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Rassegna bibliografica La memoria della Resistenza Tradizione e nuove prospettive di Gaetano Grassi A suggerire il titolo di questi appunti su al- cune delle opere più recenti di memorialistica della Resistenza italiana sono state le osser- vazioni di Giovanni Falaschi nell’appendice bibliografica all’antologia da lui curata sulla Letteratura partigiano in Italia 1943-1945 (Roma, Editori Riuniti, 1984). Nelle note di introduzione al settore “diari, memorie, bio- grafie” (p. 291), l’autore osserva, anzitutto, che tali generi letterari sono quelli “pubblica- ti con maggiore continuità a partire dal 1945” (sia pure senza un “ritmo costante” di produzione, a causa del diverso andamento di molte variabili, quali “la situazione politi- ca favorevole o meno, la saturazione o meno nel pubblico del tema resistenziale, la fortu- na o meno del genere autobiografico, ecc.”); ponendo l’accento, in seguito, per ciò che qui maggiormente ci interessa, sul diverso carattere che assumono le memorie uscite dagli anni settanta in poi, quando si registra- no sia una “forte ripresa”, sia soprattutto una “fisionomia”, un nuovo taglio qualitati- vo di queste opere, caratterizzate da uno sforzo di rievocazione dei fatti piuttosto che delle atmosfere e improntate alla critica sto- rica piuttosto che alla pura e semplice testi- monianza: “Gli autori — sostiene Falaschi — sono più attenti agli aspetti documentari, all’esattezza storica dei fatti, poiché scrivono dopo che sono state pubblicate da altri delle ricostruzioni storiche degli avvenimenti di cui furono in qualche modo protagonisti e per- ciò si sentono in dovere di precisare, confu- tare o confermare le affermazioni altrui”. Tendenze dalle quali deriverebbero, secondo Io stesso autore, nei testi della più fresca me- morialistica un’originalità e una novità tali da farli apparire nettamente diversi da quelli usciti nei primi dieci anni della storiografia sulla Resistenza, caratteristici e tuttora validi, per riprendere il giudizio di Guido Quazza, “non solo e non tanto come fonte di dati, quanto come testimonianza diretta e veridica del clima morale e politico generale della lot- ta” (Resistenza e storia d ’Italia, Milano, Fel- trinelli, 1976, p. 8). Nel titolo a queste note — da leggere in chiave dubitativa — sono riassunti tutti i problemi che sorgono quando si voglia di- scutere, secondo i criteri adottati da Fala- schi, sulle memorie apparse negli ultimi anni. Seguendo tali metri di giudizio, infatti, ve- diamo allargarsi in modo considerevole, per i vari intrecci che si presentano, il quadro entro il quale inserire il discorso: ad esem- pio, perderebbe di valore ogni rigida distin- zione fra fonti storiografiche (dirette e indi- rette, mediate o immediate), rientrando nei compiti dello stesso autore attutirne i contrasti e segnalarne i punti d’incontro; mentre, nello stesso tempo, sarebbe senza significato una troppo netta contrapposizione fra saggistica e memorialistica, dal momento che proprio dal fatto di avere tenuto più o meno presenti i ri- sultati ottenuti dalla ricerca storica derivereb- be una maggiore o minore validità della testi- monianza scritta. Italia contemporanea”, settembre 1984, n. 156

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Rassegna bibliografica

La memoria della ResistenzaTradizione e nuove prospettive

di Gaetano Grassi

A suggerire il titolo di questi appunti su al­cune delle opere più recenti di memorialistica della Resistenza italiana sono state le osser­vazioni di Giovanni Falaschi nell’appendice bibliografica all’antologia da lui curata sulla Letteratura partigiano in Italia 1943-1945 (Roma, Editori Riuniti, 1984). Nelle note di introduzione al settore “diari, memorie, bio­grafie” (p. 291), l’autore osserva, anzitutto, che tali generi letterari sono quelli “pubblica­ti con maggiore continuità a partire dal 1945” (sia pure senza un “ritmo costante” di produzione, a causa del diverso andamento di molte variabili, quali “la situazione politi­ca favorevole o meno, la saturazione o meno nel pubblico del tema resistenziale, la fortu­na o meno del genere autobiografico, ecc.”); ponendo l’accento, in seguito, per ciò che qui maggiormente ci interessa, sul diverso carattere che assumono le memorie uscite dagli anni settanta in poi, quando si registra­no sia una “forte ripresa”, sia soprattutto una “fisionomia”, un nuovo taglio qualitati­vo di queste opere, caratterizzate da uno sforzo di rievocazione dei fatti piuttosto che delle atmosfere e improntate alla critica sto­rica piuttosto che alla pura e semplice testi­monianza: “Gli autori — sostiene Falaschi — sono più attenti agli aspetti documentari, all’esattezza storica dei fatti, poiché scrivono dopo che sono state pubblicate da altri delle ricostruzioni storiche degli avvenimenti di cui furono in qualche modo protagonisti e per­ciò si sentono in dovere di precisare, confu­

tare o confermare le affermazioni altrui” . Tendenze dalle quali deriverebbero, secondo Io stesso autore, nei testi della più fresca me­morialistica un’originalità e una novità tali da farli apparire nettamente diversi da quelli usciti nei primi dieci anni della storiografia sulla Resistenza, caratteristici e tuttora validi, per riprendere il giudizio di Guido Quazza, “non solo e non tanto come fonte di dati, quanto come testimonianza diretta e veridica del clima morale e politico generale della lot­ta” (Resistenza e storia d ’Italia, Milano, Fel­trinelli, 1976, p. 8).

Nel titolo a queste note — da leggere in chiave dubitativa — sono riassunti tutti i problemi che sorgono quando si voglia di­scutere, secondo i criteri adottati da Fala­schi, sulle memorie apparse negli ultimi anni. Seguendo tali metri di giudizio, infatti, ve­diamo allargarsi in modo considerevole, per i vari intrecci che si presentano, il quadro entro il quale inserire il discorso: ad esem­pio, perderebbe di valore ogni rigida distin­zione fra fonti storiografiche (dirette e indi­rette, mediate o immediate), rientrando nei compiti dello stesso autore attutirne i contrasti e segnalarne i punti d’incontro; mentre, nello stesso tempo, sarebbe senza significato una troppo netta contrapposizione fra saggistica e memorialistica, dal momento che proprio dal fatto di avere tenuto più o meno presenti i ri­sultati ottenuti dalla ricerca storica derivereb­be una maggiore o minore validità della testi­monianza scritta.

Italia contemporanea” , settembre 1984, n. 156

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Falaschi pone il caso delle Lettere a Mi­lano di Giorgio Amendola come tipico di tali nuove tendenze della memorialistica ed esemplificativo di questo impegno, anche da parte dei protagonisti-scrittori della lotta partigiana, alla ricostruzione storica e al confronto con i risultati della storiografia. Il libro, del 1973, rappresenta senza dubbio uno dei frutti più notevoli dello sforzo, an­cora in corso, condotto dai maggiori espo­nenti comunisti per dare alle stampe docu­menti e testimonianze sulla Resistenza. Ma, stando ai giudizi di Falaschi, non si ritrova nello stesso libro una chiara conferma del­la nuova “fisionomia” di una memorialisti­ca partigiana, basata tanto sul rapporto memoria-documentazione, quanto sulla ve­rifica della ricostruzione storiografica. Mentre il primo punto è facilmente ravvi­sabile nel sempre maggiore interesse dei memorialisti per le fonti documentarie (e non potrebbe essere diversamente dopo cir­ca trent’anni di lavoro in questo senso), il secondo non appare con altrettanta facili­tà. È lo stesso Amendola, del resto, a scri­vere nella sua introduzione: “La rievoca­zione degli avvenimenti che ho vissuto è fondata sui documenti ritrovati e sui miei ricordi senza che, tranne rare eccezioni, io abbia fatto alcuno sforzo particolare per controllare i ricordi e confrontarli con al­tre fonti” . E prosegue: “Non ho [...] uti­lizzato alcuna nota bibliografica, in appog­gio a questa od a quella versione dei fatti da me sostenuta. Potrei facilmente dispor­re di numerose pezze d’appoggio fornite dai libri. Ma non sarebbe una documenta­zione bibliografica esauriente, e criticamen­te controllata. Ho preferito perciò rinun­ciarvi del tutto” (Lettere a Milano. Ricordi e documenti 1939-1945, Roma, Editori Riuniti, 1973, pp. XII-XIII).

Il parere di Falaschi — contraddetto, co­me si vede, dalle affermazioni di chi do­vrebbe essere considerato il più notevole rappresentante del nuovo “corso” della me­

morialistica — ci sembra valido, piuttosto, per guidarci con sufficiente sicurezza nel­l’esame delle ultime opere di tal genere e per vedere come queste si accostino mag­giormente all’uno o all’altro dei poli estre­mi e dei limiti fra i quali risultano oscilla­re, a seconda che prevalga l’interesse stori­co o quello letterario, i diversi autori che si muovono in questo campo. Senza trova­re, beninteso, in nessuna delle testimonian­ze prese in considerazione un orientamento che escluda di per sé, per i risultati rag­giunti, l’uno o l’altro dei fini seguiti dagli autori: in particolare, quello storico-docu­mentario rispetto a quello narrativo-lettera- rio. A questo proposito, anzi, se è vero, come si legge nella “giustificazione” posta da Mario Spinella nell’introduzione alle sue Memorie della Resistenza (Milano, Mondadori, 1974, p. 7), che “questa nar­razione vuol essere semplicemente una te­stimonianza” e quindi “non si propone né fini letterari né di documentazione sto­rica”; è vero anche che “una testimonian­za in termini strettamente personali — scrive Elvio Guagnini nella recensione a tale opera (“Italia contemporanea”, luglio- settembre 1974, n. 116, p. 143) — “quan­do non sia mero sfogo di eventi privati o rievocazione di essi in chiave esasperata- mente lirica (ma tutto, al limite, è docu­mento!) può contenere una carica docu­mentaria di vasto respiro” . Ciò per ritor­nare all’importanza e al significato, unani­memente riconosciuto e sopra ricordato con le parole di Quazza, che può assumere anche tale documentazione di idee, atmo­sfere e stati d’animo, nello sforzo di rico­struzione storiografica del fenomeno resi­stenziale; e per ritrovare anche nelle me­morie più recenti, in una loro naturale e più o meno evidente progressione, la stessa motivazione politico-civile e lo stesso impe­gno letterario delle opere del primo decen­nio postliberazione. E per sottolinearne, d’altro canto, i limiti e le carenze proprio

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quando gli autori dimostrano di non aver te­nuto in poco o nessun conto i risultati conse­guiti sul piano della raccolta documentaria e della ricerca storiografica.

Il quadro che risulta dalla scelta di alcune opere indicative della produzione memoria­listica di questi ultimi anni — sono memorie uscite nel periodo 1979-1984 — appare quanto mai vario e composito. Tale varietà deriva, prima di tutto, com’è naturale, dalla diversa tipologia dei memorialisti: non solo, come nella maggior parte dei casi, esponenti politici, comandanti partigiani, militanti di partito, protagonisti in genere, a differente livello, della lotta di liberazione (come Pa- jetta e Stucchi, Cappellini e Nicoletto, Ben- tivegna e Pesce); ma anche alcuni isolati “rappresentanti” di altri gruppi di persone impegnate nella Resistenza, come 1’“inge­gnere” Riccardo Levi, lo scrittore Romano Bilenchi e il militare inglese Tilman, o chi (la Cuffàro Montuoro) si fa portatrice di sogni, speranze e dolori comuni a una larga schiera di donne, mogli e sorelle di antifa­scisti. Ma, come ci sembra più interessante rilevare, si tratta di opere che presentano una notevole molteplicità nei risultati conse­guiti anche per i diversi metodi adottati da­gli autori nella narrazione delle esperienze vissute.

È da porre in evidenza che il tono auto- biografico della narrazione, pur essendo il più usato e quello caratteristico e naturale della maggior parte dei libri di memorie, non è l’unico che s’incontra nelle opere esaminate. Con l’effetto di presentarci una vasta casistica di tale letteratura: da quella tradizionale e «classica», rappresentata co­me esempio significativo dal libro di Rosa­rio Bentivegna (Achtung Banditeli. Roma 1944, Milano, Mursia, 1983: “Il mio rac­conto” si legge nella prefazione “comunque interessa pochi fatti, anche se significativi [...]: i più importanti di quelli che ho visto e vissuto in prima persona”, p. 9), a quella di genere diverso, e a fatica collocabile nel

quadro generale dei volumi consultati, costi­tuita dalle “memorie” di Cappellini, Moschi e Tommasi De Micheli. Mentre per le prime — presentate sotto forma di un’intervista rilasciata al figlio Osvaldo — non si perde il taglio autobiografico proprio delle memorie (anche se non è facilmente ravvisabile il confine tra la testimonianza scritta e il rac­conto), per i due altri volumi è ancora più problematico riferirsi a tale carattere prima­rio: si perde chiaramente — anche se non è da sottovalutare l’apporto dato all’autore dai ricordi personali — nei Ragazzi della Fortezza (Pistoia, Istituto storico della Resi­stenza, 1983), in cui Fulvio Mochi narra “una storia del ’44 a Pistoia” e ricostruisce in forma narrativa, con il sussidio delle te­stimonianze orali dei partigiani del luogo, la vita di Aldo Calugi, giovane operaio fucila­to dai nazifascisti; si ritrova a fatica in Ar­mando racconta (Milano, Vangelista, 1982), ove la narrazione del comandante partigia­no Mario Ricci passa attraverso il filtro del­la recezione/rielaborazione dei fatti operato dalla curatrice dell’opera — filtro più o me­no efficace (come risulta dalla recensione di Luciano Casali e dalla replica della Tomma­si De Micheli: cfr. “Italia contemporanea”, settembre 1983, nn. 151/152, pp. 219-220 e marzo 1984, n. 154, pp. 168-169), ma, per ciò che qui c’interessa, in ogni caso indicati­vo di un eccessivo distacco fra due diversi piani di lavoro.

E infatti la lenta “gestazione” delle memo­rie ovvero il passaggio, più o meno difficile, dal ricordo personale alla stesura del raccon­to, mediante lo sforzo di rielaborazione criti­ca, di confronto fra le fonti diverse e di ve­rifica dei fatti, ci sembra senza dubbio un al­tro degli elementi di cui tenere conto — in certi casi una vera e propria condizione — per poter maggiormente apprezzare i risultati raggiunti. Sono le varie esperienze ritrovabili nelle opere di Bentivegna e Nicoletto, in par­te in quella di Stucchi e, sia pure con esiti più modesti, limitati alla “cronaca” dei fatti

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d’arme operati dalla 50a brigata Garibaldi in una zona del Biellese, nelle memorie di Bru­no Pozzato (Sui sentieri della 50“ Garibaldi, Biella, Giovannacci, 1979).

Per Anni della mia vita (a cura di P. Corsi­ni e G. Sciola, Brescia, Fondazione Michelet­ti, 1981) di Italo Nicoletto (Andreis), assi­stiamo ad un lavoro, a più mani, di lenta pre­parazione del testo: alla serie di testimonian­ze rilasciate dall’esponente comunista, “ri­scritte e rielaborate dall’autore in collabora­zione con Paolo Corsini e Gianni Sciola”, è seguito ad opera degli stessi curatori, oltre la “versione narrativa” , il controllo “alla luce della documentazione reperibile” della “ri­spondenza storico-archivistica” del racconto (cfr. Avvertenza, p. XIX). Gli esiti di questo lavoro si rivelano spesso vivaci e brillanti, so­prattutto nelle pagine che parlano della for­mazione civile e politica di Nicoletto e degli anni passati al confino e in esilio, dove con maggiore chiarezza ed autenticità si manife­sta la personalità dell’autore; meno in quelle della lotta partigiana, nelle quali non si sco­prono, rispetto agli scritti e alla documenta­zione sulle Langhe, né notizie di prima ma­no, né commenti e annotazioni interessanti sulla vita della formazioni: si vedano, per fa­re alcuni esempi, i passi sulle funzioni del commissario politico (pp. 171-174) e sui rap­porti con la popolazione contadina (p. 175), che sembrano ricalcare alla lettera brani di relazioni di Andreis di quegli anni sugli stessi argomenti. Senza con questo togliere alle memorie, viste nel loro complesso, quel tan­to di schiettezza e di genuinità che le rende una delle opere migliori della recente produ­zione.

Altrettanto si può ripetere per lo scritto di Rosario Bentivegna, pubblicato nel 1983 do­po essere stato tenuto lungamente nel casset­to. Come riferisce nella premessa l’autore — l’uomo dei Gap che si rese protagonista di al­cuni degli episodi di maggiore rilievo della resistenza romana (si pensi all’attentato di via Rasella) — queste memorie nascono da

una relazione che egli inviò al partito comu­nista all’indomani della liberazione: “La mia ‘biografia’ fu consegnata allora, schematica ma ricca di elementi personali e dei ‘fatti’ che mi era occorso di vivere durante l’occupazio­ne. Fatti, luoghi, date, orari, uomini fissati subito sulla carta perché la memoria non mi tradisse” (p. 4). Anche per Bentivegna, dun­que, si parla di una successiva rielaborazio­ne, dalla prima versione dei fatti a quella de­finitiva data alle stampe, senza peraltro che a tali fasi di costruzione dell’opera intervenga­no persone diverse dall’autore, a sicuro van­taggio dei risultati finali del lavoro: “Il gros­so pacco di cartelle da me scritte — continua Bentivegna — è stato ridimensionato almeno tre volte, in tutti questi anni. È stato depura­to di sensazioni e fatti personali, e soprattut­to dell’enfasi che era stata quasi inevitabile nella prima stesura” (ivi). Ne guadagna il ta­glio del racconto che si distingue da altri ana­loghi per l’abbondanza dei dati oggettivi e l’estrema attenzione ai singoli particolari del­le azioni di guerra: “Mi sono posto di fronte a loro — si legge nella parte finale dell’intro­duzione — senza la pretesa di fare una Sto­ria, ma con tutta l’onestà possibile di chi, co­me me, è educato dalla sua professione di medico a guardare ai fatti nella dimensione della ricerca scientifica” (p. 9). Preoccupa­zione, s’intende, dettata in modo prevalente dalla necessità di rispondere alla svariata let­teratura — anche a quella scandalistica —, alle note polemiche e alle molteplici versioni che sono state date in questo quarantennio delle azioni gappistiche romane; ma che tor­na utile, pur sempre, per la ricchezza del materiale fornito, alla ricostruzione di una realtà storica rimasta tuttora in larga parte oscura.

Secondo le tendenze di alcuni degli autori più rappresentativi finora presi in esame, an­che l’impegno di Giovanni Battista Stucchi, diretto alla narrazione delle proprie esperien­ze di guerra (Tornim a baita. Dalla campa­gna di Russia alla repubblica dell’Ossola, Mi­

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lano, Vangelista, 1983), non prescinde dal confronto con la letteratura e la documenta­zione disponibile (e in particolare, i memo­riali di militari italiani e le carte in suo pos­sesso sul Comando generale Cvl e sul Co­mando militare della zona libera). Ciò che distingue piuttosto l’opera di Stucchi dalle altre affini sono il carattere divulgativo del racconto, l’esposizione piana e sincera dei fatti e le pagine di commento, di “riflessioni etico politiche” (prefazione di Giorgio Ro- chat, p. 5), le “considerazioni finali” — ri­maste purtroppo nella fase preliminare di ap­punti, per la scomparsa dell’autore prima del completamento del lavoro — sul significato della Resistenza, vista nei suoi riflessi sulla formazione dello Stato democratico.

