La psicologia del viola

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Leonardo Dragoni, giallo. Roma, 1939. Incombe la seconda guerra mondiale. Sua Santità Pio XI è febbricitante e insonne. Sta meditando di denunciare i patti lateranensi, le violenze fasciste, forse perfino scomunicare Mussolini. Quella notte viene colto da un infarto, che non gli lascia scampo. Poiché l’ultima fiamma del duce, Claretta Petacci, è la figlia del medico personale del defunto pontefice, il delitto sembra servito. Dante Casati è un ex commissario di polizia, ingiustamente epurato dal fascismo. Ingaggiato per far luce sull’accaduto, si illude che il destino gli stia offrendo una formidabile chance di riscatto. Non ha ancora idea di quanto pericoloso sia il ginepraio in cui sta per cacciarsi. Il trasformismo di cui è dotato gli permette di penetrare nel ventre molle dell’OVRA e nelle stanze più oscure del Vaticano, ambienti torbidi e popolati da personaggi doppi e senza scrupoli. Più si avvicinerà alla verità, più la matassa diverrà inestricabile e i contorni del quadro si far

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In uscita il 29/7/2015 (15,70 euro)

Versione ebook in uscita tra fine luglio e inizio agosto 2015

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LEONARDO DRAGONI

LA PSICOLOGIA DEL VIOLA

 

 

 

 

 

 

 

 

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LA PSICOLOGIA DEL VIOLA Copyright © 2014 Zerounoundici Edizioni

ISBN: 978-88-6307-906-7 Copertina: Immagine proposta dall’Autore

 

Prima edizione Luglio 2015 Stampato da

Logo srl Borgoricco – Padova

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Preludio C’era un fastidioso puzzo di chiuso, di aria stantia. Se annusavo profondamente mi pareva di distinguere retrogusti sgrade-voli, una strana mistura di alito pesante, sudore, esalazioni di piscio. Odoravo e mi muovevo al buio come una bestia ferita, intento a tastare le pareti circostanti, mura che trasudavano umidità così densa da creare pozze di bava negli angoli. Cercavo di capire cosa fosse quell’appiccicoso che s’era attaccato alle mie dita, quando udii delle ur-la provenire da lontano. Come un’eco, un riverbero davvero sinistro. Poi ancora, e ancora. Altre grida, di altre persone, si sovrapponevano alle prime con crescente insistenza. Mugugni ed espressioni sonore in-comprensibili, come lamenti di raccapriccio. Poco dissimili da latrati e ululati di cani nella cagnara. Dove diavolo mi trovavo?

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Un mese prima Era il 12 aprile 1939. Era il giorno del quinto anniversario dell’addio alla vita di suo padre. Al camposanto pioveva forte. Il cielo appesantito e ca-priccioso, osservato dalla collina del cimitero, regalava un panorama singolare. Era squarciato all’orizzonte da strepitose saette, eppure si la-sciava perforare, a intervalli quasi regolari, da fasci di polverosa luce so-lare. In una mano aveva il manico dell’ombrello e una penna, nell’altra un fo-glio bianco. In mezzo c’era lui, Dante Casati. Alle spalle una lunga car-riera di commissario di polizia e una recente esperienza da investigatore privato. Di fronte, invece, la tomba di suo padre Giulio. Dopo la sua scomparsa, Dante era precipitato in un endemico stato di torpore. Una manciata d’anni dopo, in quel giorno di commemorazione, aveva deciso di uscirne. Per troppo tempo suo padre gli aveva suggerito di scrivere un libro sui casi che avevano accompagnato la sua storia umana e profes-sionale. Tutto sta nell’incominciare, gli diceva. Un buon attacco era il segreto del successo: “l’incipit è di fondamentale importanza, non puoi permetterti di sbagliarlo”, era il suo motto. Finché un bel giorno Giulio era morto, senza aver avuto la soddisfazione d’essere padre di uno scrit-tore. Neppure di un neofita, di uno che ha scritto un inizio, un racconto, una storiella. Niente, la vita di Dante era solo indagini, processi, cadave-ri. Neanche gli aveva dato una soddisfazione familiare, una moglie e un figlio, che per lui avrebbero significato una nuora, e soprattutto un nipo-te. Che soddisfazioni aveva dato a suo padre? Tante volte aveva finto che i suoi consigli erano stati utili alle indagini, rivelandosi addirittura risolutivi. Ma un padre sa quando un figlio finge. Succedeva la stessa cosa agli scacchi. Dante passava intere giornate a giocare col padre. Sfide all’ultimo alfiere, e all’ultimo pedone. Ma ogni tanto lo lasciava vincere. Eppure ciò che avrebbe reso davvero fiero Giulio di suo figlio, era quel maledetto incipit, con tutte le frasi che seguono.

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Al camposanto, alle spalle di Dante, insieme al suo passato stava arrivando il suo futuro. Il metro quadro di visuale che aveva sotto gli occhi sembrava all’improvviso comporsi in un quadro. Ombra d’uomo con cappello, sarebbe stato il titolo. Il cielo borbottava, ordinando a una nuvola di interporsi tra loro e la luce, cancellando ogni cosa. Dovette voltarsi, per scoprire che non conosceva il titolare di quell’ombra. Era un distinto e ordinario signore sulla sessantina, aggraziato e posato nei modi e nell’atteggiamento, rassicurante nell’aspetto. Naso pronunciato e vagamente aquilino. Sul suo mento campeggiava, in luogo della barba, una fosca lanugine brizzolata, screziata da colori rossicci. I baffi invece erano intonsi, bianchi. C’era qualcosa di familiare in lui. Qualcosa che carpiva la fiducia dell’ex poliziotto. «Cambia il tempo» disse il tizio, con tono di voce aulico e baritonale. Roma era abituata ai capricci primaverili, specie nella prima metà di a-prile, quando sovente accade che l’inverno non si arrende e produce i suoi ultimi rigurgiti, vani colpi di coda. «Era un bravo scrittore e poeta suo padre, e soprattutto brav’uomo» ag-giunse. Il Verano non sembrava Roma, e il cielo d’improvviso schiarì. Quell’uomo si presentò come Tommaso, sostenendo che il padre di Dan-te doveva essere un buon amico del suo, di padre: Giancarlo. L’investigatore non sapeva di nessun amico di suo padre che rispondesse a quel nome. Tommaso però non sembrava far parte dell’infima catego-ria dei mentitori. Avendone smascherati molti, Dante ne era relativamen-te certo. «Suo padre, proprio come il mio» proseguiva col suo vocione, «era membro del primo Rotary Club italiano, fondato nel 1923 a Milano… pochi giorni prima di Natale». Giulio si era effettivamente iscritto, nell’estate del ’24. Aveva litigato con Dante, proprio per questo motivo. Agli occhi di suo figlio non esi-steva infatti una sola ragione per annotare il proprio nome tra quelli dei membri del Club. Aveva così tentato di dissuaderlo, ben sapendo che gli affiliati a queste organizzazioni venivano schedati dalle questure. Col vi-so rivolto al suo interlocutore, Dante Casati stampò sul volto quel sorriso tipico di chi ha riportato alla mente un evento agrodolce del proprio pas-sato. Tommaso si rese conto di aver fatto breccia e scagliò un altro fen-dente: «suo padre aveva fatto degli studi genealogici, e si era convinto che in passato ci fossero stati dei legami tra le nostre famiglie…».

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Giulio era fissato per la genealogia. Però non si era premurato di far ave-re fratelli a Dante. Si premurava invece di ricordargli continuamente che la sopravvivenza del loro cognome dipendeva da lui: «vorrai mica far seccare il ramo?». Quello genealogico, si intende. Non avendo una mo-glie, né una fidanzata, e neppure alcuna voglia di sposarsi, Dante non po-teva certo pensare a una paternità. Non che fosse sgraziato, tutt’altro. Aveva solo una piccola cicatrice in volto, che somigliava a una ruga. Non ricordava, anzi non sapeva come se l’era procurata. Suo padre dice-va che gli era uscita così, all’improvviso, il giorno in cui era morta la mamma. Era piccolo, e per sua fortuna non ricordava quel maledetto giorno. Per il resto gli amici dicevano di lui che era un brizzolato ed ele-gante sbarazzino. Finalmente rispose ai tentativi di Tommaso di istaurare una conversazio-ne: «Mio padre ha sempre sostenuto che noi fossimo quei Casati lì…».

L’origine accertata della famiglia Casati risale a Pietro, vissuto tra il 1000 e il 1050. Ebbe numerosi figli, di cui solamente due sono ufficial-mente accertati: Eriberto e Giovanni. Suo papà Giulio era giunto a de-terminare che questi avevano almeno una sorella e altri due fratelli, uno dei quali si chiamava Guglielmo. La loro famiglia probabilmente discen-deva da quest’ultimo. Suo padre non trovava pace all’idea che questa lunga stirpe potesse finire per causa di Dante. «La capisco. Anche io provengo da un’importante famiglia di Milano. Circa trenta anni fa ho lavorato con Alessandro Casati, che stando all’opinione di suo padre dovrebbe essere un suo lontano parente». Men-tre parlava la sua attenzione era rapita da una farfalla: «Guardi, guardi! Che bella… è un’Apatura metis… volgarmente detta imperatore viola».

«È un esperto di farfalle?» chiese Dante, che nel frattempo, dopo l’ombrello, metteva via pure il foglio e la penna. Non riuscirò a scriverlo neanche oggi quel famoso incipit, mi sa! «Io? No. Io sono il primo di otto fratelli e sorelle. Giulia, che è la setti-ma, ha sposato un vero esperto. Così mio cognato Ruggero ha trasmesso a lei questa passione, e lei a sua volta ha trasmesso queste conoscenze a Ludovica, alla più piccolina Myriam, e a me. Ecco guardi, si è posata proprio su… sulla… lapide». Mentre Tommaso lo erudiva sulla peculiarità di questa farfalla, il bellis-simo insetto dalle ali purpuree si posava sulla sua mano. «È un maschio.

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Le femmine non hanno questo viola bluastro» disse. «Beh, a essere pi-gnoli neanche i maschi, perché è causato dall’iridescenza» aggiunse. L’iridescenza è una particolare proprietà ottica tipica di alcune superfici, come le ali di alcune farfalle, che assumono una varietà di tonalità e co-lorazioni differenti in base alla luce e all'angolo di osservazione. «E pensare» proseguì, «che si nutrono prevalentemente di liquidi che fuoriescono dalla putrefazione della frutta, o dallo sterco di cavallo…». Alle farfalle erano attribuiti molti significati simbolici, variabili secondo località e tempi, alcuni frutto di dicerie e superstizioni. Tommaso sembrava ferrato anche su questo. «Il fatto che questo impera-tore viola sia qui» precisò, «potrebbe avere un significato. Non vorrei turbarla, né sembrare indiscreto, ma… ha perso qualcuno di recente?».

Dante abbassò lo sguardo e si scurì in volto. Tommaso comprese.

