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1 SCUOLA SUPERIORE DELLA PUBBLICA AMMINISTRAZIONE Ricerca VALORIZZAZIONE E FRUIZIONE DEI BENI CULTURALI TRA GESTIONE DIRETTA ED INDIRETTA PAOLA BUCCELLI La normativa nazionale SOMMARIO 1. Dalla legislazione preunitaria alla legislazione unitaria 1.1 Frammentarietà della normativa preunitaria 1.2 La legislazione postunitaria 1.2.1 Ideologia liberale e conservazione dei beni culturali: un difficile connubio 1.2.2 L’espropriazione dei monumenti come strumento di preservazione del patrimonio culturale ( legge 2359/1865) 1.2.3 L’istituzione del catalogo nazionale dei beni culturali (legge 431/1904) 1.2.4 I limiti e gli obblighi nei trasferimenti dei beni culturali (legge 364/1909) 1.3 I primi interventi organici di politica culturale. La legge 1089/1939 e la legge 1497/1939 1.3.1 L’ampliamento della tutela amministrativa delle cose mobili ed immobili di interesse artistico, archeologico ed etnografico 2. La tutela dei beni culturali nell’ordinamento costituzionale 2.1 L’inquadramento costituzionale dei beni culturali tra promozione e libertà 2.2 La definizione del concetto di bene culturale e la concezione antropologica (Art. 148 d.lg. 112/1998) 2.2.1 La distinzione tra attività e bene culturale

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SCUOLA SUPERIORE DELLA PUBBLICA AMMINISTRAZIONE

Ricerca

VALORIZZAZIONE E FRUIZIONE DEI BENI CULTURALI TRA GESTIONE DIRETTA ED

INDIRETTA

PAOLA BUCCELLI

La normativa nazionale

SOMMARIO

1. Dalla legislazione preunitaria alla legislazione unitaria

1.1 Frammentarietà della normativa preunitaria

1.2 La legislazione postunitaria

1.2.1 Ideologia liberale e conservazione dei beni culturali: un difficile connubio

1.2.2 L’espropriazione dei monumenti come strumento di preservazione del

patrimonio culturale

( legge 2359/1865)

1.2.3 L’istituzione del catalogo nazionale dei beni culturali

(legge 431/1904)

1.2.4 I limiti e gli obblighi nei trasferimenti dei beni culturali

(legge 364/1909)

1.3 I primi interventi organici di politica culturale. La legge 1089/1939 e la

legge 1497/1939

1.3.1 L’ampliamento della tutela amministrativa delle cose mobili ed

immobili di interesse artistico, archeologico ed etnografico

2. La tutela dei beni culturali nell’ordinamento costituzionale

2.1 L’inquadramento costituzionale dei beni culturali tra promozione e libertà

2.2 La definizione del concetto di bene culturale e la concezione antropologica

(Art. 148 d.lg. 112/1998)

2.2.1 La distinzione tra attività e bene culturale

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2.2.2 La pubblicità dei beni culturali

2.3 L’incentivazione alla conservazione, al restauro e alla fruizione pubblica delle

opere d’arte attraverso il meccanismo delle agevolazioni fiscali e delle

sponsorizzazioni ( legge 512/ 1982)

2.4 Decentramento amministrativo e trattamento giuridico dei beni culturali nel

d.lg. 112/1998 e nel t.u.b.cult 490/1999

2.4.1 La tutela

2.4.2 La gestione

2.4.3 La valorizzazione

2.4.4 La circolazione

2.5 L’ingresso dei privati nella gestione dei servizi per la valorizzazione e la migliore

fruizione del patrimonio artistico ( legge 448/2001)

2.6 Il trasferimento dei diritti sui beni immobili, facenti parte del patrimonio disponibile ed

indisponibile dello Stato, per la gestione, valorizzazione e alienazione alla Patrimonio

dello Stato spa

3. La riforma del titolo V della Costituzione e il nuovo t.u.b.cult.

3.1 L’ingresso dei privati nella gestione dei beni culturali

3.1.1 L’affidamento della gestione a fondazioni, associazioni, consorzi, società di

capitali ed altri soggetti con prevalente partecipazione pubblica

3.1.2 La concessione a soggetti terzi

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1. Dalla legislazione preunitaria alla legislazione unitaria

1.1 Frammentarietà della normativa preunitaria

La prima normativa in materia di tutela delle cose di interesse storico ed artistico si rinviene

nel Granducato di Toscana intorno alla terza metà del XVI secolo.1 Qui la legislazione ebbe un

percorso molto particolare: se, infatti, da un lato non fu mostrata alcuna preoccupazione per la

conservazione degli edifici, dall’altro si assicurò la tutela delle opere d’arte e delle memorie

storiche esposte alla pubblica vista e, quindi, al danneggiamento ed alla esportazione. La prima

legge emanata in Toscana, risalente al 1571, vieta agli acquirenti di palazzi antichi di rimuovere

iscrizioni ed insegne. La deliberazione del 1602 del Granduca di Toscana per la città di Firenze fa

poi assoluto divieto di asportare pitture in altra città dello Stato senza la licenza concessa dal

“luogotenente dell’accademia del disegno”: un provvedimento quest’ultimo non discrezionale, ma

condizionato alla verifica dell’inesistenza in vita dell’artista. Tale disciplina viene sostanzialmente

confermata dall’editto del 26 dicembre 1754, avente ad oggetto la protezione delle “cose rare”, poi

ripreso nel 1860, quando il governo provvisorio lo estese pure alla conservazione dei monumenti.

La politica culturale degli altri Stati italiani è assai meno fiorente: bisognerà, ad esempio,

attendere il 1745 perché in Lombardia un decreto di Maria Teresa stabilisca il divieto di

esportazione per gli oggetti d’arte.2

In Veneto, invece, è del 1773 l’istituzione del primo catalogo delle “pubbliche pitture” e

della figura dell’ispettore generale, con obblighi di vigilanza e di controllo dello stato di

conservazione e manutenzione dei singoli oggetti. Tale organo pubblico, poi sostituito dalla

commissione per la tutela e la custodia degli oggetti d’arte esistenti nelle chiese e nei pubblici

stabilimenti, si caratterizzava per la sua funzione di tutela preventiva degli oggetti di proprietà degli

enti pubblici, tutela che non si riscontra nelle legislazioni degli altri Stati.3

Nel regno di Napoli e Sicilia anche la “prammatica LVII” del 1755 del Re Carlo di Borbone

risponde ad esigenze di conservazione degli oggetti d’arte. In particolare, sulla falsariga dei

provvedimenti emanati dagli Stati europei più illuminati, si sancisce, in generale, il divieto di

esportazione, prevedendo espressamente in quali casi e condizioni possano essere rilasciate le

relative licenze.

1 M. Ainis, M. Fiorillo, I beni culturali, in Trattato di Diritto Amministrativo, Diritto amministrativo speciale, Tomo II, a cura di S. Cassese, Giuffrè, Milano 2003, p. 1449 ss. 2 M. Cantucci, La tutela giuridica delle cose d’ interesse artistico e storico, Padova, Cedam, 1953, p. 18. 3 M. Speroni, La tutela dei beni culturali negli stati preunitari, in L’età delle riforme, I, Milano, Giuffrè,1988, p. 191 ss.

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Ma il provvedimento più importante, in quanto teso ad imporre vincoli alla disponibilità di

beni anche privati, resta il decreto emanato da Ferdinando I di Borbone nel 1822. Questo

provvedimento, avente ad oggetto la tutela non solo degli edifici, dei monumenti e degli scavi ma

anche di tutti gli oggetti storici ed artistici, risente dell’editto del cardinale Pacca, di cui si parlerà in

seguito, laddove stabilisce il divieto di togliere gli oggetti storici ed artistici dalle chiese e dagli

edifici pubblici proibendo, altresì, l’esportazione di tali oggetti, ancorché di proprietà privata, in

mancanza di apposita licenza rilasciata dallo stesso sovrano dietro giudizio della commissione di

antichità e belle arti.

Il regno di Sardegna è tra gli antichi Stati italiani quello che presenta il maggiore

disinteresse per la protezione dei beni culturali.4 L’unica disposizione della legislazione piemontese

è costituita da un regio decreto del Re Carlo Alberto, del 24 novembre 1832, con il quale fu creata

una “Giunta di antichità e belle arti” con compiti di ricerca e conservazione. La scarsa tradizione

piemontese nonché la reazione all’interventismo dello Stato assoluto rappresentano verosimilmente

le ragioni storiche per cui nello Statuto mancò una specifica disposizione in materia.5

La normativa prodotta nel corso del settecento presenta, dunque, una natura frammentaria e

repressiva, volta soprattutto ad impedire l’esportazione delle opere artistiche, pur intervenendo,

tuttavia, quando gran parte dei suddetti beni aveva già preso la via dell’estero.6

E’ nello Stato pontificio che si assiste, invece, ad un fiorire di provvedimenti normativi in

materia, specie con il ritorno dei pontefici a Roma. Tali provvedimenti presentano il dato comune di

impedire la distruzione delle cose d’arte, preservandole dall’incuria dei proprietari e dall’ignoranza

dei cittadini, e di vietare l’esportazione degli oggetti d’arte senza espressa licenza.

In generale, può affermarsi che gli editti pontifici, a tal fine, limitano o, a seconda dei casi,

proibiscono notevolmente l’attività dei privati sulle cose d’interesse artistico e storico, assicurando,

peraltro, l’osservanza del divieto con sanzioni sempre più severe. Sotto il profilo della tutela

mediante divieto di esportazione, è interessante notare che soltanto nel 1624 con l’editto del

Cardinale Aldobrandini il divieto di esportare gli oggetti, fino ad allora generico ed indeterminato,

viene per la prima volta specificato a quelli provenienti da scavi, anche se limitato ai soli detentori.

La legislazione successiva, invece, estende, rispettivamente, il suo ambito di applicazione

oggettivo a beni rispondenti a necessità di studio ed erudizione, come libri, manoscritti e scritture

pubbliche e private, e quello soggettivo a chiunque possa collaborare alla loro esportazione.7

4 Cfr. F.S. Marini, Lo statuto costituzionale dei beni culturali, Milano, Giuffrè, 2002, p. 5 ss. 5 L’art. 28 dello Statuto albertino disponeva, infatti, che “tutte le proprietà senza eccezione alcuna sono inviolabili”. 6 In questi termini, M. Ainis, M. Fiorillo, I beni culturali, op. cit., p. 1451. 7 Ci si riferisce, in particolare, agli editti del 1646, del 1686, del 1701 e del 1704. Cfr. sul punto M. Cantucci, La tutela delle cose di interesse artistico e storico, Padova, Cedam, 1953, p.10.

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Il principio generale della conservazione artistica come interesse pubblico da tutelare nei

confronti di privati, cittadini e stranieri è, invece, alla base dell’editto del cardinale Spinola del

1707. Tale interesse si specifica nella tutela giuridica dei monumenti e degli oggetti d’arte. Nel

1733, un editto dello stesso Spinola, passerà alla storia introducendo per la prima volta la

distinzione fra cose rare per l’arte e per l’erudizione e cose che non presentano il requisito della

rarità, suddivisione questa che sarà poi ripresa e formulata dal famoso editto del cardinal Pacca del

7 aprile 1820.

L’editto del cardinal Pacca, in particolare, si pone come un provvedimento di reazione alla

confisca del patrimonio artistico dello Stato pontificio avvenuta “manu militari” ad opera dei

napoleonici8. In ragione di tale funzione, si presenta altresì come il primo provvedimento organico

di salvaguardia dei beni artistici e storici emanato durante il pontificato di Papa Pio VII. Esso

proibisce, infatti, in modo assoluto ed inderogabile l’esportazione da Roma e dallo Stato di

qualunque oggetto d’arte, estendendo, inoltre, tale divieto a tutti gli stranieri di passaggio a Roma,

indipendentemente dalla loro permanenza.9

Relativamente al commercio interno, si subordina la libera vendita dei beni in Roma nonché

delle opere degli autori viventi o morti, anche se non insigni, e la loro esportazione nello Stato, ad

una licenza del cardinale Carmalengo e ad una visita dell’ispettore delle belle arti e del commissario

dell’antichità.

L’editto ordina poi la denuncia di tutti gli oggetti antichi e di arte da parte dei privati

possessori, disponendo controlli di verifica annuali da parte di funzionari incaricati.

Il provvedimento del cardinale Pacca, oggetto di imitazione da parte degli altri Stati italiani

e di quelli stranieri, è passato alla storia in quanto, rispetto agli altri editti pontifici, contiene una

disciplina completa dell’organizzazione amministrativa dei servizi necessari per l’individuazione, il

controllo degli oggetti d’antichità ed arte e per l’esecuzione delle sue disposizioni. Proprio al fine di

evitare che tali regole rimanessero lettera morta, alla commissione di belle arti ed alle dipendenti

commissioni ausiliari territoriali vennero, infatti, affidati compiti di vigilanza, di conservazione e di

redazione d’inventari del patrimonio archeologico ed artistico dello Stato.10 Inoltre, furono riprese,

e coordinate in modo più sistematico, le norme degli editti precedenti, secondo una formulazione

rispondente a criteri meno assolutistici.

8 P. Wescher, I furti d’arte - Napoleone e la nascita del Louvre, 1974,, trad. a cura di F. Cuniberto, Torino, Einaudi, 1988, p. 62. 9 M. Cantucci, La tutela giuridica delle cose d’interesse artistico o storico, op. cit., p.11. 10 Quanto agli inventari, si prevede che gli oggetti d’antichità e d’arte che si trovino nelle chiese, negli oratori, nei conventi e in qualunque stabilimento ecclesiastico e secolare siano inventariati in duplice copia, di cui una conservata presso l’ufficio della commissione, l’altra restituita al proprietario.

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Viene riproposta poi la distinzione, già presente nell’editto del cardinale Spinola del 1733,

fra oggetti di famoso e singolare pregio per l’arte e l’erudizione e quelli che ne sono privi.

L’editto del cardinale Pacca è stato negli anni oggetto di diverse valutazioni: da alcuni è

stato considerato una legge tirannica, da altri come un esempio di legislazione. Certo è che, al pari

degli altri provvedimenti pontifici, essendo figlio di uno stato assoluto, tutela l’interesse pubblico

come fosse l’interesse del principe, conferendo carattere di polizia alle limitazioni dell’attività

privata e sanzionandole con pene gravi11.

L’editto è poi completato da un regolamento contenente direttive per le commissioni

ausiliarie di belle arti. Trattasi, in particolare, di chiarimenti in merito, da una parte, alla cura e alla

diligenza da osservare nell’indicare, specie nelle chiese, gli oggetti d’arte da conservare e, dall’altra,

in merito all’autorizzazione per gli scavi, alla loro esecuzione e al restauro degli oggetti ritrovati.12

1.2 La legislazione postunitaria

1.2.1 Ideologia liberale e conservazione dei beni culturali: un difficile connubio

Contrariamente alle aspettative, il conseguimento dell’unità d’Italia non apportò un

miglioramento delle forme di tutela dei beni culturali13. L’ideologia liberale che si identificava nel

diritto assoluto ed inviolabile della proprietà risultò, infatti, difficile da conciliare con l’interesse

pubblico ad una disciplina vincolistica dei beni culturali14; ne seguì come corollario che la classe

dirigente non andò oltre il riconoscimento del divieto di trasformazione e demolizione degli edifici

urbani di grande pregio artistico.15

La dispersione del patrimonio artistico per alienazioni e donazioni fu quindi facilitato dalla

mancanza di una legge organica, che si ebbe solo agli inizi del XX secolo, mentre l’unico

provvedimento di politica culturale di quegli anni fu rappresentato dalla legge n. 2359 del 25 giugno

1865, che sancì la facoltà dell’amministrazione di disporre l’espropriazione dei monumenti se

mandati in rovina per incuria dei proprietari.

11 Cfr. A. Emiliani, Leggi, bandi e provvedimenti per la tutela dei beni artistici e culturali negli antichi Stati italiani 1571-1860, Bologna, Nuova Alfa Editoriale, 1996. 12 M. Cantucci, La tutela giuridica delle cose d’interesse artistico o storico, op. cit.,p. 12 ss. 13 Cfr., sulla legislazione postunitaria, E. Mattaliano, Il Movimento legislativo per la tutala delle cose d’interesse artistico e storico dal 1861 al 1939, in Ricerca sui beni culturali, a cura di G. Limiti, Camera dei deputati, Roma, Grafica Romana, 1975. 14Nel Parlamento italiano si scontrarono due opposti orientamenti: quello che teorizzava il dogma dell’inviolabilità della proprietà e quello che, viceversa, difendeva le sorti del patrimonio nazionale. Tuttavia, la prevalenza dei primi è testimoniata dalle leggi tampone che furono emanate in quegli anni, come il r.d. del 1870 n. 6030, che sospese per Roma l’efficacia delle norme abolitrici dei fedecommessi; la legge n. 286 del 1870 di cui al testo; la legge n. 1461 del 1883, che stabilì l’alienazione dei beni culturali a solo vantaggio dello Stato o di enti nazionali. 15 Così, A. Mansi, La tutela dei beni culturali, Padova, Cedam, 1993, p. 14.

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L’assenza di una volontà politica di riconoscere una specifica regolazione della materia si

tradusse successivamente nella legge n. 286/1871 che, oltre a stabilire l’indivisibilità tra gli eredi

delle collezioni d’arte, si limitò a rinnovare la legislazione disomogenea degli stati preunitari16.

1.2.2 L’istituzione del catalogo nazionale dei beni culturali

Successivamente all’unificazione, l’esigenza di una disciplina generale unitaria, auspicata

già dalla legge 286/1871, trovò soddisfazione solo nella legge 185/1902 e nel suo regolamento

d’esecuzione (431/1904)17.

La legge del 1902 conteneva disposizioni per la tutela e la conservazione dei monumenti e

degli oggetti caratterizzati dalla dichiarazione di pregio di antichità o di arte. Sancì, poi, l’obbligo

per il Ministero dell’istruzione pubblica di formare i cataloghi di tali monumenti ed oggetti,

notificando l’iscrizione di quelle proprietà private che avessero “sommo pregio” e subordinando a

tale iscrizione il divieto di esportazione.18 Introdusse, inoltre, il regime d’inalienabilità degli oggetti

d’antichità ed arte appartenenti allo Stato o agli altri enti pubblici, nonché la facoltà per quest’ultimi

di vendita e permuta delle collezioni e degli oggetti purché a favore dello Stato. Introdusse, infine,

l’obbligo di denunzia di qualunque contratto di alienazione che avesse ad oggetto i beni ricompresi

nel catalogo pubblico ed il conseguente diritto di prelazione per l’acquisto degli stessi a favore dello

Stato.