Come si vede, non in tutte le opere consul­tate la Resistenza è considerata dai memoria­listi come il punto centrale, meritevole di maggiore attenzione, del racconto; in alcuni casi, anzi, rappresenta un semplice capitolo dell’autobiografia (Cappellini, Nicoletto) o una parte certo importante delle memorie (come avviene in quelle di Stucchi) solo in vi­sta delle conclusioni generali e del testamen­to politico e civile che è alla base del lavoro. Allo stesso modo nei Ricordi politici di un ingegnere (Milano, Vangelista, 1981) di Ric­cardo Levi — anch’egli scomparso —, che ri­guardano l’arco di tempo dagli anni venti agli anni sessanta ovvero gli anni delle vicen­de pubbliche italiane dalla marcia su Roma alla nazionalizzazione dell’energia elettrica, la figura del protagonista acquista maggiore risalto là dove i casi dell’ “ingegnere” preval­gono su quelli del “politico” . Ci riferiamo agli anni dell’anteguerra passati da Levi al- l’Olivetti (dove, fra l’altro, progettò il primo modello di una calcolatrice scrivente) e a quelli del dopoguerra, trascorsi prima a To­rino, nella fase più critica della ripresa indu­striale come amministratore delegato di una fabbrica di trecento operai; poi a Genova nel settore siderurgico (dopo un periodo di prati­ca all’estero), alla Nuova San Giorgio; infine

a Roma come amministratore provvisorio della Società romana di elettricità, in attesa del passaggio dell’impresa alla gestione pub­blica. Si tratta di vari episodi di una sorta di cronaca dell’industria italiana, scritta in uno stile quanto mai nitido ed efficace, rispetto ai quali sembrano passare in secondo piano le memorie — altrettanto lucide, ma meno ori­ginali — del periodo clandestino.

Lo stesso discorso sulla centralità o meno del tema Resistenza può ripetersi anche per altre opere viste. Nel Marco racconta (Il Pei marchigiano nelle memorie di un suo diri­gente, 1921-1956, Ancona, Ed. Nuove Ricer­che, 1983), per esempio, Cappellini ha dedi­cato un intero capitolo (il quarto) all’orga­nizzazione della lotta partigiana nelle Mar­che, esaminata però soprattutto nel quadro complessivo della storia del Pei nella regione dal 1921 al 1956, secondo quello che ci sem­bra costituire lo scopo precipuo dell’opera. E con l’effetto di avere evitato nella trattazione degli argomenti sulla Resistenza locale il pro­blema specifico del riscontro dei vari punti controversi oggetto degli studi finora portati a termine. Gli ultimi racconti di Giovanni Pesce, d’altro canto, vere e proprie “storie personali” e stralci di vita vissuta, dall’emi­grazione in Francia alla guerra di Spagna, dalla lotta gappista al dopoguerra fino alle vicende più recenti degli anni settanta, ag­giungono poco o nulla, e nemmeno potreb­bero, alle pagine indimenticabili già scritte a suo tempo da uno dei maggiori protagonisti della guerriglia partigiana in città (Il giorno della bomba. Racconti, Milano, Mazzotta, 1983). Né altro di nuovo, tanto per le notizie fornite, quanto in merito allo stile usato nelle memorie, si può ritrovare nelle rimanenti opere prescelte che pure hanno al centro del­la narrazione, o come sfondo centrale di que­sta, gli anni della Resistenza: ci riferiamo al­la Cronaca di un valdostano (Aosta, Istituto storico della Resistenza, 1983) di Lino Bine!, organizzatore del movimento partigiano nel­la valle fino al maggio 1944, poi arrestato e

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deportato nei campi di lavoro tedeschi; e a II sapore del sale (Milano, Gorlini, 1980) di Er­silia Cuffàro Montuoro, ove l’autrice rac­conta in stile romanzesco, ma su basi reali, le esperienze vissute da una donna di una fami­glia di antifascisti a Milano, nei contatti con la polizia della repubblica di Salò, e in Sviz­zera nei campi di accoglienza. Più significati­ve per l’immediatezza dei resoconti le memo­rie di “un maggiore inglese tra i partigiani” della zona di Belluno, Harold Tilman (Mis­sione Simia, Belluno, Comune, Istituto stori­co della Resistenza, 1981), interessanti per la novità e l’originalità del racconto — pubbli­cate però nell’immediato dopoguerra (1946) ed ora giustamente tradotte in italiano, sia pure in parte, a cura dell’Istituto per la storia della Resistenza locale; e i testi della sezione “Documenti” , apparsi nel 1945-1947 sulla ri­vista “Società” , fondata da Romano Bilen­chi, che ne cura l’attuale raccolta Cronache degli anni neri (Roma, Editori Riuniti, 1984) e scrive nell’introduzione alcune divertenti pagine di ricordi sulla nascita del giornale: scritti, inviati da partigiani, soldati e semplici cittadini, che si segnalano per la drammatici­tà della narrazione e analoghi — per fare un confronto con testi recenti — alle testimo­nianze sull’8 settembre 1943 spedite a “l’Uni­tà” in occasione del concorso del 1983 (“Raccontate il vostro 8 settembre”).

Tali note sui fini principali e sui risultati dei vari racconti potrebbero essere di qualche inte­resse nel discorso generale sulle testimonianze scritte, se servissero a individuare le tendenze della “nuova” memorialistica sulla guerra par- tigiana non tanto a inserire la narrazione del fenomeno resistenziale in temi più ampi e di più largo respiro della storia italiana (i memo­riali sono per implicita natura rievocazioni di fatti, impressioni ed esperienze legate a mo­menti particolari della vita di chi racconta), quanto — per ritornare sugli appunti iniziali — a impegnarsi in discorsi critici utili a chiarir­ne aspetti ancora poco noti o affermazioni che mancano di un’adeguata documentazione.

Si vedano a questo proposito, le memorie di Gian Carlo Pajetta, Il ragazzo rosso (Mi­lano, Mondadori, 1983). Non desideriamo qui sottolineare, e con dispiacere, il fatto che terminano il 9 settembre del 1943, all’inizio di un periodo che vide Pajetta protagonista di alcuni degli episodi di maggiore rilievo nella storia della Resistenza italiana (ci basta citare per tutti lo svolgimento e gli esiti della “missione al Sud”, sulla quale sarebbe di particolare interesse avere la versione attuale di Mare): è probabile, e certo auspicabile, la pubblicazione di un secondo volume di me­morie. Ma quelle che abbiamo sotto gli occhi ci sembrano deludenti proprio nell’ultimo capitolo (“Da galeotto a partigiano”) che do­vrebbe servire da introduzione al possibile, futuro libro di ricordi. Siamo al momento della ripresa di contatto con l’organizzazione di partito, dopo undici anni di carcere: i qua­rantacinque giorni, è vero, Pajetta li trascor­se a piede libero solo in parte, dal 21 agosto in avanti e sotto gli obblighi della libertà vigi­lata; devono essere, però, giorni di discussio­ne e di intensa vita politica, nei quali il mili­tante Pei riallaccia i rapporti con i “vecchi” compagni e con la nuova realtà del paese. Si pensi che “l’Unità” di Milano aveva già po­sto le prospettive dell’unità nazionale, si era­no avuti poco prima i grandi scioperi di ago­sto, si erano delineate all’interno dei comitati antifascisti le diverse posizioni dei partiti: aspetti tutti di una complessa realtà dalla quale erano emersi “in mice” tutti i motivi di fondo e i grandi temi della futura lotta politi­ca. Nel libro è molto difficile ritrovarli o solo leggerli fra le righe. “Una scappata a Torino mi permise di riprendere contatto con l’ap­parato di partito e di rendermi conto della si­tuazione” (p. 286): e allora vediamo l’incon­tro con Scappini, leggiamo l’esposizione — qui riportata “grosso modo” (p. 288) — del­la linea del Pei, assistiamo alla scena del compagno che esorta Pajetta a “guardarsi intorno” e a “riprendere contatto col mon­do” . Nulla di tutto ciò che si agita intorno e

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nel partito; nulla delle fervide discussioni — alle quali ha partecipato anche Pajetta — che hanno accompagnato sempre ogni tentativo di ricostruire questo periodo storico. Pajetta accenna solo brevemente a possibili ragioni di critica: “Ci sarebbe più di una critica da muovere a quanto fecero le nostre organizza­zioni o a quanto fece ognuno di noi personal­mente” (p. 288); ma non ritiene opportuno esprimerle.

Sono i limiti che si trovano spesso nei libri di memorie (nel caso di Pajetta caratterizzate, ol­tre tutto, dalla mancata ripresa dei documenti, “per un’analisi che sarebbe più filologica che politica” , come scrive a p. 110) e che confer­mano i nostri dubbi sulla presenza di una nuo­va memorialistica, stimolata dall’esigenza del­la verifica e del confronto con i prodotti della ricerca storiografica.

Gaetano Grassi

Sistema politico e istituzionidi Piero Aimo

Sarebbe impresa davvero temeraria preten­dere di dar conto, in una breve recensione, delle mille più pagine che costituiscono i vo­lumi in oggetto (Gianfranco Miglio, Una re­pubblica migliore per gli italiani, Milano, Giuffrè, 1983, pp. 157, lire 10.000; “Gruppo di Milano”, Verso una nuova Costituzione, Milano, Giuffrè, 1983, t. I, pp. XV-532, t. II, pp. 533-1042, lire 55.000) e non incorrere nelle censure del curatore che ammonisce, preventivamente e non senza ragione, di leg­gere attentamente l’intera opera prima di dar avvio alle discussioni e alle critiche. D’altro canto è possibile ritenere che l’interesse pre­valente dei lettori della presente rivista si ri­volga non tanto alla sottigliezza delle argo­mentazioni giuridiche, alla raffinatezza delle interpretazioni costituzionali che pure carat­terizzano i contributi presi in esame, ma alla ispirazione politico-ideologica di fondo che è sottesa a tali analisi e che informa e guida le stesse ipotesi riformatrici. Ciò premesso, si eviterà di scendere sul terreno delle argomen­tazioni prettamente giuridiche, molte delle quali, peraltro, opinabili, come è legittimo nella scienza del diritto e come riconoscono,

in diversi momenti, gli stessi autori, e si evi­denzieranno principalmente gli aspetti che consentono di mettere in luce e, di svelare l’ottica politica, la filosofia complessiva in cui si collocano le numerose ed articolate proposte ventilate dal “Gruppo di Milano” .

Formato da Giovanni Bognetti, Serio Ga­leotti, Giorgio Petroni e Franco Pizzetti e di­retto da Gianfranco Miglio, tale gruppo era stato incaricato dal Ceses di Milano di inda­gare se il cattivo funzionamento del sistema politico italiano dipendesse, e in qual misu­ra, dalla Costituzione del 1948 e dai suoi strumenti istituzionali. L’analisi di tali di­sfunzioni e l’individuazione di alcuni princì­pi costituzionali cui sarebbe lecito imputare una diretta, ancorché non esclusiva, respon­sabilità in tal senso, hanno indotto i ricerca­tori a non limitare i loro sforzi all’attività diagnostica ma, vista la stretta connessione dei problemi e degli argomenti, ad indicare, e fissare le coordinate di una salutare, anche se non indolore terapia. Tutti i contributi af­fiancano così all’esame della situazione con­creta dello sviluppo delle istituzioni politi­che, a partire dall’entrata in vigore della Co­

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stituzione, un esteso ed articolato progetto di revisione costituzionale che dovrebbe final­mente bloccare l’attuale degenerazione del sistema politico, sociale ed economico. La sostanziale concordanza di vedute, fra i ri­cercatori, sulle cause dei mali che affliggono il nostro paese ha fatto sì che le riforme pro­spettate si collocassero, pur nella diversità del tono e delle sfumature, in una visione or­ganica e tendenzialmente omogenea. Fattore coagulante ed unificante dell’intera ricerca risulta poi, indubbiamente, VIntroduzione di Gianfranco Miglio (trasfuse nel volume cita­to) che esplicita senza veli o reticenze ma con la perentorietà ed assolutezza che contraddi­stinguono il suo linguaggio, l’orientamento di fondo, l’opzione originaria che accompa­gna e sorregge, quale insostituibile architra­ve, l’impalcatura complessiva del progetto. Tale è la franchezza, talvolta la brutalità, con cui Miglio espone i suoi concetti, peral­tro già abbastanza noti anche ai non speciali­sti, che ben difficilmente potrebbe negarsi la valenza fortemente conservatrice, se non ad­dirittura autoritaria, che guida il suo pensie­ro. Sperando che l’epiteto non sia offensivo (ma l’autore non ritiene tale, ad esempio, quello di ‘gaullista’), certo oggi meno di ieri, e pur nella consapevolezza della obsolescen­za del concetto teorico, sarebbe arduo non collocarlo fra gli esponenti della ‘destra’. Il leitmotiv delle sue argomentazioni è infatti costituito dalla critica frontale e senza riserve alle convinzioni politico-ideologiche e giuridi- co-costituzionali espresse dalla sinistra italia­na, marxista e non, dal dopoguerra ad oggi. Questa posizione, del tutto legittima e sorretta anzi da una indubbia capacità di persuasione logica, si palesa, da un lato, nell’accoglimento di forme di legittimazione del potere diverse da quelle che fanno esclusivo riferimento al criterio elettivo-rappresentativo, e, dall’altro, nella adesione piena ad un ‘decisionismo’ esa­sperato, di ascendenza ‘schmittiana’, che por­ta ad una critica assoluta di ogni concezione (debole) del potere come mediazione sociale,

che par coincidere, per Miglio, tout court con la ‘democrazia consociativa’.

Il carattere estremo di queste tesi è tale che non sempre i ricercatori ne condividono, in toto, l’impostazione; anzi talvolta, ed è il ca­so di Pizzetti, si assiste ad un vero e proprio ripensamento, ad un prendere le distanze (cfr. le repliche finali) da alcuni dei paradig­mi della concezione migliana. Significativa è, a questo riguardo, la critica ad uno dei meto­di prospettati da Miglio per vincere le resi­stenze di coloro che, traendo cospicui profit­ti e rendite politiche dell’attuale deformazio­ne del sistema, non vogliono accedere ad una revisione della Costituzione. Accanto ad una procedura ‘legale’ (da attuarsi mediante un progetto di legge di revisione costituzionale, di iniziativa popolare, teso — fra l’altro — alla modifica dell’art. 138 e che prescrivesse la sottoposizione del nuovo testo a referen­dum popolare), Miglio non esclude il ricorso ad una procedura ‘legittima’, tale da com­portare una sia pure lieve “lacerazione” delle norme costituzionali. In altri termini, nel ca­so in cui le Camere lasciassero cadere o re­spingessero la proposta, il Presidente della Repubblica potrebbe sottoporre a referen­dum il progetto stesso, pun non avendo, ex lege, tale potere. Sul punto non si possono non condividere le apprensioni di Pizzetti che giudica il suggerimento un esplicito invi­to a compiere un ‘attentato alla Costituzio­ne’, ai sensi dell’art. 90; appare inoltre stra­no che un ‘realpolitiker’, quale Miglio si de­finisce, ipotizzi, in concreto, la realizzabilità di un simile scenario, per lo meno nelle con­dizioni politiche attuali.

Pur senza le asprezze polemiche di Miglio anche nel contributo di Bognetti, rigoroso sotto il profilo dell’ermeneutica giuridica, emerge una lettura delle vicende politiche ed economiche dell’ultimo trentennio alquanto parziale e tale da rendere non sempre accet­tabili le istanze riformatrici che, partendo da tali presupposti, tenderebbero a ripristinare un particolare modello di democrazia socia­

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le, previsto dalla Costituzione e sostanzial­mente disapplicato, secondo l’autore, spe­cialmente a partire dagli anni sessanta. Al di là dei rilievi più strettamente giuridici che pur si potrebbero fare alle proposto di Bo- gnetti (si pensi al problema della predetermi­nazione, a livello normativo, dei confini del modello economico costituzionale, e sul qua­le interviene lucidamente Augusto Barbera nelle Opinioni collocate nel tomo secondo) non si può non rimarcare la visione mani­chea che contrassegna il suo saggio. Pare che tutti i guasti e le carenze della nostra econo­mia siano da addossare all’azione “distrutti­va” del movimento sindacale, che lo squilibrio del sistema sia frutto, principalmente, dello Statuto dei lavoratori; in definitiva, che tutti i nodi irrisolti, i mali dell’economia italiana degli anni sessanta e settanta. Certo oggi non c’è chi non veda e riconosca gli errori (la di­latazione senza controlli e criteri di compati­bilità della spesa) e le illusioni (una program­mazione rigida e centralizzata delle risorse) che segnano la via italiana al Welfare State, ma le critiche esposte da Bognetti più che le modalità degli interventi hanno come bersa­glio i princìpi stessi dello Stato sociale. A questo punto appare forse superfluo sottoli­neare la colpe e la miopia della stessa classe imprenditoriale quali fattori altrettanto de­terminanti della crisi del sistema economico, o quanto meno di una parte di essa, così co­me gli aspetti positivi ed irrinunciabili che pur sono ascrivibili a quel periodo e che han­no contribuito alla crescita sociale, civile e democratica del paese. Non stupisce poi che Bognetti, coerente con tali premesse ideolo­giche, giunga ad immaginare (pur offrendo, al contempo, una alternativa più soffice alla sua proposta) un vero e proprio smantella­mento delle attuali organizzazioni sindacali ridotte al rango di “libere associazioni per la tutela degli interessati”, creando appositi or­ganismi rappresentativi eletti dai lavoratori e autorizzati, in via esclusiva, a negoziare i contratti collettivi e a proclamare gli sciope­

ri. Consapevole, tuttavia, delle difficoltà cui andrebbero incontro le proposte complessive da lui formulate per la prevedibile ostilità dei sindacati stessi e delle forze di sinistra, Bo­gnetti conclude il suo contributo con un invi­to, sostanzialmente accettabile, ad aprire una discussione che porti alla definizione di un nuovo “patto sociale costituzionale” tale da rendere il modello economico, disegnato nella Carta costituzionale, vincolante per tutti e non soggetto ad interpretazioni di co­modo.

Ad una completa ristrutturazione degli ap­parati costituzionali si accinge poi Serio Ga­leotti, il quale partendo da una stringente ed impietosa analisi (bassa) capacità decisionale del nostro sistema politico, offre appunto una serie articolata di rimedi alla ‘debolezza’ del governo e alla ‘ingovernabilità’ delle isti­tuzioni. Qualche dissenso si potrebbe, peral­tro, formulare in ordine alle “concause isti­tuzionali” del ridotto livello di decisionalità del sistema individuate dall’autore: l’eccesso della riserva di legge, la riforma dei regola­menti parlamentari del 1971, il depotenzia­mento delle funzioni legislative imputabili al governo, se si configurano come strumenti di freno e di controllo nei confronti della spedi­tezza dell’azione governativa, rappresentano pur sempre dei mezzi garantistici — di cui difficilmente si potrebbe disfare — a disposi­zione del Parlamento. L’ottica valutativa di Galeotti appare, a questo riguardo, un po’ troppo sbilanciata a favore delle ipotesi ‘de­cisionistiche’ ed efficientistiche che caratte­rizzano l’introduzione di Miglio e, più in ge­nerale, tutta la ricerca del Gruppo di Milano e che rappresentano, come è noto, uno degli aspetti salienti, e più discutibili, dell’attuale stile di governo di Bettino Craxi.

Accantonate le soluzioni di tipo presiden- zialistico, sia nella sua visione ‘pura’ norda- menricana che in quella ‘mista’ francese (del­la V Repubblica), Galeotti mostra di preferi­re una via diversa per la razionalizzazione del modello costituzionale, il cosiddetto “gover­

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no di legislatura” , avanzata più volte in que­sti ultimi anni nei dibattiti sulle riforme isti­tuzionali. Elementi qualificanti di tale pro­posta sono l’investitura popolare del Primo Ministro, contestuale all’elezione dell’As­semblea legislativa, e i meccanismi ‘rafforza­ti’ che disciplinano la cessazione della legisla­tura, con simultanea decadenza del governo e scioglimento dell’Assemblea stessa. Questa profonda modifica della vigente forma di go­verno non può non riverberarsi sulla compo­sizione e sulle funzioni di altri organi costitu­zionali sia per la coerenza interna del model­lo, sia per garantire, ulteriormente, il perse­guimento degli obiettivi stabilizzanti che si sono prefissati. Si spiegano così il supera­mento dell’attuale bicameralismo paritario con l’introduzione di una seconda camera in­tesa quale organo rappresentativo delle re­gioni e dotata di competenze specifiche, ed il mutamento del sistema elettorale proporzio­nale con uno diverso di tipo misto. Una spin­ta decisionistica, questa, che verrebbe co­munque controbilanciata e compensata da un adeguato sistema di robuste garanzie e di efficaci freni, attraverso una revisione del ruolo e dei compiti della Corte Costituziona­le, del Presidente della Repubblica, del pote­re giudiziario e dell’impianto generale dei controlli.