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Gas Si chiamava Giovanni Gasti, ma Dante lo chiamava Gas. Era affine a suo padre, entrambi dotati di una qualche particolare forma di estro che il giovane commissario poteva solamente invidiare. Sul lavoro Giovanni aveva la sua stessa natura impiegatizia, irreprensibile, ordinaria. Poi ne aveva un’altra acuta, brillante, imprevedibile, affine al mondo immagini-fico e variopinto di suo padre Giulio. Quella mattina in cui s’era recato al cimitero, Dante aveva appena saputo della scomparsa di Gas, così il suo cuore si era rattrappito e trasformato in un limone rancido. Aveva conosciuto Gas a inizio secolo a Roma, quando portava ancora due misere stellette sulla controspallina della divisa da poliziotto, mentre lui ne portava già tre. Giusto il tempo di capire che tra loro funzionava, anzi avrebbe funzionato, perché subito li separarono. Il dottor Ottolen-ghi, a capo della scuola di polizia scientifica, aveva subodorato le poten-zialità di Giovanni, e lo aveva chiamato a sé. Giovanni ricompensò quel-la fiducia dimostrando di essere il migliore, inventando l’innovativo me-todo di classificazione delle impronte digitali, il “metodo Gasti”, grazie al quale divenne una specie di celebrità. La sua carriera dal quel momen-to decollò più vertiginosamente del nuovo boeing 307. In men che non si dica divenne prima direttore della polizia scientifica, poi vicequestore. Sul finire della guerra era stato nominato direttore del nuovo Ufficio Centrale di Investigazione (UCI), che accentrava le attività di investiga-zione e di repressione politica. Praticamente era a capo dei servizi segreti italiani. E cosa fece? Volle far entrare l’amico Dante nel suo staff. Così nel 1916 tornarono a lavorare insieme. Una pacchia, se non fosse stato per l’Ufficio Riservato (UR), dipendente dalla direzione generale di Pub-blica Sicurezza. Qualcuno lo chiamava “Ufficio Ricchioni”, sostenendo che fosse pieno di froci. «Si dice omosessuali!» gridavano giustamente i benpensanti. In realtà, di omosessuali non ce n’erano più di un paio. Sa-rebbe stato più opportuno chiamarlo “Ufficio Ripetizioni”, perché era di fatto un inutile doppione. Gas diceva che quel posto gli ricordava

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un’agenzia ippica. Lì dentro scrivevano tutti. Il coro di macchine da scri-vere produceva un baccano simile a quello di una mandria di cavalli al galoppo. I fantini erano scrivani dalle dita veloci, che a testa bassa fusti-gavano la loro bestia: quasi sempre una Continental tedesca nera a qua-rantotto tasti. Con Giovanni a dirigerlo, l’ufficio funzionava. Stra-funzionava. Senza neppure una macchina da scrivere erano riusciti a penetrare in profondità nei gruppi socialisti, e avevano infiltrato anche i gruppi sovversivi e a-narchici. Poi, sul più bello, l’UCI venne trasformato in USI (Ufficio Spe-ciale Investigazione). Ma non è questione di cambiare nome. È questione che Giovanni venne spedito a fare il questore a Milano. Figurarsi se non smembravano qualcosa che funzionava bene. A Dante venne ordinato di restare nel nuovo ufficio, affidato a Paolo Spetia e posto alle dipendenze della Sezione I della neonata “Divisione Affari Generali e Riservati” (DAGR). Non era più la stessa cosa, evidentemente. Giovanni assunse la reggenza della questura di Milano proprio il 15 apri-le del 1919, il giorno dell’assalto all’Avanti! Quella fu la prima grande azione squadrista, che diede visibilità ai neocostituiti Fasci di Combatti-mento. Dante si rendeva conto che questa gente non capiva che per com-battere il sovversivismo o il comunismo bisognava svolgere un lavoro di intelligence, accurato, dall’interno. Concetto che sembrava non trovare accoglienza neppure nel testone di Giolitti, né in alcuno dei cervelloni che costituivano il suo quinto governo. Non potendo raggiungere Gas a Milano, e vedendosi messo in imbarazzo a Roma dalla sempre più in-gombrante presenza di bamboccioni e scagnozzi in camicia nera, Dante iniziò a pensare a un modo per lasciare l’Ufficio. Non tollerava più que-sti impudenti che pensavano di poter risolvere questioni complesse bran-dendo lo scudiscio e la scure. Detestava loro, e ancor di più le loro prote-zioni e collusioni in alto loco. Non era con i metodi della milizia che si poteva risolvere alcunché. Gli mancava ogni esperienza. Umana, oltre che professionale. L’esperienza è saggezza, e la saggezza non ha nulla a che vedere con l’intelligenza. Non si può spiegare, né insegnare. A Milano, nel marzo del 1921, Giovanni è stato bersaglio di un terribile attentato anarchico, al teatro Kursaal Diana. È rimasto illeso, ma per Dio ci sono stati oltre venti morti e non so quanti feriti.

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A novembre del ‘21 i Fasci di Combattimento si erano trasformati nel Partito Nazionale Fascista, e la permanenza di Dante nelle strutture di pubblica sicurezza si faceva giorno dopo giorno più incerta. C’era stato però un momento, sul finire del ‘22, in cui Mussolini dovette pensare di ricostituire un Ufficio Centrale di Investigazione sul modello dei prece-denti, e di metterci a capo proprio Giovanni Gasti, richiamandolo da Mi-lano. Almeno così disse Gas, che era stato richiamato a Roma e nomina-to Segretario Generale di Pubblica Sicurezza, il 4 gennaio 1923. La no-mina, a suo dire, era propedeutica all’insediamento nel nuovo organismo, nel quale avrebbe poi cooptato il suo amico commissario. Invece no, qualcosa andò storto. Era la storia della vita di Dante: qualco-sa al di là delle sue possibilità, sul più bello, mandava sistematicamente a monte i suoi piani. Gas venne inviato a Palermo a fare il questore, per un breve periodo, e la posizione di Dante tornava a essere incerta e imba-razzante. I fasci marciarono su Roma, e Mussolini istituì la “milizia vo-lontaria per la sicurezza nazionale” (MVSN). Il commissario Casati era ormai determinato a lasciare l’Ufficio adducendo motivi personali, ma i fascisti giocarono d’anticipo, togliendolo dall’imbarazzo. Il generale E-milio De Bono, grande organizzatore dei Fasci di Combattimento e qua-drumviro della marcia su Roma, fu chiamato a riformare la direzione del-la Pubblica Sicurezza. Parte della riforma consistette nella silenziosa e-purazione di moltissimi vice-commissari e di alcuni commissari, tra cui lui. Di fatto saccheggiò alcuni pezzi migliori del loro ufficio, rimpiaz-zandoli con una pletora di raccomandati di basso profilo. Una scelta scri-teriata, che tuttavia Dante avrebbe accettato di buon grado, se solo suo padre non la avesse intesa come un licenziamento. Ne soffriva, senza di-re nulla. Forse pensava che suo figlio fosse stato negligente, o che fosse stato allontanato per aver commesso qualche leggerezza. L’epurazione di Dante, e l’iscrizione di suo padre al Rotary Club, erano in qualche modo collegate. Giulio pensava che la nuova attività di suo figlio, quella cioè di investigatore privato, non gli avrebbe garantito uno stipendio adeguato, né una vita serena. E forse aveva ragione. Pensava anche che fosse un suo vezzo quasi infantile, una sorta di incapacità di rinunciare allo spirito di emulazione nei confronti del suo amico Gas. E forse aveva torto. Pensava infine che iscrivendosi al Rotary Club di Mi-lano avrebbe potuto – chissà come – aiutarlo. E certamente aveva torto. Intanto nella Pubblica Sicurezza vi furono avvicendamenti, si aprì un in-terregno in cui vivacchiarono personaggi come Crispo Moncada, Battio-

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ni, Aversini, Celestini, La Polla. Tutti loro non poterono far altro che traghettare lentamente l’ufficio verso la definitiva consegna ai fascisti. Gas veniva spostato da Palermo a Torino, poi a Novara, e a Ferrara. Era la deriva fascista a trascinarlo. Dante non si sarebbe mai più incontrato con il suo amico.

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L’incarico «A essere sincero… non sono qui per suo padre» chiarì Tommaso. Avrei dovuto immaginarlo… pensò Dante. «Sono qui per lei, dottor Casati». «Dante, mi chiami solo Dante» lo pregò. «Vede Dante, anch’io ho perso un amico recentemente. Una persona speciale. Non lo incontravo da molti anni, ma lui era vicino, anche da lontano. Da lui, quando ero poco più che un ragazzino, ho appreso il si-gnificato e il valore della vita. Quella stessa vita che lo ha lasciato nel momento forse più inopportuno che si possa immaginare». «Mi dispiace Tommaso. Non credo esista un momento opportuno per morire. Perché dice momento inopportuno?». «Perché…» deglutì. Aveva un rospo in gola, per l’emozione, o forse per la rabbia dovuta alla scomparsa del suo caro. «Perché… è morto la notte del dieci febbraio scorso. La mattina seguente avrebbe dovuto tenere un importante discorso». «Capisco. Un discorso… di che natura, se non sono indiscreto?». «Di denuncia. Un j’accuse. Ma anche un testamento spirituale». «Il suo amico era forse un politico?». L’accenno di un sorriso pietoso comparve sul volto di Tommaso: «Già … un … politico». Deglutì ancora: «Si chiamava Achille Ratti, ma noi … tutti noi lo conoscevamo come Pio XI». Un brivido attraversò il midollo di Dante, insinuandosi dritto nel suo cervelletto. Mi sta giocando? «Lei… era amico di… Sua Santità? Non scherza mica?». Non scherzava. «Era un giovane prete sulla trentina quando lo conobbi. Fu il mio cate-chista e mentore negli studi giovanili. Per alcuni anni ha frequentato la mia casa, la mia famiglia. Divenimmo amici, avevamo legato molto. Ci scrivevamo molte lettere. Poi arrivò la guerra…». Quando parlava di lui, si percepiva nella voce un lieve tremore, che tra-diva una malcelata emozione. Ne parlava come fosse un padre: il suo,

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non quello di tutti i cattolici. Gli raccontò come in gioventù Sua Santità fosse stato un eccellente alpinista, autore di incredibili ascensioni sulle Alpi. Aveva anche preso parte alla prima spedizione di alpinisti italiani sul Monte Rosa, raggiungendo la Punta Doufur sul versante Est. Dante sembrava pensieroso. Sapeva che Pio XI, in gioventù, come cap-pellano del Cenacolo di Milano, era venuto in stretto contatto con alcune importanti famiglie dell’aristocrazia cattolica. Ce n’erano tante però: i Gonzaga, i Cornaggia Medici Castiglioni, i Borromeo, i Della Somaglia, i Belgioioso, i Greppi, i Thaon di Revel, gli Osio, i Castelbarco, i Caccia Dominioni, i Trivulzio, i Gallarati Scotti, i Jacini. Già… ma quante di queste annoveravano un Tommaso che potesse vantare una frequentazio-ne diretta col pontefice? «Credo di aver capito chi è lei, signor Tommaso. Devo essere fuori alle-namento, per non averlo capito prima. Credo che in ufficio avessimo an-che un fascicolo su di lei…». Tommaso sapeva che l’ex commissario lo avrebbe riconosciuto. Padre di sei figli, la più piccolina aveva quasi dieci anni. Era membro di un’influente famiglia liberale e cattolica favorevole al modernismo. In-sieme ad alcuni amici come Achille Alfieri, Stefano Jacini (anch’egli pupillo di Pio XI) e Alessandro Casati (che secondo papà Giulio era un loro lontano parente), si era attirato le ire di tal Giuseppe Melchiorre Sar-to, meglio noto come Pio X, che apertamente aveva condannato una loro creatura, “Il Rinnovamento”. Condanna reiterata a titolo personale due anni dopo, per aver egli scritto “Storie dell'amor sacro e dell'amore pro-fano”. Tutto questo aveva favorito la creazione di un dossier su di lui. Tommaso da giovane era andato volontario in guerra, sotto il comando di Luigi Cadorna. Dopo la guerra si era sposato, e si era opposto aperta-mente all’incombente fascismo. Ecco perché quel dossier era giunto an-che sul tavolo dell’ufficio di Dante. «Quel fascicolo sarà ancora lì» fece notare Tommaso. «Probabilmente riservato, visto che mio fratello è diventato senatore. Ciò nonostante lo avranno ben farcito, da quando lei non c’è più. Lei, e tanti come lei, epu-rati da questi ottusi fascisti». «Ha detto di essere qui per me. Cosa potrei fare per lei?» chiese Dante. «Potrebbe indagare su una certa questione. Lei sarebbe la persona ideale, sia per la posizione che ricopre attualmente, sia per l’unicità delle sue competenze».

