La mia città è differente

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Quaderno n. 1/2015 La mia città è differente (analisi della città ideale nelle condizioni attuali) Luciano Nicastro Maestro Chiarissimo d’Impolitika

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Quaderno n. 1/2015

La mia città è differente

(analisi della città ideale nelle condizioni attuali)

Luciano Nicastro

Maestro Chiarissimo d’Impolitika

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- INDICE -

PREMESSA..............................................................................................3

BIO-BIBLIOGRAFIA DI LUCIANO NICASTRO ................................5

DI FRONTE ALLE SFIDE DELLA CITTÀ MULTIETNICA: QUALI

POLITICHE SOCIALI? ...........................................................................7

UNA NOVITÀ “COMPLESSA” .............................................................8

LE SFIDE DELLA CITTÀ-VILLAGGIO DEI DIVERSI ......................9

POLITICHE SOCIALI: APPROCCIO RELAZIONALE ..................... 11

L’INTEGRAZIONE TRANSCULTURALE......................................... 14

PER UNA SOCIOLOGIA DELL’AUTO-INTEGRAZIONE

“CITTADINA”, RECIPROCA E SOSTENIBILE.................................17

LA CITTÀ DELLA PROPRIETÀ UMANA......................................... 23

GLI EDUCATORI DI STRADA NELLA CITTÀ VISIBILE E IN

QUELLA INVISIBILE .......................................................................... 27

L’UTOPIA RIFONDATIVA DEL CITTADINO “FRATERNO”........ 31

IL POSTULATO POLITICO E MORALE DELLA QUESTIONE

GIOVANILE .......................................................................................... 35

PIANTO ANTICO ANCORA! .............................................................. 38

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PREMESSA

Il Prof. Luciano Nicastro, già docente di Sociologia delle Migrazioni e di Sociologia

dell’Educazione alla Università LUMSA – Roma (sede di Caltanissetta), autore di 3 libri a riguardo:

“Fratello Immigrato” (EdiArgo Ragusa) ,“Dentro la nuova società multiculturale” (Ed. Sion),

“Mustafà va in prigione” (Ed. Genius Loci) e di molti articoli su quotidiani on line nazionali e

locali, ha proposto in termini di ricercazione il tema: “La mia città è differente!” - linee di una

sociologia dell’autointegrazione; già docente di Filos.della Religione, di Domande Filos.Contemp. e

di filos.d.politica alla Facoltà Teologica di SICILIA a Palermo, autore di diverse ricerche a

riguardo: ”L’antropoanalisi di Piero Balestro”(Rubettino),”Profezia e politica in E.Mounier”(Il

Pozzo di Giacobbe),”Misterium Hominis – fenomen.trascendentale del desiderio umano”(Baglieri

editrice).

Le sfide della città multiculturale sono innanzitutto socio-culturali, religiose e politiche e

riguardano il tema dello spaesamento dei ragusani. Essi si percepiscono “invasi” e insicuri;

preferiscono una presenza “breve” e provvisoria degli immigrati perché li percepiscono come causa

del degrado progressivo della loro vita cittadina e una minaccia alle loro tradizioni religiose e

culturali. Su queste convinzioni agisce non solo l’individualismo, ma anche il leghismo “implicito”,

simbolico e mediatico, come nuova malattia mortale dell’accoglienza e dell’integrazione

assimilazionista dell’immigrato che è percepito istintivamente e acriticamente come straniero

“nemico”, come “fiore del male” anche se è cittadino “italiano” virtuoso e legale, regolarmente

soggiornante.

La soglia di tolleranza “indifferente” viene considerata un esempio di civiltà anche se produce

in realtà un abitare “insieme” di tipo ghettizzante, confuso, conflittuale e falsamente identitario che

lascia spazio solo all’adattamento “assimilativo”. Il quartiere della città viene concepito come un

muro di confine o come l’avamposto di una guerra di trincea, non ancora come un seme di rinascita

della città della democrazia spirituale e solidale, tanto auspicata dall’indimenticabile Giorgio La

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Pira, profeta dell’integrazione fraterna dei cittadini del Mondo globale. La “religione e la stessa

ragione” sono in verità portatrici di una silenziosa rivoluzione culturale e sociale non violenta che

può coinvolgere in senso “bilaterale” sia i ragusani, nativi del borgo antico, che i nuovi ragusani,

provenienti dal mondo globale.

L’accoglienza e l’integrazione di fronte a un fenomeno così forte e solido poiché è destinata a

durare e a crescere, non può avere solo lo spazio e il cuore di una breve apertura “sentimentale” né

può ridursi alla tolleranza di occasione, ma deve assumere la misura di un progetto educativo, di

lunga durata, per l’impianto di nuove relazioni sociali più attive, promozionali e coinvolgenti oltre

le semplici questioni di igiene sociale e di ordine pubblico, che è facile affrontare e risolvere a

livello istituzionale. Per questo le politiche sociali non possono mirare solo a soddisfare

burocraticamente l’individualità dei bisogni primari, ma devono riguardare e privilegiare le famiglie

immigrate e ragusane nella loro relazionalità culturale ed educativa ed in particolare ci si deve

prendere cura dei loro ragazzi, dei loro giovani e delle loro donne in una logica di solidarietà, di

responsabilità e di mutua partecipazione dei gruppi etnici e sociali al miglioramento della qualità

della vita nella città di Ragusa.

L’accoglienza e l’integrazione devono diventare quindi luoghi educativi permanenti e

strutturati di socializzazione come promozione sociale “reciproca” delle virtù cittadine fatte di

legalità e di fraternità. Se i fratelli si ritrovano, dialogano e collaborano, fanno più bella, più vivibile

e ricca la città “comune”. La buona accoglienza e la costruttiva integrazione hanno bisogno di

maggiore attivismo e di maggiori relazioni di buon vicinato, di apertura spirituale delle persone e

della loro mente monoculturale a diventare “multiculturale”, associativa e democratica

“municipale”.

Per questo ci vuole più dialogo di “religione” e più politica “relazionale” nei programmi

pastorali e sociali verso i nuovi arrivati (anche dei clandestini!) con particolare riguardo ai figli

degli immigrati di 2ª generazione.

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BIO-BIBLIOGRAFIA DI LUCIANO NICASTRO

Luciano Nicastro è nato a Ragusa nel 1942, laureato in Filosofia alla Cattolica di Milano e in

Sociologia all’Università degli Studi di Urbino, è stato per molti anni professore di filosofia e storia

al Liceo Scientifico “E. Fermi” di Ragusa.

Filosofo e sociologo di orientamento “mounieriano” , si è formato alla scuola metafisica di

Gustavo Bontadini, Sofia Vanni Rovighi e Virgilio Melchiorre.

Ha approfondito la sociologia della Scuola e dell’educazione con Marcello Dei e Luciano

Benadusi come via per un nuovo personalismo comunitario e per un moderno riformismo

“metodologico”.

Docente di antropologia filosofica presso l’Istituto Teologico Ibleo di Ragusa e docente

di Sociologia delle Migrazioni e di Sociologia dell’educazione alla LUMSA di Caltanissetta.

Già Consigliere Nazionale delle Acli e socio militante del MEIC (movimento ecclesiale di

impegno culturale).

Fa parte dell’Associazione “Antichi Studenti dell’Augustinianum” (Collegio Universitario

della “Cattolica” di Milano).

Ha pubblicato un libro di filosofia contemporanea su “La rivoluzione di Mounier” (Thomson,

Ragusa 1974), un libro di sociologia dell’educazione politica “La politica, una passione inutile?”

(Itaca, Ragusa 2001), un libro di psico-pedagogia contemporanea su “L’antropoanalisi di Piero

Balestro” (Rubbettino 2004), un saggio di antropologia filosofica e cristiana “Quo vadis? - una

moderna lettera a Diogneto” (Conferenza Episcopale Siciliana – CMBP, Palermo 2003, pp. 74-

159), una ricerca su “Fede e laicità: tra fondamentalismo e insignificanza” (MEIC, Ragusa 2004),

un libro di sociologia del lavoro “La vera nuova frontiera: Scuola, Lavoro, Welfare” (Erripa –

Centro Studi “Achille Grandi”, Palermo 2004), un saggio di sociologia dell’educazione “Nascita

della tecnogioventù” (Mimì Arezzo editore, Ragusa 2004), un saggio di sociologia politica “Il

sentiero di Mounier” (Mimì Arezzo editore, Ragusa 2005), uno studio su E. Mounier, “Filosofo

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della rivoluzione permanente ed educatore civile”, in AA.VV. su “Persona e umanesimo

relazionale – Atti del Convegno Internazionale di Roma 12-14 gennaio 2005, LAS Roma 2005, vol.

II, pp. 269-290, un saggio di filosofia politica “Il sentiero di G. La Pira”, MEIC Caltanissetta 2005,

un libro di filosofia e di sociologia politica “Il socialismo ‘bianco’ - la via di Mounier”, Rubbettino,

Soveria Mannelli 2005, un libro di sociologia delle migrazioni “Fratello immigrato – verso una

sociologia della integrazione” edi-Argo 2006, un libro di sociologia dell’educazione politica

“Nuova laicità e cittadinanza spirituale, Ed. SION, Ragusa 2006, un libro di sociologia politica

“Oltre il liberalismo – il sentiero di Mounier”, EdiArgo 2006, un libro di sociologia dei processi

culturali: “Le leve dello sviluppo”, Erripa, Palermo 2006, un libro di sociologia delle migrazioni

“Dentro la nuova società multiculturale” Ed. SION, Ragusa 2007, una ricerca sulla socializzazione

carceraria dell’immigrato: “Mustafà va in prigione” ed. Genius Loci, Ragusa 2007, un saggio di

sociologia del volontariato: “Spiritualità e solidarietà nel post moderno, in AA.VV. “ Un Vescovo

per il nostro tempo” – Scritti in ricordo di Mons. Cataldo Naro (a cura di Vincenzo Sorce) Ed.

Solidarietà, Caltanissetta 2007, pp. 31-52, un saggio storico su: “Filippo Pennavaria e Ragusa”

(prima e durante il fascismo), Ediz. La Biblioteca di Babele, Modica 2008, un saggio di socio-

storia: “Lezioni di storia politica locale” Ediz. La Biblioteca di Babele, Modica 2008, una ricerca di

sociologia dell’educazione politica “Verso Quale” - scritti pubblicati in “ il mio libro.it “, Roma

2008, un saggio di filosofia politica “E. Mounier pensatore e profeta di un nuovo socialismo” - in

ATTI del Convegno Nazionale di studio sul pensiero politico di E.Mounier, Ragusa 2008, oltre a

numerosi articoli, pubblicati su diversi giornali fra cui “Affari Italiani” – quotidiano on line di

Milano e “PETRUS” – quotidiano on line della Città del Vaticano.

