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1 LA NATURA DELLA TEOLOGIA 1. Il termine “teologia” Il termine “teologia” 1 e composto da “Theós” e “Lògos”; quindi, nel suo significato letterale esso significa “parlare di Dio”. Da qui si può vedere che la prima condizione per avere una qualsiasi teologia è quella di mettere in connessione Dio con il linguaggio umano in modo da avere un discorso su Dio. In questo modo però sembra che da un lato si apra il campo ad un numero molto grande di possibili modi di un discorso su Dio e dall’altro si restringa troppo l’oggetto di questo discorso, tanto da avere così una teologia differente da quelle che noi conosciamo dalla storia e che ci parlano anche dell’uomo e del suo mondo. Inoltre è anche lecito chiedersi se sia teoricamente possibile fare un discorso solo su Dio a prescindere da tutto quello che egli determina. Sulla questione dei diversi modi possibili di un discorso su Dio parleremo nel prossimo punto. Per quanto riguarda invece la questione se nella teologia sia lecito stando alla sua etimologia parlare dell’uomo e del mondo, bisogna notare che la coerenza di uno studio rispetto alle sue intrinseche caratteristiche non è determinata dal “che cosa” si studia ma dal “come”. In altre parole, la teologia per essere fedele al suo nome deve soltanto trattare tutti i temi alla luce di Dio, dal punto di vista di Dio, e a prescindere dal fatto che questi temi riguardino Dio stesso o siano invece in relazione con lui in quanto potenza che tutto determina. La teologia, quindi, è un discorso su Dio non in quanto si concentra “materialmente” su Dio, ma in quanto si concentra “formalmente” su Dio e Lo pone come specifico orizzonte di comprensione universale per tutto ciò che essa tratta. 2. Tre tipi fondamentali di teologia Se è da ritenersi “teologia” ogni discorso su Dio nel senso visto sopra, è ragionevole aspettarsi un numero molto elevato di forme diverse di teologia. Ciò è effettivamente vero se si guarda alla storia, anche se sembra che in ultima analisi si possa ridurre il tutto a tre tipi fondamentali di teologia, presenti sia nella loro forma “pura” che come costituenti, con peso diverso, di altre teologie. 1 Per quanto diremo nei § 7 ed 8, vedi soprattutto SECKLER, M., «La teologia come scienza della fede», in KERN, W. - POTTMEYER, H.J. - SECKLER, M., ed., Corso di teologia fondamentale, IV, Brescia 1990, 204-218; ID., Teologia Scienza Chiesa, Brescia 1988, 13-42.

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LA NATURA DELLA TEOLOGIA

1. Il termine “teologia”

Il termine “teologia”1 e composto da “Theós” e “Lògos”; quindi, nel suo significato letterale esso

significa “parlare di Dio”. Da qui si può vedere che la prima condizione per avere una qualsiasi

teologia è quella di mettere in connessione Dio con il linguaggio umano in modo da avere un

discorso su Dio. In questo modo però sembra che da un lato si apra il campo ad un numero molto

grande di possibili modi di un discorso su Dio e dall’altro si restringa troppo l’oggetto di questo

discorso, tanto da avere così una teologia differente da quelle che noi conosciamo dalla storia e che

ci parlano anche dell’uomo e del suo mondo. Inoltre è anche lecito chiedersi se sia teoricamente

possibile fare un discorso solo su Dio a prescindere da tutto quello che egli determina.

Sulla questione dei diversi modi possibili di un discorso su Dio parleremo nel prossimo punto.

Per quanto riguarda invece la questione se nella teologia sia lecito – stando alla sua etimologia –

parlare dell’uomo e del mondo, bisogna notare che la coerenza di uno studio rispetto alle sue

intrinseche caratteristiche non è determinata dal “che cosa” si studia ma dal “come”. In altre parole,

la teologia per essere fedele al suo nome deve soltanto trattare tutti i temi alla luce di Dio, dal punto

di vista di Dio, e a prescindere dal fatto che questi temi riguardino Dio stesso o siano invece in

relazione con lui in quanto potenza che tutto determina. La teologia, quindi, è un discorso su Dio

non in quanto si concentra “materialmente” su Dio, ma in quanto si concentra “formalmente” su

Dio e Lo pone come specifico orizzonte di comprensione universale per tutto ciò che essa tratta.

2. Tre tipi fondamentali di teologia

Se è da ritenersi “teologia” ogni discorso su Dio nel senso visto sopra, è ragionevole aspettarsi un

numero molto elevato di forme diverse di teologia. Ciò è effettivamente vero se si guarda alla storia,

anche se sembra che in ultima analisi si possa ridurre il tutto a tre tipi fondamentali di teologia,

presenti sia nella loro forma “pura” che come costituenti, con peso diverso, di altre teologie.

1 Per quanto diremo nei § 7 ed 8, vedi soprattutto SECKLER, M., «La teologia come scienza della fede», in KERN,

W. - POTTMEYER, H.J. - SECKLER, M., ed., Corso di teologia fondamentale, IV, Brescia 1990, 204-218; ID., Teologia

Scienza Chiesa, Brescia 1988, 13-42.

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2.1 Teologia come proclamazione di Dio

Questo è il primo significato che nella storia ha assunto il termine “teologia”, in quanto sia nel

mondo pagano che in quello dei Padri esso indicava l’atto concreto del discorso sul divino o sugli

dei. Per questo motivo Orfeo e Omero sono detti teologi, come pure lo sono Mosè e i profeti, Paolo,

Giovanni e lo stesso Gesù. Il termine “teologia” fu comunque usato con cautela fino al periodo

medievale, in quanto nell’antichità esso aveva una valenza prevalentemente pagana e il

cristianesimo non voleva assolutamente essere con esso confuso.

Attualmente l’annuncio puramente narrativo su Dio o il discorso primario su Dio appaiono

come pre-scientifici e pre-teologici, cioè semplicemente come il necessario presupposto alla vera e

propria riflessione teologica: l’auditus fidei precede l’intellectus fidei. In realtà, anche se si tratta

indubbiamente di una attività pre-scentifica, questo annuncio di Dio deve essere considerato già

teologia e, precisamente, come quella forma che è l’inizio, il fondamento e la sostanza di ogni altra

forma di teologia. E questo in quanto questo linguaggio religioso primario (precedente cioè ad ogni

analisi scientifica) è più di un semplice veicolo di informazioni, in quanto esegue e compie qualcosa

in chi si affida ad esso (è cioè un linguaggio performativo).

2.2 Teologia come conoscenza razionale di Dio

Già nel mondo greco il termine “teologia” indicava oltre che alla proclamazione del divino anche il

controllo critico della ragione su tale proclamazione. È infatti Platone che chiede per primo delle

norme per purificare l’annuncio sugli dei tramite la ragione critica, anche se sarà solo Aristotele che

darà il via ad un vero e proprio tentativo di conoscere il divino tramite la ragione che egli indicherà

col nome di teologia filosofica.

Questo nuovo modo di intendere il termine “teologia” ha preso poi vari nomi nel corso della

storia: filosofia prima, metafisica, teologia metafisica. S. Tommaso la chiama «quella teologia che è

una parte della filosofia»2. Fu anche usato il termine “teologia naturale”, anche se con molta

ambiguità a causa della problematica legata al rapporto natura-grazia. Tuttavia il termine più

consono sembra essere proprio l’aristotelico teologia filosofica che viene normalmente usato da

Kant in poi. Qui infatti è indicato chiaramente che ci si occupa del problema di Dio secondo una

metodologia filosofica, vale a dire, a partire dalla ragione considerata come autonoma dalla fede. In

questo modo risulta inoltre subito ben chiaro anche il legame e la distinzione con quella teologia

che riflette in modo scientifico sulla fede: quest’ultima si occupa anche del problema di Dio ma lo

2 S. Th., I, q. 1, a. 1, ad 2.

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fa partendo dalla rivelazione e, quindi, con una ragione “vincolata” alla fede. Ambedue però

riconoscono alla ragione umana un valore noetico, cioè una reale capacità di conoscere il divino.

2.3 Teologia come intellectus fidei

Questa è la forma di teologia che dal tempo dei Padri in poi è stata assunta come suo paradigma

fondamentale e che ha avuto in Sant’Anselmo (Proslogion) le sue formulazioni più incisive (credo

ut intellegam e fides quaerens intellectum). Essa si è sviluppata a partire dall’interpretazione dal

passo di Is 7,9 secondo la redazione dei LXX (nisi credideritis, non intelligetis) – che traduce male

l’originale “se non crederete non avrete stabilità” – ed è caratterizzata dal fatto di avere la fede non

solo come oggetto ma anche come soggetto della teologia. In altre parole, qui si parte dalla fede in

quanto è la fede che fornisce il fondamento esperienziale e la base per un discorso teologico, ma,

allo stesso tempo, è dalla fede stessa che si sprigiona un ulteriore impulso a conoscere che

coinvolge anche la ragione (intellectus fidei)3, impulso che tende a nient’altro che a far penetrare più

profondamente nella fede stessa. È la fede stessa che secondo questa visione tende per sua stessa

natura ad avviare un processo di illuminazione che la supera infinitamente (rispetto al suo dato

iniziale), ma che tuttavia ha luogo solo in essa e per essa.

Questa visione sottintende un concezione della fede tale che, nella sua paradossalità, questa

vada compresa come un conoscere che dà il via ad un ulteriore processo di conoscenza (quindi non

era un vero conoscere) o come una luce che illumina e indica una via (come ad Abramo) che però

emerge come tale, cioè nella sua verità solo nella fatica del cammino (quindi all’inizio è tenebra e

smarrimento). Paradossalità questa che emerge nella tensione continua ed irrisolvibile che nella

teologia si ha tra fede e ragione.

Questo modo di intendere la fede è la fede cristiana. Essa non è una fede che si chiude nella sua

oscurità (o nella luce delle sue certezze) ma una fede che tende naturalmente al conoscere e al

comprendere. Ed essendo quindi anche una attività conoscitiva che coinvolge la ragione umana,

essa cessa di essere un qualcosa di “interno”, di ristretto ad un piccolo gruppo, di circoscritto al solo

ambito dottrinale degli “adepti”, e si apre anche all’esterno.