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Le indagini erano effettivamente il suo mestiere, Dante era davvero bra-vo in questo genere di cose. «Mi dica di cosa si tratta…». Tommaso fissò Dante negli occhi, e si sedette sulla lapide di papà Giu-lio, quasi abbracciandola, quasi a voler significare che parlava anche a nome suo. «Caro Dante, è questione molto delicata e riservata. Vede… io sospet-to… ecco, sì, sospetto che Pio XI… » si fermò, anche perché Dante lo guardò strizzando gli occhi, come se avesse il sole ad accecarlo. Forse inconsciamente cercava di comunicargli con lo sguardo che non doveva neanche pensare ciò che invece stava per dire. Ma non ci riuscì. Infatti Tommaso riprese da dove aveva interrotto. «Non mi guardi così la prego, io penso che sia doveroso indagare, per escludere l’eventualità che… sia stato assassinato… magari con la complicità di ambienti nazifascisti». Il giovane Casati intrecciò le mani sopra la testa, eccitato e incredulo. Mica poteva davvero infilarsi in un’indagine del genere? Sconfinata, pe-ricolosa, complicata. Avesse almeno avuto l’Ufficio alle spalle, avesse avuto Giovanni, o qualche collega… investigare sui fascisti poi… quelli erano permalosi, avevano occhi e orecchie dappertutto, lo avrebbero scoperto e fatto pentire amaramente. «Come fa a sostenere una cosa del genere?» domandò Dante. «È solo un’eventualità» rispose Tommaso, vedendo la concitazione e il turbamento dipinti sul volto del suo interlocutore. Poi rincarò la dose: «Lo conoscevo molto bene. Achille Ratti era un uomo a cui non restava molto da vivere. Il suo desiderio era quello di pareggiare i conti con la sua coscienza cristiana e con Mussolini». Infatti il mattino seguente alla sua morte ricorreva l’anniversario decen-nale della firma dei Patti Lateranensi. In quella circostanza Pio XI avreb-be tenuto un discorso, e correva voce che non sarebbe stato tenero nei confronti dei metodi violenti dei totalitarismi nazifascisti. Ognuno poi immagini da solo cosa poteva succedere se Sua Santità avesse ad esem-pio sconfessato le leggi razziali, dichiarandole contrarie allo spirito del cristianesimo, e pertanto da disapplicare e respingere. Per non dire dei Patti Lateranensi, di cui avrebbe potuto denunciare la ripetuta violazione da parte dei due dittatori, per i quali avrebbe perfino potuto rendersi ne-cessaria la scomunica. Morire alla vigilia di tutto ciò, rendeva inevitabilmente sospetta la sua dipartita.

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Tommaso vantava amicizie importanti in posizioni strategiche, che a-vrebbero fornito assistenza e aiuto se l’ex commissario avesse deciso di accettare l’incarico. Dante rimase solo, assorto nei suoi interrogativi e nelle sue ansie, insieme ai fantasmi del suo passato. Il primo dei quali era quello di suo padre. Sembrava quasi che volesse fracassare il feretro di zinco e mogano in cui lo avevano seppellito, e risalire da sottoterra per intimargli di accettare l’incarico. L’occasione era anche formidabile per vendicarsi. Che diamine, Dante detestava i fascisti, e fremeva per tornare in ballo, sulla cresta dell’onda, a far quello che sapeva fare meglio: le in-dagini. De Bono lo aveva sostituito con certi individui che non avrebbero indovinato neppure di che colore fosse la camicia che stavano indossan-do, nonostante le avessero soltanto nere. Non solo aveva stroncato le car-riere di validi funzionari, ma aveva predisposto inopportuni trampolini di lancio per carriere che si sarebbero disfatte da sole, come quella di Ame-rigo Dumini. Quest’uomo era continuamente rifornito di denaro e docu-menti falsi, con i quali riusciva solamente a cacciarsi sistematicamente nei guai. Cosa c’era dunque di meglio che indagare sui fascisti? Una cosa in effetti c’era. O meglio tre cose insieme: del buon cibo, un buon vino, e soprattutto lei. Si chiamava Santa. Il cognome non aveva voluto mai dirglielo, o forse lui non aveva mai voluto saperlo. Santa la-vorava in un laboratorio di analisi all’ospedale San Camillo. Era poco più di un’infermiera, ma aveva studiato da dottoressa. È esperta di qualcosa che ha a che fare con i colori, e il loro utilizzo te-rapeutico con i bambini e con gli anziani. Vive da sola in zona Porta Portese, in un seminterrato, illuminato dai dipinti e dai vivaci colori del-le pareti, ma non dalla luce del sole. I genitori sono scomparsi, il padre da oltre vent’anni, la madre solo da due. Però ha quattro sorelle a Mila-no, ma non le vede quasi mai. Dante la frequentava saltuariamente. Lei aveva manifestato dei senti-menti verso di lui. Per lui, invece, era solo sesso. Per questo motivo quel-la sera la invitò a cena. Il piatto forte era il sesso dopo mangiato, ma dal punto di vista culinario erano gli involtini di lonza. L’investigatore li far-civa con prezzemolo riccio, maggiorana, timo e scorze di agrumi. Poi li rendeva unici utilizzando una foglia di alloro e uno spruzzo di aceto bal-samico. Tassativamente da accompagnare con vino rosso fermo. Dopo

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cena avrebbero fatto sesso, e poi lui si sarebbe di nuovo posto la doman-da. Cosa c’è di meglio che indagare sui fascisti? E si sarebbe risposto: niente. Non c’è niente di meglio.

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Emilio Lamper Punto primo: tessere una maglia ristretta di collaboratori e una rete effi-ciente di informatori. Era così che il commissario Dante Casati, ora inve-stigatore, era abituato a operare. Stavolta però i suoi confidenti non li po-teva reclutare nei bassifondi, né li poteva prezzolare. Gli serviva almeno una persona di qualità, in un posto chiave. Pensa, Dante. Rifletti. Pensa! Che amici hai negli uffici che contano, e nella polizia politica? Camminava nervosamente su e giù, avanti e indietro, passando in rasse-gna gli amici del passato. Difficile trovare un papabile, qualcuno con le carte in regola e soprattutto che stesse ancora al suo posto. Le cose erano molto cambiate. Nel settembre 1926, dopo l’attentato Lucetti, il capo della polizia Arturo Bocchini aveva rimpiazzato Crispo Moncada alla di-rezione generale della Pubblica Sicurezza. Subito dopo era stato riforma-to il Testo Unico di Pubblica Sicurezza con l’istituzione e l’entrata in vi-gore di ulteriori leggi fascistissime, tra cui alcune leggi speciali di sicu-rezza che istituivano il Tribunale Speciale per la sicurezza dello Stato, mettevano fuori legge i partiti politici, prevedevano la pena di morte per attentati contro le cariche dello stato. Prima che terminasse l’anno, Boc-chini volle anche costituire la Divisione Polizia Politica (POLPOL), e su-bito dopo era nata anche la Polizia Segreta (OVRA). Il binomio POLPOL-OVRA era divenuto, per tutti gli anni Trenta, una perfetta macchina di in-vestigazione e repressione, in cui la POLPOL rappresentava l’intelligence, la mente, e l’OVRA il controllo sul territorio, il braccio. Dante vantava contatti e conoscenze nella DAGR e nelle questure, che tuttavia assunsero competenze sempre più ausiliarie, vedendosi di fatto tagliate fuori. Bocchini aveva decuplicato le spese per il sempre crescente numero di fiduciari. Realizzò negli uffici e tra i funzionari un autentico repulisti an-cor più profondo della precedente epurazione di De Bono, utilizzando un aspirapolvere che arrivava anche negli angoli. Mise poi i suoi protetti nei posti chiave, da Gulì, a Marsala, a Di Stefano. Il suo avvento causò cam-bi di personale anche ai vertici della DAGR, ove Ravenna venne allonta-

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nato e Bocchini volle piazzare i napoletani Marzano prima, e Senise poi; a loro volta rimpiazzati da Leto prima, e da Pennetta poi. Cambiamenti, epurazioni, accentramenti. Il valzer dei nomi e dei ruoli complicava non poco i piani di Dante. Passarono però soltanto un paio di minuti, prima che ebbe l’illuminazione. La slot machine allineò su cinque colonne il volto del candidato ideale, e iniziò a sputar fuori monete: Tin! Tin! Tin! Emilio Lamper! Detto “lampo”, perché fulmineo. La sua proverbiale rapidità gli permet-teva di essere sempre un passo avanti, nonostante la congenita zoppia. Dalla madre aveva infatti ereditato due cose, che avrebbero reso rispetti-vamente più sicuro e più incerto il suo incedere: molti soldi, e una lussa-zione dell’anca. Quando Dante lo aveva conosciuto, faceva l’infiltrato. Interpretava magistralmente la parte, con la professionalità d’un grand’attore. Ora però non era più in prima linea. Perfino i fascisti si e-rano resi conto che Emilio era troppo prezioso e arguto per rischiare di perderlo. Così lo avevano allontanato dal fronte e destinato dietro una scrivania, negli uffici dell’OVRA. Da lì poteva esercitare egualmente il suo talento, correndo meno rischi. Emilio ha il labbro leporino ed è un amorale arrivista. La sua brama di primeggiare lo rende sempre affamato di occasioni per valorizzare il suo genio. Ciò che Dante stava per proporgli era così bizzarro che lo avrebbe intri-gato. Avrebbe sicuramente accettato, anche perché doveva un favore all’ex commissario. Non restava che organizzare un abboccamento con lui. Come fare? Da quelle parti sapevano chi era Dante. Il sol fatto di vederlo a passeggio nel circondario li avrebbe insospettiti. Il telefono? Non era sicuro. Dopo la guerra andavano di moda le intercettazioni. In Ufficio ne facevano già grande uso negli anni Venti, anzi mettevano sotto controllo perfino i loro apparecchi, per scovare qualche talpa. L’ideale sarebbe forse stato indi-viduare qualche agente fidato che avesse potuto avvicinarlo da parte di Dante. Ma non si fidava di nessuno. Anche i telegrammi erano rischiosi, la polizia postale fascista controllava strettamente perfino la posta. Un modo sicuro però c’era. La sorella di Emilio, Sonia Lamper, risiedeva a Londra nel quartiere Chelsea. Dante sapeva che lei si scriveva regolar-mente con Emilio. Così si recò nella City, passando da Milano, a bordo

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della nuova icona del futurismo, simbolo di forza e velocità: il treno. Si viaggiava verso Milano con punte di circa 200 chilometri orari. Ci volle una notte e un giorno, ma appena giunto a destinazione la rintracciò qua-si subito. Dante non sapeva se poteva avvicinarla, probabilmente la don-na non si sarebbe fidata di lui. Prima di decidere qualsiasi piano di azio-ne, cominciò a pedinarla, attendendo il momento giusto in cui tentare un approccio. Alla fine non fu necessario, perché Sonia aveva una cassetta postale proprio vicino casa, e sicuramente era proprio da lì che inviava regolarmente le sue missive. Con un po’ di fortuna, dentro quella casset-ta l’investigatore ci avrebbe trovato l’ultima sua lettera a Emilio, se non era già stata ritirata. Altrimenti avrebbe aspettato la successiva. Con un cacciavite e un fil di ferro, e la conoscenza di un piccolo trucco che ave-va imparato da ragazzo, aprì agevolmente la cassetta. Fu fortunato. C’era dentro una lettera di Sonia, indirizzata proprio al fratello. Ora Dante ave-va l’indirizzo di Emilio e la calligrafia di Sonia. Utilizzò entrambe per scrivere una cartolina destinata al suo ex collega a Roma. Per eccesso di scrupolo, scrisse in “lamperese”, un linguaggio in codice che non rispon-deva a regole precise, improvvisato e tutto loro: “Caro fratello, sono tua sorella, quella dei casati. In questi giorni sto leggendo Dante. Ho capito che ci sarebbe bisogno di un lampo, per innescare una gigantesca tempe-sta. Davvero tua. Impaziente.” Lui lo avrebbe capito. Significava: “Caro Emilio, sono Dante Casati. Ho per le mani qualcosa di esplosivo, importante, riservato. Ho urgente bisogno di parlartene”. Non aveva molto per le mani, d’accordo. Ma doveva pur ingolosirlo se voleva sperare che si fosse fatto avanti. Tornato a Roma, non gli restava che attendere.

