Articolo psicologia del lavoro

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PSICOLOGIA SOCIALE n. 2, maggio-agosto 2007 247 I predittori psicosociali degli infortuni sul lavoro Alessandra Serpe e Nicoletta Cavazza Il fenomeno infortunistico costituisce uno dei pro- blemi prioritari per la salute dei lavoratori. La ras- segna illustra e discute i risultati delle ricerche che hanno preso in esame i predittori psicosociali dei comportamenti a rischio e/o degli infortuni come conseguenza di azioni intenzionali di violazione delle norme di sicurezza. In particolare, sono qui analizzati gli effetti esercitati da clima di sicurezza, atteggiamenti individuali, percezione del rischio, esperienza pregressa di infortuni, percezione di controllo, locus of control e formazione dei lavora- tori. Vengono discussi limiti concettuali e metodo- logici delle ricerche e individuati gli interrogativi ancora aperti. Desideriamo ringraziare Leopoldo Magelli per averci aiutato ad individuare e ad accedere a dati e documenti utili per la stesura di questa rassegna. Nonostante i tentativi attuati per ridurre il numero degli infortuni sui luoghi di lavoro, ogni anno in Italia le vittime sono circa 940.000 lavoratori. In 1.280 casi, l’evento ri- sulta fatale (dati INAIL, 2005, www. inail.it). Nelle statistiche europee sugli incidenti sul lavoro, il nostro paese si colloca al primo posto per quanto riguarda i casi mortali e al quarto per tasso di infortuni gene- rale, preceduto da Francia, Spagna e Germania (dati INAIL, 2004). Si tratta di eventi che si verificano so- prattutto nel settore industriale: gli infortuni accertati in questo ambito lavorativo nel 2005 sono 328.329, di cui 104.091 nelle costruzioni e 56.667 nel compartimento metallurgico. La regione con il tasso più elevato di infortuni in questo settore è la Lombardia con 149.653, seguita dall’Emilia- Romagna (123.834) e dal Veneto (105.689). Nonostante dal 2001 al 2005 si sia registrata una riduzione del tasso di infortuni (da 1.023.379 a 939.566), dai primi dati INAIL riguardanti il 2006 sembra che ci si trovi di fronte ad un’inversione di tendenza e ad un incremento complessivo stimabile nell’ordine del 3%. Il fenomeno dei danni da lavoro è un problema sociale, ma anche economico poiché costa ancora oggi alle aziende italiane una cifra intorno ai 41.6 miliardi di euro annui

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PSICOLOGIA SOCIALE n. 2, maggio-agosto 2007 247

I predittori psicosociali degli infortuni sul lavoro

Alessandra Serpe e Nicoletta Cavazza

Il fenomeno infortunistico costituisce uno dei pro-blemi prioritari per la salute dei lavoratori. La ras-segna illustra e discute i risultati delle ricerche che hanno preso in esame i predittori psicosociali dei comportamenti a rischio e/o degli infortuni come conseguenza di azioni intenzionali di violazione delle norme di sicurezza. In particolare, sono qui analizzati gli effetti esercitati da clima di sicurezza, atteggiamenti individuali, percezione del rischio, esperienza pregressa di infortuni, percezione di controllo, locus of control e formazione dei lavora-tori. Vengono discussi limiti concettuali e metodo-logici delle ricerche e individuati gli interrogativi ancora aperti.

Desideriamo ringraziare Leopoldo Magelli per averci aiutato ad individuare e ad accedere a dati e documenti utili per la stesura di questa rassegna.

Nonostante i tentativi attuati per ridurre il numero degli infortuni sui luoghi di lavoro, ogni anno in Italia le vittime sono circa 940.000 lavoratori. In 1.280 casi, l’evento ri-sulta fatale (dati INAIL, 2005, www.inail.it). Nelle statistiche europee sugli incidenti sul lavoro, il nostro paese si colloca al primo posto per quanto riguarda i casi mortali e al quarto per tasso di infortuni gene-rale, preceduto da Francia, Spagna e Germania (dati INAIL, 2004). Si tratta di eventi che si verificano so-prattutto nel settore industriale: gli

infortuni accertati in questo ambito lavorativo nel 2005 sono 328.329, di cui 104.091 nelle costruzioni e 56.667 nel compartimento metallurgico. La regione con il tasso più elevato di infortuni in questo settore è la Lombardia con 149.653, seguita dall’Emilia-Romagna (123.834) e dal Veneto (105.689).

Nonostante dal 2001 al 2005 si sia registrata una riduzione del tasso di infortuni (da 1.023.379 a 939.566), dai primi dati INAIL riguardanti il 2006 sembra che ci si trovi di fronte ad un’inversione di tendenza e ad un incremento complessivo stimabile nell’ordine del 3%.

Il fenomeno dei danni da lavoro è un problema sociale, ma anche economico poiché costa ancora oggi alle aziende italiane una cifra intorno ai 41.6 miliardi di euro annui

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(dati INAIL, 2006). Per questa ragione il tema della prevenzione degli infortuni sul la-voro ha focalizzato l’interesse di studiosi in diversi ambiti disciplinari. L’evento infortu-nistico può essere, infatti, analizzato da un punto di vista puramente tecnico-ingegneri-stico (con indagini a livello di progettazione degli strumenti), ergonomico (ricerca sulla compatibilità tra essere umano, macchina e ambiente), medico (studi sulla prevenzione e la cura dei danni provocati da infortuni e malattie professionali) e socio-psicologico (rapporto fra caratteristiche del lavoratore e contesto sociale di riferimento).

Il primo problema che si pone a chi si proponga di studiare il fenomeno infortuni-stico riguarda la sua definizione. Cos’è un infortunio? Nella medicina del lavoro, con il termine infortunio, si intende «un evento avvenuto per causa violenta in occasione di lavoro […]» e si definisce la causa violenta quella «[…] esteriore all’organismo del lavoratore che agisce concentrata nel tempo (non superiore ad un turno di lavoro) e che sia idonea per intensità a causare il danno» (Sartorelli, 1998, p. 88).

I principali indicatori statistici utilizzati per conoscere l’andamento infortunistico in azienda sono l’indice di frequenza (If), l’indice di gravità (Ig) e l’indice di durata media dell’infortunio (Dm). L’indice di frequenza si ottiene dividendo il numero de-gli infortuni accaduti in un determinato periodo di tempo (ad esempio un anno) per il numero delle ore lavorate nello stesso periodo dal personale che si sta esaminando (azienda, reparto…). Tale rapporto si moltiplica poi per una costante (normalmente 1.000.000) per dare migliore leggibilità numerica al risultato. L’indice di gravità si basa sulle giornate di assenza dal lavoro necessarie per ristabilire la salute dell’infortunato. Si ottiene dividendo il numero di giornate d’assenza per infortunio verificatosi in un pe-riodo di tempo, moltiplicato per 1.000, per il numero di ore lavorate. Infine, l’indice di durata media dell’infortunio dà informazioni sull’entità delle conseguenza degli stessi. Si misura facendo il rapporto tra i giorni persi per infortunio e il totale degli infortuni (Frasca, 2003). Si possono poi calcolare indici di frequenza, gravità e durata a livello individuale e non solo organizzativo.

In ogni caso, sia a livello organizzativo che a livello individuale, l’ipotesi più intuiti-va è che l’infortunio sia la possibile conseguenza di incidenti come esito dell’interazione fra un ambiente lavorativo minaccioso e una o più azioni pericolose messe in atto dagli attori sociali. Da un lato non si può certo prescindere dalle caratteristiche intrinseche del lavoro, prima fra tutte il suo livello di rischio oggettivo: si può immaginare per esempio che un impiegato delle Poste rischi oggettivamente meno di un minatore, ma dall’altro anche l’impiegato delle poste può mettere in atto dei comportamenti che lo espongono al rischio di incidenti. L’idea che la maggior parte degli infortuni sia causa-ta dal comportamento pericoloso e dall’errore umano è effettivamente confermata da un numero elevato di ricerche (per esempio Hofmann e Stetzer, 1996; Lawton, 1998; Mearns, Flin, Gordon e Fleming, 2001; Salminen e Tallberg, 1996; Williamson e Feyer, 1990). Secondo Reason (1990) le azioni pericolose possono essere classificate in due grandi categorie: azioni non intenzionali (chiamate slip e lapses), dovute a fallimenti nei processi cognitivi messi in atto dal lavoratore (come dimenticanze e disattenzioni) e azioni intenzionali (chiamate mistakes e violazioni). I mistakes sono fallimenti nel crite-

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rio di giudizio e/o nei processi inferenziali che portano alla selezione di un obiettivo o alla scelta del modo di realizzarlo (per esempio svolgere la manutenzione di un impianto non mettendo in atto tutte le operazioni previste). Le violazioni infine sono il rifiuto intenzionale di rispettare le procedure e le norme di sicurezza previste (Chmiel, 1998).

Le violazioni messe in atto da un lavoratore sul luogo di lavoro possono non es-sere sanzionate e riconosciute dall’organizzazione, in quanto tollerate sia dai colleghi che dalla dirigenza. I comportamenti sul luogo di lavoro seguono, infatti, un logica definibile come fuzzy, che a differenza di quella giuridica improntata sulla distinzione binaria permesso/vietato, si esprime in valutazioni su un continuum che va dal lecito al non lecito (Kosko, 1991). Questa dimensione è definita dai lavoratori anche attraverso l’osservazione del comportamento dei colleghi e dei supervisori.