Per quel che riguarda gli scavi, la legge riconobbe ai privati la facoltà di eseguirli sotto la

sorveglianza governativa con devoluzione allo Stato di un quarto del valore e del prezzo degli

oggetti rinvenuti.19

La legge del 1902, sebbene abbia avuto il merito di introdurre le suddette misure, si rivelò,

tuttavia, lacunosa relativamente alla tutela dei beni monumentali e alle misure contro

l’esportazione.20 Tale deficienza, che riguardò soprattutto l’istituzione del catalogo pubblico,

essendo l’applicabilità di quest’ultimo condizionata all’iscrizione in esso delle cose d’arte, fu

aggravata peraltro dalla farraginosità del decreto di esecuzione del 1904, n. 431, e dal contrasto tra

le norme in esso contenute, che fece addirittura sospettare il decreto di illegittimità costituzionale.21

16 M Ainis, M. Fiorillo, I beni culturali, op. cit., p. 1453. 17 F.S. Marini, Lo statuto costituzionale dei beni culturali, Milano, Giuffrè, 2002, p. 7. 18 M. Cantucci, La tutela giuridica delle cose di interesse artistico o storico, op. cit., p. 23. 19 M. Cantucci, La tutela giuridica delle cose di interesse artistico o storico, op. cit., p. 22. 20 F.S. Marini, Lo statuto costituzionale dei beni culturali, Milano, Giuffrè, 2002, p. 8. 21 C. App. Brescia, 18 ott. 1905.

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1.2.3 I limiti e gli obblighi nei trasferimenti dei beni culturali

La legge n. 364/1909 (c.d. legge Rosadi), diretta progenitrice della normativa contenuta nel

t.u.b. cult. n. 490/1999, sostituì la prima legge generale in materia di beni culturali, quella del 1902,

rappresentando l’archetipo dello strumentario adottato nella prima fase legislativa22. Rispetto alla

legge precedente si caratterizzò per una migliore tecnica legislativa e per la completezza della

disciplina giuridica.23

Essa ampliò, infatti, la tutela dei beni culturali ricomprendendovi anche i codici, i

manoscritti, le stampe, gli incunaboli, e stabilì, inoltre, un doppio regime giuridico per il

trasferimento degli oggetti d’arte: l’inalienabilità se appartenenti allo Stato e ad enti pubblici e

privati; la denuncia per quelli appartenenti ai privati, con diritto di prelazione a favore dello Stato,

un diritto quest’ultimo più specificato rispetto a quello previsto dalla legge del 1902. Essa sancì,

inoltre, il divieto di demolizione, modificazione e restauro senza autorizzazione del Ministro e dettò

pure una disciplina articolata sugli scavi archeologici.24

Le novità maggiori, tuttavia, si sostanziarono nell’abolizione della distinzione tra

“monumenti e oggetti mobili e immobili” e nella sostituzione del riferimento al pregio d’antichità e

arte” con quello dell’ “interesse storico, artistico e archeologico”25. Sotto il profilo

dell’individuazione dei beni soggetti a tutela, considerata l’esperienza sostanzialmente fallimentare

del catalogo pubblico della legge del 1902, la legge privò il catalogo stesso del suo carattere

esclusivo nell’accertamento dei beni culturali degli enti pubblici ed attribuì, invece, un ruolo

maggiore alle notifiche ai privati, introducendo quale presupposto che si trattasse di opere con più

di cinquanta anni e non appartenenti ad autori viventi.26

La legge Rosadi venne poi corredata da un decreto di esecuzione che rimase in vigore per

lungo tempo, non essendo mai stato emanato quello di esecuzione della successiva legge n. 1089

del 1939.

È stato detto che le leggi del 1902 e del 1909 non determinarono a sufficienza il loro oggetto

e che non protessero adeguatamente gli interessi dei proprietari nella procedura di dichiarazione di

interesse pubblico della cosa.27 Tuttavia, tali leggi furono importanti perchè limitarono i diritti dei

proprietari, fissando per la prima volta criteri generali ed abbandonando la strada dei provvedimenti

singoli, in un periodo, quello della politica liberalizzatrice, che non vedeva di buon occhio le

22 S. Cassese, I beni culturali da Bottai a Spadolini, in l’Amministrazione dello Stato, Milano, Giuffrè, 1976. 23 F.S. Marini, Lo statuto costituzionale dei beni culturali, op. cit, p. 8. 24 M. Ainis, M. Fiorillo, I beni culturali, op. cit., p. 1454. 25 F. S.Marini Lo statuto costituzionale dei beni culturali, Milano, Giuffrè, 2002, p. 8. 26 Cfr. Musatti, La nuova legge sulle antichità e belle arti, in Riv. dir. comm., 1909, p. 435 ss. 27 M. Grisolia, La tutela delle cose d’arte, Soc. Ed. Foro italiano, 1952, p. 42.

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limitazioni alla proprietà privata.28 Probabilmente fu questo il motivo per cui la dottrina dell’epoca

non riconobbe la portata innovativa di tali principi, cercando, invece, di incanalarli nei più

conosciuti istituti delle servitù pubbliche, degli oneri reali e delle limitazioni amministrative alla

proprietà privata.29

1.3 L’ampliamento della tutela amministrativa delle cose mobili ed immobili di interesse

artistico, archeologico ed etnografico attraverso i primi interventi organici di politica

culturale. La legge 1089/1939 e la legge 1497/1939.

La normativa del tardo fascismo fu più completa e rappresentò un autentico programma di

politica della cultura.30 L’impegno principale interessò i campi in cui, per l’opinione dell’epoca, si

trovavano i principali beni culturali: le cose d’arte (legge del 1939, n. 1089), le bellezze paesistiche

(legge del 1939, n. 1497) e gli archivi (legge del 1939, n. 2006).31

La legge sulle cose d’arte che, al pari di quella sulle bellezze paesistiche, fu approvata in

tempi molto brevi, da un lato, mirò a rafforzare i poteri d’intervento e di controllo dello Stato nella

conservazione dei beni culturali e, dall’altro, fu più sensibile alle esigenze economiche connesse al

commercio dei beni medesimi.32

In particolare, la legge del 1939 introdusse un allargamento delle maglie del mercato

antiquario e dell’esportazione, restrinse il divieto all’alienabilità delle cose di proprietà dello Stato e

il periodo di tempo a favore di quest’ultimo per esercitare il diritto di prelazione, limitandolo,

altresì, al solo caso in cui si trattasse di cosa d’importante interesse storico o artistico.33

L’espropriazione dei beni immobili e mobili veniva ammessa qualora avesse corrisposto ad

un importante interesse, in relazione alla conservazione o all’incremento del patrimonio nazionale,

28 S. Cassese, I beni culturali da Bottai a Spadolini, in l’Amministrazione dello Stato, Milano, Giuffrè, 1976, p. 155. 29 Un’interessante eccezione è costituita dal Cammeo il quale nel 1937 affermava che con tale dichiarazione l’amministrazione acquista un diritto analogo ad un diritto reale, perché cade sulla cosa e può essere fatto valere erga omnes, se i terzi ne conoscano la condizione. Cfr. F. Cammeo, Gli immobili per destinazione nella legislazione sulle belle arti, in Scritti per Vacchelli, Milano, 1937, p. 95. 30 S. Cassese, I beni culturali da Bottai a Spadolini, op. cit., p. 156; Ministero per i beni e le attività culturali – Ufficio Studi, Istituzioni e politiche culturali in Italia negli anni Trenta, a cura di V. Cazzato, Roma, Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato, 2001. 31 In questi termini, S. Cassese, I beni culturali da Bottai a Spadolini, op. cit., p. 160. E’ opportuno ricordare che la dicotomia tra cose d’arte e bellezze naturali è ripresa dalla filosofia idealistica tedesca che distingueva tra il “bello” prodotto dall’uomo e la “bellezza” per natura, secondo una concezione estetica di antica tradizione, che sarebbe errato ricondurre semplicemente all’estetismo populistico fascista: cfr, sul punto, T. Alibrandi, Il bello della tutela, intervista di M. Ragozzino, in Il Manifesto, 15 gennaio 2002, p. 12 32 M. Cantucci, La tutela giuridica delle cose d’interesse artistico o storico, op. cit., p. 24 33 G. Palma, Beni d’interesse pubblico e contenuto della proprietà, Napoli, 1971, p. 89.

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oppure fosse necessario per isolare o restaurare monumenti o al fine di eseguire ricerche

archeologiche.34

Della legge n. 1089, illustre dottrina diceva nel 1952 che “merito indiscusso di tale legge è

l’allargamento della sfera protetta ed il superamento di un conservatorismo rigido e sospettoso; la

funzione tutoria si libera di molte antiche strettoie, colma gravi lacune, respinge ingiustificate

diffidenze, per assurgere ad un nuovo ruolo sociale, più complesso e rilevante, in relazione alla

natura poliedrica che viene oggi riconosciuta al rapporto tra interesse collettivo e cosa d’arte. La

tutela giuridica delle cose d’arte è concepita in termini di equilibrio e di contemperamento, pur nella

logica e naturale preminenza che essa deve dare all’interesse artistico”35.

Va detto, tuttavia, che la concezione del bene culturale alla base di questi interventi è ancora

piuttosto elitaria, venata della demagogia tipica dell’epoca: infatti, i beni culturali si distinguevano

per “il pregio e la rarità”, mentre le bellezze paesistiche per la loro “non comune bellezza”36.

Peraltro, le leggi del 1939, al pari dei provvedimenti delle epoche precedenti, concepirono i

beni culturali e le bellezze naturali come oggetti statici ed inerti, cosicché l’unico intervento

possibile fu nuovamente di mera conservazione, assicurata da un sistema di polizia amministrativa,

senza alcuna preoccupazione di incentivarne l’interazione con la società civile.37 Corollario di

questa logica estetizzante del bene culturale, concepito come oggetto statico ed esistente in sé38, fu

la predisposizione della tutela a solo beneficio di quei beni espressione eccezionale del comparto

culturale ed ambientale.39

I difetti più evidenti della legge 1089/1939 possono, così, ravvisarsi nella concezione ancora

statica e centralistica della tutela e nella sottovalutazione del ruolo del mercato come metro

indicatore dell’efficienza dell’attività di tutela, preferendosi la forma pubblicistica nella gestione dei

beni culturali.40

Prima di passare ad una disamina più dettagliata della legge 1089/1939, è opportuno

soffermarsi sull’altra legge del 1939, la n. 1497, sulla tutela delle bellezze naturali. Come in quella

sulle cose d’arte, anche in questa l’oggetto della tutela si presentò legato ad un’interpretazione

estetizzante, ma fu ampliato perché il “grande panorama artistico d’Italia”41 giunse a comprendere

le singolarità geologiche, le ville, i parchi, i giardini (non previsti dalle leggi del 1912 e del 1922),

34 M. Ainis, M. Fiorillo, I beni culturali, op. cit., p. 1454. 35 M. Grisolia, La tutela delle cose d’arte, op. cit., 1952, p. 44-45. 36M. Ainis, M. Fiorillo I beni culturali, op. cit., p. 1455. 37M.S. Giannini, Disciplina della ricerca e della circolazione delle cose d’interesse archeologico, in Convegno internazionale sulla tecnica e il diritto nei problemi dell’odierna archeologia, Roma, C.N.R., 1963, p. 234 ss. 38 “Quindi di null’altro bisognevoli se non di tutela conservatrice della loro integrità”, così, G. Cammarano, Tutela del patrimonio artistico e del paesaggio, in L’istruzione, a cura di C. M. Iaccarino, Vicenza, Neri Pozza, 1967, p. 267. 39 M. Ainis, M. Fiorillo, I beni culturali, op. cit., p. 1464. 40 F.S. Marini, Lo statuto costituzionale dei beni culturali, op. cit., p. 9. 41 G. Bottai, Politica fascista delle arti, Roma, 1940, p. 139.

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che non rientrassero nella tutela dell’interesse artistico o storico e che fossero di non comune

bellezza42, nonché le bellezze paesistiche d’insieme.43 Anche qui, dunque, costituirono oggetto di

tutela giuridica cose che presentavano particolari qualità e che, in quanto tali, suscitavano un

notevole interesse pubblico che, tuttavia, non venne meglio specificato dalle legge.44 Si può

comunque aderire all’interpretazione fornita da alcuni autori, secondo la quale l’interesse pubblico

oggetto di tutela coinciderebbe con l’interesse estetico, che non si esaurirebbe però nel bello

artistico, comprendendo pure la bellezza naturale che si specificherebbe di volta in volta nelle cose

o complessi di cose contemplate dalla legge. Si tratterebbe, infatti, di “un interesse al godimento

delle bellezze naturali considerate come mezzo di educazione, di affinamento del gusto, del senso

dell’estetico, ed in genere come mezzo di soddisfacimento di esigenze dello spirito”.45

Ritornando alla legge n. 1089/1939, costituiscono istituti fondamentali e peculiari della stessa, come

già accennato, il riconoscimento del particolare valore culturale della cosa con tutte le implicazioni

che ne discendono in ordine alla limitazione della circolazione di quei beni, il regime previsto per

l’esportazione, il già summenzionato diritto di prelazione dello Stato in caso di trasferimento a

titolo oneroso, nonchè il particolare regime sanzionatorio.

Innanzitutto, l’art. 1 della legge n. 1089/1939 sancisce che sono soggette alla presente legge

le cose, immobili e mobili, che presentano un interesse artistico, storico, archeologico o etnografico:

c’è dunque un chiaro riferimento alla fisicità e materialità accentuato dall’inciso “immobili e

mobili” ed un obbligato richiamo agli articoli 810 e 812 del codice civile.46 Il termine cosa è

comprensivo di qualsiasi bene di qualunque materia, consistenza e sostanza senza soffrire di

limitazione alcuna.47 L’ultimo comma dell’art. 1 dispone che “non sono soggette alla disciplina

della presente legge le opere di autori viventi o la cui esecuzione non risalga ad oltre cinquanta

anni”. Tale disposizione si giustifica in quanto l’estensione indiscriminata del vincolo avrebbe

avuto l’effetto negativo di intralciare il commercio delle cose d’arte e di dare affrettati giudizi sul

valore di artisti viventi o di opere di recente esecuzione.48 Tale limitazione, tuttavia, riguarda solo le

cose di cui all’art. 1 e non anche le cose immobili di cui al successivo articolo 2, quelle, cioè, che, a

causa del loro riferimento alla storia politica, militare, della letteratura, dell’arte e della cultura,

siano state riconosciute di interesse particolarmente importante; l’esenzione non riguarda neppure le

42 Cons. di Stato V, 26 maggio 1934, in Foro It, 1934, III, 406; C. Cass., 20 maggio 1936, in Dir. dei beni pubbl., 1936, 484. 43 S. Cassese, I beni culturali da Bottai a Spadolini, op. cit., p. 165. 44 M. Cantucci, La tutela giuridica delle cose d’interesse artistico o storico, op. cit., p. 117. 45 M. Cantucci, La tutela giuridica delle cose d’interesse storico o artistico, op. cit., p. 118. 46 A. Mansi, La tutela dei beni culturali, Cedam, 1993, p. 37. 47 Sono quindi escluse dall’oggetto della tutela le attività che hanno attinenza con quelle cose. 48 Il termine di cinquant’anni si rinviene pure nella legge sul diritto d’autore (legge n. 633/1941) e nell’art. 7 della Convenzione di Berna, ratificata con legge n. 399/1978; cfr., per tutti, A. Mansi, La tutela dei beni culturali, op. cit., p. 38.

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collezioni e la serie di oggetti di cui all’art. 5, non sussistendo, in tal caso, le motivazioni sopra

indicate per le cose d’interesse artistico.

Già dalla lettura dell’art. 1, si evince che deve ricorrere un interesse qualificato e particolare

perché sia legittimo imporre un vincolo sul bene che ne limiti la circolazione; questo interesse sarà a

seconda dei casi artistico, storico archeologico o etnografico; si tratta di un interesse oggettivo o

collettivo che, però, non è dato dalla somma dei singoli interessi individuali.49 Il riconoscimento di

un interesse qualificato come quello culturale, è sempre il frutto di una valutazione e di un giudizio

che ha un certo grado di soggettività collettiva in quanto non può non tenere conto di un particolare

contesto storico e territoriale.50

Con riferimento ai beni di proprietà privata51, tuttavia, condizione necessaria e sufficiente a

legittimare l’imposizione sugli stessi del vincolo dell’interesse culturale, era che tali beni

rivestissero un interesse “particolarmente importante” la cui identificazione era demandata in via

esclusiva al Ministro per l’educazione nazionale; i beni che avevano tale caratteristica costituivano

oggetto di notifica da parte dello stesso Ministro e risultavano da elenchi conservati presso il

Ministero. Secondo la dottrina dominante, non avendo il provvedimento di vincolo carattere

recettizio, la notifica non si poneva come elemento essenziale e costitutivo del provvedimento

costituendo, invece, mera condizione di efficacia.52

L’alienazione delle cose che rientravano nei suddetti elenchi era soggetta ad una disciplina

amministrativa che riconosceva al proprietario un ampio potere di disposizione che risultava

limitato soltanto dall’obbligo di denuncia e, relativamente agli atti di alienazione a titolo oneroso,

dalla subordinazione dell’efficacia del negozio alla dichiarazione di prelazione da parte dello Stato.

Questo diritto doveva essere esercitato nel termine di due mesi dalla denuncia e durante il periodo

della pendenza il contratto rimaneva sospensivamente condizionato. Il vincolo di prelazione non

poteva, tuttavia, essere considerato un limite alla proprietà privata non inibendo al proprietario

alcun atto di disposizione sul bene; anzi la prelazione presupponeva proprio l’esercizio della facoltà

di disposizione sul bene.53

Passando al tema dell’esportazione dei beni culturali, la disciplina contenuta nella legge n.