3 Nel medioevo il termine ratio, nel campo strettamente conoscitivo, indica una «facoltà discorsiva, nel senso

generico e usuale di capacità di pensare, di riflettere, di trovare dei motivi e delle spiegazioni alle cose, di stabilire dei

rapporti tra varie realtà, delle proporzioni tra due termini, di verificare la verità di certe affermazioni confrontandole con

giudizi antecedenti o con verità già raggiunte o note, di scoprire una verità con l'aiuto di un'altra» (DERMINE, F.,

«Razionalità e fede», in Divus Thomas 1(1992)126). L'opposto della ratio è la simplex intelligentia o l'intellectus, inteso

nel senso di atto semplice, intuitivo, di vista della verità e della realtà senza alcun processo raziocinante (Cf. PESCH,

O.H., Tomas d'Aquin, Paris 1994, 156).

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Questa conoscenza a cui tende per sua natura la fede può poi essere di due tipi. Il primo è

esclusivamente personale e può portare ad un approfondimento della propria fede fino alla visione

mistica o ad altri modi di possesso personale ed esistentivo della verità. Il secondo nasce dal fatto

che quella verità che afferra i credenti è l’unica e medesima verità di Dio e, quindi, ha in sé un lato

oggettivo e sovraindividuale. Conoscere questa verità “oggettiva” della fede è far teologia che,

pertanto, può definirsi come il processo dell’intellectus fidei nel corso della storia

dell’interpretazione della fede cristiana.

Questo modo di intendere la teologia si differenzia poi dagli altri due visti in precedenza in

quanto qui non si mira tanto ad arrivare ad una comprensione e sistematizzazione del dato di fede

mediante la ragione discorsiva (anche se si fa anche questo), ma si mira soprattutto a giungere ad

una visione intellettuale o spirituale del dato stesso. È quella certezza che nasce dalla

contemplazione, dalla visione “faccia a faccia”, che si cerca e non quella che nasce dal provare in

modo discorsivo la verità di una data affermazione o dottrina. Quello che si cerca soprattutto è una

vera e propria ascesa dell’anima a Dio, anche se servendosi della disciplina del pensiero e della

fatica del concetto: è questo il fine spirituale cercato da Origene, Agostino, Bonaventura, Anselmo e

Tommaso. Qui, a differenza del secondo tipo di teologia, più che le ferree leggi della logica hanno

importanza la fantasia, l’ispirazione, la preghiera e la meditazione. Si cerca più di scoprire che di

motivare. Rispetto al primo modo di intendere la teologia, poi, essa non mira tanto ad annunciare

Dio, ma ad impadronirsi della verità annunciata su Dio per immedesimarsi in essa.

3. Teologia come “scienza della fede”

Quanto andiamo qui a trattare è il modo attuale che si ha di comprendere la teologia. A tal proposito

iniziamo con il fare due annotazioni introduttive:

a) Il fatto che la teologia sia una “scienza” è contestato sia dall'esterno, in quanto il legame con

la Chiesa e la fede sembra non addirsi a una scienza, sia dall'interno, in quanto sembra che

abbandonare la fede e la religione allo spirito della ratio e dei suoi metodi sia un tradimento4. Alle

obiezioni esterne è dedicato il § 3.4, in cui si cerca di dimostrare come il legame con la fede e la

Chiesa, correttamente inteso, non mina la scientificità della teologia. Per quanto riguarda invece

quelle interne è da tener conto, prima di tutto, che se è vero che nell'autocomprensione cristiana

emerge chiaramente la coscienza della propria specificità e autonomia nei confronti di sapere e

scienza, è vero anche che è caratteristica del cristianesimo, anche se talvolta sofferta, la

4 Cf. SECKLER, M., Teologia Scienza Chiesa, cit., 43-46.

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fondamentale fiducia nella ragione e nelle scienze razionali5. Bisogna poi precisare che qui non si

intende dire che la teologia sia una scienza, ma che questa possa anche essere concepita in maniera

scientifica. In realtà questa strutturazione scientifica non è nient’altro che l’ambiente in cui la fede

diventa autentico intellectus fidei.

b) Noi, quindi, prenderemo qui in esame un modo di fare teologia, e precisamente quello che la

intende come scienza della fede. Questo binomio, scienza-fede, è già una definizione della teologia

scientifica ed evidenzia il programma che essa deve seguire per progredire nella conoscenza

teologica, e cioè, il rispetto sia della scientificità – che non comporta solo l'assunzione del metodo

argomentativo con il suo formalismo, ma l'assumere la ragione come fonte di conoscenza e criterio

di verità – sia della fede – evitando quindi di trasformare la teologia in filosofia della religione6.

3.1 Le origini del problema della scientificità

Questa indagine sulla “scientificità” della teologia potrebbe partire da molto lontano, in quanto ci si

potrebbe chiedere se alcuni Padri non avessero cercato di operare secondo un concetto di “scienza”

a loro contemporaneo.

Per esempio si potrebbe esaminare in tale prospettiva le opere di Ireneo di Lione (Adversus

Haereses, Esposizione della predicazione apostolica), nelle quali egli ha elaborato una alternativa

coerente e ben fondata alle varie, e a volte diverse, speculazioni dottrinali dei maestri gnostici. Per

lui «la teologia è un attività intellettuale situata all’interno delle coordinate dell’“unico schema di

fede” insegnato nella Chiesa. Il teologo indaga sulla rivelazione, prestando sempre attenzione a ciò

che è pervenuto dagli apostoli ed è stato ricevuto nel cuore come il contenuto e la struttura della

fede»7.

Ci si potrebbe pure, e soprattutto, interrogare sull’operato di Origene di Alessandria che ha

rivolto la sua attenzione “razionale” specialmente verso una interpretazione “spirituale” della

Scrittura, alla pari di quanto i filosofi pagani facevano nei riguardi dei racconti mitici. Per lui la

Bibbia ha una struttura tripartita che corrisponde alla tripartizione dell’uomo in corpo, anima e

spirito fatta da S. Paolo (1 Ts 5,23): il “corpo” è il significato della narrazione biblica, l’“anima” è

l’istruzione data a coloro che progrediscono nella fede, lo “spirito” è la sapienza nascosta delle vie

di Dio e della quale noi abbiamo per il momento solo alcuni deboli indizi8.

5 Cf. SECKLER, M., «Teologia», in Dizionario di Teologia Fondamentale, Assisi 1990.

6 Cf. SECKLER, M., Teologia Scienza Chiesa, cit., 57-60.

7 WICKS, J., Introduzione al metodo teologico, Casale Monferrato 1994, 15.

8 Cf. ORIGENE, I Principi, Torino 1968, 483-540 (cit. in WICKS, J, op. cit., 15).

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Se tutto quanto detto sopra è indubbiamente vero è però anche vero che è solo nell’alta

scolastica e soprattutto con S. Tommaso che la teologia9, sulla base del concetto aristotelico di

scienza, si pose coscientemente il problema della sua scientificità. È a partire da qui che la teologia

pretese, fin dal primo formarsi delle università, di entrare in esse come scienza tra le scienze e,

pertanto, è a partire da qui che noi inizieremo più approfonditamente la nostra ricerca.

3.1.1 San Tommaso

A partire da S. Tommaso la teologia si pone esplicitamente il problema della sua scientificità. Con

lui essa viene ad assumere uno statuto epistemologico ben preciso e, parallelamente, è sempre con

lui che l’esercizio della ragione, nella sua piena e peculiare specificità formale, ottiene in modo

esplicito un posto all’interno della fede.

Il fatto poi che la teologia abbia sentito questa esigenza e si sia concepita come scienza, riveste

un’importanza che travalica il singolo atto e il riferimento a una particolare concezione di scienza,

quella aristotelica, e diviene una opzione fondamentale a favore della ragione e della scienza di

sempre. Ciò impone alla teologia l’obbligo di tenersi aggiornata e, anche, di partecipare alla

discussione sulla teoria della scienza per poter trarre le debite conseguenze riguardo al suo essere

scienza10. Guardando quindi alla concezione scolastica di teologia scientifica è da tener presente che

alcuni punti e, naturalmente, l’opzione fondamentale rimangono, altri invece, essendo mutato il

concetto di scienza, andranno rivisti.

3.1.1.1 Conciliazione tra la ragione e la fede, tra filosofia e rivelazione

È un indubbio merito di S. Tommaso l’aver saputo mediare e armonizzare tra loro i due termini di

un problema che, come mostra la teoria della doppia verità, pur non raggiungendo i limiti attuali,

era per lo meno sentito come insolubile. Gli va anche riconosciuto, però, di averlo saputo fare senza

snaturare troppo i due termini a confronto, senza che uno abbia dovuto consegnarsi totalmente in

balia dell’altro fino quasi a scomparire nella sua specificità. Infatti, ciò a cui mirava non era

d’arrivare a una fredda e “morta” coesistenza ma, a un reale incontro tendente verso la verità. E nel

9 E' da notare che, esattamente parlando, il temine teologia è usato per indicare l'intera dottrina cristiana solo dopo

Tommaso e precisamente da Enrico di Gand (ca. 1217-1293). Prima il termine indica solo la dottrina sul Dio Uno e

Trino. Sulla “teologia” nell'antichità e medioevo Cf. KERN, W.-NIEMANN, F.J., Gnoseologia teologica, Brescia 1984,

34-39. 10

Cf. nota 33 in SECKLER, M., «La teologia come scienza della fede», in KERN, W. - POTTMEYER, H.J. - SECKLER,

M., ed., op. cit., 224.

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far ciò era conscio che ogni verità proviene da Dio, prescindendo da colui che la pronuncia e che

ogni disciplina giunge alla verità solo se è lasciata libera di assolvere il suo compito11.

Il punto di partenza per tale armonizzazione va ricercato nella concezione del rapporto tra fede

e ragione come analogico a quello tra grazia e natura. Pertanto, come l’ordine soprannaturale

partecipato nelle creature non solo non elimina, ma suppone ed eleva la natura creata, così la

ragione, illuminata dalla rivelazione, non perde in nulla le capacità naturali proprie ma,

partecipando nella fede alla conoscenza che Dio ha di sé, viene innalzata ad un livello

essenzialmente superiore12.

La fede quindi non è contraria alla ragione ma è ad essa superiore e la ragione, anche se

“ancella”, è “ancella” di cui la fede, per essere atto veramente umano, non può far senza, infatti:

«Se noi risolviamo i problemi della fede col metodo della sola autorità possediamo certamente la

verità, ma in una testa vuota»13.