Per la presente rassegna abbiamo analizzato le ricerche finalizzate a individuare i predittori psicosociali degli infortuni sul lavoro limitatamente al caso di quegli infortuni che derivano dalle violazioni intenzionali delle norme di sicurezza. Si tratta sicuramente di una delle cause quantitativamente più rilevanti nell’incidenza del fenomeno infor-tunistico, basti pensare che nel 2004 su 98.689 sopralluoghi effettuati nelle aziende dai Servizi di prevenzione delle ASL delle Regioni italiane e delle Province Autonome sono state riscontrate 42.348 violazioni della normativa vigente in materia di sicurezza e igiene del lavoro che hanno portato a redigere verbali di prescrizione (Rossi, 2005). In questa ottica, analizzeremo il ruolo dei fattori psicosociali nell’influenzare la messa in atto di comportamenti a rischio come proxies degli infortuni (Glasscock, Rasmussen, Carstensen e Hansen, 2006; Hofmann e Stetzer, 1996; Lawton, 1998), ma anche nell’in-fluenzare direttamente il tasso di infortuni stesso.

I primi tentativi di individuare e ridurre le cause degli eventi infortunistici nei luo-ghi di lavoro risalgono all’Ottocento e si focalizzano su problemi di natura tecnica che caratterizzano le mansioni e i luoghi in cui queste vengono svolte, come per esempio la mancanza di dispositivi di protezione nei macchinari da lavoro (Novara e Sarchielli, 1996).

Dagli anni Venti del secolo scorso cominciarono invece ad essere pubblicati sulle riviste scientifiche studi che fanno riferimento ai cosiddetti fattori di «predisposizione individuale agli infortuni» (Novara e Sarchielli, 1996). Furono Greenwood e Woods (1919) i primi ad ipotizzare l’esistenza di una predisposizione individuale all’infortu-nio. L’idea che la predisposizione agli infortuni possa essere assimilabile ad un tratto di personalità sembra ricevere anche un sostegno empirico, dato che Slocombe (1937) trova che il 6% dei lavoratori di un impianto industriale inglese totalizza il 65% degli infortuni dell’azienda.

Tuttavia il concetto di predisposizione all’infortunio è stato presto abbandonato, soprattutto a causa delle critiche metodologiche mosse alle ricerche finalizzate a dimo-strarne l’esistenza. Infatti, questi studi arrivavano alle loro conclusioni confrontando per lo più lavoratori sottoposti a diversi gradi di rischio. Nonostante le ipotesi sulla predisposizione non siano mai state veramente confermate, bisogna riconoscere che esse hanno segnato un punto di svolta molto importante, dato che hanno contribuito a

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sensibilizzare il mondo scientifico sull’importanza dello studio sistematico degli infortu-ni anche da un punto di vista psicologico (Maniscalco e Marocci, 1997).

Questa tendenza è stata ulteriormente sviluppata dal cosiddetto approccio psico-tecnico che si proponeva di prendere in considerazione le caratteristiche socio-demo-grafiche dei lavoratori (sesso, età, etnia), quelle fisiologiche (per esempio acuità visiva, coordinamento e destrezza), le caratteristiche ambientali (per esempio illuminazione e temperatura ambientale) e organizzative (per esempio turni di lavoro, retribuzione, incentivi). Tuttavia anche gli studi condotti in questa ottica si centrano prevalentemente su una relazione causale diretta fra un fattore esplicativo e l’evento infortunistico. L’in-teresse verso questi fattori si è protratto fino alla metà degli anni Quaranta. I risultati ot-tenuti hanno portato ad una conoscenza frammentaria del fenomeno e non sono sfociati nella costruzione di una teoria sulla sicurezza (Andreoni e Marocci, 1997).

Con il passare degli anni, la letteratura scientifica dedicata allo studio degli infortu-ni sul lavoro si è arricchita di indagini che hanno incluso e considerato contemporanea-mente un maggior numero di fattori psicosociali, quali gli atteggiamenti nei confronti delle strategie di sicurezza, le abilità cognitive dei lavoratori e i fattori organizzativi. Attualmente gli studiosi si propongono di formulare modelli di spiegazione multicau-sali: l’infortunio è considerato come un sintomo del malfunzionamento del sistema so-cio-tecnico costituito dall’interazione tra essere umano – macchina – ambiente sociale. Secondo questo approccio lo studio degli infortuni assume un esplicito significato pre-ventivo e si pone l’obiettivo di modificare il sistema o i sottosistemi che danno origine ai malfunzionamenti (Novara e Sarchielli, 1996).

Una concezione particolarmente evocativa dell’infortunio come esito di un com-plesso intreccio di fattori di rischio, è quella offerta da Dembe, Erikson e Delbos (2004) (fig. 1). La probabilità di incorrere in un incidente risulta dall’intersezione fra le caratte-ristiche personali del lavoratore, il livello oggettivo di rischio della mansione che svolge e l’organizzazione del lavoro, nonché le richieste che questa avanza (per esempio pres-sioni esercitate sulla produzione dal datore di lavoro, tempi di lavoro ridotti). Infine, non si può prescindere dal contesto sociale, economico e culturale.

Questa concezione suggerisce che la ricerca sulla sicurezza, anche quando si limiti al livello dei fattori psicosociali, deve necessariamente considerare una serie di fattori intera-genti (caratteristiche psicosociali del lavoratore, rappresentazioni individuali e condivise dell’ambiente in cui opera, motivazioni, clima organizzativo) al fine di raggiungere una sempre migliore approssimazione nella capacità predittiva degli infortuni sul lavoro. Oggi sono disponibili molte ricerche condotte in questa ottica con l’intento di individuare non solo i singoli fattori facilitanti gli infortuni, ma anche di prevederne l’azione concomitante.

Nelle pagine che seguono ci proponiamo di illustrare i principali risultati di tali ri-cerche. Per esigenze di esposizione le ricerche saranno descritte in relazione ai costrutti psicosociali che di volta in volta hanno assunto un ruolo di primo piano nell’impianto interpretativo fornito dagli autori. Per ciascuno dei predittori considerati illustreremo la definizione, la sua operazionalizzazione nelle ricerche e l’impatto che esso esercita sui comportamenti a rischio e/o sui tassi di infortuni sul lavoro.

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1. La percezione del clima di sicurezza nell’organizzazione

La prima definizione di clima di sicurezza risale ad una ricerca condotta da Zohar (1980) su un gruppo di lavoratori manifatturieri israeliani. L’autore definisce il costrutto come la somma delle percezioni molari che i lavoratori condividono circa il loro ambiente di lavoro, e come quel particolare tipo di clima organizzativo che può differenziare le organizzazioni con un alto o un basso tasso d’infortuni. Il clima di sicurezza è infatti un fattore multidimensionale in grado di influenzare i comportamenti dei lavoratori, dei gruppi di lavoro e delle organizzazioni (Smith, Huang, Ho e Chen, 2006). In altre paro-le, potremmo dire che il clima di sicurezza è costituito da un sistema di credenze e prese di posizione condivise dai membri di un’organizzazione a proposito della sicurezza. Si potrebbe dunque parlare di rappresentazione sociale della sicurezza professionale, anche se nessuno degli studi che stiamo per illustrare a questo proposito si riconosce esplicitamente nell’approccio delle rappresentazioni sociali, anzi per lo più il clima di sicurezza viene operazionalizzato a livello di percezione individuale.

La definizione di Zohar (1980) è stata in generale adottata anche dagli studiosi che dopo di lui hanno considerato questo aspetto. Le variazioni che sono state introdotte riguardano l’operazionalizzazione, in particolare le dimensioni che costituiscono il

Probabilità di incidentisul lavoro

Esposizione apericoli

Organizzazionedel lavoro e pressioni psicosociali

Contesto sociale, economico e culturale

Caratteristiche personali e comportamenti

Fig. 1. Fattori di rischio multipli dell’infortunio sul lavoro.

Fonte: adattamento da Dembe et al. (2004).

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costrutto in esame. Il dibattito teorico su quest’ultimo aspetto è ancora molto atti-vo. Nella ricerca condotta da Zohar (1980) si individuano otto dimensioni che com-prendono la percezione da parte dei lavoratori: a) degli atteggiamenti della direzione aziendale verso la sicurezza; b) del peso dei comportamenti sicuri sulle progressioni di carriera; c) del livello di rischio presente sul lavoro; d) degli effetti dell’ambiente di la-voro sulla sicurezza; e) del prestigio del responsabile della sicurezza; f) dell’effetto dei comportamenti sicuri sullo status sociale del lavoratore; g) del prestigio del comitato aziendale per la sicurezza; h) dell’importanza della sicurezza nei programmi di forma-zione. Successivamente, altri studiosi hanno operato una riduzione delle dimensioni; gli esempi più significativi di questa rielaborazione si possono ritrovare nelle ricerche di Brown e Holmes (1986) e di Dedobbeleer e Beland (1991). Una rassegna esaustiva delle dimensioni costitutive del clima sicurezza è stata pubblicata da Flin, Mearns, O’Connor e Bryden (2000). Emerge che la dimensione più utilizzata nelle ricerche è quella relativa alla percezione, da parte dei lavoratori, di come la dirigenza gestisce la sicurezza, seguita da quella relativa alla percezione, da parte dei dipendenti, dei sistemi di sicurezza presenti sul luogo di lavoro (per esempio equipaggiamenti di si-curezza, regolamenti), poi quella relativa alla percezione del rischio lavorativo, infine quella relativa alla percezione delle pressioni organizzative sul dipendente (per esem-pio tempi di consegna ristretti, sovrapposizione e cambiamento di obiettivi, aumento del carico di lavoro).