1089 del 1939 era di ammirevole semplicità.54 L’art. 35 sanciva il divieto di esportare le cose di

49 M. Cantucci, La tutela giuridica delle cose d’interesse storico o artistico, op. cit., p. 100; A. Mansi, La tutela dei beni culturali, op.cit., p. 40 50Ai sensi dell’art. 6 della legge n. 1089, la valutazione ed il riconoscimento dell’interesse erano demandati all’esclusiva competenza del Ministro per l’educazione nazionale al quale era altresì demandata, sempre in via esclusiva, la vigilanza. Cfr. C. Marzuoli, Potere amministrativo e valutazioni tecniche, Giuffrè, Milano, 1985, p. 76. 51 L’art. 3 della legge contemplava in forma indeterminata sia i privati proprietari, sia i possessori, sia i detentori a qualsiasi titolo. 52 R. Tamiozzo, La legislazione dei beni culturali, op. cit., p. 28. 53 M. Cantucci, La tutela giuridica delle cose d’interesse storico o artistico, op. cit., p. 218. 54 D. Ravenna, Il testo unico sui beni culturali e ambientali, a cura di G. Caia, Milano, Giuffrè, 2000, p. 118.

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interesse artistico, storico, archeologico o etnografico qualora la loro esportazione avesse causato un

ingente danno al patrimonio storico e culturale della Nazione. Anche questa volta, il relativo

giudizio era demandato all’amministrazione, ed in particolare all’ufficio di esportazione, e le

eventuali contestazioni tra l’esportatore e l’ufficio venivano decise dal Ministro per l’educazione

nazionale. In particolare, all’ufficio di esportazione era demandato il compito di determinare il

valore venale del bene che si voleva esportare, era questo un momento cruciale di tutto il

procedimento, in quanto prodromico all’applicazione di altri due istituti del sistema disegnato dalla

legge: la tassa di esportazione e l’acquisto coattivo. Nel primo caso, se la licenza era concessa, sul

valore accertato era applicata una pesante tassa progressiva; al contempo il Ministero, al fine di

impedire l’esportazione del bene aveva la facoltà di acquistarlo coattivamente.

E’ bene notare, tuttavia, che tale disciplina si applicava per il mero fatto della richiesta di

uscita della cosa dal territorio nazionale, a prescindere dal fatto che a ciò si collegasse un passaggio

di proprietà.55

Il regime delle sanzioni in tema di tutela dei beni culturali, contenuto nella legge n. 1089,

agli articoli 59 e s., va esaminato in combinazione all’art. 733 del codice penale che, come è noto,

risale al 1930 anno in cui non erano ancora state emanate le leggi del 1939 sui beni culturali e

ambientali. In particolare, la norma di cui all’art. 733 rubricato “Danneggiamento al patrimonio

archeologico, storico o artistico nazionale” prevede un reato di natura contravvenzionale e, quindi,

un fatto per la cui punibilità si prescinde dall’accertamento dell’elemento psicologico, doloso o

colposo, e di conseguenza della volontarietà dell’azione.56

L’art. 59 originariamente contemplava, invece, l’ipotesi delittuosa della rimozione senza

autorizzazione di un bene d’interesse culturale, con la conseguenza, piuttosto contraddittoria57, che

l’ordinamento finiva per sanzionare in maniera più severa e rigorosa la rimozione rispetto all’ipotesi

contravvenzionale del danneggiamento. Tale situazione è stata risolta nel 1975 con la legge n. 44,

che ha unificato le due ipotesi nella categoria contravvenzionale.

55 D. Ravenna, Il testo unico sui beni culturali e ambientali, op. cit., p. 119. 56 P. Poggi, La tutela penale dei beni culturali, contributo al volume I beni culturali tra interessi pubblici e privati, Roma, 1996, p. 181 ss 57 M. Grisolia, La tutela delle cose d’arte, Soc. Ed. Foro Italiano, Roma, 1952, p. 430 ss.

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2. La tutela dei beni culturali nell’ordinamento costituzionale

2.1 L’inquadramento costituzionale dei beni culturali tra promozione e libertà

La trattazione relativa alla tutela costituzionale dei beni culturali presuppone una risposta

alla preliminare questione relativa all’efficacia normativa del secondo comma dell’art. 9 Cost,

secondo cui “la Repubblica promuove lo sviluppo della cultura” e tutela altresì ”il patrimonio

storico e artistico della Nazione”. Il dubbio che tale disposizione fosse in realtà un’inutile promessa

investì sia la discussione in sede di Assemblea costituente che il successivo dibattito dottrinario.58

La dottrina, anche più autorevole, arrivò infatti a negare il carattere normativo della disposizione

sull’assunto che nessuno Stato avrebbe mai perseguito la finalità di distruggere i propri beni

culturali.59 Oggi, tuttavia, questa radicale posizione sembra poco attuale60.

Dall’art. 9 discende, infatti, l’obbligo per il legislatore di attivarsi per la tutela dei beni

culturali o, comunque, per il loro miglioramento. La norma, anche qualora si voglia attribuire ad

essa un contenuto meramente programmatico, non può che svolgere importanti funzioni ora

colmando le lacune, ora specificando clausole generali contenute nella disciplina costituzionale

della proprietà privata.61

Oltre che all’art. 9, la tutela dei beni culturali e dell’arte è altresì contenuta nell’art. 33 Cost.

secondo cui “l’arte e la scienza sono libere e libero ne è l’insegnamento”.

A sua volta, l’art. 9 pare contenga due norme tra loro contrastanti laddove, se, da un lato, al

primo comma, riconosce alla Repubblica il compito di promuovere la cultura e la ricerca tecnica e

scientifica, dall’altro, al secondo comma, prevede una tutela di tipo conservativo. E’ stato detto però

che entrambe le disposizioni rivestirebbero la medesima funzione che sarebbe quella di introdurre

nella Carta Costituzionale il valore estetico-culturale, un valore diverso e confliggente con quello

industriale e del profitto62. Secondo questa impostazione, di tipo “progressista”, l’art. 9 sarebbe una

specificazione del più ampio principio contenuto all’art. 3, 2° co. Cost., inteso a favorire la c.d.

“rivoluzione promessa”.63

58 F. S. Marini, Lo statuto costituzionale dei beni culturali, Milano, Giuffrè, 2002, p. 1. 59 F. Santoro Passarelli, I beni della cultura secondo la Costituzione, in Studi per il ventesimo anniversario dell’Assemblea Costituente, Firenze, Vallecchi, 1969. 60 La Corte Costituzionale nella sent. n. 921 del 1988, in Giur. Cost., I, p. 4263, ha rilevato che l’art. 9 “a torto fu ritenuto di scarso rilievo e di non incisiva operatività”. 61 In senso critico sulla c.d. teoria dei valori Rimoli, Costituzione rigida, potere di revisione e interpretazione per valori, in Giur. Cost., 1992, pp. 3770 ss.; Pace, Metodi interpretativi e costituzionalismo, in Quad. cost., 2001, p. 54 ss.; D’Atena, Lezioni di diritto costituzionale, Torino, 2001, p . 1 ss. 62 M. Ainis, M. Fiorillo, I beni culturali, op. cit., p. 1460. 63 Secondo A. Predieri, Significato della norma costituzionale sulla tutela del paesaggio, in Studi per il XX anniversario dell’Assemblea costituente, II, Firenze, 1969, p. 399 ss. “l’art. 3, 2° comma, prende in considerazione un modello socio-istituzionale con riferimento alla società esistente da non seguire e da trasformare, cioè un modello di società rifiutata;

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La tesi della rivoluzione promessa, tuttavia, si fonda sul presupposto che il 2° comma

dell’art. 9 altro non sia che una riformulazione del principio contenuto al comma precedente,

finendo così per avere una portata del tutto superflua.64

Secondo un’altra lettura, invece, ai commi in questione sarebbero sottese due rationes

diverse: il primo sarebbe finalizzato alla sviluppo della persona umana; il secondo alla formazione

dell’identità nazionale.65 Già da una prima lettura, infatti, il primo comma conterrebbe una norma

programmatica o di indirizzo66, lasciando al legislatore ordinario l’individuazione in concreto degli

strumenti per promuovere lo sviluppo della cultura, mentre il secondo comma porrebbe un dovere

di tutela di determinati beni.

La “promozione” dello sviluppo della cultura acquista conseguentemente efficacia solo con

la legge ordinaria di attuazione, mentre con riferimento al secondo comma, l’obbligo per

l’amministrazione e l’interesse diffuso derivano direttamente dalla norma costituzionale, anche se

tale interesse necessita poi di enti rappresentativi67 e di una disciplina di attuazione per la copertura

finanziaria e amministrativa delle funzioni di tutela.

La differente prescrittività tra le due norme si coglie se si riflette che la promozione dello

sviluppo della cultura, essendo una norma di indirizzo con uno scopo dinamico e un oggetto molto

ampio ed indeterminato, è solitamente destinata a soccombere se in antinomia con altre disposizioni

costituzionali, laddove, invece, la norma del secondo comma, alla luce della sua maggiore

specificità, finisce per combinarsi o prevalere in caso di conflitto.68

L’analisi del rapporto tra l’art. 9 e l’art. 33 della Cost. va scissa a seconda che si prenda in

considerazione il primo o il secondo comma dell’art. 9, essendo questo un piano ulteriore su cui si

possono individuare altre differenze tra le norme suddette.

L’art. 9 prevede, quale presupposto necessario alla promozione, l’intervento della mano

pubblica e, dunque, un’ingerenza dello Stato nella vita culturale. Questa previsione sembrerebbe

stridere con quella contenuta all’art. 33, secondo cui l’arte e la scienza sono libere e libero ne è

l’insegnamento. In realtà, tale norma vieta la formazione di un’arte o d’una scienza dello Stato ed

indica un modello di società prefigurata, da seguire ed instaurare; pone una norma, con l’obiettivo di modificare la società esistente e di trasformarla secondo il modello della società prefigurata”. 64 F. S. Marini, Lo statuto costituzionale dei beni culturali, op. cit., p. 191. 65 Cfr. per questa impostazione, F. S. Marini, Lo statuto costituzionale dei beni culturali, op. cit., p. 192 ss. 66 Sull’efficacia normativa, invece, delle disposizioni programmatiche vedi C. Mortati, Costituzione (principi generali), in Enc. Dir., XI, Milano, 1962, p. 214 ss. 67 Sull’ammissibilità di un’azione o di un intervento in giudizio per la tutela degli interessi storici e artistici da parte di enti rappresentativi di interessi collettivi vedi in senso negativo TAR Lombardia, sez. I, 21 marzo 1989, n. 124 in Foro It., 1990, III, p. 274; TAR Lombardia, sez. Brescia, 15 gennaio 1993, n. 8 in Foro It., 1993, III, p. 624. 68 F. S. Marini, Lo statuto costituzionale dei beni culturali, op. cit., p. 195.

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anzi, proprio in base al combinato disposto con l’art. 21 Cost., che tutela la libertà di pensiero,

taluno ha ravvisato una tutela privilegiata in materia artistica e culturali rispetto agli altri settori.69

Il conflitto, a ben vedere, è più apparente che reale: l’art. 9, laddove attribuisce la

promozione alla “Repubblica” non consente una visione politicizzata della cultura, in conformità

all’art. 33, che a sua volta esclude una scienza di “Stato”70: si è proposta, così, una soluzione per cui

i costituenti in realtà sancirono la doverosità dell’intervento pubblico, finalizzato alla realizzazione

del valore della libertà dell’uomo in campo artistico, in quanto senza lo stesso la cultura non

sarebbe stata libera dai condizionamenti che ne intralciano lo sviluppo ove abbandonata alle

proprie forze.71 Trattasi, dunque, di un intervento non di parte ma imparziale e riequilibratore.72

L’art. 9, 2° comma, e l’art. 33 solo prima facie, invece, incidono sullo stesso oggetto,

concernendo l’uno i beni culturali in quanto beni già prodotti e l’altro l’attività culturale e, quindi,

un bene in divenire. La distinzione è stata pure rilevata dalla Corte Costituzionale nella sentenza n.

118 del 1990, secondo la quale il vincolo di destinazione che agisce sulla proprietà del bene “non

può assolutamente riguardare l’attività culturale in sé per sé, cioè considerata separatamente dal

bene, la quale attività, invece, deve essere libera secondo i precetti costituzionali”.73

Si è già precedentemente accennato alla tesi che sostiene la diversità tra la ratio sottesa al

primo comma dell’art. 9 Cost. e quella del secondo comma. Tuttavia, è doveroso sin da ora

sottolineare che tale opinione non si conforma all’orientamento dominante secondo il quale, invece,

sia il primo che il secondo comma dell’art. 9 avrebbero la medesima funzione del pieno sviluppo

della persona umana.74 Tale tesi non sarebbe condivisibile per due ordini di motivi: innanzitutto la

Carta Costituzionale porrebbe l’accento non tanto sull’attività di promozione, quanto sull’esigenza

di tutela del patrimonio storico e artistico; in secondo luogo la Costituzione non tutelerebbe tutte le

cose di interesse storico ed artistico, ma esclusivamente quei beni che compongono “il patrimonio

storico e artistico della Nazione”.75 L’oggetto della tutela costituzionale non è, pertanto, il bene

culturale tout court ma quel bene che presenta il duplice requisito interesse culturale e nazionale.

In quest’ultimo senso il bene culturale per le sue caratteristiche concorrerà a rafforzare il sentimento

nazionale laddove il termine “Nazione” è da intendersi nella sua accezione più spirituale.

69 S. Fois, Principi costituzionali e libera manifestazione del pensiero, Milano, Giuffrè, 1957, p. 48 ss. 70 A. Predieri, Significato della norma costituzionale sulla tutela del paesaggio, op. cit., p. 407 71 M. Ainis, M. Fiorillo, I beni culturali, op. cit., p. 1461. 72 F. S. Marini, Lo statuto costituzionale dei beni culturali, op. cit., p. 197. 73 C. Cost. n 118/1990, in Giur. Cost, I, p. 660 74 M. Cantucci, La tutela giuridica delle cose d’interesse artistico o storico, Padova, 1953, p. 102; Palma, Beni di interesse storico e artistico, op. cit., p. 347; C. Cost. n. 85 del 1998, in Giur. Cost., 1998, p. 801; C. cost. n. 378/2000, in Giur. Cost., 2000, p. 2705 secondo la quale “ la tutela del bene culturale è nel testo costituzionale contemplata insieme a quella del paesaggio e dell’ambiente come espressione di un principio fondamentale unitario dell’ambito territoriale in cui si svolge la vita dell’uomo… e tali forme di tutela costituiscono un’endiadi unitaria”. 75 F. S. Marini, Lo statuto costituzionale dei beni culturali, op. cit., p. 204.

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La ratio della norma, cioè, non può limitarsi allo sviluppo della persona umana ma si estende

in primo luogo al rafforzamento dell’identità culturale della Nazione italiana.76

2.2 La definizione del concetto di bene culturale e la concezione antropologica

2.2.1 La distinzione tra attività e bene culturale

L’art. 148, comma 1, lett. A, del d.lg. n. 112/1998 si caratterizza per avere introdotto per la

prima volta nella legislazione nazionale una definizione completa del concetto di beni culturali:

“quelli che compongono il patrimonio storico, artistico, monumentale, demoetnoantropologico,

archeologico, archivistico e librario e gli altri che costituiscono testimonianza avente valore di

civiltà”; definizione, peraltro, che ha avuto per la sua ampiezza larga fortuna.77

Il nostro ordinamento, tuttavia, già prima dell’entrata in vigore del d.lg 112/1998 conosceva

l’espressione “beni culturali”: essa fu introdotta, infatti, nel nostro linguaggio giuridico dalla c.d.

Commissione Franceschini78 nel 1964 e poi riproposta dalla Commissione Papaldo.

La nozione introdotta dalla commissione Franceschini appariva però icastica: difatti per bene

culturale si intendeva “ogni bene che costituisca testimonianza materiale avente valore di civiltà”.

Come si evince, trattatasi di una definizione solenne, ancora elitaria ed estetizzante, che risentiva,

inoltre, dell’influenza delle scienze sociologiche ed antropologiche che in quegli anni si andavano

affermando.79

Tuttavia, sebbene ancora imperfetta, questa definizione rappresentava indubbiamente un

passo in avanti rispetto alla impostazione della legge Bottai (l. n. 1089/1939), incentrata sulle “cose

d’arte” che, da un lato, esprimeva una visione estetizzante limitata solo per una parte dei beni in

questione, dall’altro, rimaneva ancorata ai soli beni materiali, non consentendo per ciò stesso di

avallare le interpretazioni che ritengono le attività culturali parte dei beni culturali.80

76 A. Mansi, La tutela dei beni culturali, Cedam, 1993, p. 28 osserva che “il patrimonio culturale è un elemento essenziale della Nazione italiana, e come tutti gli altri elementi essenziali e fondamentali posti dalla Costituzione va difeso dallo Stato, come ente, e dall’intero corpo sociale. Alla sua qualifica di elemento essenziale e necessario, corrisponde un obbligo dello Stato”. 77 M. Ainis, M. Fiorillo, I beni culturali, op. cit., p. 1462. 78 Gli atti della Commissione Franceschini sono stati pubblicati con il titolo Per la salvezza dei beni culturali in Italia.. Atti e documenti della commissione d’indagine per la tutela e la valorizzazione del patrimonio storico, archeologico, artistico e del paesaggio, Roma, Colombo, 1967, Vol. 3. 79G. Severini, La nozione di bene culturale e le tipologie di beni culturali, in Il testo unico sui beni culturali e ambientali, a cura di G. Caia, Giuffrè, 2000, p. 3 80 M. P. Chiti, La nuova nozione di “beni culturali” nel d.lg. 112/1998: prime note esegetiche, in Riv. di arti e diritto on line, www.aedon.mulino.it

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Mentre, dunque, la nozione tradizionale di oggetto o cosa d’arte d’interesse storico-artistico

reputava essenziali la materialità o realità nonché il carattere della normatività81, la Commissione

Franceschini, che segnò il passaggio dal criterio estetico a quello storico82, ebbe il merito

d’introdurre, invece, una “nozione liminale”83 e aperta di bene culturale, resa possibile sulla base di

un’osmosi tra il diritto e le altre scienze,84 pur non superando tuttavia il limite della materialità.85

Solamente con il citato art. 148, il legislatore offre una formulazione ampia del bene

culturale, sposando una concezione unitaria ed omnicomprensiva: infatti, essa, oltre a

ricomprendere le principali categorie di beni fino alla sua emanazione individuate, fa riferimento

anche agli altri beni che sono testimonianza avente valore di civiltà86, categoria residuale e per sua

stessa natura passibile d’interpretazione estensiva. E’ evidente la tendenza ad allargare le maglie del

concetto di bene culturale fino ad includervi qualsiasi manifestazione della cultura umana, secondo i

dettami della scienza antropologica.87 L’avere, inoltre, eliminato il riferimento alla materialità della

testimonianza avente valore di civiltà permetterebbe di condurre le attività culturali al genus beni

culturali. Tuttavia, questa conclusione pare contraddetta dal riferimento contenuto alla successiva

lettera f), in cui si assume una distinzione tra beni e attività culturali definite “quelle rivolte a

formare e diffondere espressioni della cultura e dell’arte”.