Informazioni più dettagliate sulle nuove ricerche e sulle pubblicazioni più recenti si possono

trovare sul sito: www.lucianonicastro.it.

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DI FRONTE ALLE SFIDE DELLA CITTÀ MULTIETNICA: QUALI

POLITICHE SOCIALI?

di Luciano Nicastro

“Se è possibile un altro mondo

è possibile anche un’altra città

ed un altro quartiere…”

Don Roberto Sardelli

“Rinegoziare sempre le relazioni,

rinegoziare lo statuto

del particolare e dell’universale…”

Etienne Balibar

“Bene comune:i beni di tutti”.

(da “Dialoghi” n. 4/2008)

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UNA NOVITÀ “COMPLESSA”

L’incontro di stasera non è accademico in senso corrente ma è culturale in senso “alto”. Si

svolge senza paracadute e ipocrisie diplomatiche.

Ciò che nuoce infatti ad una vera politica di accoglienza e di integrazione è il fariseismo dei

benpensanti, il sentirsi e apparire “buonisti” ed essere oggettivamente razzisti, l’assolvere e

giustificare se stessi condannando gli altri a portare pesi e obblighi capestro, costruendo attorno a

loro un muro che è un cordone sanitario di divieti e di discriminazioni. In realtà l’attuale società

civile va resa più buona, accogliente e capace di accettare l’integrazione degli altri.

E’ arrivato il momento di scrivere nuove regole “comuni” di convivenza e non solo quelle

destinate agli altri, considerati inferiori perché noi siamo superiori e migliori per principio sia in

cultura e in società che in religione. C’è un insopportabile nuovo “razzismo etico” che ammanta di

superiorità il proprio codice delle buon maniere e c’è un razzismo “violento e bullo” che domina

nelle relazioni sotterranee del ventre di una città o di un quartiere. Entrambi sono spiritualmente e

culturalmente letali. In atto però non ci sono solo spine ma anche rose perché pullulano come fiori

del bene esercizi di integrazione e prove di civiltà costruita dal basso. L’effetto Obama è più

salutare sul piano culturale che politico. Rappresenta l’infondatezza del razzismo antico. Il razzismo

nuovo e strisciante è più pericoloso non solo per i fatti criminosi che può produrre ma soprattutto

perché aumenta l’insicurezza e la paura nelle città, minaccia le buone relazioni sociali e disgrega i

processi di buona integrazione nei quartieri delle città. C’è quindi un razzismo “visibile” e c’è un

razzismo “invisibile” ma più pernicioso ed è quello dei benpensanti (antisemitismo). Il razzismo

“storico” è stato il male assoluto. Il razzismo “strisciante” di oggi è “il male relativo” perché si

mimetizza di buone intenzioni di legittima difesa contro lo straniero che è nemico perché è diverso

e spegne lo spirito di accoglienza perché ritiene utopistica la fratellanza e improbabile

l’integrazione contro ogni progetto umano e cristiano.

Rispettare i diritti umani (scritti e non scritti), far emergere l’umanità di ogni uomo nelle

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strade e nei quartieri, negli ambienti di vita e di lavoro, significa vivere con uno stile di squisita

solidarietà e di amicizia cristiana oltre le barriere della violenza verbale e dell’indifferenza

borghese. La vita autentica per tutti non può che essere accoglienza, relazione, aiuto e sorriso, gioia

di uscire fra amici potenziali e non tra amici virtuali.

Secondo Martin Buber “ogni vita reale è incontro”. Noi cerchiamo la luce umana e divina che

abita nel nostro intimo e nel cuore dell’altro, una correlazione dialogica strutturale tra l’io e il tu.

Don Lorenzo Milani precisava: “Chiamo uomo chi è padrone della sua parola”. Bisogna

trasformare le chiacchere sincopate di una difficile interculturalità in una ricca relazione dialogica,

feconda di collaborazione. Bisogna entrare, indigeni e immigrati, nello spazio interculturale di una

lingua vissuta che è mediana ed essenziale in luoghi di socializzazione civica.

LE SFIDE DELLA CITTÀ -VILLAGGIO DEI DIVERSI

La città è diventata “il villaggio dei diversi”. A riguardo valgano le analisi di Gualtiero

Harrison e Matilde Callari Galli, antropologi culturali, autori di “Né leggere, né scrivere”

(Feltrinelli 1971) sulla Palermo del dopoguerra chiamata “Brigaria” dove lo straniero è l’individuo

istruito mentre la condizione sociale dominante è quella della cultura “analfabeta”, che dà vita

all’altra scuola e ad altri valori, non espressi né dalla Scuola e dalla Società borghese, né dal lavoro

“legale”. La città interetnica di oggi è simile alla Palermo di allora, è un giacimento ambivalente di

classismo e razzismo e di una possibile ricchezza futura sia materiale che spirituale che non è facile

né è a portata di cuore e di mente enucleare, far emergere e valorizzare nelle sue virtualità

espressive e creative.

Come sostiene Giuseppe Limone (cfr. “La persona come nuovo alfabeto di senso…” 2005)

per capire una tale città bisogna cogliere le caratteristiche interiori della sua specifica virtualità. Ci

vorrà un convergente approccio interdisciplinare di antropologia filosofica e sociologica e di

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urbanistica, un’architettura complessiva di spazi e di tempi fisici e antropologici che mettano in

circolazione i vissuti in un rapporto faccia a faccia non tenebroso. E’ necessario riferirsi al concetto

di persona nel suo significato complesso che allude a tre livelli, a tre mondi, come diceva Karl

Popper: la realtà oggettiva o cosa, il mentale come livello del pensiero di ciò che sento e percepisco

e infine il modello mentale complesso che è il mondo dell’esperienza. Questo mondo a tre è dentro

ciascuno di noi. L’idea di persona rinvia all’esistenza di quell’ente empirico che è l’uomo individuo

riguardato nella sua distinzione e difficile relazionalità.

Analogamente avviene se ci riferiamo alla “idea di città”, come organizzazione di spazi e di

vissuti (c’è un vissuto degli spazi, come c’è un vissuto dei tempi). Dobbiamo però imparare a saper

leggere nel bisogno la domanda inespressa di chi abita e convive. Si tratta di capire ciò che è

visibile e ciò che è sotterraneo ed archeologico e ancora che cosa vive sotto quel bisogno. In una

città di “vissuti diversi”, di nativi e di migranti dobbiamo sapere vedere in profondità, intuire (intus

legere!), intelligere, saper capire i bisogni e la connessa domanda che giace nel ventre della città,

nei mercati, nei bar e nelle strade di sera. Come il bambino che, chiedendo una macchina grande e

vistosa, esprime semplicemente in verità non tanto un bisogno di avere quanto una domanda di

amore. E’ opportuno riferirsi alla “metafora” dello specchio e leggere nel “nomadismo” la nostra

preistoria, il nostro volto di barbaro. A ben guardare essa è etimologicamente colui che balbetta la

nostra lingua in quanto non la conosce bene e in questo modo balbetta anche i nostri valori. E’

quello che accadeva agli immigrati italiani di una volta e ora ai nuovi immigrati.

Nella modernità l’idea di persona viene prevalentemente sostituita dall’idea di individuo e la

città-stato della polis dallo stato leviatanico degli individui di cui parlava T. Hobbes. Oggi preme e

si afferma nel dibattito sull’accoglienza e sulla integrazione in fondo il bisogno di una civiltà

interetnica. La società multiculturale “mi fa essere l’altro degli altri così come essi sono l’altro di

me”, cioè siamo costituiti di fatto come rete di relazioni più o meno utilitaristiche e istintive e

raramente consapevolmente generose. La strada, il quartiere, il bar sono i luoghi e la maniera

mediante cui posso entrare in relazione con gli altri e con me stesso. La persona umana infatti non è

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un mosaico di parti, composizione di elementi ma un unicum a cui partecipano le varie parti. Non è

una copia, è un originale. Non è un atomo del sociale e della folla solitaria. Non è l’individuo,

traduzione latina dell’atomo, ma un’anima dentro un corpo in un mondo di persone.

L’integrazione così parte dall’accoglienza degli individui ma perviene se è buona alla

relazione della loro dimensione essenziale e sociale: l’integrazione nei valori comuni, nei diritti e

nei doveri. Approfondendo la “singolarità” dell’individuo si riscopre il suo connotato radicale

comune: l’immagine e somiglianza del volto dell’uomo con il vero volto di Dio che è Gesù,

crocifisso e Risorto.

POLITICHE SOCIALI: APPROCCIO RELAZIONALE

Seguo l’ermeneutica sociologica di Pier Paolo Donati (cfr. “Teoria relazionale della società”

del 1991 e “Politiche familiari e politiche sociali” del 2005) che ha teorizzato come modello di

analisi, di ricerca-azione e di intervento performativo l’approccio relazionale sia alla conoscenza

sociologica che alle politiche sociali. L’unità concreta che si assume per leggere il sociale è “la

relazione sociale” come effetto emergente di azioni interdipendenti e connesse strutturalmente.

Altro è il modello di chi assume “la società degli individui” e sceglie come unità di analisi e

di azione l’individuo estrapolandolo dal suo contesto. Altro è il modello di chi assume “la società

nel suo complesso” come totalità tipico del “welfare statalista” dove si perdono di vista i soggetti (le

persone umane: intelligenti e libere) e le loro dinamiche e i loro bisogni sociali. Non basta definire e

attivare interventi sui singoli individui se li si considera avulsi dalle proprie relazioni familiari e

sociali in cui sono inseriti.

Le politiche sociali in una prospettiva relazionale non riducono le famiglie o i cittadini solo a

utenti passivi dei servizi e fruitori di bonus ma a interlocutori attivi e propositivi di bene comune e

di solidarietà sociale. Bisogna riconciliare la società degli individui alla società delle famiglie e dei

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quartieri territoriali. Il vero benessere non è solo privato, privilegiato e quasi esclusivo, una qualità

“individuale”, ma è “un bene comune relazionale”, un prodotto “relazionale”, costruito

socialmente, culturalmente ed economicamente, da condividere, incrementare e socializzare.

Scaturisce dalle buone relazioni di vita sociale e dalla capacità spirituale delle persone di saper

accogliere e servire il superiore bene comune. Costruire una città a misura d’uomo significa

ritessere nella città le strade del cuore. Per fare questo ci vuole il principio di sussidiarietà che non

riguarda solo i rapporti “istituzionali”. Non va inteso solo in senso “verticale”- burocratico ma

anche in senso “orizzontale” e sociale come promozione della reciprocità sociale e della solidarietà

militante, come sviluppo delle reti “sociali” e come lievito dell’empowerment di tipo comunitario.

In questo senso i “servizi sociali” devono trasformarsi da bonus a domanda individuale in “servizi

relazionali” strutturati sia alla persona che alla sua famiglia e all’associazione di quartiere etnica e

interetnica, un intervento di rete nel territorio per progetti finalizzati di tipo integrativo. Chi si ferma

da noi ha più bisogno di chi è venuto solo per un lavoro a tempo. Il rifugiato è una domanda di

servizi e una possibilità di donazione.