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Michael Lucerna Mike era figlio di emigranti italiani. Suo padre Vito era approdato nel Nuovo Mondo sul finire del secolo scorso, insieme ai suoi genitori, i nonni di Michael. A New York papà Vito aveva conosciuto Assunta, una giovane e affa-scinante donna ebrea di origini italiane. Si erano sposati ed era nato Mi-chael, il quale venti anni dopo stava ripercorrendo, in direzione opposta, i passi del padre: dall’America era tornato in Italia, si era innamorato di una giovane e affascinante donna americana di nome Margareth, con la quale conviveva – per il momento senza figli – al terzo piano di un si-gnorile palazzo in zona Prati, a Roma. Mike è un uomo sereno, laborioso, pignolo, rassicurante. Un gigante buono con gli occhi scuri e profondi, le mani grandi e l’attaccatura dei capelli troppo alta. Ha un piccolo tic all’occhio sinistro, che si strizza da solo quando meno te lo aspetti. Dante lo aveva conosciuto a Bologna, nel maggio del 1921, quando il maresciallo capo Pietro Biraghi, di origini torinesi, era stato attirato nella malfamata via Mirasole da una soffiata, e lì freddato da una revolverata. Trattandosi di un collega, le indagini furono accurate e non si volle trala-sciare alcun particolare. Proprio per questo venne chiesta anche la colla-borazione del commissario Casati, da Roma. Mike era presente nelle immediate vicinanze della scena del crimine, e fu messo in stato di fer-mo. L’ufficio di Dante era stato coinvolto dal questore di Bologna per interrogare quest’uomo così imponente, dalla doppia cittadinanza, roma-na e newyorkese. Il capo diede l’incarico a Dante, che così conobbe que-sto corpulento americano. Gli fece alcune domande. «Guardi commissario» disse Mike, «a scanso di equivoci, ogni tanto sembrerà che io faccio l’occhiolino. Purtroppo ho un tic che non riesco a controllare, e fatalmente si attiva nei momenti meno opportuni». Dante sorrise. Lo aveva capito. Aveva anche compreso subito che il suo inter-

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locutore era estraneo ai fatti. Si trovava lì perché aveva riaccompagnato la sua fidanzata a casa. Infatti Margareth allora abitava in Via Paglietta, adiacente a Via Mirasole. Poco dopo, anche a causa di quell’evento cri-minoso, si sarebbe lasciata convincere dal fidanzato a trasferirsi a Roma. Mike fu anzi di aiuto alle indagini, dicendo che aveva udito una revolve-rata provenire dalla sua destra e probabilmente dal basso, dalla strada o da un piano terra. Purtroppo quel delitto rimase irrisolto, ma da quel giorno Mike era divenuto un amico di Dante, e anche un suo fiduciario. I due restarono in stretto contatto anche quando due anni dopo Dante ven-ne epurato dalla polizia. Allora fu Mike a suggerire all’amico di mettersi in proprio e di fare l’investigatore. Quando Dante diede seguito al quel consiglio, divennero inseparabili, una specie di società. Mike infatti ave-va studiato da detective negli States, dove tornava almeno un mese ogni anno. Lì aveva anche contribuito a far arrestare Albert Fish. Difficile trovare sulla faccia della terra un uomo più disturbato del Fish: coprofilo, urofilo, pedofilo, masochista, feticista, cannibale. Un autentico mostro che adorava cucinare e mangiare carne di bambino. «È impagabile la sensazione di scorgere la purezza nelle gesta maldestre di un bimbo» a-veva detto alla madre di un ragazzino afroamericano di otto anni che poi avrebbe seviziato. Gli avvocati tentarono di farlo dichiarare insano di mente. Probabilmente lo era, ma ciò che aveva fatto, e di cui non sem-brava affatto pentito, era così ripugnante che forse meritava lo stesso la condanna a morte. La ottenne nel gennaio del 1936, allorché sperimentò quella che egli stesso aveva anzitempo definito “la suprema emozione della mia vita”, cioè la sedia elettrica. In occasione dell’esecuzione Mike era tornato a New York. I suoi occhi dovevano sincerarsi che un mostro simile fosse davvero morto per sempre. Ora sentiva di nuovo impellente il desiderio di tornare. «L’ultima cosa che ricordo di New York sono due settimane di viaggio, andata e ritorno, per vedere le cervella di uomo arrostire e andare in fu-mo, sotto gli occhi ormai assenti di madri e padri a cui quel mostro aveva preso il figlio. Non c’era più odio in quegli occhi, né pietà, né sentimenti. C’era solo la gelida morte». A New York, Michael era perfettamente inserito nella realtà locale. Riu-sciva ad avere tutta una serie di conoscenze e contatti che all’autorità di pubblica sicurezza sarebbero certamente parsi sospetti, se solo li avesse-ro scoperti. Mike possedeva una certa genialità nel muoversi nell’ombra.

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Era sostenitore di Roosevelt e del New Deal, e non perdeva occasione per ricordare a tutti che il sindaco di New York era Fiorello Enrico La Guardia, un italiano antifascista, figlio di un immigrato cattolico di Ceri-gnola. Recentemente aveva confiscato in tutta New York tremila flipper per donare i rottami di metallo al governo per supportare l’imminente guerra contro i nazisti tedeschi. Il suo braccio destro, nonché avvocato, era Vito Marcantonio, uomo molto conosciuto e stimato nel quartiere di Harlem, avendo lottato per i diritti civili e per i diritti dei lavoratori, dei poveri e di tutti gli emarginati. La madre del sindaco era ebrea, come quella di Mike, il quale aveva, infatti, contatti anche con alcuni sionisti ebrei, in particolare la corrente socialista della Poale Sion e del-lo Hachomer Hatzaïr. Per la verità Mike aveva anche delle brutte fre-quentazioni a New York, merito o colpa di suo padre Santino, tramite il quale aveva conosciuto e bazzicato Generoso Pope, un signore natio di un paese vicino Benevento, emigrato negli States poco dopo i Lucerna, quando aveva solo quindici anni. Pope aveva presto fatto carriera, dive-nendo proprietario di alcuni giornali italoamericani (“Il Progresso italo-americano”, il “Corriere d'America”) anche grazie ad alcune amicizie mafiose nel clan di Lucky Luciano, come Frank Costello e Vito Genove-se. Santino, e poi Mike, a New York avevano conosciuto Pope come un democratico conservatore, i cui giornali sostenevano il New Deal di Franklin Delano Roosevelt. Mike si era allontanato da Pope quando aveva notato la sua vicinanza con la cosiddetta Tammany Society, e i suoi legami mafiosi. Nel 1927 Pope lo aveva invitato al battesimo del suo figlio minore. Mike rifiutò di partecipare quando seppe che il padri-no sarebbe stato Frank Costello. Arrestato Luciano, a partire dal 1936 il boss era diventato Vito Genove-se, detto “Don Vitone, il napoletano”. Mike sosteneva che Vito spaccias-se cocaina a Galeazzo Ciano, il genero del duce. Anzi che gliela regalas-se, e la tirassero insieme. Dopo aver assassinato “L’Ombra”, cioè il gan-gster Ferdinando Boccia, Vito Genovese dovette fuggire per evitare il processo. Trovò ospitalità grazie al duce, che lo alloggiò a due passi dal-la sua città natale, in un lussuoso castello presso Nola, dal quale il boss era solito esercitarsi in una strana pratica detta “missilia”, che consisteva nel lanciare monete d’argento verso la folla. In cambio dell’ospitalità, Don Vitone procacciava cocaina a Ciano, ma soprattutto dimostrava grande generosità verso le chiese e gli istituti locali, e finanziava la co-

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struzione della Casa del Fascio di Nola. Ciò nonostante, Mike non riu-sciva a odiare la famiglia dei Genovese, che in passato aveva protetto e aiutato suo padre in almeno un paio di circostanze.

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Una Diatto verde oliva Dante era rientrato a Roma da dieci giorni, quando cominciò a pensare che la sua lettera inviata da Londra non avrebbe sortito alcun effetto. Il viaggio, lo stratagemma, i pedinamenti, le precauzioni: tempo perso. La lettera non era mai giunta a destinazione, forse era stata intercettata dai servizi segreti inglesi o fascisti, oppure Emilio aveva deciso di non leg-gerla, di stracciarla, comunque non dargli seguito. Chi può dirlo. Se il buongiorno si vede dal mattino, quella era una pessima giornata. Qualcuno aveva deciso di rovinargliela dal principio, attaccandosi al ci-tofono e suonandolo ripetutamente prima ancora che le luci dell’alba fos-sero entrate in scena. Dante dormiva, ovviamente. E avrebbe voluto con-tinuare a dormire. Fu invece svegliato dall’insistenza di questo ostinato e rumoroso scocciatore. Ma chi diavolo è? Cosa vuole? Non sono neppure le cinque del mattino! Rispose, alterato e ancora intontito: «Sì… ?». «Dottor Dante Casati?» gracchiava il seccatore al citofono, con malcela-to accento meridionale. «Chi diavolo è?» fu il massimo della gentilezza con cui fu capace Dante nel rispondergli. «Emilio vorrebbe parlare con lei, è importante. La prego si vesta subito e mi raggiunga in strada, per favore». Se non altro aveva smesso di scampanellare. Per un attimo Dante pensò di rimettersi a dormire, fregandosene di quell’uomo che lo aspettava sot-to. Ma quello poi si sarebbe sicuramente rimesso a scampanellare, e que-sto Dante non lo avrebbe tollerato. Quindi Emilio sa anche dove abito… beh, considerando per chi lavora non è poi così strano. Si era trasferito a Testaccio solo da due anni, e non aveva detto a nessu-no di quel posto. Il domicilio lo aveva lasciato eletto alla Garbatella, es-sendosi spostato “ner core de Roma” soltanto perché una vecchia signo-ra, amica di famiglia, gli aveva prospettato un autentico affare. Per una serie di circostanze tortuose e propizie, aveva di fatto acquisito l’intero