Per alcuni autori, è stata questa una conclusione piuttosto inaspettata, non avendo il legislatore

concepito l’attività quale bene in sé, ma come bene strumentale e di supporto, mortificando così le

aspirazioni della migliore dottrina88 di costruire una nozione unitaria dei beni culturali.89

L’art. 148 del d.lg. 112/1998 supera, pertanto, la tesi dell’immaterialità, secondo la quale il

bene culturale sarebbe caratterizzato dall’assenza di corporalità90; ciò posto non dimostra, però, che

il bene culturale sia un bene esclusivamente materiale, come era concepito dalla legge Bottai.

81 Si doveva trattare, infatti, di categorie di cose espressamente nominate da norme di legge. 82 N. Greco, Stato di cultura e gestione dei beni culturali, Bologna, Il Mulino, 1981, p. 193 83 M. S. Giannini, I beni culturali, in Riv. Trim. dir. Pubbl, 1976, I, 3. 84 G. Severini, La nozione di bene culturale e le tipologie di beni culturali, in Il testo unico sui beni culturali e ambientali, op. cit., p. 5. 85 Per questa Commissione di indagine e studio, infatti, era bene culturale ”ogni testimonianza materiale avente valore di civiltà”. 86 Si risente qua l’eco diretta della prima dichiarazione proposta dalla commissione Franceschini. 87 M. Ainis, M. Fiorillo, I beni culturali, op. cit., p. 1465. 88 Scriveva, infatti, S. Cassese nel 1976: “(..) il problema è di ampliare l’area del patrimonio culturale protetta dalla legge. E di cambiare, corrispondentemente, le modalità della protezione: questa sarà diversa se si tratti di un bene culturale-cosa o di un bene culturale-attività.”, Cfr. S. Cassese, I beni culturali da Bottai a Spadolini, Giuffrè, Milano, 1976, p. 177. 89 M P. Chiti, La nuova nozione di “beni culturali” nel d.lg. 112/1998: prime note esegetiche, in Riv. di arti e diritto on line, www.aedon.mulino.it 90 Secondo M. S. Giannini, I beni culturali, op. cit, pp. 24 e ss., infatti, il bene culturale “non è un bene materiale, ma immateriale: l’essere testimonianza avente valore di civiltà è entità immateriale, che inerisce ad una o più entità materiali, ma giuridicamente è da queste distinta, nel senso che essa è supporto fisico ma non bene giuridico”. Ancora prima Cantucci sosteneva che “la cosa di per sé non sarebbe che un’entità extragiuridica che si qualifica giuridicamente, in quanto presenta un interesse che può essere tutelato dal diritto” e “ ciò che l’ordinamento giuridico tende a

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Ben si può dire, allora, che il d.lg. del 1998 segna il momento di passaggio dalla concezione

materiale a quella mista; si dovrà attendere, infatti, il t.u.b. cult. del 1999 per affermare che il

nostro legislatore agli artt. 2 e 3 abbia aderito alla c.d. teoria mista.91 Una scelta, questa, accolta

favorevolmente dal Consiglio di Stato secondo cui “il bene nella sua materialità deve costituire

l’elemento centrale della fattispecie regolata dalla norma, ed il suo valore culturale o ambientale

deve improntare la sua ratio”.92

Più in generale, quindi, mentre nel bene immateriale spicca l’autonomia della creazione

intellettuale (corpus misticum) a fronte dell’episodica estrinsecazione, in quello culturale il valore

ideale è fortemente compenetrato nella materialità della cosa, tanto da costituire un unicum

indivisibile.93 Né in tali beni ricorre il requisito della riproducibilità, presente, invece, in quelli

immateriali.

Si è già detto che la definizione di bene culturale contenuta all’art. 148, comma 1, lett. a)

risente di quella formulata dalla Commissione Franceschini intorno agli anni ’60 e come, tuttavia,

dalla stessa si distingua per l’eliminazione del riferimento alla materialità. Ma non solo. Ulteriore

distinguo è, infatti, rappresentato dall’aggiunta dell’inciso “così individuati dalla legge”. Questa

modifica ha posto due problemi interpretativi: ci si è chiesto se il relativo procedimento di

individuazione avesse ad oggetto solo i beni che costituiscono “testimonianza avente valore di

civiltà” ovvero i beni culturali in generale, e se tale procedimento avesse natura di mero

accertamento ovvero costitutiva.94

Quanto alla prima questione, se, da un lato, un’interpretazione letterale della disposizione

induce a caldeggiare una soluzione limitata solo a quei beni che sono testimonianza avente valore di

civiltà, un’interpretazione sistematica, alla luce soprattutto del procedimento di apposizione del

vincolo sui beni culturali, contenuto nella legge n. 1089/1939, che rappresenta la disciplina

generale della materia, fa propendere, invece, per una soluzione estesa a tutti i beni culturali; quanto

al secondo punto, induce a privilegiare la natura costitutiva del procedimento.

salvaguardare è proprio l’effettiva, non astratta, relazione di godimento che può costituirsi tra i soggetti e la realtà esteriore”, in La tutela delle cose d’interesse artistico o storico, op. cit., p. 98. 91 F. S. Marini, Lo statuto costituzionale dei beni culturali, op. cit., p. 52. 92 Adunanza generale della Sezione consultiva per gli atti normativi dell’11 marzo 1999. 93 Cfr. V. Cerulli Irelli, Beni culturali, diritti collettivi e proprietà pubblica, in scritti in onore di M. S. Giannini, I, Milano, 1988, p. 140; Greco, Stato di cultura e gestione dei beni pubblici, op. cit., p. 24; Mansi, La tutela dei beni culturali, op. cit., p. 38 94 M. P. Chiti, La nuova nozione di “beni culturali” nel d.lg. 112/1998: prime note esegetiche, op. cit.

20

2.2.2 La pubblicità dei beni culturali

Il bene culturale oltre a presentare un’anima mista di materialità ed immaterialità, consacrata

nel t.u.b.cult. n. 490/1999, è caratterizzato dalla pubblicità.95

“Il bene culturale è pubblico non in quanto bene di appartenenza, ma in quanto bene di

fruizione”.96

Al di là delle diversi tesi dottrinarie che nel corso del tempo si sono sforzate di ricostruirne la

condizione giuridica97, i beni culturali, secondo un’opinione largamente condivisa in dottrina e

giurisprudenza, soddisfano un interesse collettivo, essendo, per vocazione, destinati alla generalità

dei consociati che devono poterne fruire anche se appartengano a privati proprietari.

E’ indubbio che tale interesse collettivo trova la sua massima soddisfazione qualora i beni

culturali entrino a far parte del patrimonio dello Stato o di altri enti pubblici. Ma anche se il bene

appartiene a privati, attraverso vincoli e gravami di varia intensità, può esserne assicurata la

fruizione o la fruibilità da parte della collettività. Ciò, d’altronde, trova conferma espressa nella

Carta costituzionale agli articoli 42, 9 e 33.

2.3 L’incentivazione alla conservazione, al restauro e alla fruizione pubblica delle opere d’arte

attraverso il meccanismo delle agevolazioni fiscali e delle sponsorizzazioni (l. 512/1982)

La legge 2 agosto 1982, n. 51298 ha introdotto un regime fiscale agevolato per i beni

culturali. Poiché l’arte è attività che richiede costantemente impegni economici e finanziari

piuttosto elevati, non solo per la produzione ma anche per la conservazione, manutenzione,

custodia, per la sua esposizione e fruizione collettiva, la legge de qua incentiva e favorisce

fiscalmente i proprietari di tali beni, dei quali può così esserne assicurata la conservazione e la

restaurazione. Vengono poi favoriti tutti coloro che effettuano donazioni in denaro allo Stato, agli

95 M. Ainis, M. Fiorillo, I beni culturali, op. cit., p. 1469. 96 M. S. Giannini, I beni culturali, op. cit., p. 31. 97 G. Zanobini, Corso di diritto amministrativo, IV, Milano, Giuffrè, 1955, p. 210 ss., per giustificare i vincoli e gravami sulle cose d’interesse artistico e storico, pose l’accento sulle nozioni di limitazioni amministrative alla proprietà privata; altri, invece, parlavano di diritto reale dello Stato sulle cose d’arte: Cammeo, Gli immobili per destinazione nella legislazione sulle belle arti, in Raccolta di scritti di diritto pubblico in onore di G. Vacchelli, Milano, p. 95. C’era, poi, chi assimilava il proprietario ad un “custode”, nell’interesse pubblico, di una cosa comune: cfr. M. Cantucci, La tutela delle cose d’interesse artistico o storico, op. cit., p. 206 ss. Altri ponevano l’accento sulla funzione unitaria cui assolvono i beni culturali, a prescindere dalla loro appartenenza pubblica o privata: M. S. Giannini, I beni culturali, op. cit., p. 19 ss. 98 Regime fiscale dei beni di rilevante interesse culturale.

21

altri enti pubblici e alle fondazioni culturali, perché ne valorizzino l’interesse culturale e le attività

ad esso connesse99.

E’ indubbio che lo scopo perseguito dalla legge è di formare una nuova mentalità del privato

che, grazie al mutato atteggiamento dei pubblici poteri, si trova nella condizione di valorizzare il

patrimonio artistico e culturale, troppo spesso oggetto di una tutela solo formale e tralatizia,

attraverso questa nuova coscienza civile, si propone, poi, di incrementare l’acquisizione, la

valorizzazione e, soprattutto, la fruizione collettiva dei beni culturali100.

Gli articoli 6 e 7 della legge 512/1982 contemplano, in particolare, la possibilità per i

debitori tributari, di imposte dirette o di successione, di offrire allo Stato in pagamento totale o

parziale delle imposte medesime, beni d’interesse culturale di corrispondente valore. Oggetto della

cessione possono essere i beni vincolati ai sensi degli articoli 1, 2 e 5 della legge n. 1089/1939 e

della legge sul patrimonio archivistico (legge n. 1409/1963), i beni d’interesse culturale non ancora

notificati, esclusi quelli archivistici e compresi, invece, le opere d’arte contemporanea.

Il procedimento per la cessione del bene culturale si articola in più fasi che iniziano dalla

presentazione, da parte della soprintendenza competente per territorio, al Ministro per i beni e

attività culturali della proposta di cessione formulata dal privato e dallo stesso sottoscritta, corredata

dalla documentazione idonea ad identificare il bene e le sue caratteristiche. Segue, poi, la

determinazione delle condizioni e del valore del bene offerto da parte di una Commissione

interministeriale, composta dal Ministro e da rappresentanti del Ministero dell’economia e finanze;

in questa fase è altresì prevista la possibilità per l’interessato di essere ascoltato dalla Commissione.

La cessione e, quindi, il relativo contratto si conclude quando all’amministrazione giunge

l’accettazione del privato dell’offerta del Ministro formulata con apposito decreto.

Il procedimento descritto è il risultato delle modifiche che vi ha apportato la legge n.

127/1997101, la quale ha, infatti, introdotto alcune forme di snellimento in materia di pagamento

dell’imposta mediante cessione dei beni culturali, così da assicurare allo Stato l’acquisizione dei

beni culturali in tempi molto più rapidi. Precisamente, è stata effettuata una semplificazione

procedurale attraverso l’eliminazione del coinvolgimento degli enti pubblici territoriali102, nonché

della nomina in seno alla commissione di rappresentanti per ciascuno di essi; è stata soppressa,

99 La deducibilità dal reddito delle spese affrontate per tali finalità, inizialmente fissata nella misura del 27 per cento, è stata ridotta nel corso degli anni fino al 19 per cento. Tale ultima percentuale è stata introdotta dal d.lgs. n. 446/1997, in G.U. 23 dicembre 1997, suppl. ord. N. 252/L. Cfr. R. Tamiozzo, La legislazione dei beni culturali e ambientali, Milano, Giuffrè, 2000, p. 222. 100 Cfr. L. Ferlazzo Natoli, M.V. Serranò, Il regime tributario dei beni culturali, in Fisco, 1993, p. 7945 ss.; L. Zanetti, Gli strumenti di sostegno alla cultura tra pubblico e privato: il nuovo assetto delle agevolazioni fiscali al mecenatismo culturale, in Riv. di arti e diritto on line, www.aedon.mulino.it, 2001, n. 2. 101 Cosiddetta legge Bassanini bis, dal nome del suo proponente, pubblicata il 17 maggio 1997 in Supplemento ordinario n. 98/L alla G.U. n. 113. 102 Previsto dall’art 28 bis, comma 5, della legge 512/1982.

22

inoltre, la funzione dichiarativo-costitutiva affidata al comitato di settore del Consiglio Nazionale

per i beni culturali e ambientali, ora di competenza dell’amministrazione attiva.

Rientra tra gli istituti previsti dalla legge per incentivare la conservazione, il restauro e la

fruizione pubblica delle opere d’arte, oltre quelli già menzionati delle esenzioni fiscali103 e del

pagamento d’imposte mediante cessione dei beni culturali, anche la sponsorizzazione104.

Con tale formula ci si riferisce all’accordo intercorrente tra un operatore economico, lo

sponsor, che, per strategia aziendale utilizza l’immagine fornitagli da un altro soggetto e il titolare

dell’immagine, il quale opera nel settore dei beni culturali ed accetta di consentirne l’utilizzazione

al fine di valorizzare il bene o di incentivarne la fruizione

Nel settore dei beni culturali le sponsorizzazioni stanno dando una prova complessivamente

positiva105. L’art. 3 della legge 512/1982 prevede, infatti, la deducibilità dal reddito delle persone

fisiche e giuridiche delle erogazioni liberali in cui si sostanziano le sponsorizzazioni, con l’effetto di

stimolare l’interesse dei privati a sostenere la realizzazione di iniziative concernenti il settore dei

beni culturali con un indubbio ritorno di immagine, il cui conseguimento viene a costare in realtà

meno di ciò che è stato speso106. Alla luce di quanto appena esposto si spiega allora perché,

traducendosi il risparmio fiscale in un costo pubblico, l’iniziativa di sponsorizzazione non potrà

svolgersi al di fuori dei presupposti fissati dalla legge.

In particolare, l’art. 3 della legge n. 512 prevede che le mostre, le esposizioni, gli studi e le

ricerche debbano essere autorizzate dal Ministero per i beni e le attività culturali, previo parere del

competente comitato di settore del Consiglio nazionale per i beni culturali ed ambientali e che lo

stesso Ministero stabilisca i tempi necessari per l’utilizzo dei fondi da parte di associazioni

legalmente riconosciute, istituzioni e fondazioni destinatarie di sponsorizzazioni, nonché controlli

l’impiego delle medesime erogazioni.

La legge 512/1998 è da leggere in collegamento sia con l’art. 43, della legge 449/1997, sia

con l’art. 119 del Tuel.

Il primo ha previsto la possibilità che le pubbliche amministrazioni, al fine di favorire

l’innovazione dell’organizzazione amministrativa e di realizzare maggiori economie, stipulino

contratti di sponsorizzazione ed accordi di collaborazione con soggetti privati e associazioni, senza

fini di lucro, costituite con atto notarile, ma ha pure espressamente condizionato l’esercizio della

103 Ossia la sottrazione totale al pagamento di determinate imposte (principalmente quelle di successione) di beni di rilevante interesse storico. 104Ossia, secondo la formulazione della legge n. 512/1982, “le erogazioni liberali effettuate per l’acquisto, la manutenzione, la protezione o il restauro dei beni culturali” e “per l’organizzazione di mostre e di esposizioni di rilevante interesse scientifico e culturale”. 105 R. Tamiozzo, La legislazione dei beni culturali, op. cit., p. 235. 106Infatti, su un’aliquota tributaria di circa il 50%, la detrazione del 19% comporta che l’onere fiscale viene a ridursi e conseguentemente diminuisce l’entrata fiscale relativa.

23

facoltà in questione alla circostanza per cui le relative iniziative devono essere dirette al

perseguimento di interessi pubblici, devono escludere forme di conflitto di interesse tra l’attività

pubblica e quella privata e devono comportare risparmi di spesa rispetto agli stanziamenti disposti.

Con l’art. 119 del Testo unico degli enti locali, il legislatore ha poi esteso a comuni, province

ed altri enti locali la descritta possibilità di stipulare contratti di sponsorizzazione e accordi di

collaborazione, nonché convenzioni con soggetti pubblici o privati diretti a fornire consulenze o

servizi aggiuntivi107.

In proposito, deve anche menzionarsi la recente disposizione, recata dall’art. 2 del d.lg.

30/2004, concernente la disciplina degli interventi sui beni sottoposti a tutela ex d.lg. 490/1999,

realizzati mediante sponsorizzazione. Precisamente, si prevede che i lavori di cui al d.lg. 30/2004

possano essere realizzati mediante contratti di sponsorizzazione, a cura e a spese dello sponsor. In

questo caso, non trovano applicazione le disposizioni nazionali e regionali in materia di appalti di

lavori pubblici, ad eccezione di quelle sulla qualificazione dei progettisti e dei soggetti esecutori108.

La norma, invece, fa salva l’applicazione dei principi e dei limiti stabiliti in materia dalla normativa

comunitaria109.

2.4 Decentramento amministrativo e trattamento giuridico dei beni culturali nel d.lg.

112/1998 e nel t.u.b.cult. 490/1999

2.4.1 La tutela

Si è già osservato al paragrafo 2.2.1 come il legislatore del 1998 abbia perso un’importante

occasione di costruire una nozione unitaria di bene culturale, comprensiva cioè anche dell’attività

culturale.

Infatti, ai sensi dell’art. 148 del d.lgs. 112/1998, le attività culturali, distinte dai beni culturali,

di cui alla lettera a), si specificano nella tutela: lett.c), nella gestione: lett.d), nella valorizzazione:

lett.e), nelle attività culturali in senso stretto: lett.f) e nella promozione: lett.g).