3.1.1.1.1 La fede come “actus intellectus” e come “cum assensione cogitare”

La fede, avendo per oggetto la Verità suprema ed essendo indirizzata verso la visione, è un atto

dell’intelletto e, precisamente, dell’intelletto speculativo, anche se essa, essendo questa Verità

anche il fine dei nostri desideri e delle nostre azioni, tende poi a divenire operativa tramite la

carità14.

Questo atto intellettivo del credente non è però un normale atto dell’intelletto umano, in quanto,

questo «viene determinato a una data cosa non dalla ragione ma dalla volontà»15. Nella fede, cioè,

«l’intelletto aderisce alla verità divina sotto il comando della volontà mossa da Dio mediante la

grazia»16. Ciò non impedisce comunque all’intelletto di essere ugualmente ben determinato circa la

verità rivelata e, visto che interviene a suo favore la stessa Verità prima — causa superiore al lume

11

Cf. SECKLER, M., «Tommaso d'Aquino e la teologia», in ID., Teologia Scienza Chiesa, cit., 77-82. 12

CHENU, M.D., La teologia come scienza nel XIII secolo, Milano 1971-1984, 126, cita a tal proposito, oltre al ben

conosciuto passo della Summa Theologiae, I, 1, 8, ad 2, anche Exp. s. librum Boethii de Trin., q. 2, a. 3: «I doni della

grazia vengono conferiti alla natura in modo che non la eliminano, ma piuttosto la perfezionano; per cui anche il lume

della fede che ci è infuso gratuitamente non distrugge il lume della conoscenza naturale in noi innato (naturaliter

inditum). Benché poi il lume naturale della mente umana sia insufficiente a esprimere quelle verità che ci vengono

rivelate dalla fede, tuttavia è impossibile che quelle realtà che ci vengono trasmesse dalla fede in maniera divina siano

contrarie a quelle altre che sono innate in noi per natura: bisognerebbe infatti che uno dei due elementi fosse falso e

derivando entrambi da Dio, Dio stesso sarebbe per noi l'autore della falsità, il che è impossibile». 13

TOMMASO D'AQUINO, seduta di Quodlibet, IV, 16, Parigi 1271 (citato in CHENU, M.D., S. Tommaso d'Aquino e

la teologia, Torino 1977, 30-31). 14

Cf. TOMMASO D'AQUINO, Summa theologiae, II-II, 4, 2. 15

TOMMASO D'AQUINO, Summa theologiae, II-II, 2, 1, ad 3 (La somma teologica, XIV, Adriano Salani, s.l. 1966,

78). 16

TOMMASO D'AQUINO, Summa theologiae, II-II, 2, 9, c. (La somma teologica, XIV, 102).

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della ragione —, di godere perfino di una certezza superiore ad ogni conoscenza puramente

razionale17.

La conoscenza di fede è quindi, primariamente, un dono fatto all’uomo che prescinde dalla

capacità argomentativa della sua ragione, infatti, «la fede è incompatibile con la discussione della

ragione naturale che pretende di dimostrare quanto si crede»18. Questo non significa però che l’atto

di fede sia irrazionale, infatti, esso «ammette una discussione di ciò che può indurre l’uomo a

credere: cioè, p. es., che si tratta di cose rivelate da Dio, e confermate dai miracoli»19. Inoltre la

ragione interviene anche «per dimostrare ciò che è preliminare alla fede (preambula fidei) che è

necessario nella scienza della fede, come quelle verità che a riguardo di Dio vengono dimostrate

mediante ragioni naturali, come l’esistenza di Dio, l’unità di Dio e altre di tal genere o a riguardo di

Dio o a riguardo delle creature, cose che vengono provate in filosofia e che la fede presuppone»20.

In altre parole, la fede, per essere atto veramente umano e quindi libero, esige il ricorso a validi

motivi razionali estrinseci che purificano l’intelletto dai pregiudizi e lo preparano a seguire,

ragionevolmente e non fideisticamente, il comando della volontà. Ciò permette poi anche di trovare

argomenti contro l’infondatezza della Rivelazione e l’assurdità della fede, cioè di esplicare un

lavoro apologetico in difesa delle “ragioni” della propria fede.

Queste basi razionali esterne all’atto di fede, pur essendo ad esso indirizzato e pur dando motivi

sufficienti per esso, non sono però sufficienti a portare l’intelletto umano all’evidenza delle cose di

fede e pertanto, non tolgono in nulla il merito di quest’atto che rimane fondamentalmente un

assenso della volontà a una realtà che non si vede21. Ma anche questo assenso, in se e per se, non è

privo di ragionevolezza22. Infatti, data la finitezza umana, è ragionevole e talvolta necessario, il

fidarsi di altri per poter entrare in possesso di un sapere scientifico, tecnico, artistico, ecc., o

addirittura per poter vivere. Pertanto, a fortiori, non è irragionevole l’affidarsi alla testimonianza

della Verità prima, con la quale qualsiasi falsità è incompatibile, per ottenere un sapere che eccede

in assoluto la capacità della nostra ragione e che, pertanto, mai potremmo ottenere per altra via. La

fede teologale, cioè, eleva l’intelletto di colui che non vuole autorinchiudersi nel solo ambito della

conoscenza argomentativa, a livello dell’intelligenza divina che viene così a svolgere, nella mente

del credente, il ruolo che i “primi principi” hanno nella conoscenza umana.

17

Cf. TOMMASO D'AQUINO, Summa theologiae, II-II, 4, 8; ID., De Veritate, 14, 1, ad 7 (citato in DERMINE, F., op.

cit., pp. 127-128). 18

TOMMASO D'AQUINO, Summa theologiae, II-II, 2, 1, ad 1 (La somma teologica, XIV, 78). 19

Ibid. 20

TOMMASO D'AQUINO, Exp. s. librum Boethii de Trin., q. 2, a. 3 (citato in CHENU, M.D., La teologia come

scienza nel XIII secolo, cit., 127). 21

Cf. TOMMASO D'AQUINO, Summa theologiae, II-II, 2, 9, ad 3 e 2, 10, ad 2. 22

Cf. DERMINE, F., op. cit., pp. 132-142.

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Pertanto l’atto di fede «non solo non rinnega o mortifica la ragione ma la presuppone, la risana

purificandola o preservandola dagli errori umani e, soprattutto, la eleva al punto di metterla in

continuità con l’oggetto della stessa conoscenza divina: “fides non destruit rationem sed excedit

eam et perficit”»23.

La conoscenza di fede, come abbiamo visto, è certamente un dono e, pertanto, atto dell’intelletto e

non della ragione, ma questo dono è fatto ad un essere capace di cogliere la verità e che, pertanto,

sulla base di questo dono, seguendo la propria natura, si mette a riflettere, sviluppare, trarre

conseguenze, illustrare, cioè, a cogitare: «la fede infatti non sconvolge la natura dello spirito in cui

Dio la infonde; essa ne adotta al contrario i metodi, il cui modello è il discorso razionale»24.

Questo cogitare è frutto della debolezza intrinseca dello stesso atto di fede, in cui si ha

un’adesione ferma a una data cosa, senza che tuttavia la sua conoscenza sia frutto di una percezione

evidente25. L’intelletto non si sente quindi appagato e da questa sua insoddisfazione scaturisce

questa ricerca discorsiva, continua e mai conclusa. Essa però non diminuisce il merito dell’atto di

fede ma, anzi, l’aumenta, visto che nasce dall’amore per ciò che già si crede, amore che dopo aver

spinto all’assenso, cerca ora l’approfondimento nel tentativo di anticipare il tempo della chiara

visione26. Non una riflessione fine a se stessa quindi, ma una riflessione che partita dalle verità

rivelate vi ritorna arricchita da ciò che ha elaborato nella luce della fede, in modo da poter

conseguire, secondo il modo di procedere umano, quella conoscenza che Dio consegue nell’assoluta

semplicità di un’intuizione. Una riflessione, cioè, interna alla fede, che da essa segue senza tuttavia

mai usciere dal suo ambito, visto che la retta esplicazione della verità rivelata richiede che

l’intelligenza umana attinga alla sessa luce di chi rivela: «la raison explique la foi en interprétant à

la lumière de la foi ce qu’elle, la raison, peut connaître, et, de ce fait, en interprétant la foi elle-

même»27. In altre parole, ci troviamo ora nel campo in cui la fede si sviluppa in intellectus fidei, cioè

in ciò che chiamiamo teologia, ed è un indubbio merito di Tommaso l’aver saputo introdurvi in

maniera chiara la mediazione della ratio, fino al punto di rivendicare per esso il nome di scienza,

nome che sembrava ad esso completamente antitetico.

3.1.1.1.2 Teologia come scienza

Parlare di scienza, in senso aristotelico, significa parlare essenzialmente di un processo dello spirito

che passa dal noto (i principi) all’ignoto (le conclusioni) per mezzo di una dimostrazione e, quindi,

23

Ibid, 141; la citazione è da TOMMASO D'AQUINO, De Veritate, 14, 10, ad 9. 24

CHENU, M.D., La teologia come scienza nel XIII secolo, cit., p. 102. 25

Cf. TOMMASO D'AQUINO, Summa theologiae, II-II, 2, 1. 26

Cf. TOMMASO D'AQUINO, Summa theologiae, II-II, 2, 10. 27

PESCH, O.H., op. cit., 156.

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di qualcosa di diametralmente opposto alla conoscenza immediata (senza mediazione razionale)

implicita nel termine intellectus. Nonostante ciò Tommaso rivendica questo nome anche per la

conoscenza delle cose divine, in quanto, «come Dio per il fatto stesso che si conosce, conosce le

altre cose secondo la sua natura (modo suo), e cioè con una semplice intuizione (intuitus) e non

mediante un discorso (non discurrendo): così noi da quelle realtà che comprendiamo con la fede

aderendo alla verità prima, giungiamo alla conoscenza delle altre secondo la nostra natura, passando

(discurrendo) cioè dai principi alle conclusioni. Per cui le stesse realtà che accettiamo per fede sono

per noi come i primi principi di questa scienza e le altre cose sono come conclusioni»28.

