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Capitolo 3 LA NATURA RELAZIONALE ED EDUCATIVA DELL’ASSISTENZA INFERMIERISTICA LA SALUTE E IL BENESSERE LE DEFINIZIONI La salute viene definita nella Costituzione dell’OMS come “stato di completo benessere fisico, psichico e sociale e non semplice assenza di malattia”, viene considerata un diritto e come tale si pone alla base di tut- ti gli altri diritti fondamentali che spettano alle persone. Per questo la salute viene considerata più un mezzo che un fine e può essere definita come una risorsa quotidiana che consente alle persone di condurre una vita produttiva a livello individuale, sociale ed economico. Comunemente si ritiene sano chi non ha dolori, febbre o altri disagi duraturi, tali da impedirgli di svolgere le proprie funzioni. Le “funzioni” dipendono in questo caso maggiormente dall’età e dai ruoli sociali. Per secoli la malattia fu considerata un fenomeno ma- gico-religioso. Risale a Ippocrate e alla antica Grecia lo sviluppo di una medicina razionale, fondata sull’os- servazione. In seguito le concezioni di salute e malattia sono rimaste o ritornate non scientifiche fino agli ultimi secoli. Con la nascita della medicina scientifica alla fine del Settecento nasce il modello bio-medico, che si occupa più della malattia che non della salute e delle condizioni di vita e lavorative della popolazio- ne. Nell’Ottocento si sviluppa uno specialismo esagerato per cui l’individuo si identifica addirittura con una sola “parte”, “un organo”, negando così l’individuo come persona. L’attuale concetto di salute globale invece porta con sé una concezione della persona come unità psico-fisica interagente con l’ambiente circostante che è il presupposto per “una promozione ed educazione alla salute” e una “assistenza alla persona” nella

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Capitolo 3

LA NATURA RELAZIONALE ED EDUCATIVA DELL’ASSISTENZA INFERMIERISTICA

LA SALUTE E IL BENESSERE

LE DEFINIZIONI

La salute viene definita nella Costituzione dell’OMS come “stato di completo benessere fisico, psichico e sociale e non semplice assenza di malattia”, viene considerata un diritto e come tale si pone alla base di tut-ti gli altri diritti fondamentali che spettano alle persone. Per questo la salute viene considerata più un mezzo che un fine e può essere definita come una risorsa quotidiana che consente alle persone di condurre una vita produttiva a livello individuale, sociale ed economico. Comunemente si ritiene sano chi non ha dolori, febbre o altri disagi duraturi, tali da impedirgli di svolgere le proprie funzioni. Le “funzioni” dipendono in questo caso maggiormente dall’età e dai ruoli sociali. Per secoli la malattia fu considerata un fenomeno ma-gico-religioso. Risale a Ippocrate e alla antica Grecia lo sviluppo di una medicina razionale, fondata sull’os-servazione. In seguito le concezioni di salute e malattia sono rimaste o ritornate non scientifiche fino agli ultimi secoli. Con la nascita della medicina scientifica alla fine del Settecento nasce il modello bio-medico, che si occupa più della malattia che non della salute e delle condizioni di vita e lavorative della popolazio-ne. Nell’Ottocento si sviluppa uno specialismo esagerato per cui l’individuo si identifica addirittura con una sola “parte”, “un organo”, negando così l’individuo come persona. L’attuale concetto di salute globale invece porta con sé una concezione della persona come unità psico-fisica interagente con l’ambiente circostante che è il presupposto per “una promozione ed educazione alla salute” e una “assistenza alla persona” nella

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sua totalità. II benessere (da ben-essere = “stare bene” o “esistere bene”) è uno stato che coinvolge tutti gli aspetti di un assistito. La tradizione popolare che faceva coincidere il benessere con la salute per lo più fisica, riconducibile approssimativamente a una condizione di assenza di patologie, ha assunto nel tempo un’accezione più ampia, arrivando a coinvolgere tutti gli aspetti dell’essere, da quello fisico a quello mentale e sociale. Il concetto di una necessaria implicazione nel benessere globale non solo di aspetti psico-fisici, bensì anche di aspetti sociali, oltre che trovare una radice sia a oriente sia a occidente, trova recenti confer-me anche in campo medico-scientifico. Negli ultimi anni è stata proposta come definizione di benessere la seguente: “lo stato emotivo, mentale, fisico, sociale e spirituale di ben-essere che consente alle persone di raggiungere e mantenere il loro potenziale personale nell’ambiente”. Tutti e cinque gli aspetti (emotivo, mentale, fisico, sociale e spirituale) sono importanti, ma ancora più importante è che questi siano tra loro equilibrati per consentire agli individui di migliorare il loro benessere. La Costituzione della Repubblica Italia-na nata nel 1948 e il catalogo di valori in essa consacrati hanno profondamente inciso il quadro normativo entro il quale si colloca la rilevanza giuridica dell’attività sanitaria e il ruolo affidato alla persona assistita. Il precedente sistema legislativo, nelle sue articolazioni sia penalistiche sia civilistiche, era incentrato sul prin-cipio della tendenziale indisponibilità del proprio corpo, non tanto in funzione della salute o dell’integrità fisica, quali valori in sé tutelati, quanto per la protezione di determinate funzioni da ritenersi essenziali per la realizzazione di interessi non solo connessi alla persona singola, ma tali da potersi rilevare per la loro impor-tanza generale. Per converso, la forte impronta personalistica, solennemente enunciata nella norma-princi-pio racchiusa nell’art. 2 della Costituzione, ha posto in primo piano l’esigenza di una rafforzata tutela della persona umana, sia in relazione alla sua dimensione individuale, sia con riferimento al contesto sociale in cui è inserito. Da qui è derivata anche una riconsiderazione della nozione di ‘salute’, la quale, per un verso, ha perso la sua connotazione generale e il suo aggancio al concetto di utilità pubblica per acquisire un’ac-cezione soggettivistica in cui la valorizzazione della persona esalta la sua libertà di autodeterminazione.

Articolo 2

La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, e richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale.

Con maggiore specificità al tema del diritto alla salute, nell’ambito della tavola dei valori delineata dai Co-stituenti, la centralità del principio di autodeterminazione e di libertà personale emerge dall’interpretazione della norma contenuta nell’art. 32 della Costituzione.

Articolo 32

La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti.

Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge. La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana.

Con l’articolo 32 lo Stato si impegna a garantire la salute dei cittadini. Il secondo comma riguarda i co-siddetti “trattamenti sanitari obbligatori” (TSO), ai quali si può ricorrere solo in gravi e motivate situazioni (interesse della collettività), come, per esempio, in emergenze di tipo infettivologico (necessità di quaran-tena per elevato rischio di contagio) oppure nei confronti di persone in uno stato di gravità psicopatolo-gica, tale da attentare alla propria o altrui incolumità.

Già la lettura della disposizione citata evidenzia come, pur potendosi individuare una duplice dimensione del diritto alla salute come fondamentale diritto della persona e come interesse generale della collettività, in caso di conflitto sia da considerare prevalente la libertà di autodeterminazione dell’assistito intesa come espressione della libertà personale, con la conseguenza che il dissenso cosciente e responsabile dell’assi-stito costituisce limite invalicabile per l’operatore sanitario.

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Nel nostro ordinamento, dunque, vige il principio generale di volontarietà del trattamento sanitario, sancito dal 2° comma dell’articolo 32 che prevede che nessuno può essere obbligato a un determinato tratta-mento sanitario se non per disposizione di legge che, in ogni caso, debbono rispettare i limiti imposti dal rispetto della persona umana. In linea di massima il soggetto ha il diritto di avvalersi o di rifiutare le cure che un operatore sanitario gli prospetta, tanto che si ritiene esistere un vero e proprio diritto di non curarsi anche se tale condotta espone il soggetto al rischio stesso della vita. Ne consegue che, di regola, qualsiasi trattamento sanitario presuppone il consenso del diretto interessato, la cui volontà non può essere sosti-tuita da quella di altri. Ciò comporta che il diritto alla salute di cui all’art. 32 della Costituzione ha finito con l’acquisire anche i connotati del diritto di autodeterminazione in ordine ai trattamenti sul proprio corpo, la cui integrità è garantita dal raccordo con l’art. 13 della Costituzione).

Articolo 13

La libertà personale è inviolabile. Non è ammessa forma alcuna di detenzione, di ispezione o perquisizio-ne personale, né qualsiasi altra restrizione della libertà personale, se non per atto motivato dell’Autorità Giudiziaria e nei soli casi e modi previsti dalla legge. In casi eccezionali di necessità ed urgenza, indicati tassativamente dalla legge, l’autorità di Pubblica Sicurezza può adottare provvedimenti provvisori, che devono essere comunicati entro quarantotto ore all’Autorità Giudiziaria e, se questa non li convalida nelle successive quarantotto ore, si intendono revocati e restano privi di ogni effetto. È punita ogni violenza fisi-ca e morale sulle persone comunque sottoposte a restrizioni di libertà. La legge stabilisce i limiti massimi della carcerazione preventiva.

Solo in via eccezionale, come dispone l’art. 32 della Costituzione, è possibile procedere a trattamenti sani-tari imposti per legge, con riferimento alle ipotesi in cui maggiormente rilevanti sono le esigenze di sanità pubblica (ad es., malattie mentali, vaccinazioni obbligatorie, lotta all’Aids, ecc.).Tale tesi trova sostegno sia nei principi recepiti dal codice deontologico, sia nelle enunciazioni contenute in alcune pronunce della Corte Costituzionale, le quali tengono a considerare il diritto alla salute non solo come interesse della collet-tività, ma anche e soprattutto come fondamentale diritto della persona umana che si sostanzia nel rispetto della libertà di consentire al trattamento sanitario e nel riconoscimento del diritto all’autodeterminazione in ordine alla tutela della propria salute. Il bene della salute viene a considerarsi, quindi, come un diritto primario e assoluto della persona, pienamente operante sia nei rapporti tra privati sia nei confronti della pubblica autorità; del resto, la lettura del 1° comma dell’art. 32, che non a caso fa precedere il fondamenta-le diritto della persona umana alla salute rispetto all’interesse della collettività medesima, induce a ritenere sicuramente superata l’originaria lettura delle norme costituzionali donde la conclusione che, poiché la nostra Costituzione garantisce principalmente valori personali, il diritto alla salute deve essere riconosciuto come fondamentale diritto della persona umana. Di qui la perentoria conclusione, riportata in una pun-tuale pronunzia della giurisprudenza di merito, secondo cui “il rifiuto cosciente e responsabile” costituisce il limite invalicabile per l’attività sanitaria. La preminenza riconosciuta a livello costituzionale alla libertà di ogni singola persona di operare una scelta in ordine alla propria salute, come confermato dagli articoli 2 e 32 della Costituzione, determina la qualificazione del consenso in termini di condizione necessaria affinché possa considerarsi lecito ogni atto con il quale un soggetto possa disporre della propria integrità fisica e, di riflesso, presupposto di legittimità dell’intervento del professionista sanitario. La prestazione del consenso da parte dell’assistito e, pregiudizialmente, l’assolvimento, da parte dell’operatore, dell’adeguato dovere di informazione risulta, quindi, necessariamente strumentale alla corretta esecuzione del trattamento sanita-rio; in assenza di tali presupposti l’esecuzione dello stesso integra un fatto illecito (sotto tutti i profili: civile, penale e disciplinare) che lede sia il diritto all’autodeterminazione sia quello alla salute.

IL DIRITTO ALLA SALUTE

Avviene spesso che la relazione tra infermiere e persona assistita si trasformi in conflitto e che tale conflitto assuma addirittura i caratteri di un contenzioso giudiziario. Sembra infatti che le azioni giudiziarie contro infermieri e strutture per malpractice siano aumentate negli ultimi anni, che le richieste di risarcimento assumano proporzioni rilevanti e che crescano parallelamente le spese assicurative, incrementando la giurisprudenza sulla responsabilità dei professionisti sanitari. Va tenuto presente fra l’altro che sono andate

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a svilupparsi sempre di più valutazioni su efficienza, efficacia e qualità delle strutture, irrinunciabili in una prospettiva di miglioramento, rimanendo per lo più escluso, però quell’insieme di vissuti e aspettative che spesso porta a vicende conflittuali nelle quali figurano come parti contrapposte infermieri ed assistiti. All’interno della vicenda processuale, gli infermieri e gli assistiti spesso condividono una comune insod-disfazione. La sentenza, ad esempio, che riconosce la fondatezza delle richieste dell’assistito non basta a ridurne l’amarezza. Ciò non dipende soltanto dalla sussistenza del danno, pure risarcito, ma anche dalla tristezza della fiducia tradita, dallo sconcerto per l’affidamento deluso. Anche la decisione giurisdizionale che riconosce la correttezza dell’operato dell’infermiere lascia in questi un senso di frustrazione e di ama-rezza. Sul suo prestigio professionale è calata un’ombra che ne offusca anche le qualità di essere umano e non basta una sentenza favorevole a restituirgli completamente la serenità. Non gli è sufficiente essere stato riconosciuto giuridicamente non responsabile di alcun errore, poiché sa che il suo assistito continua a nutrire rancore e sospetti nei suoi confronti. Nella gestione giurisdizionale del conflitto, la grande assente resta proprio la relazione tra l’assistito e l’infermiere. In quella sede, infatti, si discute del danno, si esplorano perizia e diligenza nella conduzione dell’intervento, ma non si affronta il rapporto tra i due soggetti. La me-diazione, invece, costituisce l’occasione per entrambi di incontrarsi e di confrontarsi secondo modalità che permettono di esprimere gli autentici sentimenti che sono alla base del conflitto. La mediazione, quindi, è una modalità di gestione del conflitto alternativa rispetto ai tradizionali approcci quali il processo giurisdi-zionale, la conciliazione, la negoziazione o l’arbitrato. Il mediatore, terzo, neutrale rispetto all’infermiere e all’assistito, non pronuncia decisioni sulla legittimità delle ragioni di questi, né propone proprie soluzioni al conflitto. Non giudica, non interpreta e non consiglia, ma agevola il confronto, garantisce l’esposizione di tutte le opinioni e consente la ripresa della comunicazione tra i soggetti. Attraverso la sua attività di ascolto e di stimolo induce le parti a realizzare come in quel contesto non valga la logica per la quale se uno è nel giusto ciò avviene necessariamente a scapito dell’altro, il quale per definizione sbaglia. La mediazione offre quindi ai soggetti la possibilità di riconsiderare l’evento e la relazione alla luce di una spiegazione più com-plessa, che non giunge dall’esterno, ma è cercata insieme, risultando, alla fine del percorso, come l’esito di una ricerca comune. Attraverso questo processo, entrambi giungono a riconoscere e comprendere le ragioni e le motivazioni dell’altro, pur continuando eventualmente a non condividerne la visione e si arriva a una riconsiderazione del conflitto, consapevoli che la sua origine potrebbe risiedere nell’affidamento de-luso, nella percezione di un tradimento di cui l’assistito si è sentito vittima. Per l’assistito l’infermiere era il simbolo dell’assistenza, mentre ora è diventato la causa di un male. Maggiore era il bisogno di avere fiducia, più amaro è il sapore del tradimento, da parte dell’infermiere quando dopo la cura vi è insoddisfazione per la propria condizione fisica. Questa fiducia tradita - che così spesso induce a chiedere in tribunale un risar-cimento che mai potrà indennizzare una simile ferita - può essere rivista all’interno della mediazione. L’a-scolto reciproco delle parti, il confronto dei rispettivi vissuti, in un luogo dove infermiere e assistito scoprono gradualmente di poter rinunciare alle proprie posizioni difensive, permettono, una riduzione del vissuto di vittimizzazione per l’assistito. Si può arrivare, allora, a concepire e affrontare il danno non come colpa dell’al-tro ma come eventualità. Ascoltando l’infermiere, l’assistito, che fino a quel momento non sapeva nulla del rapporto dell’infermiere con il proprio lavoro, con la sofferenza incontrata quotidianamente, con la vita e la morte dei suoi malati, potrà scoprire come spesso egli sia obbligato a proteggersi e a prendere le distanze per non essere sommerso dal dolore. L’assistito, inoltre, avrà l’opportunità di acquisire la consapevolezza che l’infermiere non è soltanto un professionista sanitario deputato all’assistenza, ma essendo anche una persona, può anche fare del male. Con la rielaborazione del conflitto le parti potranno, infine, ricostruire il senso della vicenda, attribuendo a essa un significato condiviso.

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L’INFORMAZIONE ALLA PERSONA ASSISTITA

DIRITTO ALL’INFORMAZIONE

L’Organizzazione Mondiale della Sanità (Dichiarazione sulla Promozione dei Diritti dei Malati in Europa – 1994 Amsterdam) ha emanato una dichiarazione sui diritti del malato (Tabella 1) che deve servire come orientamento per i professionisti della Salute.

Tabella 1. I diritti dei malati.

I 14 punti dei diritti della dichiarazione OMS Europa:

1. Diritto a misure preventive2. Diritto all’accesso3. Diritto alla informazione4. Diritto al consenso5. Diritto alla libera scelta6. Diritto alla privacy e alla confidenzialità7. Diritto al rispetto del tempo dei malati8. Diritto al rispetto di standard di qualità9. Diritto alla sicurezza10. Diritto alla innovazione11. Diritto a evitare le sofferenze e il dolore non necessari12. Diritto a un trattamento personalizzato13. Diritto al reclamo14. Diritto al risarcimento

Riguardo il diritto all’informazione, la stessa Dichiarazione dei Diritti dei Malati recita:

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a. Le informazioni sui servizi sanitari e su come meglio utilizzarli devono essere accessibili al pubblico affinché possano beneficiarne tutti gli interessati.

b. I malati hanno il diritto di essere pienamente informati sulle loro condizioni di salute, compresi gli aspet-ti medici della loro situazione, sulle procedure mediche proposte, insieme ai possibili rischi e benefici di ciascun procedimento, sulle alternative alle procedure proposte, compresi gli effetti del mancato trattamento e sulla diagnosi, sulla prognosi e sul progresso delle cure.

c. Si possono eccezionalmente celare le informazioni ai malati quando vi siano buone ragione per credere che queste informazioni, senza alcuna aspettativa di ovvi positivi effetti, possano provocare loro seri danni.

d. Le informazioni devono essere comunicate al malato in modo appropriato alle sue capacità di com-prensione, riducendo al minimo l’uso di termini tecnici sconosciuti. Se il malato e l’operatore sanitario non dispongono di una lingua comune, dovrebbe essere disponibile un interprete.

e. I malati hanno il diritto di non essere informati, su loro esplicita richiesta.f. I malati hanno il diritto di scegliere chi, nel caso, debba essere informato per conto loro.g. I malati dovrebbero avere la possibilità di ottenere un secondo parere.h. Quando vengono accolti in una struttura sanitaria, i malati dovrebbero essere informati sulla identità e

condizione professionale degli operatori sanitari che si prenderanno cura di loro e di qualsiasi regola e procedura che possa gravare sulla loro permanenza e cura.

i. I malati dovrebbero poter chiedere e ottenere una sintesi sommaria della loro diagnosi, trattamento e cura al momento delle dimissioni dalla struttura sanitaria.

Nel complesso sistema dell’informazione sanitaria, moltissimi sforzi sono stati fatti per declinare, nella quotidianità, tali fondamentali principi. Leggi nazionali, regolamenti locali e deontologia professionale han-no rappresentato, nel tempo, canali e veicoli di trasmissione delle norme che regolano l’informazione; queste rappresentano un sistema in divenire, che necessita di costante aggiornamento e manutenzione. La necessità di informare l’assistito pone il problema di definire degli standard qualitativi per le modalità di informazione. Si parla di informazione corretta se:a. è rapportata al soggetto che ne è destinatario;b. è commisurata alle esigenze di contesto esistenti;c. ha carattere dinamico.Buona parte dell’informazione richiamata nei principi dettati dall’OMS si traduce, nell’operatività quotidiana, in relazione e comunicazione nel rapporto tra infermiere e assistito.L’informazione permea attraverso la comunicazione e, quando risulta essere inefficace, rischia di invalidare l’in-tervento stesso. Proprio per questi motivi diventa imprescindibile porre particolare attenzione alla conoscenza dei principi fondamentali della comunicazione e a come sarebbe opportuno renderla sempre più efficace.

L’INFERMIERE ED IL CONSENSO INFORMATO

Il Codice Deontologico IPASVI sotto riportato fa emergere in maniera particolarmente profonda il cambio di paradigma al quale stiamo assistendo in questi anni, quello che il consenso informato fosse tradizionalmen-te solo un atto medico, relativamente all’approccio che i vari professionisti hanno nei confronti delle persone assistite. Emerge una visione più “olistica” dell’assistito e un ruolo multidisciplinare dei vari professionisti che spesso risulta in controtendenza rispetto al paradigma tradizionale, dove il consenso informato è riservato a pochissime procedure. Tali procedure sono di tipo diagnostico o terapeutico e pertanto, atti di responsabili-tà e spettanza medica per i quali solitamente viene strutturata apposita modulistica dove si richiede la firma dell’assistito. Da un punto di vista giuridico, questo approccio è lineare e serve a “certificare” l’avvenuta “pre-sa d’atto” da parte dell’assistito, ma da un punto di vista etico, deontologico e operativo, comincia a risultare insufficiente data la sempre crescente necessità di coinvolgimento dell’assistito stesso nei percorsi di cura.