Come spesso succede quando si discute sulle proposte globali di riforma delle istitu­zioni è difficile valutare in anticipo, a tavo­lino, i possibili esiti delle riforme stesse; a ragione Galeotti, in sede di replica al com­mento di Giuliano Urbani, ricorda quanto labili e incerti siano gli scenari che gli studio­si possono immaginare ai fini di una simula­zione del funzionamento concreto del model­lo. Tuttavia qualche osservazione può essere fatta e non tutte quelle che avanza G. Urbani paiono così scorrette o ingiustificate come forse Galeotti lascia intendere. Ci si può chiedere, ad esempio, se un esteso rafforza­mento dei meccanismi decisionali, pur in presenza dei richiamati checks and balances,

sia effettivamente in grado di assicurare quella stabilità ed efficienza dell’esecutivo, ritenute dagli autori della ricerca come l’o­biettivo fondamentale da raggiungere per frenare il declino del sistema politico. È pro­babile, come ha sottolineato in altra sede Gianfranco Pasquino, che esso incrementi, anziché attenuare, la ‘presa’ dei partiti sulle istituzioni di governo; così pare condivisibile il timore, esternato da Domenico Fisichella, relativo alle possibilità di aggregare attorno a tali istanze il necessario consenso di tutte le forze politiche e sociali. La proposta ha co­munque il pregio di prefigurare, in modo or­ganico e sistematico, uno schema unitario ed alternativo di gestione del potere che può dunque risultare assai utile e fare chiarezza nel dibattito in corso ove, molto spesso, ci si limita a suggerire, in modo generico, riforme di questo o quel tassello istituzionale senza tener conto dell’impianto complessivo che si vuol emendare e delle reciproche intercon­nessioni che legano le sue singole parti.

Infine crea non poche perplessità l’ipotesi, suggerita dallo stesso Galeotti in un altro ca­pitolo della ricerca, circa una diversa disci­plina costituzionale dei partiti politici, so­prattutto nella versione “alta” (sottoposizio­ne dell’organizzazione interna dei partiti al controllo di una sezione speciale della Corte di Cassazione; garanzia statutaria del ruolo preminente dei gruppi parlamentari e del Pri­mo Ministro ecc.); quella “bassa” , che pare abbia incontrato maggiormente il favore del gruppo di ricerca, prevede interventi meno incisivi e controlli meno penetranti. In pro­posito sono da assecondare le riserve di Au­gusto Barbera che parla di larvate forme di “democrazia protetta” , specie qualora si pre­tendesse di stabilire, con legge, le condizioni per ottenere nel funzionamento interno dei partiti stessi un maggiore tasso di democrati­cità.

Interessante appare poi lo sforzo di Pizzet- ti di rispondere alla notevole sfida posta alla stabilità del sitema politico dalla crescente

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pressione degli interessi corporati e settoriali sulle istituzioni di governo e rappresentative abolendo il Cnel, organo obsolescente e ste­rile, e dando vita ad un terzo corpo costitu­zionale, il Consiglio deH’economia produtti­va (Cep), da affiancare, seppur con compiti, strutture e ruoli ben definiti, all’Assemblea legislativa e alla Camera delle regioni. Il ri­schio di accedere alle istanze, mai sopite, del­le correnti politiche più conservatrici per una rappresentanza organica degli interessi pro­fessionali e di categoria era forte, ma Pizzet- ti, conscio del pericolo, ha esplicitamente escluso forme di partecipazione diretta di ta­le organo alla funzione legislativa. Cionono­stante sembrano pertinenti le critiche espres­se da Gustavo Zagrebelsky (e riportate da Pizzetti) circa la legittimità democratica del­l’ipotesi di istituzionalizzazione delle forze sociali e sulla sua pratica realizzabilità. Su questo ultimo punto, anzi, l’autore riconosce che i problemi che si aprono sono forse mag­giori di quelli che si intendono risolvere. Le modalità di individuazione delle componenti sociali ed economiche, di designazione dei rappresentanti delle categorie e di distribu­zione dei voti (del peso specifico) fra le varie componenti, costituiscono, infatti, l’ostaco­lo maggiore per chi voglia tradurre in concre­to tali princìpi astratti. Ed è su questo sco­glio, giova ricordarlo, che naufragò in As­semblea costituente, il tentativo della De di fare del Senato la camera rappresentativa de­gli interessi di categoria.

Un’ultima osservazione va fatta e riguarda il contributo di Petroni sulla riorganizzazio­ne della pubblica amministrazione che com­pare nel tomo secondo dell’opera. Non v’è dubbio — e il Gruppo di Milano ne è consa­pevole — che una riforma del sistema politi­

co che pretendesse di limitarsi ad una mera ristrutturazione degli organi costituzionali, dei ‘rami alti’ del sistema, sarebbe destinata a fallire ove non si ponesse mano, conte­stualmente, ad una profonda ed incisiva revi­sione degli apparati burocratici. Il richiamo al noto Rapporto Giannini ed al nuovo mo­dello di pubblica amministrazione che esso prefigura, è corretto e puntuale; ci si potreb­be tuttavia domandare se appare ancor oggi praticabile una simile visione riformatrice di stampo ‘illuministico’, tutta inscritta all’in­terno dei tradizionali schemi strutturral-fun- zionali. Studi ed ipotesi recenti hanno posto in dubbio la validità di tale ottica e suggerito, anche sulla scorta di nuovi contributi ed esperienze straniere, di muoversi secondo criteri alternativi.

Il riferimento d’obbligo è ad una public policy analysis applicata alla riforma della pubblica amministrazione; in altri termini, sintetizzando al massimo idee ben più vaste e ancora in fase di elaborazione concettuale, alle predisposizione di modelli conoscitivi e predittivi che puntano ad una ricostruzione sistemica delle procedure e dei meccanismi organizzativi, degli input e output, degli ef­fetti di feedback che si producono all’interno delle complesse attività degli apparati buro­cratici.

In conclusione, una volta depurato delle componenti più marcatamente ideologiche, il ponderoso lavoro di Gruppo di Milano può comunque costituire un utile contributo al dibattito sulle riforme istituzionali che, con i lavori della commissione parlamentare bicamerale, sembra giunto finalmente, dopo anni di discussioni spesso improduttive, ad una svolta decisiva.

Piero Aimo

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Rappresentanza degli interessi e corporativismodi Maria Malatesta

La produzione politologica degli ultimi anni ha posto al centro della lettura delle trasfor­mazioni della società a capitalismo avanzato e della crisi che stanno attraversando, il pro­blema dei gruppi di interesse e delle forme della loro rappresentanza all’interno del si­stema politico. Gruppi di interesse e rappre­sentanza sono concetti di consolidata tradi­zione nell’ambito della politologia. Hanno ora assunto una valenza euristica particolare grazie al loro inserimento all’interno del con­cetto di corporativismo (o neocorporativi­smo), al quale molti autori hanno dato una portata analitica tale da essere utilizzato per descrivere i mutamenti globali delle società liberal-democratiche contemporanee. Lo spessore teorico del dibattito è innanzitutto rilevabile attraverso il confronto con la tradi­zione politologica costituita dalle teorie clas­siche sul pluralismo. Da questo punto di vi­sta la lettura in chiave corporativa della poli­tica degli interessi rappresenta una “rivolu­zione paradigmatica” rispetto al modello pluralistico. Esso postula, come indica il ter­mine stesso, la presenza nella società di nu­merose fonti di potere e di controllo oltre al­lo Stato. Nella società differenziata, i molte­plici interessi di base vengono rappresentati da organizzazioni in grado di esercitare for­me autonome di potere. L’organizzazione autonoma degli interessi impedisce così la formazione di una struttura sociale stratifi­cata in poche classi omogenee (Theodore J. Lowi, The end o f liberalism. The second re­public o f the United States, New York, Nort- ton and Company, 1979).

Secondo il modello pluralista classico i gruppi di interesse costituiscono non solo il luogo primario di formazione delle domande sociali e politiche ma permettono la realiz­

zazione di una scala procedurale di suddivi­sione dei compiti, secondo la quale ai partiti è attribuita in seconda istanza la funzione di aggregazione delle domande e alla pubblica amministrazione la produzione di provvedi­menti come risposta finale del processo.

Ph. Schmitter, in un saggio del 1974, che può considerarsi l’origine della “ripresa neocorporativa”, ha individuato la rottura epistemologica tra l’approccio pluralistico e quello corporativo nel concetto di monopo­lio della rappresentanza. Al processo deci­sionale politico-parlamentare tende a sosti­tuirsi un meccanismo di Policy-making ba­sato sulla contrattazione tra i grandi gruppi di interesse (Phlippe C. Schmitter, Ancora il secolo del corporativismo?, in La società neocorporativa, a cura di M. Maraffi, Bo­logna, Il Mulino, 1981). La regola di mag­gioranza, come ha osservato anche C. Offe, non è più l’unico procedimento decisionale: essa tende ad essere esautorata dal compro­messo tra organizzazioni di interesse e cor­porazioni settoriali (Claus Offe, Legi'turna­zione politica mediante decisione a maggio­ranza?, in N. Bobbio, C. Offe, S. Lombar- dini, Democrazia, maggioranza e minoran­ze, Bologna, Il Mulino 1981). All’interno di questa nuova fenomenologia lo Stato non è più un oggetto di competizione tra i gruppi, ma assume la funzione di regolamentazione, autorizzazione o repressione delle associa­zioni, che spesso sono ammesse alla forma­zione delle politiche pubbliche. I gruppi di interesse, a loro volta, non sono più un semplice luogo di ricezione delle domande della base, ma entrano attivamente nella produzione stessa degli interessi. La logica del monopolio attraversa anche le associa­zioni, che vincolano i loro iscritti, impeden-

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do al tempo stesso la formazione di gruppi concorrenti.

La differenza tipologica tra corporativi­smo e pluralismo resta tuttora l’unica con­cezione stabile condivisa dai politologi (Ger­hard Lehmbruch, Corporativismo liberale e governo dei partiti, in La società neo­corporativa, cit.). Non solo permangono dubbi nei riguardi stessi del termine, che evoca cupi ricordi di soluzioni organicisti­che realizzate con la coercezione. Anche la distinzione tra corporativismo di Stato, o dall’alto e corporativismo societario, pro­dotto generalmente da domande interasso­ciative e da processi interorganizzativi dal basso, necessita ulteriori approfondimenti e verifiche. Resta comunque l’incertezza do­vuta al fatto che il termine viene sovente usato per delineare una tendenza storica ge­nerale, quella del crescente ruolo delle orga­nizzazioni nella società, anche quando ciò non dà luogo ad effettivi sviluppi corporati­vi, che, secondo Crouch, sono definibili so­lo alla luce dello scambio tra potere politico e consenso (Colin Crouch, Stato, mercato e organizzazione: la teoria neocorporativa, “Stato e mercato”, agosto 1981).

Nella definizione data da Ph. Schmitter, secondo il quale il termine va usato nell’ac­cezione esclusiva di processo di intermedia­zione degli interessi, il corporativismo è strettamente legato al problema della rap­presentanza. Due sono gli elementi compre­si nella definizione: il riconoscimento e il controllo del governo; la struttura del siste­ma di intermediazione degli interessi. In ba­se a questo assunto Schmitter stabilisce una differenza tra corporativismo inteso come “formazione delle politiche di pressione”, ossia una forma particolare di organizzazio­ne di interessi contrapposti che entrano a far parte del processo politico (G. Lehm­bruch, Il neo-corporativismo in una pro­spettiva comparata, in La politica degli in­teressi nei paesi industrializzati, a cura di G. Lehmbruch e Ph. C. Schmitter, Bologna, Il

Mulino, 1984); e corporativismo inteso co­me “concertazione”, ossia metodo di for­mazione di politiche pubbliche (soprattutto nel campo della politica dei redditi), nelle quali i gruppi di interesse partecipano alla formazione del processo politico solo come consulenti o parti in causa. A differenza della politica di pressione, in cui le decisioni assumono forma parastatale, nella concer­tazione le autorità pubbliche gestiscono di­rettamente, anche se influenzate dai gruppi di interesse, i criteri di applicazione delle politiche (Schmitter, Neocorporativismo: ri­flessioni sull’impostazione attuale della teo­ria e sui possibili sviluppi della prassi, in La politica degli interessi nei paesi industrializ­zati, cit.). Il corporativismo inteso come in­termediazione degli interessi si dilata in una prospettiva storica all’interno della quale la rappresentanza degli interessi viene analiz­zata nelle sue modificazioni in rapporto a quelle dello Stato (si vedano a questo ri­guardo, D. Feldman, in L ’organizzazione degli interessi nell’Europa occidentale, a cu­ra di S. Berger, Bologna, Il Mulino, 1983).

È anche in una prospettiva storica che Schmitter utilizza la nozione di intermedia­zione degli interessi per analizzare il proble­ma della governabilità nelle società indu­striali a capitalismo avanzato. Queste sono caratterizzate dal mutamento dei processi di intermediazione politica, costituito dall’af- fermarsi del “perseguimento implacabile dell’interesse soggettivo, correttamente e ra­zionalmente inteso, per mezzo di organizza­zioni specializzate e funzionalmente diffe­renziate” (Ph. Schmitter, Intermediazione degli interessi e governabilità nei regimi contemporanei dell’Europa occidentale e dell’America del Nord, in L ’organizzazione degli interessi, cit.). L’introduzione di ele­menti di coercizione e di collusione nel rap­porto tra autorità pubbliche e gruppi di in­teresse ha modificato tutti i meccanismi di intermediazione tra Stato e società, dando avvio a quel processo di perdita di distinzio­

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ne tra attività pubblica e privata che Haber­mas aveva messo in luce nei suoi aspetti più generali già agli inizi degli anni sessanta (Jur­gen Habermas, Storia e critica dell’opinione pubblica, Roma-Bari, Laterza, 1977). Per Schmitter la governabilità di un sistema tardo-capitalistico non è verificabile misu­rando la perdita di potere delle istituzioni rappresentative, ma studiando il modo in cui gli interessi vengono mediati tra la società e lo Stato. Il declino del ruolo del Parlamento e dei partiti è il sintomo, non la causa dell’in­governabilità delle società contemporanee. Questa non è prodotta dall’eccesso di do­mande sociali rivolte al sistema, che provo­cherebbero un “sovraccarico” sulle istituzio­ni rappresentative, ma dal modo in cui la proliferazione degli interessi soggettivi e del­le domande d’accesso garantite, l’acuirsi del senso di ineguaglianza tra gli stessi gruppi, l’insoddisfazione delle risposte statali trova­no espressione e mancata risoluzione nelle strutture nazionali di intermediazione degli interessi.

Nonostante il mutamento registratosi so­prattutto negli ultimi quindici anni nel siste­ma della rappresentanza politica, caratteriz­zato da fenomeni definiti da Alessandro Piz- zorno come: l’indistinzione programmatica, la difficoltà della riproduzione, l’emergere di nuove identità collettive, gli istituti tipici del pluralismo, ossia i partiti, continuano a so­pravvivere. Secondo Pizzorno è possibile spiegare questo dato apparentemente con­traddittorio utilizzando il concetto di scam­bio politico. Concetto che l’autore condivide con Crouch e che ha utilizzato in passato per definire compiutamente la forma assunta dalle relazioni industriali negli ultimi ven- t ’anni, quando la contrattazione collettiva è stata sostituita da uno scambio che avviene nel mercato politico, nel quale la minaccia non è costituita dall’interruzione della conti­nuità del lavoro, ma dal ritiro del consenso sociale (Colin Crouch, Relazioni industriali ed evoluzione del ruolo dello Stato nell’Eu­

ropa occidentale, Alessandro Pizzorno, Scambio politico e identità colletettiva nel conflitto di classe, in Conflitti di classe in Europa. Lotte di classe in Europa dopo il ’68, a cura di C. Crouch, A. Pizzorno, Mila­no, Etas Libri, 1977). Le transazioni che du­rano nel tempo e che coinvolgono un vasto numero di attori sociali, necessitano la pre­senza di mediatori che garantiscano la fidu­cia posta in essi. “Soltanto in quanto ripro­duce risorse (legami di fiducia) necessari allo scambio politico, il consenso elettorale dato ai diversi partiti è funzionale al sistema poli­tico nel suo complesso” . La fine della logica oppositiva non costituisce, per Pizzorno, una mutazione rispetto agli assetti preceden­ti, ma uno svolgimento delle premesse con cui la rappresentanza era nata, nel senso che viene a completarsi in questo modo la nego­ziabilità generalizzata delle domande politi­che. Nell’evoluzione, e non nella rottura del­le forme della rappresentanza, Pizzorno in­dividua comunque una crescita di instabilità, causata dall’indebolimento della “salvaguar­dia dell’esclusione” (Alessandro Pizzorno, Il sistema pluralistico di rappresentanza, in L ’organizzazione degli interessi, cit.).

L’ipotesi dello scambio politico si diffe­renzia, da un lato, dalla posizione di Luh­mann, secondo la quale la funzione dei parti­ti risiede nella loro capacità di ridurre la complessità sociale e di fornire sostegno alle decisioni vincolanti prodotte nella sfera am­ministrativa (Niklas Luhmann, Stato di dirit­to e sistema sociale, Napoli, Guida, 1978; Teoria politica nello stato del benessere, Mi­lano, Angeli, 1983). Dall’altro dalle linee ela­borate nell’ambito nella cultura neomarxi­sta, secondo cui la sopravvivenza dei partiti è legata alla funzione di produzione di consen­so e di legittimazione all’attività dello Stato (Claus Offe, Lo Stato nel capitalismo matu­ro, Milano, Etas Libri, 1977; Luigi Ferrajoli, Danilo Zolo, Democrazia autoritaria e capita­lismo maturo, Milano, Feltrinelli, 1978; Silvio Gambino, Stato dei partiti e partiti-Stato. Il

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dibattito politico-costituzionale fra ingegne­ria costituzionale e raggiustamenti pragmati­ci, “Critica del diritto”, 1980, nn. 16/17). La cultura neomarxista si è inserita all’inter­no del dibattito sul corporativismo con posi­zioni che costituiscono per molti aspetti una critica alle interpretazioni in esso dominanti. Nelle società tardo-capitalistiche la crisi di governabilità, secondo Offe, ha origine nel tentativo di risolvere il problema della ripro­duzione con due sistemi che si escludono a vicenda, ossia con la privatizzazione della ri- produzione e con la socializzazione. Il neo­corporativismo è la strada scelta dalle autori­tà pubbliche per tentare di conciliare la con­traddizione insita nella struttura dello Stato tardo-capitalistico, prodotta dalla necessità di mantenere le forme della rappresentatività di massa assieme alla funzione di accumula­zione capitalistica (Claus Offe, Ingovernabi­lità e mutamento delle democrazie, Bologna, Il Mulino, 1982). La strategia neocorporati­va risponde ai medesimi criteri sui quali è ar­ticolata la politica sociale dello stato­capitalistico, ossia l’esigenza di rispondere alle domande del lavoro e del capitale “in maniera solidale”, collegandoli l’uno all’al­tro (Claus Offe, Gero Lenhard, Teoria dello stato e politica sociale, Milano, Feltrinelli, 1979). Il corporativismo è comunque produt­tore di diseguaglianza. L’istituzionalizzazio­ne della rappresentanza funzionale comporta sempre uno scambio, che è diverso a seconda delle entità collettive interessate. Nel caso dei sindacati lo Stato persegue, attraverso il cor­porativismo, un obiettivo di controllo; in quello delle organizzazioni del capitale, un obiettivo di delega di una parte del potere statale a gruppi privati. In questo modo lo Stato ottiene il duplice scopo di dislocare il conflitto in termini di gruppi, problemi e tat­tiche, alleggerendo il sovraccarico causato da un eccesso di domande e di partecipazione e riproducendo al tempo stesso la differenzia­zione di classe tramite lo “svolgimento asim­metrico” della depoliticizzazione. Il corpora­

tivismo così non è solo un assetto che garan­tisce il mantenimento dell’equilibrio tra rap­presentanza e controllo, ma anche una for­ma di occultamento della logica di classe adeguata alla struttura dello stato tardo- capitalistico (Claus Offe, L ’attribuzione del­lo status pubblico ai gruppi di interesse: os­servazioni sul caso della Germania occiden­tale, in L ’organizzazione degli interessi, cit.). Il problema degli effetti di lungo periodo del corporativismo è stato affrontato soprattut­to da quegli autori che lo hanno studiato nel campo delle relazioni industriali. Queste hanno registrato una profonda modificazio­ne dovuta non solo all’intervento dello Stato nella determinazione dei salari, ma anche al- l’affermarsi di una struttura sindacale cen­tralizzata e burocratizzata, che costituisce il presupposto della contrattazione tripartita. La centralizzazione negoziabile ed organiz­zativa implicita nei sistemi industriali regola­ti politicamente è considerata da molti autori come un elemento destinato a provocare nel tempo forti tensioni tra base e vertice. Sui fattori di instabilità interna del corporativi­smo sono d’accordo sia autori come Sabel, che negano la possibilità di relazioni stabili tra sindacati ed organizzazioni del capitale (Charles F. Sabel, La politica interna dei sin­dacati, in L ’organizzazione degli interessi, cit.); sia i neomarxisti, per i quali il corpora­tivismo verrà incrinato dalla ripresa degli obiettivi di classe all’interno della base e dal­le spinte provenienti dalle marginalità non integrate nell’assetto corporativo.