Posta questa analogia tra principia e articuli fidei, rimane il problema che i secondi, a

differenza dei primi, mancano dell’evidenza necessaria per poter parlare di scienza. A tal scopo

Tommaso, nella Summa, si serve della teoria della subalternazione, notando come la teologia (sacra

dottrina) sia sì una scienza, ma una scienza subordinata «in quanto che poggia su principi conosciuti

per lume di scienza superiore, cioè della scienza di Dio e dei Beati. Quindi come la musica ammette

i principi che le fornisce la matematica, così la sacra dottrina accetta i principi rivelati da Dio»29.

Stabiliti i principi di questa scienza teologica, gli articuli fidei, il metodo, quello deduttivo, e il

suo carattere di scienza subordinata resta però da stabilire quale sia la portata e il valore delle

conclusione a cui si giunge. In altre parole, siamo in presenza di una ratio che entra all’interno

della verità rivelata o di una ratio puramente strumentale che trae conclusioni ad essa esterne? I testi

di Tommaso non danno a tal riguardo un indicazione univoca30, e se si guardasse solo alla sua opera

principale, la Summa theologiae, in particolare alla sua prima Questio, si propenderebbe senza

dubbio per la seconda ipotesi. Ciò in effetti è quello che è successo nella successiva scolastica

tomista – differente per qualità da quella tommasiana31 – dove la ratio, come facoltà della verità,

abbandona l’ambito della fede per stabilirsi nei soli preambula32 e la teologia diviene una scientia

conclusionum tesa alla ricostruzione umana, in termini dottrinali, della scienza di Dio che, in modo

continuo e progressivo, si era sempre meglio in grado di esplicitare. Di esplicitare cioè, ciò che in

fondo era in sé completo e sempre valido33. Come nota Chenu però, la riflessione metodologica non

coglie subito gli effettivi procedimenti e, pertanto, è necessario guardare a Tommaso nella sua opera

concreta di teologo, al di la di ciò che ha saputo teorizzare. Se si fa ciò, non v’è alcun dubbio nel

constatare che «il “suo discorso” scientifico, dall’argomento di convenienza fino alla deduzione, si

28

TOMMASO D'AQUINO, Exp. s. librum Boethii de Trin., q. 2, a. 2, in corp. (citato in CHENU, M.D., La teologia

come scienza nel XIII secolo, cit., 103). 29

TOMMASO D'AQUINO, Summa theologiae, I, 1, 2 (La somma teologica, I, 46). 30

Cf. PESCH, O.H., op. cit., 158, specialmente le note 83 e 84. 31

Cf. SECKLER, M., «Tommaso d'Aquino e la teologia», in ID., Teologia Scienza Chiesa, cit., 72. 32

Cf. SECKLER, M., «La teologia come scienza della fede», in KERN, W. - POTTMEYER, H.J. - SECKLER, M., ed.,

Corso di Teologia Fondamentale, IV, cit., 236-237 33

Cf. Ibid., 223.

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costruisce nella contemplazione del dato rivelato, nella quale egli conosce ed elabora nella maniera

complessa che gli è propria, ciò che Dio conosce nell’assoluta semplicità di un’intuizione. Così, la

ratio fide illustrata giunge fino ai limiti delle sue possibilità, fino alla sistemazione dei misteri

divini che la fede le fornisce...»34.

Guardando da questo punto di vista al tentativo fatto da Tommaso per formalizzare l’uso della

ratio all’interno della conoscenza di fede, mediante l’appropriazione e, anche, adattamento del

concetto aristotelico di scienza, si possono fare alcune considerazioni:

a) La fede svolge in teologia il ruolo di illuminazione che i principi della ragione svolgono

nelle discipline razionali. Infatti, «non si tratta di una semplice trasmissione di un dato, ovvero di

una serie di proposizioni accettate per autorità (...), ma di una continuità organica, psicologica e

religiosa, secondo cui la luce della fede, emanazione della luce divina nello spirito umano,

costituisce il terreno indispensabile alla conoscenza delle proposizioni rivelate»35.

b)Non si può parlare di subalternazione ma di quasi-subalternazione, in quanto, a differenza

delle altre scienze, in teologia si ha subalternazione solo a riguardo dei principi acquisiti e non

dell’oggetto, che rimane lo stesso. Pertanto, non è possibile «spartire compiti e competenze come

talora si fa: la fede avrebbe per oggetto la rivelazione (revelatum), mentre la teologia le conclusioni

che possiamo trarne, ossia il rivelato “virtuale” (revelabile)». Ciò, anche se lecito a riguardo della

differenza di materia e metodo, «corre il rischio di non inserire l’effettiva interiorità del lavoro

razionale del teologo entro il dato rivelato, e talvolta essa ha riflesso un certo estrinsecismo della

teologia nei confronti della fede»36.

c) Nelle altre scienze i principi, anche se non sono in sé evidenti nella scienza subordinata, lo

sono nella subordinante e, quindi, sempre alla portata della naturale conoscenza umana. Ciò non

vale per la teologia, dove le verità di fede possono essere evidentissime solo ai beati che le vedono

nella divina sostanza. Pertanto la teologia è scienza solo in modo imperfetto.

Da tutto ciò emerge come questa strutturazione scientifica non sia nient’altro che l’ambiente in cui

la fede diventa autentico intellectus fidei. Partita dalla fede, alla luce della fede, la ratio, seguendo la

sua natura, compie il primo passo verso la visione beatifica, verso cioè quella scienza di Dio e dei

beati da cui era partita e con cui era sempre rimasta unita grazie alla fede.

34

CHENU, M.D., La teologia come scienza nel XIII secolo, cit., 128. 35

CHENU, M.D., La teologia come scienza nel XIII secolo, cit., 107. 36

Ibid., p. 120.

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3.1.1.2 Una ragione libera nei limiti della fede

Nell’opera di S. Tommaso è riscontrabile un’autentica fiducia nella ragione e nei suoi metodi, tanto

da poter dire che la filosofia, naturale espressione della ragione umana, è in Tommaso perfettamente

indipendente dalla fede riguardo ai principi, all’oggetto e al metodo37. Il significato da dare a questa

indipendenza è però diverso da quello che possiamo dare noi oggi, in un momento in cui si sentono

questi due termini, ragione e fede o filosofia (scienza) e teologia, come antagonisti ed escludentesi a

vicenda38. Il suo punto di partenza è infatti il «gratia non tollit naturam sed perficit»39, in cui al

pieno rispetto per ciò che è naturale, in quanto proveniente dal Dio creatore, si assomma il senso di

mancanza, di imperfezione, se tutto ciò rimane fuori dall’ambito della grazia, fuori dalla fede nel

Dio che si rivela per salvarci. Quindi non contraddizione, ambedue procedono dallo stesso Dio40,

ma necessità della fede per superare la limitatezza della ragione naturale e portala a un livello

essenzialmente superiore, in modo però da non distruggere o depotenziare quest’ultima, ma

preservandola nella sua consistenza naturale e nel suo atto proprio. Pertanto, bisogna che la

«filosofia resti razionale per essere utilizzabile dalla teologia e che la teologia resti se stessa per

poterla utilizzare. La famosa formula: la filosofia ancella della teologia, non ha altro significato.

Perché questa ancella sia utile, bisogna che non sia distrutta. Ed è vero che l’ancella non è la

padrona, ma fa parte della famiglia»41. Spiegando meglio questo rapporto, Tommaso42 mette poi in

evidenza come la teologia «può far uso di conoscenze filosofiche di origini differenti, ma essa non

se ne compone. La teologia le sceglie e le perfeziona. Essa percepisce al di là di ciascuna di esse, un

punto di convergenza a loro stesse sconosciuto e verso cui tuttavia tendono senza saperlo. Nessuna

37

Cf. MARITAIN, J., Le docteur angélique, Desclée, Paris 1932, XV-XVI. 38

Ciò fa concludere che in Tommaso «è da vedere soltanto il teologo o l'apologista del cattolicesimo, che della

filosofia si serve come di strumento e mezzo per confutare taluni errori». In lui la ragione è completamente svalutata in

quanto «il termine a quo ed il termine ad quem sono sempre dati: si muove dal dogma e si finisce nel dogma con una

monotonia esasperante, dove l'irrazionalità eretta a sistema si drappeggia dei colori più vari della razionalità» (SAITTA,

G., Il carattere della filosofia tomistica, Firenze 1934, 23-24). Per Russell, «nell'Aquinate c'è ben poco del vero spirito

filosofico (...) Prima di cominciare a filosofare, conosce già la verità, che è quella annunciata dalla fede cattolica. Se

Tommaso può trovare argomenti apparentemente razionali in appogio a qualche parte della fede, tanto meglio; se non

può, deve solo rifarsi alla Rivelazione. Trovare argomenti in sostegno a una conclusione già data in anticipo non è

filosofia, ma solo una forma particolare di apologetica. Non posso quindi accettare che Tommaso meriti d'essere posto

su uno stesso piano con i migliori filosofi della Grecia o dei tempi moderni» (RUSSELL, B., Storia della filosofia

occidentale, II, Milano 1948, 212). 39

Cf. TOMMASO D'AQUINO, Summa theologiae, I, 1, 8, ad 2. 40

«Il vero che la filosofia indaga e raggiunge come sua meta fugando il falso e fuggendo l'errore, non può

contraddire un vero più alto che gli viene rivelato da Dio, e che pur superando la ragione non può parimenti contraddirla

e può anzi negativamente su di essa esercitare il suo influsso ne erret. L'essere “cristiana” si risolve dunque, per la

filosofia, nel presentare il rationabile obsequium al vero rivelato, che diviene così per essa anche un formidabile

baluardo di riparo e difesa dall'errore» (TOCCAFONDI, E., «Valore perenne della gnoseologia tomistica», in Aquinas 1-

3(1960)233). 41

GILSON, E., Il filosofo e la teologia, Brescia 1966, 106. 42

Cf. TOMMASO D'AQUINO, Summa theologiae, I, 1, 3.

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dottrina accolta dalla teologia tomista vi rientra se non attraverso la luce trasformante della fede

nella parola divina»43.