Per rilevare il clima di sicurezza sono stati generalmente utilizzati strumenti quan-titativi come le scale, ma sono state condotte anche ricerche tramite interviste (per esempio Ostrom, Wilhelmsen e Kaplan, 1993) e focus groups (per esempio Lee, 1998). I ricercatori che hanno privilegiato un approccio quantitativo hanno sviluppato scale proprie, rendendo difficile il confronto fra risultati ottenuti in diversi studi. Due ecce-zioni sono l’Offshore Safety Questionnaire (OSQ) sviluppato da Flin, Mearns, Fleming e Gordon (1996) e utilizzato in modo diffuso nelle ricerche svolte sulle piattaforme petrolifere e lo Health and Safety Climate Survey Tool (HSE 1997) sviluppato in Gran Bretagna per essere utilizzato nel settore industriale.

Recentemente Clarke (2006), attraverso una meta-analisi che include 51 studi, ha schematizzato quattro differenti approcci allo studio del clima di sicurezza: a) approc-cio centrato sugli atteggiamenti dei lavoratori nei confronti della sicurezza (attitudinal approach); b) approccio centrato sulla percezione della sicurezza sul lavoro da parte dei lavoratori (perceptual approach); c) modello misto (mixed model), che combina misure percettive e attitudinali, introducendo anche altre variabili come la percezione del ri-schio e la soddisfazione nel lavoro; d) approccio disposizionale (dispositional approach) che mette in relazione il clima di sicurezza con i tratti disposizionali dei lavoratori. L’autore della rassegna si propone di individuare quale, fra gli approcci delineati, sia il più utile per spiegare lo sviluppo degli infortuni sul lavoro. I suoi risultati mostrano che il clima di sicurezza misurato come percezione predice gli infortuni sul lavoro in modo migliore rispetto a quando lo stesso costrutto è operazionalizzato in termini di atteggiamento verso la sicurezza.

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Un dibattito molto acceso in letteratura è anche quello relativo alla necessità o meno di distinguere tra clima e cultura sicurezza. Per gli scopi che qui ci proponiamo non affrontiamo direttamente la questione, ma rimandiamo il lettore interessato a Cox e Flin (1998), Guldenmund (2000) e Zohar (2003).

Per quel che riguarda la relazione fra il costrutto e altri aspetti della vita organiz-zativa, si possono individuare tre filoni di ricerche; un gruppo di queste si focalizza sui fattori antecedenti il clima di sicurezza, un secondo gruppo indaga la relazione diretta tra il clima di sicurezza e gli infortuni sul lavoro; il terzo filone individua invece i fattori che mediano la relazione precedente.

Tra i principali antecedenti del clima di scurezza si trova l’orientamento alla si-curezza da parte del management dell’organizzazione (Zohar, 2002b). Il clima di si-curezza è influenzato dalle azioni che i supervisori mettono effettivamente in atto in materia di sicurezza in quanto indici dell’attenzione verso il benessere dei lavoratori (Zohar, 2000): più azioni i dirigenti mettono in atto al fine di migliorare il benessere dei lavoratori, migliore sarà il clima di sicurezza percepito dai dipendenti. Tuttavia, per comprendere come la leadership influenzi il clima in un’organizzazione è neces-sario tenere in considerazione la distinzione tra i differenti stili che la caratterizzano (Zohar, 2002b). È possibile distinguere tra un tipo di leadership definita come tra-sformazionale (transformational leadership), tesa ad affrontare i continui cambiamenti dell’azienda, a motivare i sottoposti, ad andare incontro ai loro bisogni, ad aiutarli al raggiungimento delle loro potenzialità e ad attribuire importanza al benessere dei lavoratori, e un tipo definita transazionale (transactional leadership), tesa piuttosto al raggiungimento degli obiettivi in un momento dato più che a soddisfare i bisogni dei lavoratori e pianificare miglioramenti per il futuro (Bass, 1985). La leadership tran-sazionale è poi distinta in tre tipi: costruttiva, correttiva e laissez-faire (Bass e Avolio, 1997). I tre differenti tipi si distinguono anche per il grado di importanza attribuita alla salute del lavoratore. La leadership correttiva è quella che si esercita principal-mente attraverso azioni di monitoraggio e di correzione degli errori dei lavoratori e implica un basso interesse nei confronti della sicurezza del lavoratore. La leadership costruttiva si esercita principalmente attraverso pratiche di ricompensa e implica un livello medio di attenzione nei confronti della sicurezza dei lavoratori. Infine, lo stile laissez-faire implica il più basso livello di interesse nei confronti della sicurezza dei lavoratori, poiché comporta una blanda assunzione di responsabilità nell’esercizio del ruolo di supervisore. Zohar (2002b) conduce a questo proposito uno studio su 381 lavoratori e su 36 supervisori di un’azienda per la riparazione di equipaggiamenti pe-santi e trova che sia la leadership trasformazionale sia lo stile transazionale costruttivo sono associate positivamente ad un buon livello di clima di sicurezza, mentre gli stili correttivo e laissez-faire sono associati negativamente al livello di clima di scurezza. Questi risultati sono confermati da altre ricerche (come Barling, Loughlin e Kelloway, 2002) nelle quali emerge che una leadership di tipo trasformazionale è associata alla presa di coscienza da parte dei lavoratori dell’importanza delle condotte di sicurezza e ad una buona percezione del clima di sicurezza.

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Il secondo filone di ricerche prende in esame la relazione diretta tra il clima di sicurezza e gli infortuni. A questo proposito, gli studi presentano risultati abbastanza univoci: esiste una relazione fra un buon clima di sicurezza e la messa in atto di com-portamenti sicuri. La percezione di un buon clima di sicurezza arriva poi ad influenzare gli esiti dei comportamenti sicuri, in termini di minori tassi di incidenti e di infortuni. Dunque, complessivamente, nelle aziende caratterizzate da un buon clima di sicurezza si registrano tassi di infortuni minori rispetto alle aziende dove questo fattore rimane a livelli bassi (Brown e Holmes, 1986; Cooper e Phillips, 2004; Dedobbeleer e Beland, 1991; Dejoy, 1994; Diaz e Cabrera, 1997; Donald e Canter, 1994; Gillen, Baltz, Gassel, Kirsh e Vaccaro, 2002; Griffin e Neal, 2000; Ho, 2005; Hofmann e Stetzer, 1996; Niska-nen, 1994; Seo, 2005; Silva, Lima e Baptista, 2004; Varonen e Mattila, 2000; Zohar, 1980; 2000; 2002a; 2002b).

Smith e coll. (2006) si pongono l’obiettivo di verificare la relazione fra clima di sicurezza e numero d’infortuni in base al rischio oggettivo, assumendo come unità di analisi l’organizzazione, anziché il singolo lavoratore. Analizzano la relazione tra il clima di sicurezza e tre indici d’infortuni (media annuale del numero delle denunce/numero dei dipendenti dell’organizzazione; numero delle denunce per 100 lavoratori/numero dei lavoratori; numero delle denunce per 100,000 ore lavorate/numero dei lavoratori), tenendo conto dell’oggettivo livello di rischio di un lavoro (calcolato dell’ufficio stati-stico del lavoro americano, Bureau of Labor Statistic, BLS). Essi trovano che, quando si tiene conto del rischio oggettivo delle aziende, la relazione tra clima di sicurezza e in-fortuni non è più significativa. Questo risultato, secondo gli autori, mostra che il rischio oggettivo di un contesto di lavoro o di una mansione è la principale determinante dei tassi di infortuni.

Altre ricerche poi ipotizzano la presenza di variabili di mediazione tra il clima di sicurezza e gli infortuni. Huang, Ho, Smith e Chen (2006), in uno studio condotto in organizzazioni statunitensi appartenenti a quattro settori (manifatturiero, trasporti, servizi, costruzioni), evidenziano che il clima di sicurezza influenza la percezione di controllo che i lavoratori credono di possedere sulla situazione lavorativa. Secondo i risultati di questo studio, quest’ultimo aspetto influenza la probabilità di essere vittima di incidenti sul lavoro: la percezione di un clima di sicurezza positivo fa aumentare la percezione, da parte dei lavoratori, del controllo sul proprio lavoro che a sua volta fa diminuire la frequenza degli infortuni autoriportati. Altre ricerche trovano che lo stress psicologico del lavoratore (Siu, Phillips e Leung, 2004), il grado di coinvolgimento nel lavoro e il livello di identificazione con l’organizzazione (Brown e Leigh, 1996) possono svolgere lo stesso ruolo.