Bordogna e Provasi hanno sostenuto in un recente libro che la centralizzazione sindacale in un contesto di scambio politico non produ­ce necessariamente delle spinte contrarie da parte della base. Per dare una valutazione rea­listica degli effetti del corporativismo all’in­terno delle organizzazioni sidacali bisogna te­nere in considerazione, da un lato, gli elementi forniti dalla teoria degli incentivi, secondo la quale la partecipazione non è più — come po­stulava la teoria pluralista — l’unione sponta­

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nea di interessi comuni, ma una scelta basata su di un calcolo di opportunità. Dall’altro è importante riflettere sui casi in cui l’assetto corporativo ha dimostrato di funzionare sta­bilmente. Secondo i due autori l’esperienza svedese, con la sua adesione al modello Rehn, dimostra che è possibile conciliare pie­no impiego e stabilità dei redditi, evitando di colpire la dinamica salariale attraverso l’ap­plicazione della politica dei redditi. In questo caso la presenza di un sindacato fortemente centralizzato, che partecipa alle decisioni macroeconomiche, unito ad un massiccio e sostenuto intervento dello Stato nell’econo­mia, costituiscono una garanzia per modifi­care le politiche economiche che mantenendo il principio dell’egualitarismo e del solidari­smo, senza intaccare l’unità e la coesione del movimento sindacale. Il problema di fondo del corporativismo — e la conseguente debo­lezza della sua teoria — consiste, a giudizio di Bordogna e di Provasi, nel postulare uno Stato come luogo funzionale dell’integrazio­ne corporativa, quando nella maggior parte delle società occidentali la fine del compro­messo di classe keynesiano e la frammenta­zione del mercato hanno prodotto un pe­sante deficit di autorità dello Stato. Come ha osservato Pizzorno (// sistema pluralisti- co di rappresentanza, cit.), è difficile anche parlare di rappresentanza, quando l’intrec­cio tra Stato e interessi particolaristici, tra

pubblico e privato è tanto stretto. I due au­tori sostengono così che il corporativismo, più che una strategia razionale, sia un di­spositivo messo in atto per pura necessità di sopravvivenza, in assenza delle condizioni necessarie alla realizzazione di un vero plu­ralismo politico. La fine dell’equilibrio key­nesiano, provocata dal fatto che la politiciz­zazione del conflitto non è stata accompa­gnata dalla rimozione del mercato come luogo principale della strutturazione degli interessi, può portare come conseguenza ad una restrizione della democrazia per assicu­rarsi maggiore funzionamento della società e più ampia libertà di mercato. Per evitare di incorrere in questa soluzione, caldeggiata dalle correnti neoliberiste e neoconservatri­ci, Bordogna e Provasi sottolineano l’ur­genza di individuare dei meccanismi di azione sociale che siano “aperti” e “consi­stenti” , in grado di conciliare gli interessi di parte con quelli generali. Meccanismi aperti e consistenti, governati da un unico principio: “che le regole vengano rispettate o cambiate, ma non svuotate dall’interno forzandole a proprio favore, senza assu­mersi l’onere (e il rischio) politico di una loro negoziazione esplicita” (Lorenzo Bor­dogna, Giancarlo Provasi, Politica, econo­mia e rappresentanza degli interessi, Bolo­gna, Il Mulino, 1984).

Maria Malatesta

Dalla stona scienza alla stona materiadi Laura Capobianco Guido D ’Agostino

Il libro di Scipione Guarracino, Guida alla storiografia e didattica della storia (Roma, Editori Riuniti, 1983, pp. 171, lire 12.000) pubblicato nella collana delle “Guide di Pai- deia” diretta da Roberto Maragliano, si ri­

volge “all’insegnante impegnato nella ricerca di una nuova dimensione professionale e desi­deroso di tradurre in saper fare il patrimonio di progetti e di suggestioni didattiche accumu­lato negli ultimi tempi” .

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In esso si tende a chiarire il rapporto tra la ricerca storica e le forme di trasmissione del­la stessa, tra la ‘storia-scienza’ e la ‘storia- materia’ poiché, come avverte il Maragliano nella presentazione, solo una lettura ingenua può portare a credere che quanto più “cresce il patrimonio di risorse metodologiche ed epistemologiche di un sapere, tanto più risul­tano chiari e perseguibili gli intenti e gli indi­rizzi operativi della sua didattica” (p. 5). In realtà, Guarracino fa notare come per un lunghissimo periodo si è ritenuto che la sto­ria non avesse i requisiti per possedere auto­nomie e specifiche finalità pedagogiche e per essere considerata una disciplina scolastica, e come tale riconoscimento sia alfine avvenuto solo in vista di finalità del tutto esterne (for­mazione del buon cittadino, sviluppo del senso di umanità e di solidarietà ecc.).

La Guida nel suo complesso si sviluppa su due piani: il primo, di carattere culturale, ri­guarda il lungo percorso che i modelli di ri­cerca storiografica e quelli di trasmissione hanno realizzato dal Quattrocento a oggi; l’altro, rivolto alla parte professionale del lettore, comprende proposte di trasforma­zione della prassi didattica ancora oggi, a quel che sembra, chiusa all’innovazione che la ‘nuova storia’ e la pedagogia del curricolo potrebbero invece apportare. Il secondo pia­no è, a parere di chi scrive, largamente più coinvolgente e persuasivo, anche se nell’eco­nomia del libro la parte di carattere culturale è nettamente prevalente. Non mancano nel­l’insieme momenti di grande interesse anche se l’impressione generale è di una certa fati- cosità espositiva dovuta al tentativo di tenere insieme problemi che vengono sviluppati in maniera non lineare e su un arco di tempo molto ampio, in un numero di pagine peral­tro piuttosto contenuto.

Come e quando la storia è diventata una disciplina scolastica? L’insegnamento della storia, se pure solo di quella antica, e non co­me disciplina a sé stante, è presente nella Ra­tio studiorum dei gesuiti, come appare chia­

ramente nel prototipo dei manuali gesuitici, il Ristretto delle Historié del mondo di Ora- tio Torsellini, ma le finalità sono del tutto esterne; la storia infatti serve a fornire ele­menti necessari all’erudizione in un corso di studi orientato a giustificare gli eventi in fun­zione della teologia. In quest’epoca, la sta­gione umanistica ha già dato i suoi frutti ma la perdita dell’indipendenza politica ha or­mai ridotto la storiografia dalle vette del mo­dello etico-politico del Valla, del Bruni e del Machiavelli a un repertorio di exempla di un superficiale moralismo; l’erudizione ha pre­so il sopravvento sulla critica delle fonti, pre­valgono gli interessi di tipo formale, e gli stessi repertori di exempla in qualche caso ra­sentano il grottesco.

Sul finire del Seicento il lungo dibattito sul significato della storia animato dai ‘pirroni­sti’, e la querelle sugli antichi e sui moderni, portano alla crisi della storia antica come modello, ma anche della storia sacra e del suo quadro di riferimento di storia universa­le, mentre l’opera degli antiquari e degli eru­diti arreca profonde innovazioni di metodo. La pratica scolastica rimane al contrario, nello stesso periodo, ancorata ai vecchi mo­delli. Nel manuale di Nicolas Lenglet Dufre- snoy (.Metodo per studiare la storia), che è del 1713, si legge che la storia viene insegnata agli adolescenti “per confermarli nella reli­gione” e “che sempre bisogna vedere nelle ri­voluzioni delle grandi Monarchie l’opera del­la Provvidenza” (p. 58). Non saranno dun­que le innovazioni della storiografia a modi­ficare l’insegnamento della storia e a trasfor­marla in una disciplina scolastica autonoma, ma gli avvenimenti. Dalla Rivoluzione fran­cese in poi, si va affermando infatti il concet­to di ‘pubblica istruzione’, completato poi con quello di ‘educazione nazionale’, l’inse­gnamento della storia appare sempre più un utile strumento di formazione ideologica.

Questo processo risulta in tutta evidenza in Francia, dove le successive riforme scola­stiche (1838, 1852, 1863, 1882) accompagna­

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no con un parallelismo non sempre netto, gli sviluppi della storiografia, e dove i successi della storia critico-erudita vanno ormai con­solidando un modello di storia nazionale al­l’interno di una visione di storia ‘generale’ che privilegia sempre più gli aspetti politico­diplomatici. Modello che via via si afferma anche in Germania dove, con qualche antici­po rispetto alle altre nazioni, si era ampia­mente diffusa la concezione scientista della storia, e nella stessa Italia, sia pure con una certa sfasatura cronologica dovuta al ritardo del conseguimento dell’unità nazionale e a certe persistenze culturali.

Il finire del secolo vede dovunque affer­marsi un modello storiografico incentrato sul concetto di nazione e di progresso, secon­do cui la storia d’Europa si pone come storia della civiltà e quella della nazione come tap­pa precipua di questo sviluppo. Al riguardo, l’autore rileva come non sia avvertita nel­l’Ottocento la contraddizione tra un’ideolo­gia eurocentrica e patriottica e una concezio­ne scientista della storia.

Questo modello storiografico, fondato in realtà su una sequenza abbastanza lineare: “libertà, Stato-nazione, democratizzazione della politica, scienza, benessere materiale, valorizzazione dell’immanenza” (p. 106) è durato in Italia fino agli anni sessanta, “su­perando i limiti pensabili della sua sopravvi­venza” (p. 106), mentre in altri paesi ha avu­to una durata minore. Sono stati certamente i fascismi, la fine del colonialismo, la secon­da guerra mondiale a spingere verso altre di­rezioni, ma la storiografia aveva già dal suo interno modificato il proprio paradigma. Si­gnificativa a tale riguardo è la data del 1929, l’anno di fondazione delle “Annales”, che va assunta, a parere dell’autore, piuttosto che come momento iniziale quale punto di arri­vo, crocevia di percorsi intrapresi all’inizio del secolo soprattutto dagli storici dell’eco­nomia e più tardi dagli scienziati sociali, e da cui sono derivati problemi che sono ancora oggi ben lungi dall’essere risolti. Allo stato

attuale, Guarracino ritiene che non si possa più parlare di una storia ma di una sua mol­teplicità e di almeno quattro modi diversi di praticarla, secondo si parli di storia narrati­va, quantitativa, strutturale o della mentali­tà. Saggiamente, ma anche procurando una certa delusione al lettore, l’autore rinunzia a trarre da questa situazione conclusioni unita­rie; “nella coesistenza dell’eterogeneo e nella sempre più spinta specializzazione della ri­cerca storica... non c’è più grande speranza di comprendere come frammenti di una stes­sa storia fatti disparati come il clima, l’am­biente, la tecnica, la vita materiale, gli atteg­giamenti” (p. 119). Emerge tuttavia con chiarezza un’indicazione di metodo che na­sce proprio dalla esistenza delle molte ‘nuove storie’; sembra infatti oggi assolutamente impossibile praticare l’insegnamento della storia senza distinguere finalità interne ed esterne, nel senso che è proprio dalla molte­plicità e delle tematiche e delle metodologie che nasce la necessità di “fornire all’allievo una adeguata coscienza delle operazioni compiute dallo storico” (p. 120).

L’indicazione su esposta è d’altra parte del tutto coerente con quanto alcuni filoni della pedagogia sono andati affermando nell’ulti­mo trentennio. In particolare le teorie del curricolo (interessanti a parere dell’autore soprattutto i sistemi tassonomici di Benja­min, Bloom e Gagné), la cui applicazione mette in crisi anche la storia narrativa così come qualsiasi altra disciplina organizzata in maniera normativa e centralizzata piuttosto che essere una programmata e razionale or­ganizzazione di successive esperienze cultu­rali. La programmazione curricolare consen­te invero di articolare tutta una serie di tra­guardi parziali, lontani sia dagli obiettivi massimi ma sfuggenti (formazione del senso della storia), che da quelli minimi e insoddi­sfacenti (conoscenza dei dati), oltre ad offri­re criteri di valutazione atti a fuoriuscire dal soggettivismo e dal verbalismo. La parte conclusiva del libro, forse la più utile, è dedi­

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cata alla proposta di un modello alternativo ed è preceduta, secondo un procedimento che è tipico di tutta l’opera, da un’esposizio­ne “delle vie che in concreto ha preso negli ultimi decenni la critica del modello didattico tradizionale” (p. 17). I modelli alternativi so­no riconducibili, sia pure con una certa ap­prossimazione, a due, entrambi critici del concetto di ‘storia generale’: il primo incen­trato sulla conoscenza del presente e come strumento di formazione civica, nonché in funzione dei bisogni proposti dalla vita. Sot­to questo ultimo profilo è evidente il presup­posto che la storia non si insegna e non si co­nosce, ma si usa. L’altro modello è quello fondato sulla ricerca che, nelle varie versioni di storia locale e di microstoria, è comunque l’unica strada per opporsi veramente alla ‘storia generale’. Non del tutto persuasiva e non sempre chiara è la posizione del Guarra- cino rispetto alla storia-ricerca; egli scrive da un canto che “l’unica, e questo non è certo poco, legittimità della storia-ricerca sta nella sua capacità di smontare le procedure con cui gli storici lavorano sui documenti, costi­tuiscono ipotesi, avanzano spiegazioni” (p. 137). Dall’altro, poi, definisce “stravagan­te... l’idea che il luogo privilegiato della ri­cerca sia l’ambiente, la storia locale” (p. 137). Cosa significa allora l’aggettivo ‘stra­vagante’, a che cosa si riferisce, dal momen­to che solo un po’ più avanti si legge che “vi sono, certamente, vari sensi in cui la ricerca di storia locale è altamente raccomandabile” (p. 137)? Se — come sostiene Guarracino — la storia ‘generale’ è nata culturalmente co­me astrazione e proprio per questo motivo tutti i modelli di ‘nuova storia’ vi si sono op­posti, appare poi inconciliabile l’affermazio­ne successiva per cui la ricerca di storia locale spetta unicamente agli specialisti.

In realtà, sia il discorso sulla storia ‘gene­rale’ che quello relativo alla ricerca storica e alla storia locale risultano in qualche punto contraddittori e sembrano scontare una sorta di irenismo dialettico-culturale. A nostro av­

viso, la ricerca degli specialisti e la ricerca nell’ambito della didattica della storia hanno finalità diverse quanto ai risultati, ma in ogni caso se la seconda si muove sulla scorta delle operazioni proposte dalla pratica del currico­lo, ne compie evidentemente di omogenee ri­spetto a quelle praticate dagli storici di pro­fessione. Da ciò ne consegue oltretutto che è indifferente se il terreno di applicazione sia dato dal ‘locale’ o venga scelto in base alle possibilità di pratica didattica. Tuttavia l’ambito locale per alcune operazioni offre certamente le più vantaggiose opportunità, e metodologiche e contenutistiche, ed è quindi compito di una corretta programmazione curricolare stabilire come, quando e che tipo di rapporti si devono cercare con altri e di­versi settori e in altre direzioni, senza alcuna esclusione preconcetta.

Non meno sconcertante è leggere, a breve distanza, la proposta alternativa alla storia narrativa — “una multidisciplinarietà da co­struire intorno a problemi determinati che nel loro insieme non fanno la storia” — (p. 139), coniugata alla non esclusione dall’inse- gnamento di alcuni momenti della vecchia storia ‘generale’, non perché importanti ma perché “punti cruciali del funzionamento e della trasformazione dei sistemi sociali stori­camente dati” (p. 139). Un’aggiunta franca­mente assurda, considerati i presupposti e le ipotesi da cui si vuol partire; metodologica­mente dannosa, poi, perché interromperebbe l’apprendimento fondato su operazioni di ri­cerca incompatibili con contenuti stabiliti a priori e che comunque appartengono ad altre scelte ideologiche e ad altri paradigmi storiografici.

Qui, evidentemente, il nostro disaccordo con le tesi dell’autore rischia di essere totale; ci sembra in effetti che la stessa riflessione sul nesso fra ricerca in didattica e informa­zione sul terreno delle ‘istituzioni di storia’ o del sapere storico sistematico abbia da tempo imboccato strade diverse, come d’altra par­te, in altri luoghi del volume Guarracino mo­

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stra di sapere. La storia ‘generale’, datata e quale comunemente la si intende, non ha ra­gione di esistere; va interamente ripensata e resa altro da ciò che ancora oggi si vuole che sia. È questo un punto di enorme spessore epistemologico al quale non si possono far corrispondere sforzi, anche meritori, di tra­sformazione degli attuali ‘manuali’.

Resta quindi la questione altrettanto grossa del curricolo; non può evidentemente trattar­si di un nuovo ‘feticcio’ adoperato perché prenda il posto di altri e precedenti, né può essere la classica ‘cartina di tornasole’a ri­prova della reazione avvenuta, né l’altrettan­to classica, ma famigerata, ‘camicia di forza’ entro cui si imbrigliano volontà e tensioni di­rompenti. Sussidio e supporto di libertà nella sperimentazione, necessario codice di riferi­mento per una pratica che non può non esse­re che flessibile e modulare, ma insieme coinvolgente e contagiosa. Non dunque ri­cerca ‘selvaggia’, se questo è il timore, ma ricerca in libertà (guidata) e con il gusto di praticarla. La proposta del Guarracino è più vicina invece alle tecniche dello ‘smon­taggio’ e assai sensibile ai problemi della va­lutazione.