Bisogna sgombrare il campo dalla egemonia culturale del modello “assimilazionista” (lo

spirito francese) come via principale alla vera e piena integrazione perché si fonda sul presupposto

della superiorità della civiltà occidentale, sul “pregiudizio” del vecchio etnocentrismo di marca

evoluzionista e positivista secondo cui “la vera comunità legittima è solo quella nazionale” mentre

le altre “identità” sono valide se si lasciano assimilare, se sono accettabili e discriminate se sono

inaccettabili. Viene altresì giudicato negativamente “il modello del multiculturalismo

anglosassone”, come ideologia dei ghetti e fonte non ultima della ribellione “identitaria” delle

banlieues. La superiorità del modello di integrazione repubblicano francese poggia quindi su una

vecchia concezione della cittadinanza come diritto civile e politico dell’individuo “cittadino”

spogliato da ogni particolarità “relazionale”. Il presunto valore di superiorità oggettiva

dell’individuo sulla comunità è in verità “la maschera del dominio dei valori borghesi ”.

Non si tratta di rifiutare ogni principio universale, ma solo l’astrattezza presupposta in ogni

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universalismo non fondato. Intanto la città è stata “occupata” culturalmente dai “fantasmi delle

ideologie” ed è precipitata in una epidemia influenzale i cui focolai sono il virus dello straniero –

potenziale criminale e forse terrorista - rappresentato come il male assoluto, causa di tutte le

devianze e patologie sociali. La città vive “sotto assedio” e non può non difendersi dal nemico

interno e da quello esterno. E’ compito dei democratici liberare la cultura della città da queste

rappresentazioni e da questi stereotipi e risanarne e bonificarne il tessuto delle relazioni sociali e la

politica dello stesso “abitare insieme”. I processi di accoglienza, di conoscenza e di integrazione

devono privilegiare la dignità universale di persona umana di questi “piccoli fratelli stranieri”,

valorizzandone non solo il folclore ma i vissuti, le loro biografie nei contesti locali e nazionali,

purificando la nostra memoria, la nostra coscienza democratica e la nostra riflessività spirituale,

come in uno specchio “trasparente”.

Lo spazio cittadino può essere, proprio nel centro storico, un villaggio di diversi da custodire e

valorizzare, ripulire e coltivare insieme come microcosmo di amicizie umane e fraterne di un

mondo multiculturale vicino. Oggi è invece abbandonato a se stesso, una zona grigia e buia, “una

nicchia senza storia e senza umanità”, il luogo della tolleranza indifferente, potenzialmente

conflittuale.

Aveva intuito bene le virtualità del modello “italiano” di integrazione borghigiana il sociologo

italiano Giuseppe De Rita. E’ nella città che bisogna impiantare i luoghi dell’accoglienza, della

convivenza, della solidarietà, della legalità condivisa, la rete della socialità e della qualità civile

dignitosa con servizi igienici e di ordine pubblico.

Secondo Anna Maria Rivera “non si può negare che posizioni radicalmente relativiste

corrono il rischio di vedere differenze ove vi sono ineguaglianze sociali o addirittura di produrre

ineguaglianze sociali attribuendo “differenze”. (cfr. Per una postura relativista… in “Tutto è

relativo”. La prospettiva in antropologia, Seid, Firenze 2008, pp. 19-34). E’ il vizio antico di

concepire sia nel neoconservatorismo che nel relativismo “radicale” la cultura e l’identità sociale

come un fatto statico e deterministico, un identitario immobile e definitivo, uno spettro da cui

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tenersi lontani. Noi non offriamo solo un lavoro e basta, ma accogliamo le persone in una città, in

un borgo, in un quartiere.

Questi due errori dei modelli francese e anglosassone convergono nel dogmatismo neo-

conservatore e generano lo scontro di civiltà e di religione, impediscono di costruire uno spazio

comune e condiviso di legalità e di nuova civiltà solidale nelle città e nel Paese con il fisiologico e

storico meticciamento. In questo senso il leghismo è”la nuova malattia mortale” dell’integrazione

borghigiana italiana con i suoi subdoli messaggi simbolici delle ronde, del Sindaco sceriffo, della

difesa della tradizione religiosa e della guerra giusta e della provocazione agli islamici in nome di

un cristianesimo risciacquato nelle acque del dio Po perché se ne vadano dall’Italia anche con un

bonus per il viaggio di ritorno.

L’INTEGRAZIONE TRANSCULTURALE

Nella società “post tradizionale” caratterizzata dalla “modernità riflessiva” gli attori sociali

non possono che essere cittadini maturi, cioè disposti ad incontrare, ad accogliere e valorizzare le

culture diverse nei valori umani come risorse di investimento relazionale. Anche gli indigeni si

devono non solo adattare ma relazionare. Ha scritto Arturo Parisi che “sono le parole, che con

troppa leggerezza abbiamo lanciato verso il cielo, a ricadere come macigni pesanti sulle nostre teste

(Dicembre 2008). Abbiamo spesso parlato con enfasi retorica di “accoglienza, integrazione e

interculturalità”. La realtà di ogni giorno ci ha smentito.

Seguendo Pierre Bourdieu bisognerebbe cominciare a parlarne innanzitutto sociologicamente

e non solo “statisticamente”. “Pensare sociologicamente” è la prospettiva suggerita in Italia da

Laura Balbo con riferimento particolare alla politica “sociale”. Ci si deve guardare da letture

semplicistiche e semplificate. La politica in questo senso è bene ripensarla non solo in politichese

ma sociologicamente individuando la dimensione, lo spazio e i soggetti dell’accoglienza e i fattori

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della vera integrazione di durata. Assumiamo l’attuale contesto storico e sociale e i processi della

nostra vita quotidiana nella città e nei quartieri del centro storico. Essere immigrati non vuol dire

essere “privi di valori”, incivili, selvaggi, ma solo diversi e momentaneamente bisognosi. Non

significa vivere senza regole ma entrare con consapevolezza nella legalità dell’abitare insieme una

medesima città. Non significa eliminare il rischio e l’incertezza delle relazioni ma aiuta a vincere la

paura della separatezza e della microcriminalità. Una città normale è un punto di partenza ma

soprattutto di arrivo di un percorso di normalità attraverso i nervi sensibili dei minori, delle

famiglie, delle abitazioni e della rete di sostegno e di accompagnamento che portano ad aiutare e ad

integrare un’accoglienza umana e programmata. “Cittadino di Ragusa” deve diventare facile,

agevole, possibile e leggero. Stiamo invece costruendo “la devianza sociale di massa degli

immigrati adolescenti nei quartieri delle città e nelle periferie urbane”. Come è noto il fallimento

della integrazione sociale e civile spinge soprattutto gli adolescenti verso il teppismo delle

banlieues. In uno studio di Luigi Anolli (“La mente multiculturale”, Laterza edit. 2006) si precisa

che una volta gli esseri umani avevano una mente ad una sola dimensione: una mente

monoculturale. Il loro mondo iniziava e finiva nei loro confini nativi. Oggi il mondo è cambiato. I

flussi migratori da Sud a Nord, da Est a Ovest, hanno assunto dimensioni gigantesche difficilmente

controllabili. E’ diventato una necessità passare dal monoculturalismo al multiculturalismo e dal

multiculturalismo alla integrazione “transculturale” o integrazione “analogica” (L. Nicastro). La

mente multiculturale non è un pio desiderio ma una necessità per vivere e per costruire una nuova

civiltà. Iohn Rawls, basandosi sulla teoria della giustizia come equità (1976), propone l’alternativa

del liberalismo politico come via intermedia per capire e governare una società pluralista anche

sotto il profilo culturale attraverso il meticciamento dell’intercultura o la multiculturalità del

“consenso per intersezione” (J. Rawls). (Es. il consenso “costituzionale”). Per J. Habermas è

fondamentale “quello procedurale”. Bisogna precisare che si deve vivere nel proprio tempo e il

tempo culturale è quello in cui si vive e non è il tempo dei nostri padri (allora non c’eravamo) e

nemmeno dei nostri figli (quando non ci saremo). Vivere nel tempo non secondo lo spirito del

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tempo ma secondo i diritti umani universali. La mente multiculturale non è condannata all’attimo

fuggente del presente né alla ripetizione del passato ma alla costruzione del futuro. La mente

multiculturale è un progetto educativo dove gioca un ruolo anche di socializzazione

l’apprendimento delle lingue di altre culture. La lingua materna è fondamentale come sistema di

riferimento. Le altre sono necessarie per il cosiddetto “apprendimento simbolico” mediante il quale

si imparano reti semantiche e modelli interpretativi e comunicativi per inserirsi da cittadini

democratici attivi nella nuova realtà. Le previsioni statistiche dicono che avremo 6 milioni di

immigrati nel 2015. La previsione di alunni stranieri tocca già i 2 milioni. Il problema nuovo è

quello relativo all’educazione di una mente multiculturale nei figli dell’ attuale immigrazione in

contesti di casuale socializzazione cittadina.

Secondo Marzio Barbagli gli immigrati di seconda generazione rappresentano “una bomba

sociale a scoppio ritardato” (2002). Sono un potenziale serbatoio di esclusione sociale, devianza,

opposizione alla società ricevente e alle sue istituzioni perché esse vivono in una condizione di

dissonanza e separazione.

Secondo la prospettiva “separatista” i figli degli immigrati restano svantaggiati e destinati

all’esclusione. Il loro insuccesso scolastico sanziona l’iniziale discriminazione sociale. Il paradosso

dell’integrazione si esprime nella etnicizzazione della povertà e nella esclusione in comunità

marginali soprattutto nei ghetti urbani, nei quartieri e nelle Strade. Secondo la concezione

“assimilazionista” invece i soggetti di seconda generazione vengono resi simili e incorporati nella

cultura della società ricevente con un alto indice di violenza interiore (Brubaker, 2001). La terza

strada, proposta da Portes (2004) indica la prospettiva “dell’acculturazione selettiva” che consiste

nell’apprendere la cultura del Paese d’immigrazione nei suoi vari aspetti (lingua, usanze, pratiche) e

contemporaneamente mantenere una frequentazione ed una dimestichezza con la cultura dei propri

genitori. In questo modo non si mira solo allo scopo di perpetuare la comunità immigrata, la sua

identità e la sua cultura, quanto di valorizzare le opportunità per i figli degli immigrati di dotarsi di

una mente multiculturale e di mirare al successo scolastico e professionale nella società ricevente. Il

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loro rischio è ,infatti, la vita “sospesa” se non si trova nella città un ambiente che aiuta, una famiglia

che lega alle proprie radici etiche e valoriali, antiche e nuove,una cultura di società “aperta” che

accoglie e promuove l’integrazione sociale.