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Codice deontologico IPASVI

Capo I

Articolo 2 - L’assistenza infermieristica è servizio alla persona, alla famiglia e alla collettività. Si re-alizza attraverso interventi specifici, autonomi e complementari di natura intellettuale, tecni-co-scientifica, gestionale, relazionale e educativa.

Articolo 3 - La responsabilità dell’infermiere consiste nell’assistere, nel curare e nel prendersi cura della persona nel rispetto della vita, della salute, della libertà e della dignità dell’individuo.

Articolo 4 - L’infermiere presta assistenza secondo i principi di equità e giustizia, tenendo conto dei valori etici, religiosi e culturali, nonché del genere e delle condizioni sociali della persona.

Articolo 5 - II rispetto dei diritti fondamentali dell’uomo e dei principi etici della professione è condizione es-senziale per l’esercizio della professione infermieristica.

Capo II

Articolo 8 - L’infermiere, nel caso di conflitti determinati da diverse visioni etiche, s’impegna a trovare la soluzione attraverso il dialogo. Qualora vi fosse e persistesse una richiesta di attività in contrasto con i principi etici della professione e con i propri valori, si avvale della clausola di coscienza, facen-dosi garante delle prestazioni necessario per l’incolumità la vita dell’assistito.

Capo III

Articolo 16 - L’infermiere si attiva per l’analisi dei dilemmi etici vissuti nell’operatività quotidiana e promuo-ve il ricorso alla consulenza etica, anche al fine di contribuire all’approfondimento della riflessione bioetica.

Capo IV

Articolo 20 - L’infermiere ascolta, informa, coinvolge l’assistito e valuta con lui i bisogni assistenziali, anche al fine di esplicitare il livello di assistenza garantito e facilitato nell’esprimere le proprie scelte.

Articolo 21 - L’infermiere, rispettando le indicazioni espresse dall’assistito, ne favorisce i rapporti con la comunità e le persone per lui significative, coinvolgendole nel piano di assistenza. Tiene con-tro della dimensione interculturale e dei bisogni assistenziali a essa correlati.

Articolo 23 - L’infermiere riconosce il valore dell’informazione integrata multiprofessionale e si adopera affinché l’assistito disponga di tutte le informazioni necessario ai suoi bisogni di vita.

Articolo 24 - L’infermiere aiuta e sostiene l’assistito nelle scelte, fornendo informazioni di natura assisten-ziale in relazione ai progetti diagnostico-terapeutici e adeguando la comunicazione alla sua capacità di comprendere.

Articolo 25 - L’infermiere rispetta la consapevole ed esplicita volontà dell’assistito di non essere informato sul suo stato di salute, purché la mancata informazione non sia di pericolo per sé o per gli altri.

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L’informazione alla persona assistita deve essere chiara, comprensibile e prevede tre tappe:1. l’adeguata informazione alla persona assistita;2. la verifica che la persona assistita abbia compreso il significato di ciò che gli è stato detto;3. l’ascolto attivo della sua decisione nel rispetto dei tempi necessari. L’informazione sta alla base del rapporto assistito-infermiere e la mission degli infermieri è di prendersi cura della persona e di assisterla tenendo conto delle sue relazioni sociali e contesto ambientale. Dal punto di vista giuridico, l’informazione per quanto concerne un atto sanitario e la raccolta del relativo consenso spetta al sanitario responsabile dell’atto stesso; di conseguenza, informazione e raccolta del consenso di un atto medico spetta al medico, mentre, ad esempio, spetta all’infermiere quella concernente il suo spe-cifico ambito professionale. Gli infermieri si trovano spesso, oltre a trasmettere dati e informazioni, a dover fornire chiarimenti sui vari aspetti del vissuto di malattia su cui l’assistito pone domande. L’infermiere deve adoperarsi in modo da fornire risposte oneste, veritiere e complete. Occorre infatti notare che “... le infor-mazioni che devono precedere il consenso non possono che provenire dallo stesso sanitario cui è richiesta la prestazione ...” (sentenza 15-1.97n.364).Oltre al medico, tutti gli operatori sanitari, in particolare gli infermieri, devono:a. fornire supporto alla persona assistita nella presa delle decisioni;b. promuovere la comprensione della persona assistita sulla propria situazione;c. dare assistenza alla persona assistita nella comprensione delle spiegazioni dei medici;d. promuovere i una buona comunicazione tra assistito e staff;e. coordinare assistito/familiari/caregiver.

L’infermiere deve inoltre ricordare, oltre alle norme del codice deontologico precedentemente descritte, il “Patto infermiere/cittadino” stipulato il 12 maggio del 1996 che cita: “Io infermiere mi impegno nei tuoi confronti a: presentarmi al nostro primo incontro, spiegarti chi sono e cosa posso fare per te; sapere chi sei, riconoscerti, chiamarti per nome e cognome; farmi riconoscere attraverso la divisa e il cartellino di riconoscimento; darti risposte chiare e comprensibili o indirizzati alle persone e agli organi competenti; fornirti informazioni utili a rendere più agevole il tuo contatto con l’in-sieme dei servizi sanitari; garantirti le migliori condizioni igienico e ambientali”Qui di seguito riportiamo due articoli pubblicati su due riviste diverse. Il primo, quello riportato dalla rivista “Nursing Oggi” (2007, numero 1), tratta di un’indagine condotta mediante la somministrazione di un que-stionario a un campione di 150 infermieri in servizio presso varie unità operative dell’Azienda Ospedaliera “Mellini” di Chiari. È emerso che:• solo il 50% degli infermieri ritiene obbligatorio raccogliere il consenso informato dall’assistito prima di

procedere con qualsiasi tipo di prestazione infermieristica;• il 43% degli infermieri sostiene che il consenso debba essere richiesto solo per alcune procedure;• il 7% non lo ritiene affatto necessario;• il 20% dichiara di effettuare sempre e comunque la prestazione, perché prevale il bene della perso-

na, anche a scapito del consenso.II secondo articolo, tratto da “Aorn Journal” del luglio 2008, prendeva in esame la problematica della man-cata lettura e comprensione del consenso informato. Nell’articolo è stato esposto uno studio realizzato con l’utilizzo di due moduli di consenso differenti. Il primo era il modulo già presente e utilizzato, il secondo era un modulo di consenso revisionato, più comprensibile e in grado di fornire un feedback all’operatore in modo da poterne testare l’efficacia. Le persone assistite sono stati suddivise in tre gruppi con differenti somministrazioni di consenso. Al primo gruppo di assistiti è stato somministrato il modulo originale; al secondo gruppo di assistiti, con problemi visivi noti, è stato somministrato il modulo revisionato e al terzo gruppo di assistiti, senza problemi di vista, è stato somministrato il modulo revisionato. Dallo studio è emerso che:a. solo il 25% delle persone assistite del primo gruppo aveva letto il consenso;b. nel secondo gruppo è stato letto dal 77% delle persone assistite (avendo problemi di vista, il 57% ha

chiesto di leggerglielo);c. nel terzo gruppo è stato letto dal 91% delle persone assistite;

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Altro particolare interessante che è emerso da questo studio è stato che nel primo gruppo (modulo origina-le) il 66% delle persone assistite aveva chiesto dove doveva apporre la propria firma. Da questa brevissima revisione della letteratura emerge che:a. il consenso informato e in particolare quello infermieristico è argomento ancora poco conosciuto;b. gli infermieri non hanno preso reale coscienza della loro autonomia/decisionalità;c. viene considerato da molti infermieri una pratica burocratica da adempiere;d. molto spesso i moduli sono scritti in maniera poco chiara e comprensibile,e. i moduli dovrebbero essere modificati in base alla cultura della persona che ne beneficia;f. tra infermiere e assistito è di fondamentale importanza che s’instauri una relazione di fiducia, perché

solo grazie a ciò si può arrivare a un corretto consenso informato.

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LA COMUNICAZIONE CON L’ASSISTITO

LA COMUNICAZIONE CORRETTA ED EFFICACE

La comunicazione rappresenta un’importante funzione di relazione tra le persone assistite e gli infermieri. La comunicazione è un processo di scambio che avviene tra persone che sono all’interno di un certo con-testo ed è anche lo strumento mediante il quale si instaurano e si sviluppano le relazioni interpersonali. Si attua attraverso l’uso di un canale verbale e di un canale non verbale ed è possibile nella misura in cui le persone hanno in comune un linguaggio condiviso.La comunicazione presenta tre strutture:a. semantica (studio del significato dei simboli);b. sintattica (studio dei rapporti tra i simboli);c. pragmatica (studio degli effetti prodotti sul comportamento dall’utilizzo del linguaggio e delle sue im-

plicazioni semantiche).Possiede inoltre diversi stili:a. la comunicazione descrittiva focalizza l’attenzione sul contenuto di cui si parla;b. la comunicazione esplorativa esamina tutti gli aspetti delle idee che vengono presentate;c. la comunicazione empatica entra in rapporto con i sentimenti di chi parla;d. la comunicazione equilibrata mette chi parla e chi ascolta sullo stesso livello;e. la comunicazione valutativa esprime giudizi su ciò che viene detto o sulla persona che lo dice;f. la comunicazione investigativa indica che colui che ascolta ha già la risposta;g. la comunicazione distaccata esprime una mancanza di interesse;h. la comunicazione supponente utilizza la posizione dell’ascoltatore per intimorire chi parla.I quattro stili di comunicazione che aiutano a creare un clima aperto sono: descrittivo, esplorativo, empatico ed equilibrato. Ognuno di questi stili è utile per stabilire rapporti proficui. Al contrario, gli stili negativi di

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comunicazione (valutativo, investigativo, distaccato e supponente) troncano la comunicazione.Per avere una comunicazione corretta ed efficace occorre:a. conoscere i bisogni della persona assistita;b. usare appropriati veicoli di trasmissione;c. ascoltare e valutare le reazioni;d. migliorare il contenuto dell’informazione;e. suscitare interesse con nuovi stimoli;f. riascoltare e valutare di nuovo le reazioni della persona assistita.

La comunicazione risulta quindi un processo interattivo, dove infermiere e persona assistita non coprono i ruoli in modo fisso ma si alternano nelle funzioni. Bisogna tenere presente che i tempi necessari per una corretta comunicazione sono:a. parlare per il 30% del tempo disponibile (indipendentemente dall’importanza di ciò che si vuoi comu-

nicare);b. ascoltare per il 70% del tempo disponibile la persona assistita.I punti chiave per avere una comunicazione corretta ed efficace sono i seguenti:a. sapere ciò che si deve dire e come lo si deve dire;b. prepararsi mentalmente un chiaro piano d’azione;c. ottenere l’attenzione e mantenere costantemente il contatto con l’assistito;d. essere convinti e convincenti;e. sviluppare ed esporre l’argomentazione con chiarezza;f. usare un linguaggio comprensibile per l’assistito;g. parlare con sicurezza;h. parlare distintamente (tono, timbro, tempo, volume).Occorre evitare quelli che sono i più comuni e principali errori nelle comunicazioni, quali:a. argomenti troppo astratti (ambigui);b. parole di significato oscuro;c. assenza di un filo conduttore;d. prolissità;e. mancanza di introduzione;f. mancanza di conclusione (riassunto finale);g. mancanza di feedback;h. errori di espressione, quali volume di voce costantemente basso, volume di voce costantemente alto,

eccessiva velocità, mancanza di intensità emotiva, presenza eccessiva di intercalari, cattivo uso della pause (lunghe o assenti).

GLI ASSIOMI DELLA COMUNICAZIONE UMANA

Paul Watzlawick, uno dei più importanti studiosi dei processi di comunicazione, ha definito i principi della comunicazione, definendoli assiomi (assioma è un principio che viene assunto come vero perché ritenuto evidente):a. Il primo assioma ci insegna che non si può non comunicare. Qualunque comportamento comunica

qualcosa. Qualunque cosa si faccia o si dica, qualunque scelta (dai vestiti alla macchina, da ciò che viene letto allo sport che pratichiamo) comunica qualcosa agli altri e a noi stessi.

b. Il secondo assioma chiarisce che all’interno di ogni comunicazione vanno distinti due livelli. Il primo è il livello del contenuto, che dice che cosa stiamo comunicando. Il secondo è il livello della relazione, che dice che tipo di relazione vogliamo instaurare con quella comunicazione. Per fare un esempio molto semplicistico ma pratico, la frase “chiudi la porta” esprime un contenuto (la richiesta di chiudere la porta) e può essere detta con tono pacato o aggressivo, stabilendo due tipi di relazioni diverse con l’interlocutore.

c. Il terzo assioma spiega che il modo di interpretare una comunicazione dipende da come viene pun-teggiata la sequenza delle comunicazioni fatte. Per esempio, di fronte a un uomo che si chiude in sé

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stesso e alla moglie che brontola, il primo potrebbe dire che si chiude perché la moglie brontola, e la seconda potrebbe ribattere che lei brontola perché lui si chiude. A seconda della “punteggiatura” usata cambia il significato dato alla comunicazione e alla relazione.

d. Il quarto assioma differenzia due tipi di comunicazione: quella analogica e quella numerica (o digitale). La comunicazione analogica si basa sulla somiglianza (analogia) tra la comunicazione e l’oggetto della comunicazione: rientra in essa tutta la comunicazione non verbale e l’uso di immagini. La comunicazio-ne numerica riguarda invece l’uso delle parole, e in generale di segni arbitrari organizzati da una sintassi logica, cioè di segni usati convenzionalmente per designare qualcosa.

e. Il quinto e ultimo assioma della comunicazione umana spiega che tutte le interazioni tra comuni-canti possono essere di due tipi: simmetriche o complementari. Si ha un’interazione simmetrica quando gli interlocutori, rispetto a quella comunicazione, si considerano di pari livello, sullo stesso piano. L’interazione complementare si ha invece quando gli interlocutori non si considerano sul-lo stesso piano, bensì risulta evidente da quella comunicazione che uno dei due ha una posizione superiore (one-up) e l’altro subordinata (one-down) (ad es. relazione infermiere/persona assistita).

LA COMUNICAZIONE VERBALE E NON VERBALE

La comunicazione può essere verbale e non verbale. La comunicazione avviene infatti sia con la parola (comunicazione verbale) sia mediante il comportamento (gli oggetti, gli ambienti, l’abbigliamento perso-nale, la mimica facciale, il tono della voce, ecc....) (comunicazione non verbale). La comunicazione vocale, infine, si colloca a cavallo delle prime due tipologie e comprende, oltre al linguaggio verbale, l’insieme dei suoni emessi durante una conversazione a prescindere dal loro significato, ad esempio il tono della voce, il volume, le pause, ecc. (sistema paralinguistico) che ricadono quindi nella comunicazione non verbale. La comunicazione verbale, che è circa il 30% della comunicazione, si attua attraverso l’utilizzo della parola e ci fornisce due diversi tipi di informazioni:a. informazioni relative al contenuto;b. informazioni relative alla natura della relazione.La comunicazione non verbale, pari a circa il 70%, si attua attraverso elementi che completano e integrano la comunicazione verbale:a. il paralinguaggio (ritmo, velocità, pause della voce, inflessioni dialettali...);b. la prossemica (o gestione dello spazio e del territorio nella comunicazione interpersonale, cioè la di-

stanza tra gli interlocutori che potrebbe essere intima, agevole, eccessiva, ecc.);c. la cinesica (movimenti del corpo, gestualità, spazialità) e la mimica (sguardo ed espressione del volto);d. l’aspetto esteriore (modo di abbigliarsi);e. il contatto (ad esempio, una stretta di mano franca o sfuggente);f. l’olfatto (odori e profumi).Lo psicologo americano Albert Mehrabian dimostrò come ciò che viene percepito in un messaggio vocale dipenda:a. per il 7% da parole (aspetto verbale);b. per il 38% dall’intonazione della voce (ritmo, volume, prosodia,ecc..);c. per il 55% dal linguaggio del corpo (in particolare dalle espressioni facciali).In particolare la cinesica studia la mimica che accompagna o sostituisce la comunicazione verbale. Occorre notare che normalmente:a. le persone timide si muovono poco;b. gli estroversi gesticolano molto;c. le persone ansiose si agitano con scatti, camminano molto e respirano frettolosamente e in modo

superficiale.Nella comunicazione non verbale:a. il linguaggio del corpo è un linguaggio nel linguaggio;b. gli aspetti non verbali della comunicazione superano gli aspetti verbali sia per accuratezza, sia per

validità;c. i singoli segnali non devono essere ignorati, ma è soprattutto l’insieme di segnali coerenti a contenere

i segnali più forti;d. il senso di una comunicazione è dato dalla risposta che essa produce nell’assistito;

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e. l’abbigliamento è un aspetto importante della comunicazione non verbale;f. il comportamento esterno è lo specchio delle reazioni inferiori.È necessario, in particolare, prestare attenzione ai cambiamenti che intervengono nel linguaggio del corpo (ad esempio, segnali che consentono di valutare una diminuzione o un aumento dell’interesse nell’assi-stito).

I FATTORI NECESSARI ALLA COMUNICAZIONE EFFICACE, LA COMPREN-SIONE DEL MESSAGGIO, LE MODALITÀ DELLA COMUNICAZIONE ED IL FEEDBACK Nella comunicazione vi possono essere delle variabili in gioco come:a. l’identità personale e professionale;b. la relazione tra infermiere e persona assistita;c. le fasi della comunicazione;d. il tema comunicativo;e. l’espressione linguistica e corporea;f. il contesto di tempo e di luogo;g. l’obiettivo.Dati questi presupposti, è chiaro che la comunicazione non sempre fluisce in maniera lineare. Se la rea-zione della persona assistita si discosta dal risultato atteso, è necessario modificare la condotta o la comu-nicazione, in modo da ottenere la risposta voluta. Se vogliamo aumentare l’efficacia della comunicazione dobbiamo:a. gestire i fattori che influenzano l’ascolto quali quelli: ambientali (volume, clima, luce), personali (pregiu-

dizi, illusioni, convinzioni, stato psico-fisico, aspettative e obiettivi), relazionali (conoscenza del tema), espositivi (espressioni verbali e non verbali);

b. aumentare la propria consapevolezza;c. verificare il proprio grado di comprensione;d. esprimersi in modo appropriato;e. esprimersi in modo coerente (sintonia tra comunicazione verbale e non verbale);f. avere considerazione e cortesia nei confronti della persona assistita;g. mostrare flessibilità;h. sintonizzarsi con l’assistito.Un messaggio persuasivo che è determinato dalla sintonia di tutti gli elementi della comunicazione porta efficacia alla comunicazione. La distonia di uno o più elementi della comunicazione fa perdere forza al messaggio oltre che la credibilità. La forza e la persuasività di un messaggio risiedono nella convinzione che l’infermiere ha riguardo un contenuto che sta comunicando: tutti gli elementi della comunicazione entreranno in sintonia. Tre sono i fattori necessari per raggiungere l’obiettivo comunicativo: acutezza percet-tiva, flessibilità e congruenza. L’acutezza percettiva (capacità di cogliere tutti i segnali emessi dalla persona assistita durante la comunicazione):a. mette in grado di capire se l’assistito, durante la comunicazione, sta rispondendo ai messaggi;b. è alla base dell›arte di comunicare;c. è necessaria per stabilire un rapporto;d. è necessaria per comprendere se si sta “perdendo” un rapporto e per cambiare quello che si sta

facendo;e. permette di leggere i segnali che ci porteranno a destinazione.La flessibilità:a. consente un’inclinazione al cambiamento;b. riduce la resistenza al cambiamento;c. consente un adattamento alla persona assistita;d. consente di adattare modelli comportamentali ottimali e finemente differenziati;e. aiuta ad accrescere la gamma dei comportamenti e offre uno stilo più complesso.

La congruenza:a. l’informazione migliore e più chiara è quella determinata dal comportamento, dalle risorse non verbali;b. l’aderenza tra dire e fare rende credibili.La comunicazione, mediante lo scambio di feedback, ha luogo nel momento in cui comportamenti e paro-le dell’infermiere incontrano quelle della persona assistita. A titolo riassuntivo, per facilitare la comprensione del messaggio è necessario:a. utilizzare sempre un linguaggio condiviso;b. fare attenzione al contesto culturale dell’assistito;c. fare attenzione all’informazione di ritorno (feedback);d. essere disponibili a modificare il messaggio se non compreso;e. porre attenzione ai propri atteggiamenti e comportamenti mentre si comunica.Nell’atto della comunicazione si può sentire cosa prova l’assistito attraverso le quattro diverse modalità che sono:a. l’anti-patia che è il sentire contro;b. la sim-patia che è il sentire come; c. l’em-patia che è il sentire con;d. l’a-patia che è il non sentire.Occorre saper percepire ciò che l’assistito sente, ma anche saper comprendere la situazione dell’assi-stito, oltre a saper anticipare le reazioni che il proprio messaggio susciterà nell’assistito. L’attenzione è un aspetto imprescindibile perché l’infermiere e l’assistito possano veramente comunicare; per catturare livelli di attenzione elevati occorre offrire stimoli capaci di rompere gli schemi dell’assistito o uno sta-to di equilibrio. Per questo è adatta l’infinita gamma degli stimoli non verbali. Occorre tener presente che in ambiente sanitario esiste una costante sempre presente rappresentata dall’ansia e dalla paura. Essa deriva di norma dalla poca o scarsa conoscenza del proprio stato, dalla paura del risultato, dalla conoscenza limitata della patologia, dalla conoscenza limitata del processo terapeutico, dalla lontananza dal proprio habitat abituale. È con queste persone assistite che la comunicazione diviene ancor più ardua, complessa e difficile perché scattano meccanismi di difesa.Le fonti di ansia e di paura possono essere primarie o situazionali. Le fonti di ansia/paura primarie sono:a. l’essere criticato;b. il perdere qualcuno;c. l’intimità;d. i confronti e le espressioni d’ira;e. il trovarsi al centro dell’attenzione.Le fonti di ansia e di paura situazionali sono:a. la poca conoscenza del servizio;b. la conoscenza di situazioni dannose;c. la paura delle gerarchie;d. la paura del risultato;e. l’obiettivo poco chiaro.In queste situazioni le persone assistite mettono in atto una serie di meccanismi di difesa quali:a. l’aggressività, pulsione distruttiva che può manifestarsi con vari comportamenti (fisici, verbali, ecc.);b. la negazione, procedimento con cui la persona assistita, pur formulando uno dei suoi desideri, pensieri

o sentimenti, continua a difendersi negandoli;c. la rimozione, meccanismo di difesa primario, per cui la persona assistita non percepisce a nessun livello

la pulsione indesiderata;d. la compensazione, trasferimento della pulsione ad altre rappresentazioni che vengono percepite come

meno minaccianti;e. la proiezione, procedimento con cui la persona assistita espelle da sé e localizza nell’altro, persona o

cosa, i sentimenti indesiderati;f. l’identificazione, procedimento psicologico con cui un assistito assimila un aspetto, una proprietà, un

attributo di una persona e si trasforma totalmente o parzialmente sul modello di quest’ultima;g. la regressione, ritorno della persona assistita a fasi superate del suo sviluppo;h. la sublimazione, procedimento per cui la persona assistita nega una propria pulsione e la sposta su

attività socialmente accettate;

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i. la razionalizzazione, procedimento con cui si cerca di dare una spiegazione coerente dal punto di vista logico, di un’idea o azione, di cui non si percepisce il vero motivo;

j. la fuga, espressione figurata che designa il fatto che la persona assistita cerca nelle nevrosi un mezzo per sfuggire al conflitto.