Pur apprezzando, in definitiva, l’invito dell’autore alla razionalizzazione e regola­mentazione dell’intervento didattico sulla base di una tassonomia (nel caso specifico, ricalcata da quella di Bloom), non ne condi­vidiamo l’uso e l’unicità dell’espediente. Del resto, l’ipotesi a sei livelli da lui presentata appare ben costruita sui piano teorico ma più debole su quello applicativo. L’esempio che se ne fornisce (da Marc Bloch, Come e perché finì la schiavitù antica, in Lavoro e tecnica nel Medioevo, Bari, Laterza, 1959), illustra i passaggi successivi previsti dalla tassonomia stessa (conoscenza dei dati, con­cettualizzazione, elaborazione, analisi, spie­gazione, valutazione) ma in troppi casi non sembra tenere in alcun conto le difficoltà che l’insegnante può trovare ad esempio di fronte al problema delle fonti. A tale ri­

guardo infatti egli si domanda: “Bloch cita una gran quantità di passi tratti da docu­menti dei secoli V-IX; che genere di infor­mazione ci si può attendere rispettivamente dalla vita di un santo, dagli atti dei beni di grandi abbazie del IX secolo?” (p. 155), dando per scontato che è possibile reperire dappertutto fonti di tale genere e che, am­messo pure che si sia in possesso della fonte si possa tranquillamente realizzare un’ope­razione di lettura che richiede invece abilità e requisiti rari anche presso gli storici di professione e tali che non necessariamente debbono possedere studenti ed insegnanti. Ma detto tutto questo, ci corre l’obbligo di ringraziare Guarracino perché ancora una volta, con i suoi interventi sulla storia e sul­la didattica della stessa, ci offre l’opportu­nità di sforzarci sempre più alla ricerca di punti di incontro e di soluzioni, accettabili, comuni.

Nella fattispecie, ci ha consentito la messa a fuoco di divergenze, ma anche permesso di ri­badire che nella scuola c’è bisogno assoluto di previsione, di programmazione, di conse­quenzialità nelle scelte degli obiettivi, nel­l’adozione degli strumenti e nell’assunzio­ne di responsabilità in ordine ai percorsi ope­rativi lungo i quali si ritiene doversi muovere, quali che essi siano concretamente. Strategie didattiche non casuali, insomma, che partano da punti fermi e che arrechino sicurezza e ve­rificabilità, dopo aver comportato tormenti e insicurezze salutari quanto dolorose, ma a condizione — e ciò crediamo sia ancor più ne­cessario, se possibile — che dalla parte degli insegnanti si rinnovi l’impegno a ritrovare la voglia e la capacità di operare, la concreta e motivata tensione all’acquisizione intrecciata del sapere e del saper fare, nonché al loro con­tinuo affinamento. Tenendo conto, infine, del fatto che non è vero che “in ogni epoca la coscienza storica sia solo una ideologia subi­ta” (p. 161) e che al contrario “essa può anche essere considerata un obiettivo raggiungibile consapevolmente” , prima ancora di chiederci

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a quali valori l’insegnamento debba tendere dobbiamo operare una precisa opzione di­dattica perché anche da qui, se non in manie­ra prioritaria, nasce o almeno può nascere,

non già il ‘comune senso storiografico’, ma un civile, autentico ‘senso della storia’.

Laura Capobianco Guido D ’Agostino

Politica e politologia

Ernesto Bettinelli, A ll’origine della democrazia dei partiti. La formazione del nuovo ordina­mento elettorale nel periodo costituente (1944-1948), Mila­no, Comunità, 1982, pp. 406, lire 30.000.

Sicuramente interessante e promettente il tema affrontato da Bettinelli in questo denso e minuzioso volume. In realtà, nonostante la cospicua messe di studi recenti sulla Costituen­te e in generale su momenti e problemi specifici connessi al “cambio” politico e istituziona­le di ormai quaranta anni fa, un’indagine sulla formazione dell’ordinamento elettorale ma­turata tra il 1944 ed il 1948 può fornire utili contributi di novi­tà, e persino di originalità, se condotta a certe condizioni.

Essenziale, ad esempio, par­rebbe mantenere ben fermo, per così dire, l’argomento, di per sé sgusciarne e insidioso, bloccandolo nella sua dimen­sione e nel suo orizzonte più peculiari, impedendo l’accaval­lamento di piani teorici e di di­scorso che ha come conseguen­za quella di fare “sfumare” il tema stesso, renderlo seconda­rio rispetto a contesti ritenuti più forti o comunque dichiarati esplicitamente sostanziali e quindi primari. Non si discute qui, ovviamente, se sia vero o meno, giusto o sbagliato, rite­

nere il problema di fondo quel­lo del ruolo, organizzazione e rilevanza costituzionale dei par­titi nel nuovo ordinamento del­lo Stato, e valutare come meta- discorsi (p. 39), pure funzioni di quello, il duro, articolatissi­mo dibattito in materia di leggi elettorali attraverso cui giunge­re a formare prima l’Assem­blea costituente e successiva­mente le assemblee rappresenta­tive ordinarie. Meno ancora si intende contestare la legittimità di approcci di più ampio respiro pluridisciplinare; se ne fa piut­tosto una questione di opportu­nità scientifica e tecnica insie­me, e più generale, visto che da una simile impostazione è deri­vato, di necessità, un libro ri­dotto all’osso nella parte dedi­cata al testo, ed elefantiaco, in­vece, in quella riservata alle note. Così sono proprio queste ultime in definitiva a ospitare la ricca di­samina della molteplici fonti del dibattito stesso, e a costituire per­tanto la sezione più fruttuosa del­l’opera, nonché la più risponden­te all’oggetto della trattazione. E di qui, ancora, emergono con tut­ti i loro innegabili pregi, l’idea e la relativa realizzazione da parte del­l’autore, della globale rivisitazio­ne e ricostruzione, di un iter in qualche maniera “duplicato” , dapprima dalla caduta del fasci­smo alla Costituente e quindi nel­la fase della formazione del Parla­mento repubblicano, e approdato faticosamente, nello scontro cru­ciale tra uninominalisti e propor-

zionalisti, al “nuovo” ordina­mento elettorale, tuttora, tra l’altro, largamente vigente.

Leggi elettorali e principi costituzionali in materia di vo­to si materializzano, retrospet­tivamente, sotto gli occhi del lettore, nei momenti alti e nelle pieghe più riposte della discus­sione e del confronto, pure dai toni sovente accesamente pole­mici; nelle prese di posizione di autorevoli esponenti delle prin­cipali correnti e opinioni del tempo, si trattasse di “tecnici” o di politici; nell’impatto, infi­ne, tra teoria e realtà degli eventi che scandiscono la diffi­cile transizione dal fascismo al­la Repubblica. L’estensione del voto alle donne, la riforma del­le leggi elettorali amministrati­ve, la proporzionale pura adot­tata per la Costituente, il voto di preferenza, la disputa sul “voto obbligatorio”, la legge elettorale per la Camera dei de­putati, la rinuncia a un sistema elettorale effettivamente diver­sificato per il Senato: questi i punti salienti trattati, in un am­bito che rappresenta un signifi­cativo terreno di verifica per l’irrisolta questione della “con­tinuità/rottura” nella più re­centi storia italiana. In questo caso, di “continuità” se ne vede molta, forse troppa, come di trasformismo, del resto, che ne è il corollario, quando non l’es­senza stessa: ma forse è stato proprio questo a orientare in maniera tanto netta l’attenzione

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dello studioso sulle forme di organizzazione interna dei par­titi (antiproporzionalisti all’in­terno, mentre erano favorevoli alla proporzionale all’esterno), sui modi del loro radicamento sociale, della loro collocazione tra cittadini e Stato.

E il risultato è stato, a nostro avviso, che nell’illustrazione del nesso storico e del rapporto giustamente ravvisato tra leggi elettorali e “democrazia dei partiti” ci si sia sbilanciati, pri­vilegiando il secondo termine del binomio: un pedaggio in più, si direbbe, pagato al siste­ma delle istituzioni formalizza­te, ma anche verifica dell’esito di un processo storico che ha coinvolto, insieme, società civi­le e sistema politico.

Guido D’Agostino

Stein Rokkan, Cittadini, elezio­ni, partiti, Bologna, Il Mulino, 1982, pp. 474, lire 25.000.

Il contributo offerto da Stein Rokkan è stato, a ragione, de­finito determinante per l’inter­pretazione della storia politica europea e ha prodotto durevoli innovazioni sia nella formula­zione di nuovi paradigmi inter­pretativi della politica, che nel­la costruzione di un solido le­game fra due grandi tradizioni di studi politici, quella stori­co-istituzionale europea e quel­la empirico-sociologica ameri­cana.

Il volume Cittadini, elezioni, partiti, pubblicato in Norvegia nel 1970 e tradotto in Italia solo da due anni, raccoglie alcuni saggi, scritti negli anni cinquanta e sessanta, tra i più importan­ti della produzione scientifi­

ca di Rokkan. La raccolta pre­senta nella sua edizione italia­na, come in quella originaria, tre sezioni distinte: nella prima si esaminano gli approcci nei processi di formazione delle nazioni; nella seconda si appro­fondiscono le tappe di estensio­ne del suffragio e delle ondate di mobilitazione elettorale; nel­la terza, infine, vengono pro­posti i risultati di ricerche em­piriche condotte sugli atteggia­menti e sulla partecipazione politica in diversi paesi.

L’intero volume si sviluppa intorno al tema, analizzato in chiave storico-comparata, delle uniformità e differenze nella genesi, sviluppo e consolida­mento delle democrazie di mas­sa e delle alleanze politiche in Europa. Gli strumenti analitici e gli schemi interpretativi consi­stono nel recuperare alcune cate­gorie già usate nelle analisi della società norvegese — come la divi­sione centro-periferia e le dimen­sioni culturali e funzionali del processo politico — combinando­le con elementi analitici presenti nella letteratura internazionale, in particolare il paradigma fun­zionale dei sistemi d’azione di Talcott Parsons.

Utilizzando tali elementi nel­l’analisi storica l’autore ha indi­cato come l’Europa ottocentesca sia stata scossa da due rivoluzio­ni: quella industriale, di origine inglese, e quella nazionale, il cui catalizzatore è stato rappresenta­to dalle vicende francesi, dal 1789 alle guerre napoleoniche. Combi­nandosi in modi e tempi diver­si da paese a paese questi due eventi hanno dato origine a quat­tro fratture strutturali, cioè oppo­sizioni permanenti (cleavages) fra diversi settori della popolazione: la frattura fra cultura dominante

del centro e culture periferiche, quella tra Stato e Chiesa, quella tra città e campagna e, infine, quella di classe. La loro diversa forza e le loro molteplici combi­nazioni hanno prodotto svariate configurazioni di alleanze e di conflitti tra gli strati delle popo­lazioni nel corso dei processi di mobilitazione politica dell’Otto­cento.

Per poter spiegare i diversi tempi di manifestazione delle fratture nei sistemi politici euro­pei Rokkan considera la forza esercitata dalle singole cleavages nei paesi considerati. La frattu­ra di classe, che è stata l’ultima in ordine temporale a manife­starsi, ha operato in modo gene­ralizzato in tutti i paesi europei, al contrario delle altre tre che han inciso con variazioni notevoli da caso a caso, creando una sorta di “effetto omologatore” che ha da­to vita ovunque ai partiti socialisti e ai movimenti sindacali.

Altro elemento fondamentale di carattere istituzionale, la cui presenza/assenza ha facilitato o scoraggiato le alleanze politi­che e le trasformazioni dei si­stemi partitici, è rappresentata dai tempi e modi di mobilita­zione che hanno provocato l’“ evoluzione istituzionale” ,cioè il passaggio dall’assoluti­smo alla democrazia.

Per Rokkan tale superamento è scandito da quattro soglie cri­tiche: a. soglia di legittimazione, che indica il momento in cui viene riconosciuta l’esistenza dell’opposizione; b. soglia di in­corporazione, che indica il mo­mento in cui vengono ricono­sciuti i diritti politici dell’oppo­sizione; c. soglia di rappresen­tanza, che indica il momento in cui vengono riconosciuti i diritti dell’opposizione ad eleg­

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gere propri rappresentanti; d. soglia del potere esecutivo, che indica il momento in cui diven­ta possibile la conquista del governo da parte dell’opposi­zione.

La terza variabile, conside­rata da Rokkan è rappresenta­ta dal tipo di sistema elettora­le e dall’evoluzione delle rego­le del gioco della competizio­ne politica. L’analisi riguarda le differeze tra paesi “propor- zionalisti” e quelli “maggiori- tari” .

Valutato nel suo insieme il volume di Rokkan appare co­me un riferimento imprenscin- dibile per lo studio dei sistemi politici. Originale risulta la ca­pacità dell’autore di muoversi agevolmente tra discipline di­verse (dalla scienza politica, al­la storia, alla sociologia) senza la pretesa di dare compiutezza alla sua intepretazione dello sviluppo europeo, convinto che solo l’interscambio tra studiosi di diverse discipline possa dar luogo a progressi sostanziali. Interessante risulta il procedi­mento metodologico di indivi­duazione, dallo studio dell’evo­luzione politica norvegese, di particolari idee forza (eredità storiche, differenze geografi­che) da mettere poi alla prova nello studio comparato sul “caso” Europa.

Il lavoro di Rokkan è e sarà, nei prossimi anni, una fonte inesauribile di stimoli e di idee grazie al suo carattere di im­presa aperta ed incompiuta. A partire dalle sue analisi ed adottando il suo metodo sarà possibile approfondire molti aspetti che l’autore ha toccato solo di passaggio.

Maurizio Mandolini

Paolo Farneti, Il sistema dei partiti in Italia 1946-1979, Bolo­gna, Il Mulino, 1983, pp. 250, lire 10.000.

Il lavoro postumo di Paolo Farneti, l’acuto politologo scom­parso alcuni anni or sono, af­fronta la dimensione teorica di alcuni problemi e momenti delle vicende politiche italiane del se­condo dopoguerra, tentando di cogliere le ragioni della peculiare configurazione del nostro sistema politico e della sua marcata diffe­renziazione dai sistemi liberalde- mocratici occidentali.

L’analisi, incentrata sulla gene­si e sullo sviluppo del sistema dei partiti in Italia dal 1946 al 1979, si articola in tre ampie sezioni in cui si considerano, rispettivamente, il ruolo dei partiti all’interno delle dinamiche parlamentari, le rela­zioni che legano ciascuna forza politica alla propria base elettora­le, e alcuni meccanismi di funzio­namento dei gruppi politici, con particolare riferimento al Pei e al­la De. Nella quarta ed ultima se­zione, invece, viene esplicitata e definita la chiave di lettura unita­ria in base alla quale è svolta la ri- costruzione precedente, ricondu­cibile sinteticamente alla formula del “pluralismo centripeto”.

Alla teoria di Giovanni Sarto­ri del “pluralismo polarizzato” — per cui il sistema partitico ita­liano, lungi dal modellarsi sullo schema del “bipartitismo imper­fetto”, vede piuttosto la progres­siva erosione del centro politico a favore delle estreme — Farneti assegna validità interpretativa esclusivamente per il periodo 1946-1965; dal 1965 al 1979, in­vece, si afferma, a suo avviso, una tendenza inversa per cui, nell’ambito di un processo di complessiva “deradicalizzazio-

ne” politica, le estreme tendono a estendere la propria area di in­fluenza e di azione verso la zona mediana dello schieramento po­litico, seguendo un trend non sempre lineare e, soprattutto, non conseguentemente portato a termine, a causa dell’azione fre­nante esercitata dai rispettivi set­tori “integralisti”.

Il presupposto di tale teoria sembra essere la divisione dei partiti politici italiani in due bloc­chi — una destra, che va dal Msi al Pri, e una sinistra che va dai gruppi della nuova sinistra al Psdi — ciascuno dei quali è dota­to di un alto grado di eterogeneità ed è segmentato da cleavages così profondi da impedire ogni reali­stica ipotesi di coalizione gover­nativa. È a causa di tale incapaci­tà “coalittiva”, interna ai singoli schieramenti quindi — e qui la tendenza centripeta è utilizzata da Farneti per spiegare anche la ge­nesi delle caratteristiche dell’area di governo italiana, pur nelle sue successive molteplici versioni — che si è costituito artificiosamente un polo di centro, formatosi at­traverso l’accorpamento dei set­tori meno estremisti e separati dalle fratture meno profonde.

Tali dinamiche, inoltre, sono da valutare in relazione all’ele­mento principale che caratteriz­za il caso italiano: l’assenza di quell’“accordo sui fondamenti” che altrove, invece, è stato il ri­sultato di “un ben riuscito pro­cesso di formazione dello Stato 0State-building) e di formazio­ne della nazione (Nation-buil- ding)” (p. 230), e che ha per­messo la creazione di “un refe­rente nazionale unitario entro cui inserire la definizione del liberali­smo, del socialismo, della de­mocrazia” (p. 231). In tal senso, quindi, il “pluralismo centripe-

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to” italiano è definito “l’alter­nativa funzionale” all’“accordo sui fondamenti” ; un’alternativa che ha evitato ed evita tuttora lacerazioni troppo profonde e irreversibili all’interno del qua­dro politico, ma che, al tempo stesso, impedisce una piena at­tuazione del regime democrati­co-parlamentare.

L’analisi svolta da Farneti non si limita tuttavia alla sola indagine interna al sistema dei partiti, ma si estende anche al complessivo rapporto tra so­cietà civile e società politica, con la particolare attenzione alla dimensione storica che ha costituito uno degli aspetti più interessanti e proficui del suo lavoro intellettuale.

Riccardo Vigilante

Marcello Montanari, Crisi del­la ragione liberale. Studi di teoria politica, Manduria, La- caita, 1983, pp. 167, lire10.000

Il libro di Montanari esami­na in Benedetto Croce, Santi Romano e Alfredo Rocco tre momenti fondamentali della riflessione politica e giuridica italiana di fronte alla crisi del­lo Stato liberale. La scelta dell’oggetto di indagine e dei criteri di ricerca rispondono a una precisa opzione storiogra­fica che l’autore esplicita con chiarezza nella premessa. Si tratta di invertire il tradiziona­le approccio marxista che ha trascurato e “tacciato di deca­dentismo” il tratto specifico di tale cultura borghese. Essa è caratterizzata da una comune

attenzione agli elementi pas­sionali, prerazionali, non-logi- ci della politica e della storia, da un costante “riconoscimen­to della ‘forza’ come momen­to costitutivo della società moderna” .

Il marxismo, conservando un’immagine depurata e sem­plificata dello sviluppo storico giocata sulle opposizioni so­cietà civile/società politica e produzione/ideologia, proprie della borghesia in ascesa, ha espunto dal suo orizzonte le analisi sui temi della “vita” e delle passioni necessitanti che articolano il tessuto sociale, privandosi così di contributi conoscitivi rilevanti. La rilet­tura che Montanari propone degli autori in esame ha ap­punto lo scopo di riattivare questi contenuti troppo rapi­damente accantonati sotto la facile etichetta di “irrazionali­smo” e di consentire un con­fronto critico con essi. Un’in­dagine così indirizzata si collo­ca efficacemente nel dibattito politico-culturale attuale e po­ne in discussione, con gli stru­menti agguerriti di una ricerca serrata e approfondita, l’ele­mento portante delle tesi neoli- beriste e neocontrattualiste og­gi riproposte: l’ipotesi di una “progettazione razionale e con­sapevole” della società.

Marcella Pogatschnig

Antifascismo e Resistenza

Institut d ’histoire du temps present, Jean Moulin et le Conseil National de la Résis­

tance, Paris, CNRS, 1983, pp. 192, Ff. 40.