107 In questi termini, S. Mezzacapo, Contratti curati e sovvenzionati dallo sponsor, in Guida al diritto, 2004, n. 7. 108 Cfr. art. 2, co. 1, d.lg. 30/2004. 109 Un antecedente normativo diretto della disposizione in esame si rinviene, peraltro, nel disposto di cui all’art. 2, co. 6 della legge quadro sui lavori pubblici, introdotto dall’art. 7 della lege 166/2002: “le disposizioni della presente legge, ad esclusione dell’art. 8, non si applicano ai contratti di sponsorizzazione di cui all’art. 119 del citato testo unico di cui al decreto legislativo n. 267/2000, ed all’art. 43 della legge 27 dicembre 1997, n. 449, ovvero ai contratti a questi ultimi assimilabili, aventi ad oggetto interventi di cui al comma 1, ivi compresi gli interventi di restauro e manutenzione di beni mobili e delle superfici decorate di beni architettonici sottoposti alle disposizioni di tutela di cui al Titolo I del testo unico delle disposizioni legislative in materia di beni culturali ed ambientali di cui al decreto legislativo 29 ottobre 1999, n. 490”. La nuova normativa contenuta nel d.lg. 30/2004, non comporta comunque l’abrogazione di tale disposizione, avente un ambito d’applicazione più vasto del solo settore degli interventi sui beni sottoposti a tutela.

24

Ai sensi dell’art. 148 lett.a), per tutela si intende ogni attività diretta a riconoscere,

conservare e proteggere i beni culturali e ambientali. L’interpretazione di tale norma, al momento

della sua emanazione, andava, tuttavia, effettuata alla luce delle legge delega 59/1997 e della legge

1089/1939 (c.d. legge Bottai), rappresentando quest’ultima la principale fonte normativa o se si

preferisce l’archetipo di tutta la disciplina in materia di beni culturali.

Oggi, l’esame della disposizione non può non tener conto e del t.u.b.cult. 490/1999 e del

nuovo Titolo V della Carta costituzionale, come riformulato dalla legge costituzionale 3/2001, che

ha ridefinito l’assetto delle competenze tra Stato e autonomie locali.

Ai sensi del nuovo art. 117 Cost. la materia dell’attività di tutela è affidata alla legislazione

esclusiva dello Stato mentre l’attività di valorizzazione è conferita alla potestà legislativa

concorrente Stato-regioni. Tuttavia, con riguardo alla sua corretta individuazione essa continua a

presentare i medesimi dubbi interpretativi già affiorati con il d.lg. 112/1998, che, in esecuzione

della legge delega 59/1997, si proponeva di attuare sul piano concreto e operativo il decentramento

amministrativo a costituzione invariata, attraverso il conferimento di compiti e funzioni dello Stato

agli enti locali.

Le difficoltà interpretative sorgono in quanto nella normativa sui beni culturali sono state

accolte due opposte concezioni di tutela dei beni culturali: quella risalente alla legge 1089/1939 e

successivamente rifluita nel t.u.b.cult. 490/1999 e quella contenuta all’art. 148 del d.lg. 112/1998.

Secondo la prima concezione, l’attività di tutela si presenta come categoria ampia e

comprensiva delle diverse attività di individuazione, fruizione e valorizzazione, tanto è vero che il

titolo I del t.u.b.cult., relativamente alla tutela, disciplina i procedimenti di individuazione dei beni

da tutelare, la conservazione, i controlli, il restauro, la circolazione nazionale ed internazionale, i

ritrovamenti e le scoperte, la valorizzazione ed il godimento pubblico, le sanzioni penali ed

amministrative. Una tutela intesa, insomma, nella sua forma più dinamica e che sembra ricevere

avallo dall’art. 9 Cost.

La seconda concezione di tutela è, invece, più ristretta e limitata al profilo statico; essa infatti

si distingue sia dall’attività di gestione definita “l’attività organizzativa diretta alla fruizione dei

beni culturali” sia dalla valorizzazione intesa come “attività diretta a migliorare la condizione di

fruizione e conservazione”.

L’apparente preferenza per la concezione statica pare, tuttavia, posta in dubbio dal

successivo art. 149 del d.lg. 112 che, con carattere derogatorio, mantiene allo Stato le funzioni di

tutela che si specificano nelle espropriazioni e concessioni d’uso, istituti che nel t.u.b.cult. sono tesi

ad assicurare prevalentemente la fruizione e non la mera conservazione del bene culturale.110

110 F. S. Marini, Lo statuto costituzionale dei beni culturali, op.cit., p. 279.

25

La tutela rientra perciò, ai sensi dell’art. 149, tra i compiti e funzioni statali e la sua

accezione statica e ristretta rinvenibile all’art. 148, perché limitata alla conservazione e protezione,

risulta poco convincente se si pensa che la norma è suscettibile d’interpretazione estensiva per la

genericità della sua formulazione.111 Tale interpretazione estensiva mal si conciliava nell’ambito dei

conferimenti con il carattere derogatorio del mantenimento allo Stato non della materia tutela ma di

compiti e funzioni a questa riconducibili. La genericità della definizione, come osservato dalla

dottrina112, ha causato sovrapposizioni con le attività di gestione e valorizzazione conferite agli enti

locali.

Alla luce di tali considerazioni, una critica a volte molto dura ha coinvolto l’articolato

normativo. In effetti, come rilevato da questa dottrina, non si riscontra nel testo normativo una

definizione precisa di tutela come nemmeno, d’altronde, delle altre attività che, presentando

continui momenti di sovrapposizione, rendono difficile ogni tentativo di accordo interpretativo.

Un tentativo di definire con chiarezza la linea di distinzione tra tutela e valorizzazione, anche

alla luce della riforma costituzionale, proviene da una recente pronuncia del giudice delle leggi per

un presunto conflitto di attribuzione tra Stato e Regione, lamentato dalla Regione Toscana per la

violazione dei commi terzo, quarto e sesto dell’art. 117 Cost., quale riformulato dalla legge cost.

3/2001113.

In particolare, benché il d.lg. 112/1998 sia stato emanato in un momento antecedente la

riforma costituzionale, la Corte ha ritenuto114 che utili elementi per la distinzione tra tutela e

valorizzazione dei beni culturali possono essere desunti dagli art. 148, 149, 150 e 152 di tale

decreto. La tutela e la valorizzazione dei beni culturali, nelle normative anteriori all’entrata in

vigore della l. cost. n. 3 del 2001, sono state considerate attività strettamente connesse e a volte, ad

una lettura non approfondita, sovrapponibili. Tuttavia, le espressioni che, isolatamente considerate,

non denotano nette differenze tra tutela e valorizzazione, riportate nei loro contesti normativi

dimostrano che la prima è diretta principalmente ad impedire che il bene possa degradarsi nella sua

struttura fisica e quindi nel suo contenuto culturale; la valorizzazione, invece, è diretta soprattutto

alla fruizione del bene culturale, sicchè anche il miglioramento dello stato di conservazione attiene

a quest’ultima nei luoghi in cui avviene la fruizione ed ai modi di questa. Ciò posto, il restauro, alla

111 M. Cammelli, Il decentramento difficile, in Riv. di arti e diritto on line, www.aedon.mulino.it., 2001, n.2. 112 M. P. Chiti, La nuova nozione di “beni culturali” nel d.lg. 112/1998: prime note esegetiche, op. cit. 113 Sent. 13 gennaio 2004, n. 9, consultabile sul sito della Corte Costituzionale, www.cortecostituzionale.it. In particolare, la regione sosteneva che lo Stato e per esso il Ministro dei beni e attività culturali, avendo regolato con il decreto n. 420/2001, i requisiti di qualificazione dei soggetti esecutori dei lavori di restauro e manutenzione dei beni mobili, avrebbe violato inevitabilmente l’art. 117, che ricomprende la valorizzazione dei beni culturali tra le materie di legislazione concorrente per cui lo Stato non ha potere regolamentare. 114 Confermando, peraltro, un orientamento già espresso con la sentenza 94/2003.

26

luce della definizione fornitane dal t.u.b.cult115, si presenta come un’attività in cui si esplica la

tutela, essendo connotato dallo scopo di preservare il bene culturale, garantendone la conservazione

nel tempo. Per tali ragioni si deve ritenere che, anche dopo la riforma del Titolo V, lo Stato possa

disciplinare con propri atti di natura regolamentare la materia.

2.4.2. La gestione

In passato, la legge 1089/1939 qualificava la gestione dei beni culturali come ogni attività

diretta a permettere la conservazione, l’integrità e la sicurezza del bene; ai sensi dell’art. 148 co.1,

lett. d), d.lgs. 112/1998 è individuata come “ogni attività diretta, mediante l’organizzazione di

risorse umane e materiali, ad assicurare la fruizione dei beni culturali e ambientali concorrendo al

perseguimento delle finalità di tutela e di valorizzazione”. Da tale definizione, si può evincere come

la gestione rappresenti un anello di raccordo fondamentale con le altre due funzioni o, come è stato

detto116, “segmento iniziale” necessario per la stessa sussistenza delle altre funzioni; è indubbio,

infatti, come la gestione sia l’attività su cui puntare per perseguire flessibilità, efficienza ed

economicità in questo settore.117

Il decreto legislativo, sulla base dell’indicazione contenuta all’art. 17 della legge delega

127/1997, prevede che la gestione sia ripartita tra Stato ed enti autonomi territoriali, secondo le

modalità previste dalla commissione paritetica di cui all’art. 150 del d.lgs. 112/1998; tale

ripartizione risponde al principio di sussidiarietà che dovrebbe condurre alla “autorità

territorialmente e funzionalmente più vicina ai cittadini interessati”.118

La scelta del legislatore, dunque, si è orientata nel senso di prevedere un trasferimento e, di

conseguenza, una ripartizione tra Stato ed enti territoriali della sola funzione della gestione, cui non

ha fatto seguito pure il trasferimento della titolarità dei beni; una scelta che se, da un lato, non è

andata esente dalle critiche di taluna dottrina119, dall’altro è pienamente conforme ai principi della

legge delega.120

115 A mente dell’art. 34 del t.u. per restauro si intende qualsiasi intervento avente ad oggetto l’esecuzione di opere direttamente sul bene, caratterizzate dal fine di mantenerne l’integrità fisica e di garantirne la conservazione del valore culturale; una definizione volutamente generica che consente di far rientrare nella disciplina tutti i possibili interventi diretti sul bene, compresi gli interventi di manutenzione ordinaria e straordinaria. In aderenza, poi, alla Carta internazionale del restauro del 1964 e di quella del 1972, l’art. 34 t.u. implicitamente attrae nel restauro l’attività preventiva della manutenzione che, tuttavia, non ne costituisce un momento identificativo. 116 S. Foà, La gestione dei beni culturali, Torino, Giappichelli, 2001, p. 35. 117 A. Pontrelli, La gestione, la valorizzazione e la circolazione dei beni del patrimonio culturale nel diritto interno e comunitario, in La cultura e i suoi beni giuridici, Giuffrè, 1999, p. 47. 118 Art. 4, co. 3, lett. a e g, l. n. 59/1997. 119 M. Cammelli, Il decentramento difficile, op. cit., p. 4. 120 Art. 17 l. n. 127/1997. Cfr. in tal senso M. Meschino, Beni e attività culturali nel d.lgs. 112/1998: una proposta di lettura, in Riv. di arti e diritto on line, www.aedon.mulino.it.

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In merito alla ripartizione della gestione, la commissione paritetica “individua i musei o altri

beni culturali statali la cui gestione rimane allo Stato e quelli per i quali essa è trasferita, secondo il

principio di sussidiarietà, alle regioni, province e comuni”; in particolare, questo trasferimento

riguarda l’autonomo esercizio delle attività concernenti: a) l’organizzazione, il funzionamento, la

disciplina del personale, i servizi aggiuntivi, le riproduzioni e le concessioni d’uso dei beni; b) la

manutenzione, la sicurezza, l’integrità dei beni, lo sviluppo delle raccolte museali121; c) la fruizione

pubblica dei beni.

Al d.lgs. 112/1998 va poi affiancata la normativa contenuta nel t.u.b.cult. n. 490/1999 che se,

da un lato, non contiene una definizione della gestione tuttavia, dall’altro lato, ne arricchisce la

disciplina normativa della conservazione estendendola ai controlli e al restauro.

Specificamente nell’ambito della sezione dedicata ai controlli, l’art. 21 del t.u.b.cult.

contempla il divieto di demolizione e modificazione del bene culturale senza autorizzazione del

Ministro. Il divieto risponde all’evidente esigenza di tutela dell’interesse pubblico: il mantenimento

nel tempo del valore storico artistico del bene. Per demolizione si intende la soppressione fisica del

bene che però, come afferma il divieto, può essere autorizzata dal ministero122. E’ tuttavia

giocoforza ritenere che non potrà mai trattarsi di demolizione integrale in quanto ciò comporterebbe

la rinuncia irreversibile all’interesse tutelato.123

Altro divieto di notevole rilievo è quello di destinazione e uso del bene culturale non

compatibile con il suo valore storico e artistico ovvero con esposizione a pericolo della sua

conservazione o integrità: tale limitazione è diretta conseguenza dell’appartenenza del bene al

dominio pubblico.

La riformulazione dell’art. 117 Cost. ha notevolmente complicato lo scenario della

competenza legislativa dell’attività gestione. E’ incerto, infatti, se l’omessa previsione della

gestione nell’elenco dell’art. 117 valga a far rientrare la medesima attività nell’area della

competenza legislativa esclusiva della Regione.

Se così fosse, la gestione non sarebbe riconducibile alla materia della tutela dei beni culturali

di cui all’art. 117, comma 2, lett. s). Si tratterebbe in ogni caso di un ambito piuttosto ristretto

attenendo la gestione alla disciplina organizzativa e non a quella sostanziale e vincolistica.124

121 Nell’integrità dei beni va ricompresa l’attività di restauro in passato concettualmente separata dall’attività di manutenzione. 122 Le competenze tra Ministero e Soprintendenza possono apparire concorrenti e sovrapponibili ai sensi degli artt. 21 e 23. E’ legittimo, tuttavia, ricondurre alla competenza ministeriale l’autorizzazione alla diretta trasformazione del bene e alla Soprintendenza la valutazione delle opere in sé considerate secondo un’attività di ordine prevalentemente tecnico. Nella prassi la valutazione della Soprintendenza ha finito con l’assorbire ogni altra e diversa competenza del Ministero, il cui intervento è sempre possibile. Da negare è, invece, una sfera di competenza autonoma della Soprintendenza. 123 F. Baldi, Il testo unico sui beni culturali e ambientali, a cura di G. Caia, Giuffrè, 2000, p. 41 ss. 124 F. S. Marini, Lo statuto costituzionale dei beni culturali, op. cit., p. 281.

28

2.4.3 La valorizzazione

Il concetto di valorizzazione125 è entrato nel nostro ordinamento col D.P.R. 805/1975, senza

però che si operasse una distinzione dalla nozione di tutela per lo più fondata sulla funzione

conservativa dei beni, funzione assente nella valorizzazione.126

In realtà, l’elemento discretivo tra le due attività c’è e non è di poco conto se si considera che

la valorizzazione attiene, più che al bene, all’organizzazione finalizzata alla tutela e alla gestione

così da assicurare al bene culturale l’incremento della qualità economica attraverso maggiori entrate

finanziarie; tutela e valorizzazione pur distinte risultano tuttavia funzionalmente collegate nel senso

che non ci può essere fruizione senza una previa attività di conservazione.127

Tuttavia, l’incremento economico del bene non può costituire in un ordinamento

democratico e pluralistico come il nostro il fine ultimo dell’attività di valorizzazione128; essa più

opportunamente mira al soddisfacimento dell’interesse pubblico alla fruizione del bene medesimo.

Questa soluzione è stata accolta dal d.lgs. 112/1998, che all’art. 148, co. 1, lett. e) definisce la

valorizzazione “l’attività diretta a migliorare le condizioni di conoscenza e conservazione dei beni

culturali e ad incrementarne la fruizione”.

Così definendo l’attività di valorizzazione, il legislatore delegato ha cercato di ovviare a

dannose sovrapposizioni tra questa attività e quella della gestione finendo però, col tradurre la

valorizzazione in una categoria priva di una propria specificità dal punto di vista teleologico ed

individuabile, invece, secondo un criterio quantitativo. Il riferimento al “miglioramento” della

conoscenza e conservazione e all’ “incremento” della fruizione è stato, infatti, interpretato nel senso

di individuare la valorizzazione come attività qualitativamente analoga alla tutela e alla gestione ma

caratterizzata da standard più elevati.129

Più agevole appare, invece, la distinzione tra la valorizzazione e la promozione e

organizzazione delle attività culturali sulla base del criterio della materialità del bene culturale. Ciò

significa che se la res d’interesse storico o artistico è già venuta ad esistenza le attività che ad essa

si riferiscono riguarderanno ora la tutela, ora la valorizzazione, ora la gestione; se il bene è ancora

in fieri, le relative attività saranno riconducibili alla promozione e all’organizzazione.

125 Cfr. L. Casini, La valorizzazione dei beni culturali, in Riv. trim. dir. pubbl., 2001, fasc. 3, p. 651-707. 126 Cfr. C. Cost. 13 gennaio 2004, n. 18 cit. 127 V. Russo, La valorizzazione dei beni culturali, in La cultura e i suoi beni giuridici, Giuffrè, 1999, p. 35. 128 M. Ainis, M. Fiorillo, I beni culturali, op. cit., p. 1478. 129 F. S. Marini, Lo statuto costituzionale dei beni culturali, op. cit., p. 282.