Le comunicazioni devono sempre essere tenute sotto controllo. Nello studio della comunicazione infermie-re/assistito, si intende per feedback la capacità di andarsi a sincerare che il messaggio sia arrivato a desti-nazione, recepito e compreso. Il controllo dell’efficacia del messaggio inviato a un assistito si realizza con il metodo del feedback, ovvero della valutazione della ricezione, detta anche “eco” o “retroazione”. Per essere comprensibili è necessario a propria volta ascoltare, al fine di vedere se vi è incomprensione tra chi espone e chi ascolta; occorre inoltre controllare se l’incomprensione deriva dalla forma o dalla sostanza dell’infor-mazione trasmessa, osservare se l’argomento trattato è stato recepito così come era nell’intenzione di chi lo ha trasmesso. È bene ricordare che saper ascoltare è difficile. A sua volta, sapersi esprimere significa costruire il messaggio in modo chiaro e sintetico, preciso e semplice, usando i veicoli di trasmissione più idonei ed efficaci nei confronti dell’assistito. Il fine della comunicazione è farsi capire. È necessario suscitare interesse: qualunque messaggio si voglia comunicare deve essere interessante per l’assistito. Se lo è solo per l’infermiere, ma il contenuto deve essere comunque trasmesso, è necessario trovare la forma adatta per stimolare l’interesse dell’assistito. Occorre inoltre informare esaurientemente, usando una terminologia appropriata e comprensibile, spiegando e motivando ogni affermazione. È fondamentale comprendere che il messaggio viene interpretato dalla persona assistita, per cui:a. ciò che conta non è tanto ciò che si dice, ma ciò che l’altro comprende;b. nessun messaggio viene ricevuto in maniera passiva;c. ogni assistito ha una sua storia, un suo livello culturale, esperienze, ricordi, aspettative e motivazioni

diverse;d. proprio per questo, il messaggio può subire una immediata e profonda trasformazione;e. alcuni messaggi, inoltre, possono venire semplicemente ignorati dall’assistito.A sua volta, il feedback può essere efficace o inefficace; le caratteristiche distintive dell’essere efficace sono:a. riguarda specifici comportamenti;b. è basato sui fatti;c. è tempestivo;d. è controllabile dall’assistito;e. è fatto con intento costruttivo;f. è diretto.Le caratteristiche di un feedback inefficace sono invece:a. riguarda la persona in generale;b. è basato su impressioni;c. è distante dagli eventi;d. è fuori dalla sua portata;e. è fatto con intento punitivo;f. è indiretto.

COMUNICAZIONE ED ASSISTENZA INFERMIERISTICA

La comunicazione riveste un ruolo fondamentale nel favorire la realizzazione di un’assistenza al “servizio” del malato. Atteggiamenti necessari a connotare una comunicazione efficace dal punto di vista etico sono:a. l’autenticità: solo manifestando spontaneità (e raccontando la verità), il rapporto diventa significativo;b. l’empatia: la conoscenza e la comprensione devono portare l’infermiere a entrare nella vita dell’assistito

per interessarsi a lui e questo vuol dire riconoscere l’assistito come persona, non come caso clinico;c. la capacità di ascolto: l’esigenza di acquisire una buona capacità d’ascolto emerge soprattutto in situa-

zioni di particolare solitudine in cui si trovano spesso gli assistiti. È importante la comunicazione nelle sue varie forme per ridurre al minimo le incomprensioni, le perdite di tempo, gli errori e i conflitti. La comunicazione corretta ed efficace si articola su una serie di parametri,

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il primo dei quali è la qualità di trasmettere informazioni fondate (non presentare come certezze dati che non sono tali). Il secondo è la quantità, cioè fornire informazioni sufficienti senza inondare l’altro d’informa-zioni non richieste. C’è poi l’attinenza (evitare inutili divagazioni) e la coerenza (fare attenzione a non dare informazioni contraddittorie o ambigue).Si ha dunque una corretta comunicazione se è:a. Fondata cioè basata su evidenze clinico-scientifiche adeguate.b. Esauriente cioè contenente tutte le informazioni relative alla presentazione in corso e rispondente a tutti

i quesiti posti dall’interessato.c. Non imposta cioè l’assistito ha il diritto di riservare ad altri la ricezione delle informazioni quando decida

di non voler essere informato.d. Personalizzata cioè adeguata alle condizioni di salute, psicologiche, culturali e linguistiche dell’assistito

e alla tipologia della prestazione.e. Comprensibile cioè espressa con termini semplici e chiari, evitando il più possibile termini tecnici, anzi

avvalendosi se possibile di materiali illustrativi.f. Veritiera cioè l’informazione deve contenere informazioni rispondenti alla realtà clinica del caso, senza

mai essere brutale, anzi cercando di enfatizzare ragionevoli speranze.Da una serie di questionari distribuiti agli assistiti e da interviste effettuate a infermieri è stato possibile sinte-tizzare un vademecum del “buon agire” da parte degli infermieri. Questo parte, ovviamente, dall’espressio-ne di comprensione rispetto alla problematica connessa all’assistito (empatia), ma anche da rassicurazioni e supporto, da incoraggiamenti all’assistito affinché ponga delle domande, da rinforzi positivi ed espres-sione di sentimenti positivi nei confronti dell’agire dell’assistito. Tra le cose che si richiedono c’è tuttavia il prendere in considerazione aspetti della vita quotidiana dell’assistito, facendo in modo che il punto di vista dello stesso guidi la conversazione dando alle spiegazioni che si avvalgono di dati obiettivi.Questi le possibili regole da seguire:a. capacità di ascolto;b. maggiore spazio all’educazione sanitaria;c. condivisione delle informazioni sanitarie;d. discussione sugli effetti dei trattamenti;e. cortesia;f. disponibilità all’ascolto;g. capacità di personalizzare la comunicazione;h. capacità di riassumere le affermazioni dell’assistito;i. maggiore durata del rapporto;j. maggiore durata dell’anamnesi.Un buon dialogo tra infermiere e assistito, una comunicazione cioè che sia veritiera e partecipata, riduce la sensazione d’incertezza e di confusione in cui spesso l’assistito si trova, in assenza d’informazioni da parte dell’infermiere l’assistito può elaborare fantasie e ipotesi catastrofiche. Riduce inoltre lo scoraggiamento e il senso di solitudine: la mancanza d’informazione e di chiarimenti e/o la distorsione della verità isolano l’assistito e ne determinano la chiusura, la diffidenza e l’ostilità. Evita inoltre tragiche finzioni e sostiene la collaborazione ai trattamenti. Una buona comunicazione infermiere/assistito è estremamente importante nella gestione delle patologie croniche. Quando gli assistiti sono informati e coinvolti nei processi deci-sionali sono infatti più aderenti alle prescrizioni e alle raccomandazioni dell’infermiere ed effettuano più cambiamenti nello stile di vita a vantaggio della salute (attività fisica, cessazione del fumo, dieta...).La comunicazione deve essere centrata sulla persona assistita che si ha di fronte tenendo conto:a. dell’età;b. del livello culturale;c. delle condizioni di salute psicofisica;d. delle caratteristiche della personalità;e. del desiderio di collaborare;f. del desiderio di essere parte attiva nella relazione, nel percorso informativo e nel processo decisionale.La maggior parte degli assistiti predilige un rapporto paritario nel quale condividere le informazioni e le decisioni. I propri desideri e bisogni vengono così modulati alla luce del confronto con l’infermiere ritenuto competente e affidabile. Inoltre la disponibilità dell’infermiere all’interazione paritaria gioca un ruolo chiave:

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la maggioranza degli assistiti desidera prendere parte al percorso informativo e al processo decisionale, ma non sempre nella stessa misura. Le molteplici fonti d’informazione ci portano a confrontarci con un paziente più informato e più consapevole delle proprie preferenze. In quest’ottica l’infermiere deve evitare di mostrare un atteggiamento rigido e omnisciente e non deve presentare certezze non fondate. Questo anche perché la maggior disponibilità d’informazioni ha anche i suoi aspetti negativi: l’assistito non sempre si orienta nell’ambito della rete informativa e di conseguenza può richiedere trattamenti la cui efficacia non è chiaramente accertata. La complessità intrinseca alle professioni sanitarie ha fatto sì che dagli anni del dopo guerra a oggi si siano sviluppate molteplici teorie sulla professione stessa, soprattutto per quanto riguarda il ruolo dell’infermiere. L’infermiere si trova spesso in un ruolo di motivatore e comunicatore per l’assistito. Molto discusse sono le moderne teorie del nursing, spesso di origine anglosassone, che hanno un comune denominatore:a. la centralità della persona assistita nell’assistenza infermieristica;b. il bisogni di arricchire, chiarire e definire il ruolo dell’assistenza infermieristica (Teoria del Nursing di Ann

Marriner Tomey).Molte teorie del Nursing hanno posto in primo piano proprio il tema della comunicazione fra infermiere e assistito. Ad esempio, Lidya E. Hall nei primi anni ’60 sviluppa un modello della professione infermieristica ove l’aspetto centrale è costituito dalla relazione fra infermiere e assistito; utilizza inoltre la tecnica roger-siana della “riflessione” che consiste nel ripetere, con parole diverse, alcune verbalizzazioni dell’assistito per invitarlo a chiarire ed esplorare meglio i propri sentimenti collegati all’argomento. Lidya Hall era inol-tre convinta dell’esigenza di un “nursing professionale”, fatto da infermieri che avessero studiato scienze comportamentali e tecniche di comunicazione. La Hall fondò il centro Loeb per il Nursing dell’ospedale Montefiore di New York per applicare le sue teorie specialmente nel campo della riabilitazione. Il centro ebbe un enorme successo e le prove empiriche documentarono che gli assistiti guarivano mediamente in metà tempo rispetto agli altri istituti. Jean Watson, a sua volta, sottolineò l’importanza di una relazione di fiducia fra infermiere e assistito che implicava congruenza, empatia e comunicazione efficace. Ida Jean Orlando propose la relazione interpersonale come base per l’attività assistenziale e pose l’accento sulle espressioni verbali e sui segnali non verbali per individuare i bisogni dell’assistito. Le teorie della Orlando sono state sottoposte da vari studiosi all’approccio sperimentale per esaminarne l’influenza sul disagio del malato durante il ricovero e/o prima di un intervento chirurgico con il risultato di una riduzione dello stress durante il ricovero sia per malati adulti o bambini sia per i relativi familiari. Occorre inoltre considerare che:a. una indagine pre-operatoria sui veri motivi dell’angoscia aiuta l’infermiere ad agire in modo più appro-

priato e abbassa l’angoscia del malato;b. un livello minore di angoscia prima della operazione corrisponde a minori complicazioni post-opera-

torie;c. l’intervento infermieristico è più efficace in condizioni di relazione empatica.Gli esempi riportati sono una piccolissima parte di quelli rintracciabili nella letteratura specialistica sulla teo-ria e pratica del “nursing interpersonale”, anche se può sembrare intuitivo che la cura della comunicazione fra infermiere e assistito abbia un effetto positivo sullo stato sia dell’infermiere sia dell’assistito; si ritiene che una più efficace comunicazione fra infermiere e assistito, possa operare trasformazioni positive nell’uno e nell’altro dovute all’empatia, al calore umano e al senso di comprensione e di accettazione che si crea. È opinione condivisa, inoltre, che una comunicazione più efficace possa fare comprendere all’infermiere come agire al meglio per il bene dell’assistito anche quando (come spesso accade) non è in grado di speci-ficare chiaramente le sue esigenze, paure, angosce. Spetta alla figura centrale dell’infermiere accompagnare e guidare l’assistito nel difficile processo di cura utilizzando le modalità di una comunicazione efficace e professionale e non più quella istintiva e priva di metodo.

L’ASCOLTO: UN FORMIDABILE STRUMENTO DELLA COMUNICAZIONE L’ascolto è un formidabile strumento della comunicazione e rappresenta il presupposto fondamentale per porsi nella migliore condizione nella relazione. L’ascolto deve essere almeno “attivo” o “empatico”, quindi

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nel pieno rispetto e senza preconcetti rispetto all’emittente. Ascoltare in modo attivo significa mostrare interesse verso chi parla mantenendosi in sintonia con lui attraverso domande specifiche. L’empatia è proprio la capacità di porsi dentro (come indica il prefisso greco “en”) la situazione cognitiva ed emotiva della persona assistita.Saper ascoltare significa effettuare continue verifiche per:a. assicurarsi di avere ben compreso;b. confermare all’assistito che si sta ascoltando;c. far capire che si ha capito.Le componenti dell’ascolto attivo sono:a. capire e circostanziare;b. verificare;c. coinvolgere razionalmente su problemi;d. coinvolgere emotivamente;e. stimolare la partecipazione;f. riassumere.Se facciamo riferimento ai principi di Carl Ramson Rogers, psicologo statunitense fondatore della terapia non direttiva e noto in tutto il mondo per i suoi studi sul counseling e la psicoterapia all’interno della corren-te umanistica della psicologia, la comunicazione non direttiva si avvale del processo empatia/accettazione, che prevede le seguenti caratteristiche:• calore umano, che non significa coinvolgimento emotivo;• interesse;• tolleranza all’espressione dei sentimenti dell’altro;• sensibilità al significato emotivo;• attenzione agli indicatori non verbali;• centratura sulla persona assistita;• attenzione a non interpretare e a non giudicare (non significa indifferenza e laissez faire);• assenza di giudizi morali.

LA COMUNICAZIONE CON IL BAMBINO

Nella comunicazione con i bambini, bisogna privilegiare la conversazione. Anche per i bambini, come per gli adulti, conversare è un’attività piacevole, ma nel relazionarsi con loro è necessario essere graduali, poco immediati e mettersi in una posizione di ascolto. In un primo tempo, pertanto, è opportuno procedere lentamente, senza fare molte domande, e senza andare alla ricerca di particolari che abbiano l’obiettivo di scavare a fondo tra i loro vissuti. Ci si deve sforzare di rimanere quasi sul vago, in una condizione di ascolto che predispone a instaurare uno scambio comunicativo. Un altro sforzo da compiere sarà quello di immaginare ciò che il bambino ha in mente di dire, assecondandolo, senza anticipare conclusioni che si potrebbero rivelare errate. Spesso gli adulti, infatti, quando parlano con i bambini, lasciano loro poco spazio, interpretando tutto prima ancora che i bambini abbiano finito di esporre i loro racconti; a volte, addirittura, ne anticipano la fine, troncando la comunicazione e smorzando il loro naturale entusiasmo nell’entrare in relazione. Nel bambino, come nell’adulto, comunicare è importante perché lo fa sentire vivo, ma egli, a differenza dell’adulto, non ha chiare le leggi sociali che regolano le relazioni con le persone e tende sempre a mettersi al centro della situazione (egocentrismo infantile). Per questo motivo il bambino tende a comu-nicare le prime cose che gli vengono in mente o ripete varie volte le stesse informazioni, come se fosse sempre la prima volta. All’adulto spesso sfugge questa modalità, interpretandola come una dimenticanza, ma non è così. Ciò invece è legato alla necessità del bambino di esplorare il mondo relazionale proprio per imparare ad adeguarsi alle leggi e ai modi di fare dell’adulto. Per far questo, e quindi per essere più inserito, non è raro che il bambino, soprattutto durante la prima infanzia, faccia uso della bugia, non con cattiveria o con altri scopi particolari, ma semplicemente per risultare “carino” e farsi accettare, pur sapendo di non

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aver seguito ciò che l’adulto gli aveva chiesto di fare. La comunicazione con il bambino implica giocoforza, inoltre, la comunicazione con i genitori. Alcune regole da seguire:a. partire dalla verifica di comprensione del problema sanitario da parte del genitore;b. verificare le attese dei genitori (per poter essere loro d’aiuto nel superamento delle difficoltà);c. valutare la risposta emotiva a quanto viene da noi dichiarato;d. valutare il linguaggio utilizzato nelle risposte alle nostre informazioni;e. spiegare cos’è la malattia;f. indicare quale percorso bisognerebbe intraprendere per affrontarla;g. dare indicazioni riguardo la prognosi.Nel caso di patologia importante o cronica è necessario: a. raccontare al bambino la sua malattia in pochi minuti con l’ausilio di modelli comprensibili;b. rassicurarlo sul superamento della malattia e chi ci vuole un “certo tempo”;c. giustificare le modificazioni che interverranno nel mondo che lo circonda;d. rassicurarlo sulla spontaneità della malattia, per prevenire i sensi di colpa.

LA COMUNICAZIONE CON L’ADOLESCENTE

La comunicazione con l’adolescente è ancora più complessa rispetto a quella con i bambini per le ca-ratteristiche della fase di crescita e di crisi che l’adolescente attraversa. L’adolescente spesso manifesta la sua rabbia e il suo disagio attraverso l’uso di male parole o di un atteggiamento aggressivo. Barker sottolinea che alcuni adolescenti “usano termini volgari e parole ingiuriose per tentare di scandalizzare gli infermieri e per verificare fino a che punto sono accettati come sono”. Rispetto alle modalità spesso aggressive, diventa difficile instaurare un rapporto che non sia conflittuale, poiché l’adulto si sente chia-mato a ristabilire la propria autorità, non sottostando al più piccolo d’età. Ne viene fuori quasi sempre un conflitto violento con gravi effetti sul piano della comunicazione e delle relazioni interpersonali. Pur-troppo molti adolescenti non riescono a comunicare con gli adulti significativi, quali i genitori, perché non si sentono capiti né valorizzati; ciò li porta a bloccare ogni comunicazione decidendo di fare a meno dell’adulto in tutto e per tutto. Ne deriva che l’infermiere che si relaziona con adolescenti deve valutare sempre di poter essere l’oggetto su cui l’adolescente sfoga la sua rabbia e porsi in una situazione di vera comunicazione, accettando il linguaggio giovanile che quasi sempre è pungente e gergale. È opportuno che s’impari il gergo giovanile; ciò non significa usare le loro stesse espressioni colorite, ma di non porre censure o condizioni per prestare la propria assistenza. Un altro aspetto di fondamentale importanza è la garanzia della riservatezza, sia in entrata sia in uscita. In entrata, in quanto non bisogna insistere per farsi raccontare le cose a tutti i costi. In uscita, bisogna rassicurarlo sul fatto che il segreto non sarà viola-to (segreto professionale e relazione di fiducia). Alcune confidenze o confessioni fatte meriterebbero di essere raccontate ai genitori per aiutarli nel loro difficile compito. Tuttavia, le regole della comunicazione pongono limiti di segretezza ben precisi; non tenerne conto sarebbe un grave errore. Se, per gravi mo-tivi, si dovesse allargare la cerchia delle persone da informare, è bene che ciò avvenga con il consen-so dell’adolescente, pena il blocco del flusso comunicativo e della fiducia verso gli adulti.