Non un razionalismo moderno, quindi, ma una fiducia nella ragione e nei suoi metodi che si

accompagna con un forte senso del limite nelle sue possibilità. Già nel primo articolo della prima

Questio della Summa theologiae, pur ammettendo la lecita esistenza di discipline filosofiche, egli

reclama la necessità di una dottrina che parta dalla Rivelazione a causa della debolezza della

ragione umana lasciata a se stessa. Dio, a cui l’uomo è ordinato, supera le capacità della ragione e,

anche ciò che è alla sua portata, è conoscibile solo da «parte di pochi, dopo lungo tempo e con

mescolanza di molti errori»44. La verità, a cui la ragione tende, è quindi un dono dell’autorità divina

e non è raggiungibile se non nella fede che, pertanto, non snatura o opprime la ragione, ma le da una

sicura garanzia per il raggiungimento del suo scopo. Accettando ciò che le viene pre-donato nella

fede la ragione può abbandonarsi liberamente alla sua sete di conoscenza e «le théologien est tenu

de reconnaître comme vérité divine toute la vérité qu’il reconnaît, même si elle n’est pas puisée

dans la Bible»45.

Una ragione, quindi, libera nell’ambito della fede e sua “ancella”46, ma “ancella”, come visto, di

cui la fede non può fare a meno e che le impedisce di cadere nel campo della mera congettura e

dell’opinione, questi, in sintesi, il limite e la grandezza dell’umana ragione.

3.1.1.3 Attualità del pensiero tommasiano

Riassumiamo in alcuni punti ciò che in Tommaso sembra essere ricco di significato anche per

l’oggi della teologia:

a) La necessità e il coraggio di partire dalla fede, nella consapevolezza che solo quest’ultima è

in grado di introdurci nella verità ultima della nostra esistenza. Solo la fede può fare alla ragione

questo dono che, accolto, le permette di svolgere liberamente il proprio compito a contatto con la

Verità e, quindi, lontano dall’errore.

b) La fede, nell’uomo fatto a immagine di Dio e quindi capace di intendere e di scegliere

liberamente, non si dà e non matura senza l’intervento della ragione. Certo, la ragione lavorerà a

patire da evidenze solo nella fase precedente all’atto di fede (motivi di credibilità e preambula

fidei), ma, anche se legata a una “testimonianza” superiore, essa non cesserà mai di operare, né

43

GILSON, E., op. cit., 110. 44

Nelle “cinque vie”, la ragione può riconoscere il Dio “principio” del mondo, in quanto lavora già alla luce della

fede nella creazione. Solo così l'identificazione del risultato di una argomentazione metafisica con il Dio del fede

cristiana è infatti possibile. Partendo poi dagli “effetti”, che la ragione sperimenta, è impossibile tendere verso l'idea di

Dio come “fine”, come salvezza dell'uomo (Cf. PESCH, O.H., op. cit., 161-162; 170). 45

Ibid., 159.

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durante né dopo. Nel “dopo”, poi, cioè nella riflessione teologica, il ruolo della ragione non sarà

puramente strumentale come potrebbe apparire da una lettura “letterale” della Summa theologiae,

ma, se si guarda soprattutto all’agire concreto di Tommaso, si potrà dire che «périodiquement les

théologiens sont entrainés vers le danger d’évacuer alors le mystére: belle tentation où la raison

théologique trouve sa gloire et sa limite. Malheureux qui ne l’a pas éprouvée!»47.

c) La Verità con cui la fede mette in contatto è sicuramente oggettiva. Non nel senso che essa

sia un oggetto a nostra disposizione48, ma nel senso che è qualcosa che sta effettivamente “di contro

a noi” e che, solo perché è così, può essere anche un “con noi” e un “per noi”. Ciò fa si che, pur

nella vitale crescita e sviluppo temporale, la nostra verità non si riduca mai a nostra creazione e

conservi sempre una sostanziale immobilità nella sua identità49.

3.1.2 Melchior Cano: i loci theologici

L’alta scolastica aveva costituito la teologia come scienza subordinata, evidenziandone il metodo,

quello deduttivo, e i principi, gli articoli del credo, scelti perché ritenuti rivelati da Dio, quindi

“certi”, e risalenti agli apostoli. La questione di considerare criticamente le fonti della teologia, cioè,

il dove e il come essa individua gli articoli di fede e le verità rivelate, non veniva invece sentito50.

Tale problema si pose, in modo sistematico, solo all’inizio dell’età moderna quando, durante la

controversia con Lutero, sorse il problema delle fonti teologiche, e specialmente del rapporto

Scrittura-Tradizione. Per la teologia cattolica si pose quindi la necessità di una fondazione

metodologica che non fosse “ingenua” (dodici articoli rivelati da Dio e risalenti agli apostoli) ma

che allo stesso tempo non considerasse la Scrittura come unica fonte probativa. In questo contesto si

mostrò necessaria l’opera di Melchior Cano (1509-1560) che, nel suo De locis theologicis,

pubblicato dopo la sua morte, individuava le diverse fonti di conoscenza (la Sacra Scrittura, la

Tradizione, la Chiesa ecc.) dalle quali la teologia attinge i principi dai quali deduce le conclusioni

teologiche. Tale lavoro sulle fonti veniva indicato da Cano come “positio principiorum”, da cui il

nome di teologia positiva51.

Più in particolare, Cano individuava dieci fonti di conoscenza (i loci):

46

Cf. TOMMASO D'AQUINO, Summa theologiae, I, 1, 5, ad 2 e 8, ad 2. 47

CHENU, M.D., Introduzion à l'ètude de S. Thomas d'Aquin., Paris 1950, 158 (citato in PESCH, O.H., op. cit., 159). 48

Seckler mette in evidenza come per Tommaso il punto supremo della conoscenza di Dio sia il sapere che non lo

conosciamo; cosa questa che si evidenzia palesemente con l'incompiutezza della sua opera maggiore (SECKLER, M.,

«Tommaso d'Aquino e la teologia», cit., 83-84). 49

Cf. PESCH, O.H., op. cit., 174-177; TYN, T., «Lo studio della teologia sotto la guida di San Tommaso», in

Sapienza 1(1986)35-37. 50

Cf. KERN, W.-NIEMANN, F.J., op. cit., 45-49; WALDENFELS, H., Teologia fondamentale nel contesto del mondo

contemporaneo, Cinisello Balsamo (MI) 1988, 593-594. 51

Cf. PANNENBERG, W., Epistemologia e teologia, Brescia 1975, 230-231.

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Due costitutivi della Rivelazione: Sacra Scrittura e Tradizione.

Cinque interpretativi della Rivelazione: Chiesa cattolica, Concili, Chiesa romana (=papa), Padri,

Teologi scolastici.

Tre impropri: Ragione umana, Filosofi, Storia umana.

A loro riguardo è da notare che con Chiesa cattolica si intendeva la coscienza di fede della Chiesa

universale e che con i tre “luoghi” impropri – che nella terminologia odierna si possono indicare

con scienze umane, naturali e sociali – riconosceva che la teologia doveva tener conto anche dei

risultati di altre discipline.

I limiti di questa visione derivano dal fatto che Cano considerava il locus come qualcosa di

esterno al teologo, di distinto e separato da lui. Un luogo esterno dal quale estrarre la conoscenza

teologica e non un luogo in cui è presente anche il teologo. Non «la condizione trascendentale che

prima ancora che s’incominci a fare teologia esiste come possibilità stessa della teologia e ne

connota sempre la riflessione»52. Questa riflessione, sulle condizioni aprioriche, soggettive,

dell’attività teologica, avrà inizio solo nell’età contemporanea dopo Kant e aprirà nuovi spazi per un

nuovo rapporto con una razionalità scientifica nuova.

Per concludere bisogna infine notare che questa impostazione di Cano ha avuto una grande

influenza sulla teologia nel periodo intercorrente tra i due Concili Vaticani, soprattutto per quanto

riguarda l’impostazione dei libri di testo dell’insegnamento cattolico (“manuali”) usati nelle

università cattoliche e nei seminari in tutta la prima parte del ventesimo secolo53. In tali testi il

teologo dogmatico cercava la comprensione di ciò che si crede partendo, prima di tutto,

dall’insegnamento del Magistero recente della Chiesa su un determinato punto e andando, poi, a

cercare “a ritroso” le origini di questo insegnamento nelle fonti originarie (Scrittura e tradizione). Il

metodo “regressivo” di questa teologia, che si allontanava sensibilmente dalla più ampia visione

tommasiana, era stato successivamente ratificato da papa Pio XII nell’enciclica Humani generis

(1950).

In questo modo la “teologia positiva” di Cano veniva ripresa e riattualizzata, in quanto il

magistero della Chiesa assumeva il rango di primo fra i loci della teologia, almeno nella sua fase

positiva. A questa fase seguiva la fase riflessiva o “speculativa” in cui la mente cercava una

comprensione ulteriore di ciò che si sostiene.

52

KERN, W.-NIEMANN, F.J., op. cit., 49. 53

WICKS, J., Introduzione al metodo teologico, cit., 25-28

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3.2 Teologia come scienza della fede: l’oggetto

Formalmente l’oggetto della teologia è Dio54. Dio è il tema, l’istanza della teologia e, viceversa,

ogni parlare di (su) Dio è teologia. Questo sia nel senso proprio del termine (il problema di Dio), sia

nel senso “economico”, cioè l’uomo e il mondo in quanto relazionati a Dio.

Fonti di tale conoscenza di Dio sono poi la rivelazione e la ragione, con la prima in netta

prevalenza sia per quanto riguarda la portata conoscitiva sia come criterio di verità. La teologia

vuole quindi essere essenzialmente e primariamente una conoscenza secundum revelationem che,

qualora voglia concepirsi anche come scienza, deve necessariamente prendere in considerazione

anche il principio della ragione.

Se teniamo poi conto che base e fondamento degli avvenimenti rivelativi racchiusi nella storia

biblica è la parola di Dio che, sostanzialmente, è Dio stesso nell’evento della sua autorivelazione55,

della sua auto-comunicazione all’uomo per la sua salvezza (e non solo informazioni su di essa e su

Dio), si può anche dire che l’oggetto della teologia è la parola di Dio; termine questo che, parlando

di conoscenza, sembra più consono del termine “rivelazione” ad esprimere la dimensione cognitiva

della auto-comunicazione salvifica di Dio, il suo carattere di Logos 56.