Il Conseil National de la Résistance, l’organismo che rappresenta l’unità politica e militare della “Resistenza in­terna” francese, viene costitui­to dai mouvements, i partiti politici e i sindacati operai, il 27 maggio 1943, quasi tre an­ni dopo il crollo della Terza Repubblica e l’inizio dell’oc­cupazione nazista. La sua na­scita costituisce il punto d ’ar­rivo d’un processo unitario già avviato da tempo, sul ter­reno, tra diversi mouvements e alcuni partiti impegnati nel­l’opposizione e nella lotta ar­mata all’occupante (sostanzial­mente i comunisti e i sociali­sti), ed è il segno del vigore raggiunto, all’interno del pae­se, dalla Resistenza. La nasci­ta d’un simile organismo serve anche a rafforzare in modo decisivo la posizione del gene­rale de Gaulle e del suo comi­tato londinese, impegnato pro­prio in quelle settimane in un confronto durissimo con gli Alleati (soprattutto gli ameri­cani) che preferiscono appog­giare il generale Giraud, conti­nuando nella strada che già, al momento dello sbarco in Afri­ca del Nord, li aveva portati a puntare su Darlan e su una sorta di “vichysmo” senza Pé­tain. La nascita del Cnr pre­senta quindi, agli occhi del mondo ancor prima che dei francesi, la fisionomia compiu­ta della Francia che succederà a Pétain, col generale de Gaul­le come unico rappresentante di tutti e francesi che combat­tono l’hitlerismo e suoi colla­boratori, fuori o dentro il ter­ritorio metropolitano.

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A questo importante risultato si è arrivati grazie a un intenso e paziente lavoro di contatti, di confronti e di scontri tra le prin­cipali formazioni resistenti, e tra esse e il Comitato nazionale di de Gaulle: lavoro che è stato condotto a buon fine da Jean Moulin, che cadrà poche setti­mane dopo aver compiuto la sua missione nelle mani di Klaus Barbie, il famigerato capo della Gestapo di Lione (che tra l’altro anche di questo dovrà rendere conto fra non molto ai giudici francesi).

Sul ruolo decisivo giocato da Jean Moulin nella costituzione del Cnr, sui rapporti tra resi­stenza interna e de Gaulle, e an­che tra movimenti di resistenza e partiti politici più o meno im­pegnati nella lotta all’invasore, l’Institut d’Histoire du Temps Présent del Cnrs ha riunito a Parigi, il 9 giugno 1983, secon­do una formula ormai abituale, un gruppo di storici (Claire An- drieu, Jean-Pierre Azema, Fran­çois Bedarida, Réné Hostache, Henri Noguerés, Réné Rémond) e un gruppo di protagonisti di spicco della Resistenza (Claude Bourdet di “Combat” , Eugène Claudius-Petit e Jean-Pierre Le­vy del “Franc-Tireur” , Fernad Grénier del Pcf, André Manuel del Bcra, Daniel Mayer del “Co­mité d’Action Socialiste” , Chri­stian Pineau di “ L ibéra­tion-Nord”), che hanno discusso, in termini anche estremamente polemici, una relazione introdut­tiva di Daniel Cordier, già segre­tario di Jean Moulin all’epoca dei fatti e depositario dei suoi ar­chivi.

La vivacità del dibattito rende bene, per giunta attraverso mol­ti dei suoi protagonisti originali, il clima e i problemi politici che

si è trovata ad affrontare la resi­stenza francese tra l’estate del 1942 e la primavera del 1943: i movimenti di resistenza, in quel periodo, progettano più o meno confusamente una Francia libe­ra da cui siano banditi tutti i partiti politici che abbiano favo­rito il crollo della Repubblica, i cui rappresentanti abbiano vo­tato i pieni poteri a Pétain il 10 luglio 1940, e che non partecipi­no attivamente alla lotta armata contro l’invasore. Così facendo, i movimenti di resistenza acca­rezzano l’idea di sostituirsi ai vecchi partiti politici — tra i quali salvano soltanto il partito comunista, per il suo impegno Resistente — anche dopo il rag­giungimento dell’obiettivo per il quale sono nati, la liberazione del paese e la distruzione del re­gime collaborazionista di Vichy. Da qui l’opposizione dei movi­menti di resistenza a costituire un organismo di direzione nel quale siedano di rappresentanti dei partiti, i quali non avrebbe­ro i titoli “resistenti” sufficienti. E da qui anche i contrasti con Jean Moulin, che intende invece garantire a de Gaulle la forma­zione d’un organismo che rap­presenti tutte le correnti d ’opi­nione della nazione che non si siano apertamente compromes­se col regime. Daniel Cordier di­mostra anche l’infondatezza della leggenda, fatta circolare dal fondatore di “Combat” Henri Frenay, d ’un Moulin “criptoco­munista” ; Jean Moulin, in un primo tempo, si opponeva ad aver contatti con il “Front Natio­nal”, che riconosceva semplice- mente come una filiale del partito comunista, e preferiva avere rap­porti direttamente con la ca­sa-madre. Soltanto una più reali­stica considerazione dell’entità

della resistenza comunista lo in­duce, in un secondo momento, a far posto anche al Fn ed alla sua organizzazione militare, i Ftpf, tra le organizzazioni rap­presentate nel Cnr.

In conclusione, si può ri­prendere un’immagine di Clau­de Bourdet (forse il più lucido dei grandi resistenti presenti al dibattito) che vede conferma­to, sulla scorta dei documenti citati dalla relazione di Cor­dier, il grande ruolo di Jean Moulin, ambasciatore di de Gaulle presso i resistenti france­si e ambasciatore delle forma­zioni resistenti presso de Gaulle. Dall’andamento del colloquio, come dal più ampio saggio di Cordier compreso nel volume, si ha ragione di attendere con interesse l’annuciata prossima apparizione dei volumi dello stesso Cordier su Jean Moulin, l ’inconnu du Panthéon.

Giorgio Caredda

Leo Valiani, Sessant’anni di av­venture e battaglie, Riflessioni e ricordi raccolti da Massimo Pini, Milano, Rizzoli, pp. 187, lire 14.000.

Nell’ottobre del 1939, il ro­manziere e saggista ungherese Arthur Koestler venne arrestato a Parigi, quale straniero indesi­derabile, e rinchiuso nell’infau­sto campo di concentramento di Le Vernet. Questa triste espe­rienza è narrata in un suo libro, oggi quasi dimenticato, che, a mio modesto avviso, è il docu­mento più drammatico, la testi­monianza più valida della trage­dia che si abbatté sulla Francia negli anni 1939-40, coinvolgen­do il destino di migliaia di pro-

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fughi ebrei e di perseguitati poli­tici di mezza Europa (A. Koe- stler, Schiuma della terra, Fi­renze, Edizioni “U ” , s.d., ma1945). Qui s’imbatté in un pro­fugo italiano — che nel libro as­sume un ruolo da protagonista— e che Koestler chiama “Ma­rio” , del quale descrive “il sorri­so distratto” , soggiungendo: “c’erano voluti nove anni di pri­gionia a modellare quel sorriso— tre anni per farlo fermentare nella segregazione cellulare e i sei anni seguenti per maturarlo e addolcirlo, mentre divideva i due metri quadrati di spazio con i compagni. Aveva diciannove anni quando la porta della cella s’era chiusa dietro di lui e ven- totto quando si era riaperta... Questo genere di esperienza o distrugge un uomo o produce qualcosa di raro e di perfetto — e ‘Mario’ apparteneva a que- st’ultima categoria” (p. 107). E più oltre: “Mario aveva un’idea fissa, evitare ogni occasione di essere umiliato da chi ci poteva comandare. Questa ossessione, risultato di nove anni di vita in prigione, determinava la sua condotta al campo e lo portava ad un atteggiamento masochi­stico e quasi suicida; continuava a lavorare con la febbre a qua­ranta, rifiutava di scrivere do­mande per la sua liberazione nel fiorito stile francese richiesto in tali documenti e perfino rifiuta­va una dichiarazione scritta del­la sua lealtà alla causa alleata — aveva fatto domanda come vo­lontario nell’esercito francese dal primo giorno di guerra — per timore che ciò potesse essere interpretato come un atto forzato e non volontariamente politico” (p. 121). Ma nel gennaio del ’40, Koestler fu liberato dall’interna­mento grazie all’intervento di

esponenti del mondo giornali­stico e politico inglese. “Ma­rio” invece vi resterà fino al­l’ottobre successivo, allorché riuscì il suo piano di fuga.

Patetico l’addio fra i due amici: “Arrivederci, Mario. Se dovessi mai scrivere la storia della tua vita, metterei come motto le parole: C’era un uo­mo nel paese di Uz, il cui no­me era Giobbe, e quell’uomo era perfetto e giusto.

Mario sorrise: Giobbe visse per centocinquantanni; e morì vecchio e sazio di giorni. Sen­tirò la tua mancanza. Se sarò trasferito alla squadra della la­trina, potrò impiegare il tempo libero a scrivere un saggio sul­la Storia del secolo XIX di Be­nedetto Croce” (p. 161).

Orbene, questo “Mario” non è un personaggio mitico, né tipizzato quale modello del­l’italiano povero, ma onesto e geniale, come il Settembrini de La montagna incanta di Tho­mas Mann, ma è Leo Valiani, tale e quale, che ha giocato e gioca un ruolo non piccolo nelle vicende del nostro paese.

Ho abbondato nel citare Io scrittore ungherese perché nei ricordi biografici della presente intervista, Valiani è piuttosto scarso nel colorare gli avveni­menti narrati con dettagli che possano lumeggiare coraggio e sacrificio personale. Essi docu­mentano comunque sessantan­ni di storia italiana, nonché il travaglio ideologico e culturale di chi ha visto e vissuto gli av­venimenti non solo da prota­gonista, ma da storico, quale Valiani effettivamente è. Ciò è comprovato fra l’altro anche dalla recentissima ristampa di una parte dei suoi saggi, rac­colti ora nel volume: Scrit­

ti di storia: movimento sociali­sta e democrazia (Milano, Su- garco, 1983). Qui Valiani si dimostra crocianamente giusti- ficatore e non giustiziere; vuo­le cioè comprendere gli uomini e gli avvenimenti cui parteci­pa, e non solo viverli con la passionalità del momento. Da qui una singolare serenità di giudizio e una valutazione tal­volta eccessivamente positiva, che non sempre mi sentirei di condividere.

La vicenda di Leo, giovane d’intelligenza precoce, comin­cia da lontano, comincia dagli anni dell’adolescenza nel liceo italiano della natia Fiume, la nostra — ahimè — “patria perduta” . Colà, nel crogiuolo di un municipalismo italiano si erano fusi il mondo tedesco, ungherese e slavo sotto stimo­lanti impulsi dell’intellettualità israelita. Nacque così quella particolare spiritualità italiana che nelle terre di confine riuscì ad assorbire la cultura di altre stirpi, per cui un ebreo tedesco di nome Hector Schmitz, di­venta lo scrittore Italo Svevo. Una italianità che dalle altre culture assume i valori anche più caratteristici e li fa propri. Siffatto processo, che non ha nulla di dogmatico e di nazio­nalistico, avrebbe continuato nel tempo, se su Riccardo Za­nella (G. Dalma, Testimonian­za su Fiume e Riccardo Zanel­la, “Il movimento di liberazio­ne in Italia” , 1965, n. 1, pp. 50-75) non avesse prevalso D’Annunzio e se l’Italia fasci­sta non avesse prevalso su quella democratica.

Oggi tutto ciò è dimenticato o quasi, ma di questa poliedri­cità culturale è tuttora testi­mone Leo Valiani, con la sua

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ascendenza familiare, con la sua versatilità linguistica, con la sua cultura italiana e mitteleuropea nello stesso tempo. A diciassette anni socialista, ma non insensi­bile alle suggestioni della propa­ganda e della stampa comuni­sta, che attraverso Sussak filtra­va in Fiume, ebbe a Milano i primi contatti soprattutto con gli uomini di “Quarto Stato”, Carlo Rosselli e Pietro Nenni. E fu proprio questo cercare la stampa comunista d’oltre Eneo, che gli procurò il primo arresto a un anno di confino a Ponza. Come comunista nel 1930 venne di nuovo condannato a dodici anni di carcere (che le successive amnistie ridussero a sei). Su di un giovane doveva indubbia­mente fare maggiore impressio­ne il rigore ideologico e la vo­lontà di combattere dei comuni­sti che non la pur onesta rasse­gnazione dei socialisti. E fu cosi che scontò gli anni di galera nei penitenziari di Lucca e di Civi­tavecchia insieme a compagni prestigiosi quali Terracini, Spi­nelli, Li Causi, Secchia, Rossi Doria ecc.

Liberato nel 1936, si recò in Francia, collaborando alla stampa comunista dell’esilio e partecipando alla guerra civile di Spagna come corrispondente di guerra. Ma la feroce repres­sione staliniana degli anarchici catalani, nonché un’autonoma evoluzione intellettuale, cui non dovette essere estranea l’incon­tro con gli elementi di GL e l’a­micizia di Aldo Garosci e di Franco Venturi, le lezioni di Halevy e la lettura di Croce, lo spinsero ad abbandonare il Pcd’I, abbandono che divenne effettivo dopo il patto sovietico — tedesco. Ma — e sottolineia­mo lo scrupolo morale — le di­

missioni non furono rese pub­bliche in quel momento, poiché i comunisti stavano subendo al­lora la dura repressione petaini- sta e Valiani non voleva sembra­re di essersi staccato dal partito per evitare i guai della persecu­zione. Così visse a Le Vernet — come è dato di capire anche dal libro di Koestler — sotto la sfer­za di Pétain, isolato e disprezza­to nello stesso tempo come tra­ditore anche dai suoi ex compa­gni. La meditazione sui testi dei grandi economisti e teorici da Proudhon a Stuart Mill e a Key­nes, le ricerche storiografiche sul movimento operaio interna­zionale, che sfociarono nell’o­pera che rappresentò allora il suo maggiore contributo di stu­dioso: Storia del Socialismo nel secolo X X — pubblicato in Messico nel 1943 e ristampato in Italia due anni dopo, (Roma-Fi- renze-Milano, Edizioni “U ”), nonché le meditazioni sul Socia­lismo liberale di Rosselli, del cui testo era a conoscenza fin dagli anni della prigione in Italia, lo portarono a un coraggioso revi­sionismo di Marx. Di questa cri­si, di questo ragionato supera­mento del marxismo troviamo oggi una puntuale descrizione nella prefazione al già citato vo­lume di Scritti storici (pp. 7-13).

Ma tornando all’intervista di cui stiamo parlando, nuove e di notevole interesse sono le pagi­ne sull’esilio in Messico e negli Stati Uniti, dopo la riuscita fuga da Le Vernet. Nonché il fortuno­so rientro in Italia condizionato dalla diplomazia alleata. Qui l’in­tervista — ottimamente portata avanti da Massimo Pini — viene a integrare, forse con una mag­giore analisi critica, il volume Tutte le strade conducono a Roma, pubblicato nel lontano

1946, ed ora ristampato (Bolo­gna, Il Mulino, 1983). Per quanto le vicende prese in considerazione siano vissute con sofferto impegno, Valiani — come ho già detto — non perde mai la serenità di giudi­zio e considera gli avvenimen­ti contemporanei con rara prospettiva storica. Si legga­no in proposito le parole de­dicate a De Gasperi o a To­gliatti; ma soprattutto convin­centi mi sono parse quelle de­dicate a Nenni, presentato sotto una nuova luce nell’ag- grovigliato dibattito istituzio­nale (p. 110).

Si tratta insomma di un te­sto, in cui l’intervistato viene spinto, sia come testimone che come protagonista, a esprimere giudizi sui più importanti avve­nimenti italiani dal 1921 a og­gi. Ne escono lumeggiati alcuni aspetti della travagliata storia del Partito d’Azione, a integra­zione o a rettifica del pur buon lavoro di Giovanni De Luna. Vengono passati in rassegna una miriade di personaggi, maggiori o minori, del mondo politico e culturale: da Saragat a Mattioli, da Jemolo a Pan­nunzio, sinteticamente tratteg­giati e talvolta analiticamente giudicati. E tale rassegna termi­na con un parallelo tra Rosselli e Craxi, attuale e certamente lu­singhiero per quest’ultimo.

Carlo Francovich

Enrico Serra, I tempi duri del­la speranza (1943-1945), Ro­ma, s.e., 1982, pp. 96, sip.

È un vero peccato che questo libretto sia stato pubblicato in edizione fuori commercio e de­

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stinato quindi soltanto a pochi fortunati: only fo r happy few, per dirla con Stendhal. L’auto­re ebbe infatti non piccola par­te nella guerra di liberazione e nel periodo successivo, operan­do agli ordini di Ferruccio Par- ri e collaborando con Leo Va- liani, che ha premesso una lu­cida prefazione a queste conci­se memorie. Si tratta qui non solo della descrizione di alcuni episodi resistenziali, ma di una testimonianza sui momenti es­senziali della lotta antifascista e dell’immediato dopoguerra.

Testimonianza rara, di cui purtroppo — per ragioni di da­ta — non ha potuto tenere conto Giovanni De Luna nel suo ottimo libro sul Partito d’Azione (Storia del partito d ’Azione. La rivoluzione de­mocratica (1942/1947), Mila­no, Feltrinelli, 1982). Enrico Serra appartiene a quella gene­razione di giovani, che, cre­sciuti in clima totalmente fasci­sta, avevano perso ogni contat­to con la precedente generazio­ne di opposizione, ormai di­spersi, fra confino, galera ed esilio, o ridotti al silenzio dal­l’occhiuta repressione fascista. Essi dovettero per lo più for­marsi da soli — quasi sempre nel corso della guerra — una propria cultura e ideologia anti­fascista. “Valoroso sottotenente carrista nella divisione Ariete, ferito e decorato di medaglia d’argento sul campo in Libia”— come scrive Valiani (p. 10)— quando rientrò in Italia alla fine del 1942, lavorò presso 1T- spi di Milano, al fianco di Fede­rico Chabod. Oggi è ordinario di storia dei trattati a Bologna e dirige il servizio storico e di do­cumentazione del ministero de­gli Esteri. E all’Ispi entrò in

contatto con gli altri esponenti del PdA e soprattutto con Fer­ruccio Parri, che si valse di lui per tenere i contatti con la Re­sistenza della natia Emilia e, in modo particolare, per aiutare e facilitare le evasioni dal campo di Fossoli. La successiva mis­sione fu una analoga incom­benza per il campo di Bolzano.

Tutto ciò è narrato con grande semplicità e naturalez­za. Ma per lo storico politico avrà forse maggiore interesse quanto l’autore ci racconta sul­l’attività svolta a Milano tra la fine del 1944 e il 1945, come fondatore e dirigente della Gioventù d’Azione, nelle sue implicazioni politiche con il Fronte della Gioventù, stretta- mente condizionato dal Pei. Avrà maggiore interesse quan­to scrive circa la sua attività di redattore dell’“Italia Libera” clandestina e nei mesi successi­vi alla liberazione. Rivive così tutto un mondo di personaggi, che recitano e hanno recitato successivamente una parte non secondaria nella politica italia­na: da Ugo La Malfa a Vitto­rio Foa, da Fermo Solari a Leo Valiani. Rivive anche tutta una serie di avvenimenti: dalla insurrezione di Milano alla uc­cisione di Mussolini, dalla fon­dazione dellTtalo-American Press Club, ad opera dello stesso Serra, alla rifondazione dell’Ispi.

Questa attività così intensa si svolse al fianco di Parri, come capo della Resistenza prima e come presidente del consiglio poi. E anche dopo, nel variare delle sorti politiche, Serra senti­mentalmente non si allontanerà da colui che fu suo maestro spi­rituale, nemmeno negli anni bui del suo quasi completo iso­

lamento e negli anni ancora più tristi della sua malattia. Credo che nessuno abbia descritto, né avrebbe potuto descrivere, le condizioni di “Maurizio” alla vigilia della morte, con maggio­re finezza e con maggiore deli­catezza di quanto abbia fatto Serra in questa raccolta di arti­coli: sono pagine dettate da commossa pietas filiale.

Carlo Francovich

Santi Fedele, I repubblicani di fronte al fascismo (1919-1926), introduzione di Giovanni Spa­dolini, Firenze, Le Monnier, 1983, pp. XXV-336, lire 22.000.