Nella costruzione ed educazione di una mente multiculturale la Scuola svolge una funzione

molto importante se è in collaborazione con la famiglia e con la religione. Ci vuole una “dolce”

condivisione pedagogica ed un “forte”impegno educativo di genitori, insegnanti e sacerdoti, di

politici, amministratori pubblici e operatori sociali. Nessun fondamentalismo culturale, religioso e

politico può aiutare a vincere la sfida dell’integrazione senza privilegi e senza emarginazione

economica e sociale.

PER UNA SOCIOLOGIA DELL’AUTO -INTEGRAZIONE “CITTADINA”,

RECIPROCA E SOSTENIBILE

E’ famoso il saggio di Z. Bauman “Fiducia e paura nella città” (Bruno Mondadori 2005) che

ha avuto il merito di evidenziare i nuovi sentimenti di cui è carica la psicologia dei cittadini

indigeni. Gli immigrati sono “indesiderabili alieni”. Vivere con loro è un mettere a dura prova la

nostra fiducia nell’umanità e nella ragionevolezza degli altri. E’ ritornata la paura della “classi

pericolose” di un tempo di cui ha parlato Robert Castel e che erano socialmente escluse e

difficilmente integrabili (lavoratori e mendicanti!). Le nuove “classi pericolose di oggi” sono

costituite dagli immigrati che ad una prima valutazione sono ritenuti sempre spregiudicati

concorrenti nel lavoro, nei diritti e nell’assistenza, troppi e in continuo aumento: una valanga che

sale. Vengono considerati dalle nostre parti utili solo se “stagionali”, non assimilabili per sempre

perché sarebbero un peso economico per il Comune. Vanno allontanati in modo permanente dalla

condivisione della città specie in tempo di crisi e di collasso dello Stato Sociale. La tentazione tipica

dell’induzione culturale leghista è quella dello sfratto o nel migliore dei casi del bonus di 2000 euro

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perché se ne tornino a casa loro. Contro di loro si erigono continuamente dei muri e delle barriere

perché l’immigrato straniero è “una variabile”, minacciosa e incontrollabile.

Scrive Z. Bauman: “Condividere spazi con gli stranieri, vivere accanto, sgradevoli e invadenti

come sono, è una condizione a cui i cittadini trovano difficile, se non impossibile, sfuggire. Eppure

la vicinanza degli stranieri è il loro destino, “un modus vivendi” di cui devono fare esperienza… E’

una necessità, un dato di fatto, e in quanto tale non negoziabile; ma naturalmente il modo… dipende

dalle loro scelte” (p. 24). Bisogna accogliere prima nel cuore e nella mente e poi nella città come

municipio anche l’immigrato come cittadino a livello sociale, giuridico, lavorativo e politico. A noi

non serve una immigrazione mordi e fuggi che è condannata al rifugio nella clandestinità. A noi

serve una politica di immigrazione attiva ma non selettiva e aristocratica, di lunga durata e

stanziale. Non si tratta tanto di limitare nuovi ingressi ma di prendere atto che “di fatto” siamo

diventati meta di insediamenti “stabili” non solo di rifugiati politici, ma di lavoratori, di famiglie e

di comunità immigrate,che svolgono prevalentemente “bad jobs”(lavori umili come badanti o

lavoratori nelle serre…) Le politiche “degli stop” sono illusorie. (cfr. Laura Zanfrini, Sociologia

delle Migrazioni”, 2004). Ci vuole un maggiore e più mirato investimento formativo dall’alto per

promuovere una rivoluzione culturale dal basso nella società civile della città di Ragusa mediante

iniziative e opere di reciproca conoscenza, tolleranza e integrazione da parte delle varie

Associazioni etniche e autoctone e dei poteri istituzionali. Minori, famiglia, associazioni e religioni

sono le vie della buona attenzione spirituale e non solo economica, e dell’ accoglienza e

integrazione civile,umana e democratica.

La politica “attiva” di accoglienza è finalizzata a superare “lo spaesamento reciproco” alla

integrazione “transculturale” nella città e progressivamente e liberamente nella cultura spirituale del

Paese. La prima socializzazione urbana (sociale, civile, religiosa) avviene nella famiglia e nel

quartiere; la seconda nella Scuola. L’Ostello dell’Immigrato con il quartiere multietnico come

residenza di case-albergo può facilitare l’assetto sociale di tipo umano a misura di socializzazione

integratrice. Bisogna passare dalla cittadinanza individualistica propria dell’individualismo di massa

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e indifferente, fatta di privilegi e di chiusure dei “ nativi autoctoni “ alla cittadinanza “fraterna”

propria della democrazia “solidale” fatta di altruismo e di dovere che si fa prossimo e si prende

cura. Ciò può avvenire attraverso la crisi della mentalità monoculturale e l’acquisizione di una

mente multiculturale (Luigi Anolli).

Quindi la domanda radicale è questa: con quale mente accogliamo, con quali costi e con quali

benefici investiamo nella integrazione “lunga”. C’è oggi una architettura della paura e della

intimidazione che si riversa negli spazi pubblici delle città trasformandoli in aree intensamente

sorvegliate giorno e notte o trascurate dai servizi “civili”, un agglomerato di tuguri fatiscenti e di

strade senza manutenzione ordinaria. Senza Wc ,bagni pubblici e panchine per sedersi e cestini per

accogliere i rifiuti…

Per diventare cittadini multietnici che fare? Corsi serali di educazione linguistica per

immigrati e mediatori interculturali e ragusani di buona volontà. Anagrafe non fiscale ma “sociale”

delle persone nei quartieri e delle loro richieste di lavoro selezionate e indirizzate. Censimento dei

beni primari come semi di civiltà dell’accoglienza e del diritto umano di accesso. Luoghi di

socializzazione e di dialogo cittadino. Bar “misto”e aperto di sera, mensa a prezzo

“politico”(VOCRI). Nuovi bagni pubblici e gabinetti, abitazioni civili ad affitto calmierato e

agevolato a livello di ICI. Arredo urbano: più panche e meno vasoni di piante. Modifica della Legge

sui centri storici di Ragusa con maggiori possibilità di destinazione di incentivi alle famiglie

immigrate per la convivenza cittadina e alle loro attività economiche. un significativo Protocollo

delle associazioni etniche esistenti con la Chiesa e il Comune sulla negoziazione del bilancio sociale

di convivenza e di integrazione civile. Riuso e valorizzazione del patrimonio di pertinenza relativa.

“Via Roma e via G. B. Odierna” non possono essere una zona “grigia” della città. L’accoglienza è

un fatto di civiltà e un segno di cultura civica, un biglietto da visita, un investimento pubblicitario

“globale” ma è anche la prova che lo Spirito di Dio è in mezzo a noi con la nostra disposizione

d’animo fraterno che porta alla compassione e alla condivisione. Risanare la zona dell’ attuale

insediamento multietnico che va dalla “rotonda” a via Roma, da via Ecce Homo alla G. B. Odierna

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e a S. Maria delle Scale, etc... prevedendo meno parcheggi a pagamento e più luoghi di

socializzazione. Come è largamente noto i parcheggi a pagamento servono soprattutto a fare soldi

con sistemi di vessazione e di fiscalismo nei confronti dei cittadini. Sono tasse improprie e

ingiuste…

L’Italia rischia di diventare sulla questione degli immigrati e dei poveri sul piano umano e

cristiano un “orfanotrofio ideologico” dove Dio è assente. Gli italiani “brava gente” di una volta

vedevano Dio nei problemi e nel volto triste e sofferente degli altri,dei poveri e bisognosi

soprattutto. Impiantare un vero quartiere “multietnico”significa bonificare un bacino sociale di

nuovi schiavi potenziali di tutti i tipi,significa allocarvi non solo attività economiche ma anche

luoghi di preghiera e di culto, di studio e di scambio culturale e ricreativo,significa ricostruire il

tessuto sensibile della città. Le politiche sociali “interculturali”devono tendere a far conoscere non

solo il folclore fra le culture reciproche(cibo, feste, musiche e tradizioni religiose….,) ma

soprattutto i valori: il valore dell’uomo e della vita,del lavoro e della legalità, della famiglia e della

società. A Ragusa manca un “Ostello dell’Immigrato” con finanziamento pubblico (che potrebbe

essere allocato opportunamente trasformando l’ex Odeon, sotto la Rotonda, in un luogo pluriuso di

incontro e di dialogo multiculturale per assemblee cittadine, per Convegni giovanili “colorati”, un

segno di dialogo aperto e permanente. Come è noto l’accoglienza e l’integrazione dei singles è

diversa nei suoi problemi e nei suoi termini rispetto a quella dei minori e delle loro famiglie

immigrate nella Società,nella Scuola e nelle Parrocchie (oratori). La “Politica” non può lasciare da

sola la Chiesa e la Caritas di fronte alle sfide che pone alla città il problema degli immigrati. Ci

vuole una maggiore presenza di strutture di emergenza e un nuovo rapporto di fiducia e di dialogo

tra i genitori delle famiglie immigrate e di quelle indigene nel modo di concepire i servizi educativi,

socio sanitari e scolastici del territorio urbano(quartiere o zona…) per la lotta alla dispersione e alla

prevenzione delle devianze.

La diversità linguistica e culturale crea difficoltà linguistiche e comunicative. Nella Scuola

l’italiano “medio e colloquiale” di ingresso aiuta il soggiorno. La Scuola di fronte al bambino

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migrante e alla famiglia “straniera” non deve accentuare il loro spaesamento ma deve aprirsi di più

al tempo pieno senza risparmiare nel servizio. Il problema dell’alfabetizzazione riguarda un terzo

della popolazione italiana. L’analfabetismo è presente maggiormente nei settori sociali più

emarginati (disoccupati, casalinghe, immigrati e clandestini). L’alfabetizzazione non può essere un

apprendimento puro e semplice della capacità di lettura e scrittura. Non può essere fine a se stesso

ma è un problema di socializzazione integratrice e non di conservazione identitaria. Dobbiamo

offrire una cultura di base a tutti per un’autointegrazione “sostenibile e dignitosa” che abbia come

obiettivi:

• La città come società civile, laboratorio di integrazione sociale comune, legale e

culturale (è città “fraterna”)

• La città come municipio, garanzia e tutela dell’esercizio imparziale dei diritti (anche

i clandestini, come esseri umani, hanno un diritto umano ad una accoglienza provvisoria).

Dalla città Municipio viene quindi un sostegno, un insieme di circuiti Scuola-lavoro-tempo

libero per una mobilità orizzontale e verticale come forza lavoro ed una relazione di

cittadinanza fiduciosa,ad alto tasso di promozione sociale nel lavoro e nelle relazioni

quotidiane.