LA COMUNICAZIONE CON L’ANZIANO

La vecchiaia è, insieme all’adolescenza, la fase della vita in cui l’individuo si trova a dover affrontare dei cambiamenti sostanziali non solo del proprio corpo e della propria immagine esterna ma anche delle vere e proprie modifiche o sovvertimenti interni, legati alle proprie aspettative future, necessariamente ridotte, a separazioni, a perdite o cambiamenti che, se nell’adolescenza sono legati a futuri recuperi, nell’anziano sono irreversibili. Un’altra distinzione fondamentale rispetto all’adolescenza è che, mentre in quest’ultimo caso si cambia solo per processo, nella vecchiaia ciò può avvenire per evento; una malattia, infatti, può improvvisamente accelerare l’invecchiamento o addirittura far precipitare una situazione fino ad allora in re-lativo equilibrio, così come la perdita improvvisa di una persona significativa per la vita affettiva può portare

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a depressioni o ad altre reazioni patologiche, se non, addirittura, a lasciarsi andare fino a lasciare la vita stes-sa, come dimostrano gli studi sul social support. Nella relazione con l’assistito anziano, l’infermiere deve, innanzitutto, tener conto di alcune patologie legate all’età (soprattutto udito e voce), che possono alterare la comunicazione, comunque più difficoltosa anche in assenza di patologia. Diventa, quindi, rilevante evita-re rumori di fondo, situazioni di disturbo e contemporaneità di suoni. Occorre, inoltre, adattare il volume di voce all’effettiva capacità uditiva della persona. Un’altra questione fondamentale, quando ci si relaziona con un malato anziano, riguarda il fatto che, pur essendo un adulto, il forzato allontanamento dalla vita produt-tiva gli impone l’adattamento a una nuova condizione che comporta necessariamente una rimodulazione delle sue abitudini. Al di là delle eventuali patologie, è molto importante tener presente l’isolamento cui vanno incontro molti anziani. Spesso, infatti, la persona si sente sola, lasciandosi andare a un sentimento di sconforto e frustrazione che lo porta a considerarsi inutile, a sentirsi un peso per i familiari, soprattutto quando la malattia, accentuando la sua condizione di dipendenza, costringe questi ultimi a mettere in se-condo piano i loro impegni o a impedirne le attività. Rispetto alle questioni legate all’isolamento cui spesso vanno incontro gli anziani, si deve tener conto di quanto una buona relazione di sostegno sia importante nel favorire la compliance e il processo di guarigione, proprio per le sue caratteristiche intrinseche. Gli studi sul social support dimostrano, infatti, che il sostegno sociale rappresenta, a tutte le età, un grande fattore di protezione rispetto allo sviluppo di malattie fisiche e psichiche e rispetto alla mortalità. Anche in quelle situazioni nelle quali ci sono buona assistenza familiare e attaccamento affettivo, l’anziano, spesso, risulta comunque un assistito difficile per via della caparbietà che lo caratterizza. Per questi motivi è importante riuscire a comunicare con lui senza dargli l’impressione di essere un peso. Tale obiettivo si può raggiungere avendo presenti alcuni punti.a. L’anziano ha un gran bisogno di comunicare per sentirsi “vivo” e non rimanere isolato.b. Tende a essere ripetitivo per paura di non essere compreso.c. Per i limiti che ha, può risultare arrogante, superbo e mal disposto ad ascoltare le ragioni altrui: è impor-

tante comprendere che dietro questo comportamento di attacco si nasconde un meccanismo di difesa per affermare la sua persona e compensare la sua dipendenza.

d. Vive più di ricordi che di presente. Aiutarlo a rievocare la sua storia permette di entrare in un rapporto significativo di comunicazione con lui e di dare nuovo significato ad aspetti problematici della vita, con ricadute positive sul piano della risposta alle cure.

e. Non banalizzare, non cedere al senso comune che vuole gli anziani come bambini.

IL RUOLO DELLA FAMIGLIA Il terzo millennio, insieme alla consolidata certezza dell’allungamento della vita, ci ha messo davanti le numerose patologie invalidanti della vecchiaia, che spesso compaiono lentamente ma che finiscono per annullare l’autosufficienza di una persona. In Italia, le persone anziane, in varia misura bisognose di assi-stenza, sono milioni. Accanto a loro ci sono poi invalidi, disabili, persone con gravi malattie e altri soggetti incapaci di badare a se stessi. Non essendo possibile che sia la società a farsi completamente carico di tutte queste persone per ovvi problemi di costo, ci si aspetta che, in caso di bisogno, sia la famiglia a farsi carico e a essere presente; in particolare molto sentito è il problema degli anziani e l’attenzione che la famiglia deve prestare a questi. Il coinvolgimento della famiglia è importante per:a. prestare particolare attenzione alle attività motorie e alla capacità sensoriale;b. promuovere l’autonomia individuale;c. evitare emarginazione e isolamento;d. mantenere l’equilibrio psichico, attraverso la stimolazione di relazioni affettive.La famiglia diviene quindi fondamentale per:a. il precoce reinserimento del malato, specialmente anziano, nel suo contesto sociale dopo un ricovero

ospedaliero;b. la riduzione del tasso di ospedalizzazione;c. il miglioramento dell’assistenza sanitaria ai malati cronici e a quelli in fase terminale;d. l’innesco di metodologie di intervento sanitario integrato ed unificato.

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Molti sono i vantaggi, quali:a. vantaggi di ordine umano e sociale, derivanti dall’inserimento dell’assistito nel suo ambiente familiare;b. vantaggi sull’efficacia del trattamento assistenziale, derivanti dalla continuità della cura dall’ospedale al

domicilio;c. vantaggi sull’organizzazione e sull’efficienza dei servizi sanitari, in quanto l’assistenza sanitaria a domi-

cilio rappresenta una concreta modalità di apertura e di collegamento dell’ospedale ai servizi sanitari territoriali e all’assistenza medica di famiglia in particolare;

d. vantaggi culturali e professionali, in quanto l’interazione famiglia e infermiere può costituire un momen-to di reciproca formazione e arricchimento culturale;

e. orientamento a una visione globale del trattamento;f. vantaggi sotto l’aspetto dell’educazione sanitaria, poiché la famiglia e il malato possono trarre, attraverso

il coinvolgimento, utili informazioni. Dai rapporti Istat emerge che un italiano su quattro assiste un familiare. Già verso la fine del 2000 il ritmo di crescita di questi assistenti è stato dell’8%, superando i 13 milioni, in maggioranza donne sopra la cinquan-tina. Dal punto di vista della crescita quantitativa, il fenomeno può essere spiegato attraverso l’allungamento dell’età media della popolazione in generale e nei mutamenti epidemiologici di alcune patologie, che vedono sempre più spostare il baricentro da quelle acute, verso quelle a carattere cronico-degenerativo. È bene ricor-dare che, secondo quanto dettato dal Piano Sanitario Nazionale 2006/2008, la famiglia è uno dei nodi della rete assistenziale, al pari degli altri ambiti considerati, poiché riveste il doppio ruolo di espressione di richiesta assistenziale e di risorsa con cui instaurare un’alleanza sanitaria. La famiglia è l’unità primaria di contenimento e di gestione dei bisogni dell’individuo ed è il luogo in cui questi bisogni vengono principalmente soddisfatti.

LA COMUNICAZIONE CON I FAMILIARI

Lungo il percorso dell’esperienza di assistenza, che si evolve in diverse fasi, il familiare o caregiver svolge compiti rilevanti per la persona malata. Questi si articolano principalmente su due fronti concreti: quello delle cure infermieristiche e quello del sostegno psicologico. A questi compiti corrisponde una molteplicità di bisogni del caregiver stesso, di natura strumentale ed emotiva. La richiesta d’informazioni chiare e mirate e di una comunicazione efficace sembra essere uno dei bisogni primari da cui partire. Jansama e colleghi nell’indagare il tipo di supporto richiesto dagli informal caregiver (viene definito informal caregiver quella figura non necessariamente con competenze professionali legate all’assistenza, appartenente prevalente-mente alla sfera familiare o amicale dell’assistito) nella fase delle cure oncologiche palliative, mettono in luce come il 30% del campione intervistato esprima come prioritari i bisogni relativi alla comunicazione, in particolare il bisogno di essere ascoltati (84%), di discutere di questioni delicate (76%) e di parlare libe-ramente del cancro (76%). Kinmberlin e colleghi, indagando (attraverso focus group e interviste condotte con gli assistiti e i caregiver) i fattori che possono facilitare o ostacolare la comunicazione con gli infermieri relativamente al processo di cure, hanno rilevato come il primo suggerimento sia quello di migliorare il processo di scambio di informazioni. Le persone richiedono infatti agli infermieri un atteggiamento di dispo-nibilità nel rispondere in modo esauriente, attraverso un linguaggio semplice, ai loro quesiti sulla malattia, sulla prognosi e sui trattamenti. Assistiti e caregiver inoltre auspicano un ruolo più attivo nel processo di cura, tramite la possibilità di esprimere i propri bisogni e vissuti e la necessità di chiarimenti. Viene eviden-ziato inoltre quanto una buona relazione con l’infermiere possa essere inficiata da alcuni comportamenti da parte di quest’ultimo, quali prendere decisioni per l’assistito, nascondere informazioni e assumere un atteg-giamento direttivo che non tiene conto dei sentimenti dell’assistito e del caregiver. Al contrario, il mostrarsi interessato, fornendo supporto emotivo e un ascolto empatico, e l’incoraggiare l’assistito all’indipendenza, rispettando la sua autonomia, sono elementi che facilitano il costruirsi di una relazione costruttiva. Assistiti e caregiver esprimono anche la necessità di risposte tempestive e di una minore pressione temporale durante le visite. In particolare i caregiver esprimono il loro bisogno di essere riconosciuti e valorizzati dagli infermieri nel loro ruolo. Per aiutare la comunicazione coi familiari si possono utilizzare questi strumenti:a. disponibilità all’ascolto;b. uso di ausili visivi;

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c. uso di materiale scritto;d. uso di un linguaggio adeguato;e. valorizzazione dell’esperienza acquisita;f. contenimento emotivo.È sempre comunque fondamentale individuare il “famigliare chiave“, la persona cioè che dal punto di vista del malato è per lui fonte di maggior sostegno. È questa la persona a cui anche l’infermiere può riferirsi, previo consenso del malato, per dare/ricevere informazioni utili a comprenderne la malattia. Gli obiettivi che ci dobbiamo porre sono quelli di aiutarli a comprendere gli stadi psicologici che attraversa il malato, di informarli sulla natura e l’evoluzione della malattia e sulle possibilità di cure e di assistenza e di offrire loro sostegno emotivo.

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L’EDUCAZIONE SANITARIA

L’EDUCAZIONE SANITARIA E L’EMPOWERMENT DEL MALATO

L’educazione sanitaria viene definita come: “Un’attività di comunicazione intesa a incrementare la salute, a eliminare i fattori di rischio e a prevenire le malattie, rivolta a soggetti singoli o ad intere comunità e re-alizzata influenzando positivamente le conoscenze, gli atteggiamenti e i comportamenti del singolo, delle comunità e dei detentori del potere” (Smith, 1979). Essa è legata all’analisi dei bisogni reali, surreali, per-cepiti e espressi ed è connessa con la definizione di salute, come uno stato di completo benessere fisico, psichico e sociale e non semplicemente l’assenza di malattia o di infermità. Nella Carta di Ottawa (1986) si introduce il concetto di promozione della salute definita come “un processo tramite il quale si può garan-tire alle persone l’opportunità di aumentare il controllo sulla propria salute e quindi migliorarla”. Alla base dell’empowerment e dell’educazione sanitaria vi è la comunicazione tra l’ambiente sanitario e l’esterno che rappresenta un’importante funzione di relazione tra gli assistiti e gli operatori sanitari. Oggi è stata proposta una serie di regole che devono stare alla base di un nuovo rapporto tra infermiere e assistito. L’assistito ha diritto alla piena e corretta informazione sull’assistenza infermieristica.a. La relazione fra l’infermiere e l’assistito deve essere tale da garantire l’autonomia delle scelte della per-

sona. b. II rapporto è paritetico; non deve, perciò, essere influenzato dalla disparità di conoscenze (comanda

chi detiene il sapere sanitario, obbedisce chi ne è sprovvisto), ma improntato alla condivisione delle responsabilità e alla libertà di critica.

c. L’alleanza assistenziale si fonda sul riconoscimento delle rispettive competenze e si basa sulla lealtà reciproca, su un’informazione onesta e sul rispetto dei valori della persona.

d. La corretta informazione contribuisce a garantire la relazione, ad assicurarne la continuità ed è elemento indispensabile per l’autonomia delle scelte dell’assistito.

e. II tempo dedicato all’informazione, alla comunicazione e alla relazione è tempo di cura.f. Una corretta informazione esige un linguaggio chiaro e condiviso. Deve, inoltre, essere accessibile,

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comprensibile, attendibile, accurata, completa, basata sulle prove di efficacia, credibile e utile. Non deve essere discriminata in base all’età, al sesso, al gruppo etnico, alla religione, nel rispetto delle preferenze dell’assistito.

g. La chiara comprensione dei benefici e degli effetti negativi è essenziale per le scelte dell’assistito.h. La dichiarazione su eventuali conflitti d’interesse commerciali o organizzativi deve far parte dell’informa-

zione.i. L’informazione sulle alternative, sulla disuguaglianza dell’offerta dei servizi e sulle migliori opportunità

assistenziali è fondamentale e favorisce, nei limiti del possibile, l’esercizio della libera scelta dell’assisti-to.

l. L’infermiere con umanità comunica il processo assistenziale in maniera completa, nel rispetto delle volontà, dei valori e delle preferenze dell’assistito.

m. Ogni scelta assistenziale deve essere basata sul consenso consapevole. Solo per la persona incapace la scelta viene espressa anche da chi se ne prende cura.

n. L’infermiere si impegna a rispettare la libera scelta dell’individuo anche quando questa sia in contrasto con la propria e anche quando ne derivi un obiettivo pregiudizio per la salute, o, perfino, per la vita dell’assistito. La continuità della relazione viene garantita anche in questa circostanza.

o. La formazione alla comunicazione e all’informazione deve essere inserita nell’educazione di base e permanente degli infermieri.

L’empowerment del malato è una strategia che attraverso l’educazione sanitaria e la promozione dei com-portamenti favorevoli della salute fornisce agli assistiti gli strumenti critici per prendere le decisioni migliori per il loro benessere. È quindi una sorta di “terapia informativa”, che punta a ridurre, nel limite del possibile, l’asimmetria di conoscenze tra operatore sanitario e assistito, ma anche a ridimensionare le aspettative irrealistiche che poi si concretizzano, in caso di malattia, in consumi crescenti di prestazioni sanitarie, inade-guate e inappropriate. Il patient empowerment sottintende la formazione di una maggiore consapevolezza, volta a coinvolgere in modo attivo l’assistito non soltanto nella conservazione della propria salute, ma anche a indurre lo svolgimento delle cure assegnate. È uno strumento con cui consentire all’assistito l’esercizio dei propri diritti di essere informato su tutti gli aspetti sanitari che lo riguardano, nonché di compiere le scelte

relative alla propria salute.

L’EDUCAZIONE ALLA SALUTE E LA COMUNICAZIONE EDUCATIVA

Nell’interazione educativa la comunicazione è un processo a due vie, in cui l’infermiere e l’assistito entrano in gioco con un ruolo attivo. Tale interazione prevede una comunicazione ovviamente basata sia su un contenuto di educazione sia su un processo. Il processo della comunicazione educativa, essendo uno scambio continuo, prevede che l’infermiere occupi, alternativamente, sia la posizione di ricevente sia quella di emittente. Comunicare con una finalità educativa significa, infatti, non solo emettere dei messaggi, ma anche e soprattutto saperli recepire. La comunicazione educativa può essere suddivisa nelle due compo-nenti fondamentali che la caratterizzano e che si alternano comunque continuamente, interagendo tra loro: la comunicazione in cui l’assistito gioca prevalentemente il ruolo di emittente non solo di informazioni, ma anche di rappresentazioni, idee e vissuti che vengono comunicati a chi occupa la posizione in quel momen-to di educatore, che gioca quindi un ruolo di ricevente; e la comunicazione in cui viceversa l’infermiere ha il ruolo di emittente. A queste due componenti fondamentali della comunicazione educativa corrispondono delle abilità specifiche, che possono e devono essere acquisite anche nella formazione degli infermieri. Queste abilità comunicative riguardano sostanzialmente la capacità di ascoltare l’altro, le cosiddette liste-ning skill, e la capacità di trasmettere dei messaggi, le cosiddette teaching skill. Queste due componenti della comunicazione vanno sempre intese nella loro globalità, cioè come comunicazione verbale e non verbale, con tutte le valenze di conferma e disconferma che esse possono avere nella comunicazione, sia quando si ricevono che quando si trasmettono dei messaggi. Molte delle strategie comunicative “non direttive” indicate da Rogers sono state considerate particolarmente efficaci per sviluppare una comunica-zione educativa in modo particolare all’interno di un processo di educazione alla salute. Focalizzando la nostra attenzione su una comunicazione a due vie, possiamo affermare che un’abilità fondamentale per chi promuove la salute è quella, come abbiamo più volte detto, di saper ascoltare, in modo da poter aiutare

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l’assistito a parlare e ad analizzare i suoi bisogni. L’apertura all’altro attraverso una strategia di ascolto “atti-vo” si basa su vere e proprie tecniche di comunicazione verbale e non verbale: l’ascolto attivo può essere favorito oltre che dal silenzio, e dalla capacità di non interrompere l’assistito, anche da alcune sollecitazioni che incoraggino l’interlocutore a proseguire il suo discorso: si tratta delle cosiddette tecniche di continua-zione, rappresentate da brevi frasi quali “Bene…”, “Ho capito”, “Vada avanti…” e di interventi caratterizzati da un utilizzo espressivo del tono di voce o semplicemente strategie di continuazione non verbale quali l’annuire o lo sguardo interessato. L’altra componente fondamentale della comunicazione educativa è data dalle modalità utilizzate per comunicare, facendo in modo che, anche se l’infermiere si trova in posizione di emittente, l’assistito sia sempre attivamente coinvolto nel processo. Per raggiungere questo scopo, il principio comunicativo fondamentale è la retroazione costante, intesa come capacità di dare e ricevere continuamente feedback. Questo significa che, in linea generale, un processo di comunicazione educativa, per essere maggiormente efficace, deve in qualche modo partire sempre da elementi forniti dall’assistito, su cui effettuare una “restituzione”, in un processo continuo di retroazione. Per quanto possibile, anche in un processo comunicativo di educazione alla salute è importante partire da informazioni, dati, idee, sen-sazioni, che ci sono state offerte dall’altro e su di esse costruire il feedback. Per questo motivo le strategie comunicative non direttive sono da privilegiare nei processi di educazione alla salute. Queste strategie non direttive di restituzione di messaggi sono supportate da una serie di tecniche specifiche di comunicazione: la parafrasi, cioè ad esempio la sintesi di un messaggio, per quanto possibile, utilizzando le stesse parole dell’assistito, la breve ricapitolazione, che consiste nel riassumere i contenuti espressi in modo sintetico, per ottenere conferma sul significato, e la riformulazione, che consiste nel far emergere le dimensioni del problema di salute che erano rimaste in secondo piano o inespresse. La capacità di dare un feedback alla persona assistita rispetto alle informazioni ricevute non riguarda soltanto il livello cognitivo, ma anche e soprattutto quello emotivo. Si tratta quindi, anche nei processi di educazione alla salute, di sviluppare la capacità di riflettere sensazioni, rinviando all’assistito le sensazioni che sta comunicando sia con le parole sia con il linguaggio corporeo. Ad esempio “mi sembra che stia bene”, “mi sembra molto amareggiato”. Queste capacità comunicative specifiche hanno direttamente a che fare con la capacità dell’infermiere di attivare concretamente una relazione empatica con l’assistito, di mettersi cioè “nei suoi panni”, per cui il messaggio è “ho capito quali sono le sue sensazioni, i suoi vissuti, anche se non ho il suo problema di salute”. Le tecniche comunicative specifiche che veicolano questo tipo di comunicazione sono le cosiddette espressioni empatiche quali appunto “mi sembra molto amareggiato” e gli interventi di legittimazione e di supporto, come ad esempio “tutti sarebbero altrettanto spaventati” e “vorrei essere certo che lei sappia di poter contare su di me”. Per quanto riguarda la capacità di ricevere feedback dall’assistito, dopo questi pro-cessi di restituzione, in un continuo processo di retroazione, le tecniche comunicative utilizzabili sono quelle che abbiamo esposto precedentemente, quando abbiamo parlato dell’assistito soprattutto come ricevente. Vi è infine una terza componente fondamentale della comunicazione educativa dell’infermiere che si trova in posizione di emittente, la quale ha a che fare con le strategie educative volte a facilitare la comprensione dei messaggi e al contempo a monitorare continuamente il processo educativo stesso. Queste strategie vengono più frequentemente attivate nei processi di educazione alla salute più formalizzati , ma hanno una notevole importanza anche nelle situazioni più destrutturate e informali. Possono risultare strategie efficaci per facilitare il processo educativo: a. il chiarire all’inizio del processo di educazione sanitaria di che cosa si ha intenzione di parlare; b. fare esempi, quanto più possibile vicini alla realtà dell’assistito con cui stiamo comunicando; c. utilizzare immagini o schemi quando opportuno; d. utilizzare strategicamente la ripetizione dei concetti-chiave; e. prevedere momenti di sintesi finale e di chiarificazione delle parti fondamentali emerse nel colloquio; f. verificare la comprensione dei messaggi, stimolando domande, riflessioni, osservazioni.Tutte queste strategie sono quelle che caratterizzano una “buona lezione”. È per questo motivo che queste strategie sono quelle più utilizzate, spesso in modo semplicistico, dagli infermieri nei processi non solo di educazione alla salute, ma anche di educazione dell’assistito, perché si rifanno ai modelli positivi interio-rizzati durante la propria storia di formazione. Anche l’infermiere più orientato a un modello dell’istruzione dell’assistito cercherà, per far in modo che i suoi messaggi passino, di fare esempi, di ribadire continuamen-te i concetti più importanti, nonché di rinforzare gli atteggiamenti dell’assistito in linea con il suo intervento. Il problema è che non solo queste strategie vengono spesso attivate in modo inconsapevole, ma soprattut-