29

Relativamente alla ripartizione delle funzioni legislative la valorizzazione, prima della legge

costituzionale n. 3/2001, era affidata alla cura dello Stato, delle regioni e degli enti locali, ciascuno

nel proprio ambito (art. 152, co. 1), attraverso forme di cooperazione tra gli stessi.130

Il quadro delle competenze risulta oggi profondamente innovato a seguito della modifica del

titolo V della Costituzione: la valorizzazione, come pure la promozione e organizzazione di attività

culturali, sono affidati alla potestà concorrente dello Stato e degli enti territoriali, rimanendo alla

legislazione statale il compito esclusivo di stabilire i principi fondamentali della materia. Le

funzioni amministrative sia della tutela che della valorizzazione sono attribuite ai comuni, salvo il

conferimento allo Stato o alle regioni per assicurarne l’esercizio unitario in base ai principi di

sussidiarietà, adeguatezza e differenziazione.131

Il t.u.b.cult. n. 490/1990, pur dedicando alla valorizzazione l’intero capo VI del titolo I,

ripartito in tre sezioni relative all’espropriazione, fruizione ed uso individuale, risulta nella sostanza

poco innovativo.132

Una parte della dottrina, inoltre, ha affermato che l’analisi della disciplina rivela un

arretramento delle funzioni della valorizzazione, cui vengono sottratte quelle di organizzazione

delle attività didattiche, mostre ed eventi culturali prima contemplate dal d.lgs. 112/1998: il tutto a

rischio dell’onnicomprensività dell’assorbente attività di tutela.133

2.4.4 La circolazione

La circolazione dei beni culturali interessa sia il piano nazionale che quello internazionale.

130 Art. 3, co. 1, lett.c), legge n. 59/1997. 131 Secondo questa lettura il modello sarebbe a “cascata” nel senso che indipendentemente dalla materia (con l’unica garanzia per le regioni del controllo della Corte Costituzionale sull’eccesso di potere legislativo) la legge statale avrebbe la competenza di valutare le esigenze di esercizio unitario a livello nazionale, avocando a sé le corrispondenti funzioni amministrative. La regione interverrebbe in un secondo momento sulle funzioni non allocate dallo Stato, stabilendo quali debbano essere conferite a sé, alle province, alle città metropolitane e quali rimangano ai comuni. Secondo altro orientamento si dovrebbe ricorrere al criterio della specialità tra materie nel senso che si dovrebbe accordare preferenza alle materie-attività o materie-oggetto rispetto alle materie più generali che rientrano nell’ordinamento amministrativo dello Stato. Ciò vuol significare che ove lo Stato eserciti una competenza in una materia settoriale non lo fa illegittimamente, ma se contrasta con una diversa disciplina regionale a quest’ultima sarà data la preferenza. Cfr. A. Poggi, Dopo la revisione costituzionale: i beni culturali e gli scogli del decentramento possibile, in Riv. di arti e diritto on line, www.aedon.mulino.it., 2002. 132 Invero relativamente alla sezione della promozione e sviluppo della fruizione, l’art. 104 prevede la cooperazione tra Stato, regione ed enti locali già contemplato dall’art. 152 del d.lgs. 112/1998; l’art. 105 enuclea la possibilità per il Ministero di concludere accordi con altri enti pubblici e privati un’indicazione più specificamente disciplinata dall’art. 10 del d.lgs. n. 368/1998. Quanto mai opportuna è stata, invece, la previsione della collaborazione col mondo della scuola soprattutto in considerazione dell’art. 104 cosicchè ministero, regioni ed enti locali favoriscano la fruizione del patrimonio artistico da parte degli studenti tenendo conto delle loro particolari esigenze. 133 M. Ainis, M. Fiorillo, I beni culturali, op. cit., p. 1481; M. P. Chiti, La nuova nozione di beni culturali nel d.lg. 112/1998: prime note esegetiche, in Riv. di arti e diritto on line, www.aedon.mulino.it, 1998, n. 1, p. 4.

30

Quanto al primo, ci si è chiesti se i beni culturali siano sottoposti al regime di diritto

comune oppure ad una disciplina di diritto speciale: alla luce di un’interpretazione meramente

letterale, l’art. 839 c.c. deporrebbe in tale ultimo senso.

Tuttavia, una parte della dottrina non ha mancato di rilevare, argomentando sulla base del

combinato disposto degli artt. 828 e 830 c.c.134, che, pur rispettando la priorità delle leggi speciali in

materia, non bisogna disconoscere alle norme del codice civile “la funzione di coprire le lacune o di

chiarire i dubbi che affiorano dalle stesse leggi speciali”.135

La circolazione interna dei beni culturali può essere osservata sotto il profilo della loro

acquisizione alla proprietà pubblica; tra i modi di acquisto spicca, in particolare, la prelazione,136

disciplinata dalla l. n. 1089/1939.

A parte la descrizione dell’istituto, già effettuata al par. 1, cui si rinvia, è opportuno in tale

sede mettere in evidenza come la prelazione137 sia il modo di acquisto della proprietà a favore dello

Stato più conveniente dal punto di vista economico, potendo lo stesso acquisire la proprietà dei beni

al prezzo fissato dai privati contraenti ed esercitare il suo diritto a distanza di molto tempo, in

condizioni di mercato e monetarie a volte più vantaggiose.138

Passando, invece, alla circolazione internazionale, il t.u.b.cult. riflette lo sforzo di

coniugare i principi derivanti dalla fondamentale legge Bottai (l.n. 1089/1939), che per circa un

sessantennio hanno governato la circolazione dei beni culturali nel nostro Paese, con quelli di

matrice comunitaria.

Si è già visto139 che in tema di circolazione le principali regole contenute dalla l. 1089 si

specificavano nel divieto di esportazione delle cose d’interesse artistico, storico, archeologico o

etnografico, qualora la stessa causasse un ingente danno al patrimonio storico e culturale nazionale,

demandandone il relativo accertamento all’amministrazione; l’esclusione dalla tutela dei beni d’arte

contemporanea; l’impossibilità per l’amministrazione di servirsi di elenchi “chiusi”.

Tale disciplina è rimasta nella sostanza in piedi per lungo tempo con l’unica eccezione

dell’abolizione della tassa sull’esportazione, in quanto giudicata dalla Corte di giustizia nella

sentenza n. 7 del 1968, incompatibile con le disposizioni del Trattato di Roma del 1957, nella

misura in cui si applicava all’esportazione verso Stati membri della Comunità.

134 Relativi alla disciplina dei beni che costituiscono il patrimonio dello Stato e degli enti pubblici non territoriali. 135 R. Perchinunno, Profili privatistici e sistema di circolazione dei beni culturali: il problema della prelazione artistica, in La cultura e i suoi beni giuridici, Giuffrè, 1999, p. 173 ss. 136 Oltre alla prelazione, concorrono il ritrovamento o la scoperta e l’espropriazione. 137 Da sempre definita dalla giurisprudenza pressocchè unanime come negozio di diritto pubblico di tipo ablatorio, la Corte Costituzionale nella sentenza n. 269/1995 (in Foro It., 1996, I, 807) ne ha negato l’assimilazione ai provvedimenti espropriativi rimettendone il prezzo alla libera contrattazione delle parti. 138 Cons. Stato, in Cons. Stato, n. 129, 1982, I, 356. 139 Par. 1, cui si rinvia pure per la descrizione del procedimento per il rilascio della licenza d’esportazione.

31

La legge 30 marzo 1998, n. 88, se, da un lato, ha inteso recepire, sia pure con grave ritardo,

la direttiva 93/7 Cee140, dall’altro, ha pienamente riconfermato i principi della legge 1089

sull’esportazione,141 pur sostituendo i termini “uscita” ed “ingresso” dal territorio nazionale con

quelli di esportazione ed importazione prescritti dalla direttiva comunitaria limitatamente alla

circolazione dei beni culturali nel territorio dell’Unione142.

In sostanza, dunque, i beni del patrimonio nazionale continuano a non uscire dal territorio

nazionale qualora ne derivi un danno.

Significativa è la novità dell’indicazione tra i beni per i quali è prescritto il divieto di uscita

di quelli ricompresi nell’allegato della direttiva comunitaria143: quest’ultimi, tuttavia, non rientrano

fra i beni culturali pleno iure di cui all’art. 1, limitandosi la tutela al solo divieto di circolazione

internazionale.

Con riferimento all’uscita temporanea dal territorio nazionale, l’art. 40 della legge Bottai,

come novellato dalla l. n. 88, inizialmente prevedeva che anche i beni per i quali era vietata l’uscita

definitiva dal territorio nazionale potessero uscire temporaneamente al solo fine della partecipazioni

a manifestazioni culturali, mostre o esposizioni. A causa del mancato raccordo, però, della nuova

legge con le disposizioni di cui all’art. 41 della legge 1089 e con le leggi 328/1950 e 352/1997144,

l’art. 40 fu nuovamente sostituito dalla legge n. 237/1999; il nuovo testo risulta ispirato al favore

per l’uscita dei beni, recuperando tuttavia l’indicazione di quei beni per i quali comunque l’uscita è

vietata ed introducendo al contempo la figura del responsabile della custodia del bene all’estero.

La normativa descritta è stata, in via del tutto marginale, modificata dal t.u.b. cult. n.

490/1999 che, anzi, riporta pressoché integralmente la disciplina sulla circolazione contenuta nella

legge n. 88. Ciò si evince proprio dalla normativa dedicata all’uscita e all’ingresso nel territorio

nazionale, contenuta nella Sezione I del Capo IV del Titolo I del t.u.b.cult., e costruita intorno alla

legge n. 1089, come novellata dalla legge n. 88.145

140 Questa direttiva aveva lo scopo di agevolare la restituzione di un bene culturale illecitamente uscito da uno Stato membro, atteggiandosi a strumento aggiuntivo alle forme di tutela già esistenti. L’interesse tutelato è quello alla permanenza fisica delle cose facenti parte del patrimonio culturale nazionale all’interno del territorio dello Stato, a prescindere dalla loro situazione proprietaria. 141 D. Ravenna, Il testo unico sui beni culturali e ambientali, a cura di G. Caia, Giuffrè, 2000, p. 127. 142 Cfr. A.M. Schwarzenberg, Tutela e circolazione infracomunitaria del patrimonio culturale, Rimini, Maggioli, 2000. 143 Audiovisivi, mezzi di trasporto, beni e strumenti di interesse per la storia della scienza e della tecnica. Questi beni sono stati poi collocati dall’art. 3 del t.u.b.cult. fra le “categorie speciali di beni culturali”, caratterizzate dall’essere oggetto di una tutela parziale consistente nell’assoggettamento ai limiti all’uscita. 144 Legge Veltroni che agevolava il prestito di opere per mostre promosse all’estero da enti pubblici. 145 La differenza più rilevante rispetto alla l. n. 88 consiste nella restituzione alle regioni della competenza ad autorizzare l’uscita dei beni librari, prima revocata dalla suddetta legge, nonché nell’eliminazione del riferimento alla validità quinquennale del certificato di avvenuta spedizione, possibile fonte di infrazione comunitaria, definitivamente sostituito dall’attestato di libera circolazione di validità triennale.

32

2.5 Le forme di gestione dei beni culturali

2.5.1 La gestione dei beni culturali statali attraverso l’affidamento a privati dei servizi

aggiuntivi

Dalle scelte espresse dal legislatore per la gestione dei beni culturali si evince, innanzi tutto,

una generale tendenza alla ricostruzione di un sistema sensibile più alle istanze della sussidiarietà

orizzontale che verticale. Il centro statale, cioè, ha preferito aprire la gestione dei beni culturali ai

privati piuttosto che alle autonomie locali.

Un primo esempio di tale tendenza è rappresentato dalla legge 14 gennaio 1993, n. 4, c.d.

legge Ronchey146. Tale legge ha previsto l’affidamento ai privati della gestione dei servizi

aggiuntivi a pagamento, definiti dal t.u.b.cult, art 112, in cui sono confluite le disposizioni della

legge Ronchey, “ sevizi di assistenza culturale e di ospitalità”.

Rispetto alla legge Ronchey, che contemplava l’affidamento ai privati in termini di

obbligatorietà, il t.u.b.cult. 490/1999 ha, invece, previsto la possibilità per i funzionari degli istituti

interessati di optare tra la gestione diretta di tali servizi ovvero l’affidamento mediante appalto di

servizi, sulla base della convenienza finanziaria, e dell’insufficienza delle risorse umane e

finanziarie dell’amministrazione

2.5.2 Le esternalizzazioni previste dall’art. 10 del d.lg. 368/1998

Ai sensi dell’art. 10, co. 1, d.lgs. 368/1998, il Ministero per i beni e le attività culturali al fine

di una più efficace valorizzazione dei beni culturali ed ambientali può stipulare accordi con

amministrazioni pubbliche e con soggetti privati e costituire o partecipare ad associazioni,

fondazioni o società147.

Nella sua formulazione originaria, l’art. 10 prevedeva che il ministero potesse ricorrere alle

esternalizzazioni “per il più efficace esercizio delle proprie funzioni” e, in particolare, per quelle di

“valorizzazione dei beni culturali”. A seguito della riforma del Titolo V della Costituzione, tale

articolo è stato spesso censurato nella parte in cui riconosce al ministro la legittimazione ad

intervenire in un ambito, quello della valorizzazione, che risulta ormai sottratto alla potestà

legislativa di dettaglio e regolamentare del centro statale.

146 Recante “Misure urgenti per il funzionamento dei musei statali e disposizioni in materia di biblioteche statali e archivi di Stato”. 147 Siffatta previsione ratifica una prassi consolidata dell’amministrazione che preferisce utilizzare strumenti pattizi e modelli mutuati dal diritto privato.

33

Al fine di riportare la norma nei ranghi del nuovo assetto costituzionale delle competenze tra

centro e periferia, è intervenuto l’art 80, comma 52, della l. 27 dicembre 2002, n. 289148. In

particolare, si è previsto che le esternalizzazioni possano avere ad oggetto “ la gestione dei servizi

relativi ai beni culturali di interesse nazionale individuati ai sensi dell’art. 2, comma 1, lettere b e c

del regolamento di cui al decreto del Presidente della repubblica 7 settembre 2000, n. 283”, ossia ai

“ beni di interesse particolarmente importante a causa del loro riferimento con la storia politica

militare, della letteratura, dell’arte e della cultura in genere”, oltre che ai “beni di interesse

archeologico”. La dimensione nazionale dell’interesse ad essi correlato diviene, dunque, il

fondamento della conservazione in capo allo Stato della legittimazione in una materia che altrimenti

sarebbe riservata alla competenza legislativa concorrente.

Il d.lg. 368/1998 prevede diversi tipi di strumenti utilizzabili per la realizzazione delle

esternalizzazioni, alcuni dei quali riconducibili ad uno schema contrattuale o pattizio, come accordi,

associazioni, fondazioni e società, altri invece attuabili mediante provvedimenti unilaterali, quali

concessioni o appalti di servizi.

A distanza di anni dal d.lg. 368/1998, è stato approvato un regolamento149 relativo alla

“costituzione e la partecipazione a fondazioni da parte del Ministero per i beni e le attività

culturali”150.

Tale regolamento, in considerazione del fatto che le fondazioni sono chiamate a svolgere

funzioni rientranti nei compiti istituzionali del ministero, attribuisce competenze di particolare

rilevo all’autorità governativa, che solitamente non è dato rinvenire in capo ai fondatori151.

In particolare, al ministero spetta disporre lo scioglimento degli organi della fondazione

quando risultino gravi e ripetute irregolarità nella gestione, ovvero gravi violazioni delle

disposizioni legislative, amministrative e statutarie, che regolano l’attività delle fondazioni, con

conseguente nomina di uno o più commissari straordinari e di un comitato di sorveglianza

composto da tre membri, oltre che disporre l’estinzione della fondazione, in caso di impossibilità a

raggiungere i fini statutari e negli altri casi previsti dallo statuto152.

Al ministero viene, inoltre, riconosciuto il potere di revocare, su indicazione dell’organo di

controllo o del comitato scientifico, la concessione d’uso dei beni culturali conferiti, superando così

il principio civilistico della separazione del patrimonio della fondazione da quello del fondatore153.

148 Legge finanziaria per il 2003. 149 D.m. 27 novembre 2001, n. 491. 150 Cfr. A. Canuti, Il regolamento attuativo dell’art. 10 del d.lgs. 368/1998: un primo commento, consultabile in Riv. di arti e diritto on line, www.aedon.mulino.it , 2000, n.2. 151 Art. 13, d.m. 491/2001. 152 Art. 14, commi 1 e 6, del d.m. 491/2001. 153 Cfr. C. Barbati, Le forme di gestione, in Il diritto dei beni culturali, a cura di C. Barbati, M. Cammelli, G. Sciullo, Il mulino, Bologna, 2003, p. 180 e s.

34

Non ha, invece, trovato concreta realizzazione l’altro strumento previsto dall’art 10 del

d.lg 368/1998, concernente la possibilità per il ministero di costituire o partecipare a società, anche

mediante il conferimento di beni culturali.

A norma dell’art. 10, il conferimento o la costituzione della società doveva, infatti, essere

preceduto dall’adozione di un apposito regolamento ministeriale, del quale, peraltro, era stato

realizzato uno schema dopo la riforma del Titolo V della Costituzione. Il Consiglio di Stato si è,

però, pronunciato in senso contrario all’adozione di tale atto, ritenendo lo Stato privo della

necessaria potestà regolamentare, in quanto la gestione, pur essendo attività finalisticamente neutra,

propedeutica anche alla tutela, non è ad essa pienamente riconducibile.

L’art. 33 della legge 448/2001 (legge finanziaria per il 2002) ha poi introdotto nel d.lg.

368/1998 la lett. b bis, relativa alla concessione della gestione dei servizi. Nella sua formulazione

originaria, poi modificata ad opera dell’art. 80, comma 52, della legge 289/2002, questa prevedeva

che la concessione avesse ad oggetto la “gestione di servizi finalizzata al miglioramento della

fruizione pubblica e della valorizzazione del patrimonio artistico come definiti dall’articolo 152,

comma 3, del d.lg. 112/1998, secondo modalità, criteri e garanzie definiti con regolamento emanato

ai sensi dell’art. 17, comma 3, della legge 23 agosto 1988, n. 400”.

Alcune regioni154 hanno sollevato questione di legittimità costituzionale della norma suddetta

sotto un duplice profilo: da un lato, nella parte in cui disciplina con norme di dettaglio una materia,

la valorizzazione dei beni culturali, riconducibile tra quelle elencate nell’art. 117, terzo comma,

della Costituzione, attribuite alla potestà legislativa concorrente delle regioni; dall’altro, la norma si

porrebbe in contrasto anche con il sesto comma della norma costituzionale, in quanto attribuisce al

ministro un potere regolamentare in una materia di competenza regionale.