L’obiettivo della politica nella città multiculturale di oggi è l’imperativo storico della

democrazia “fraterna” profetizzata da Giorgio La Pira. La città futura dovrà essere una sinfonia

“relazionale” e virtuosa di persone, culture e religioni (L. Nicastro)

Il dialogo è l’emergenza del nostro tempo! Secondo il Card. Dionigi Tettamanzi (“Discorso

alla Città” 2008 - festa di S. Ambrogio) “solo il dialogo fa nuova, costruisce e rende forte la città, ne

rafforza l’identità e la proietta nel futuro”: si chiami Expo 2015, solidarietà fra le generazioni o

integrazione degli immigrati. Dialogo interiore ed esteriore. La vita urbana ha bisogno di tempi e

spazi per le relazioni tra persone e con Dio. Milano ha adottato “una nuova toponomastica” della

segregazione… (cfr. Avvenire 6 Dicembre 2008, p. 8). Bisogna tornare a rivivere le relazioni

cittadine in maniera pacifica, meno veloce e meno conflittuale. Vale l’ammonimento del Vescovo

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Russotto: “…è la piazza, quale crocevia delle storie e delle culture delle donne e degli uomini, lo

spazio in cui il cristiano deve imparare a vivere. E’ lì, nel cuore delle città, dove si svolge e si

decide il destino economico e politico della società, che la comunità cristiana deve dialogare,

cogliendo le attese e le speranze della gente”. (Vescovo Mario Russotto da: “Il tesoro e l’argilla”,

Lettera pastorale 2008-09). L’immigrato non va immortalato nell’immagine vera ma inadeguata

dell’uomo, la donna o il ragazzo che chiedono l’elemosina di un obolo ai semafori,presso le Chiese

o nelle strade. L’immigrato ha un volto, un nome ed una dignità da “persona umana”, è una

virtualità inespressa. E’ propriamente un “apprendista pescatore”, non un saccheggiatore. Il

pescatore ha bisogno di reti e di un maestro per apprendere il mestiere al fine di lavorare e vivere.

Ogni uomo è un pescatore. Anche noi. Non si può gestire solo in termini assistenzialistici un tale

fenomeno sociale. Non basta la burocrazia “seduta” ma è necessaria una funzione di servizio sociale

efficiente e mobile per obiettivi e progetti, articolata e modulata sui bisogni dei “mondi vitali” e dei

territori. Il lavoro “regolare” e non precario è la via maestra della cittadinanza responsabile. La

famiglia “stabile” e solida è principio di inclusione sociale “democratica”. L’associazionismo etnico

non è il ghetto degli emarginati e degli esclusi né il bacino della manodopera a basso costo ma una

struttura di aiuto, di accompagnamento e di socializzazione “umana”.Il Municipio se vuole essere

COMUNE si deve attrezzare per far crescere con nuovi servizi mirati lavoro,cittadinanza e armonia

sociale nella Città multiculturale di Ragusa.

Una lezione poi ci ricordano le immigrazioni, come hanno recentemente scritto Carlo De

Benedetti e Federico Rampini: “I nostri genitori e i nostri nonni furono negli anni cinquanta i

“cinesi d’Europa”, stupirono il mondo per la grinta con cui risollevarono un Paese stremato ed

umiliato. I loro valori non sono scomparsi: li abbiamo dentro di noi. Per affrontare il futuro

occorre riscoprire la parte migliore del nostro passato”.

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LA CITTÀ DELLA PROPRIETÀ UMANA

Scriveva E. Mounier che “se si volesse dare al Socialismo un volto, i cui tratti riassumessero i

suoi molteplici aspetti, si potrebbe tirar fuori una CITTÀ così socialmente giusta da poter essere

accettata dal cristiano”1. Era il fascino maieutico e l’utopia spirituale del suo maestro spirituale,

Charles Peguy, che aveva indicato nella “città armoniosa” l’idealtipo e la via politico-pratica della

ricostruzione morale e sociale, civile e spirituale dell’Europa e dei legami di fraternità della nuova

cittadinanza democratica degli uomini liberi e uguali, giusti e solidali che nella Resistenza avevano

combattuto per un mondo globale di giustizia e di solidarietà come alfa e omega di una nuova storia

di Pace. Non era solo l’antico sogno di ogni autentico cuore umano né il bisogno aristocratico ed

elitario di una raffinata mente cosmopolita ma l’approdo faticoso e progressivo di una tormentata

convivenza umana che aveva ricevuto dal cristianesimo lievito e sale, nuova luce e nuova speranza,

una dimensione di vera universalità e di feconda valorialità verso una più profonda e definitiva

unità. Guardiamo la realtà effettuale del cammino fatto.

Sono esistite tante città nella storia ma la direzione implicita e utopica di questo cammino

plurale e di questo processo storico è stata in fondo l’ideazione della felicità pubblica e non solo

privata di una città dell’uomo che ricerca il suo benessere integrale nella sua identità profonda e

complessa, nella sue dimensioni e nei suoi settori, nelle sue attività e nei suoi fini, nei suoi progetti

e nelle sue speranze di libertà e di giustizia sociale. Una società più progredita sul piano del

benessere materiale ma più sviluppata su quello spirituale dove l’uomo politico, come temeva Max

Weber in Politica e professione (1919), non fosse costretto a stringere un patto con il diavolo (con il

dio denaro!). È vero che la politica nella polis non si realizza ancora senza la tecnica, la potenza e

l’economia ma se vuole essere nobile e alta nei fini umani ha bisogno della libertà della fede e della

cultura, dell’arte e dell’etica pubblica, di uno spirito di solidarietà e di identità di un’anima e non

1 E. Mounier, Rivoluzione Personalista e Comunitaria, p. 471 e cfr. L. Nicastro, La Rivoluzione di Mounier, Thomson

Ed. 1974, pp. 146-147.

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solo di un appetito. Solo una religione spirituale non teocratica può garantire nella polis una stretta

connessione circolare tra volto visibile e frammentato e volto invisibile e soprannaturale della città

dell’Uomo che nel grande legame dell’eticità e della politicità scopre la struttura fondamentale delle

sue coerenti e conseguenti relazioni. Secondo Weber è stato il cristianesimo nella sua forma tipica

del Calvinismo a dare uno spirito al capitalismo con l’etica degli affari e della concorrenza, del

successo e della libertà politica e commerciale. La Fede ha legittimato il potere e il trionfo

economico della borghesia in uno con l’egemonia della sua cultura tecnico-razionale dove tutto è

ordinato e pianificato2.

A ben vedere la “città armoniosa” è in verità la città d’oro della proprietà umana, quella città

nella quale i beni comuni sono diritti di base e obiettivi democratici, cioè scopi permanenti e

prevalenti di un sistema umano e civile di imprese economiche e sociali. I semplici servizi a

domanda individuale, limitatamente alle risorse disponibili, continuano la storia della città duale

fatta di pochi ricchi e molti poveri. Il nuovo spirito cittadino di libertà responsabile e solidale può

essere individuato nel quod superest del PIL in senso letterale e costituirne il nocciolo duro. I

servizi primari e prioritari alla persona e alla comunità non sono mercantizzabili né gestibili solo

con il profitto, cioè con criteri privatistici ma in relazione alla sostanza civile dell’economia non

profit in termini sia di efficacia che di efficienza e di scopo. I costi aggiuntivi e ulteriori verranno

posti a carico della fiscalità generale. Nessuna mercificazione strumentale quindi e nessun business

privato, neanche mascherato da un più efficiente bene generale possibile, possono essere tollerati

rispetto ai fini primari. I costi reali dei servizi sono socialmente necessari per garantire il diritto

umano universale ad una vita degna e propria di un buono e onesto cittadino. I beni comuni sono

pertanto necessari e permanenti beni relazionali, forme di civismo militante e permanente, non sono

espressioni temporanee di un sentimento di solidarietà occasionale o la generosità fuggente e

strumentale del politico di turno, ma strutture aperte di solidarietà, pensate, ideate e costruite per la

2 Per una analisi del processo di sviluppo si veda il fondamentale La Città di Max Weber (introduzione di Livio

Sichirollo e prefazione di Enzo Paci), Nuovo Portico Bompiani, 1950, pp. V-XII e XX-XXI.

25

condivisione e l’inclusione sociale e democratica. Ieri il veccio villaggio feudale era diventato,

mediante una rivoluzione sociale ed economica borghese, “una città mercato” e un luogo virtuale di

vera libertà e di una democrazia dei benestanti (il popolo grasso!) che esercitavano il diritto alla

partecipazione attraverso la mobilità sociale e professionale. È merito di Max Weber l’averlo intuito

sin da “Economia e Società” e soprattutto l’aver individuato nell’etica protestante la nascita dello

spirito capitalistico e nel ruolo della religione cristiana il fiorire della città degli affari, del successo

e della meritocrazia e della solidarietà compassionevole.

La città di oggi è diventata invece l’arca del desiderio e della alienazione, il supermercato

delle merci e dello shopping consumistico, indotto e continuo. Essa è arrivata al suo acme, al suo

punto di arrivo come sfera del paradiso possibile dopo essere stata per lungo tempo un luogo

prevalente di oscuro inferno e di lunga notte bianca come ventre comune della città dei ricchi

epuloni e dei poveri lazzari. La nuova estetica urbana nonostante l’euforia razionalistica appare

sempre più come un villaggio glocale colorato come luogo diviso in ghetti e quartieri di un territorio

multiculturale aperto e abitato da molte etnie, concentrato e rimodulato per una nuova transizione.

Nella situazione attuale la città post industriale è sempre più un dormitorio da un lato per i più e un

residence per una élite con pochi spazi comuni di intersezione senza un centro e con molta periferia.

Mancando un centro stellare di condivisione, dialogo e partecipazione stenta così ad impiantarsi una

democrazia delle relazioni spirituali ed economiche di comunità nella quale la politica è un primo

pubblico servizio e la religione laidamente è una comune fede trascendente necessaria come

denominatore convergente di molte chiese in una piazza di incontro. L’estetica della città della

proprietà umana è data da un cerchio convergente in un centro storico di reti di libere relazioni

umane, politiche e religiose, culturali e produttive. Aveva intuito bene Max Weber quando aveva

visto nella città dell’Occidente “il simbolo più alto della libera razionalità sociale”, lo specchio più

vicino del capitalismo economico. Ha avuto torto quando ha posto solo nell’etica calvinista la

giustificazione della libertà e del suo benessere per pochi eletti e soprattutto la dittatura della

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potenza economica come fine essenzialmente religioso della vocazione etica ed estetica della città

di alcuni.

È utile a questo punto considerare il cambio di passo nello stesso principio estetico della città

mercantile post moderna. Un tempo ad ogni cosa visibile veniva attribuito un significato

“simbolico”. Ad esempio: “l’accostamento del Palazzo (del Potere) alla Piazza era immediatamente

percepito come il simbolo dello stretto legame tra la sfera politica della ‘civitas’ e la sfera materiale

dell’urbs”3.