Neal, Griffin e Hart (2000) e Neal e Griffin (2004) formulano ipotesi più complesse circa la relazione di mediazione tra clima di sicurezza ed infortuni. Gli autori testano un modello che include il clima di sicurezza insieme a fattori organizzativi (tipo di su-pervisione e progettazione del lavoro), atteggiamenti individuali verso la sicurezza e differenze individuali (tratti di personalità) come predittori della motivazione a mettere in atto comportamenti sicuri e delle conoscenze che i lavoratori hanno a proposito di

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sicurezza. A loro volta motivazioni e conoscenze influenzano la probabilità di mettere in atto comportamenti sicuri e, in ultima istanza, la probabilità di incorrere in infortuni. In sintesi, per quanto riguarda l’effetto del clima di sicurezza, il modello prevede che più il lavoratore percepisce un buon clima di sicurezza, maggiore è la motivazione a mettere in atto comportamenti sicuri e migliori sono le conoscenze che mostra di possedere sulla sicurezza, minore è il numero di infortuni come conseguenza del comportamento sicuro. I dati rilevati confermano la bontà di questo modello.

Infine, Seo (2005) si pone l’obiettivo di verificare un modello di spiegazione dei comportamenti pericolosi includendo la percezione del clima di sicurezza, la percezione del pericolo, la percezione delle pressioni lavorative, la percezione del rischio e la perce-zione degli ostacoli e delle barriere alla messa in atto di comportamenti sicuri. Egli con-clude che il clima di sicurezza è il miglior predittore della frequenza di messa in atto di comportamenti sicuri autoriportati, dato che influenza il comportamento direttamente, ma anche indirettamente, cioè attraverso la mediazione della percezione delle pressioni sulla produttività, della percezione del rischio e della percezione di impedimenti alla messa in atto di comportamenti sicuri.

Un’esperienza particolarmente informativa è quella fatta negli Stati Uniti con gli Health and Safety Committees (HSCs) costituiti da rappresentati dei lavoratori e della dirigenza. Questi hanno la funzione di organizzare e promuovere azioni per la sicurezza all’interno dell’azienda. Le ricerche mostrano che l’introduzione di queste commissioni sulla sicurezza è associata ad una diminuzione del numero di infortuni, specialmente quando le HSCs sono istituite in maniera volontaria dal personale e non imposte per legge (O’Toole, 1999; Reilly, Paci e Holl, 1995; Eaton e Nocerino, 2000).

Il clima di sicurezza è stato analizzato anche a livello di gruppo di lavoro (teamwork climate). Uno strumento per misurare il clima di sicurezza che regna in un gruppo di lavoro è quello proposto da Anderson e West (1994). Il questionario in versione ridotta comprende 5 scale volte a misurare: a) la partecipazione alla sicurezza da parte del grup-po; b) il supporto all’innovazione; c) la condivisione degli obiettivi e delle visioni del gruppo; d) l’orientamento al compito; e) la desiderabilità sociale (controlla il livello di distorsione delle risposte dovuto a desiderabilità sociale). Il questionario è stato validato nella versione italiana da Ragazzoni, Baiardi, Zotti, Anderson e West (2002).

Alcune ricerche hanno posto attenzione al rapporto fra le procedure di lavoro dei gruppi, in particolare il loro grado di autonomia decisionale e i comportamenti sicuri messi in atto dagli individui che ne fanno parte. I risultati di questi studi sono conver-genti e mostrano che, quando gli individui lavorano in gruppi caratterizzati da una certa autonomia decisionale sullo svolgimento dei compiti, mettono in atto un maggior numero di comportamenti sicuri e sono caratterizzati da un numero minore di infortuni rispetto a quando i gruppi non godono di autonomia decisionale (Hechanova-Alampay e Beehr, 2002; Pearson, 1992, Trist, Higgin, Murray e Pollock, 1963; Trist, Susman e Brown, 1977). Tuttavia Cohen e Ledford (1994) ottengono risultati diversi: i membri di gruppi caratterizzati da maggior autonomia decisionale non si differenziano da quelli che fanno parte di gruppi meno autonomi. La spiegazione di questi risultati, secondo gli

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autori, è da trovare nella struttura degli obiettivi dell’organizzazione: se l’organizzazione non si pone lo scopo esplicito di migliorare il livello della sicurezza, anche i gruppi non daranno importanza a questo obiettivo e non si impegneranno nel suo raggiungimento.

Altre ricerche sono state condotte su gruppi particolari, come le squadre di piloti delle linee aeree e hanno utilizzato il costrutto di team mental model (Cannon-Bowes, Salas e Converse, 1993; Weick e Bougon, 1986), ovvero un insieme organizzato e condi-viso di conoscenze che permettono ai membri di agire in modo coordinato nello svolgi-mento delle attività previste. Tali modelli mentali permettono al gruppo di raggiungere un’interpretazione condivisa della situazione, che favorisce l’eliminazione degli infortu-ni causati da interpretazioni discrepanti degli stessi eventi.

In sintesi, queste ricerche sembrano indicare che il clima di sicurezza che i lavora-tori sentono di respirare nell’organizzazione costituisce l’orizzonte normativo reale (al di là di quello formale) a cui l’effettiva condotta dei singoli e dei gruppi si attiene. Per questa ragione ricopre un ruolo di «sfondo» rispetto agli effetti dei fattori che prende-remo in considerazione nei prossimi paragrafi.

2. Il ruolo degli atteggiamenti

Discutendo del ruolo del clima di sicurezza, abbiamo affermato che si tratta di un orien-tamento condiviso in cui confluiscono anche gli atteggiamenti individuali dei lavoratori. Molte ricerche si sono limitate ad includere nel proprio impianto esplicativo questo li-vello individuale più specifico. Tra i fattori psicosociali presi in considerazione per spie-gare il fenomeno infortunistico, infatti, un ruolo di rilievo è stato spesso riconosciuto agli atteggiamenti dei lavoratori nei confronti della sicurezza e del lavoro in generale.

Gli atteggiamenti verso la sicurezza si trovano declinati in diversi modi nelle ricer-che. Lo studio di Cox e Cox (1991), per esempio, ha incluso tre fattori: «scetticismo personale», «responsabilità individuale» e «immunità personale». Il primo fattore ri-leva forme di cinismo e svalutazione delle questioni relative alla sicurezza, il secondo riguarda l’impegno diretto che le persone sentono di avere nel lavorare in sicurezza e, infine, l’ultimo fattore coglie la credenza che gli infortuni non riguardino il rispondente in prima persona e che possano essere evitati semplicemente grazie all’esperienza nella mansione. Rundmo, Hestad e Ulleberg (1998) hanno invece considerato altri tre aspetti: il grado di priorità che il lavoratore assegna alla sicurezza, la percezione dell’importanza assegnata dalla dirigenza alla sicurezza e il fatalismo del lavoratore. Entrambi questi la-vori includono dunque un fattore (chiamato in un caso «immunità personale» nell’altro «fatalismo») che riguarda la percezione di invulnerabilità del lavoratore. Questo può essere accomunato al cosiddetto optimistic bias (Weinstein, 1989), ossia la tendenza generalizzata a sottovalutare la probabilità che eventi negativi possano accadere proprio a se stessi nel futuro.

Rundmo (2000) li rileva attraverso due dimensioni (fatalismo dei lavoratori e cre-denze sulla prevenzione della sicurezza) e trova che atteggiamenti positivi verso la si-

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curezza e prevenzione sono associati alla frequenza di comportamenti sicuri sul lavoro. Risultati differenti sono invece emersi dallo studio di Glasscock e coll. (2006). Gli au-tori, osservando un gruppo di agricoltori svedesi, trovano che gli atteggiamenti verso la sicurezza non predicono in maniera significativa la frequenza di infortuni sul lavoro. Tuttavia occorre sottolineare che questo risultato osservato sugli agricoltori, ossia su lavoratori autonomi, non può essere generalizzato a tutti i lavoratori, dato che alcuni aspetti che abbiamo visto essere fondamentali – per esempio la percezione dell’orienta-mento della dirigenza – non sono rilevabili su lavoratori autonomi.

Lawton e Parker (1998), in una rassegna sugli studi condotti dal 1970 al 1998, eviden-ziano una serie di limiti metodologici che contraddistinguono questi studi: per esempio, in diverse ricerche, atteggiamenti, frequenza e gravità degli infortuni vengono rilevati nello stesso momento. Dato che si tratta di studi correlazionali, ciò non consente di de-durre che gli atteggiamenti abbiano un ruolo causale rispetto agli infortuni. Questa con-clusione potrebbe essere formulata esclusivamente attraverso studi di tipo longitudinale.