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to spesso non sono centrate sull’altro, nell’ottica di una comunicazione educativa. Una maggiore consape-volezza, nonché una centratura dell’intervento sull’altro, permetterebbero un proficuo utilizzo di adeguate tecniche di comunicazione, quali ad esempio il focusing, cioè attirare l’attenzione dell’assistito su un punto fondamentale del colloquio, l’uso opportuno delle categorizzazioni, cioè interventi di tipo metacomunica-tivo, che servono a spiegare qualcosa che sta accadendo. Anche la verifica finale della comprensione che si basa sulle cosiddette checking back skill può essere attivata in questa duplice ottica tanto di istruzione tanto di educazione. La verifica di comprensione dei messaggi riguarda solo in parte la capacità di valutare direttamente la comprensione da parte dell’assistito del messaggio educativo, con la classica domanda “è tutto chiaro?”, spesso posta in modo paternalistico. Si tratta infatti più di frequente di sviluppare la capacità di analizzare le reazioni dell’individuo ai messaggi dell’interazione sia attraverso domande indirette o di controllo della comprensione, sia attraverso il monitoraggio della comunicazione non verbale, consideran-do ad esempio l’imbarazzo o il silenzio ostinato dell’assistito segnali di non comprensione del messaggio.Vediamo quindi in sintesi come nelle teaching skill diverse siano le variabili in gioco, ma che si trovano tra loro correlate nella complessità dei processi di comunicazione nell’ambito dell’educazione alla salute: da un lato l’uso del linguaggio e la modalità di strutturazione della frase; da un altro la capacità di costruire uno scambio basato sulla continua retroazione anche quando ci si trova nella posizione di emittente; da un altro ancora, infine, la capacità di strutturare il messaggio in modo efficace, mantenendo costante-mente l’attenzione alla centratura del processo sulle esigenze e sulle reazioni dell’altro. È richiesta una ulteriore competenza fondamentale nei processi di educazione alla salute, oltre a quelle di pianificazione e di comunicazione educativa, che ha a che fare con la capacità dell›infermiere di motivare l›assistito al cambiamento. Ciò in quanto l’assistito, con le sue rappresentazioni, le sue aspettative i suoi vissuti sulle diverse abitudini e stili di vita nonché sui cosiddetti comportamenti a rischio, ha un ruolo fondamentale. Per educare alla salute è indispensabile analizzare continuamente, nell’interazione, alcuni elementi che impediscono all’assistito di attivare il cambiamento, quali: a. la percezione di vulnerabilità e di gravità del comportamento in questione (ad esempio nell’alcolismo,

quanto è rischioso bere);b. la credenza di efficacia, cioè la possibilità di “potercela fare” a cambiare (ad esempio smettere di bere);c. gli eventuali giudizi restituiti dall’assistito, per cui egli si sente irrealisticamente immune o in grado di

controllare determinate conseguenze derivanti da suoi comportamenti a rischio (ad esempio, pensare di essere immuni dai rischi dell’alcolismo);

d. la coerenza tra il cambiamento proposto e le norme soggettive e le esperienze pregresse dell’assistito (ad esempio, quale significato viene attribuito all’alcolismo nel gruppo dei pari);

e. le influenze sociali sui comportamenti da modificare (quanto i gruppi sociali di riferimento possono positivamente o negativamente influenzare la scelta di smettere di bere).

La capacità di comprensione della “domanda” profonda, cioè del bisogno di educazione alla salute del singolo, anche nelle sue dimensioni inespresse e latenti, costituisce un passaggio fondamentale in tutti questi processi e spesso viene attivata inconsapevolmente da chi in essi ricopre la posizione di infermiere. La capacità di comprendere il bisogno profondo dell’altro è un elemento fondamentale e si traduce nella capacità di comprendere empaticamente l’altro (entropatia), nel vedere momentaneamente il mondo dal suo punto di vista; significa vedere l’altro così come l’altro si vede, significa infine saper indossare i suoi panni e cioè cogliere quella cornice che contraddistingue la sua vita. Si tratta di cercare di capire chi è l’assistito che abbiamo di fronte, che cosa pensa, che cosa sente, qual’è la sua storia e quindi non solo il suo bisogno profondo, ma anche il suo potenziale, le sue risorse nell’ottica dello sviluppo dell›autonomia e dell’empowerment. Questo incontro entropatico con l’altro si realizza sostanzialmente attraverso il dialogo, che trova i suoi contenuti nell’esperienza e nella vita della persona. Questo dialogo è caratterizzato dalla specularità e dall’immediatezza, dalla vicinanza nel tempo e nello spa-zio tra le due forme grammaticali dell’”io” e del “tu”, cioè da forme di comunicazione educativa in cui non solo è attivamente coinvolto l’assistito, ma anche entra continuamente in gioco chi occupa la posizione di infermiere. In questo senso “enteropatico” e “dialogico”, educare alla salute significa pensare e realizzare un progetto educativo che spesso si colloca all’interno di un programma di educazione alla salute, ma che da esso si distingue, in quanto la nozione di progetto ha a che fare con la personalizzazione dell’intervento e la dimensione soggettiva della relazione educativa. Questa capacità è da intendersi soprattutto come capacità di fare un progetto con l’altro, e non su l’altro, per lo sviluppo o il mantenimento della sua salute,

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in continuità con la fondamentale capacità di comprensione da parte dell’infermiere. Da quanto detto finora, risulta chiaro che l’assistito è fondamentalmente una persona da ascoltare. Se è chiaro che la partecipazione e la corresponsabilità dell’assistito nella cura e nella gestione della propria salute presuppone un ruolo attivo dell’assistito stesso, risulta che umanizzare e personalizzare la cura si-gnifica tenere conto dello stato d’animo dell’assistito; per capire lo stato d’animo occorre pensare che c’è stato un evento doloroso che ha messo in crisi l’immagine che aveva di sé e ha messo in dubbio i progetti della sua vita, producendo in lui paura e ansia. Per questo egli si aspetta dall’infermiere attenzione e una risposta immediata ai suoi problemi. L’assistito spesso tende a fissarsi sulla sua malattia e a considerare il proprio problema come se fosse il più grave e il più urgente. Va inoltre osservato che questo è spesso il disagio psicologico più comune. Infatti la solitudine psicologica non è solo fonte di sofferenza, in quanto in malattie molto difficili può produrre, per alcuni soggetti, degli aggravamenti. La comunicazione che si deve stabilire, pertanto, dovrebbe essere basata su alcuni elementi fondamentali quali l’ascolto, il rispetto, l’empatia, il contenimento dell’ansia e la gestione della speranza. L’obiettivo dovrebbe essere quello di comunicare speranza e ottimismo, non sul decorso della malattia e sui problemi che si dovrà superare, ma sul valore della persona in quanto tale che, al di là dei suoi limiti, sarà comunque in grado di interagire con gli altri e dare e ricevere emozioni. Il modello centrato sulla disease, cioè sulla componente biologica della malattia, è sostanzialmente centrato sui contenuti. Nel modello centrato invece sulla persona assistita, la considerazione della dimensione biologica della malattia e del vissuto di essa da parte dell’assistito porta l’infermiere a utilizzare prevalentemente uno stile non direttivo, in cui l’azione educativa non si basa solo sulla trasmissione di contenuti, ma concentra l’intervento sull’assistito allo scopo di valorizzare anche la di-mensione della malattia. L’informazione ha in questo modello un ruolo importante. Anche nell’educazione della persona assistita la dimensione informativa, quella dei contenuti è fondamentale; tuttavia, un conto è utilizzare l’informazione nel processo educativo e un altro è ricondurre esso esclusivamente a un’attività di trasmissione di informazioni. Affinché l’apprendimento in ambito assistenziale sia efficiente ed efficace, è necessario non limitarsi a concepire l’assistito come un contenitore da riempire, con una serie di informazioni, ma come un soggetto con una sua specificità, che reagisce in modo diverso alla malattia e alle indicazioni assistenziali a seconda della sua individualità. È evidente che per poter effettivamente educare l’assistito, diventa necessario non solo indagare la dimensione della malattia, ma anche tenerla in considerazione quando si decide e si mette in atto l’intervento assistenziale. Il processo di educazione dell’assistito si attiva a partire da questa diversa collocazione dell’infermiere nei confronti del malato e della sua malattia, che si realizza concretamente attraverso una serie di strategie e di competenze precise. Sono infatti anche qui importanti per l’infermie-re alcune capacità specifiche di comunicazione educativa e di motivazione al cambiamento, che sono indispensabili per poter attivare quella che è la competenza educativa fondamentale, che è la capacità di strutturare il progetto salute insieme all’assistito.La comunicazione educativa è costituita da tre elementi fondamentali:• un uso del linguaggio appropriato basato sulla scelta dei termini e sulla modalità di stesura della frase;• una serie di strategie educative come il fare esempi, l’utilizzo di immagini, la sintesi a chiusura dell’in-

tervento;• un uso consapevole di specifiche tecniche di comunicazione finalizzato a porre l’altro al centro dell’in-

terazione.Una parte importante della comunicazione finalizzata all’educazione dovrà essere dedicata all’ascolto, al fine di comprendere il punto di vista del malato, le sue idee, i suoi bisogni.Per educare veramente una persona assistita, per riuscire cioè a produrre degli apprendimenti significativi, non basta passare delle informazioni, magari attraverso un linguaggio adeguato e con delle strategie specifiche, ma è anche neces-sario riconoscergli la sua autonomia, quella che determina la sua adesione al trattamento. Occorre divenire consapevoli dell’importanza di questa dimensione, attivando processi comunicativi che, nelle modalità e nei contenuti, facciano emergere la malattia dell’assistito. Questo fa sì che si possa coinvolgere l’assistito nella scelta, legando le informazioni e le indicazioni terapeu-tiche basate sulle evidenze scientifiche alla sua vicenda esistenziale. In conclusione, l’educazione alla salute rappresenta il processo educativo attraverso il quale le persone assistite apprendono ad assumere consa-pevolmente decisioni utili al mantenimento e al miglioramento della propria salute. L’approccio educativo è quello maggiormente utilizzato e preferito nell’ambito della salute, poiché cerca di modificare i comporta-

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menti e tutti quei fattori quali atteggiamenti, e credenze che agiscono da mediatori per il comportamento. L’educazione alla salute, non si occupa solo della trasmissione delle informazioni intorno ai fattori di rischio delle malattie, ma anche degli strumenti e delle strategie utili a rafforzare nei soggetti la motivazione al cambiamento, quest’ultimo inteso come profondamente influenzato dalle condizioni sociali, economiche e culturali. L’obiettivo non è solo quello di lavorare sul cambiamento degli stili di vita individuali, ma anche e soprattutto di promuovere azioni affinché le persone e la famiglia possano definire i propri bisogni e realizzarli creando ambienti favorevoli alla salute.

LA RELAZIONE EDUCATIVA E L’EDUCAZIONE TERAPEUTICA

Si definisce educativa una relazione in cui almeno uno dei protagonisti ha lo scopo di promuovere nell’altro la crescita, lo sviluppo, la maturità e il raggiungimento di un modo di agire più adeguato e integrato.“...l’educazione terapeutica è un processo educativo che si propone di aiutare la persona malata (con la sua famiglia e nell’ambiente che lo circonda), ad acquisire e mantenere la capacità di gestire, in modo ottimale, la propria vita convivendo con la malattia”.“...è un processo che, transitando attraverso i vissuti della persona, prevede un insieme di attività organiz-zate di sensibilizzazione, di informazione, di apprendimento, di aiuto psicologico e sociale in relazione alla malattia, ai trattamenti, alla prevenzione delle complicanze, agli stati d’animo”.(Linee Guida Formazione di base dell’infermiere - Federazione Nazionale Collegi IPASVI, 1999)

Hildegarde Peplau descrive quattro esperienze che producono una energia che va trasformata in azione:a. i bisogni;b. la frustrazione;c. il conflitto;d. l’ansia.Nella relazione educativa soffermarsi sui quattro aspetti enunciati da Peplau orienta l’attenzione dell’infer-miere verso le condizioni meritevoli di intervento. Il nursing è un processo terapeutico interpersonale che funziona in cooperazione con gli altri sistemi umani e si sviluppa in quattro fasi:a. orientamento: aiuta a riconoscere il problema e a identificare l’aiuto di cui ha bisogno;b. identificazione: favorisce l’esplorazione dei sentimenti e riorienta rispetto al problema;c. utilizzazione: vantaggio concreto del rapporto terapeutico;d. risoluzione: conclusione e chiusura del rapporto.Secondo la teoria di Peplau, l’infermiere svolge cinque ruoli nell’aiutare a riconoscere, affrontare e accettare i problemi:a. insegnante: trasmette conoscenze rispetto al problema;b. esperto: fornisce informazioni specifiche che aiutano alla comprensione del problema;c. leader: guida nella situazione di difficoltà;d. sostituto: assume la funzione di sostituto rispetto alle proiezioni transferali dell’assistito;e. consulente: aiuta fornendo abilità e azioni.

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LA CONSAPEVOLEZZA, LA RESPONSABILITÀ, IL COINVOLGIMENTO E LA PARTECIPAZIONE DEL MALATO AL RAGGIUNGIMENTO DELLA PROPRIA SALUTE

IL RAPPORTO INFERMIERE/PERSONA ASSISTITA

Il disequilibrio tra l’infermiere e l’assistito è tra i più forti, essendo chiaro lo stato di soggezione, anche emo-tivo, che l’assistito ha normalmente nei riguardi di chi gli deve fornire il modo per mantenere o recuperare il benessere. Non a caso ancora oggi si usa parlare di un “paziente” che evidentemente si trova ad avere una situazione di disagio tale da porlo in condizione d’inferiorità negoziale rispetto alla “scienza sanitaria”. Talvolta, se pure inconsapevolmente, si genera nell’infermiere, per fortuna raramente, la percezione di compiere un atto di generosità verso l’assistito, trascurando il fatto che in realtà è pagato per tale servizio. Al di là di questo comunque qualsiasi infermiere si trova in una realtà negoziale. Gli elementi chiave nella negoziazione con un assistito sono:a. i comportamenti della persona assistita alla negoziazione osservati attraverso la comunicazione verbale

e non verbale;b. lo stile di comportamento primario della controparte che può essere identificato mediante l’osservazio-

ne delle caratteristiche del comportamento e dell’ambiente;c. le motivazioni che convincono l’assistito e che sono legate spesso allo stile di comportamento primario. È quindi importante impostare la negoziazione in modo che sia il più vicino possibile alle aspettative dell’assistito. Le ipotesi di fondo, per gestire una negoziazione corretta ed efficace, partono dalla considerazione che: a. sia l’infermiere sia l’assistito hanno il proprio stile di comportamento;b. il contatto infermiere/assistito sarà tanto più efficace:

• quanto più l’infermiere riuscirà ad adattare il suo stile a quello dell’assistito;• quanto più vi sarà una compatibilità di visioni.

Le caratteristiche fondamentali per avere una negoziazione corretta ed efficace sono la flessibilità e la fidu-cia. La fiducia che è fondata su tre fattori: a. essere credibili: gli assistiti hanno fiducia quando le informazioni fornite sono attendibili e adatte ai loro

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bisogni e alle loro esigenze;b. essere graditi: gli assistiti hanno fiducia se si sentono a proprio agio, quando capiscono che si fa tutto il

possibile per soddisfare le loro necessità e non soltanto le proprie;c. essere autorevoli: gli assistiti hanno fiducia se ci si dimostra ben informati e ben preparati.Occorre inoltre far presente che gli assistiti non sono in realtà, se non in casi particolari, di giudicare le qualità tecniche professionali degli infermieri, ma li valutano da altre dimensioni che riflettono quello che loro personalmente apprezzano. Gli assistiti valutano gli infermieri sulle seguenti dimensioni: a. quella riguardante il suo valore, le sue preferenze e i suoi bisogni espressi;b. l’accesso all’assistenza e i tempi di attesa;c. i supporti, in particolare il supporto e l’aiuto a ridurre l’ansia e la paura;d. l’informazione, la comunicazione e l’educazione;e. la condivisione dell’assistenza;f. la comodità e il benessere psicologico;g. il coinvolgimento della famiglia;h. la continuità e la transizione verso differenti ambiti di cura.

IL MODELLO RELAZIONALE

Attualmente, il modello relazionale infermiere/persona assistita che più si adatta alla visione bio-psico-so-ciale è quello “deliberativo” (patient-centred) dove le decisioni sono prese insieme dall’infermiere e dall’as-sistito. La relazione interpersonale deve essere corretta ed efficace in quanto:a. l’infermiere comprende meglio e prima i bisogni, le necessità e le esigenze dell’assistito;b. se si sa comunicare bene, si ottengono miglioramenti nello stato di salute.Avere chiara la sua situazione rende la persona assistita consapevole e capace di prendere decisioni e col-laborare attivamente al mantenimento della propria salute, situazione particolarmente importante per chi è affetto da malattie croniche. La buona comunicazione fornisce importanti indicazioni e informazioni alla luce delle quali l’assistito può valutare i motivi del suo comportamento, può intervenire su di essi, modificandoli o migliorandoli così da prevenire o limitare danni alla propria salute. Una buona relazione fa bene “a chi è assistito” ma anche al “chi assiste”. L’infermiere fa parte delle professioni di aiuto (helping professions).

Possiamo aiutare molto la persona assistita se siamo presenti con l’ascolto. L’ascolto è parte integrante, è la base, come sappiamo della comunicazione. L’ascolto dell’infermiere è la comunicazione più efficace: pensiamo, dunque, che relazione inefficace, dannosa si può condurre quando, durante l’assistenza, vi è frettolosità, o se il telefono ci interrompe di continuo, o se ci portiamo addosso la rabbia, la frustrazione che magari abbiamo accumulato nell’assistenza o in una telefonata precedente. Michael Balint diceva che: “bisogna ascoltare con tutti i pori della pelle”, con “il terzo orecchio”, anche al di là delle parole dell’assistito. Si possono così avere informazioni ben più ampie di quelle esplicitate solo con le parole. Ancora, si aiuta l’altro solo se lo sappiamo considerare una persona, se proviamo “empatia”, che vuol dire mettersi dalla parte dell’assistito, cercare di comprenderlo, ma senza un coinvolgimento personale che ci allontanerebbe da una visione effettiva e decisionale. Oggi ogni infermiere sperimenta quotidiana-mente il peso del disagio, quanto le emozioni negative siano sempre più frequenti, quanto sia più difficile mantenere un equilibrio personale, professionale, quanto sia importante trovare motivazioni che permet-tano di andare avanti senza farsi troppo male. Viviamo un periodo di cambiamento, di crisi, siamo nel mezzo a mutamenti sia sociali sia economici sia culturali. Come in altre realtà, la spesa sanitaria è oggetto di pesanti tagli a fronte di un’età media che si allunga e con essa l’aumento delle patologie croniche. Inoltre, se da un lato l’assistito ha acquisito, giustamente, più consapevolezza del proprio stato di malattia, delle innovazioni diagnostiche e terapeutiche, dall’altro può essere oggetto di cattiva informazione o, meglio, di informazione fuorviante da parte dei mass-media in generale con tre diverse visioni:

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• la prima che dichiara che esiste una cura per tutto, tutto si può curare, il concetto di possibilità di morte e malattia viene rimosso;

• la seconda che la sanità è rappresentata solo da casi di cattiva gestione;• la terza che rimanda alla visione edulcorata di certe fiction televisive, ad un cattivo passaparola ed a

una cultura del “diritto a tutto, subito e gratis”.Tutto questo non può non avere una ricaduta sull’agire e sul pensare dell’infermiere che si trova a gestire una realtà veramente complessa, difficile, con risorse determinate e limitate e a scontrarsi quotidianamente con problematiche infinite. L’infermiere si trova a ricoprire, suo malgrado, un ruolo di mediatore tra:a. le esigenze amministrative legate al controllo della spesa sanitaria e alla giusta utilizzazione delle risorse

che sono giocoforza limitate e sempre meno;b. le esigenze scientifiche, dovendo esercitare attraverso l’EBN (Evidence Based Nursing) e quindi at-

traverso la conoscenza e l’applicazione di linee guida, di risultati di trial clinici, ecc. che richiedono un aggiornamento continuo;

c. le esigenze dell’efficacia, cioè delle aspettative e della soddisfazione dell’assistito.Il modello “deliberativo” deve essere calato nella realtà epidemiologica, che vede le malattie croniche in aumento a scapito di quelle acute, che assume un peso non indifferente e carica di ulteriori problemi la relazione infermiere/assistito. L’aumento degli assistiti affetti da malattie croniche necessita sicuramente di un approccio diverso. Tali assistiti vanno seguiti con la loro malattia che non è possibile o non si riesce ri-solvere. Il modello di relazione “deliberativo”, che non sostituisce, ma affianca quello basato sulla patologia, è quello che meglio ci permette di ottenere vantaggi e risultati valutabili scientificamente. È fondamentale un buon rapporto con l’infermiere. L’assistito diventa partecipe delle decisioni che lo riguardano, si trova in un ruolo attivo. Il particolare tipo di relazione fondata sulla reciproca fiducia e protratta nel tempo è anche un antidoto allo scoraggiamento. La malattia cronica è una malattia senza vittoria, si può rischiare un disinvestimento progressivo anche da parte dell’infermiere, l’assistito perde speranza, la compliance si abbassa, il quadro clinico rischia di compromettersi. Il malato cronico, spesso anziano, è uno dei più assidui frequentatori del SSN, offre sintomi o disturbi non necessariamente correlati alla patologia di base. Spes-so è un anziano solo, a volte vedovo/a, non inserito in una rete familiare e/o sociale. Il modello appena evidenziato deve però tenere presente che esistono e sono sempre più numerosi i “pazienti fragili”, che non sono in grado di partecipare personalmente al processo comunicativo che cura. Pensiamo ai grandi anziani, con decadimenti cognitivi, a volte allettati, spesso con badanti che a volte non capiscono bene la nostra lingua, che fanno quel lavoro per necessità. Spesso si ha difficoltà anche a comunicare con i loro figli o parenti, assenti per lavoro o troppo ansiosi e presi da problemi personali. In questi casi la comunicazione diventa veramente un problema e la frustrazione, la rabbia, l’impotenza personale rischiano di far perdere all’infermiere il nucleo centrale della relazione, la persona, che in questi casi non prende parte direttamente ma che rimane l’obiettivo principale dell’infermiere.