Con la diffusione degli ordini mendicanti (francescani, domenicani e agostiniani) non basta

più questa urbanistica del “limite”. Davanti ai conventi si vuole “una piazza pubblica aperta a tutti i

cittadini” e non più un luogo privato dove c’è innanzitutto la Chiesa del proprio convento. La

Chiesa se appartiene al popolo e parla ad esso, non si misura solo con il Palazzo del Potere ma

soprattutto con l’agorà fisico e mediatico di tutti.

La città biopolitica di oggi ha elevato e finalizzato la potenza politica e la religione a

fondamento visibile e invisibile della sicurezza per mettere l’uomo-cittadino in condizione di

godere della vita sociale risolvendo i suoi molti problemi “dovuti alla numerosa e rumorosa

coabitazione” con l’aumento della police. Ormai si commisura la qualità della vita urbana alla

quantità relativa di patologie e di devianze sociali. Si medicalizza la condizione urbana mediante il

mito della sicurezza sociale secondo il principio di popolazione di Foucault4.

La città di oggi è infatti multietnica e multiculturale; è fragile e insicura nei legami identitari e

relazionali; è un bacino di meticciamento transculturale. Per vivere e convivere in essa vale il motto

di Stéphane Hessel padre della Resistenza francese contro il nazismo “Creare è resistere. Resistere è

creare”5. Per esercitare “il diritto a una cittadinanza” così difficile e complessa come recita l’art. 15

della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’uomo, adottata dalle Nazioni Unite il 10 Dic. 1948 a

Parigi (al Palais de Chaillot), bisogna acquistare una mente multiculturale e “insorgere decisamente 3 Marco Romano, La città come opera d’arte, Giulio Einaudi editore, Torino 2008, pp. 48-52. 4 Andrea Cavalletti, La città biopolitica, Bruno Mondatori, Milano 2005, pp. 150-152. 5 Stéphane Hessel, Indignatevi, Add. Edit., Torino 2011, p. 45.

27

e pacificamente contro i mass media che omologano tutti e ai nostri giovani propongono come

unico orizzonte il consumismo (e l’individualismo) di massa, il disprezzo dei più deboli e della

cultura (una mente monoculturale!), l’amnesia generalizzata e la competizione a oltranza di tutti

contro tutti … (questo anche perché) i principali media sono nella morsa degli interessi privati…”.

Il concetto liberale di neutralità dello Stato porta alla correlazione con la città contemporanea

libertina e solitaria. Essa infatti è triste e infelice perché è condizionata ancora da una “mente

monoculturale” e costruisce ogni sorta di apartheid ispirandosi al principio del “vivo e lascia

vivere” per cui la differenza è diventata indifferenza e ghettizzazione. La città della proprietà umana

invece può spezzare l’ultima frontiera di una ciclicità involutiva che non è più funzionale alla

riproduzione della segregazione ma è strategica solo per l’integrazione6.

GLI EDUCATORI DI STRADA NELLA CITTÀ VISIBILE E IN Q UELLA

INVISIBILE

Per vivere oggi nei mondi vitali della società contemporanea bisogna avere un forte spirito di

libertà per lottare contro il conformismo imperante, che è “il carcere della libertà e l’ostacolo più

grande per ogni progresso” (J. F. Kennedy) e nello stesso tempo come sosteneva in Umanesimo

integrale J. Maritain “bisogna avere uno spirito duro e un cuore tenero”.

Jack Kerouac in “On the road” non parlava solo di nuovi orizzonti esistenziali, di una nuova

avventura dello spirito dell’antica frontiera, ma soprattutto di una nuova frontiera dell’educazione

come personalizzazione alla libertà da imparare come virtù e da considerare come consapevole

integrazione liberatrice. La nuova educazione di oggi è un complesso processo di sinergia di

corresponsabilità perché non cade come un semplice fall out di stimoli e di idee ma come criteri di

una rete puntiforme di un mondo complesso e per certi aspetti incomprensibile e duro da vivere.

6 Luigi Anolli, La mente multiculturale, Ed. Laterza, Bari 2006, p. 142.

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La STRADA è diventata l’immagine di un nuovo mondo da visitare attraverso la ricerca e

l’acquisizione di una padronanza. Si scopre così che il mondo contemporaneo, a ben vedere, risulta

duale nelle espressioni organiche di due città che interagiscono: la città visibile e quella invisibile.

Nella prima le trasformazioni incidono non solo sui territori ma anche nei “modus vivendi”,

nel modo di pensare e di agire attraverso la presenza di una scuola sui generis. La città visibile è

diventata multiculturale. Non è più monoculturale. Richiede mentalità aperte e ancoraggi valoriali

più forti. Nella città invisibile si svolge una second life invisibile ed efficace come inMatrix dove gli

dei sono tanti, e i poteri e le suggestioni altrettanti. Anche questa città ha una sua scuola che tende

alla socializzazione anticipatoria.

Le ricerche del passato, come ad esempio “Né leggere, né scrivere” di Gualtiero Harrison e

Matilde Callari Galli sulla Palermo popolare degli anni ’50, indicavano non solo stratificazioni e

modelli sociali educativi, ma l’esistenza anche di due scuole: quella della istituzione pubblica e

quella della strada, due sistemi diversi per finalità, modalità di educare e per identità e ruolo degli

educatori. Gli esiti delle due scuole erano sul piano educativo profondamente diversi. Come hanno

fatto constatare i “santi sociali” da San Filippo Neri a don Bosco, da don Milani a don Pugliesi, i

giovani vengono respinti dalla istituzione scuola e formati dalla strada. Ad essi si rivolgeva la

Chiesa per un processo di liberazione morale e di promozione sociale.

Nel pasticciaccio recente del Parini di Milano si è evidenziato come i genitori di oggi “distratti

e insicuri con i figli” si sfogano e si scagliano contro i docenti e come non si accetta più che nella

scuola pubblica, come ha notato Umberto Galimberti, vi siano visioni del mondo differenti rispetto

a quelle impartite nelle mura di casa. Umberto Galimberti sostiene che “non ci sono altri luoghi di

socializzazione, non ci sono più né gli oratori né le sezioni di partito, ci rimangono solo la strada e il

bar”.

La cultura “religiosa” del mondo ipermoderno è caratterizzata da due assi assiomatici: il culto

della prestazione e del successo sicuro e della ricchezza come chiave e nello stesso tempo la paura

del fallimento e della povertà, dall’altro l’apologia cinica del consumo facile e dell’appagamento

29

immediato senza differimenti. In questa società l’etica iperedonistica rende relativisti (e perché no?)

e sazi e ciechi nel desiderare dei sensi spegnendo il desiderio e la molla della progettualità.

L’educazione diventa impossibile nel post moderno e nel tempo iper moderno perché non c’è più

l’interdizione e il limite, non si usa il NO ma solo il sì sempre. Non siamo riusciti a frenare la corsa

rovinosa al godimento usa e getta fine a se stesso. Cosa resta del Padre? (Cortina 2011). Il potere

simbolico e l’accompagnamento di sostegno si sta evaporando.

La vita non è vita nell’artificiale. La vita è vita nella strada. (On the road) I giovani sono

cittadini del reale e dell’immaginario, del bisogno e del desiderio, della terra e del cielo, del virtuale

“connettivo” e del virtuale spirituale. In loro spira non solo la menzogna ma anche il vento della

verità, non solo il cinismo ma anche la generosità. L’ambivalenza è strutturale e l’abitazione nelle

due città (visibile e invisibile) è una permanente dimora provvisoria. La quotidianità è un continuo

work in progress.

Il panopticon è il bullismo che non è solo il simbolo dei ragazzi abbandonati ai propri impulsi

ed emotivamente immaturi, spavaldi e fragili (G. Pietropolli Charmet), ma un fenomeno culturale,

sociale e mediatico che cala sul male dell’educazione e sulla socializzazione dei giovani in tempi di

cinismo. Mc Luhan parlava dei mass media come prolungamento dei nostri sensi e intensità

maggiore delle nostre emozioni. Noi siamo, secondo questo autore, massaggiati più che informati.

Si diventa bulli a imitazione del bullismo sociale. Il nuovo problema da risolvere è la grande crisi

dei rapporti genitori-figli e viceversa. Non sono più i figli che domandano di essere riconosciuti dai

loro genitori ma sono i genitori che domandano di essere riconosciuti dai loro figli. Tutto è ribaltato.

Per risultare amabili è necessario dire sempre “Sì!”. Eliminando il disagio del conflitto di una volta

si tende a delegare tutto e ad avallare tutto. Il sì perpetuo unito al punto di domanda “e perché no?”

della cultura sociale dominante producono un effetto perverso.

Sulla strada le generazioni non sono atemporali e codificate, senza storia e senza utopia. Esse

si trasmettono narrazioni di valori stili di vita. Si assegnano compiti di senso, di libertà, di

30

godimento e di partecipazione sia nella città visibile che in quella invisibile che si influenzano

dialetticamente.

In questa situazione diventare educatori è un compito difficile. È necessaria una nuova

generazione di educatori di strada per la città visibile e per la città invisibile. Essi sono i nuovi

accompagnatori dell’etica della corresponsabilità e della promozione di sane esperienze di vita in

qualificati luoghi associativi anche provvisori. Tutti i poveri della città cercano la propria anima e il

fascino di un bene profondo.

Vale qui nell’ipermoderno la lezione della parabola del figliol prodigo che è un paradigma

efficacemente adeguato soprattutto per la relazione educativa nella ipermodernità. Il padre della

parabola non dice al giovane figlio: Diventa come me, ma gli dà tutto quello che chiede e lo aspetta

perché affida all’esperienza dell’eventuale fallimento la capacità di ritrovarsi dopo essersi perduto,

mentre al fratello maggiore, che aveva scelto di non sbagliare, la sicurezza del nido lo invita a

capire che si può sbagliare e ci si può redimere purché dopo aver sbagliato si ritrovi la strada del

ritorno verso un adulto pronto ad accoglierlo. Come dice la parabola, era perduto ed è stato

ritrovato.

L’educatore di strada è il nuovo educatore, portatore di una nuova filosofia della strada, di una

nuova religione nella strada come testimonianza missionaria sulla via di Emmaus dove si dialoga e

si scopre l’interiorità profonda del prossimo e con lui si cammina. On the road!

Questi educatori di strada come i santi sociali dei secoli Ottocento e Novecento sono apostoli

della Fede, testimoni della speranza e promotori sociali cioè gli atleti della staffetta ideale e

generazionale della Verità e della Carità nella costituenda città politica della proprietà umana e della

solidarietà strutturale.