Nell’esaminare le vicende e il ruolo svolto dal Pri di fronte al­la nascita e alla presa di potere del fascismo l’autore — uno studioso che ha già avuto modo di affrontare aspetti della storia dei partiti politici nell’Italia contemporanea — ha preso le mosse dalla prima guerra mon­diale. Come viene indicato nel­l’introduzione di Spadolini (p. VII), il conflitto rappresentò uno spartiacque nella storia del­la penisola: il Pri non rimase estraneo a questa evoluzione e ne sperimentò anzi le conse­guenze e le contraddizioni.

Al termine delle ostilità il par­tito republicano si collocava al­l’interno dello schieramento in­terventista, sebbene il suo inter­ventismo si fosse caratterizzato come democratico e fosse in­fluenzato dal pensiero risorgi­mentale e mazziniano. La posi­zione favorevole alla guerra ave­va però rafforzato l’ostilità re­pubblicana sia nei confronti del giolittismo, sia nei confronti del socialismo massimalista. L’av­

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versione verso il Psi si traduce­va anche in una sorta di “con­correnza” . Partito non esente dal condizionamento ad opera di “notabili” ed espressione, in alcune zone, di ceti medi di tradizione patriottico-risorgi- mentale, esso si qualificava in altre aree del paese come movi­mento politico nettamente con­trapposto all’istituzione mo­narchica e particolarmente sen­sibile alla problematica econo- mico-sociale.

Questi caratteri, a volte con­traddittori, influenzarono pro­fondamente l’atteggiamento del Pri nell’immediato dopo­guerra. Fedele individua alcuni limiti ed equivoci dell’azione repubblicana, fra cui le simpa­tie nei confronti del dannun­zianesimo, dell’impresa fiuma­na, delle prime manifestazioni fasciste. Nell’esaminare gli obiettivi del Pri, l’autore rileva però l’intenzione del partito re- pubblicano di farsi portavoce, magari in modo confuso, delle istanze di rinnovamento che ispiravano larga parte degli ex combattenti e i settori demo­cratici dell’interventismo; un ruolo non secondario in tale ambito avrebbe dovuto svolge­re la creazione di una Costi­tuente. Né Fedele trascura di sottolineare le speranze nutrite dai repubblicani negli ideali wilsoniani, un aspetto, questo, che forse meriterebbe ulteriore approfondimento.

Dopo il parziale insuccesso elettorale nelle elezioni del 1919 e il Congresso di Roma (13-15 dicembre) il Pri recupe­rò rapidamente il ruolo di for­za della sinistra. Con la segrete­ria di Fernando Schiavetti e con il Congresso di Ancona (25-27 settembre 1920) si operò una

svolta che — come scrive Fe­dele — rappresentò “il supera­mento della fase più acuta della grave crisi” vissuta nel­l’immediato dopoguerra, non­ché “l’avvio di quel profondo processo di rinnovamento in virtù del quale il Pri, unico tra quelli che Giorgio Galli ha definito i micro-partiti della sinistra italiana, resistette] al processo di destrutturazione che colp[ì] questi ultimi nel primo dopoguerra determinan­done [...] la scomparsa” (p. 113).

Il Pri avrebbe ben presto da­to prova della sua vitalità di fronte al progressivo affermar­si dello squadrismo. A dispetto del “tendenzialismo repubbli­cano” espresso da Mussolini, dell’opera scissionista di alcuni gruppi ed esponenti locali, pre­sto emarginati, della comune origine interventista, i repub­blicani dichiararono aperta­mente la loro ostilità al fasci­smo. La rapida ascesa di que­sto movimento si manifestò quasi contemporaneamente alla “ripresa” organizzativa del Pri. Questa trovò espressione nella fondazione del quotidiano “La Voce repubblicana” , nonché nel rafforzamento della presen­za del partito in alcune zone: il grossetano, grazie all’azione di Randolfo Pacciardi; il trevigia­no a opera dei fratelli Berga­mo. Le elezioni del 1921, no­nostante il Pri si fosse presen­tato in sole 13 circoscrizioni elettorali su 40, confermarono la radicata presenza del partito in alcune aree del paese. Pro­prio a partire dal 1921 su que­ste zone cominciò ad abbattersi la violenza fascista ed esse do­vettero subire 1’“occupazione” squadrista (da Treviso nel lu­

glio 1921 a Ravenna nel luglio 1922). Pur individuando con acume alcuni caratteri e obiet­tivi del movimento fascista, il Pri, alla stregua di altri partiti democratici, si trovò sostan­zialmente impotente di fronte alla marcia su Roma. L’affer­mazione di Mussolini e dei suoi seguaci non mancò di pro­vocare inoltre alcuni sbanda­menti e incertezze (quali la scissione della Federazione re­pubblicana autonoma della Romagna nel gennaio 1923). Ma nel complesso — come Fe­dele sottolinea — il Pri non scese a compromessi con il fa­scismo. Nonostante le violenze e l’intimidazione le elezioni del 1924 confermarono la tenuta di alcune aree del voto repubblicano.

Con il delitto Matteotti le opposizioni a Mussolini parve­ro avere l’occasione propizia per abbattere il governo fasci­sta. L’atteggiamento repubbli­cano nell’ambito dell’Aventino si caratterizzò per la sua pecu­liarità e l’autore illustra infatti le critiche della leadership del Pri alla strategia perseguita dalle forze antifasciste, in par­ticolare all’eventuale ruolo as­segnato alla Corona nell’allon­tanamento di Mussolini dal po­tere.

L’analisi di Fedele si fonda prevalentemente su un’attenta utilizzazione della stampa re­pubblicana e di alcuni fondi

- dell’Archivio centrale dello Stato. Lo studio fornisce nel complesso un utile panorama della realtà repubblicana nel periodo preso in esame e offre una serie di spunti per ulterio­ri studi e ricerche.

Antonio Varsori

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Nicola De Janni, Una scuola di vita. Funzionari comunisti tra Partito e società, Napoli, Piron- ti, 1984, pp. 182, sip.

Il libro del De Janni è il primo dei “Quaderni dell’antifascismo napoletano” che nascono per iniziativa congiunta dell’Istituto campano per la storia della Resi­stenza e dell’Anppia, sezione di Napoli, con l’intento di “pro­muovere la conoscenza, la rifles­sione e la discussione attorno a modi e temi salienti della pecu­liare esperienza storica e politica dell’antifascismo napoletano e meridionale” , come precisato dai curatori della collana. In realtà la ricerca del De Janni spazia oltre questa delimitazione geografica, salvo recuperarla nella figura umana e politica di Clemente Maglietta, noto espo­nente dell’antifascismo e della rinascita sindacale napoletana, con un’intervista che apparente­mente costituisce una seconda e distaccata parte del libro, ma che si integra strettamente con la prima e ne sottolinea la novità e il particolare interesse.

La figura del funzionario na­sce e assume catteri e ruolo in re­lazione alle fasi di sviluppo della vita politica e sindacale, dalla nascita del Psi e della Confede­razione generale del lavoro, alla costituzione del Pei e alle sue possibilità di organizzazione e di azione nel periodo della lotta clandestina. Le vicende di que­sta sono strettamente legate alle capacità organizzative o al bloc­co dell’attività a opera della po­lizia, di coloro che vengono de­signati “rivoluzionari professio­nali” , portatori, a diversi gradi, di una idealità politica e rivolu­zionaria. La ricostruzione del­l’autore si svolge attraverso le

vicende dei singoli, cogliendo caratteri, forza eroica di sacri­ficio, ma anche debolezze: una forte umanizzazione delle vi­cende politiche che lega il let­tore, intessuta di momenti di caduta, di sospetti a volte in­giusti, di perdite improvvise di fiducia accanto allo slancio passionale e al sacrificio degli interessi privati.

Nella Resistenza la figura del funzionario rimane essen­zialmente quella che si è carat­terizzata in precedenza, pur con necessari cambiamenti di attività e di funzioni implicati dal nuovo tipo di lotta e pur nelle diverse articolazioni che intervengono nella gerarchia del funzionariato e nell’allar- garsi di questo ai giovani. Ele­mento di continuità, dunque, tra il partito della clandestinità e quello che va nascendo ora con l’accorrere di nuove leve giovanili.

Certo, con il ritorno alla le­galità le cose non rimangono inalterate. E descrivendo la nuova situazione, il libro del De Janni apre la prospettiva sugli aspetti che hanno incrina­to la democraticità dei risorti partiti, e via via deteriorato la loro vita interna e la loro im­magine nella coscienza dei cit­tadini. Il funzionario, negli an­ni cinquanta e sessanta, diven­ta lo strumento di una conce­zione e organizzazione buro­cratica, che impedisce una vita politica fatta di reale parteci­pazione e responsabilizzazione, incapace di cogliere le indica­zioni e le esigenze del movi­mento reale della società.

La figura del rivoluzionario di professione riemergerà nel sessantotto tra i giovani dei “gruppi” proprio contro la

sclerotizzazione burocratica e la concezione autoritaria ad essa connessa, di tutta la struttura politica e sociale, analoga per certi aspetti alla vecchia genera­zione degli anni del fascismo, ma incapace di vincerne la diffi­denza. Risuona certamente una nota di impegno personale nella chiusura di questa parte del li­bro, allorché si dice dei giovani del sessantotto sfuggiti alla “di­sperata scelta del terrorismo” (p. 81) che essi “si inseriscono nella società con i ristretti mar­gini di chiarezza che la situazio­ne politica concede, pronti co­munque a partecipare al grande processo di trasformazione con un patrimonio di esperienze di vita maturato nella lotta, poten­zialmente utilizzabile o utilizza­to in più campi, ma comunque non riscontrabile nel cittadino comune” (p. 81).

Nella seconda parte del libro, dedicata a Clemente Maglietta, l’intervistatore riesce a ricostrui­re in rapida sintesi tutta la vita del personaggio, non senza alcu­ne note caratteriali e psicologi­che dell’infanzia e dell’adole­scenza già indicative delle scelte future e della qualità dell’uomo e del politico. Allo stesso modo in cui emerge sin dal 1924 la sua politicità appassionata e “inge­nua”, così più tardi, negli anni universitari, la consapevolezza ideologica non precede ma se­gue, a distanza di tempo, la scel­ta politica a sinistra. Marx e Le­nin entreranno nel suo bagaglio culturale molto più tardi, al mo­mento egli sente solo la lotta contro il fascismo. È “una gran­de manifestazione di antifasci­smo e di amore per la libertà” (p. 97) tenutasi all’Università nel ’30 contro il Rettore fascista che gli apre, nella persona di Eu-

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genio Reale, le porte del Parti­to, nella primavera del ’31. E si inizia la sua carriera politica con il primo incarico di re- sponsabilile dei giovani; quin­di, nel luglio del ’31, dopo l’arresto di Reale, l’espatrio: “il caso volle che mi trovassi a Parigi in un momento in cui il Partito aveva bisogno di fun­zionari, e diventai funziona­rio” (p. 104).

Nelle vicende che segnano i momenti di questa sua attività ritroviamo come momenti con­creti di vita vissuta certe pre­messe psicologiche e politiche di cui si è detto. Da Parigi in To­scana come corriere, di qui a Losanna, a Parigi, poi in Emilia come funzionario, di nuovo a Parigi e infine il terzo viaggio in Abruzzo, che termina con l’ar­resto, cui segue una condanna che dai 21 anni si riduce ad 8 per l’amnistia del decennale e poi ancora a 3 con un anno di liber­tà vigilata. Con il ritorno a Pari­gi segue la prima esperienza ne­gativa nei riguardi del partito; Maglietta viene infatti espulso nel maggio 1937, senza chiari addebiti, se non vaghi accenni al suo comportamento al proces­so, senza un interrogatorio, sen­za che nulla fino allora avesse fatto trapelare i sospetti. La co­sa avrà strascichi lunghi, fin ol­tre la fine della guerra, in alcuni atteggiamenti dei dirigenti nei suoi riguardi.

Dopo l’esaltante esperienza della guerra di Spagna, in cui svolge funzioni di commissario politico, il ferimento, le traver­sie nei vari campi di concentra­mento francesi, il nuovo perio­do di pena da scontare nel car­cere della Giudecca a Venezia, la sorveglianza speciale, il confi­no a Summonte; finalmente è a

Napoli, libero, la sera del 15 ot­tobre 1943.

L’intervista tocca infine il complesso e delicato problema dell’autonomia del sindacato, che Maglietta, divenuto segreta­rio della Camera del lavoro, de­ve sostenere contro l’ingerenza della Federazione. Stanco, la­scia l’incarico nel 1955, e pochi anni dopo, nel 1962, sentendosi poco e male utilizzato, si ritira dall’attività di partito e non rin­nova la tessera l’anno successi­vo. Tuttavia, disilluso da una breve esperienza socialista, sen­tendosi colpevole di aver lascia­to la vecchia famiglia, dopo di­versi anni vi rientra. “Uscendo dal Partito, non rinnovando la tessera nel 1963 ho commesso un errore, perché avrei dovuto agire in maniera diversa” (p. 174).

Avrà fatto nel frattempo un’esperienza di lavoro di tut- t ’altra natura da cui egli sostie­ne di aver tratto una conoscen­za meno schematica e più ade­rente alla realtà degli uomini e dei loro rapporti.

Vera Lombardi

Giancarlo Pajetta, Il ragazzo rosso, Milano, Mondadori, 1933, pp. 316, lire 12.000

Non sono moltissime le noti­zie non note che ci vengono for­nite da questo volume di memo­rie, forse perché uscite dopo che tanto numerosi dirigenti e mili­tanti comunisti hanno ampia­mente — e spesso con vivacità e dovizia di particolari — narrato le loro esperienze della clande­stinità e del carcere fascista; for­se anche perché l’autore in trop­pe pagine sembra eccessivamen­

te preoccupato di “conciliare” ricordi ed esperienze degli anni trenta con le sue attuali respon­sabilità politiche. Troppo rapi­damente (e, ci pare, superficial­mente) viene così liquidata l’e­sperienza degli emigrati nel- l’Urss; ma ugualmente sotto- valutate sono certamente l’im­portanza e l’incidenza della dif­ficile attività cospirativa ed or­ganizzatrice del Pcd’I in Italia. Certo, il livello organizzativo (strettamente inteso) non poteva dare risultati clamorosi e non era certo sufficiente la visita del “funzionario” o del “fenicotte­ro” per far sì che l’Italia “impe­riale” conoscesse un vasto reclu­tamento di rivoluzionari di pro­fessione. Eppure “l’accettazio­ne quasi inerte del fascismo da parte di fasce di popolo sempre più estese” (p. 112) è ampia­mente messa in discussione dalla stessa documentazione conservata negli archivi della polizia fascista. Egualmente af­frettato è il giudizio che porta l’autore alla strana (e contrad­dittoria?) conclusione che in zone “dove le antiche radici del movimento operaio aveva­no creato un ambiente favore­vole come l’Emilia Romagna e la Toscana” il partito comuni­sta riusciva ad ottenere “qual­che movimento”, mentre dove “insieme ad un’antica tradizio­ne c’era il realismo fatto di esperienza e di coscienza di classe”, come nel Triangolo in­dustriale, la presenza attiva dei comunisti veniva “bocciata” (p. 176). Donde si dedurrebbe che la grande crescita comuni­sta partita dalle radici “sovver­sive” emiliane fu dovuta alla mancanza di realismo politico e di coscienza di classe e che giustamente gli operai torinesi

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130 Rassegna bibliografica

attesero il marzo 1943 prima di impegnarsi partiticamente rischiando il carcere e il con­fino.

Le riflessioni di altri prota­gonisti e di molti studiosi non sono quindi coincidenti con i ricordi di Pajetta. E questo non sarebbe certo un proble­ma, se questi ricordi aiutassero ad una diversa lettura dettata da esperienze diverse di cui fosse dato un convincente reso­conto. Purtroppo, invece, l’au­tore si limita ad affermazioni lapidarie, anche a proposito di problemi sui quali ampia è sta­ta la riflessione: “una cultura fascista non esisteva, ma il fa­scismo non ne aveva bisogno” (p. 112). Non ci pare per nien­te un contributo alle riflessioni su cultura e intellettuali che da anni portano avanti studiosi come Gabriele Turi e Mario Isnenghi o, su un versante op­posto di conclusioni, Norberto Bobbio.

Egualmente poco utili a comprendere o completare le biografie dei compagni di car­cere o di clandestinità dell’au­tore ci paiono i brevi ritratti che egli ne fa troppo spesso li­mitati a episodi o battute nei quali la nota vena sarcastica di Pajetta sembra trovare sfogo. E un po’ tutti ne fanno le spe­se, da Germanetto (pp. 157- 159, 179) a Scoccimarro (pp. 222-223), da Pastore (pp. 160-161) a Miglioli (p. 159).

Più vive ci sono parse le pa­gine relative alla prima espe­rienza carceraria (pp. 72-80) e soprattutto quelle finali sugli ultimi giorni di detenzione e sulle convulse giornate tra Mi­lano e Torino attorno all’8 set­tembre (pp. 278-304). Egual­mente interessanti le pagine

sulle quali vengono esaminati ed elencati gli studi svolti in carcere e si aggiungono titoli ed autori a quelli già noti dalle memorie di altri frequentatori dell’Università di Civitavecchia (Volpe viene indicato come un “modello di metodo per la ri­cerca storica” , pp. 236). Ma, tutto sommato, il volume non riesce ad assumere il tono del­la memoria, di cui manca la precisione dell’informazione e certo la ricchezza in quei par­ticolari che soli possono riusci­re a far comprendere il clima e l’attività di quegli anni. Ma nello stesso tempo esso non è neppure un saggio (più volte l’autore sottolinea di non esse­re andato a rivedere i docu­menti d ’epoca per non dare una “analisi filologica” , p. 110), né una riflessione critica su esperienze personali e collet­tive. Resta quindi sospeso, qua­si in un limbo in cui prevale la “malignità naturale” (p. 251) dell’autore sulla volontà di rac­contare e descrivere una espe­rienza umana e politica di singo­lare valore ed importanza co­me è stata quella di Giancarlo Pajetta.

Luciano Casali

Anna Maria Simi, Il Comitato di liberazione nazionale a Ferra­ra. 1945-1946, Ferrara, Centro studi storici Resistenza, 1983, pp. V-237, sip.

Una rapida e attenta intro­duzione precede la pubblica­zione di alcuni importanti do­cumenti relativi al Cln di Fer­rara all’indomani della libera­zione; particolarmente impor­tante (pp. 79-139) il materiale relativo sii due convegni provin­

ciali del comitato che cercaro­no di fare il punto sulla rico­struzione in provincia nell’e­state e nell’autunno del 1945. Vanno anche segnalati i diffi­cili rapporti fra i comitati lo­cali e gli inglesi, soprattutto in relazione alla defascistizzazio­ne (non certo secondaria nel Ferrarese, dove si era avuta una alta percentuale di adesio­ni alla Rsi) e al sequestro dei beni agli ex dirigenti fascisti (si vedano i “divertenti” Dove­ri del CLN precisati dal Go­vernatore di Ferrara il 28 mag­gio 1945, pp. 200-202): una ri­prova ulteriore, in sede locale, di linee di comportamento no­te a livello generale per gli Al­leati e, per quanto concerne gli inglesi, già ampiamente stu­diate per la confinante provin­cia di Ravenna.

Luciano Casali

Tribunale speciale per la difesa dello Stato, Decisioni emesse nel 1927, a cura dell’Ufficio sto­rico dello Stato maggiore dell’e­sercito, Roma 1980, pp. 664, li­re 7.800; Idem, Decisioni emes­se nel 1928, Ivi, 1981, [ma 1982], t. 3, pp. 1501, lire 25.000.