La Corte Costituzionale, in una recente pronuncia155, ha dichiarato infondata la questione, in

quanto la norma censurata, rinviando all’art. 152 del d.lg. 112 del 1998 il quale stabilisce, sia pure

ai fini della definizione delle funzioni e dei compiti di valorizzazione dei beni culturali, che Stato,

regioni ed enti locali esercitano le relative attività, “ciascuno nel proprio ambito”, presuppone un

criterio di ripartizione delle competenze, che viene comunemente interpretato nel senso che

ciascuno dei predetti enti è competente ad espletare quelle funzioni e quei compiti riguardo ai beni

culturali, di cui rispettivamente abbia la titolarità. Alla stregua di tale criterio, nella disposizione in

esame appare chiaro che il soggetto che ha la titolarità dei beni culturali in questione è lo Stato,

come anche si ricava dai riferimenti del previsto regolamento ministeriale.

154 Regioni Marche, Toscana, Emilia-Romagna e Umbria. 155 Sent. n. 26 del 20 gennaio 2004, reperibile sul sito www.cortecostituzionale.it

35

Tale posizione della Corte sembra, peraltro, avvalorata dalle recenti modifiche156 del testo

normativo, le quali, eliminando ogni riferimento alle finalità di “valorizzazione del patrimonio

artistico”, prevedono che possa essere data in concessione a soggetti diversi da quelli statali la

gestione di servizi relativi a beni culturali di interesse nazionale.

La dizione della norma, anche dopo le modifiche apportate dalla finanziaria per il 2003,

resta tale da indurre a chiedersi, come già avvenne all’indomani della sua prima approvazione, se

essa valga ad aggiungere qualcosa di diverso rispetto a quanto previsto dalla Legge Ronchey e

recepito nel t.u. b. cult. del 1999157.

2.5.3 Il trasferimento dei diritti sui beni immobili, facenti parte del patrimonio disponibile ed

indisponibile dello Stato, per la gestione, valorizzazione e alienazione alla Patrimonio dello

Stato s.p.a.

L’art. 7 del d.l. 63/2002, convertito in legge n. 112/2002 ha istituito una nuova società la

“Patrimonio dello Stato s.p.a.”, “per la valorizzazione, gestione ed alienazione del patrimonio dello

Stato”.

Trattasi di una società pubblica il cui capitale azionario è interamente attribuito al Ministero

dell’economia e finanze che ha la facoltà, tuttavia, di trasferire a titolo gratuito la totalità delle

azioni o parte di esse alla Cassa depositi e prestiti, alla società Infrastrutture s.p.a. o a società da

questa controllate, ovvero a società il cui capitale sia interamente detenuto dal Ministero stesso.

L’art. 7, co. 10, d.l. 63/2002 dispone che alla Patrimonio dello Stato s.p.a. possano essere

trasferiti diritti pieni o parziali sui beni immobili del patrimonio disponibile ed indisponibile dello

Stato, del demanio e, più in generale, sugli altri beni compresi nel conto generale del patrimonio158

in funzione della gestione, valorizzazione e alienazione dei beni disponibili; della gestione e

valorizzazione dei beni demaniali; della gestione e valorizzazione di concessioni e diritti d’uso.159

Lo stesso articolo sottolinea, comunque, che il trasferimento non ne modifica il regime giuridico

previsto dagli art. 823 e 829, primo comma, del codice civile.

La disposizione di cui all’art. 7, comma 10, in cui si prevede che il trasferimento dei beni

possa essere operato con le modalità e per gli effetti previsti dall’art. 3, comma 1, della legge

410/2001 e cioè provocando il passaggio automatico dei beni al patrimonio disponibile, con

156 Introdotte dall’art. 80 della legge 27 dicembre 2002, n. 289, legge finanziaria per il 2003. 157 In questi termini, C. Barbati, Le forme di gestione, in Il diritto dei beni culturali, a cura di C. Barbati, M. Cammelli, G. Sciullo, Il mulino, Bologna, 2003, p. 184. 158 Per la genericità della norma, quindi, possono essere dimessi anche i beni del patrimonio storico, artistico, culturale ed ambientale. 159 In questi termini, A. Mari, La Patrimonio dello Stato S.p.a., in Giorn. dir. amm., n. 8/2002.

36

conseguente alienabilità degli stessi, ha suscitato vivaci reazioni per il timore che esse valessero ad

autorizzare la dismissione dei beni del patrimonio storico artistico dello Stato160.

Per contenere tali effetti, il 19 dicembre 2002 è stata emanata una direttiva del Cipe, al quale

spetta la definizione delle direttive di massima in base alle quali dovrà agire la società: fra gli

indirizzi fondamentali vi è il richiamo alla necessità che la società valorizzi, gestisca con efficienza

ed alieni il patrimonio dello Stato rispettando requisiti, vincoli e finalità proprie dei beni pubblici e

tutte le tutele esistenti su di essi161.

Particolare incidenza sulla tematica in questione, riveste la verifica dell’interesse culturale

del patrimonio pubblico, introdotta dall’art. 27 del decreto legge 269/2003162, così come modificato

dalla legge di conversione 326/2003. A tal fine, è previsto che lo Stato e gli altri enti o istituti

pubblici, possano richiedere alle soprintendenze la verifica della sussistenza dell’interesse storico,

artistico, archeologico o etnoantropologico. Qualora l’interesse non sia ritenuto sussistente, le cose

sono escluse dalle disposizioni di tutela di cui al testo unico sui beni culturali (d.lg. 490/1999),

ovvero in caso opposto sono sottoposte definitivamente a tutela. Con disposizione introdotta in sede

di conversione, si prevede che l’accertamento positivo della sussistenza dell’interesse culturale

costituisce anche dichiarazione ai sensi degli art. 6 e 7 del d.lg. 490/1999.

Nel caso in cui i beni per i quali non è ritenuto sussistente l’interesse culturale facciano parte

del demanio, le amministrazioni proprietarie provvedono alla loro sdemanializzazione e a seguito di

ciò le cose dovrebbero essere liberamente alienabili163. Il decreto legge espressamente dispone che

le procedure di valorizzazione e dismissione previste dall’art. 3 del decreto legge 351/2001 si

applicano ai beni per cui è dichiarata l’insussistenza dell’interesse storico, artistico, archeologico ed

etnoantropologico.

2.5.4 La gestione dei beni culturali delle autonomie locali

Come è noto, la riforma del 2001, ha introdotto una diversificazione degli statuti organizzativi

dei servizi pubblici locali a seconda della rilevanza industriale o meno dei servizi stessi.

Trattandosi, peraltro, di una connotazione priva di un significato giuridicamente definito la

160 In proposito, si ricorda la scelta del Presidente della Repubblica di inviare, in sede di promulgazione della legge, una lettera al Presidente del Consiglio in cui si richiamava l’attenzione sulla necessità di “assicurare che la valorizzazione del patrimonio sia coerente non solo con i principi di economicità e di redditività ma anche con il rigoroso rispetto dei valori che attengono alle finalità proprie dei beni pubblici, intese alla luce dei principi costituzionali che riguardano la tutela di detti beni, ed in primo luogo di quelli culturali ed ambientali, che costituiscono identità e patrimonio comune di tutto il Paese”. 161 Cfr. C. Barbati, Le forme di gestione, in Il diritto dei beni culturali, a cura di C. Barbati, M. Cammelli, G. Sciullo, Il mulino, Bologna, 2003, p. 188 e s. 162 “Disposizioni urgenti per favorire lo sviluppo e per la correzione dell’andamento dei conti pubblici” 163 Cfr. I. Tricomi, Vendita dei beni culturali: al via il “silenzio - assenso”, in Guida al diritto, n. 48, 2003.

37

disposizione ha suscitato non pochi dubbi in ordine all’esatta collocazione della linea di confine che

distingue gli uni dagli altri.

Tali incertezze, tuttavia, non riguardano la gestione dei beni culturali, per cui è indubbia la

riconduzione nell’ambito dei modelli organizzativi previsti dall’art.113 bis, che si caratterizzano

per la presenza più o meno ampia del privato ovvero dalla sua assenza.

Il fenomeno di coinvolgere i privati nelle attività legate ai beni culturali è andato

intensificandosi col tempo ed ha ricevuto costante avallo dal legislatore164: l’ingresso dei privati

nella gestione dei servizi pubblici locali è stato non solo previsto originariamente agli artt. 22 e 23

della legge n. 142/1990, ma è stato altresì confermato in termini più ampi dall’art. 113 bis del d.lgs.

267/2000, introdotto dall’art. 35 della legge 448/2001.165

Un primo modello si sostanzia nei servizi locali offerti attraverso il meccanismo delle

esternalizzazioni166: in tal caso l’ente locale eroga il servizio attraverso un operatore esterno

all’amministrazione medesima.167 Questo modello può estrinsecarsi con l’affidamento a soggetti

terzi del servizio culturale attraverso la procedura dell’evidenza pubblica. La scelta di ricorrere ad

un sistema di concorrenzialità per il mercato rappresenta una facoltà per l’ente locale, che dovrà

verificare se, nel caso concreto, siano presenti le condizioni legittimanti di tale modello, che l’art.

22 della legge 142/1990 poneva alla base della tradizionale figura concessoria.168

L’affidamento diretto sembra, dunque, comportare la concessione del servizio pubblico locale

che non è più prevista apertis verbis tra le forme di gestione. Non sempre al concessionario sono

trasferiti poteri e compiti riservati dall’ordinamento all’amministrazione, sicchè tali poteri non

saranno oggetto necessario della concessione di servizio pubblico.169 Ciò posto e ripresa, viceversa,

164 Sulla gestione dei beni culturali delle autonomie, cfr. E. Bellezza e F. Florian, Le fondazioni nel terzo millennio: pubblico e privato per il non profit, Firenze, Passigli, 1998; G. Franchi Scarselli, Il modello dell'istituzione guarda al passato, in Riv. di arti e diritto on line, www.aedon.mulino.it, 1998, n. 2; R Grossi, L'esperienza delle istituzioni per la gestione dei servizi culturali degli enti locali in Riv. di arti e diritto on line, www.aedon.mulino.it, 1998, n. 2; G. Franchi Scarselli, Sul disegno di gestire i servizi culturali tramite associazioni e fondazioni, in Riv. di arti e diritto on line, www.aedon.mulino.it, 2000, n. 3; P. Petraroia, Il ruolo delle regioni per la tutela, la valorizzazione e la gestione dei beni culturali: ciò che si «può» fare e ciò che «resta» da fare, in Riv. di arti e diritto on line, www.aedon.mulino.it, 2001, n. 3; R Grossi, Come esternalizzare: il ruolo degli enti locali, ivi; G. Franchi Scarselli, La gestione dei servizi culturali tramite fondazione, in Riv. di arti e diritto on line, www.aedon.mulino.it, 2002, n. 1; M. Cammelli, Decentramento e outsourcing nel settore della cultura: il doppio impasse, in Dir. pubbl., 2002, n. 1, p. 261 ss.; G. Sciullo, I servizi culturali degli enti locali nella finanziaria per il 2002, in Riv. di arti e diritto on line, www.aedon.mulino.it, 2002, n. 1; G. Piperata, I modelli di organizzazione dei servizi culturali: novità, false innovazioni e conferme, in Riv. di arti e diritto on line, www.aedon.mulino.it, 2002, n.1; A. Pericu, Fattispecie e regime della gestione dei servizi pubblici locali privi di rilevanza industriale, in Riv. di arti e diritto on line, www.aedon.mulino.it, 2002, n.1. 165 Legge finanziaria per il 2002. 166 Art. 113 bis, comma 4. 167G. Piperata, I modelli di organizzazione dei servizi culturali: novità, false innovazioni e conferme, in Riv. di arti e diritto on line,, www.aedon.mulino.it, n. 1/2002, p. 6. 168 Trattasi delle ragioni tecniche, economiche e di utilità sociale. 169 R. Cavallo Perin, La struttura della concessione di servizio pubblico locale, cit., p. 70.

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l’idea che dalla concessione sorga un’obbligazione alla prestazione del servizio, si è imposta la

nozione di concessione- contratto e, quindi, la configurazione di un contratto di diritto privato.

Dubbi sono sorti in passato170 sulla compatibilità dell’affidamento diretto a privati di

un’attività economica che può ammettere l’esercizio di attività accessorie in forma imprenditoriale

con le disposizioni comunitarie in tema di tutela della concorrenza: dubbi che in parte possono

essere dissipati mediante il ricorso alla procedura dell’evidenza pubblica ora esplicitamente

contemplata171, in parte attraverso una congrua delimitazione della durata del rapporto con il

singolo concessionario e “predisponendo un programma di erogazione del servizio che consenta

soluzioni tecniche ed economiche utili a mantenere un confronto fra soggetti cui sia stata affidata la

missione di erogare un servizio pubblico”.172

Altro modello è quello della cooperazione173. Esso si caratterizza per una fattiva

cooperazione tra pubblico e privato realizzabile attraverso un’ampia gamma di possibilità

organizzative174, che vanno dall’istituzione alla società di capitali, senza dimenticare l’azienda

speciale, anche consorziale175, e quel modello operativo, intuibile dal tenore dell’art. 10 d.lgs.

368/1998, che risulta ora ratificato dalla l. n. 448, che autorizza gli enti locali a servirsi di

associazioni e fondazioni da loro costituite o partecipate.176

La fondazione di partecipazione si caratterizza per “un’equilibrata sintesi dell’elemento

personale, proprio delle associazioni, e dell’elemento patrimoniale, tipicamente presente nelle

fondazioni”;177 tuttavia essa non implica la mera sussunzione dei modelli privatistici, integrando,

invece, una nuova tipologia di persona collettiva non commerciale.

Infatti, la struttura di questa fondazione si connota nell’associare uno o più fondatori pubblici

o prevalentemente pubblici per la gestione di un patrimonio collettivamente proprio, tramite il quale

soddisfare il servizio pubblico culturale che non è esterno ma aggiornabile in relazione alla

valorizzazione voluta dall’organo che lo amministra.

Si assiste, dunque, al superamento dell’elemento caratteristico della fondazione, consistente

nella separazione della volontà del fondatore da quella degli amministratori, e alla deroga della

vigente configurazione sia dell’ordinamento pubblico che di quello privato in tema di conferimenti

170 Ci si riferisce al disegno di legge precedente alla l. n. 448/2001. 171 Art. 113 bis, co. 4, d.lg. 267/2000 172 S. Foà, La gestione dei beni culturali, op. cit., p. 359. 173 Art. 113 bis, comma 3. 174Stabilizzando ed uniformando l’offerta professionale dei servizi altrimenti troppo esposta alle variabi li politiche locali. 175In dottrina se ne è sostenuta la duplice natura imprenditoriale ed amministrativa, nonché la rigida strumentalità rispetto agli scopi dell’ente. In tal senso G. Caia, L’organizzazione dei servizi pubblici, in Diritto amministrativo, a cura di Mazzarolli, Pericu, Scoca, Bologna, 2001, p. 997 ss. 176 Trattasi comunque di un modello che rimane atipico o extra ordinem. In tal senso G. Franchi Scarselli, La gestione dei servizi culturali tramite fondazione, in Riv. di arti e diritto on line, www.aedon.mulino.it, n. 1/2002, p. 1. 177 E. Bellezza, F. Florian, Le fondazioni nel terzo millennio, Firenze, 1998, p. 63 ss.

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patrimoniali, con il conseguente rischio negativo di non attirare i conferimenti dei finanziatori

privati.178 Alla luce della struttura della fondazione in partecipazione, sarebbe più logico parlare di

nuova tipologia di persona collettiva riconducendo la figura de qua alle “altre istituzioni di carattere

privato” di cui all’art. 12 c.c.

Secondo altro orientamento, sostenuto anche dalla giurisprudenza amministrativa, con il

termine partecipate di cui all’art. 113 bis, co. 3, d.lgs. 267/2000 si deve intendere che l’ente locale

possa non solo costituire da solo ma anche concorrere con altri a costituire una fondazione tipica,

aderendo ad un sottostante negozio.179

Quanto al modello societario, suscita qualche perplessità l’opportunità di ricorrere a questo

strumento per interventi in settori che possono risultare diseconomici. L’art 113 bis ha, comunque,

riconosciuto la sua utilizzabilità anche per servizi privi di rilevanza industriale, ma non per questo

destinati ad una gestione non imprenditoriale, con ciò recependo orientamenti che intanto erano stati

accolti in sede legislativa (cfr. art. 10 del d.lg. 368/1998).

L’ultimo modello è quello dell’intervento diretto in cui massima è la presenza pubblica e,

quindi, del tutto assente è la figura del privato. L’ente locale, in tale ipotesi, eroga il servizio in

prima persona (gestione in economia180) o mediante una propria articolazione (istituzione o azienda

speciale). Questo modello, tuttavia, risulta inutilizzabile, non solo, ove vengano in rilievo servizi

sociali di rilevanza imprenditoriale181, ma di fatto è risultato tale anche con riferimento ai servizi

culturali privi del carattere commerciale. In particolare, la gestione tramite istituzione ha riscosso

scarso successo presso i comuni che, invece, hanno preferito organizzare la gestione dei servizi

culturali attraverso i moduli imprenditoriali.

Ancor prima che il nuovo sistema entrasse pienamente a regime, il legislatore negli ultimi

mesi del 2003 è intervenuto nuovamente in materia, ridisciplinando le forme di gestione dei servizi

pubblici locali per ben due volte: dapprima, con l’art. 14, d.l. 30 settembre 2003, n. 269182 e subito

dopo con l’art. 4, comma 234, legge 24 dicembre 2003, n. 350 ( legge finanziaria per il 2004).

Ne esce un sistema profondamente innovato: in primo luogo, il carattere, già non pienamente

definibile, dell’industrialità del servizio utilizzato per distinguere i due differenti statuti

organizzativi è stato sostituito da quello, ancor più vago, dell’economicità; in secondo luogo, sono

178G. Franchi Scarselli, Sul disegno di gestire i servizi culturali tramite associazioni e fondazioni, in Riv. di arti e diritto on line, www.aedon.mulino.it, n. 3/2000. 179 Cons. Stato, Comm. Spec., parere 20 dicembre 2000, n. 288/2000, in Cons. St., 2001, n. 2, I, 490. In dottrina S. Foà, La gestione dei beni culturali, op. cit., p. 359. 180 Art. 113 bis, comma 2. La gestione in economia è consentita qualora appaia opportuna in ragione delle modeste dimensioni o delle caratteristiche del servizio. Si tratta di una forma di gestione effettuata da articolazioni interne all’ente locale, senza che si dia vita ad un apparato organizzativo distinto e, perciò, inadeguata ad una gestione produttiva. 181 Merlo, Valotti, Delicate alchimie della buona gestione, in Guida agli enti locali, n. 13/1999, p. 10 ss. 182 Convertito in legge 24 novembre 2003, n. 326

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stati ridefiniti gli schemi organizzativi dei sevizi privi di rilevanza economica, riducendone le

possibili soluzioni gestionali adottabili in concreto.