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L’UTOPIA RIFONDATIVA DEL CITTADINO “FRATERNO”

La Grande Crisi morde ormai da tempo la nostra intera società e la dialettica delle classi

sociali rimettendone in discussione non solo l’economia e la stratificazione sociale, ma anche i

valori e i sentimenti fondamentali della religione e della politica. E’ in discussione l’appartenenza

civile e la speranza religiosa di futuro delle diverse generazioni come anche la validità dell’assetto

culturale e istituzionale del Paese. La società degli indifferenti avanza in tutti gli strati della

popolazione con il suo corteo di cinismo e di sordità sociale. La comunità si allontana dal cuore

delle città, dalle case e dai quartieri, dalle Università,dalla Cattedrale e dalle industrie, dalle imprese

e dalle professioni in una spirale a misura di individualismo di massa che tutto plasma e tritura. Una

condizione di cinismo strisciante spegne sostanzialmente ogni idealità e ogni speranza, ogni

doverosa e salutare voglia di bene comune. Per reazione Peter Sloterdijk, in Critica della Ragion

cinica, auspica un ideale di vita “bohemienne” che è una pericolosa illusione e un veicolo di

alienazione collettiva. La depressione collettiva riproduce la solitudine e la disperazione e spegne il

realismo cieco della ricostruzione favorendo opzioni e progetti di salvataggio individuale e di

interesse privato e particolare. Si pone, per risorgere davvero nei territori del vissuto, una questione

prioritaria, quella di una larga coscienza civica di interesse generale. La bomba individualistica non

è solo etnica ma è diventata multiculturale. In questa città irriconoscibile si verificano due fenomeni

che ne sono l’espressione più chiara. Da un lato il cinismo dei predatori e dei potenti e dall’altro la

rivolta dei giovani e dei poveri che esprimono la loro rabbia e indignazione (arrabbiati e indignatos)

nella richiesta di un futuro per la loro vita e per quella dei loro figli. Aveva anticipato

profeticamente questa evoluzione della società post industriale Zigmunt Bauman nel suo Modus

vivendi quando analizzava gli idealtipi del seminatore e del cacciatore e spiegava che ormai la lotta

di classe era arrivata ad interessare queste due polarità sociali: la povera gente (il popolo di una

volta!) e le élites, mentre il ceto medio che si è allargato (ceto medio di massa!) è diventato popolo,

il nuovo popolo minuto. I seminatori preparano il futuro, i cacciatori lottano per impadronirsi

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della preda del presente. Domina ancora la cultura e lo scenario sociale e culturale la teoria della

folla solitaria di David Riesman, sociologo americano che nel secondo dopoguerra aveva studiato il

fenomeno dell’individualismo della indifferenza e della solitudine del cittadino americano. Ora si è

aggiunta la solitudine del cittadino globale e il rifugio nel localismo con una rivitalizzazione delle

piccole patrie, povere ma belle. La società odierna dei new media è venuta alla ribalta con la folla

rumorosa dei connessi, intuita da J. Habermas come “comunità dei parlanti”(1974) legata allo

spazio sociale pubblico, generato dall’agire comunicativo, è riproposta e approfondita come spazio

conversazionale di interazione online tra luoghi terzi e sfera pubblica da Elisabetta Risi (2011),

sociologa italiana che ha trovato nella costruzione della terra di mezzo un possibile luogo della

capacità comunitaria. Come è evidente , la Comunità personalista, antica aspirazione di filosofi,

sociologi e teologi, non potrà mai nascere dall’individualismo di massa né dal totalitarismo

tecnocratico di elezione come in Skinner, né dal capitalismo compassionevole che lenisce in parte

gli effetti perversi del sistema ma non ne elimina la causa. Diceva E. Mounier che il Capitalismo

riduce “l’uomo a mani e mascelle”.Con il capitalismo informazionale della Rete come in Matrix si

può generalizzare la connessione in quantità e qualità e approdare all’Ultimo Dio della Società post-

umana di cui ha parlato Paolo Ercolani (2012). Già Marshall Mc. Luhan aveva spiegato che i mass

media erano il prolungamento dei nostri sensi e come la loro funzione fosse quella di “massaggiare”

la nostra personalità nei suoi comportamenti, nei suoi intendimenti e nelle prospettive collettive

della società individualizzata (Z. Bauman, 2001). La tecnica può aiutare il progresso delle

connessioni e con i suoi social networks le relazioni della platea connessa e le sue evoluzioni ma

non può assicurare né l’amicizia (amico è una dichiarazione, più che un sincero sentimento, come in

Linkedin, Facebook …). Altra cosa sono i presidi sociali di incontro umano, di dialogo e di

solidarietà militante e non solo “meccanica” (come la raccolta delle offerte tramite il telefonino!)

dove ci si affida e ci si prende in cura problemi e compiti di bene comune. Nonostante sia la risposta

giusta nel momento giusto la COMUNITA’ come scopo utopico della società democratica,

continuerà a restare nella parlata una declamazione utopistica per spiriti sognanti ma non un

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obiettivo di scopo progettuale nella prassi quotidiana dei gruppi sociali,culturali e politici. Sarà

sempre considerata l’utopistica isola che non c’è e che esiste solo nella nostra mente quando siamo

insoddisfatti della nostra condizione societaria. Sino a quando sarà posta come mito nei periodi di

crisi e non proposta come meta di un graduale e complesso processo progettuale di scopo specifico

ai livelli della vita individuale e sociale ed anche istituzionale dall’associazionismo laico e religioso,

(Luciano Nicastro, Profezia e Politica in E. Mounier, Di Girolamo ed. 2012) sarà una verbosa

espressione retorica, inutile e impotente, una irresponsabile evasione e fuga dall’impegno critico e

propositivo nella storia. E’ evidente che a questo punto della storia sociale e spirituale del Paese ci

vuole una grande metanoia e una coraggiosa maieutica civile di rinascimento non più

individualistico e borghese ma, per dirla con E. Mounier, una rivoluzione personalista e

comunitaria, spirituale e integrale nello scopo, umanistico e non violento nella prassi. Come ha ben

precisato il Card. Gianfranco Ravasi bisogna ritornare alle Virtù dell’uomo prima di affermare

quelle del cittadino. E’necessario che tutta intera la Società ritorni ad una prassi virtuosa di umanità

generosa e solidale ad un umanesimo dei piccoli passi di civismo e di prossimità. Il personalismo

comunitario da questo punto di vista è il crocevia antropologico di incontro privilegiato tra

credenti e laici. Il cittadino democratico, come è noto, è nato dentro la cultura illuministica dei

diritti civili e politici del costituzionalismo liberale e poi dei diritti sociali propri dei marxisti e

soprattutto dei cristiani e dei cattolici in particolare (in Italia alla Costituente!). E’ stata prima

registrata ed interiorizzata la bandiera delle libertà individuali rispetto a quella della cultura

cristiana e socialista dell’uguaglianza dei doveri che uniscono e affratellano gli individui o, sul

piano delle disuguaglianze, fra le classi sociali e i popoli la bandiera della solidarietà globale del

Beato Papa Karol Wojtyla e della fraternità umana inclusiva di Norberto Bobbio (2000) anche se

correttamente diceva che questa era di derivazione religiosa e non laica. La Dottrina Sociale della

Chiesa ha riconosciuto il personalismo comunitario in tutte le sue espressioni moderne e

contemporanee, da E. Mounier, Jacques Maritain e sino a Giuseppe Lazzati e Giorgio La

Pira…come la base e il vertice del bene comune possibile e attuabile, cioè il fondamento e lo scopo

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dell’agire sociale buono, giusto e vero secondo il Vangelo di Gesù e l’insegnamento della

Tradizione ecclesiale che ha sempre difeso con la laicità strutturale dello Stato il primato

dell’uomo-persona rispetto alle varie istituzioni liberali, culturali e politiche che ne esprimono la

logica di solidarietà e l’architettura di servizio. Da questo punto di vista essendo la persona umana il

valore primario dell’individuo e dei suoi mondi vitali di relazione e di progresso civile, la sua

cittadinanza democratica è l’espressione concreta e storica come fonte sorgiva e parlamentare dei

diritti inalienabili e dei doveri ineliminabili di fraternità e di prossimità. Il cittadino globale cresce

in questo senso come l’uomo giusto a garanzia dei valori trascendentali di umanità e di bene

comune;è quindi soprattutto nella realtà locale difensore di legalità e promotore della giustizia

sociale nella dignità e nell’ordine dell’essere e dell’avere, come diceva E. Mounier. Giorgio La Pira

a riguardo era solito legare in una solida e fraterna connessione tutte le città del mondo sul piano

spirituale e morale per la costruzione della pace universale. Le città erano i giardini dei popoli del

Mondo, luoghi di dialogo e di fraternità ed avevano in quanto tali una missione storica di

comunione e di convivenza da promuovere,tutelare e valorizzare. Il cuore della cittadinanza non era

quindi solo storico, particolare e locale, legato ad una anagrafe civile ma innanzitutto spirituale e

morale di appartenenza universale alla famiglia umana. Civis humanus sum!La cittadinanza non è

solo legale ma morale e fraterna e in quanto tale ha un valore “divino”, a fondamento di creazione

e a riscatto di morte e resurrezione da parte del Crocifisso. L’immagine e la “somiglianza” sono

quindi ancora una volta un imprinting di Dio che ha voluto porre dentro la fratellanza

intersoggettiva” lo jus civitatis”. Il diritto positivo così recupera per grazia e in solido ogni persona

del mondo visibile e dell’avventura terrena della città locale e globale secondo i tempi e le

consapevolezze delle frontiere. Lo spirito del nostro tempo è l’individualismo perfido di massa che

lavora per l’esclusione e la disuguaglianza degli uomini dentro le città del mondo globale ed ha a

sua base e metafora nel Superuomo di F.Nietzsche come suo senso proprio l’orizzonte terreno e

culturale, il cinismo e il nichilismo della “morte di Dio”. Il superuomo è l’Ecce Homo. Carlo

Carboni nel suo la Società Cinica (le classi dirigenti italiane nell’epoca dell’antipolitica), Laterza

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Bari 2008, sostiene la tesi che l’Italia di oggi è una società cinica come la sua élite: stessa faccia,

stessa razza (p.VIII).Come scriveva nel 1974 Paolo Sylos Labini in un saggio sulle classi sociali in

Italia:afferma che… ci sono troppi topi sul formaggio … ed è diffuso un individualismo egemone e

amorale. Per costruire un secondo Rinascimento bisognerebbe affermare una nuova cultura politica,

più spirituale e disinteressata, che abbia al centro la persona umana e non l’individuo, non il denaro

ma la Comunità. Con questo valore comune si può ricostruire nelle città “la fontana del villaggio”,

di cui parlava Papa Giovanni XXIII e che dà l’acqua a tutti i Samaritani per curarne le ferite. Il

cittadino “fraterno” viene dunque dalla fontana del Villaggio a distribuire con la sua testimonianza e

il suo servizio ciò che appartiene alla città terrena e alla città celeste e vive con un unico cuore

questa duplice appartenenza di condizione e di vocazione. E’ questa la missione storica degli

intellettuali cristiani: formare cittadini spirituali e una classe dirigente di territorio a prendersi cura,

in luoghi deputati sul piano sociale e istituzionale, a servire la verità sociale e il bene comune

secondo le proprie possibilità e i propri talenti.