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stabile al prezzo di mercato di un bilocale. Quindi abitava in un vecchio palazzo fatiscente e abbandonato, apparentemente privo di alcun interes-se o richiamo, eppure luminoso, spazioso, con gli interni che ancora tra-sudavano i fasti di una volta. L’unico grande ambiente al piano terra a-veva accesso alla strada tramite un’imponente saracinesca. Lo aveva quindi lasciato spoglio, allo stato brado, utilizzandolo come garage e come parcheggio per la sua Topolino. L’aveva comprata da un paio d’anni, quando aveva casualmente incontrato il capo dell’ufficio tecnico vetture presso la Fiat, e aveva scoperto che oltre a essere un suo omoni-mo, era il progettista di quell’auto. In fondo al garage era una grande scalinata, praticamente condominiale – sì, aveva comprato un intero condominio – che portava ai piani superiori. Alle spalle della scala un piccolo passaggio permetteva l’accesso al retro dello stabile, cioè a un folto insieme di sterpaglie erette sul nulla, a circa venti metri dall’ansa del Tevere. Sotto la scala, tramite una botola a terra, si accedeva a un ri-fugio antiaereo. Al primo piano aveva arredato due camere e cucina. Nulla di impegnativo. Tavolo e libreria nel bel mezzo di un ampio salo-ne. Un divano. Una radio sul mobiletto. La camera da letto canonica, con letto matrimoniale in cui dormiva da solo. Aggiungiamo comodini e ar-madio, e il gioco è fatto. Poi un bagno dotato del necessario. Tutto il re-sto era spazio. Aperto. Libero. Eccetto un vaso con dentro uno spati-phyllum. Purifica l’aria, non ha bisogno di molta luce, e ha una stupenda infiorescenza bianca che lo metteva di buon umore. Questa pianta infatti l’aveva messa anche al terzo piano, dove aveva lo studio. Moquette, scrivania di rovere massello, lampada di classe, libreria, e tanto spazio non arredato che stonava con tutto il resto, ma era perfettamente coerente con i piani sottostanti. Più che razionalista, era stile vuoto pneumatico. D’altronde in quello stabile potevano viverci comodamente otto fami-glie, e invece ci viveva lui da solo. Mica poteva arredare tutto? I soldi preferiva spenderli per riscaldarsi, operazione piuttosto dispendiosa e complessa in quella situazione. L’operazione Emilio era però certamente più complessa. Dieci minuti per lavarsi, asciugarsi, vestirsi e cacciarsi qualcosa di commestibile in gola a mo’ di colazione. La pistola la lasciò al suo posto: terzo piano, cassetto chiuso a chiave nella scrivania. Non gli sarebbe servita la rivol-tella, con Emilio. Scese, chiese i documenti e le credenziali a quell’uomo. Si chiamava Rodolfo e aveva le carte in regola. Accettò di salire sulla sua auto. Una Diatto modello 30, duemila di cilindrata, color

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verde oliva. Era di Emilio, c’era da scommetterci. Quella vettura sfrecciò verso il centro di Roma. La guida era troppo sportiva, considerando i sampietrini ancora bagnati dall’umidità della notte. L’aria era pungente e frizzante. La Diatto smise di ruggire davanti alla gelateria Giolitti, nei pressi di Piazza Montecitorio. Quell’uomo spense il motore, e il mondo piombò in un silenzio surreale. Finché si udirono dei passi, che sembra-vano provenire da via della Missione. Passi irregolari ma cadenzati, co-me possono essere quelli di uno zoppo. Appartenevano a un signore ele-gante e alla moda, trench chiaro, calze scozzesi, un gilet di lana rasato beige che foderava una camicia dal collo floscio, richiamando sul capo un Borsalino in feltro di lepre, color avana e cinto da un na-stro di seta scura. Sì, proprio lui, Emilio! «Ehi, io lo conosco quest’uomo elegante!». «Abbracciami amico mio, come stai?». Si abbracciarono. Di solito Emilio rifuggiva smancerie del genere. Sembrava troppo cordiale e caloroso, come se volesse farsi perdo-nare qualcosa. «Starei meglio se un fascista zoppo non mi avesse fatto prelevare alle cinque di domenica mattina…» disse Dante, fingendosi adira-to. «Ah! La gente come noi non dorme mai! Detective, dico bene? Vuoi sa-pere perché siamo qui?». Dante lo guardò, senza dire nulla. Non aveva mai risposto alle domande retoriche, ed Emilio lo sapeva, gliele faceva apposta. Quindi proseguì. «Mi conosci no? Ho sempre pensato che per nasconderti bene, devi met-terti dove possono vederti tutti, per esempio vicino al Parlamento, quan-do però non ti vede nessuno, per esempio la domenica all’alba. Per e-sempio». Già. Emilio era letteralmente fissato per queste stronzate. «Bell’esempio, non ci avevo pensato» ironizzò l’investigatore. Era sempre stato un eccentrico, Emilio. Però era anche concreto e puntu-ale quando voleva: «Caro Dante, invece di continuare a portare inde-gnamente questo nome, ora dimmi perché mi hai scritto quelle cose». Gli spiegò allora che aveva avuto dei contatti, e delle informazioni riser-vate, non verificate, e che aveva bisogno di qualcuno nei servizi segreti per poter indagare, e così aveva pensato a lui: un pazzo istintivo trasfor-mista e geniale, vecchio amico sopravvissuto a mille epurazioni. Chi meglio di lui?

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Per ottenere qualcosa da Emilio, il segreto era pungolarlo. «A volte ancora mi chiedo come hai fatto a far carriera, mentre a noi altri ci epuravano tutti». «Ah! Lascia perdere Dante, col tuo cervellino non lo capiresti!» rispose ridendo. Sì, rideva e scherzava. Ma era serio. E voleva che l’investigatore vuotas-se il sacco. Dante gli fece capire che aveva bisogno di sapere qual era la situazione della Polizia politica e dell’OVRA, dall’interno. Come si erano strutturati gli uffici, cosa era cambiato dopo la sua uscita, chi gestiva co-sa. Emilio gli spiegò che nella POLPOL adesso c’era un archivio diviso in tre parti. Una parte era l’archivio materia, in cui venivano inventariati i documenti relativi a specifiche materie, come ad esempio gruppi antifa-scisti o eventi particolari. L’ufficio che se ne occupava era chiamato ap-punto “ufficio materia”, ed era quello di Amatucci, che prima era stato di Musco, e prima ancora di Renzo Mambrini. Un’altra parte era l’archivio personale, in cui si conservavano dei dossier sulle personalità da loro controllate. Questi dossier erano dei fascicoli di colore verde, e contene-vano anche le relazioni fiduciarie che riguardavano il controllato. «C’è un fascicoletto verde anche su di te Dante, se ti può far piacere» disse, sempre ridacchiando. Infine una terza parte era l’archivio dei fiduciari, costituito dai dossier sui delatori. Questi erano di colore rosso, e ogni fiduciario aveva un co-dice e uno pseudonimo. «Quanti fiduciari avete? Come comunicano con voi?» chiese l’investigatore. Emilio non si preoccupava nel favorire a Dante questo genere di informazioni riservate. Erano cose che - per sommi capi – l’ex commissario già sapeva, e in cambio delle quali avrebbe presentato un conto, o fatto le sue richieste. Gli spiegò quindi che avevano quasi mille fiduciari, alcuni dei quali avevano a loro volta altri subfiduciari. Gli disse anche che la POLPOL e l’OVRA non operavano sempre coralmente, perché avevano ognuna i propri delatori e i propri sistemi di comunicazione. Perfino tra singoli uffici potevano esistere delle differenze. In linea di massima comunque funzionava così: il fiduciario scriveva delle relazioni e le inviava a indirizzi di posta convenzionali, predisposti dalla Polizia per la ricezione. Una volta ricevute le relazioni, ne venivano prodotte tre copie. La prima veniva girata al capo della Polizia, che decideva se tra-smetterla o meno al duce stesso, quotidianamente. La seconda veniva consegnata al sottosegretario all’Interno. Queste due copie erano sostan-

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zialmente atte a informare il governo in casi di particolare rilevanza. Ma la copia importante, e su cui si lavorava sempre, era la terza, che veniva assegnata al capo della POLPOL, il quale la smistava al funzionario pre-posto, quindi seguendo un criterio di competenza. «Emilio, più o meno funzionava così anche ai miei tempi, non mi stai di-cendo molto. Voglio sapere di chi sono queste competenze. Io voglio l’organigramma». Allora gli raccontò che c’era l’ufficio di Renzo Mambrini, il quale per altro aveva molti fiduciari personali: «La chiamano la rete M, cioè rete Mambrini». Si occupava soprattutto dei principali gruppi clandestini, come i giellisti di Giustizia e Libertà, i comunisti, anche i repubblicani. Poi si occupava anche dell’Africa, della Francia, delle colonie francesi e dei contatti sovversivi con l’estero. C’era anche l’ufficio di Francesco Tripoli, che era dedicato completamente ai socialisti. «E poi c’è il mio ufficio, che fa capo a Saverio Caccavale. E noi siamo responsabili dei politici e dei sindacalisti, delle questioni del dissenso, del traffico di valuta, e ci occupiamo anche di sovversivismo in Spagna, Belgio e Svizzera. Ti ho detto tutto, ma per aiutarti devo sapere cosa cer-chi». «Quindi ho bisogno di aiuto… hai detto che avete un fascicolo verde su di me?». «Ma non preoccuparti Dante, perfino il duce ne ha uno, a causa delle sue gesta amorose e delle sue amanti, che ci tocca schedare. Tutti gli ex commissari hanno un fascicolo. Tu hai lavorato in ambienti sensibili. I-noltre adesso fai l’investigatore. Potrebbe venirti in mente di trovare uno come me, e di tornare alla ribalta. Se adesso qualcuno ti vedesse chiac-chierare con me, quel fascicolo comincerebbe a scottare…». «È quello che vuoi?». «No, no… no. Io sono dalla tua parte. Però devi chiarirmi qual è la tua parte. So che i fascisti non ti vanno a genio. Io amo il mio lavoro, ma non vanno a genio neanche a me. Posso coprirti o proteggerti se è il caso, ma devo sapere… ». Dante cercò di spostare il discorso sulle amanti del duce, ma la tattica funzionò solo per qualche istante, perché Emilio sembrava ossessionato dalla brama di conoscere le reali mire dell’ex commissario. «Come faccio a fidarmi di te, Emilio?». «Io mi sto fidando di te, Dante».

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«Che… cosa? Io… io non posso nuocerti, Emilio. Tu invece… se solo parlo, puoi farmi arrestare o fucilare, immantinente. Te lo ripeto ancora, e cerca di darmi una risposta degna della tua famosa intelligenza: come faccio a fidarmi di te?». «Ok… senti. Lo sai perché mia sorella si trova a Londra?». Non lo sapeva. Così gli spiegò che era stata costretta a esiliare per aver fatto una vignetta satirica su una rivista leggera, di sole donne. «Era sol-tanto una stupida vignetta» disse accorato Emilio, «e sapevano che era mia sorella. Per questa gente conta più una vignetta che un legame di sangue. Non ci pensano due volte a eliminarti Dante. Devi dirmi cos’hai per le mani». Dante scosse la testa. Si rese conto che, paradossalmente, aveva il coltel-lo dalla parte del manico, tanto era la brama di Emilio di conoscere il suo segreto. «Se non mi dai una prova concreta che posso fidarmi di te, io non dico nulla». «Ascoltami Dante, sei tu che mi hai mandato una cartolina da Londra, o sbaglio? Sei tu che hai bisogno del mio aiuto, non io del tuo». Dante tirò la corda fino al punto di rottura: «Già … forse ho sbagliato». Funzionò: «Sentiamo Dante! Che cosa vuoi che faccia?». «Ho bisogno che mantieni pulito quel fascicolo verde che mi riguarda. Questo per cominciare…». «Consideralo già fatto. Poi?». «Ho bisogno del tesserino della gestapo e di una divisa da alto ufficiale delle SS, almeno da Oberabschnitt Führer». Che sarebbe un comandante distrettuale. «Ah ora ho capito! Ho capito sì… in questi ultimi anni ti sei bevuto il cervello vero? Sei un alcolista? Ti droghi?». «Lo fai, o no…». «Accidenti Dante, è troppo rischioso…». Appunto, lo avrebbe fatto. Infatti: «Sul documento vuoi un nome in particolare, o fittizio?». «Fittizio». «In Germania è troppo pericoloso. Lo avrai di un gerarca fascista, italia-no. A patto che mi dici tutto». Non poteva. Se Emilio lavorava per il governo, e voleva sapere il suo pi-ano per incastrarlo, gli avrebbe servito su un piatto d’argento la vittoria, insieme alla sua testa. Se invece Emilio fosse stato davvero dalla sua par-