La probabilità di incidente sul lavoro non è influenzata soltanto dagli atteggiamenti specifici nei confronti dei provvedimenti per la sicurezza, ma anche dagli atteggiamenti nei confronti del lavoro. Un interessante esempio a questo proposito ci è fornito dai risultati ottenuti in una famosa ricerca condotta da Spangenberg, Baarts, Dyreborg, Jensen, Kines e Mikkelesen (2003) che parte dal confronto delle statistiche riguardanti gli incidenti occorsi a lavoratori danesi e svedesi durante la costruzione del ponte di collegamento tra le due nazioni. Le due popolazioni di lavoratori avevano le medesime mansioni nella costruzione del ponte e lo stesso metodo di registrazione degli infortuni. Ciononostante, dall’analisi delle ore perse dai lavoratori a causa di infortuni emergevano differenze significative nelle due popolazioni in esame: i danesi riportavano un maggior numero di ore perse a causa degli infortuni. Per spiegare questa differenza i ricercatori hanno preso in esame un insieme complesso di fattori: a) macro-fattori (a livello nazio-nale e sociale: legislazione dei lavoratori, strutture socio-economiche delle imprese di costruzione, implementazione dei programmi formativi, procedure salariali durante i periodi di malattia); b) meso-fattori (a livello organizzativo: pratiche di assunzione, im-plementazione delle misure di sicurezza, pianificazione del lavoro, utilizzo delle misure di sicurezza); c) micro-fattori (caratteristici del gruppo di lavoro o degli individui: livello di cooperazione di gruppo, background sociale ed educativo, formazione, atteggiamenti verso il lavoro e comportamenti di prevenzione messi in atto dai lavoratori). Dal con-fronto di questi fattori nelle due popolazioni emergeva che le differenze più significative si collocavano a livello micro. In particolare, gli atteggiamenti verso il lavoro erano differenti: gli svedesi mostravano un grande stimolo verso il lavoro, dopo un incidente ritornavano ai loro compiti velocemente e, se non erano più in grado di svolgere la man-sione precedentemente svolta, veniva loro assegnato un altro compito. I danesi invece manifestavano una minore motivazione al lavoro e, quando non erano più in grado di svolgere la precedente mansione, tendevano a rimanere in congedo per malattia. Tutto ciò ha portato gli autori a concludere che le differenze a questo livello sono almeno in parte responsabili del differente ammontare di ore di assenza per infortuni.

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L’aspetto più trascurato dalle ricerche sembra essere quello relativo agli atteggia-menti nei confronti dei comportamenti rischiosi. Le teorie psicosociali che concettua-lizzano il rapporto causale fra atteggiamenti e comportamenti (Ajzen, 1988; Fishbein e Ajzen, 1975) hanno sottolineato in modo convincente l’importanza di includere questo livello di atteggiamenti come predittori dei comportamenti. Al contrario, in questo am-bito non sono rintracciabili ricerche che abbiano operazionalizzato tale orientamento.

Inoltre, gli studi illustrati considerano l’atteggiamento esclusivamente come un continuum bipolare (positivo/negativo), mentre la letteratura scientifica sugli atteggia-menti ha dedicato grande spazio negli ultimi anni alle conseguenze della ambivalenza attitudinale (per una rassegna cfr. Conner e Sparks, 2002). Gli elementi contenuti nella struttura attitudinale (credenze, emozioni, azioni) verso un oggetto possono essere più o meno coerenti tra loro. Un lavoratore può, per esempio, ritenere che il casco sia un utile strumento di prevenzione (attributo positivo), ma che sia scomodo indossarlo poi-ché lo infastidisce (emozione negativa). Le ricerche sulle conseguenze provocate dalle caratteristiche strutturali degli atteggiamenti hanno mostrato che il rapporto fra questi e i comportamenti è indebolito quando l’atteggiamento risulta ambivalente (Armitage e Conner, 2004). Questo risultato suggerisce quanto sarebbe utile includere il livello di ambivalenza che caratterizza gli atteggiamenti dei lavoratori nei confronti dei compor-tamenti di prevenzione nei modelli di previsione dei tassi di infortuni.

3. La percezione del rischio

La percezione che l’individuo ha del rischio che corre in una determinata situazione è stata scarsamente studiata in ambito lavorativo (Savadori e Rumiati, 2005). In realtà è un aspetto di grande interesse poiché, come afferma Rundmo (1995), la percezione del rischio può influenzare le azioni, le scelte comportamentali e, nelle situazioni in cui il rischio è oggettivamente presente, una rappresentazione distorta del pericolo può causare infortuni. Il concetto di rischio va distinto nettamente da quello di pericolo. Si intende infatti con quest’ultimo una condizione obiettiva in cui l’individuo può subire un’eventuale danno. Con rischio, invece, si intende la valutazione soggettiva del perico-lo (Marocci, 2003).

L’idea del rischio all’interno di un luogo di lavoro è una costruzione sociale: gli attori sociali negoziano una definizione condivisa di cosa è rischioso e cosa non lo è (Rochlin, 1999). Così un lavoratore può variare la sua percezione del rischio a seconda del contesto in cui si trova: per esempio una persona può non considerare pericoloso un certo comportamento all’interno di un’organizzazione e può, successivamente, all’inter-no di un’altra azienda ritenere pericoloso lo stesso comportamento.

La maggior parte degli studi che analizzano questo costrutto confrontano le per-cezioni dei lavoratori di un dato contesto rispetto a quelle di non lavoratori (Savadori e Rumiati, 2005). Da questi confronti emerge che le persone che svolgono alcune pro-fessioni (come i vigili del fuoco e i piloti) tendono a sovrastimare il rischio che corrono,

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mentre persone che ne svolgono altre (come gli operatori sanitari dei reparti infettivi), al contrario, lo sottostimano. Si parla in questo caso di «illusione di sicurezza», ovvero la tendenza che spinge i lavoratori in situazioni oggettivamente pericolose a ritenere inu-tile l’introduzione di norme e regolamenti per la sicurezza e ad essere paradossalmente meno prudenti, rispetto a colleghi che lavorano in ambienti meno pericolosi (Savadori, Rumiati, Bonini e Pedon, 1998).

Gli studi sulla percezione del rischio svolti utilizzando i metodi di valutazione (risk rating methods) hanno identificato le condizioni che fanno variare la percezione del rischio stesso, provocando distorsioni (Fischoff, Slovic, Linchtenstein, Read e Com-bs, 1978; Slovic, 1987). Queste condizioni includono: volontarietà dell’esposizione, conoscenze sul rischio, controllo personale sul rischio e cronicità/catastroficità dello stesso (ossia se il rischio in questione può uccidere molte o poche persone nello stesso momento). I rischi percepiti come più rilevanti sono quelli definiti come involontari, sconosciuti, incontrollabili e catastrofici (Savadori e Rumiati, 2005).

Secondo Holmes, Gifford e Triggs (1998) in letteratura esistono tre differenti ap-procci allo studio della percezione del rischio. L’approccio tecnico pone rilevanza sul-l’esperienza tecnica del lavoratore e dei dirigenti e su quella medico-scientifica dei re-sponsabili della sicurezza nella valutazione della rischiosità. Il secondo è definito come approccio psicologico e si focalizza sulla percezione individuale del rischio; in partico-lare analizza i processi cognitivi che differenziano il giudizio della persona esperta da quella non esperta. Infine l’approccio sociale esplora le somiglianze e le differenze nei giudizi soggettivi circa il rischio in base all’appartenenza dell’individuo a determinati gruppi sociali. I tre approcci non si escludono a vicenda, anzi secondo Mitchell (1992), l’integrazione tra i tre può produrre conoscenze più accurate.

In generale, gli strumenti volti a misurare la percezione del rischio consistono in un elenco di possibili eventi, con possibili conseguenze negative di livello catastrofico (esplosioni, incendi, gas tossici) o meno (scivolamento, taglio, caduta di oggetti) rispetto ai quali si chiede ai lavoratori di valutare la probabilità del loro verificarsi (Mearns, Flin, Fleming e Gordon, 1998) oppure quanto si sentono sicuri/insicuri rispetto a quella specifica fonte di pericolo (Rundmo, 1996b).

I due principali questionari standardizzati sviluppati per misurare la percezione del rischio in contesti lavorativi sono il Norwegian Offshore Risk Perception Questionnaire (Rundmo, 1992; 1994a; 1994b) utilizzato nelle ricerche sulle piattaforme petrolifere norvegesi e l’Offshore Risk Perception Questionnaire (Flin et al., 1996), derivante dal precedente, utilizzato in Inghilterra. Includono una serie di item volti a misurare la percezione del rischio in relazione ad una serie di pericoli presenti nelle piattaforme (esplosioni, incendi, gas tossico, caduta di elicotteri), la probabilità di infortunio in se-guito alla stessa serie di pericoli e la percezione del rischio in relazione ad alcuni compiti comunemente svolti sul posto di lavoro (riparazioni, lavoro sulle gru, caduta di elicot-tero).

