di 1300 anni

• essi sono tuttora i legittimi proprietari della maggior parte delle dimore e dei campi, nei quali gli israeliani attualmente vivono e lavorano.

Quarant’anni fa la Palestina era un paese arabo nella stessa misura di altre parti del mondo arabo. Essa aveva un popolazione di circa 700.000 abitanti, dei quali 674.000 erano Arabi musulmani e cristiani e 56.000 erano ebrei, che vivevano col resto degli abitanti del paese in pace e armonia e godevano di uguali diritti e privilegi. Questi ebrei possedevano circa il 2% della superficie totale.

Oggi il 77% del territorio della Palestina è occupato dagli israeliani. Invece dei 56.000 "arabi di religione giudaica" ci sono 2.000.000 di ebrei stranieri introdotti nel paese da tutte le parti del mondo. Gli arabi musulmani e cristiani, che nel 1948 costituivano il 67% della popolazione totale, sono ridotti soltanto al 10%. Il resto è stato espulso e spogliato ed ora circa un milione di essi sono in campi per profughi e vivono dell’elemosina delle Nazioni Unite. Il 2% delle proprietà terriere ebraiche è salito al 77% non con mezzi legittimi e pacifici, ma con la forza delle armi e la confisca.

Gli arabi sono decisi a respingere qualsiasi sistemazione, che non riconosca il loro pieno diritto alle loro dimore e alla loro patria.

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La terra d’Israele fu la culla del popolo ebraico. Qui esso conquistò l’indipendenza e creò una civiltà di significato nazionale ed universale. Qui scrisse e dette la Bibbia al mondo.

Esiliato dalla Palestina, il popolo giudaico rimase ad essa fedele in tutti i paesi della sua dispersione, non cessando mai di pregare e sperare per il ritorno e per la propria libertà nazionale. Spinti da questa speranza gli ebrei, lungo tutti i secoli, si sforzarono di tornare alla terra dei loro padri e di recuperare la dignità di stato. In decenni recenti sono ritornati in massa, hanno bonificato il deserto, fatto rivivere la loro lingua, costruito città e villaggi e stabilito una comunità vigorosa ed in continua espansione, con una propria vita economica e culturale. Cercando la pace, erano comunque preparati a difendersi. Recarono la benedizione del progresso a tutti gli abitanti del paese.

Dopo che numerosi congressi internazionali riconobbero lo storico legame del popolo ebraico con la Palestina e dopo che la persecuzione nazista inghiottì milioni di ebrei in Europa, risultò ancora più chiara l’urgenza della costituzione di uno stato ebraico, capace di risolvere il problema della mancanza di patria per gli ebrei, aprendo le porte a tutti gli ebrei ed innalzando il popolo ebraico al livello degli altri popoli nella famiglia delle nazioni.

Il 29 novembre 1947 l’Assemblea Generale dell’ONU ha adottato una decisione a favore della fondazione di uno stato ebraico indipendente in Palestina ed invitati gli abitanti del paese a prendere le misure richieste da parte loro per attuare il piano. Questo riconoscimento da parte delle Nazioni Unite, del diritto al popolo ebraico di stabilire un proprio stato indipendente, non può essere annullato dalla proclamazione dell’indipendenza israeliana (1948).

C. Cartiglia, Storia, vol III . Il Novecento, tomo 1 (La politica) Loescher, Torino, 1997

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