Pubblicato nel Numero 7/8 - Luglio/Agosto - 2012 di “Ricerca” - Nuova serie di Azione

Fucina - Fondata nel 1928 (Registrazione del Tribunale di Roma n. 361 del 10 luglio 1985).

IL POSTULATO POLITICO E MORALE DELLA QUESTIONE GIOV ANILE

Dum Romae loquitur,Saguntum expugnata est.

La Crisi italiana, negata ed esorcizzata dal Governo delle promesse, di Berlusconi e Bossi,è

tracimata con il suo carico di problemi urgenti,drammatici ed esplosivi nelle mani del Presidente

Mario Monti e del suo Governo dei professori al quale le forze politiche del Parlamento hanno

concesso un”aiutino”,un misto di rispetto e di distacco con una piccola dose di fiducia a termine e a

condizione che non provochi corti circuiti con gli interessi vitali dei partiti e del loro consenso

elettorale. La questione giovanile,problema grande e complesso può essere così solo declamata ma

non affrontata. Anche ai giovani senza lavoro e senza concrete chances di futuro sono arrivate

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parole ,tasse e rigore intergenerazionale. Non siamo ancora alla frutta,ma alla penultima spiaggia. Il

momento è delicato e difficile da gestire e il guado deve ancora essere attraversato. Cresce la giusta

reazione dei ceti popolari che vedono minacciati non i dolci ma i pani e i pesci. Il malumore e

l’indignazione accompagna i dibattiti e le reazioni della Società Civile. E’ il momento della prova e

dei conti,non solo come dicono i leghisti “per la quadra” ma per la secessione(sic!) perché se

fallisce l’Italia,avanza la Padania (dicono loro!) a sostituirla a livello europeo ed internazionale. La

navigazione dell’Italia,antica e gloriosa,ricca di capitale umano è ancora perigliosa per i molti

scogli interni ed internazionali. Alla barra c’è però “la serietà dei professori” che sono preoccupati

non solo del rigore dei conti e del respiro del Paese ma hanno chiara la responsabilità dei tempi e la

consapevolezza dei processi e dei contesti europei e globali.

Ai giovani non si possono ancora dare pillole di fumo e speranze nebbiose ma bisogna

concretamente presentare “pane e lavoro”,non precari, e iniezioni di progetti e di speranze fondate

capaci di risollevare le più intime motivazioni a sacrificarsi e ad impegnarsi secondo le possibilità

che il grande sogno riformatore ha acceso nei loro cuori e nei loro territori di questa Italia divisa e

lacerata. Gli annunciati due tempi della manovra per uscire dalla Crisi incontrano la porta stretta

della vicina recessione che incomincia a mordere la carne viva del Paese e costringe ad allontanare

le decisioni di responsabilità e di bene comune intergenerazionale. Forse si può fare di più!

Il terribile e combinato disposto di insolvenza finanziaria del debito pubblico può accelerare

il default,la bancarotta con recessione galoppante e colpire le famiglie popolari,gli anziani e

soprattutto i giovani che dal panico collettivo possono far nascere implosioni ed esplosioni sociali a

grappoli.

La tracimazione della paura e della contestazione degli indignatos può scoppiare dai

capoluoghi di provincia come nelle banlieus parigine improvvisamente. Forse una riforma

strutturale e virtuosa di merito nel circuito connesso di studio e lavoro può prevenire in buona parte

questo scenario se si prendono al più presto provvedimenti coraggiosi ed efficaci.

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Le province in Italia sono n.110.La loro abolizione è ritenuta dalla maggior parte della

opinione pubblica italiana una saggia decisione e una necessaria riforma per risparmiare e alienare

queste somme nella direzione di una produzione virtuosa di imprese,lavoro e sviluppo nel campo

della economia sociale di libero mercato.D’altronde senza abolire il “contenitore Provincia” e senza

fare una riforma costituzionale,si può modificare riassumendole le competenze primarie ed

esclusive nei settori del lavoro e dell’ambiente riconvertendo i costi attuali e totali di 12 mila e 279

milioni di euro,e ridurre i costi annuali della politica nell’Ente Provincia che ammontano a 130

milioni di euro.(cfr. Franco Bechs, Il Prof si rimangia il taglio delle province,in LIBERO,8

dic.2011p.7).

Le drammatiche recenti alluvioni recenti che hanno colpito l’Italia sia al Nord(Liguria,etc) che

al Sud(Sicilia etc..)hanno ancora messo in rilievo il cronico e generale dissesto idrogeologico del

Paese e la individuazione di una emergenza prioritaria che abbisogna di un Piano Nazionale di

Settore. Una politica seria di prevenzione e di programmata messa in sicurezza dei territori può

essere avviata,dando lavoro alle imprese cooperative di giovani e lavoro qualificato di occupazione

e sviluppo ai giovani laureati e diplomati nel settore. Si potrebbe creare lavoro per creare imprese di

lavoro e con l’indotto un processo virtuoso a livello dei territori costringendo le Regioni e lo Stato a

misurarsi con la creatività e serietà “attiva” delle giovani generazioni. Questo sarebbe un metodo

virtuoso ed esemplare di produrre lavoro buono e imprese cooperative sane dal basso,un sorta di

keynesismo di imitazione per far fronte ad una emergenza contestuale di lavoro e di sviluppo

concreto e possibile con un feed-back visibile e una scommessa collettiva delle comunità locali e

dei municipi coordinati dalla nuova provincia riconvertita e “alleggerita” nei costi e nelle

competenze. Il circuito virtuoso “studio-lavoro-sviluppo ambientale” creerebbe una spirale di

socializzazione lavorativa e di motivazione allo studio di merito come garanzia pubblica di un

lavoro di merito e di comprovata e pubblica utilità. In ogni provincia si tratterebbe di costruire

questi focolai di interiori motivazioni all’impegno e alla responsabilità intergenerazionale nell’ottica

della Utopia comunitaria e laborista di Adriano Olivetti e al fine di generare teams di progettazioni

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e di realizzazioni ben fatte e senza ritardi. E’ una idea. Le idee innovative tracciano il solco e

aprono nuovi sentieri ma sono i giovani di qualità e di buona volontà che costruiscono il varco della

transizione. Sono queste condite di serietà e di bene comune che hanno bisogno di essere

attenzionate come leve di un futuro preferibile nei territori della nostre province le quali hanno

bisogno non di burocratici pesi ma di funzionali stratagemmi. Bisognerà attivare al più presto con

“sensate esperienze e certe dimostrazioni “una doppia scossa sinergica” dal Centro verso le

province e da queste verso Roma prima che venga espugnata Sagunto….Ai giovani. alla società

civile italiana non bisogna presentare forbici ma aghi per tessere e ritessere il trinomio virtuoso

della nostra Unità Nazionale con la bandiera dei tre colori per attuare la Repubblica fondata sul

lavoro coniugando “Pane e Lavoro,Studio e Futuro per tutti.

E’ l’ora dei Padri della Patria e dei Mille….

Pubblicato da: INSIEME quotidiano on line cattolico, Ragusa 10 dicembre 2011

PIANTO ANTICO ANCORA!

Oggi leggo nel giornale (Avv.13 ott.2015p.14) che in una notte senza tempo a Rio de Janeiro

sono spariti più di 370 meninos da rua (= ragazzi di strada). Piango questi piccoli fratelli

calpestati,suicidati ed eliminati da una bella città borghese per motivi di ordine pubblico. In questa

metropoli è iniziata presto,prima dell’alba la mattanza per una bonifica sociale voluta e comandata

alla polizia. Hanno voluto (chissà chi!?) pulire le strade sotto i ponti, i quartieri della

microcriminalità, le leve del malaffare, le catapecchie delle favelas perché sporcano la città che

deve ospitare le olimpiadi sotto gli occhi del mondo intero. Non usano le scope ma i fucili per

quanti si oppongono e fanno resistenza nei confronti di questa pulizia etnica sociale, anche se sono

bambini e poveri ragazzi, ma sono considerati dei potenziali piccoli criminali, delle voraci

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cavallette dell’ordine e del decoro della maestosa grande città. Sotto il cielo e sotto le stelle non c’è

posto, non c’è luogo per i miserabili piccoli meninos perché essi non hanno né possono avere diritto

di esistere, di sopravvivere e di inquinare con i furti, le droghe e le rapine una città per bene che

protegge quelli che sono puliti, obbedienti e per bene, e dà buona ospitalità a chi ha ma spara e

caccia via chi non ha e non merita. Il pianto, disperato e singhiozzato dei poveri bambini e dei

ragazzi senza famiglia, sale al Cielo come un rosario vivente alla ricerca di qualcuno che lo possa

sentire ed ascoltare, capire e lenire. Questo pianto sa di antico come la strage degli innocenti quando

Erode voleva far sparire il bambino Gesù. Non siamo ora in Montagna né nel Medio oriente ma in

una città che non vuole apparire sporca e vuole farsi bella per ospitare i giochi mondiali. La città per

l’occasione si impegna ad essere linda e pulita e si trasforma in un “campo di concentramento”,

sociale ed etnico, dove i bambini poveri e miserabili, i meninos da rua, sono considerati pericolosi

pidocchi urbani che possono infettare tutto e tutti.

Il Dr.Ricardo Paiva è uno dei coordinatori della Commissione Sociale sulla” infanzia

desaparacida” della quale fanno parte rappresentanti della Conferenza episcopale brasiliana e del

Consiglio medico federale. Fino a quando i bambini saranno “invisibili” gli abusi sulla infanzia <

da parte della polizia, delle gang, delle mafie continueranno>. La Commissione ha il compito di

sensibilizzare l’opinione pubblica sul dramma dei meninos da rua che scompaiano. Dice Lucia

Capuzzi, che ha intervistato Ricardo Paiva, che il fenomeno è abnorme in quanto < i dati sono

impressionanti. Le Nazioni Unite parlano di 50 mila minori scomparsi all’anno nel Gigante latino

americano,in media uno ogni quindici minuti. Il 40 per cento viene reclutato per il lavoro

schiavo,una analoga percentuale finisce nel mercato del sesso. Il resto svanisce nelle sale operatorie

clandestine dei trapianti illegali d’organi o in discariche dove i corpi senza vita sono gettati…..Gli

si è chiesto: ”Quanti bambini vengono uccisi? Quanti schiavizzati, abusati, martoriati? risposta:

”nessuno può dirlo perché nessuno sa esattamente quanti ne scompaiono. A fronte della stima Onu,

ci sono appena 369 casi denunciati…. In questa situazione è urgente creare “un osservatorio

permanente per monitorare in un registro nazionale” i casi dei bambini scomparsi, gestire le

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informazioni e controllare l’andamento del fenomeno (cfr. Lucia Capuzzi, BRASILE. Meninos da

rua, in Avv.14 ottobre 2015 p.17).