Lo studio sistematico del ruolo della percezione soggettiva del rischio sulla pro-babilità di infortuni prende il via negli anni Novanta con le ricerche di Rundmo sui

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lavoratori delle piattaforme petrolifere nel mare del Nord. Lo studio di questo settore lavorativo è molto sviluppato nei paesi come la Norvegia e la Gran Bretagna, in cui per la presenza di numerose strutture di estrazione petrolifera, il rischio di infortuni o cata-strofi è effettivamente elevato. Nel 1988, l’esplosione nel Mare del Nord (120 miglia dal-la costa scozzese) della Piper Alpha Oil Platform causò 167 morti e destò un forte shock nell’opinione pubblica e nei governi, spingendo la comunità scientifica ad occuparsi approfonditamente di questo settore. Le ricerche che furono condotte successivamente a quell’evento (Rundmo 1992; 1994a; 1994b; 1995; 1996a; 1996b) si proponevano di capire se, al di là del rischio strutturale, esistesse una relazione tra percezione sogget-tiva del rischio e infortuni. In particolare Rundmo sostiene che è possibile analizzare questa relazione nelle due direzioni causali: l’esperienza di infortuni causa la percezione del rischio e viceversa. Conclude che in realtà la percezione del rischio e l’esperienza di infortuni sono indipendenti tra loro e influenzate da fattori di natura sociale e or-ganizzativa (coinvolgimento verso la sicurezza, atteggiamenti verso la sicurezza, status della sicurezza nell’organizzazione) (Rundmo, 1996b). In particolare, confrontando la percezione soggettiva con il rischio oggettivo (misurato attraverso il tasso annuo di in-fortuni e l’utilizzo del Safety Case, ossia della descrizione dei rischi e delle conseguenze di questi all’interno dell’organizzazione) l’autore osserva che la percezione del rischio non è un predittore migliore degli infortuni, rispetto ad altri fattori come la pressione esercitata dalla dirigenza sul lavoratore per incrementare la produzione, la scarsità della comunicazione sulla sicurezza e gli atteggiamenti verso la sicurezza (Rundmo, 1992, 1994a e 1994b).

Una ricerca svolta in Italia da Argentero, Zanaletti e Dell’Olivo (2005) ha esami-nato la relazione tra la percezione del rischio, la formazione alla sicurezza e gli eventi infortunistici. Gli autori hanno sottoposto a 350 operai di un’industria tipografica del nord Italia un «Questionario sulla sicurezza nei luoghi di lavoro» comprendente sette diverse aree: la prime quattro aree analizzano gli aspetti cognitivi della percezione del rischio (pericolosità intrinseca di ciascun rischio, frequenza di accadimento di eventi lesivi, livello di esposizione personale e impossibilità di controllare/evitare il rischio); la quinta dimensione prende in esame le opinioni dei lavoratori sulla formazione; la sesta area indaga il numero degli infortuni subiti negli ultimi tre anni dai lavoratori; infine l’ultima area raccoglie i dati socio-demografici dei lavoratori. Dai risultati emerge che incorrere in infortuni amplifica la percezione di pericolosità intrinseca e la frequenza di esposizione al rischio.

In conclusione si può sostenere che la percezione del rischio sia un fattore cruciale nelle ricerche in campo di infortunistica sul lavoro, anche se dai risultati presentati sem-bra che il rischio non influenzi tanto la probabilità di infortunio, quanto il suo legame con altri fattori presenti nel contesto lavorativo come, per esempio, la percezione di controllo (cfr. il paragrafo 6).

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4. L’esperienza pregressa di infortunio

Quali conseguenze psicosociali comporta l’esperienza di un infortunio sul luogo di la-voro? L’aver avuto o l’aver assistito ad un incidente influenza atteggiamenti e compor-tamenti successivi? Questo aspetto è stato scarsamente considerato nelle ricerche che si occupano di sicurezza dei lavoratori, anche se si può immaginare che l’essere incorsi in un infortunio (esperienza diretta) o avere osservato qualcuno in questa situazione (esperienza indiretta) influisca sul modo in cui, successivamente, il lavoratore affronta mansioni rischiose.

Le poche ricerche che hanno considerato questo fattore (Cordeiro, 2002; Eklof e Torner, 2002; Greening, 1997; Micheli, Zanaletti, Giorgi, Argentero e Candura, 2006; Rundmo, 1995) confrontano gruppi di lavoratori che riportano di avere avuto, in pas-sato, infortuni più o meno gravi (e in alcuni casi considerano contemporaneamente anche coloro che hanno semplicemente osservato eventi di infortunio) con gruppi di lavoratori che non hanno avuto questa esperienza.

Alcune ricerche mostrano che l’esperienza di infortunio modifica il modo in cui i la-voratori valutano diversi aspetti della vita lavorativa in ambiente rischioso. Per esempio, essere stati vittima di infortuni incrementa la percezione di rischio, diminuisce la soddi-sfazione nei confronti delle misure di prevenzione adottate dall’organizzazione e accresce lo stress lavorativo (Greening, 1997; Rundmo, 1995). Tuttavia, Cordeiro (2002), sommi-nistrando un questionario sul rischio che lavoratori dipendenti di un’industria metallur-gica del sudest del Brasile percepiscono nel luogo di lavoro pochi giorni dopo un evento infortunistico, trova che i lavoratori incorsi in prima persona in un evento infortunistico valutano un rischio più basso rispetto a chi non ha avuto questa esperienza. Gli auto-ri non chiariscono in modo convincente l’interpretazione di questo risultato inatteso.

L’esperienza pregressa di infortunio sembra incidere anche sulla valutazione che i lavoratori danno della formazione ricevuta sulla sicurezza (Micheli et al., 2006). Infine Eklof e Torner (2002), in una ricerca condotta su un gruppo di pescatori svedesi, trova-no che l’esperienza personale diretta e indiretta d’infortunio o l’esperienza di eventi che potevano trasformarsi in infortuni, ma che non hanno avuto conseguenze, non influenza la successiva messa in atto di comportamenti sicuri.

I cinque studi presi in esame non permettono dunque di giungere a conclusioni chiare e univoche circa l’effetto sul piano cognitivo e su quello comportamentale che può esercitare l’esperienza di infortunio personale o osservata. Se da un lato, l’esperien-za sembra esercitare un impatto sulla percezione del rischio, non è chiaro in quali con-dizioni esso aumenti e in quali si riduca. In ogni caso sembra comunque non incidere in maniera significativa sulla messa in atto di comportamenti di prevenzione. Per appro-fondire questo aspetto sarebbe auspicabile condurre ricerche con disegno longitudinale che riescano a cogliere l’evoluzione dei fattori psicologici sugli stessi lavoratori nel corso del tempo e, in particolare, prima e dopo un evento infortunistico.

Inoltre, rimane da chiarire la distinzione fra le conseguenze provocate dall’espe-rienza diretta vs. indiretta di infortunio. È pensabile che queste diverse esperienze eser-

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citino anche un impatto differente sul piano cognitivo individuale, in particolare sugli atteggiamenti nei confronti del comportamento a rischio. La meta-analisi condotta da Kraus (1995) infatti, mostra che il comportamento è predetto in modo più significativo quando gli atteggiamenti si sono formati per esperienza diretta rispetto a quando invece si sono formati grazie all’osservazione dell’esperienza altrui.

5. La percezione di controllo e il «locus of control»

La probabilità di mettere in atto comportamenti di prevenzione è in relazione con l’idea che l’individuo si fa della possibilità di incidere sulla sua realtà, ovvero del grado di con-trollo che è in grado di esercitare (Bandura, 1997). Negli studi sugli infortuni sul lavoro, il grado di controllo è stato incluso sia come fattore relativo alla situazione specifica sia come orientamento di personalità. Nel primo caso si parla di percezione di controllo (Karasek e Theorell, 1990; Huang, Chen, Krauss e Rogers, 2004; Elkof e Torner, 2002) mentre nel secondo caso di locus of control (Rotter, 1966).

Dal punto di vista situazionale, la percezione di controllo è definita come la sen-sazione che il lavoratore ha di poter incidere direttamente su ciò che avviene nel suo ambiente di lavoro e sulle possibili conseguenze che ne derivano, alterando con il pro-prio comportamento la probabilità di accadimento (Karasek e Theorell, 1990). La per-cezione di controllo sulla sicurezza (safety control) è una forma specifica del costrutto più generale e si riferisce alla percezione del controllo che il lavoratore ritiene di avere sulle procedure e le politiche di sicurezza adottate nel suo luogo di lavoro. Comprende tre dimensioni (Averill, 1973): controllo comportamentale (ossia possibilità concreta di mettere in atto azioni dirette ad influenzare la propria sicurezza), controllo cognitivo (ossia possibilità che l’importanza assegnata da parte del lavoratore alle politiche di gestione e di controllo della sicurezza influenzi l’orientamento generale) e controllo decisionale (ossia grado di libertà di scelta che il lavoratore sente di avere sulle pratiche di sicurezza).

Generalmente, la percezione di controllo dei lavoratori nelle ricerche viene rilevata attraverso item del tipo «so che il mio atteggiamento riveste un ruolo importante per lavorare in sicurezza» (safety control) (Huang et al., 2004), o «il rischio associato a un determinato evento può essere ridotto grazie all’utilizzo di equipaggiamenti» (perceived manageability of risk) (Elkof e Torner, 2002).

Huang e coll. (2004) hanno mostrato che all’aumentare della percezione di control-lo dei lavoratori diminuisce la frequenza di infortuni autoriportati. Il modello proposto da Huang e coll. (2004), verificato su organizzazioni di trasporto marittimo, prevede che la percezione di controllo che i lavoratori hanno sia una variabile di mediazione tra la qualità delle politiche di sicurezza dell’organizzazione e gli infortuni sul lavoro. L’intro-duzione di queste politiche all’interno di un’organizzazione fa aumentare la percezione di controllo che i lavoratori ritengono di possedere sull’ambiente stesso, diminuendo il numero degli infortuni. Altre ricerche (Elkof e Torner, 2002; Harris, 1998) mostrano

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che la percezione di controllo è correlata positivamente con la frequenza di messa in atto di comportamenti sicuri. Argentero e coll. (2005), infine, trovano che la percezione di controllo diminuisce quando i lavoratori subiscono più di un infortunio.