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te, allora sarebbe forse rimasto deluso per l’aleatorietà e il pressappochi-smo delle poche informazioni di cui Dante disponeva, e del suo piano ancora allo stato embrionale. In ogni caso non era quello il momento di parlargli delle sue intenzioni. Avrebbe deciso più avanti come gestire tut-ta la situazione. Adesso aveva bisogno del suo aiuto incondizionato. «Quando farai questo per me, e quando sentirò che è il momento giusto, ti giuro su mio padre che ti dirò tutto». Emilio sapeva bene quanto Dante fosse legato a suo padre. Quando lavo-ravano insieme gli aveva parlato spesso di lui, lo aveva anche conosciu-to. Altri tempi. «Ah sì… a proposito, anche se sono ormai passati anni volevo farti le mie condoglianze, mi dispiace, davvero. Volevo chiamarti ma…» gli stringeva il braccio per scusarsi, così Dante tagliò corto: «Grazie Emilio, non preoccuparti, capisco». «Senti Dante, va bene facciamo come dici tu per ora. Dimmi almeno se è qualcosa di grosso, se vale la pena rischiare». «Non lo so ancora Emilio, potrebbe…». «Bene, tra poco fa giorno. Io dico che siamo pari, non ti devo più nulla. Non contattarmi ancora, e soprattutto non mandarmi cartoline da Londra con la calligrafia di mia sorella. Come ti salta in mente? Ti contatto io usando questo indirizzo postale…». «A proposito, quasi dimenticavo. Ecco… questa è l’ultima lettera di tua sorella, scusami, ho dovuto toglierla per mettere la mia… sai una cartoli-na e una lettera nella stessa cassetta e nello stesso giorno, con lo stesso mittente e lo stesso destinatario…». Emilio lo fulminò con uno sguardo irritato, ma non disse nulla. Sapeva quanto l’ex collega era scrupoloso e paranoico. Quasi quanto lui, che a-vrebbe fatto la stessa cosa. Lamper usava alcune cassette postali private per ricevere informazioni dalle sue spie. I suoi fiduciari imbucavano le loro relazioni manoscritte su fogli di carta in apposite buche delle poste precedentemente concorda-te. In genere si trattava di feritoie in pietra, più raramente in legno con la toppa per la chiave. Si trovavano di solito sulle pareti di palazzi posti in zone riservate, o sui muri di vie poco frequentate. A queste cassette – che non avevano un reale intestatario o destinatario – accedevano soltanto delle persone chiamate “polistini”, cioè funzionari di polizia che si fin-gevano postini. Erano addetti a questo, e recapitavano tutto a un ufficio apposito che sapeva come smistare la corrispondenza fiduciaria. Era un

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sistema piuttosto diffuso tra tutti i funzionari di polizia, tra quelli di pub-blica sicurezza e nell’OVRA stessa. Gli uffici più importanti, soprattutto per tutelare alcuni fiduciari di particolare rilevanza, si servivano di “poli-stini” interni, che recapitavano direttamente ai destinatari, senza passare per nessun ufficio. Ora Emilio stava proponendo di utilizzare questo sistema al contrario, per comunicare con Dante. Certo non poteva convocarlo in ufficio o in questura, e il telefono non era sicuro. «Ora sei un mio fiduciario?» domandò Dante, punzecchiandolo. Forse non colse lo spirito scherzoso, visto che qualcosa in questa frase lo irritò. Cambiò repentinamente tono. Era tipico di Emilio. Un lunatico compul-sivo, con improvvise virate d’umore: «Ehi Dante, ascolta un po’. Hai chiesto il mio aiuto ma non hai voluto svelarmi un accidenti. Mi hai co-stretto a raccontarti tutto sui nostri uffici e hai provato anche a sapere co-sa si vocifera sulla vita privata del duce. Poi mi hai chiesto di candeggia-re il tuo fascicolo, di rimediarti documenti falsi e divise da gerarca. A-desso basta però. Torni a casa a piedi, e ti scriverò a questo indirizzo po-stale. Punto». Gli collocò un bigliettino in tasca, con sopra scritto l’indirizzo della ca-sella postale. Balzò in macchina intimando a Rodolfo di partire. Tutto sommato era andata molto meglio di quanto si potesse sperare. Mentre sfrecciavano, Emilio gli gridò: «Siamo paaarii!».

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Siamo pari Emilio, nel 1930, aveva vissuto un terribile lutto. La sua amica Bice Margarucci era stata trovata decapitata a Santa Marinella. Il commissario Musco, a capo delle indagini, non era riuscito a trovare alcuna spiega-zione plausibile, e quella macabra morte era stata ascritta ai misteri della cronaca nera italiana. Emilio non si dava pace, aveva preso a indagare di persona, non riuscendo però a trovare alcun indizio utile. Il 17 novembre del 1932 Dante ricevette una telefonata particolare. Era un suo informatore che lavorava alla stazione di Roma Termini. Aldo lo informava che aveva trovato una valigia senza proprietario su un treno proveniente da La Spezia. Poiché gli era sembrata sporca di sangue, la aveva aperta, e aveva visto che conteneva dei pezzi di corpo umano, pro-babilmente di una donna. Preso dal panico, non sapendo cosa fare, aveva chiamato Dante, il quale gli consigliò di non toccare nulla, mentre si pre-cipitava sul posto. Aveva letto sui giornali che il giorno prima un’altra valigia analoga era stata ritrovata a Napoli, da un treno proveniente sem-pre da La Spezia. Giunto a Termini guardò nella valigia e si rese conto che conteneva proprio la metà che non era nella valigia di Napoli. In cer-ti casi non basta guardare, bisogna vedere, e poi bisogna credere in quel che si vede. Fece alcune domande ad Aldo, poi chiamò la polizia. Non era il tipo d’indagine che poteva svolgere da solo, senza le autorità. Pre-sentandosi però con il tesserino da detective e l’indubbio merito di aver scoperto qualcosa di importante, la polizia lo lasciò collaborare. Le inda-gini vennero affidate proprio al commissario Musco, della questura di Roma. Presto giunse la notizia che nella stazione di La Spezia un ragazzo aveva trovato un coltello insanguinato. Era l’arma del delitto. Ricomposto intanto il puzzle umano, e nonostante l’assenza di qualche tassello, un’amica della vittima fu in grado di riconoscere i pezzi di Pao-la Goretti. Fu proprio Dante che riuscì a interrogare l’amica della vitti-ma, facendosi dire ciò che non lei voleva dire alla polizia, cioè che Paola era andata a La Spezia per incontrarsi con un uomo, con cui si sarebbe dovuta sposare. Febbricitanti indagini portarono a identificare

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quell’uomo nella persona di un ex infermiere e macellaio, di nome Cesa-re Serviatti. Aveva una casa a Roma in Via Principe Amedeo, ed è lì che lo sorpresero. Musco lo accusò della morte della Goretti, e fu subito chiaro che Serviat-ti era colpevole. Il commissario sospettava che l’assassino potesse essere responsabile anche di altri delitti, compreso quello della decapitata di Santa Marinella, l’amica di Emilio. E lo pensava anche Dante. Quando Emilio seppe dell’accaduto, e che avevano preso l’uomo che aveva fatto a pezzi la Goretti, si presentò in ufficio da Musco sbraitando contro il commissario, accusandolo di essere incapace di fargli confessare altri de-litti. Serviatti aveva lasciato intendere che in giro per l’Italia ci fossero altre sue vittime ma si rifiutava di fare nomi o di collaborare seriamente. Emilio strepitava, era rabbioso e minacciava di far sollevare Musco dall’incarico. Voleva interrogare lui personalmente il Serviatti. Musco ebbe polso, e non lo permise, evitando all’imputato di essere massacrato di botte. Sarebbe stato il modo migliore per favorire l’avvocato di Ser-viatti e per perderlo. Dante riuscì a convincere il commissario a lasciarlo da solo per un’ora con quel mostro, garantendo che gli avrebbe estorto lui una confessione. Fu quel che accadde. L’amica di Emilio era stata uccisa proprio da lui, il 30 ottobre 1930, in un appartamento in via Ricasoli a Roma. Il corpo era stato amputato e decapitato, poi gettato nel Tevere all’altezza dell’isola Tiberina. La corrente del fiume aveva fatto il resto, facendo ritrovare il corpo di Bice Margarucci presso Santa Marinella. Quando Dante lo disse a Emilio, dovette poi anche trattenerlo con la for-za, perché l’ufficiale dell’OVRA era determinato a decapitare il Serviatti con le proprie mani, tirandogli il collo come si fa con le galline. Dovette invece attendere la sua condanna a morte, e solo allora ottenne una con-cessione davvero speciale. Il condannato sarebbe dovuto essere giustizia-to dai moschetti del plotone di esecuzione nel poligono Chiara Vecchia presso Sarzana. I moschetti però non spararono, non subito almeno, per-ché lasciarono l’onore del primo colpo a Emilio, il quale gli esplose una revolverata alle spalle il 13 ottobre 1933, alle ore sei e quarantacinque del mattino, dopo avergli sputato in faccia alle sei e quarantaquattro. I moschetti aprirono poi il fuoco sul corpo già morto, per verbalizzare un’esecuzione formalmente regolare. Dopo averlo giustiziato, con gli oc-chi lucidi e ancora carico di adrenalina, Emilio abbracciò l’amico: «Gra-zie Dante, ti devo un favore».

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Clarice Federci Negli ultimi quindici anni Dante aveva personalmente ricostruito una sorta di casellario politico privato. Quattro cassettoni chiusi a chiave nell’armadio al terzo piano di casa sua, celavano numerosi faldoni, do-cumenti, schede, appunti personali e dossier. I suoi incartamenti erano tutti lì. Poca roba rispetto ai mezzi e alla mole di carte di cui disponeva in ufficio. Aveva però mantenuto delle amicizie che gli permettevano di avere informazioni di una certa qualità. Aveva amici nella polizia, nei cosiddetti UPI, cioè “Uffici Provinciali d’Investigazione”, nei Servizi In-formativi militari (SIM) in quelli dell’esercito (SIE), della marina (SIS), dell’aviazione (SIA). Aveva inoltre una sua piccola rete di fiduciari priva-ti, sebbene si fosse sfoltita negli anni fino quasi a scomparire. Eppure qualche asso nella manica, come poteva rivelarsi Lamper, lo aveva anco-ra. In attesa di Emilio, gli sembrò una buona idea quella di cominciare auto-nomamente le indagini. Molte volte dietro un crimine si cela un legame amoroso, sentimentale o sessuale, direttamente o indirettamente connes-so col crimine stesso. Secondo una regola non scritta il buon investigato-re approfondisce sempre lo studio delle personalità dei soggetti coinvolti nelle indagini, soprattutto le loro relazioni sociali, sessuali e sentimentali, con particolare attenzione a quelle clandestine. Sembrerà forse strano, ma questo è sempre un buon punto per iniziare le indagini. Attenersi a questa regola gli aveva facilitato la comprensione, e quindi la soluzione, di più di un caso. Era dunque opportuno tenere fede a questo orientamen-to, a maggior ragione ove si consideri che il duce era notoriamente un dongiovanni, e che da alcuni mesi alle orecchie più indiscrete erano giunte delle voci su una sua presunta nuova amante, una ventenne, di cui Mussolini pare si fosse talmente invaghito da preferirla alla sua ultima fiamma, cioè alla Alice Pallottelli de Fonseca. Secondo Emilio, nel 1935 era stato lo stesso Arturo Bocchini a tentare di far restituire la patente automobilistica al marito della de Fonseca, Fran-cesco Pallottelli, titolare della tipografia-editrice “Novissima”, sita in via