E’ da notare che dicendo che Dio o la sua parola sono l’oggetto della teologia non si intende

ovviamente negare la non-oggettivabilità primaria di Dio e della sua parola, ma si intende porre

l’accento sul fatto «che Dio “sta di fronte” all’uomo, gli si oppone, anzi lo contrad-dice, non

scompare nella soggettività dell’uomo (...) L’“oggettività” della parola di Dio sta perciò anche a

54

Per quanto diremo in questo e nel prossimo paragrafo vedi soprattutto: SECKLER, M., «La teologia come scienza

della fede», cit., 218-247; 266-279; ID., Teologia Scienza Chiesa, cit., 57-64; ALSZEGHY, Z. - FLICK, M., Come si fa

teologia, Cinisello Balsamo (MI) 19904, 24-30; VAGAGGINI, C., «Teologia», in Nuovo Dizionario di Teologia, Cinisello

Balsamo (MI) 19855, 1674-1694.

55 Va notato, a ragion del vero, che W. PANNENBERG non condivide la posizione di quanti intendono la rivelazione

divina, l'auto-rivelazione di Dio, in termini di parola di Dio. Infatti le diverse concezioni bibliche della parola di Dio,

non hanno immediatamente Dio per contenuto. Per Pannenberg si dovrebbe affermare che Dio si rivela tramite la

mediazione del suo agire storico. «La divinità del Dio della promessa si rivela soltanto quando ciò che egli ha promesso

conoscerà il trionfale compimento, come è vero anche che la promessa è la condizione perché, nell'adempimento di ciò

che è stato promesso, si possa conoscere il modo d'agire del Dio della promessa» (ID., Teologia sistematica 1, Brescia

1990, 278).

Dio si rivela quindi nella storia umana e, definitivamente, solo alla fine della storia. Ma grazie a Cristo, vera

"parola di Dio", in quanto piano divino della creazione e della storia e rivelazione degli ultimi tempi, tale fine ci viene

anticipata e la rivelazione completata, anche se ancora aperta alla futura conferma (Cf. Ibid., p. 292). 56

O.H. PESCH mette in evidenza che il preferire il concetto di “parola di Dio” a quello di “rivelazione”, pur non

essendo una necessità, «rappresenta una decisione terminologica oggettivamente conveniente. Infatti la Sacra Scrittura

pone chiaramente l'accento (...) sulla rivelazione di Dio nella sua parola e mediante la sua parola. Nella

pluridimensionalità, che la connota, la “parola di Dio” esprime perciò l'autocomunicazione di Dio nel suo carattere

specifico di evento intelligibile. Di conseguenza è estremamente conveniente indicare il principio della conoscenza

teologica col concetto di “parola di Dio”» (ID., «La parola di Dio principio oggettivo della conoscenza teologica», in

KERN, W. - POTTMEYER, H.J. - SECKLER, M., ed., Corso di Teologia Fondamentale, IV, cit., 30-31).

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significare che noi non ne possiamo fare quel che vogliamo (...) significa che la Chiesa e la teologia

non ne possono disporre»57.

La parola di Dio però non è in sé mai oggettivabile e a noi giunge solo sotto forma di

oggettivazioni storiche mediate che la rappresentano nel suo carattere di logos, nella sua dimensione

cognitiva, ma che non si confondono mai con essa. Ciò vale anche per le enunciazioni della Bibbia,

anche se dottrinali, e, soprattutto, per gli scritti interpretativi che da lei sono nati. Tali

oggettivazioni, che nel loro complesso rappresentano il contenuto della fede (fides quae), non sono

la parola di Dio, che in quanto tale non è mai scritta, ma sue mediazioni storiche58.

In concreto quindi, data la non-oggettivabilità primaria, diretta, della parola di Dio, noi abbiamo

a che fare con la parola di Dio nella fede del popolo di Dio, cioè con ciò che nella Chiesa,

nell’esperienza di fede, venne e viene percepita e riconosciuta come parola di Dio nella storia degli

uomini. La parola di Dio si rende presente, si oggettivizza, si incarna nel contenuto della fede della

Chiesa e quindi la fede, nel senso di ciò che nel “credo” vitale della comunità cristiana (fides qua)

viene oggettivamente visto e affermato (fides quae), è l’oggetto (prossimo) della teologia, l’oggetto

autentico della conoscenza teologica59.

Da quanto detto sopra, risulta evidente che la teologia riceve il suo oggetto da una attività ad

essa antecedente e pre-scientifica, che si chiama “fede”. La quale, a sua volta, rende presente,

oggettivizza e incarna la realtà chiamata “parola di Dio”. Ne segue che la teologia, a differenza p.

es. della teologia filosofica, non può plasmare il suo oggetto in maniera arbitraria, visto che non è

stata lei a costituirlo, e che pertanto non può parlare di Dio in modo dissimile da come egli stesso si

è manifestato nella sua parola, che la raggiunge nella fede della comunità.

La parola di Dio non è perciò solo l’oggetto (remoto) della teologia, ma deve, per così dire,

divenire anche il suo contenuto, nel senso che nel suo parlare su Dio deve, per quanto possibile a

parole umane, risuonare la parola stessa di Dio resa, dal lavoro teologico, significante per l’uomo

d’oggi.

In questa dipendenza assoluta della teologia dalla parola di Dio, si può comprendere la

definizione della teologia come scienza subordinata (alla scientia Dei) che proviene dalla scolastica.

Questo però non significa che la teologia, causa la sua partecipazione alla scientia Dei, comunichi

lo stesso pensiero di Dio, il suo punto di vista.

57

Ibid., 34. 58

Ibid., 34-35. 59

Cf. Ibid., 38-39. O.H. PESCH mette invece in evidenza che la fides quae non è da identificare con il depositum

fidei, (p. es. Bibbia, dogmi, tradizione di fede vincolante) in quanto, in tal caso, essa corrisponderebbe al concetto

riduttivo, neoscolastico, di tradizione intesa come istruzione. La fides quae invece è un concetto ideale tipico (e in

quanto tale normativo), corrispondente a un concetto della rivelazione e della parola di Dio inteso come

autocomunicazione, indicante piuttosto quel che la Chiesa deve credere (non ciò che essa di fatto crede) e a cui perciò

tende la fede formulata dalla Chiesa

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Essa, infatti, pur rimanendo valido il principio di corrispondenza, è e rimane sempre opera

umana, fatta da uomini per uomini, in quanto, come abbiamo visto, già la stessa parola di Dio non è

a disposizione dell’uomo in formulazioni dottrinali divine e assolute ma sempre storiche e

contingenti. A noi, cioè, la parola di Dio si rende presente solo in oggettivazioni storiche mediate60,

che non trasmettono solo la parola di Dio (il suo carattere di logos) ma anche la deformano e la

travisano61.

La teologia, poi, è opera umana anche perché una sua componente è completamente umana,

cioè costituita dal metodo e dalla ragione. Qui, però, va subito notato che con ragione non si intende

una funzione puramente strumentale che, come nella scolastica, abbia il compito di dedurre dai

principi rivelati le debite conclusioni. La ragione ora è fonte di conoscenza, non una funzione cieca,

ma efficace capacità di cogliere attivamente la verità dell’oggetto della fede.

L’oggetto della riflessione teologica viene quindi a includere il soggetto stesso caricandosi la

sua storicità.

3.3 Teologia come scienza della fede: il fine

La fede non è solo la condizione che rende possibile la conoscenza (fides qua) e l’oggetto della

teologia (fides quae), ma è anche il suo fine. Nel senso che la teologia, dato il carattere di logos

della auto-comunicazione divina, vuole giungere a una comprensione della fede (intellectus fidei)

capace di una sua elaborazione in termini dottrinali e di una sua esposizione completa e sistematica.

In una formulazione che sia sempre nuova e adeguata a far da guida alla vita di fede e alla

predicazione, in modo cioè da non ridurre la conoscenza teologica a mera teoria informativa sulla

realtà salvifica, ma capace di mettere in contatto l’uomo d’oggi con la parola di Dio che è Dio

stesso nella sua auto-comunicazione salvifica62.

Nello svolgere questo compito però, una teologia che voglia essere una riflessione scientifica

sulla fede (della Chiesa), dovrà adottare necessariamente un metodo argomentativo rigoroso e non

lo svolgerà solo pensando con “fede e devozione”. Infatti «il teologo.(...) non può occupare la

propria cattedra d’insegnamento né come profeta né come demagogo, tanto meno come

60

L'autore fa presente che una teologia che voglia comunicare all'uomo odierno una verità capace di alimentare la

fede vissuta, deve individuare la parola di Dio nelle seguenti oggettivazioni della tradizione ecclesiale: il messaggio

biblico quale testimonianza originaria della fede, le sue interpretazioni e concretizzazioni storiche e la loro presenza

invitante alla fede nella predicazione e nella dottrina della Chiesa odierna, nella predicazione quotidiana così come in

quella solenne (Ibid., 41). 61

Ibid., 41-42. 62

Cf. Ibid., 31, 35. A. JÄGER mette in evidenza il motivo profondo che spinge l'uomo, messo esistenzialmente in

questione dalla realtà di Dio (il problema di Dio), a rispondere “investigando e imparando”: «All'amore appartiene

anche che io mi informi sulla persona amata» e pertanto «la teologia come riflessione si fa anche sotto l'aspetto pratico,

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rappresentante di superstizioni irrazionali»63. La teologia deve divenire cioè, da questo punto di

vista, “atea” come le alte scienze, nel senso che dovrà parlare di Dio senza far ricorso a Dio per

spiegare le sue asserzioni. «Le supposizioni, le opinioni, le proposizioni di fede e confessionali

ipotetiche ecc. hanno perciò nella scienza della fede il medesimo status scientifico e non scientifico

che hanno in qualsiasi altra scienza»64.

Le proposizioni di fede normative, in quanto tali, non saranno quindi, formalmente, parte della

scienza della fede ma faranno parte dei suoi presupposti (a meno che non siano di carattere

argomentativo). E, viceversa, le proposizioni scientifiche relative alla fede non saranno,

formalmente, proposizioni di fede, in quanto il loro valore dipende esclusivamente dal fatto che si

possa o non si possa dimostrare che sono corrette interpretazioni della fides quae, fatte a partire

dalle oggettivazioni che la rappresentano (la Bibbia, le sue interpretazioni ecc.).