Con il termine locus of control (Rotter, 1966) si intende un sistema di aspettative più o meno generalizzato, contraddistinto dalla propensione ad attribuire all’esterno (agli altri, al fato, al caso) o all’interno (alla propria volontà, responsabilità, determina-zione) la causalità degli eventi positivi o negativi occorsi (Caprara e Gennaro, 1994). In generale, le ricerche di Rotter hanno mostrato che le persone caratterizzate da un locus of control interno sono più energiche, più attive, più efficaci nel superare le situazioni stressanti rispetto a coloro che si caratterizzano per locus of control esterno.

Una ricerca condotta fra operatori sanitari in ospedale mostra che le persone carat-terizzate da un locus of control esterno riportano anche un numero maggiore di infortu-ni rispetto a quelle con il locus of control interno (Jones e Wuebker, 1985; 1993). Altri autori, come Glasscock e coll. (2006), invece, non trovano la stessa relazione tra il tratto e gli infortuni sul lavoro, probabilmente perché, come affermato dagli autori stessi, il campione utilizzato (agricoltori) non permette di confrontare il risultato con quello di Jones e Wuebker (1985, 1993) ottenuto su un campione di lavoratori dipendenti. Tuttavia, anche Sims, Graves e Simpson (1984) in uno studio condotto su 250 minatori britannici non trovano differenze nel tasso di infortuni occorsi a lavoratori classificati come interni o esterni sulla base della scala del LOC di Rotter (1966).

La scarsità delle ricerche che mettono in relazione il locus of control e gli infortuni potrebbe portare a conclusioni in direzione dell’irrilevanza del costrutto in esame al fine della previsione degli incidenti; in realtà altre ricerche hanno mostrano l’importanza che riveste l’orientamento in termini di locus of control al fine di prevedere altri fattori socio-organizzativi rilevanti anche in tema di infortuni: per esempio, si è osservato che i lavoratori con un locus of control interno mostrano una maggiore motivazione intrin-seca, una migliore performance lavorativa, una maggiore soddisfazione verso il lavoro e verso il supervisore rispetto ai lavoratori definiti come esterni (Broedling, 1975).

Questi risultati portano a concludere che la relazione tra locus of control e infortuni sul lavoro necessita di un ulteriore approfondimento.

6. La formazione alla sicurezza

I costrutti psicosociali che abbiamo passato in rassegna fin qui non sono stabili e ir-reversibili. Essi variano nel tempo in relazione agli eventi e alle esperienze che l’orga-nizzazione permette ai lavoratori (cfr. per esempio Micheli et al., 2006). Un processo organizzativo particolarmente finalizzato a questo scopo è quello promosso da inter-venti di formazione. Per questa ragione risulta interessante soffermarsi a considerare attentamente gli effetti di questo genere di interventi.

In linea con questa ottica, la famosa legge 626/94 in tema di sicurezza prevede come uno dei punti qualificanti l’introduzione dell’obbligo da parte delle aziende di formare

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i propri lavoratori alla sicurezza. In particolare, l’articolo 21 prevede che il datore di lavoro provveda affinché ciascun lavoratore riceva un’adeguata informazione su: a) i rischi per la sicurezza e la salute connessi all’attività dell’impresa in generale; b) le mi-sure e le attività di protezione e prevenzione adottate; c) i rischi specifici a cui è esposto in relazione all’attività svolta, le normative di sicurezza e le disposizioni aziendali in materia; d) i pericoli connessi all’uso delle sostanze e dei preparati pericolosi; e) le pro-cedure che riguardano il pronto soccorso, la lotta antincendio, l’evacuazione dei lavora-tori; f) il responsabile del servizio di prevenzione e protezione e il medico competente. Secondo il decreto legge, la formazione sulla salute e la sicurezza nei luoghi di lavoro deve essere sistematica e abituale ed avvenire in seguito all’assunzione, al trasferimento, al cambiamento della mansione e all’introduzione di nuove attrezzature di lavoro o di nuove tecnologie, di nuove sostanze e preparati pericolosi (art. 22). Il lavoratore è inoltre definito come parte attiva del processo di formazione, ossia come protagonista e promotore della sicurezza e non come semplice oggetto di tutela («Ciascun lavoratore deve prendersi cura della propria sicurezza e della propria salute e di quella delle altre persone presenti sul luogo di lavoro, su cui possono ricadere gli effetti delle sue azioni o omissioni», art. 5). La formazione a cui si fa riferimento nel decreto ha, dunque, una finalità addestrativa, quella cioè di fornire ai lavoratori le conoscenze e sviluppare le capacità necessarie per lo svolgimento di una mansione in modo corretto e sicuro, al fine di evitare i rischi presenti sul luogo di lavoro. L’obiettivo ultimo è quello di ridurre il numero degli incidenti e la severità delle loro conseguenze. Ma gli interventi che si realizzano in questo senso sono realmente efficaci nel modificare i comportamenti a rischio e nel ridurre il tasso di infortuni in azienda?

Gli studi che si sono occupati degli effetti della formazione hanno adottato preva-lentemente due disegni di ricerca per valutarne l’efficacia. Alcuni di questi (Becker e Morawetz, 2004; Bell e Grushecky, 2006; Cooper, Phillips, Sutherland e Makin, 1994; Dong, Entzel, Men, Chowdhury e Scheneider, 2004; Duff, Robertson, Phillips e Coo-per, 1994; Haynes, Pine e Fitch, 1982; Johnson e Ruppe, 2002; Lingard, 2002; Lingard e Rowlinson, 1997; Lusk, Hong, Ronis, Eakin, Kerr e Early, 1999; Zohar, Cohen e Azar, 1980) hanno implementato un disegno longitudinale e hanno confrontato il tasso di infortuni o il numero di comportamenti di prevenzione adottati dai lavoratori prima e dopo un processo formativo. Altri (Alberts, Li, Lemasters, Sprague, Stinson e Bhatta-charya, 1997; Kinn, Khuder, Bisese e Woolley, 2002; Materna et al., 2002; Spangenberg et al., 2003) hanno adottato invece un disegno trasversale e confrontano il numero di infortuni o di comportamenti a rischio messi in atto dai lavoratori che hanno partecipa-to ad attività formative con gli stessi indicatori rilevati in lavoratori che non hanno avuto accesso agli stessi interventi.

Gli studi che hanno indagato la relazione diretta tra la formazione dei lavoratori e il tasso di incidenti (Bell e Grushecky, 2006; Dong et al., 2004; Johnson e Ruppe, 2002; Kinn et al., 2000; Spangenberg et al., 2003) trovano un’effettiva riduzione di quest’ul-timo in seguito ad interventi di training. Soltanto Bell e Grushecky (2006) non trovano differenze nel numero di infortuni (calcolati sulla base del numero dei richieste di in-

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dennizzo presentate dai lavoratori a seguito di un infortunio) prima e dopo l’intervento di formazione su un gruppo di taglialegna americani. Gli autori riconducono questo mancato effetto ad un eccessivo turnover dei lavoratori che avrebbe vanificato l’effetto positivo della formazione.

Dalle ricerche che analizzano gli effetti della formazione sui comportamenti succes-sivamente messi in atto dai lavoratori (Alberts et al., 1997; Becker e Morawetz, 2004; Cooper et al., 1994; Duff et al., 1994; Haynes et al., 1982; Lingard, 2002; Lingard e Rowlinson, 1997; Lusk et al., 1999; Materna et al., 2002; Zohar et al., 1980) emerge in modo piuttosto coerente un effettivo incremento delle azioni di sicurezza dovuto alla partecipazione ad attività formative. Tra questi studi è molto interessante, sia per la tec-nica di formazione proposta sia per i risultati ottenuti, quello condotto da Haynes e coll. (1982) sui conducenti di autobus americani. Questa ricerca si basa sulla tecnica definita di Behavior Modification (tecnica di modificazione del comportante derivante dalla psicolo-gia comportamentista) ed è composta da più fasi. La prima, definita feedback, consisteva nell’affissione pubblica dei punteggi ottenuti dai vari conducenti nei test di sicurezza; la seconda, fase di competition, era caratterizzata dalla suddivisione dei lavoratori in squa-dre e dalla competizione tra queste in materia di sicurezza. Nell’ultima fase, di incentives, venivano ricompensate sia la squadra più forte (che metteva quindi in atto il minor nu-mero di comportamenti insicuri) sia il conducente più qualificato in materia di sicurez-za. Gli autori, in seguito all’intervento di modificazione del comportamento, osservano una riduzione di infortuni e incidenti pari al 25%. La tecnica proposta nello studio ha lo scopo di ricompensare sia i comportamenti sicuri dei singoli sia l’appartenenza ad un gruppo che condivide e applica i principi di sicurezza; l’affissione pubblica dei punteggi ha portato i conducenti a riconoscere collettivamente come positivi i comportamenti sicuri e a far sì che i principi e i valori della sicurezza si diffondano nell’intero gruppo.