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Tacito. Di quest’ultimo si era interessato perfino Osvaldo Sebastiani, se-gretario particolare del duce, affinché trovasse nuovo lavoro dopo il fal-limento della sua attività imprenditoriale. A parer di Emilio l’amante del duce era sempre e ancora la de Fonseca, nessun’altra. Tuttavia aveva confidato al suo amico investigatore che un giornalista fascista con incarichi di rappresentanza presso Berna, in Sviz-zera, da circa un anno stava mettendo in giro la storia che il duce avesse una nuova amante, una certa Claretta, figlia di un medico. Nei suoi incartamenti, Dante non trovò nulla che potesse aiutarlo a dipa-nare la matassa. Pensò allora di contattare Tommaso. A differenza del sistema postale di Emilio, con Tommaso riusciva ad avere una comuni-cazione più facile e diretta. Gli aveva, infatti, segnalato un numero dove, in caso di necessità, poteva parlargli utilizzando uno dei cinque apparec-chi telefonici da lui contrassegnati come sicuri. Erano disseminati in vari punti della città. Il più vicino al suo appartamento si trovava in un bar su Via del Porto Fluviale, e fu da lì che Dante lo chiamò. Aveva ufficial-mente accettato l’incarico. Gli chiese se potesse in qualche modo entrare in contatto con le sue fonti, ma da quell’orecchio Tommaso sembrava sordo. I suoi santi in paradiso erano personaggi politici, scrittori, intellet-tuali, una folta schiera di persone influenti ognuna nel proprio settore. Si conveniva che Tommaso fosse l’unico intermediario tra Dante e Lor si-gnori. Prendere o lasciare. Girò dunque a Tommaso l’informazione uffi-ciosa sulla presunta nuova amante del duce, chiedendogli se potesse atti-vare i suoi contatti perché scoprissero qualcosa in questa direzione. Tra i contatti diretti di Dante, invece, c’era un suo amico che lavorava ai Servizi Informativi dell’Aviazione (SIA). Si chiamava Eriberto, un italo-austriaco del tutto atipico. Somigliava, infatti, più a un siciliano che a un tirolese: basso, moro, baffi folti e neri. Era sempre stato attratto dal gossip, argomento sul quale era estremamente ferrato. Logorroico e pet-tegolo come poche persone al mondo, Dante lo tentò e invogliò a parlar-gli del duce, o meglio delle maldicenze attorno alla sua persona e al suo governo. Da che mondo è mondo, quello era il suo passatempo preferito. Eriberto non resisteva a simili richieste, mai. Quell’uomo gli ricordava un suo ex professore al quale gli alunni chiedevano di raccontare le sue vicissitudini sessuali, per non farsi interrogare. Quello non vedeva l’ora di pavoneggiarsi con le ragazzine di scuola, adolescenti tutte brufoli e sorrisini. Funzionava sempre. Con Eriberto era lo stesso. Infatti il tirolese gli raccontò che c’era stata una piccola fuga di notizie all’interno

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dell’Aeronautica, e si vociferava che un sottotenente di nome Virgilio Pallottelli fosse il figlio illegittimo di Mussolini. Quindi figlio della rela-zione del duce con la de Fonseca. Dante lo solleticò ancora, spronandolo come meglio poteva. Sembrava che Eriberto non avesse altro da aggiun-gere, invece: «Ah! Beh… sono soltanto voci e maldicenze, niente altro…». «Quali voci?». «Vedi… qui da noi in Aeronautica lavora un certo tenente che si chiama Riccardo Federici. Sua moglie si chiama Clarice, detta Clara o anche Claretta. Sicuramente lei e Riccardo hanno conosciuto… conoscono il duce. Il resto sono dicerie…». Le dicerie raccontavano di un incontro sulla via del Mare, tra un’Alfa Spider rossa e una Lancia Astura con targa vaticana. Sulla prima autovet-tura era il duce, sull’altra il tenente Federici, con Claretta e l’autista. Op-pure, variante numero uno, con la famiglia di lei. Tre o quattro giorni dopo, il duce avrebbe telefonato a Claretta. Oppure, variante numero du-e, sarebbe andato a trovarla di persona. Ne sarebbe nata una relazione sentimentale che avrebbe portato quest’ultima a lasciare il marito, per frequentare assiduamente Palazzo Venezia. «Targa vaticana hai detto? Ne sei certo?». «Te l’ho detto Dante, sono pettegolezzi…». L’investigatore si informò sul cognome da nubile di questa Clara Federi-ci. Roba da non crederci: faceva Petacci. Suo padre, Francesco Saverio, era archiatra e medico di capezzale di Pio XI. Roba da non crederci. Intanto la rete di Tommaso si dimostrava affidabile e solerte: colui che pare avesse lasciato trapelare queste indiscrezioni a Berna era l’agente diplomatico Attilio Tamaro. La notizia trovava autorevole conferma presso l’ambasciatore britannico a Parigi, Eric Phipps, che sbagliando il nome di Clarice aveva comunicato al Foreign Office l’esistenza di una relazione sentimentale del duce con “Madame Pertinacci, figlia di un medico del Vaticano e moglie di un ufficiale della Marina”. A questo puntò non si poteva più escludere la pista omicida, cioè l’eventualità che la morte del pontefice fosse una responsabilità più o meno diretta del duce. Ma troppi erano ancora gli interrogativi. Dante non dubitava che i fascisti fossero disposti a ricorrere al crimine in caso di necessità o di convenienza. Nell’incendio all’Avanti erano morte quat-tro persone, poi c’era stato Giuseppe Di Vagno, Don Minzoni, Matteotti. Erano solo le vittime illustri della violenza fascista. Mussolini stesso, già

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nel 1925, aveva confessato pubblicamente che se il fascismo era un’associazione a delinquere, lui ne era il capo. Ora Dante sapeva che il duce sarebbe potuto arrivare ad Achille Ratti tramite il medico Francesco Saverio Petacci, padre della sua amante Claretta. Ma era davvero così? Cosa sapeva di questo archiatra? Si sarebbe mai prestato a una cosa del genere?

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Apparecchio numero quattro Dante cercò di prendere informazioni sul padre di Claretta. Iniziò a scri-vere un dossier su di lui. Francesco Saverio Petacci (1883-) è un medico specialista in semeioti-ca, lo studio dei sintomi e dei segni della malattia, tramite i quali si può congetturare una diagnosi. Conosciuto e stimato a Roma grazie alla sua capacità di diagnosticare alcune malattie attraverso la sintomatologia, soprattutto il colore della pelle e l’osservazione dell’iride dell’occhio. È stato direttore per alcuni anni di una clinica romana. Pare sia anche proprietario di una clinica chiamata “La Clinica del Sole”. Ha cono-sciuto il cardinale Achille Ratti a tavola, durante un evento pubblico. Guardandolo in viso sospettò che soffrisse di un particolare male. Così alcuni giorni dopo il cardinale andò a trovare Petacci nel suo studio medico, dove questi gli diagnosticò e iniziò a curare una malattia che nessun altro medico era riuscito a individuare. Petacci riuscì a curare Sua Eminenza e tra i due nacque un rapporto amicale e di stima. Quan-do il cardinale divenne Papa volle dunque portare con sé l’amico medi-co, facendo di lui un archiatra. Non uno qualsiasi, ma il favorito, il me-dico di capezzale, colui da cui Sua Santità si lasciava accudire più vo-lentieri in caso di difficoltà. Da approfondire e completare previa indagine e informazioni fiduciarie. Certo era poco, ma era un inizio. Ora confidava su Tommaso, e sulla sua recente notizia-bomba: «c’è la possibilità che io riesca a farti parlare con un pezzo grosso nella Santa Sede, uno che risponderebbe a tutte le tue domande». Tommaso lo aveva però pregato di non essere mai contattato dallo stesso apparecchio telefonico, bensì di cambiarli sistematicamente. Anche Dan-te era uno zelota delle procedure di sicurezza, pertanto doveva superare la sua innata e proverbiale pigrizia, e recarsi a un apparecchio che non fosse quello del bar sotto casa. Stava per recarsi all’apparecchio numero

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due, situato da qualche parte all’interno del Westin Excelsior di Via Ve-neto, quando pensò che aveva voglia di un buon caffè. Faceva al suo ca-so l’apparecchio numero tre, posto in un vecchio Bistrot su via Prenesti-na. Anzi no, troppo fuorimano. Il numero cinque era in una pensione e-stiva a Ostia Lido, da non prendere neppure in considerazione. Rimaneva il quattro. Un apparecchio nero, automatico, a batteria centrale, della Siemens, situato nella saletta di servizio alle spalle del bancone del Caffè Greco, in via Condotti. Perfetto. È lì che prendeva posto, aprendo il giornale, prima di ordinare un caffè. Pochi tavoli avanti c’era un convi-vio di camicie nere, che sembravano seriamente occupate a sbronzarsi. Non avrebbero alzato i tacchi, non prima di aver alzato ancora tante volte il gomito, e Dante non aveva intenzione di aspettare così a lungo. Si ri-volse al gestore: «Dovrei fare una telefonata privata alla signora miste-riosa». Era una frase convenzionale, evidentemente concordata tra Tommaso e il ristoratore, se così si poteva chiamare quell’individuo. Più che ristorare gli altri, sembrava trovarsi lì per ristorare se stesso. Il ban-cone sembrava una sorta di oasi protetta, dove lui era una specie di leone marino in via d’estinzione. Goffo, obeso. Sudava solamente al centro del petto e sopra i suoi baffi da nutria, all’attaccatura del naso. Un naso piat-to e largo, da pugile suonato, buono per caratterizzare il personaggio, ma non tanto per respirare. Infatti inspirava dalla bocca, ma ciò non lo esen-tava dall’emettere un fastidioso rantolo. Mi ha condotto all’apparecchio in una sala interna del locale. Prima pe-rò aveva sollevato il mento e piegato il collo verso il tavolo dei fascisti, due o tre volte, sgranando gli occhi, come per dire: non li hai visti quel-li? Non potevi scegliere un momento migliore, vero? Poi ha a sé la ra-gazza delle ordinazioni, la più avvenente. L’ha spedita dritta al tavolo miliziano. Via libera per qualche minuto. Ho chiamato. «Tommaso?». «Sì. Dante?». «Sì. Chiamo dal numero quattro. Ci sono miliziani qui attorno, vengo subito al punto. Vorrei sapere le novità, specie riguardo quel contatto in paradiso che risponderebbe alle mie domande». «Ci sto lavorando, mi chiami domani». Chiuse bruscamente.

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Duomo di Terni La cassetta postale concordata con Emilio era in Via Ercole Rosa, al nu-mero uno, mimetizzata nel muro e coperta da un’edera. Al suo interno un foglio con una comunicazione: Tanti occhi vegliano la tua anima, che potresti accecarli insieme con un sol tizzone. Hermete con le ali ai piedi giunse a zero e ottocento nella Dioecesis Interamnensis-Narniensis-Amerina. Sii te stesso, cammina in pace. Era “lamperese”: Tanti occhi vegliano la tua anima = Sei sorvegliato; che potresti accecarli insieme con un sol tizzone = dopo che hai letto questo messaggio, brucia il foglio; Hermete con le ali ai piedi = Mercurio, cioè mercoledì; giunse a zero e ottocento = alle otto in punto del mattino; nella Dioecesis Interamnensis-Narniensis-Amerina = nella Dioce-si di Terni-Narni-Amelia, cioè chiesa di Santa Maria Assunta a Terni, vale a dire il Duomo. Sii te stesso, cammina in pace = Vieni da solo, a piedi. Giunse mercoledì, e il treno delle sei del mattino per Terni arrivava in stazione alle sette e trentacinque minuti. Restavano venticinque minuti per raggiungere il Duomo, distante circa seicento metri in linea d’aria, il doppio a piedi. Dante giunse affannato di fronte alla facciata e guardò l’ora: sette e cinquantanove minuti. Avanzavano trenta secondi per se-dersi a osservare il Duomo e riprendere fiato, e altri trenta per guardarsi intorno e riprendere ancora fiato. Poi dentro, comunque senza fiato. At-traverso l’unico pertugio praticabile, cioè una porta minore e defilata, ad angolo acuto, probabilmente posticcia rispetto alle tre ad arco del portico berniniano. Ma quanti diavolo di portici ha fatto Bernini? Sono tutti suoi. Si diresse verso l’organo, direzione parroco, mentre con lo sguardo cercava Emilio. Giunto a ridosso del prete, fu quest’ultimo a rivolgersi a lui: «Benvenuto nella casa del Signore. Lei deve essere l’amico di Emilio?».