Una teologia che poi voglia essere veramente una scienza della fede e non solo ammantata di

scientificità, non potrà poi limitarsi a descrivere, articolare, sistematizzare ciò che di fatto è già

contenuto nella coscienza ecclesiale della fede, ma dovrà assolvere un compito critico nei riguardi

delle stesse testimonianze fondamentali della fede. Una teologia veramente scientifica dovrà perciò

avere non solo compiti descrittivi ma anche normativi.

Nel fare ciò, però, la teologia non agisce esternamente alla Chiesa ma come sua propria parte,

anzi, si può dire che il vero soggetto del teologare è la Chiesa stessa. Infatti, la teologia parte dalla

testimonianza di fede della comunità che la pone a contatto con la parola di Dio (senza però mai

scomparire65), per poi, eventualmente, retroagire sulle stesse testimonianze a partire da questa (la

parola di Dio) e lasciando, in ogni caso, alla comunità il compito di legittimare il lavoro teologico,

riconoscendolo come espressione della propria fede (tramite il Magistero).

Da quanto detto, risulta evidente che in caso di conflitto tra principi della ragione e principi

della fede (che in teoria non dovrebbero contraddirsi), il criterio ultimo di verità è costituito dalla

fede della Chiesa (norma prossima) e dalla parola di Dio (norma suprema ma remota, in quanto

giunge a noi mediata dalla Chiesa), o, se si vuole, dalla parola di Dio nella fede del popolo di Dio.

Ciò non significa togliere ogni valore ai criteri di ragione (la teologia non sarebbe più scienza

della fede), ma cercare di rimediare alla storicità della ragione (quindi a una ragione imperfetta) in

ma non soltanto. Essa avviene dall'inizio alla fine a motivo dell'oggetto (...) L'amore non ha altri interessi, così anche

tale amore verso questo oggetto» (Il coraggio di fare teologia, Genova 1992, 53-54). 63

SECKLER, M., Teologia Scienza Chiesa, cit., 50. 64

SECKLER, M., «La teologia come scienza della fede», cit., 243. 65

M. SECKLER parla a proposito del legame teologia - parola di Dio in termini di immediatezza mediata, nel senso

che alla teologia la parola di Dio giunge sempre attraverso la mediazione della comunità ecclesiale che, pur mettendoci

in contatto con la parola di Dio, non può mai scomparire dal nostro orizzonte conoscitivo e deve sempre essere pensata

assieme alla “cosa” mediata (Ibid., 250).

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modo consono alla scienza della fede, cioè mediante un abbandonarsi cosciente, della ragione, alla

fede. Cosa questa che può permettere l’aprirsi di spazi che prima sembravano impensabili66.

Naturalmente, anche optando per questa scelta non si può essere matematicamente sicuri che la

verità sia stata effettivamente raggiunta, in quanto è sempre possibile che venga fatta prevalere non

la parola di Dio ma una sua falsa concezione teologica.

La ragione è quindi storica e perciò incapace di fornire un criterio che permetta di riconoscere

con certezza la verità ma neanche la parola di Dio è in grado di farlo, in quanto è a disposizione

dell’uomo solo attraverso espressioni storiche e contingenti, e mai attraverso espressioni divine e

assolute. Non esiste quindi, a tuttora, un criterio di verità assoluto67.

Da quanto detto risulta infine implicito che la teologia nell’indirizzarsi verso il suo fine di

intelligenza della fede, non potrà costruire un edificio spirituale, un sistema interpretativo che sia

metatemporale e assoluto.

Nella concezione scolastica, la teologia era considerata una ricostruzione della scientia Dei, che

Dio ha manifestato con la rivelazione e, pertanto, in grado di elaborare una dottrina della fede che in

fondo fosse metatemporale68.

Oggi invece la teologia è cosciente che pur essendo strettamente legata e dipendente dalla

parola di Dio, è opera umana, è teologia umana non divina, ed è perciò consapevole che tutte le

espressioni relative a Dio non possono essere che tentativi di oggettivazione di ciò che possiamo

definire come “fides quae”69 della comunità ecclesiale e che portano tutto il peso della relatività

storica70.

Usando altri termini, si può anche dire che la teologia ha un compito ermeneutico in quanto,

partendo dai testi della tradizione ecclesiale – che, nel senso indicato sopra, possiamo dire che

rappresentano (senza però esaurire completamente) la “fides quae” –, cerca di ritrovare in questi

l’esperienza fondamentale d’una salvezza offerta da Dio in Cristo – cioè la “fides quae” data

66

Quanto detto non vuole sminuire l'autonomia delle scienze razionali, in quanto queste ultime hanno in sé la

capacità di rimediare alla storicità della ragione mediante analisi successive. 67

Cf. SECKLER, M., «La teologia come scienza della fede», cit., 246-247. 68

Come visto precedentemente, per Tommaso, conformemente al paradigma aristotelico, la teologia scientifica

partiva da dati certi, rivelati direttamente da Dio e risalenti agli apostoli (gli articoli del credo).

La metodologia neoscolastica poi, a differenza della proposta di Cano che è molto aperta alla teologia positiva e

allo studio storico delle fonti (allora nuovamente in auge), «inquadra i diversi “loci” in un ordinamento rigoroso, li

mette in relazione al magistero e li subordina ad esso. Ora la teologia procede dalla “norma proxima”, dalle asserzioni

autoritative del magistero; la Scrittura e la tradizione sono “normae remotae”, che servono a legittimare le affermazioni

magisteriali» (KASPER, W., «La prassi scientifica della teologia», in KERN, W. - POTTMEYER, H.J, - SECKLER, M., ed.,

op. cit., 296). Si noti come anche in questo caso l'assunzione del metodo “dogmatico” da parte della teologia,

corrisponda alla assiomatizzazione e metodizzazione del pensiero moderno. Cosa questa che indica come la teologia sia

fortemente legata al “paradigma culturale” del tempo. 69

Nel senso, cioè, di ciò che la comunità deve credere e non di ciò che effettivamente crede. Vedi a tal proposito la

nota 59.

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veramente in partenza e normativa di tutte quelle oggettivazioni della tradizione che solamente la

rappresentano – e cerca di riproporla in una nuova oggettivazione, in modo tale che la comunità

ecclesiale la riconosca come una rappresentazione della sua fede (fides quae) formulata in modo da

essere comunicabile all’uomo odierno come verità capace di alimentare una fede vissuta. Più

esattamente, quindi, il sapere della teologia andrebbe indicato come sapere ermeneutico oggettivo,

in quanto sempre legato, dipendente e “delimitato” da quella “fides quae” rappresentata nelle

oggettivazioni della tradizione ecclesiale.

Il risultato interpretativo sarà poi necessariamente storico in quanto risposta a una domanda, a

un’ipotesi interpretativa, che noi abbiamo posto a partire dalla nostra situazione storica e dalla

nostra attuale esperienza dell’esistenza umana71.

Inoltre, va poi sottolineato come questo compito ermeneutico sia contemporaneamente e

sempre anche compito critico in quanto non tutto quello che è stato trasmesso nei testi della

tradizione ecclesiale è semplicemente parola di Dio, e bisogna pertanto effettuare la non facile

separazione fra la “cosa” e il modo di comprendere e di dire che sono storicamente condizionati.

In definitiva si può quindi dire che «il lavorio per capire in maniera oggettiva e adeguata alla

situazione e per discernere criticamente non ha mai fine nella conoscenza teologica, e precisamente

a motivo della specificità della parola di Dio, che ci è data solo in oggettivazioni storiche mediali»72.

3.4 Teologia come scienza della fede: i “legami” della fede e della Chiesa

La teologia si presenta come una funzione della comunità credente che, per mezzo di essa, mira a

comprendere la propria fede, a giungere all’intelligenza della fede73.

Ciò, se da un lato mette in evidenza l’apertura di principio alla ragione e, quindi, al desiderio di

voler dare alla teologia una struttura scientifica non solo formale ma essenziale74, dall’altro dice che

la teologia ha una sua soggettività che si chiama fede e che è al contempo suo presupposto, oggetto

di ricerca e meta finale. Inoltre, essa è legata a una comunità credente che la considera come una

propria funzione e che, pertanto, vuole riconoscerla sempre come propria espressione.

La teologia appare, quindi, come una scienza “legata”, sia internamente (soggettività della

fede), sia esternamente (regolamentazioni da parte della comunità ecclesiale) da vincoli che

70

PESCH, O.H.,«La parola di Dio principio oggettivo della conoscenza teologica», cit., 38-39. 71

Cf. GEFFRE, C., «Nouvelle pratique scientifique et pratique de la theologie», in Pontificia Univ. S. Tommaso,

ed., Teologia e scienze nel mondo contemporaneo, Milano 1989, 15-22. 72

PESCH, O.H., .,«La parola di Dio principio oggettivo della conoscenza teologica», cit., 42. 73

Per quanto diremo in questo paragrafo vedi soprattutto: SECKLER, M., «La teologia come scienza della fede», in

op. cit., 247-265; ID., Teologia Scienza Chiesa, cit., 226-228; 260-267; ALSZEGHY, Z. - FLICK, M., Come si fa la

teologia, Cinisello Balsamo (MI) 19904, 30-52; KERN, W. - NIEMANN, F.J., op. cit., 29-34.

74 Tale cioè da dar spazio alla ragione come fonte di conoscenza e criterio di verità.

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sembrano estranei al concetto di scienza e di scientificità, ma che non possono essere tolti se non si

vuole farle perdere la sua identità e tutto il peso che le deriva dal fatto che influisce sulla comunità,

che le è fondamento, non dall’esterno ma dall’interno.

Infatti, se si vuole fare un discorso su Dio a partire dalla sua parola è necessario avere

quell’atteggiamento di apertura (fides qua) che permette di cogliere ciò che sarà l’oggetto della

riflessione teologica, la fides quae , cioè, appunto, ciò che la comunità credente percepisce come

auto-comunicazione di Dio all’uomo per la sua salvezza 75.

Ciò è indubbiamente vero da un punto di vista personale, in quanto dà la possibilità al teologo

di sperimentare ciò di cui vuole parlare. Ma quella a cui ci si riferisce quando si parla di soggettività

della fede, non è la soggettività del singolo, la sua illuminazione personale ed esistentiva che può

condurlo fino alla visione mistica, ma la soggettività superindividuale della comunità cristiana, la

fede cristiana. Questa è una soggettività che potremmo dire “oggettiva”, in quanto il singolo la

trova già esistente e ad essa deve aderire.