I BISOGNI, LE NECESSITÀ E LE ESIGENZE DELL’ASSISTITO

Per quanto riguarda i bisogni, le necessità e le esigenze dell’assistito ci sembra opportuno toccare qui alcuni punti che sono di estrema importanza. A livello nazionale, regionale e locale sono comparse norme, dichia-razioni, proclamazioni sui diritti della persona malata, nelle diverse situazioni in cui questa si può trovare, dal malato cronico al bambino. L’obiettivo è quello di tutelare un complesso di diritti non specificatamente previsti dalle leggi civili e penali dello Stato e garantire a un assistito, quando le condizioni di salute o di vita sociale non sono più ottimali, rendendolo più debole ed esponendolo alla dipendenza, una vita e un’assistenza qualitativamente degna. Per chi si ammala o perde la propria autonomia è normale provare un senso di sgomento di fronte alla nuova condizione d’impotenza e di dipendenza e alla necessità di entrare in contatto con persone e strutture sanitarie e sociali. Questa situazione provoca nell’assistito non solo paura per lo stato della propria condizione di salute, bensì anche angoscia e ansia per il profondo cambiamento di abitudini e stile di vita che tutto questo comporta. Qualora l’assistito stesso non fosse in condizioni di rendersi conto di tutto ciò, è comunque la famiglia che vive la situazione di cambiamento e di nuova dipendenza. Occorre ricordare che un assistito ha diritto a: a. ricevere le cure e l’assistenza necessarie rimanendo il più a lungo possibile nel proprio ambiente di vita;

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b. avere la massima considerazione della riservatezza;c. essere rispettato nelle sue abitudini e preferenze;d. ricevere tutte le informazioni sulle caratteristiche del servizio e su qualsiasi intervento gli venga praticato;e. scegliere liberamente il luogo dove ricevere le cure e il tipo di cure;f. essere aiutato a soddisfare tutti i suoi bisogni di assistenza;g. continuare ad essere curato ed assistito anche dopo l’evento acuto;h. essere messo al corrente dei motivi che fanno variare il tipo di assistenza.

Il dolore e la sofferenza Anche se non espressamente indicato al punto precedente, è indubbio che ogni malato abbia diritto a essere assistito anche in quelli che sono problemi principali correlati alla malattia: il dolore e la sofferenza.Il dolore e la sofferenza sono aspetti che da sempre accompagnano l’esistenza umana e a cui l’uomo cerca da sempre di dare una soluzione. Nell’esercizio della sua attività, l’infermiere si deve confrontare con il tema del dolore e della sofferenza poiché frequentemente si trova ad assistere persone che soffrono. Per poter essere in grado di affrontare queste situazioni, di stare vicino a persone sofferenti, è necessario che l’infermiere si sia confrontato con questi aspetti dell’esistenza umana e sul senso che essi assumono nella vita della persona. Si parla di dolore quando si vuole indicare un malessere fisico localizzato a una parte del corpo e di sofferenza quando s’intende un malessere più generalizzato, non necessariamente di tipo fisico. Oggi il dolore non è considerato solo un sintomo che consente di individuare la patologia, ma anche una “malattia”. Per l’assisti-to il dolore è un’esperienza percettiva complessa, molto soggettiva poiché influenzata da una serie di fattori: a. l’ansia: se l’ansia è elevata e si prolunga nel tempo amplifica la percezione del dolore;

b. l’ambiente: livelli elevati di stimolazione sensoriale sono nocivi;c. le relazioni: il rapporto di fiducia e la disponibilità di confidenza e di comunicazione efficace favoriscono

l’espressione del dolore;d. la disponibilità di farmaci efficaci: conoscere l’efficacia e la disponibilità di farmaci contro il dolore rende

più sopportabile il dolore stesso;e. le informazioni: se la persona assistita ha informazioni sul dolore, queste sono fondamentali nel deter-

minare il comportamento della persona stessa;f. la localizzazione del dolore: vi sono alcune sedi corporee e patologie maggiormente dolorose;g. le condizioni generali: la fatica, la tensione, lo stress accrescono la percezione del dolore;h. le persone a cui si è più legati: la loro presenza accanto alla persona che soffre eleva la soglia di tolle-

ranza al dolore;i. la soglia individuale di percezione del dolore: essa è legata a fattori genetici individuali;j. l’età: con l’aumentare dell’età aumenta il livello di tolleranza del dolore;k. il gruppo etnico di appartenenza e l’orientamento culturale: pure questi influenzano il livello di soppor-

tazione del dolore e il modo di esprimerlo;l. le esperienze precedenti: l’aver vissuto una precedente esperienza di dolore influenza notevolmente

l’esperienza successiva;m. il sesso: sembra che le donne abbiano una maggiore resistenza al dolore.Tutto ciò determina la probabilità che a uno stesso tipo di dolore corrisponda una percezione soggettiva anche molto diversa. Anche la sofferenza è un’esperienza percettiva complessa e multidimensionale che investe la persona nella sua totalità. Anche l’operatore sanitario può tendere a considerare la sofferenza come fatto fisico, appartenente al corpo e non alla persona nella sua totalità e a dimenticare che ogni qualvolta si interagisce con un corpo abbiamo a che fare con una persona nella sua globalità. Per questo la sofferenza può essere definita dal punto di vista:a. Fisico: quando la persona assistita manifesta un dolore più o meno localizzato che si identifica con una

parte del corpo. Il dolore è sempre un fenomeno soggettivo e come tale per lo stesso tipo di dolore vi possono essere percezioni soggettive molto diverse: un dolore può essere ben sopportato da una persona ed essere molto meno sopportato da un’altra. È dovere dell’infermiere non sottovalutare il dolore e riferire adeguatamente la situazione, perché non è la sede del dolore che può far ritenere più o meno importante la sua considerazione, bensì il senso di sofferenza che la persona sta vivendo che deve sempre trovare considerazione.

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b. Psicologico: quando la persona assistita manifesta un disagio emotivo più o meno intenso.- L’ansia, la paura, la preoccupazione per un problema di salute o per una situazione familiare, per

la persona sono fonti di sofferenza che non possono essere facilmente risolte.- La sofferenza diventa più grave quando si evidenziano sentimenti di solitudine, d’angoscia e di

depressione.c. Socio-culturale: quando la persona assistita manifesta disagio e disadattamento nei confronti del conte-

sto in cui è inserita. La persona assistita che desidera tornare a casa e che vuole essere curata e assistita secondo usi e abitudini proprie.

d. Teleologico: quando la persona assistita si domanda il senso di tutto quello che sta vivendo.La sofferenza che deriva da non trovare un senso e una via d’uscita a una situazione di vita angosciante, è un peso enorme, deleterio per la persona. Gli infermieri sono personalmente e direttamente coinvolti nel rapportarsi alla persona sofferente nel pieno rispetto della sua dignità.

LE DIVERSE TIPOLOGIE DI PERSONE ASSISTITE

Potremmo individuare cinque tipologie di persone assistite in base ai bisogni:a. la persona assistita in fase acuta;b. la persona assistita in fase cronica;c. la persona con disabilità;d. la persona con patologia psichiatrica;e. la persona anziana.

La persona assistita in fase acutaCon “malattia acuta” intendiamo tutte quelle manifestazioni patologiche che compaiono e decorrono in un periodo di tempo breve. A questa classe appartengono tutti quei malati che, dopo un accertamento diagnostico o un evento accidentale, necessitano di un ricovero ospedaliero; tale situazione determina un drastico cambiamento nella vita quotidiana della persona. Il soggetto che, nell’arco della sua vita, si trova improvvisamente a vivere uno stato di malattia, durante la fase acuta si ritrova con bisogni particolari rispetto alla normale quotidianità; le abitudini di vita vengono infatti stravolte e modificate. In questa fase gli infermieri tendono a dare, qualche volta, maggior importanza alla risoluzione dei problemi clinici rispet-to alla comunicazione con il soggetto malato; questo porta a vivere l’esperienza dell’ospedalizzazione in maniera negativa, sia per la mancanza di privacy sia per il vivere un momento di sofferenza ed estrema solitudine. La disponibilità degli infermieri che si occupano dell’assistito permetterà di svolgere un’attenta attività di recupero del suo processo di adattamento, che non è fisso ma dipende dal tempo a disposizione e delle caratteristiche personali. Nonostante l’assistenza in questa fase sia più orientata alla fase tecnica dovuta alla relativa urgenza clinica del malato, è bene ricordare nuovo il ruolo fondamentale che la co-municazione svolge nei confronti dello stesso. L’infermiere deve essere consapevole che il rapporto con l’assistito in questa fase deve tenere conto di tutto ciò che la persona sta vivendo, il che può determinare anche dei cambiamenti nella sua modalità di rapporto con l’ambiente circostante, e deve tenere in giu-sta considerazione tutto ciò, diventando una presenza positiva nel supportare l’assistito e i suoi familiari.

La persona assistita in fase cronicaCon malattia cronica intendiamo tutte quelle manifestazioni patologiche che decorrono in un lungo periodo di tempo. Appartengono a questa classe tutte quelle persone che da anni sono sottoposte a trattamenti terapeutici o riabilitativi come conseguenza di diversi tipi di patologie, così come le persone che sono da tempo in trattamento sanitario con frequenti controlli, interventi e modificazioni dello stato di salute, ecc.; tutte queste sono situazioni in cui la vita personale dell’assistito ha subito una lenta e lunga alterazione. Le malattie croniche sono condizioni permanenti che lasciano un’inabilità residua e sono causate da una pa-tologia non reversibile. Quando la persona patisce e subisce cambiamenti indesiderati, subentrano senti-menti di vergogna che conducono, soprattutto nei casi in cui la malattia si cronicizza, a depressione o sentimenti di pessimismo, sfiducia, autosvalutazione e inferiorità; questi incidono in maniera notevole

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nell’equilibrio emotivo della persona. Nella malattia cronica, l’immagine di sé risulta compromessa; l’auto-stima diminuisce e la persona può arrivare a sentirsi un peso per gli altri. In tale situazione la ricerca dell’at-teggiamento corretto dell’infermiere non è tanto orientata sul ‘che cosa si deve fare’, ma soprattutto sul ‘come si deve essere’. Dal canto suo, l’assistito deve imparare a convivere con la situazione, accettando i limiti fisici, psicologici o sociali che essa comporta. La malattia cronica richiede cure e competenze partico-lari, rapporti stretti e continui con le strutture sanitarie e ha, comunque, grande rilievo sulla vita sociale dell’assistito e della sua famiglia, sui suoi progetti e sulle sue aspirazioni. L’assistito cronico, a differenza di altri, è affetto da una malattia che, con le attuali conoscenze scientifiche, non riusciamo a guarire; riusciamo a mantenere l’assistito in buone condizioni di salute o rallentare la progressione dei sintomi solo grazie a continui interventi e attraverso ripetuti ricoveri in ospedale, spesso in day-hospital. Possiamo distinguere malati cronici che sono diventati tali a un certo momento della loro vita, da cronici che sono tali sin dalla nascita perché affetti da una malattia genetica o da malattie neonatali. Per questo secondo gruppo, la ma-lattia è parte intrinseca dell’esperienza di vita. La differenza tra i due tipi di malati cronici è che i primi sono malati cronici da un’età e quindi nella loro vita hanno goduto di un periodo più o meno lungo di benesse-re (assenza di malattia), a cui possono pensare come motivo di consolazione; gli altri sono, invece, malati cronici sin dalla nascita, non hanno mai goduto dell’assenza di malattia e quindi vivono con la speranza che la scienza arrivi un giorno alla guarigione della loro malattia. Il processo empatico, cioè la capacità di capire che cosa l’altro sta provando senza esserne emotivamente coinvolto, deve essere quindi il più ido-neo per aiutare l’assistito ad affrontare e superare alcune difficoltà. Se riesce a immedesimarsi nell’altro senza identificarsi, sarà più facile comprendere ciò che l’altro prova e quindi trovare un corretto atteggia-mento di aiuto e supporto alla persona. Le azioni dell’infermiere dovranno aiutare il malato a orientarsi verso il raggiungimento della maggiore armonia e autonomia possibile. All’interno della malattia cronica che insorge fin dalla nascita, distinguiamo il comportamento del bambino e quello dell’adolescente-giovane adulto. Due sono i concetti necessari per comprendere le implicazioni evolutive delle malattie croniche nell’età pediatrica: lo sviluppo della comprensione da parte del bambino dei meccanismi della malattia e le conseguenze della malattia sui differenti stadi dello sviluppo del bambino. Gli infermieri che assistono i bambini affetti da malattie croniche dovrebbero capire fino a che punto di comprensione della malattia sono giunti i loro assistiti per poter spiegare la malattia stessa e i suoi meccanismi in termini adeguati all’età. Dal momento che la capacità di comprensione dei bambini dipende dallo stadio di sviluppo delle capacità cognitive, i bambini hanno bisogno di ricevere informazioni circa la loro malattia in modo diverso man mano che crescono. I bambini piccoli tendono ad avere una comprensione concreta e relativamente su-perficiale della malattie. Essi possono interpretare la malattia come una risposta al loro cattivo comporta-mento o al fatto di non aver obbedito. I bambini di questa età credono che per star bene sia necessario obbedire a una serie di regole. Una malattia fisica esercita conseguenze diverse sui bambini in relazione allo stadio di sviluppo da loro raggiunto. Nell’infanzia, la malattia può alterare i parametri della crescita e dello sviluppo, influenzando l’alimentazione, il sonno, le capacità motorie (di conseguenza l’esplorazione dell’ambiente) o le funzioni sensoriali. La deformità fisica o la facile affaticabilità possono alterare la risposta del bambino ai genitori, che a loro volta possono comportarsi in modo differente nei confronti di questo bambino. Frequenti ricoveri in ospedale possono interferire con il normale sviluppo delle relazioni di reci-proca fiducia esistenti all’interno di una famiglia. Verso i quattro/cinque anni, quando i bambini acquistano autonomia, mobilità e autocontrollo, la malattia può interferire nuovamente con queste importanti tappe dello sviluppo. In età scolare, i bambini iniziano a distinguere sé stessi dagli eventi esterni che possono causare una malattia. Nei primi anni di scuola, i bambini possono divenire oggetto di schermo da parte dei compagni; possono andare incontro a frequenti assenze da scuola a causa della malattia o del suo tratta-mento, perdendo così le normali opportunità di una precoce socializzazione. Intorno ai 10 anni, i bambini possono comprendere pienamente i meccanismi fisiologici della malattia e i suoi differenti sintomi. Il pas-saggio dall’età pediatrica all’adolescenza è un momento durante il quale i bambini ampliano le loro com-petenze; la responsabilità per la cura della condizione patologica del bambino deve spostarsi gradualmen-te dai genitori al soggetto. I bambini non hanno il concetto di salute, malattia e guarigione fino al periodo adolescenziale, quando diventano possibili le operazioni formali e il pensiero astratto; pertanto, se la ma-lattia inizia nell’infanzia, può esservi in seguito una rielaborazione di informazioni e informazioni preceden-ti sia complete sia parziali. L’adolescente struttura in quest’epoca della vita la propria identità e la malattia cronica può interferire nella formazione dell’immagine di sé: se percepisce il proprio corpo come malato,

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può sviluppare tendenza alla depressione e all’isolamento, rifiuto della malattia e delle cure, eccessiva di-pendenza affettiva dai genitori e scarsa tendenza all’autoaffermazione. Gli adolescenti con malattia cronica hanno inoltre un basso livello di benessere emozionale e presentano preoccupazioni riguardo a una morte precoce, alla scuola, al lavoro e a una scadente immagine corporea. Un positivo sviluppo emozionale risul-ta invece associato a una forte stima di sé, alla coesione e al supporto familiare, mentre l’iperprotezione dei genitori può diminuire l’autostima. Per quanto riguarda l’accettazione della malattia, durante l’adolescenza si tende ad amplificare le differenze dalla norma, diminuisce la tolleranza a ogni malattia, ai segni e alle li-mitazioni che questa comporta e in alcuni genitori è scarsa la ‘tolleranza’ all’adolescenza stessa. Esistono inoltre genitori che hanno vissuto uno stress nel rendersi conto che loro figlio è malato; poiché spesso hanno già formulato pensieri riguardo al futuro del figlio, temono che, divenuto adolescente, non sarà in grado di condividere sentimenti, interessi e problemi con i coetanei sani e questo è vero anche per la sessualità. Alcune malattie croniche possono infine comportare ritardo dello sviluppo puberale; ciò può essere causa di una certa diffidenza ad affrontare approcci e rapporti sessuali, benché l’adolescente presen-ti un interesse normale per il sesso e la procreazione. L’esercizio dell’attività sportiva può essere ostacolato oltre che da obiettive difficoltà di ordine fisico, quando esistenti, dall’atteggiamento iperprotettivo dei geni-tori. Questi adolescenti possono trovare maggiori difficoltà a inserirsi in un’attività lavorativa a causa dei pregiudizi e delle frequenti assenze legate all’ospedalizzazione; tuttavia, la maggior parte ha una transizione verso l’età adulta sovrapponibile o addirittura con una maggiore maturità e responsabilità rispetto ai coeta-nei. Dall’adolescenza in poi, l’assistito trova grandi ostacoli nell’integrazione all’interno della società, anche a causa delle gravi difficoltà a trovare un partner disposto ad unirsi stabilmente con lui, e a inserirsi nel mondo del lavoro. Gli adolescenti e i giovani adulti con malattie croniche hanno bisogni particolari diversi dagli assistiti in età preadolescenziale. L’assistito ha bisogno di comunicare direttamente con il personale di assistenza e spesso in modo privilegiato, senza la mediazione o la presenza dei genitori. Oggetto della comunicazione possono essere non soltanto la diagnosi e i programmi di terapia, ma anche i progetti per l’avvenire, le problematiche relative all’attività lavorativa e alla vita di coppia. Nell’età adolescenziale la co-municazione assume, quindi, un particolare valore e ha un’importanza che può essere determinante ai fini del controllo della malattia in quanto solo essa permette di avere ragione, nel tempo, degli atteggiamenti di rifiuto che prima o dopo compaiono durante l’adolescenza. La filosofia dell’approccio all’adolescente e ai suoi problemi deve essere uguale da parte di tutto il personale di assistenza, perché l’adolescente sareb-be molto disturbato nel ricevere messaggi non coerenti. Il programma di assistenza deve essere discusso con l’adolescente e formulato tenendo conto delle sue esigenze. In ogni caso esso deve tendere alla ridu-zione dei tempi di ricovero e del numero di accessi in ospedale e deve essere flessibile, in modo da poter essere adattato alle esigenze del giovane assistito, man mano che esse cambiano con il trascorrere degli anni. Durante l’età adulta, per poter vivere in modo positivo la fase, più o meno lunga, di malattia, tra infer-miere e assistito devono circolare di continuo flussi di informazioni chiare e adeguate; gli infermieri devono essere sempre disponibili a dare il loro sostegno, ad ascoltare e a infondere fiducia. Anche il tipo di struttu-ra e di assistenza fornita, molto importante per contenere il disagio del malato e della famiglia, le degenze brevi, in regime di Day Hospital ogni volta che sia possibile e il rispetto dei tempi programmati consenti-ranno la prosecuzione di una vita sociale accettabile. Anche per l’adulto occorre inoltre facilitare l’accesso a tutta una serie di ‘fattori protettivi’ comprendenti la buona comunicazione familiare, il sereno rapporto di coppia, lo stato socioeconomico, l’aiuto di amici e parenti, il supporto psicosociale, l’associazionismo, il buon rapporto con l’équipe terapeutica/assistenziale, la buona accettazione della malattia e la partecipazio-ne attiva alla vita sociale. Altro ruolo importante è l’educazione sanitaria dell’assistito riguardo la sua malat-tia e il suo trattamento. Spiegare con calma e precisione all’assistito quale deve essere il suo quotidiano è fondamentale, al fine di evitare peggioramenti della malattia. L’infermiere dovrà anche accertarsi che l’assi-stito abbia pienamente compreso le nozioni che gli vengono fornite in merito alla sua patologia e agli aspetti di cui dovrà tenere conto. L’infermiere dovrà sempre tenere in considerazioni le chiavi del Disease Management che sono cinque (le 5 A):a. Assess (valuta): eseguire un’osservazione valutativa globale dell’assistito;b. Advice (consiglia): attuare un processo di educazione, supporto e counseling;c. Agree (concorda): discutere con l’assistito le prospettive prognostiche e le possibilità assistenziali;d. Assist (assiste): ottimizzare l’intervento nel singolo assistito in base alle sue caratteristiche ed esigenze;e. Arrange (organizza): pianificare, gestire e valutare l’assistenza, sul breve, medio e lungo periodo.