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Dante strinse la mano a quel risoluto parroco sulla quarantina, moro, ca-pelli cortissimi e lineamenti duri. L’istinto da investigatore gli diceva di restare allerta. Con Emilio non c’era da star sereni, nulla era mai come appariva. «Sono Don Calcagno, ma Emilio mi ha detto che lei è un amico, quindi può chiamarmi Tullio» disse il prete. «Molto lieto… Don… Tullio» replicò Dante, mentre inciampava su un sasso, forse un dislivello. «I lavori di consolidamento sono finiti da due anni» disse il prete, «ma ancora continuano a venir fuori sassi. Hanno trovato tre absidi interrate sa? A proposito, qualcuno la sta aspettando proprio in una di queste, mi segua la prego…». Attraverso il deambulatorio alle spalle del presbiterio, si accedeva a una di queste absidiole. All’interno c’era una piccola sagrestia secondaria. Seduto lì, in attesa, c’era Emilio. «Bene, vi lascio soli» disse Don Calcagno, cioè Tullio, mentre ritirandosi chiuse la porta dietro di lui. «Dante, hai quattro minuti di ritardo. I fascisti detestano i ritardatari». Il tipico modo grottesco di Emilio per stemperare la tensione. Il trucco, con lui, era quello di prendere subito le redini del gioco, e condurre con fermezza. Lasciargli l’iniziativa sarebbe stato fatale. «Io detesto i fascisti Emilio. Mi hai portato quel che ti ho chiesto spero. Altrimenti non saprei cosa diavolo ci faccio in una sagrestia di Terni alle otto e quattro maledetti minuti del mattino». Emilio chiese a Dante se fosse stato pedinato. C’era quel fascicolo verde negli uffici di Pubblica Sicurezza, che imponeva prudenza e suggeriva di comportarsi come se fosse tallonato. «Quel fascicolo non l’hai pulito quindi…». Bravo Dante, incalzalo. «Lo farò, se dovesse diventare sporco. Non c’è scritto nulla in quel fasci-colo che possa giustificare una stretta sorveglianza. Proprio per questo ti consiglio di comportarti come se fossi pedinato. In questo modo resterà pulito, e io non dovrò perdere tempo». Mantieni sempre l’iniziativa: «La divisa e i documenti?». Ma Emilio l’iniziativa non la concedeva: «Ti ho portato qualcosa di più. Però prima devi dirmi cos’hai per le mani». Dante era a un bivio. Poteva dire la verità a Emilio?

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L’ispettor Fausto Ascanio Rossi Meglio non correre rischi. Meglio una storia di comodo. Qualcosa che gli avrebbe fatto guadagnare tempo senza perdere il prezioso appoggio di Emilio. «Qualcuno vuole attentare alla vita di Mussolini» disse Dante. La questione lo interessava. «Qualcuno chi? Quando? Come? Perché?». Negli ultimi tempi attentare alla vita del duce era diventato sport nazio-nale, ma quel che era peggio è che tra i responsabili della sicurezza si stava insinuando la paranoia che i mandanti fossero interni. Aveva cominciato il socialista unitario Tito Zaniboni nel novembre del 1925, con la complicità del generale Luigi Capello, che solo tre anni prima aveva partecipato alla marcia su Roma. Zaniboni avrebbe sparato al duce con un fucile di precisione dall’Hotel Dragoni, se il poliziotto Giuseppe Dosi non fosse riuscito ad arrestarlo un momento prima che l’attentatore realizzasse il suo proposito. Nell’aprile successivo ci aveva provato Violet Gibson, una squilibrata irlandese il cui colpo di pistola aveva ferito il duce al naso. Cinque mesi dopo, nel settembre del 1926, il tentativo lo fece con una bomba l’anarchico Gino Lucetti, che riuscì a ferire otto persone. Praticamente tutti quelli che gli erano attorno, tranne il duce. Quasi due mesi dopo, fu forse proprio una faida interna al fascismo che sfociò nel colpo di pistola del quindicenne Anteo Zamboni, diretto al petto del duce ma conficcato-si altrove. Probabile che il ragazzino, di famiglia anarchica, venne usato come capro espiatorio, forse non fu neppure lui a premere il grilletto. Fu immediatamente braccato da almeno tre capi squadristi, accoltellato, e poi finito dalla folla inferocita. Nelle vicinanze erano anche molti arditi lombardi, e fu avvistato Albino Volpi, l’assassino di Giacomo Matteotti. Nel 1931 e 1932 anche gli anarchici Michele Schirru e Angelo Pellegri-no Sbardelloto cercarono vanamente gloria.

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Dante dovette improvvisare: «Tra non molto, forse un mese. Sospetto che si tratti di un bolscevico, ma comunque di un uomo che gode di copertura in Vaticano». Emilio rimase interdetto, taciturno. Probabilmente stava pensando che se una storia del genere fosse stata vera, allora sarebbe dovuta giungere al suo orecchio. Si accese il sigaro. Brutto segno. «Quindi non ne sapevi niente…» disse preoccupato Dante. Emilio conti-nuò a guardarlo di sguincio, senza proferir parola, perforando con lo sguardo il denso fumo del sigaro che gli copriva il volto. Poi si diresse in fondo alla sagrestia, dove aprì un baule ed estrasse una divisa da gerarca fascista, da membro del Gran Consiglio, con guanti e stivali grigio scuri, pantalone grigio con bande nere e rosse, giacca nera. Dalla tasca della giacca estrasse un documento. Era la tessera del partito del proprietario di quella divisa. Non c’era però scritto “Nel nome di Dio e dell’Italia giuro di eseguire gli ordini del DUCE e di servire con tutte le mie forze e, se è necessario, col mio sangue la causa della Rivoluzione Fascista”. Questa era la classica scritta delle normali tessere di partito. Invece quel-lo che aveva Emilio era il documento di un gerarca. C’era la foto di Dan-te lì sopra, con affianco la firma. Si sarebbe dovuto chiamare “Flavio Ascanio Rossi”. Seguiva il numero di “posizione” e di “sezione”, la fir-ma del funzionario. Sul lato destro la dicitura “IL FASCISTA: FLAVIO ASCANIO ROSSI” cui seguiva “RICOPRE L’INCARICO: Ispettore Nazionale del Partito Nazionale Fascista, Membro del Gran Consiglio Nazionale”. Infine la data, e l’elocuzione: “Le autorità sono invitate a soddisfare ogni forma di assistenza richiesta”. Sulla faccia gli comparve un bizzarro ghigno: «Bene Dante, se non fosse che in questa sagrestia mi pare di scorgere solamente acqua santa, ti invi-terei a brindare alla tua promozione a membro del Gran Consiglio…». Dante era senza parole, lo aveva gabbato, almeno per il momento: «Bella divisa…». «Bisogna saperla indossare Dante. Se le cose stanno come dici tu, ti sarà certamente utile parlare con un nostro infiltrato in Vaticano. Un Monsi-gnore. Ti posso fissare un appuntamento. Ti metti questa…» sollevò con la mano la giacca della divisa, «gli mostri quest’altra», buttò sul tavolo la tessera da ispettore, «e infine gli dici che ti manda personalmente Boc-chini…». «Ci crederà?» chiese un attonito Dante.

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«Funzionerà. Gli farò arrivare la richiesta direttamente dall’ufficio del boss. Se ti dovessero chiedere una parola d’ordine, risponderai che tra uomini d’ordine non servono parole». Poi aggiunse che ci stava ancora lavorando, e ulteriori comunicazioni sa-rebbero seguite col solito sistema. Nuova chiave e nuova cassetta posta-le: Via dei Giubbonari 103.

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Pontificia Università Gregoriana Quando Dante lo richiamò, Tommaso gli propose di vedersi: «Domatti-na, dall’imperatore viola». Così il mattino seguente l’investigatore andò di nuovo al camposanto. Buone notizie: un contatto in Vaticano. Un al-tro, oltre quello di Emilio. Questo era un ex prelato di grande importan-za, un ex vescovo. «Non è uno qualsiasi, è stato un personaggio molto prestigioso nelle alte sfere vaticane, influenzandone non poco la politica estera». Da circa due anni era stato però invitato a rinunciare a ogni di-gnità episcopale, e interdetto da qualsiasi tipo di attività pubblica. Epura-to, proprio come Dante. Sbattuto fuori dalla scena. Michael d’Herbigny, questo era il suo nome, non aveva mai voluto chia-rire le ragioni di questa estromissione, che restavano avvolte nel mistero. Tommaso si raccomandò di avvicinarlo presso la biblioteca della Ponti-ficia Università Gregoriana, in via della Pilotta. Dante avrebbe potuto accedere alla biblioteca dell’Università grazie a una tessera che gli a-vrebbe fatto recapitare Tommaso, la quale lo qualificava come reveren-do, saggista e storico accreditato del cristianesimo, impegnato nella ste-sura di un testo sul pontificato di Pio XI. Questa copertura gli avrebbe garantito il diritto di accedere con priorità anche ai tomi e ai volumi più riservati dell’archivio. All’ex Vescovo, invece, sarebbe stato fatto crede-re che Dante fosse un funzionario speciale dell’intelligence di Sua Santi-tà, una specie di eminenza grigia con tentacoli nel Supremo Tribunale della Segnatura Apostolica, e nella Commissione Disciplinare della Cu-ria Romana. Avrebbe dovuto credere che Dante agisse segretamente, all’insaputa perfino di Sua Santità, e che fosse un uomo del modernismo e della sinistra cattolica, un liberale che stava cercando il modo di far re-stituire all’ex prelato tutte le sue dignità. Questo lo avrebbe reso psicolo-gicamente più propenso all’apertura nei suoi confronti, e alla confessione delle sue verità. Lor Signori, cioè le persone al di sopra di Tommaso che rendevano pos-sibile questo abboccamento e queste coperture, ritenevano che questa –

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per quanto contorta – fosse la fattispecie ideale per ottenere il maggior numero di informazioni dall’ex Vescovo. Dante doveva recarsi tutti i giorni presso la libreria, affinché il suo per-sonaggio assumesse un minimo di familiarità e credibilità. Poi, un bel giorno, d’Herbigny si sarebbe manifestato una prima volta, proprio come un fantasma. In quella circostanza si sarebbero salutati, come se si cono-scessero già, ma non avrebbero scambiato una sola battuta. Successiva-mente si sarebbe palesato una seconda volta, e avrebbero finalmente par-lato. Questo era il piano. Lor Signori, lassù, lo ritenevano indispensabile per sviare eventuali sospetti. Semplici misure precauzionali. L’uomo di Dante si recava alla libreria Gregoriana circa due volte a set-timana. Non gli restava che frequentarla assiduamente, e attendere. FINE ANTEPRIMA.CONTINUA...