Una soggettività di questo tipo, che non è il soggettivismo del singolo, pone la teologia in

buona compagnia in quanto ogni scienza parte da una fede, da presupposti prescientifici evidenti o

occulti76 che rendono possibile la sua esistenza. La teologia si distingue da altre scienze in quanto

evidenzia chiaramente i suoi presupposti prescientifici, i quali poi, oltre tutto, divengono anche

oggetto del suo lavoro.

Da quanto detto emerge come la teologia non sia un’impresa privata. Il teologo non è un

filosofo della religione che , teoricamente e legittimamente, è responsabile solo nei confronti della

propria coscienza ma, articolando ciò che non è suo, ciò che riceve tramite la comunità ecclesiale77,

è pure responsabile verso quest’ultima che, nel suo lavoro, deve poter riconoscere l’espressione

della propria fede e ne diviene quindi la norma prossima78.

Pertanto, il legame con la Chiesa è, per la teologia, ineliminabile, se non si vuole eliminare la

teologia stessa facendola divenire una filosofia della religione.

Il fatto, poi, che la teologia, esplicitamente e chiaramente, riconosca l’esistenza di un legame,

che è intrinseco alla propria struttura, non implica necessariamente che la teologia sia qualcosa di

75

A tal proposito P. NEUNER mette in evidenza come «la fede va vista nella cornice della conoscenza ermeneutica.

Qui vale in linea generale il principio che bisogna entrare nel circolo ermeneutico per vedere quel che c'è da vedere (...)

Qui lo spettatore distaccato non può essere considerato l'ideale dell'oggettività, perché egli sta fuori dalla cornice entro

la quale soltanto è possibile la conoscenza ermeneutica» (ID., «La fede principio soggettivo della conoscenza

teologica», in KERN, W. - POTTMEYER, H.J, - SECKLER, M., ed., op. cit., 58). 76 P. es., comune a ogni scienza è l'atto di fede nella razionalità, nell'intelligibilità del mondo. 77

E' la Chiesa nel suo complesso che dà la testimonianza della fede, non solo il magistero gerarchico che, anche se

in caso di conflitto può autoritativamente decidere, è, nel testimoniare la fede, una parte della Chiesa e non tutta la

Chiesa. 78

Una affermazione di questo tipo non è in contraddizione con la legittimità del dissenso. Infatti, la testimonianza

di fede della Chiesa è si normativa, ma storica e sempre subordinata alla norma suprema che è la parola di Dio con la

quale pone in contatto.

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speciale nell’universo scientifico, in quanto è vera utopia il pensare l’esistenza di una scienza

“pura”, priva di legami e condizionamenti esterni manifesti od occulti79.

Il problema, pertanto, non è il vedere se la teologia sia “libera” dalla Chiesa, il che, come visto,

è impossibile poiché parte integrante della sua struttura, ma se la teologia è libera nella sua prassi

scientifica, cioè se è in grado di soddisfare alle esigenze oggettive che le provengono dal voler

essere una scienza di fatto e non solo di nome.

La Chiesa media la parola di Dio (oggetto della riflessione teologica) e giudica i risultati del

lavoro teso ad articolare la sua fede ma, nell’attuare tale lavoro, una teologia che voglia dirsi

scientifica dovrà essere libera di seguire una prassi che sia appropriata a tale nome.

3.5 Considerazioni finali: teologia come scienza delle fede e scienze

Alla pari delle scienze empiriche che scoprono ogni giorno sempre di più la complessità e

l’inafferrabilità del loro oggetto, anche la teologia si trova – ma da sempre – di fronte a un oggetto

che non è direttamente percepibile e che, pur essendo fondamento e condizione a priori di ogni

esperienza, trascende ogni singola esperienza e rimane mistero. Un oggetto particolare, senza il cui

intervento non solo non si può parlare e affermare qualcosa, ma neppure interrogarsi su di lui.

Infatti «la questione si mette in cammino mentre il mio pensiero – e quindi io stesso – sono messo

in questione da parte dell’investigato. Dio chiede: “Dove sei, Adamo?”. La mia investigazione su

Dio è la risposta esistenziale proprio di chi è stato messo in questione. La realtà di Dio, l’oggetto,

mette in moto tutto il pensiero, le domande e il parlare. Il motivo, il motore della teologia è Dio,

non l’uomo. La risposta sufficiente alle mie domande esistenziali ed intellettuali è la realtà di Dio,

che vuole farsi presente nella parola»80. Ed è grazie a questa parola, a questa auto-comunicazione

divina, che la teologia può cercare di conoscere e di parlare del suo oggetto. Poiché se è vero che di

fronte al mistero di Dio il tacere è l’unica risposta adeguata, è vero anche che «all’amore appartiene

anche che io mi informi sulla persona amata. Investigare-imparare diventa così la capacità

dell’amore verso l’oggetto. Con grande amore verso l’oggetto (...) posso senz’altro diventare

eloquente, anche se si tratta solo di un balbettare»81.

La teologia, intesa come scienza della fede, è oggi però perfettamente cosciente di non essere

più la “regina” delle scienze, che trasmette agli uomini il pensiero stesso di Dio, ma di poter solo

79

Feyerabend nota a tal proposito che «una scienza indipendente ha smesso di esistere già da molto tempo ed è

stata sostituita dal business scienza, che è alimentato dal denaro dei contribuenti e che rafforza le tendenze totalitarie

della società sotto la copertura di un liberalismo di facciata» (FEYERABEND, P.K., «La democratizzazione della

scienza», in BRIANESE, G., ed., “Congetture e confutazione” di Popper e il dibattito epistemologico post-popperiano,

Torino 1988, 177). 80

JÄGER, A., op. cit., 53.

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offrire nuove oggettivazioni di ciò che la comunità credente in tutto il corso della sua lunghissima

storia (non la soggettività del singolo) – nel suo investigare seguito al sentirsi messa

esistenzialmente in questione da Dio (fides qua) – ha percepito e percepisce come parola salvifica di

Dio (fides qaue), al fine di giungere a una intelligenza della fede che possa essere comunicata

all’uomo odierno come verità capace di alimentare una fede vissuta, cioè come verità capace di

mettere in contatto con l’autocomunicazione salvifica di Dio.

Praticamente questo compito viene svolto tramite un procedimento emeneutico che partendo

dalla nostra attuale esperienza del mondo cerca di ritrovare, nei testi della tradizione ecclesiale che

oggettivizzano la fides quae, l’esperienza fondamentale della salvezza offerta da Dio in Cristo – il

procedimento deve essere quindi necessariamente anche critico, visto che la storia ci tramanda la

parola di Dio tramite la parola umana storicamente condizionata – al fine di stabilire un legame tra

l’esperienza cristiana fondamentale e la nostra esperienza attuale. Tale lavoro teologico, in quanto

risposta a una nostra domanda, nata all’interno del nostro paradigma culturale, cioè nella nostra

situazione sociale, economica, politica e culturale, sarà evidentemente storico, quindi parziale e

provvisorio.

Si può pertanto dire che «al pari dello scienziato, il teologo lavora partendo da ipotesi, da

tentativi, da sistemi interpretativi. E nella sua incessante ricerca di una verità verso cui tende ma che

mai possiede, procede eliminando e rigettando le congetture non fondate»82.

Certamente le affermazioni teologiche non possono sottostare al criterio di verificabilità

(falsificabilità) alla pari delle teorie empiriche, visto che le affermazioni centrali della fede sono per

definizione indimostrabili o infalsificabili (almeno in “questo mondo”). Ma non per questo non si

possono, a partire dai “dati” della Scrittura e della tradizione ecclesiale, avanzare nei loro confronti

argomentazioni razionali che siano pro o contro e che possono portare al rifiuto di un’ipotesi

interpretativa.

La situazione è in fondo simile a quanto avviene per la teoria della evoluzione biologica che,

non avendo capacità predittive, non può essere sottoposta a verifica e, pertanto, nei suoi confronti si

possono solo portare argomenti pro o contro a partire dai fatti conosciuti. Per tale motivo Popper

non la considera scientifica, cioè empirica.

Guardando all’interno delle scienze umane si potrebbe dire che il suo sforzo è paragonabile allo

sforzo che facciamo per comprendere la personalità altrui che, essendoci fondamentalmente

inaccessibile, per quanto diciamo di conoscere non potremo mai prevedere esattamente nelle sue

81

Ibid., 53. 82

GEFFRE, C., op. cit., 22: «Tout comme le scientifique, le théologien travaille donc à partir d'hypothèses, d'essais,

de systèmes d'interprétation. Et dans sa quête incessante d'une vérité visée et jamais possédée, il procède par

élimination et reject de conjectures non fondées».

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reazioni. Potremo avere motivazioni per abbracciare un’ipotesi interpretativa piuttosto che un’altra

ma, essendo la nostra conoscenza sempre parziale, nessuna di queste motivazioni ci potrà

assolutamente garantire che le cose andranno effettivamente così83.

Anche la teologia è quindi impegnata in una ricerca, senza fine, di una realtà che rimane

sempre mistero, ma si mostra capace, non di meno, di formulare delle ipotesi, dei “modelli”

interpretativi che, pur non esprimendo l’Ineffabile, dicono però sempre quelle parole che sono

necessarie per indirizzare nella direzione che permette di cogliere, al loro svanire, la realtà

indecifrabile84 .

83

Cf. POLKINGHORNE, J., Scienza e fede, Milano 1987, 58-60. 84

P. RICOEUR, secondo cui i modelli teorici scientifici corrispondono a ciò che nel linguaggio poetico è la

metafora, nota invece che, nella teologia, quest'ultima si differenzia dall'analogia (a. entis). Infatti «il concetto di

analogia viene ad assumere una funzione trascendentale; contemporaneamente non ritorna più alla poesia ma mantiene

nei suoi confronti lo scarto di partenza, quello prodotto dalla domanda: che cos'è l'essere?» (ID., La metafora viva,

Milano 1981, 355). A tal proposito si legge anche: «l'una (l'analogia) si basa sulla predicazione di termini

trascendentali, l'altra (la metafora) sulla predicazione di significati che portano con sé il loro contenuto materiale»

(Ibid., 372).

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