Occorre comunque sottolineare che non si tratta sempre di cambiamenti veramen-te rilevanti. Lusk e coll. (1999), per esempio, trovano un incremento nell’utilizzo dei dispositivi di protezione per l’udito dopo dodici mesi dal processo di formazione, ma non rilevano nessun aumento nell’intenzione dei lavoratori di continuare ad utilizzare in futuro gli stessi apparecchi.

Anche in questo caso, l’effetto del fattore che stiamo considerando appare con-dizionato ad altri: l’efficacia del processo di formazione risulta, infatti, dipendere da come i lavoratori percepiscono il coinvolgimento della dirigenza nel processo stesso: se i lavoratori ritengono che i dirigenti siano attivamente coinvolti e realmente interessati all’apprendimento di procedure di sicurezza da parte del personale, i programmi di formazione sono più efficaci nel produrre modificazioni del comportamento (Lingard e Rowlinson, 1997). Questo risultato rimanda alla definizione di clima di sicurezza ed evidenzia la connessione tra tutti i fattori psicosociali presenti nell’organizzazione. Il processo di formazione, infatti, si colloca all’interno del contesto lavorativo e quindi in relazione con il clima di sicurezza che in esso si sviluppa.

Complessivamente, le ricerche che abbiamo citato hanno analizzato gli effetti di programmi di formazione condotti con diverse tecniche didattiche. Non emergono co-

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munque dai risultati indicazioni su quale fra queste tecniche sia più efficace delle altre per quanto riguarda la riduzione del numero degli infortuni.

In sintesi, i risultati di questi studi indicano che, nella maggior parte dei casi, la formazione risulta efficace nel modificare i comportamenti e nel ridurre il tasso di in-fortuni. Tuttavia, dall’introduzione in Italia dell’obbligo di formazione dei lavoratori attraverso il d.lgs. 626/94 non si è osservata una significativa riduzione degli infortuni. Questo dato sottolinea la necessità di andare un po’ più a fondo per vedere cosa ci sia dentro l’etichetta «programmi di formazione». Dal Rapporto conclusivo del progetto di monitoraggio e controllo dell’applicazione del d.lgs. 626 (Agenzia Sanitaria Emilia-Romagna, 2003) si deduce che solo il 17% delle aziende procede a valutare gli effetti prodotti dai programmi di formazione, al di là dell’assolvimento formale dell’obbligo di legge, vissuto spesso come un ulteriore mero aggravio burocratico.

7. Conclusioni

Le ricerche che abbiamo illustrato restituiscono un quadro complesso e non ben conso-lidato dei fattori psicosociali che possono avere un’influenza sulla probabilità di essere vittima di infortunio. I risultati più coerenti sembrano essere quelli che riguardano il ruolo del clima organizzativo di sicurezza, degli atteggiamenti individuali nei confronti della sicurezza e della formazione dei lavoratori alla sicurezza. In questi tre ambiti, in-fatti, le ricerche mostrano che i lavoratori quando percepiscono in azienda un clima fa-vorevole e sensibile ai temi della sicurezza o esprimono atteggiamenti personali positivi verso la sicurezza o hanno svolto attività di formazione alla sicurezza, tendono a mettere frequentemente in atto comportamenti di prevenzione e ad incorrere in misura minore negli infortuni rispetto ai casi in cui queste condizioni non sono rispettate.

Tuttavia, l’ambito delle ricerche che includono il clima di sicurezza lascia ancora aperte diverse questioni. Innanzitutto la definizione operazionale del costrutto non è condivisa dagli studiosi che si occupano di infortuni sul lavoro. Questo ha generato un insieme di ricerche che rilevano il clima di sicurezza declinato di volta in volta in dimensioni differenti. Così, per esempio, includere in un modello di previsione il cli-ma di sicurezza aziendale operazionalizzato attraverso indicatori della percezione che i lavoratori hanno del coinvolgimento nella sicurezza da parte della dirigenza è presumi-bilmente diverso dal considerare l’atteggiamento del lavoratore verso le politiche di ge-stione della sicurezza come indicatore di clima di sicurezza. Le poche scale validate per rilevare il clima di sicurezza (Offshore Safety Questionnaire e Health and Safety Climate Survey Tool) sono state concepite per rilevazioni specifiche al settore di attività indagato (il primo per il settore petrolifero e minerario e il secondo per quello industriale), ma la loro applicabilità ad altri contesti non è garantita e ciò rende difficile il confronto tra i risultati che si ottengono.

Infine, negli ultimi anni sono presenti in letteratura modelli che concettualizzano la relazione tra clima di sicurezza e infortunio sul lavoro come mediata da altri fattori.

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Queste ricerche aprono altri quesiti che in futuro dovranno essere ulteriormente chiariti e approfonditi.

Risultati complessivamente meno univoci riguardano il ruolo della percezione del rischio, dell’esperienza pregressa di infortuni, della percezione di controllo e del locus of control: in relazione a questi potenziali predittori non tutte le ricerche riportano una relazione di influenza significativa sulla probabilità di infortunio. Rimangono dunque da chiarire le condizioni (organizzative, di gruppo, individuali) entro le quali questi fattori diventano «critici» oppure non incidono in modo rilevante.

Il confronto critico fra gli studi presentati rende evidente il permanere di una serie di limiti concettuali e metodologici che caratterizzano le ricerche su questo tema. In pri-mo luogo i concetti di infortunio e di incidente richiedono una definizione operazionale più precisa. La contraddittorietà dei risultati può essere dovuta anche a quale indicatore di infortunio si utilizza come variabile dipendente (il rapporto fra le ore perse di lavoro e il monte ore annuo o la frequenza riportata di contusioni, bruciature o altro genere di ferite, o il rapporto tra infortuni denunciati e ore lavorate).

Il principale limite metodologico di questo ambito di indagine comunque sembra essere l’assenza di studi longitudinali che consentano di cogliere la relazione causale tra fattori psicosociali effettivamente pre-esistenti l’infortunio e infortuni sul lavoro. Le ricerche analizzate per lo più rilevano i predittori ipotizzati e le variabili dipendenti con-temporaneamente. Questo problema è particolarmente evidente quando ci si proponga di studiare quale effetto esercita un’esperienza di infortunio sui comportamenti succes-sivi e quindi sulla successiva probabilità di averne altri. Rilevare che le persone riportano allo stesso tempo diverse esperienze pregresse di infortunio, bassi livelli di percezione di rischio e bassa frequenza di rispetto delle norme di prevenzione nei comportamenti non ci consente di capire, per esempio, se la percezione del rischio è una conseguenza o un effetto dell’infortunio. Solo ricerche longitudinali, in cui siano monitorati per un periodo di tempo i fattori che abbiamo qui citato, la relazione con gli incidenti e le loro conseguenze nel corso del tempo possono rispondere a quesiti di questo genere.

Al di là delle contraddizioni fra risultati che abbiamo segnalato sopra, a nostro avviso rimangono aperte alcune importanti direzioni di ricerca. Una riguarda, per esem-pio, il ruolo degli atteggiamenti. I modelli psicosociali che riguardano il rapporto fra atteggiamenti e comportamenti (Ajzen, 1988; Fishbein e Ajzen, 1975) hanno da tempo mostrato che l’atteggiamento antecedente un comportamento è quello nei confronti del comportamento stesso e non l’atteggiamento generale nei confronti dell’oggetto. Gli studi che abbiamo passato qui in rassegna invece si sono focalizzati principalmente su quest’ultimo, ovvero sull’atteggiamento verso la sicurezza e il lavoro. Occorre dun-que includere nei modelli di previsione degli incidenti sul lavoro l’atteggiamento dei lavoratori verso i comportamenti a rischio, al fine di prevedere con maggior coerenza la probabilità di mettere in atto comportamenti di prevenzione. E ancora nell’ambito degli atteggiamenti, una direzione promettente sembra essere quella che riguarda l’ap-profondimento degli effetti esercitati dalle loro caratteristiche strutturali, in particolare dall’ambivalenza, dato che come abbiamo sottolineato sopra, è noto che il rapporto

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fra atteggiamenti e comportamenti è indebolito quando l’atteggiamento risulta ambiva-lente (Armitage e Conner, 2004). Un lavoratore con un atteggiamento ambivalente nei confronti dei dispositivi di prevenzione può, per esempio, ritenere che l’imbracatura di sicurezza sia un utile strumento di prevenzione (attributo positivo) ma che sia scomoda da indossare poiché rallenta i movimenti (attributo negativo). Un lavoratore con un atteggiamento univalente invece possiede nella sua struttura attitudinale solo elementi con la stessa connotazione associati all’utilizzo del dispositivi di tutela della salute: il comportamento messo in atto dal secondo lavoratore sarà, con buona probabilità, più facilmente prevedibile rispetto a quello del primo.

Un discorso a parte va fatto sulla formazione dei lavoratori alla sicurezza, dato che non si tratta di un predittore psicosociale vero e proprio, quanto di un processo orga-nizzativo strettamente connesso con questi. Dalle ricerche emerge che la formazione alla sicurezza influenza i fattori psicosociali e in ultimo anche gli infortuni sul lavoro. Questo suggerisce quanto sia importante conoscere gli effetti prodotti dai predittori psicosociali sui comportamenti dei lavoratori per riuscire a progettare interventi di for-mazione sempre più mirati ed efficaci.

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