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Il Disease Management, secondo la definizione della Disease Management Association of America (DMAA), è ‘un sistema di interventi coordinati di assistenza sanitaria e comunicazione per popolazioni con patologie in cui gli sforzi di auto-cura intrapresi dal malato sono significativi’. È - in altri termini - il processo di riduzione dei costi sanitari e/o di miglioramento della qualità di vita delle persone attraverso la prevenzione o minimizzazione degli effetti di una malattia, di solito cronica, attraverso un processo di assistenza integrata.

La persona disabileCon il termine ‘soggetto portatore di handicap’ o ‘disabile’ si indica generalmente una persona che si trova in una situazione di difficoltà e di svantaggio e quindi a rischio di emarginazione e sofferenza sia per le sue per-sonali limitazioni fisiche, psichiche o sensoriali, sia per le limitazioni che incontra nell’ambiente in cui vive. Le persone disabili devono essere considerate soggetti di diritto come gli altri cittadini; non devono essere loro a trovare adattamenti alla società, bensì è la società che deve diventare capace di rispondere anche ai loro bi-sogni e ai loro diritti. La persona con disabilità ha bisogno di attenzione, di relazioni umane stabili, di sicurezza, di affetto, di apprezzamento e, in ultima analisi, di relazioni significative e profondamente umane con gli altri.

La persona con patologia psichiatricaLa psichiatria è la branca specialistica della medicina che si occupa della prevenzione, della cura e della riabilitazione dei disturbi mentali, dal punto di vista teorico e pratico. “Il malato non è solo malato, ma un uomo”. Queste parole sintetizzano più di qualsiasi altra il pensiero di Franco Basaglia (1924-1980), psichia-tra scomparso trenta anni fa, cui si deve un nuovo modo di affrontare la malattia mentale. Il suo pensiero, infatti, è ancora oggi considerato un cardine per l’assistenza psichiatrica, anche perché ha ispirato la legge 180 del 1978, con la quale si è arrivati al superamento degli ospedali psichiatrici, più comunemente chiamati ‘manicomi’. Etimologicamente parlando, il termine ‘psichiatria’ deriva dal greco (psyche significa spirito e iatros medico) e identifica la disciplina che si occupa della cura dell’anima. Nel contesto manico-miale, nonostante i molteplici tentativi di ‘umanizzazione’, era costantemente preponderate un’impronta custodialista; gli infermieri o sorveglianti si preoccupavano prevalentemente di garantire la fornitura di pasti caldi e la disciplina comunitaria (intesa che i pazienti non litigassero tra di loro) e applicavano a comando le prescrizioni mediche.La storia della psichiatria e della salute mentale si può riassumere e sintetizzare in questi passaggi fondamentali:a. negli anni ’50 Virginia Henderson, Hildegarde Peplau e altri esponenti dell’infermieristica d’oltreoceano

teorizzano sulla scientificità dell’assistenza infermieristica, tanto da far nascere il Nursing come disciplina da adottare nella cura delle persone in un’ottica complementare ad altri saperi, compresa la dottrina medica;

b. nel 1950 viene scoperta la clorpromazina (farmaco sintetizzato come antistaminico, divenuto successi-vamente capostipite della categoria dei neurolettici o antipsicotici);

c. in Italia Franco Basaglia negli anni ’60 apre i cancelli del manicomio di Gorizia; nel 1978 lo Stato emana la legge 180 e gli infermieri psichiatrici diventano parte attiva della lotta, rincorrono l’utopia antimanico-miale e vanno nelle case delle persone assistite condividendo una nuova esperienza.

In qualsiasi dizionario d’inglese troviamo: to care = preoccuparsi, prendere a cuore, provvedere, interessarsi e to cure = guarire, curare, risanare. Ecco allora che si rende possibile definire con maggior chiarezza il nur-sing come esperienza atta a curare, prendersi cura di qualcosa o di qualcuno (la persona), attività che impli-ca premura e attenzione, da aggiungersi al to cure, in cui è implicita l’idea di guarigione, obiettivo importan-te e fondamentale dell’équipe, ma non sempre possibile in tale contesto. Il comportamento dell’infermiere assume un ruolo centrale dal punto di vista sia tecnico sia etico: l’intervento terapeutico nei confronti di persone con patologie psichiatriche si realizza soprattutto attraverso la relazione con altre persone, quindi il rapporto interpersonale diventa esso stesso terapeutico. La contenzione fisica deve essere peraltro consi-derata oramai un evento straordinario, sostenuto da una prescrizione medica o da documentate valutazioni assistenziali, come indicato, ad esempio, dall’articolo 30 del codice deontologico dell’infermiere (Codice Deontologico IPASVI). La concezione olistica rappresenta una delle peculiarità fondamentali del nursing; è direttamente proporzionale all’obiettivo perseguito e al risultato atteso. Vengono considerati aspetti personali e familiari, ambientali e sociali, fisici, psichici e spirituali. Per realizzare quindi con successo l’intervento tera-peutico in questo contesto è essenziale: abilità nell’osservazione, capacità di decodifica e di analisi, capacità di pianificare gli interventi e di effettuarne le relative verifiche, necessità di responsabilità. Il nursing è quindi

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da intendere come piattaforma di connessioni plurime, momento favorente l’integrazione di molteplici discipline, rigorosa e sistematica struttura di indagine e di intervento concernente l’interazione umana con l’ambiente ed entrambi collegati al campo della salute, punto di forza di un sistema che ha la prerogativa di ‘preoccuparsi’ della qualità della vita di persone che, transitoriamente o permanentemente, vivono un’espe-rienza spesso disastrosa. L’impegno verso la sperimentazione di sé stessi come agenti terapeutici, la conti-nua formazione e la ricerca di modalità attuative modellabili al contesto operativo, possono essere la nuova base da cui ripartire per segnare il processo dinamicamente evolutivo del nursing nella salute mentale.

La persona anzianaLa persona anziana presenta caratteristiche tali da costituire un categoria particolare. La necessità di avere una crescente disponibilità di strutture socio-sanitarie per rispondere ai bisogni di assistenza, l’incremento dell’assistenza geriatria per garantire la specificità e l’appropriatezza terapeutica oltre alla congruità di rico-vero, lo sviluppo di strutture e mezzi riabilitativi per potenziare le capacità residue dell’anziano e mantenere il più a lungo possibile la sua autonomia, l’ampliamento dei servizi di assistenza domiciliare, lo sviluppo di servizi di supporto familiare e altro ancora sono solo alcuni degli obiettivi da perseguire. È importante rispondere ai bisogni fisici dell›anziano, ma è altrettanto necessario soddisfare le sue esigenze psicologiche e sociali. La persona anziana soffre spesso di solitudine; sta anche a chi lo circonda farlo sentire meno solo, coinvolgendolo in vario modo nella realtà circostante. Il processo di invecchiamento è altamente individuale e condizionato sia da fattori genetici sia da abitudini alimentari, fattori ambientali (biologici e climatici) e situazioni sociali più o meno favorevoli. Sebbene l’età di 65 anni sia frequentemente adottata come arbi-trario punto di partenza per definire la persona anziana, l’età biologica o fisiologica di un individuo, ossia il suo stato di salute e la sua condizione fisica, è di gran lunga più importante. Essa consente un giudizio più appropriato sulla ‘robustezza’ o ‘fragilità’ della persona assistita e su come egli/ella possa far fronte all’im-patto delle eventuali terapie da subire nel momento di condizioni di salute non ottimali. L’età cronologica può, comunque rappresentare un’utile cornice di riferimento:a. l’età di 70 anni può essere considerata come il limite inferiore di senescenza, in quanto l’incidenza di

cambiamenti legati all’invecchiamento comincia ad aumentare bruscamente proprio tra 70 e 75 anni;b. l’età di 85 anni può essere considerata come un confine superiore, oltre il quale vi è rischio di fragilità

clinica, in quanto la maggioranza delle persone presenta qualche forma di disfunzione organica, mentre la demenza incide in oltre il 20% del ultra ottantacinquenni.

Tuttavia, l’età anagrafica non può essere considerata un criterio assoluto per considerare anziana una per-sona, come risulta anche dalle differenti categorie di anziano che l’ISTAT definisce sulla base di semplici indicatori demografici:a. anziani giovani: rappresentano circa il 30% della popolazione sopra i 65 anni; si tratta di individui per i

quali l’età è semplicemente un fatto anagrafico;b. anziani attivi: che lamentano qualche disturbo ma partecipano alla vita sociale; rappresentano il 32%;c. anziani ritirati: che si considerano vecchi e si autoescludono dal contesto sociale; costituiscono il 19%;d. anziani emarginati: che sono isolati dal contesto sociale e familiare e spesso hanno una disabilità e con

limitate disponibilità economiche e rappresentano il 19%.L’invecchiamento porta alla progressiva riduzione della funzionalità di organi vitali come cuore, fegato e midollo osseo. Questo processo inizia già durante la terza decade di vita è fortemente influenzato, oltre che da fattori genetici, sicuramente determinanti, dalla dieta, da elementi ambientali (biologici e climatici) e dalle condizioni sociali dell’assistito. Tutti questi elementi contribuiscono a creare quella condizione caratte-ristica dell’anziano, che comporta una limitata ‘tolleranza allo stress’, sia in termini di resistenza alle malattie sia come risposta allo stress sociale, emotivo e cognitivo. Spesso l’anziano presenta patologie associate (comorbilità), che sono importanti da valutare per una corretta predizione prognostica. Nell’ultimo secolo si è assistito in tutti i paesi industrializzati a un importante allungamento della vita media. L’aspettativa di vita di fine Ottocento era di poco superiore ai 40 anni; attualmente è circa il doppio. Inoltre, gli ultrasessantenni hanno oggi un’aspettativa di vita di altri 15-20 anni e gli ultra ottantacinquenni di 6. Le principali aree di valutazione geriatrica includono lo stato funzionale, nutrizionale, emotivo, cognitivo, socioeconomico e lo stato fisico. Lo stato funzionale, ovvero la capacità dell’assistito di svolgere le attività quotidiane, è una mi-

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sura del grado di indipendenza dell’assistito ed è uno dei determinanti chiavi di successo o fallimento del trattamento sanitario. L’anziano è ad alto rischio di malnutrizione per diverse ragioni, quali depressione, scar-sa dentizione, alterazioni funzionali o cognitive, perdita di appetito per comorbilità o mancanza di sostegno sociale. La malnutrizione può avere una serie di ripercussioni sull’efficacia del sistema immunitario e sulla capacità di tollerare le terapie farmacologiche. Con l’invecchiamento diminuiscono le riserve energetiche dell’organismo e l’assorbimento dei micro nutrienti (Vitamina B12, ferro, acido folico, zinco e calcio) e si ve-rificano sostanziali cambiamenti nella composizione corporea con diminuzione della massa muscolare che determina una diminuzione della forza muscolare e aumenta il rischio di cadute. Gli aspetti dell’invecchia-mento possono essere indagati attraverso la Valutazione Multidimensionale Geriatrica (VMG) nella quale:a. sono identificati, descritti e spiegati i molteplici problemi dell’anziano;b. vengono definite le sue capacità funzionali;c. viene stabilita la necessità di servizi assistenziali;d. viene sviluppato un piano di trattamento e di cure, nel quale i differenti interventi siano commisurati ai

bisogni e ai problemi.Questa valutazione è nata negli anni ‘80 nelle Nursing Home statunitensi per quantificare in prima istan-za i bisogni assistenziali dei ricoverati. In seguito si è visto che questa valutazione è efficace anche per prevedere l’aspettativa di vita e il costo dell’assistenza di tali assistiti. La popolazione anziana è altamente eterogenea e accanto agli anziani fragili ne esistono molti altri che presentano ottime capacità di adatta-mento alla malattia e al suo trattamento.

L’EMPOWERMENT ED IL SELF-MANAGEMENT DEL MALATO L’empowerment dell’assistito è una strategia che, attraverso l’educazione sanitaria e la promozione dei comportamenti favorevoli della salute, fornisce alle persone gli strumenti critici per prendere le decisioni migliori per il loro benessere. È quindi una sorta di “terapia informativa” che punta a ridurre, nel limite del possibile, l’asimmetria di conoscenze tra infermiere e assistito ma anche a ridimensionare le aspettative ir-realistiche che si concretizzano, in caso di malattia, in consumi crescenti di prestazioni sanitarie, inadeguate e inappropriate. Il patient empowerment sottintende la formazione di una maggiore consapevolezza, volta a coinvolgere in modo attivo l’assistito non soltanto nella conservazione della propria salute, ma anche nel compiere le cure assegnate. È uno strumento con cui consentire all’assistito l’esercizio del proprio diritto di essere informato su tutti gli aspetti assistenziali che lo riguardano, nonché di compiere le scelte relative alla propria salute. L’empowerment dell’assistito fruitore dei servizi sanitari si inserisce nel quadro più ampio della ‘partecipazione’ della persona assistita agli eventi che lo riguardano. Infatti, alla base di un’effettiva partnership, vi è la concezione di un assistito ‘empowered’. Gli assistiti sono ‘empowered’ quando hanno la conoscenza, le abilità, le attitudini e la consapevolezza necessaria per influenzare il proprio e l’altrui comportamento al fine di migliorare la qualità della propria vita. Un assistito ‘empowered’ è una persona che comprende e sceglie, è un protagonista della propria vita e del proprio benessere. Per conseguire tale risultato, i servizi devono:a. identificare le aspettative e le priorità degli assistiti; b. coinvolgere gli assistiti nei propri piani di cura e assistenza;c. utilizzare l’approccio della decisione condivisa;d. richiedere il loro feedback, anche sui servizi stessi;e. avviare conseguenti processi di miglioramento.Un elemento importante per sviluppare l’empowerment dell’assistito è il processo decisionale. È ricono-sciuto che quando il malato partecipa al processo decisionale, la sua soddisfazione è maggiore e i risultati clinici migliorano; l’assistito accetta le decisioni prese e si attiene al trattamento deciso. L’aspetto fondamen-tale in tale ambito è quello di conciliare il coinvolgimento dell’assistito con l’effettuazione di scelte basate su prove di efficacia. Vi possono essere tre modelli di processo decisionale: a. paternalistico dove l’infermiere decide ciò che ritiene sia meglio per l’assistito, senza chiedere a quest’ul-

timo le sue preferenze;b. il consenso informato, dove l’assistito riceve dall’infermiere delle informazioni sul proprio stato di salute;

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ha pertanto entrambi gli elementi, informazioni e le proprie preferenze, necessari per prendere una decisione; l’infermiere non deve consigliare un trattamento, in modo da non imporre la sua volontà e quindi il processo decisionale in questo caso è in mano all’assistito;

c. condivisione delle decisioni, in cui sia l’assistito sia l’infermiere contribuiscono alle decisioni.Di seguito riportiamo le principali caratteristiche del processo di condivisione delle decisioni:a. condividere le decisioni, il che implica la partecipazione dell’infermiere e dell’assistito;b. entrambe le parti, sia l’infermiere sia l’assistito, compiono dei passi per partecipare al processo decisio-

nale;c. la messa in comune delle informazioni;d. la decisione finale che esprime l’accordo tra le parti.Il fattore che sembra centrale nelle scelte dell’assistito circa il modello di coinvolgimento decisionale da adottare è la ‘fiducia nell’infermiere’.La fiducia può essere definita come:a. l’ottimismo di chi crede che la buona volontà e la competenza della persona verso cui si nutre fiducia

vadano a coprire l’area di interazione;b. la convinzione che colui in cui si ripone fiducia sia motivato dal fatto che si conta su di lui. Va considerato che comunque gli operatori sanitari che non hanno fiducia nelle capacità dell’assistito ten-dono a ignorare le sue preferenze e non coinvolgerlo nel processo decisionale.L’assunzione di decisioni condivise richiede:a. un contesto in cui il punto di vista dell’assistito sulle opinioni del trattamento sia considerato essen-

ziale;b. il sollecitamento degli assistiti a esprimere le loro preferenze, in modo da discutere le opzioni di trat-

tamento adeguate;c. la comunicazione all’assistito delle informazioni tecniche sulle opzioni del trattamento, sui rischi e sui

probabili benefici in modo chiaro, semplice e oggettivo;d. che l’infermiere aiuti l’assistito nel processo di valutazione dei rischi e dei benefici, assicurandosi che

le preferenze dell’assistito si basino su fatti e non su presupposizioni errate;e. che l’infermiere discuta con l’assistito il trattamento, includendone le preferenze.Per valorizzare la partecipazione dell’assistito, aumentando attraverso essa non solo l’efficacia del tratta-mento e la soddisfazione dell’assistito, ma anche la gratificazione e il riconoscimento professionale dell’in-fermiere è importante:a. fornire all’assistito informazioni e documentazione sull’operatività e i risultati conseguiti dal servizio;b. raccogliere informazioni presso gli assistiti, ad esempio facendo compilare questionari durante l’attesa;c. preparare l’assistito per l’assunzione delle decisioni, favorendo i colloqui con personale specializzato e,

se da lei/lui desiderato, gruppi di auto-aiuto;d. effettuare indagini presso gli assistiti per comprendere come sono giunti a certe decisioni, quali fattori

hanno considerato e che peso hanno loro attribuito;e. fornire all’assistito materiale informativo valido, prima di accedere al servizio, durante e alla dimissione;

va qui sottolineata l’esigenza di “personalizzare” il più possibile il materiale sullo specifico contesto, unità operativa, assistito, al fine di amplificarne l’efficacia;

f. introdurre processi di valutazione da parte dei molteplici soggetti coinvolti (assistiti, familiari, volontari, operatori sanitari);

g. migliorare costantemente la relazione interpersonale infermiere/assistito.L’empowerment è, insieme, un processo e una meta, in cui si passa da una condizione di “learned hel-plessness” (Abramson et al., 1978), caratterizzato da mancanza di iniziativa, bassa capacità relazionale, incapacità e inadeguatezza a dominare gli eventi e da sentimenti quali la sfiducia, lo sconforto, l’assenza di speranza, a una condizione di self-efficacy, caratterizzata dalla fiducia nelle proprie capacità di agire in modo efficace con altri, per definire e conseguire con successo fini e obiettivi personali, e dal prevalere dell’“inter-nal locus of control”, ovvero dall’attribuzione interna della causalità degli avvenimenti rispetto all’“external locus of control”, dove quel che accade viene imputato ad altri fattori quali il caso, la sfortuna, ecc. Questi gli aspetti più importanti dell’empowerment.• La riduzione del bisogno di assistenza, ottenibile attraverso:

a. l’elaborazione di progetti individualizzati, realistici, possibilmente a termine;

b. l’erogazione di trattamenti di provata efficacia negoziati con l’assistito e, fra essi, in particolare quelli che consentono l’aumento delle capacità di coping e di automonitoraggio della propria salute.

• La responsabilizzazione dell’assistito verso il trattamento, che si potrà rilevare quando la persona assisti-ta sarà più in grado di individuarne e negoziarne mete realistiche e mostrerà maggior compliance verso di esso.