Innanzitutto, il modello dell’esternalizzazione diviene una dinamica esclusiva dello statuto dei

servizi a rilevanza economica183, nel senso che l’abrogazione del comma 4, art. 113 bis, del d.lg.

267/2000, esclude l’affidamento a terzi con gara dell’attività dai moduli gestionali utilizzabili per

l’organizzazione dei servizi locali privi di rilevanza economica184.

Anche il modello della collaborazione pubblico privato, subisce un ridimensionamento ad

opera della riforma del 2003. A prima vista sembrerebbe che, esclusa la particolare formula

collaborativa mediante fondazioni o associazioni prevista solo per i servizi culturali e del tempo

libero dal comma 3 dell’art. 113 bis, del d.lg. 267/2000, il nuovo testo legislativo non contenga più

alcuna possibilità di procedere all’organizzazione dei servizi privi di rilievo economico secondo

formule di collaborazione di tipo societario tra soggetti pubblici e privati. In realtà, è necessario,

comunque, considerare la vigenza dell’art 116 del d.lg. 267/2000, il quale continua a qualificare la

società mista a capitale pubblico minoritario come modello organizzativo dei servizi privi di rilievo

economico.

Risulta, invece, pienamente confermato, e anzi rafforzato dalla riforma, il modello gestorio

dell’intervento diretto degli enti locali. In proposito, di particolare rilievo appare la scelta

legislativa di restringere il ricorso alle dinamiche societarie, legittimando solo l’ipotesi

dell’affidamento diretto alle c.d. società in house o, per meglio dire, “alle società a capitale

interamente pubblico a condizione che gli enti pubblici titolari del capitale sociale esercitino sulla

società un controllo analogo a quello esercitato sui propri servizi e che la società realizzi la parte più

importante della propria attività con l’ente o gli enti pubblici che la controllano”.

È necessario, peraltro, considerare che sia l’art. 113 sia l’art. 113 bis del d.lg. 267/2000 fanno

salve le disposizioni previste dalle discipline di settore, tanto da rendere possibile la previsione che

in futuro sarà forte la tendenza degli enti locali ad abbandonare i modelli contenuti nel quadro

legislativo generale, troppo rigido ed in alcuni casi contraddittorio, a vantaggio di soluzioni

organizzative fornite dalle discipline dei singoli settori in cui si può manifestare l’intervento

pubblico. 185

183 Art. 113, comma 5, lett. a), d.lg. 267/2000. 184 Il legislatore, in considerazione del riferimento alle “ragioni..economiche” quale possibile presupposto applicativo del modello gestorio ha probabilmente ritenuto non più compatibile l’affidamento a terzi con attività di servizio destinate a perdere qualsiasi rilevanza economica. Si tratta, in realtà, di una scelta che appare eccessiva, dato che l’affidamento a terzi avrebbe potuto, comunque, trovare una sua giustificazione nelle altre condizioni richiamate dalla disposizione, come le “ragioni tecniche…o di utilità sociale”. 185 In questi termini, G. Piperita, I servizi culturali nel nuovo ordinamento dei servizi degli enti locali, in Riv. di arti e diritto on line, www.aedon.mulino.it, n. 3/2003.

41

3. Il nuovo codice dei beni culturali e paesaggistici

3.1 Il nuovo codice nel panorama costituzionale

Il d.lg. 22 gennaio 2004, n. 42, ha attuato la delega disposta dall’art. 10 della legge 6 luglio,

2002, n. 137, per la parte relativa alla disciplina dei beni culturali ed ambientali.

Si tratta di un intervento di particolare rilievo, non limitandosi la delega a prevedere un

mero riordino della materia, ma un vero e proprio riassetto186 e limitatamente alla lett. a, relativa ai

beni culturali ed ambientali, la codificazione delle disposizioni legislative.

Come dichiarato dal Ministro per i beni e le attività culturali187, le ragioni della necessità di

procedere al riordino e all’aggiornamento delle norme riguardanti la tutela del patrimonio culturale

non possono che ricondursi alla crescente complessità nello sviluppo del territorio italiano e al

cambiamento del quadro istituzionale intervenuto con la modifica del Titolo V della Costituzione.

Nel rispetto della norma costituzionale, art. 9, attorno alla quale ruota il nuovo codice, esso si

prefigge, in generale, la tutela e la valorizzazione del patrimonio culturale, in quanto finalizzate “a

preservare la memoria della comunità nazionale e a promuovere lo sviluppo culturale del Paese”.

Per quanto concerne l’oggetto del nuovo codice, si è ritenuto di non prendere posizione in

ordine alla risalente e mai sopita disputa dottrinaria sulla nozione di “bene culturale”, giudicandosi

più opportuno, in linea con l’orientamento già seguito dal Testo unico del 1999, accogliere una

nozione “mista” di bene culturale, risultante dalla sintesi della nozione elencativa, offerta dall’art. 2

della legge 1089 del 1939, con la nozione aperta già proposta dalla nota Commissione

“Franceschini” nel 1966.

In questa sede, si tenterà di rendere conto delle principali innovazioni intervenute con il nuovo

codice e riguardanti, in particolare, la definizione dell’attività di tutela e valorizzazione, la

disciplina della dichiarazione dell’interesse culturale e il regime dell’alienabilità dei beni culturali di

proprietà pubblica.

186I principi e i criteri direttivi di attuazione della delega sono stati individuati dal decreto legislativo, oltre che nell’adeguamento agli art. 117 e 118 della Costituzione, nell’adeguamento alla normativa comunitaria e agli accordi internazionali; nel miglioramento dell’efficacia degli interventi concernenti i beni e le attività culturali, anche allo scopo di perseguire l’ottimizzazione delle risorse assegnate e l’incremento delle entrate; nella chiara indicazione delle politiche pubbliche di settore, anche ai fini di una significativa e trasparente impostazione del bilancio; nello snellimento e nella abbreviazione dei procedimenti; nell’adeguamento delle procedure alle nuove tecnologie informatiche; nell’aggiornamento degli strumenti di individuazione, conservazione e protezione dei beni culturali e ambientali, anche attraverso la costituzione di fondazioni aperte alla partecipazine di regioni, enti locali, fondazioni bancarie, soggetti pubblici e privati; nella riorganizzazione dei servizi offerti anche attraverso la concessione a soggetti diversi dallo Stato mediante la costituzione di fondazioni aperte alla partecipazione di regioni, enti locali, fondazioni bancarie, soggetti pubblici e privati; nell’assenza di nuovi o maggiori oneri per il bilancio dello Stato. 187Cfr. Dossier sul nuovo codice dei beni culturali, 16 gennaio, 2004, consultabile sul sito del Governo italiano, Presidenza del Consiglio dei Ministri.

42

3.2 La tutela e la valorizzazione dei beni culturali

La riforma costituzionale ha distinto l’attività di tutela da quella di valorizzazione, ponendo

non pochi dubbi in ordine alla compatibilità delle disposizioni che, a Costituzione invariata,

avevano realizzato delle forme di decentramento in materia. Il codice ha avuto, quindi, l’arduo

compito di ricomporre la disciplina sulla base dei nuovi equilibri costituzionali.

Innanzi tutto, si è provveduto ad introdurre per la prima volta nella normativa sostanziale di

settore le nozioni di “tutela” e “valorizzazione”, dando loro un contenuto chiaro e rigoroso,

risolvendo così i dubbi e le ambiguità che la formulazione contenuta nel d.lg. 112/1998 avevano

ingenerato.

La tutela è stata individuata nelle funzioni e nella disciplina delle attività dirette, sulla base di

un’adeguata attività conoscitiva, ad individuare i beni costituenti il patrimonio culturale ed a

garantirne la protezione e la conservazione per fini di pubblica fruizione ( art. 3).

L’attività di valorizzazione è stata, invece, ricondotta all’esercizio delle funzioni e alla

disciplina delle attività dirette a promuovere la conoscenza del patrimonio culturale e ad assicurare

le migliori condizioni di utilizzazione e fruizione pubblica del patrimonio stesso (art. 6).

Si è, inoltre, provveduto a stabilire in modo non equivoco il necessario rapporto di

subordinazione che deve intercorrere tra la valorizzazione e la tutela, nel senso di rendere la

seconda parametro e limite della prima.

In ragione di assicurare l’esercizio unitario su tutto il territorio nazionale delle funzioni di

tutela, è stato individuato nel Ministero per i beni e le attività culturali, il titolare “naturale” di tali

funzioni. Alla stregua dell’art. 118 della Costituzione, si è, dunque, considerato preminente, in

questo caso, il profilo dell’adeguatezza del livello di attribuzione amministrativa rispetto al

concorrente principio di sussidiarietà verticale.

Il successivo art. 5 del codice prevede, comunque, la possibilità che l’esercizio delle funzioni

di tutela avvenga anche attraverso il conferimento, sulla base di appositi atti di intesa e

coordinamento, di specifici settori di attività sia alle regioni sia, in via subordinata, agli enti locali,

quando ciò risponda ad una corretta applicazione dei principi di sussidiarietà e differenziazione.

La normativa costituzionale, come già detto in altra sede, esaurisce il riparto di competenze in

materia di beni culturali nella dicotomia tutela-valorizzazione, assegnando la prima alla potestà

legislativa esclusiva dello Stato e la seconda alla legislazione concorrente Stato-regioni, senza far

riferimento all’attività concernente l’ordinaria fruizione del patrimonio culturale.

Recependo l’orientamento del Consiglio di Stato, per cui la fruizione dei beni culturali è

ascrivibile, in diversa percentuale, tanto alla funzione di tutela, quanto alla funzione di

43

valorizzazione, il nuovo codice, all’art. 3, indica la pubblica fruizione quale fine ultimo dell’attività

di tutela e specifica altresì che l’attività di valorizzazione deve tendere a realizzare le migliori

condizioni di utilizzazione e fruizione pubblica del patrimonio stesso.

Il nuovo codice, peraltro, apre il titolo dedicato alla valorizzazione con un capo interamente

destinato a disciplinare la fruizione.

In particolare, il nuovo codice attribuisce alla potestà legislativa regionale la disciplina della

fruizione dei beni presenti negli istituti e nei luoghi della cultura188 non appartenenti allo Stato o dei

quali lo Stato abbia trasferito la disponibilità sulla base della normativa vigente.

Per quanto riguarda lo svolgimento della relativa attività, è previsto che al fine di coordinare,

armonizzare ed integrare la fruizione, lo Stato, le regioni e gli altri enti pubblici territoriali

procedano alla stipulazione di accordi su base regionale, per definire gli obbiettivi e fissare i tempi e

le modalità di attuazione.

In via residuale, qualora non si pervenga alla conclusione di un accordo, ciascun soggetto

pubblico sarà tenuto a garantire la fruizione dei beni di cui ha la disponibilità. In proposito, è

necessario rilevare che, comunque, lo Stato può trasferire alle regioni ed agli altri enti territoriali la

disponibilità di istituti e luoghi della cultura, in base ai principi di sussidiarietà, differenziazione ed

adeguatezza.

Venendo alla valorizzazione, si è ribadita, in omaggio al dettato costituzionale, la potestà

legislativa concorrente delle regioni, nell’ambito dei principi fondamentali fissati dal codice, mentre

per lo svolgimento delle funzioni amministrative si è fissato il principio dell’ordinario ricorso ad

accordi o intese, finalizzati ad assicurare il necessario coordinamento sul territorio delle relative

attività.

In proposito, una novità di particolare rilievo è la menzione della possibilità dei soggetti

pubblici di ricorrere alla esternalizzazione delle attività e dei servizi, quando ciò risponda

all’esigenza di assicurare un adeguato livello di valorizzazione dei beni culturali189.

La scelta della gestione in forma indiretta è lasciata per lo Stato e le regioni ad una previa

valutazione comparativa, in termini di efficienza ed efficacia, degli obiettivi che si intendono

perseguire e dei relativi mezzi, tempi e modi; gli altri enti pubblici territoriali ricorrono, invece,

ordinariamente alla gestione in forma indiretta, salvo che per le modeste dimensioni o per le

caratteristiche dell’attività di valorizzazione, non risulti conveniente od opportuna la gestione in

forma diretta.

Sul punto, infine, è necessario rilevare come il nuovo codice preveda espressamente, tra le

forme di gestione indiretta dell’attività di valorizzazione dei beni culturali, anche la concessione a 188Come individuati dall’art. 101. 189Cfr. art. 115.

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terzi, mediante procedura ad evidenza pubblica, sulla base di valutazione comparativa dei progetti

presentati. Esso, dunque, vale a reintrodurre una forma di gestione che era stata di recente eliminata

dalla riforma che ha investito i servizi pubblici locali, compresi quelli privi di rilievo industriale, ed

ora, secondo la nuova dicitura, privi di rilievo economico190.

3.3 La verifica dell’interesse culturale ed il nuovo regime dell’alienabilità

Secondo il disposto dell’art. 10 del codice, sono beni culturali le cose immobili e mobili

appartenenti allo Stato, alle regioni, agli altri enti pubblici territoriali, nonché ad ogni altro ente ed

istituto pubblico e a persone giuridiche private senza fine di lucro, che presentano interesse artistico,

storico, archeologico o etnoantropologico. Tali beni, sono assoggettati a tutela solo se presentino,

in maniera analoga a quanto previsto per i beni di proprietà privata, un interesse culturale e tale

interesse sia stato formalmente accertato, secondo la procedura prevista dal successivo art. 12191.

Rispetto al sistema previgente, una prima novità di particolare rilievo è l’abolizione della

presunzione di generale culturalità di tutti i beni di appartenenza pubblica, purché

ultracinquantennali e di autore non più vivente. Ora tali beni devono essere sottoposti ad un

apposito procedimento per la verifica della sussistenza del presupposto fattuale del loro interesse

culturale. La verifica, tuttavia, è prevista solo in via successiva, e senza l’introduzione, peraltro, di

alcun termine per il suo compimento, su iniziativa officiosa dell’amministrazione di settore o su

domanda dell’ente proprietario del bene.

La previsione di maggiore innovatività è, però, quella che prevede l’esclusione dalla tutela del

bene che, a seguito dell’espletamento della verifica, risulti privo di alcun interesse culturale e la sua

conseguente sdemanializzazione, se bene immobile, e libera alienabilità.

Relativamente ai beni culturali di proprietà privata, inoltre, il nuovo codice ha introdotto192

una forma di “giustiziabilità” interna della dichiarazione di interesse culturale. Lo strumento del

ricorso amministrativo193 consente all’amministrazione di riappropriarsi di una funzione di controllo

di merito sui propri provvedimenti, offrendo al contempo ai cittadini una seconda istanza di

particolare autorevolezza ove far rilevare eventuali vizi, sotto il profilo squisitamente tecnico, degli

atti di dichiarazione. 190 Cfr. art. 2 del d.l. 269/2003. 191 In via precauzionale, è previsto che fino a quando non intervenga la relativa verifica, le cose medesime siano comunque sottoposte a tutte le norme di tutela. 192 Cfr. art. 16. 193 Il ricorso al Ministero è ammesso per motivi di legittimità e di merito, entro trenta giorni dalla notifica della dichiarazione. È prevista la sospensione automatica dell’efficacia del provvedimento impugnato, salvo il persistere dell’applicazione in via cautelare delle sole misure dettate in tema di vigilanza e ispezione, di protezione, nonché di alienazione dei beni culturali. Il Ministero, sentito il competente organo consultivo, decide sul ricorso entro il termine di novanta giorni dalla presentazione dello stesso.

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Nell’ambito del titolo I, dedicato alla tutela, la sezione I del IV capo introduce la nuova

disciplina dell’alienabilità dei beni di proprietà pubblica o di soggetti privati non perseguenti scopi

di lucro.

In realtà, l’alienabilità era già stata ammessa dalla legge finanziaria per il 1999194 e dal suo

decreto di attuazione195, entrambi contenenti una norma derogatoria rispetto alla disciplina del

codice civile, consistente appunto nella astratta possibilità di una alienazione dei beni demaniali, sia

pure alle condizioni previste nella legislazione speciale di settore.

Al fine di fornire una maggiore chiarezza sul punto, la nuova disciplina precisa che i beni

culturali appartenenti al demanio dello Stato e degli altri enti pubblici territoriali non possano essere

alienati o formare oggetto di diritti a favore di terzi se non nei modi previsti dallo stesso codice.

Sulla base di tale principio si è provveduto, quindi, ad individuare un nucleo di beni culturali

demaniali sottratti in modo assoluto alla circolazione: si tratta degli immobili e delle aree di

interesse archeologico, degli immobili riconosciuti con legge “monumenti nazionali”, delle raccolte

dei musei, delle pinacoteche e biblioteche, degli archivi. Allo stesso modo sono inalienabili le cose

mobili ed immobili appartenenti ai soggetti indicati dall’art. 10, comma 1, che non siano opera di

autore vivente e risalgano ad oltre cinquanta anni, ma solo fino a quando non sia intervenuta la

sdemanializzazione a seguito del procedimento previsto dall’art. 12 del nuovo codice.

Inoltre, è prevista la inalienabilità delle cose mobili che, pur essendo infracinquantennali o di

autore vivente, risultino però incluse in raccolte di musei, pinacoteche, biblioteche o archivi

appartenenti allo Stato ed agli enti territoriali. Si deve, comunque, ritenere che il principio non operi

qualora il trasferimento di beni avvenga tra lo Stato e gli enti territoriali, dato che tale trasferimento,

da un lato, non modifica il regime demaniale cui i beni sono assoggettati e, dall’altro, consente una

migliore distribuzione dei beni stessi tra le raccolte pubbliche, con evidente vantaggio della loro

fruibilità da parte della collettività.

Al di fuori di queste ipotesi, è ammessa l’alienazione dei beni culturali ma solo

subordinatamente all’autorizzazione ministeriale ed alla condizione che ne sia garantita la tutela, il

godimento pubblico, e comunque una destinazione d’uso che sia compatibile con il carattere

storico-archeologico degli immobili.

194 Legge 448/1998, art. 32. 195 D.P.R. 283/2000.