• Il passaggio da una vita protetta a una vita comune.• La fiducia nella propria capacità di interagire per raggiungere scopi personali e/o collettivi.• La complessiva responsabilizzazione rispetto alla propria esistenza.• Una globale soddisfazione per la qualità di una vita ritenuta degna di essere vissuta, secondo la prospet-

tiva personale e la sua valutazione. Queste le caratteristiche più significative dell’empowerment:• Avere il potere di prendere decisioni. • Avere accesso alle informazioni. • Avere una lista di opzioni dal quale poter scegliere per decidere. • Essere assertivo.• Avere speranza.• Imparare a pensare criticamente, non farsi condizionare e vedere le cose in modo differente.• Riconoscere ed esprimere la rabbia.• Non sentirsi solo.• Realizzare il cambiamento nella propria vita.• Imparare abilità che uno considera importanti.• Cambiare la percezione altrui della propria competenza e capacità di agire.• Uscire dall’isolamento.• Non porre fine alla crescita e al cambiamento ma anche autogenerarli• Aumentare la propria immagine positiva. È importante comprendere che il processo di empowerment è sempre e comunque un processo autoge-nerato. Le dimensioni dell’empowerment sono: • l’autostima e l’autoefficacia;• la capacità affettiva; • l’attivismo nella vita; • l’ottimismo e il controllo sul futuro;• la rabbia giustificata.L’autostima, l’autoefficacia, l’ottimismo e il controllo sul futuro possono essere visti come un senso di valore personale e di convincimento per il quale si è capaci di controllare il proprio destino e gli eventi della vita. L’attivismo e la rabbia giustificata esprimono invece l’abilità e la volontà di canalizzare la rabbia nell’agire. L’assistito empowered è caratterizzabile come un soggetto che ha un senso del proprio valore, della propria efficacia e della propria capacità, che identifica la rabbia come una forza che può innescare il cambiamento sociale e che è ottimista sulla propria capacità di esercitare il controllo sul corso della vita. Questa persona riconosce l’importanza degli individui nel determinare il cambiamento, ma dà anche valore all’autonomia personale. Si potrebbe valutare l’empowerment, in particolare il modo di vedere la vita e la fiducia nelle proprie capacità di decidere, attraverso:• il poter determinare in buona parte quello che accadrà nella propria vita;• il non arrabbiarsi per qualcosa di non importante;• l’avere un’opinione positiva di sé stesso;• essere sicuri delle decisioni che si prendono;• non considerare che la maggior parte dei guai della propria vita è stata causata dalla sfortuna;• ritenersi una persona capace;• esser capaci di superare gli ostacoli;• essere ottimisti sul futuro;• essere in grado di realizzare i progetti che si fanno;• non sentirsi solo;• sentirsi capaci di fare le cose tanto bene quanto la maggior parte delle persone;

• essere capaci di realizzare ciò che ci si pone di fare;• non sentirsi incapaci;• sentirsi una persona che vale, almeno quanto gli altri;• credere di avere un certo numero di buone qualità.Negli anni ‘60, nell’ambito della community psychology statunitense, nasce il concetto di empowerment come processo per favorire l’emancipazione di persone in condizioni di svantaggio. Nella visione moderna il cittadino è una persona dotata di diritti quindi di potere. Infatti, chi non gode di diritti, chi è impotente di fronte agli avvenimenti, non protagonista e non responsabile, non può essere in realtà considerato come cittadino. All’interno di questa concezione, un aspetto particolare dell’impotenza del cittadino deriva dalla condizione di malattia, di disabilità o di malessere. Il malato, la persona bisognosa di cure, non può godere pienamente della cittadinanza a causa della propria condizione, per cui risulterà necessario modificare tale condizione, ad esempio attraverso una cura efficace o rimuovendo gli ostacoli che gli impediscono l’attività. Complessivamente, l’empowerment può essere ritenuto come condizione permissiva alle persone per controllare e migliorare il proprio sviluppo e il proprio stato di benessere. Anche per questo, l’OMS nel 1997, con la Dichiarazione di Jakarta, ha assunto il concetto di empowerment come principio guida di promozio-ne della salute. L’empowerment può essere uno strumento di cura in quanto è associato positivamente con un miglioramento della qualità della vita ed è un diritto dell’assistito in quanto una delle fonti di potere è indubbiamente la conoscenza: l’accesso alle informazioni e la loro fruibilità rappresenta quindi un elemento di empowerment. Per molto tempo le conoscenze sulle malattie erano patrimonio esclusivo degli operatori che coltivavano un linguaggio incomprensibile all’assistito. Tale asimmetria, pur funzionale al manteni-mento di una autorevolezza da parte dell’operatore sanitario non inutile al processo sanitario, provocava una impossibilità di efficacia relazionale e tendeva a far assumere all’assistito un atteggiamento passivo per cui la responsabilità dell’assistenza era esclusivamente dell’operatore sanitario. In questa prospettiva empowerment significa avviare un cambiamento di mentalità che ha una declinazione nel cambiamento della relazione tra operatore sanitario e assistito. Le politiche e le norme che ne derivano possono essere strumenti di empowerment quando:a. favoriscono la partecipazione attiva degli assistiti;b. favoriscono le pari opportunità;c. favoriscono la libertà di scelta;d. favoriscono lo sviluppo di una corresponsabilità tra operatori sanitari ed assistiti.Ma l’empowerment non si può separare dal self management in quanto l’assistito, oltre che diventare con-sapevole del proprio stato di salute, occorre che si prenda poi cura di sé stesso. L’empowerment è costituito da opportunità e criticità; in questo se è vero che una maggiore responsabilizzazione della persona assistita può tradursi nell’assunzione di condotte più funzionali alla promozione della sua salute, d’altra parte però un assistito più protagonista pretende un coinvolgimento nel processo di cura, una personalizzazione, che lo rendono restio ad accettare tutto quello che gli si dice. La presenza di condizioni di malattia non può peraltro essere considerata motivo per diminuire la percezione di sé come soggetto attivo, responsabile della propria esistenza e capace di influenzare l’ambiente circostante. L’assistito deve poter esprimere sé stesso qualunque circostanza di vita attraversi: in questo senso, dobbiamo auspicare ed operare perché la persona assistita possa individuare modalità realistiche per poter comunque essere soggetto agente. Gli assistiti sono esperti della propria salute perché hanno una propria esperienza circa la malattia, le circostan-ze sociali, le abitudini, i comportamenti, le attitudini di rischio, i valori, le preferenze. Gli operatori sanitari sono esperti delle tecniche diagnostiche, delle cause della malattia, della prognosi, delle opzioni terapeu-tiche, delle strategie preventive e dell’assistenza. Dall’incontro e dal confronto di queste due esperienze, di questi due modi di considerare la salute e la malattia, può nascere una relazione operatore sanitario/assistito di tipo collaborativo, che senz’altro è più adatta a rispondere alle esigenze degli assistiti di oggi e a trattare con successo le varie malattie. Per realizzare in maniera costruttiva questo confronto occorre che l’operatore sanitario sia in grado di entrare nel quadro di riferimento dell’assistito e accettare il suo punto di vista, anche se non sempre lo può condividere. Questo è importante per stabilire una alleanza, basata sulla fiducia reciproca, che permette di concordare insieme percorsi diagnostici, obiettivi terapeutici, misure preventive, percorsi assistenziali, ecc. Nella pratica quotidiana, invece, qualche volta gli operatori sanitari tendono a imporre il proprio modo di intendere la salute e la malattia, dimenticandosi della soggettività e dell’unicità dell’esperienza dell’assistito. Nell’Approccio Centrato sulla Persona è presente il concetto di “ten-

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denza attualizzante”, in base alla quale ogni persona ha in sé la capacità di realizzare le proprie potenzialità e di autocurarsi. Il compito dell’operatore sanitario è quello di accompagnare, creando un clima facilitante, l’assistito in un viaggio verso il raggiungimento di un miglior funzionamento, permettendo alle sue risorse interne di agire. Entro certi limiti, il corpo umano è in grado di proteggersi, di autocurarsi, di autoguarirsi, an-che dal punto di vista fisico. Tale proprietà è in buona parte legata al sistema immunitario. Continuamente esso ci difende dall’aggressione da parte di agenti infettivi, di cellule tumorali, di agenti fisici esterni. Talvolta viene sopraffatto oppure funziona meno, come nelle situazioni di stress, e allora compare la malattia. Molte moderne terapie cercano di potenziare tale sistema di difesa con vaccini, anticorpi monoclonali, immuno-modulatori per combattere tumori, infezioni croniche, ecc. Il sistema immunitario non funziona in modo autonomo, ma è a sua volta sensibile a influenze esterne e interne. In particolare, secondo le tesi della mo-derna psiconeuroimmunologia, esiste una linea di comunicazione diretta tra esso e la mente. Le persone resistenti allo stress si ammalano di meno e quando ciò avviene recuperano in fretta. Le persone “a rischio” di stress si ammalano più frequentemente e hanno un recupero più difficoltoso. Chi è dotato di speranza e di ottimismo ha fiducia in sé stesso, non è spaventato da repentini cambiamenti, riesce a esprimere le proprie emozioni, ha amici e parenti cui rivolgersi per chiedere aiuto, mostra una resistenza maggiore alle malattie e quand’anche si ammala, ha un recupero più veloce. Coinvolgere l’assistito significa aiutarlo a mobilitare le sue risorse, fisiche e psichiche per guarire o migliorare il suo stato di salute. La maggior parte degli assistiti è attualmente affetta da malattie croniche, che si possono curare ma non guarire. Gli interventi degli operatori sanitari dovrebbero essere finalizzati innanzitutto a prevenire tali patologie (quando possibi-le) mediante la promozione alla salute. Quando invece sono già presenti, dovrebbero aiutare la persona a convivere con esse, a trovare nuovi equilibri e a realizzare la migliore qualità di vita.I compiti dell’infermiere dovrebbero essere quindi:a. esplorare le principali preoccupazioni e il bisogno di informazione;b. perseguire una comprensione integrata del mondo dell’assistito, cioè della sua intera persona, dei

bisogni emotivi, dei vari aspetti della sua vita;c. trovare un terreno comune sulla definizione del problema e stabilire un accordo reciproco sul tratta-

mento;d. potenziare prevenzione e promozione della salute;e. promuovere la relazione continua tra assistito e infermiere.Per fare questo occorrono ovviamente competenze comunicative verbali e non verbali. Importanti sono quelle indicazioni che l’assistito ci dà, in maniera non esplicita, ad esempio dei suoi stati d’animo o di cir-costanze importanti della sua vita (di coppia, lavorativa, ecc.). Costituiscono per l’infermiere una possibilità di entrare nel quadro di riferimento dell’assistito e dimostrare empatia. Spesso non vengono invece colti oppure l’infermiere svia il discorso, ironizza, nega, ecc. Il motivo può essere che non si sente a proprio agio con le emozioni che emergono o, semplicemente, perché teme che il processo assistenziale duri più a lungo. Occorre ricordarsi che l’assistito si aspetta che gli vengano fornite informazioni adeguate. La disponi-bilità dell’assistito a sottoporsi a un trattamento sanitario dipende dalla qualità dell’informazione ricevuta sui benefici e sui rischi che il trattamento proposto comporta. Per un problema di salute esiste generalmente più di un trattamento. Ogni trattamento comporta vantaggi e svantaggi. Bisogna scegliere il trattamento che, a parità di efficacia, ha meno effetti negativi, secondo la percezione del singolo assistito. L’infermiere deve usare parole comprensibili per farsi capire, deve spiegare in modo oggettivo e chiaro quali sono le possibilità di trattamento e di assistenza esistono e quali sono le possibilità di guarigione, deve soprattutto assicurarsi che l’assistito abbia capito. D’altronde il malato si aspetta sempre di essere assistito e l’infermiere non può risolvere tutti i problemi. Ogni persona deve però ricevere un’assistenza sanitaria che possa mi-gliorare la qualità di vita nella malattia, riducendo a livelli minimi la sofferenza e il dolore; per fare questo la collaborazione dell’assistito è necessaria e indispensabile. Egli deve poter esprimere le proprie sensazioni e i propri sintomi, nonché le opinioni personali sulle possibili origini del malessere, sul trattamento e gli esami proposti. È possibile promuovere la compliance dell’assistito:• spiegandogli la situazione e la patologia;• ribadendo l’importanza della disciplina e dell’autoresponsabilità;• chiedendosi chi potrebbe dargli sostegno e spiegando dove ricercare e trovare aiuto;• cercando insieme all’assistito un sistema per affrontare la quotidianità;

• ponendo al centro dell’attenzione la qualità della vita nonostante la malattia.Ad esempio, la perdita di autosufficienza da parte del malato implica necessariamente un notevole e in-cessante impegno sotto diversi punti di vista: infermieristico, medico, dei servizi sociosanitari e dei familiari. Sono quindi coinvolte molte persone con ruoli diversi per fornire differenti risposte ai tanti e complessi bisogni; questo è il quadro attuale, dentro il quale si snodano le attività dei vari professionisti sanitari. Questa concezione appartiene ai tempi attuali . Si tratta di fenomeni che necessitano di tempi ‘meta-bolici’, adeguamenti formativi, modificazioni organizzative e che di solito viaggiano a una velocità infe-riore rispetto a quella rappresentata dalla richiesta di risposte a bisogni e problemi. Appartiene, infatti, a un passato recente e in alcuni contesti ancora fortemente presente quel tipo di cultura dove l’assistito è visto come ‘colui che deve avere pazienza’ con un ruolo marginale e passivo, rispetto ai processi di cura che lo riguardano e con la famiglia spesso considerata più intralcio che supporto. Rispetto a ciò, la fondatrice del Nursing moderno, Florence Nightingale, si dimostrò già nel 1889 particolarmente lungimi-rante. Nightingale individuò la famiglia come il supporto fondamentale per il malato; ella scrisse infatti:

“Secondo me la missione delle cure infermieristiche in definitiva è quella di cura-re il malato a casa sua (...); intravedo la sparizione di tutti gli ospedali e di tutti gli ospizi (...)”.

Lungimiranze che non si sono dissolte o disperse, ma che trovano oggi da un punto di vista infermie-ristico, solido ancoraggio nell’articolo 39 Capo IV del Codice Deontologico dell’infermiere del 2009: “L’infermiere sostiene i familiari e le persone di riferimento dell’assistito, in particolare nella evoluzio-ne terminale della malattia e nel momento della perdita e dell’elaborazione del lutto”.

IL COINVOLGIMENTO DEI FAMILIARI, I BISOGNI DI UN CAREGIVER E L’IN-FERMIERE DI FAMIGLIA

Obiettivi generali del supporto della famiglia al malato sono:a. misurare l’aiuto fornito dalla famiglia in termini di quantità (durata, frequenza) e di qualità (tipo di com-

piti svolti);b. identificare i fattori che determinano il livello effettivo di aiuto, quali la disponibilità familiare e la qualità

delle relazioni affettive.Questo porta a uscire da una concezione puramente reattiva della malattia, presupponendo l’esistenza presso il malato di un processo elaborativo sulla malattia e formulando l’ipotesi che la posizione della fa-miglia verso la malattia e/o l’assistenza di un parente può indurre un insieme di comportamenti che, oltre ad assistere il malato, cerca di lottare contro gli effetti psicologici indotti dalla malattia e/o dalla terapia.Il coinvolgimento della famiglia diventa evidentemente una parte importante in caso di disabilità a vario livello e riguarda l’igiene e le cure corporali da una parte e gli spostamenti e l’incoraggiamento a distrarsi dall’altra. La famiglia possiede, in effetti, la capacità di integrare un gran numero di compiti o di escluderli, in piena autonomia, in risposta a bisogni vecchi e nuovi. Conviene che la solidarietà familiare sia sempre forte e che la famiglia sia pronta a cercare di far fronte a tutte le difficoltà e a tutti gli aggravi dei compiti materiali e affettivi causati dalle condizioni di salute di un componente. È noto che l›assistenza domiciliare permette di ridurre i costi dei servizi istituzionali. In effetti, è accaduto spesso che degli assistiti siano stati ospedalizzati inutilmente a causa della mancanza di un adeguato servizio di assistenza domiciliare o che degli anziani si siano trasferiti prematuramente in residenze semi-assistenziali per paura di non poter essere assistiti a domicilio. Quando si parla della famiglia, si può privilegiare una lettura sociologica e considerarla come una forma dello stare insieme, con tutto il suo insieme di configurazioni particolari e in continuo mutamento, o si può preferire un approccio di tipo demografico, psicologico, con particolare attenzione ai rapporti affettivi, economici, per i quali la famiglia è innanzitutto considerata come un’unità di produzione domestica e di consumo, o giuridici, con riferimento alle norme e ai sistemi giuridici di obblighi reciproci. Le figure professionali coinvolte nell’erogazione di un servizio di cure domiciliari sono affiancate dai cosiddetti caregiver (in generale prestatori di cure, spesso figli, coniuge o amici), i quali rivestono un ruolo di primo piano nell’accompagnare, assistere e confortare l’assistito lungo tutta la malattia. Dalla loro disponibilità, dal

L’Infermiere Specialist in Cardiologia e Malattie dei Vasi

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loro equilibrio e, non di rado, dal loro aiuto economico dipende la qualità della vita delle persone assistite. Molte volte la scelta del caregiver avviene attraverso un meccanismo di selezione spontaneo da parte di un familiare che volontariamente si assume l’impegno di supportare e assistere la persona malata. È im-portante sottolineare, però, che l’azione del caregiver non può essere spontanea e unicamente guidata da un sentimento d’affetto e buon senso comune, ma è fondamentale che personale specializzato lo istruisca sulle tecniche ottimali da applicare per poter affrontare le difficoltà quotidiane che caratterizzano la vita nell’ambiente domestico. II supporto psicologico e affettivo costituisce il cardine del ruolo del caregiver a cui si affiancano una serie di funzioni concrete, quali: a. soddisfare le necessità primarie della persona;b. aiutare l’infermiere a portare avanti il programma assistenziale;c. occuparsi delle questioni burocratiche ed economiche.Il caregiver rappresenta, quindi, una risorsa di primaria importanza non solo per il soggetto malato ma per tutta la società. La malattia o l’evento traumatico che procura disabilità rappresenta, per l’assistito, una frattura che comporta un totale stravolgimento dello stato delle cose. In una tale situazione si rende neces-saria la presenza di qualcuno in grado di fare da ponte tra il prima e il dopo, che aiuti l’assistito a ritrovare sé stesso e lo accompagni nella sua nuova quotidianità. Questa situazione comporta un impegno fisico e un carico psicologico notevole, che grava in maniera crescente nel tempo e nella quantità sul caregiver, continuamente impegnato ad apprendere nuove nozioni e risolvere le differenti problematiche che si pre-sentano. Il caregiver deve affrontare continuamente la difficoltà di mediare i propri bisogni con quelli della persona assistita. Spesso si trova a essere l’unico interlocutore e quindi, fatalmente, ne riceve gli sfoghi e le frustrazioni. Il rischio è che gli spazi e i bisogni personali non vengano rispettati. Il carico assistenziale giornaliero si aggira mediamente, infatti, su sette ore di assistenza e undici di sorveglianza: ne deriva che il caregiver ha solamente due ore al giorno da dedicare a se stesso.Tutto questo porta a un accumulo di tensione e stanchezza che, nel tempo, sfocia in una vera e propria depressione. Da ciò si palesa la necessità di un intervento concreto delle istituzioni atto a supportare in modo concreto il caregiver nello svolgimento del suo compito. Al fine di rendere meno frustrante la situazione di non autosufficienza che caratterizza la malattia, è necessario osservare, in generale, una serie di indicazioni da mettere in atto nella quotidiana at-tività di assistenza, indicazioni che dovranno giocoforza essere adattate alla condizione del singolo assistito:a. ridurre al minimo i rumori ambientali;b. mantenere, per quanto possibile, un’atmosfera rilassata;c. evitare situazioni con troppe persone;d. evitare di sostituirsi all’assistito nelle attività in cui è autonomo e incoraggiarlo nelle attività in cui lo è

parzialmente;e. mantenere l’ammalato all’interno della conversazione, rivolgendosi direttamente a lui, guardandolo

negli occhi e non parlando solo con i parenti o i visitatori;f. incoraggiare la persona a prendere la parola ed esprimere pensieri e necessità;g. fare attenzione a come si utilizza il linguaggio non verbale;h. usare in generale frasi brevi e di facile comprensione per spiegare la terapia, la posologia e i programmi

giornalieri;i. offrire tempo, pazienza e cuore.A fianco della figura del medico di famiglia e del caregiver sta nascendo la figura dell’infermiere di famiglia.Questa figura è in rapida ascesa in tutti i paesi più economicamente sviluppati. In Italia si stanno muovendo i primi passi, recependo le indicazioni fornite dall’OMS e supportate sempre di più dalle politiche economi-che nazionali e regionali in materia di Sanità. La tendenza all’ottimizzazione delle scarse risorse disponibili e al contenimento della spesa sanitaria, soprattutto ospedaliera, fa sì che le strutture tendano a contrarre il più possibile la degenza ospedaliera e a trattare particolari tipologie di assistiti (riabilitazione post-chirurgica, patologie croniche, pazienti geriatrici, ecc.) a livello locale e ambulatoriale, garantendo per questo scopo una rete locale che coordini gli interventi. L’infermiere di famiglia è la figura deputata a tale coordinamento: prende in carico il caso, valuta gli interventi assistenziali da porre in essere, richiede eventuali consulen-ze medico-specialistiche, coordina le attività degli operatori sanitari e si occupa dell’educazione sanitaria dell’assistito e dei suoi familiari. Per questo tale figura deve avere competenze specifiche anche in settori non tradizionalmente infermieristici (quali psicologia, sociologia, ecc.) e la sua formazione richiede uno specifico percorso, oggetto di master di primo livello. L’infermiere di famiglia è un professionista sanitario

che progetta, attua e valuta interventi di promozione, prevenzione, educazione e formazione. È colui che si occupa dell’assistenza infermieristica all’individuo e alla collettività; sostiene interventi di ricerca e indagini epidemiologiche in comunità e in ambito familiare, promuovendo azioni educative e preventive oltre che curative. II ruolo è quello di aiutare persone e famiglie ad affrontare la malattia e la disabilità cronica, soprat-tutto nei periodi difficili; per realizzare questo scopo trascorre una gran parte del suo tempo lavorando nelle case degli assistiti e delle loro famiglie. Inoltre “l’infermiere di famiglia è in grado di informare sui fattori di rischio legati agli stili di vita e ai comportamenti e assistere le famiglie in tutto ciò che concerne la salute tramite una individuazione precoce dei problemi sanitari, potendo far sì che i problemi sanitari emersi nelle famiglie siano affrontati a uno stadio iniziale...”. L’infermiere di famiglia, a seguito di una preparazione specifica, sarà in grado di agire sul territorio, conoscerà la mappa dei servizi sociali, avrà la competenza di instaurare un rapporto diretto, non solo con il malato, ma anche con la persona sana, occupandosi delle sue necessità, e aiutandolo insieme con la sua famiglia a evitare rischi sanitari. Gli infermieri di famiglia faciliteranno le dimissioni precoci dagli ospedali, fornendo assistenza infermieristica a domicilio; agiranno da tramite tra la famiglia e il medico di famiglia, sostituendosi a quest’ultimo quando i bisogni identificati sono di carattere prevalentemente infermieristico. Nella realtà italiana questa figura poliedrica non è an-cora stata percepita in tutta la sua totalità e potenzialità; l’atteggiamento, storico, che si ha nei confronti di questa figura che in realtà internazionali ha già un ruolo ben consolidato, è di diffidenza e di dubbio per l’alta autonomia; ricordiamo però che tale autonomia è supportata da quadri legislativi chiari. Il pensiero va sicuramente alla trasformazione demografica della popolazione e al cambiamento della tipologia del-le malattie, sempre più croniche, con la conseguente necessità di rivalutare nuovi modelli assistenziali.

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