L’Ufficio storico dell’esercito si è assunto la pubblicazione della documentazione dell’atti­vità del Tribunale speciale per la difesa dello Stato, creato nel no­vembre 1926 con il compito di reprimere il dissenso politico con un’efficienza, una speditez­za e una mancanza di remore le­gali, che la giustizia ordinaria non poteva assicurare. Il tenen­te generale della giustizia mili­tare Floro Rosselli, curatore e

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principale autore dell’opera, pre­cisa nell’introduzione che in essa saranno contenuti i nomi di tutti gli imputati denunciati al Tribu­nale speciale, gli estratti di tutte le 2.500 sentenze emesse dal Tribu­nale, dalla Commissione istrutto­ria e dal giudice istruttore, con la pubblicazione integrale di quelle che rivestono un carattere di par­ticolare interesse o che hanno semplicemente un carattere rap­presentativo, e infine i dati relati­vi all’espiazione della pena di tut­ti i condannati, con annotazione dei relativi provvedimenti di cle­menza. Tutto ciò garantisce un’informazione ampia e scrupo­losa, ma richiede anche molto la­voro e molte pagine, oltre duemi­la per i primi due anni di attività del Tribunale speciale; il comple­tamento dell’opera si farà quindi attendere. I volumi già editi (ad un prezzo praticamente simboli­co) comprendono processi di grande rilievo, come quelli per gli attentati a Mussolini del 1925-1926 (Zaniboni, Gibson, Lucetti, Zamboni), il processo a Gramsci, Roveda, Scoccimarro, Terracini e altri, e la prima con­danna a morte nei confronti del giovane comunista Michele Della Maggiora. È forse più impressio­nante l’attività “ordinaria” del Tribunale speciale, ossia la quan­tità di processi per gesti di apolo­gia degli attentati a Mussolini o per attività sovversiva, che docu­menta la vastità e sospettosità della presenza poliziesca sul terri­torio nazionale. Un documento essenziale per lo studio della re­pressione fascista, di cui non pos­siamo che raccomandare la diffu­sione (che, lo ricordiamo, passa attraverso l’Ufficio pubblicazioni militari, via Lepanto 1, Roma).

Giorgio Rochat

Seconda guerra mondiale

Loris Rizzi, Lo sguardo del pote­re, La censura militare in Italia nella seconda guerra mondiale, 1940-1945, Milano, Rizzoli, 1984, pp. 225, lire 14.000.

Mentre l’editoria italiana sem­bra voler continuare la caccia a facili successi cucinando e propo­nendo sommarie ricostruzioni dedicate a delineare “quello che pensavano gli italiani” nel corso dell’ultimo conflitto Loris Rizzi ha trovato la singolare pazienza e la perseverante intelligenza di an­dare contro corrente. Il suo volu­me affronta, con rigore metodo- logico e complessità critica, l’a­nalisi dei sentimenti collettivi, delPorientamento politico, delle aspirazioni esistenziali dei com­battenti e dei civili coinvolti nel conflitto.

L’osservatorio privilegiato dal quale Rizzi può dispiegare la sua analisi è costituito dalla ricostru­zione dell’attività delle commis­sioni provinciali di censura. Isti­tuite alla vigilia dell’entrata in guerra queste provvedono non solo “a sopprimere le informa­zioni pericolose per la difesa del segreto militare o dannose per lo spirito del paese” contenute nella corrispondenza che passano al vaglio, ma devono anche sintetiz­zare in relazioni periodiche, de­stinate alle più alte gerarchie poli­tiche e militari del regime, le va­lutazioni sul morale del paese, in­dispensabili al potere per tener sotto controllo il fronte interno ed i soldati alle armi.

I quasi ottomila funzionari ad­detti all’esame della posta non possono materialmente procede­re al controllo di tutta la corri­spondenza in arrivo e in partenza per i diversi scacchieri di guerra:

nel corso del primo anno di conflitto le lettere spedite supe­rano ampiamente la media gior­naliera di nove milioni.

Tuttavia — nonostante la mole immensa del materiale smistato dagli uffici postali — la censura riesce a svolgere la sua attività “sul 50-60 per cento della posta militare e sul 30 per cento di quella civile mentre continua ad essere effettuata in modo totalitario sia la censura sulla posta estera sia quella sulla corrispondenza dei prigionieri ed internati di guerra” .

Nella prima parte del libro, dopo aver brevemente delineato l’ordinamento della censura dal 1940 al 1945, vengono affronta­ti modelli e funzioni della cen­sura. Proponendo vari schemi interpretativi (si susseguono con vivace concatenamento modelli semiotici e modelli linguistici, approccio psicoanalitico e teorie dei giochi) Rizzi riesce ad evi­denziare pratiche e strategie dei censori, privilegiando l’appro­fondimento delle griglie che la censura deve applicare “per ri­spondere contemporaneamente a due diverse e complementari esigenze: da un lato reprimere l’indicibile, e dall’altro acquisire informazioni utili al potere”. Ne deriva — fa notare l’autore — una situazione in cui la griglia “più che ad una scacchiera con alcune caselle bloccate ed altre libere, assomiglia ad una mappa topografica in cui sono indicati i territori controllati e quelli li­beri, i territori da conquistare e quelli invece ritenuti poco im­portanti” .

Momento successivo — rico­struito ampiamente dal lavoro di Rizzi — è la presa di coscien­za, da parte dei censurati, dello sguardo che viene diretto sui

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loro pensieri e sui loro senti­menti. Sguardo di cui viene colta, in molti casi, la duplice funzione. Si delinea così una complessa partita che, appa­rentemente giocata sul terreno di ciò che può essere detto e di ciò che è indicibile, in realtà si arricchisce di un’ulteriore, complessa variabile: quella che permette al censurato, sottopo­sto al controllo del potere, di giudicare i suoi giudici inseren­do nelle lettere sentimenti, epi­sodi, momenti della propria vita quotidiana, che suonano come condanna senza appello verso le gerarchie politico-mili­tari che stanno portando il paese alla catastrofe.

La seconda parte del volume affronta l’analisi dei contenuti dei messaggi passati al vaglio delle commissioni provinciali di censura. L’opportuna suddi­visione del materiale in una precisa successione cronologi­ca, attraverso la quale è possi­bile cogliere l’evolversi delle valutazioni e degli umori che scandiscono il passaggio dalla non belligeranza al fallimento della guerra parallela fino ad arrivare al crollo del fronte in­terno ed ai mesi della Repub­blica di Salò, riesce a dare concretezza alle ipotesi ed alle intuizioni prospettate nella pri­ma parte.

Ulteriore corposità alla rico­struzione viene data nell’ulti­mo capitolo del libro attraver­so la puntuale messa a fuoco dei temi che scandiscono gran parte della corrispondenza scambiata tra la popolazione civile e gli uomini in divisa: la vita al fronte e le preoccupa­zioni familiari, la rassegna­zione verso il dominio dei po­tenti e la ribellione inconteni­

bile contro la corruzione e l’arroganza delle gerarchie, la scoperta deU’umanità del “ne­mico” e il peso della lonta­nanza sui sentimenti e sul ses­so.

Un’appendice documentaria, costituita da alcune relazioni- tipo redatte dalle Commissioni provinciali di censura e dall’I­spettorato censura militare, completa il lavoro che s’impo­ne all’attenzione del lettore sia per l’ampiezza e novità della ricostruzione che per gli sti­moli e le proposte di appro­fondimento suggerite a tutti coloro che, lavorando su quel periodo, non vogliono cadere prigionieri né di luoghi comu­ni né di schemi interpretativi rivelatisi, col passar del tem­po, piuttosto fragili.

Giorgio Boatti

Ricciotti Lazzero, La Decima Mas, Milano, Rizzoli, 1984, pp. 377, lire 18.000.

Continuando nel suo studio delle formazioni paramilitari della Rsi, Ricciotti Lazzero, dopo le Ss italiane e le Brigate nere, prende in esame la Deci­ma Mas. L’autore ha saputo evidenziare il tratto caratteri­stico di questa unità, abba­stanza anomala anche per il variopinto panorama repubbli­chino, interpretandola come una moderna compagnia di ventura, per certi versi simile ai Freikorps baltici del primo dopoguerra, offrendo perciò la dovuta attenzione alla figu­ra del suo creatore ed unico comandante, Junio Valerio Borghese.

Ampio spazio viene dedica­

to all’analisi dell’organizzazio­ne interna dalla Decima Mas, la cui struttura complessa è chiarita nei vari particolari, individuando anche la sua progressiva atomizzazione in tanti feudi personali, legati as­sieme, col passar del tempo, solo dalla figura carismatica di Borghese, continuamente impegnato a correre da un co­mando all’altro per tenere tut­to sotto controllo. I limiti di Borghese come organizzatore militare emergono proprio dal­l’esame di questo meccanismo alla prova dei fatti: finché si trattava di operare a livello dei singoli battaglioni, la De­cima Mas si dimostrava un ef­ficace strumento bellico. Tutti i difetti del sistema di parcel­lizzazione personalistica veni­vano impietosamente alla luce al momento di operazioni più impegnative, che richiedevano un’organizzazione basata sulla cooperazione e integrazione delle forze, e che si rivelavano un compito superiore alla pre­parazione bellica dei vari co­mandanti locali: al tempostesso questi difetti strutturali minavano alla radice tutte le ambizioni politiche di Borghe­se perché diminuivano il suo peso nelle oscure trame politi­che intessute fuori e dentro la Rsi.

L’autore ricostruisce l’insie­me dei contatti tra la Decima Mas e alcune formazioni parti- giane in vista di un comune im­pegno contro le forze slave in difesa del confine orientale, e delinea anche le trattative tenute in prima persona da Borghese con gli Alleati. Alla fine, mentre la situazione precipita, ciò che interessa agli inglesi è soprattut­to di mettere le mani sul military

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desperado per conoscere i segre­ti del suo passato di specialista dei mezzi di assalto subacquei: al ruolo politico del “duce nu­mero due” , ormai non crede più nessuno, se non i marò lasciati soli di fronte ai partigiani vitto­riosi. Il problema della tenuta morale di questa unità, netta­mente superiore a quello delle altre formazioni della Rsi, viene trattato con una certa ampiezza. Se non è difficile comprendere i motivi della compattezza del piccolo nucleo di assaltatori del­la Marina, élite superaddestrata e del tutto atipica nel panorama militare italiano, i motivi pro­fondi della massiccia adesione all’esercito privato di Borghese non vengono chiariti se non in termini descrittivi e numerici. Sono riportati i tratti essenziali del materiale di propaganda dif­fuso dalla Decima Mas; emer­gono alcuni tratti tipici di un combattentismo cupamente en­tusiasta, con una precisa seppur allucinata ideologia, con ele­menti comuni ai paras della guerra d’Algeria così come alle Ss delle ultime fasi del conflitto; sono citati episodi di fronda al­l’interno della Rsi: ma in so­stanza il fenomeno è descritto senza essere interpretato. L’au­tore accenna, però, ad alcuni elementi importanti: l’elevato numero di nobili nei ranghi del­la Decima Mass, la tradizione degli ufficiali di marina di vive­re e combattere accanto ai pro­pri uomini, puntando costante- mente alla ricerca dello spirito di iniziativa, i nuovi criteri ad­destrativi e di gestione del per­sonale che rivoluzionavano i precedenti sistemi in voga nel regio esercito.

Il quadro che si delinea è quello di uomini che, almeno

nei gradi più bassi, non hanno compreso appieno i dati essen­ziali dello scontro in atto: con­vinti di difendere l’onore della patria obbedivano senza diffi­coltà ai tedeschi; portatori di un ideale patriottico si rendevano conto di essere estranei alla loro stessa gente; arruolatisi sulla ba­se di una esplicita promessa di impugnare le armi contro gli Al­leati per lo più hanno combattu­to contro i loro connazionali; come militari, infine, hanno compreso molte cose giuste quando ormai era troppo tardi. Il mito del combattente puro e duro, alieno dagli intrighi politi­ci (che per conto suo Borghese tesseva instancabilmente), non poteva reggere in uno scontro di portata nazionale sino ad assu­mere una precisa valenza politi­ca alternativa al fascismo uffi­ciale, del resto sempre dubbioso sulle iniziative di Borghese: alla fine si dimostrò una semplice, per quanto intensa, spinta emo­zionale facilmente strumentaliz­zabile.

Antonio Sema

Mario Montanari, L ’esercito italiano alla vigilia della secon­da guerra mondiale, Roma, Sta­to Maggiore dell’Esercito - Uffi­cio storico, 1982, pp. 581, lire12.000.

La situazione delle forze ar­mate italiane alla vigilia del 10 giugno 1940 è un tema fonda- mentale per lo studio della se­conda guerra mondiale. In que­st’opera, il generale Montanari, già noto per il suo lavoro sulla guerra di Grecia, ha indirizzato la sua analisi verso molte dire­zioni, mirando alla ricostruzio­ne dei processi teorici che hanno

guidato le realizzazioni operati­ve del regio esercito. In ogni momento del suo lavoro, però, l’autore ha tenuto fermo il prin­cipio del confronto con le valu­tazioni dei contemporanei, uti­lizzando a questo fine i com­menti alle manovre in tempo di pace, i verbali delle riunioni e le varie circolari diramate dai co­mandi. Allo stesso obiettivo mi­ra il costante riferimento alle decisioni e alle dottrine degli anglo-francesi, anche se forse il confronto dottrinale è appena accennato mentre sarebbe stato opportuno inserire la linea del pensiero italiano all’interno del­l’evoluzione teorica dei princi­pali Stati maggiori europei.

In questo tipo di ricerca la quantificazione numerica è im­portante, perché fissa in manie­ra non equivoca i termini mate­riali del problema militare, ma l’autore evita di limitare il suo discorso al mero confronto nu­merico. Tabelle, diagrammi e percentuali acquistano un senso abbastanza preciso nel momen­to in cui possono appoggiarsi su di una analisi del materiale “uo­mo” , compiuta dal punto di vi­sta addestrativo, amministrati­vo e anche culturale. L’impossi­bilità di una verifica quantitati­va in questo tipo di problemati­ca indebolisce la validità di ogni valutazione, ma un parziale ri­medio può essere trovato in un ricco supporto documentario, che diminuisce il rischio dell’ec­cesso di soggettivismo. Talvol­ta, come nel caso dello spirito di iniziativa, il giudizio negativo si appoggia all’analisi delle mano­vre e all’individuazione di un di­fetto amministrativo, la sovrap­posizione di competenze gerar­chiche, che risultava demotivan­te per gli ufficiali di grado inter­

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medio. Altre volte ci si deve limi­tare a indicare delle linee di ten­denza. Così, i limiti teorici ed or­ganizzativi dell’Italia nel settore dei mezzi corazzati sono fatti ri­salire alla convinzione “che la guerra italiana, guerra difensiva per giunta, fosse da combattere sulle Alpi” , (p. 235), ma anche all’assenza “nei capi militari di una vera mentalità motorizzata e, ancor meno, corazzata” , (p. 236): l’azione congiunta dei due errori condusse la dirigenza mili­tare a trascurare le realizzazioni internazionali nel campo della guerra corazzata, sopravvalutan­do però le modeste realizzazioni nazionali.

Pur senza mai assurgere a ca­none interpretativo centrale, il te­ma del ritardo culturale dei verti­ci militari e politici dinanzi alla complessità delle domande poste da una guerra moderna affiora spesso nelle pagine dell’autore, pronto a criticare senza mezzi termini le scelte dei militari. Così, viene censurata la mancanza di una precisa volontà di fare tutto il possibile con il materiale a di­sposizione una volta accettata la decisione politica di entrare in guerra: a quel punto “diventava imperiosa non l’attesa del 1943... bensì la necessità di impostare una linea strategica che, tenendo conto di quanto era realizzabile a breve scadenza, puntasse tutto sulla risoluzione in pochi mesi di un conflitto limitato” , (p. 357). Correttamente, l’autore avverte che ogni discorso sul grado di ef­ficienza del dispositivo militare italiano deve tener conto del fatto che “la politica estera fascista era così variabile che è difficile indi­viduare una decisa volontà di procedere con una certa coerenza verso obiettivi chiaramente defi­niti... Conseguentemente, anche

nel campo degli apprestamenti militari gli alti e bassi si alterna­vano a pause di attesa, senza una programmazione organica, senza un indirizzo preciso” (pp. 56-57). Questo non è il discorso delle “occasioni mancate”, ma l’anali­si di un tecnico che soppesa i dati strategici. Da questo retroterra nasce l’attenzione alle realizza­zioni della Francia e dell’Inghil­terra, messe a confronto scac­chiere per scacchiere con quelle dell’Italia, e discusse sulla scor­ta delle informazioni allora di­sponibili, anche se non manca­no i dati sull’effettivo stato de­gli apprestamenti bellici. L’au­tore ammette che “in un mondo quale quello anteguerra, in cui i giochi delle amicizie e degli schieramenti presentavano alti e bassi con conseguenti mutamen­ti di indirizzo, era in un certo senso inevitabile una prepara­zione generica degli eserciti, specialmente in rapporto ai pos­sibili sviluppi tecnici ed operati­vi, da molti intuiti ma da pochi compresi” (p. 302), ma è co­stretto a concludere amaramen­te che il “poco che inizialmente poteva essere fatto non fu nem­meno tentato” (p. 357). Una ric­ca selezione di documenti, in parte inediti, completa il volu­me che si annuncia come la “premessa alle varie monografie relative alle campagne combat­tute dall’Esercito Italiano nel se­condo conflitto mondiale” (p. 7). I fondi utilizzati giacciono presso l’Ufficio storico e riguardano la Commissione suprema di Difesa per le sessioni XV, XVI e XVII, il carteggio 1939-1940 del ministero della Guerra, Gabinetto, i piani operativi oltre a relazioni e verba­li di alcune riunioni.

Antonio Sema

Verbali delle riunioni tenute dal Capo di S.M. Generale, volume I (26 gennaio 1939 - 29 dicembre 1940), Roma, Ufficio storico dello Stato Maggiore dell’Eser­cito, 1982, pp. 147, lire 5.000.

Questa raccolta di verbali si discosta dalla tradizione delle monografie dell’Ufficio storico relative alla relazione ufficiale sul secondo conflitto mondiale perché non si tratta di un lavo­ro di interpretazione ma di una raccolta di documentazione estremamente utile agli studio­si. Il volume, curato dal colon­nello Mazzaccara e dal profes­sor Biagini, si annuncia come il primo di una serie che tra l’al­tro comprenderà un’Appendice relativa al funzionamento dello Stato maggiore generale duran­te la guerra e alcune biografie dei massimi esponenti militari del periodo. Tale iniziativa si colloca all’interno del processo di revisione e perfezionamento delle opere pubblicate dell’Uf­ficio storico dell’esercito negli anni scorsi. In questo modo, lo spoglio degli archivi si accom­pagna ad uno sforzo di pubbli­cazione e accorpamento delle fonti in insiemi accessibili an­che senza la consultazione di­retta. Una sintetica “Nota in­troduttiva” apre la serie di 22 verbali delle riunioni tenute dal Capo di Stato maggiore gene­rale nel periodo 26 gennaio 1939-29 dicembre 1940. Tranne il primo verbale, il grosso del materiale riguarda il periodo della “non belligeranza” e della “guerra parallela” . Gran parte della documentazione sulla “non belligeranza”, tuttavia, era già stata pubblicata in Emi­lio Faldella, L ’Italia nella se­conda guerra mondiale. Revi­

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sione di giudizi ( Rocca San Ca- sciano, Cappelli, 1959, pp. 717- 746).

Il materiale inedito, integral­mente tratto dai fondi dell’ar­chivio deirufficio storico dello Stato maggiore dell’esercito, si riferisce a vari argomenti, dei quali forniamo un sintetico elenco. Il 22 gennaio 1939, alla presenza di Badoglio e dei capi di Stato maggiore delle tre armi, si discute delle direttive politi­co-strategiche, delle scorte per le industrie di guerra, della mo­bilitazione civile e di quella per la Milizia Dicat. Seguono i ver­bali pubblicati da Faldella e poi quelli a ridosso della dichiara­zione di guerra, nei quali vengo­no esaminati gli argomenti più disparati: richiesta di materiale da parte di Balbo, trasferimento dei Comandi fuori Roma, dife­sa di Roma (8 giugno 1940); Gi­bilterra e Malta, situazione ge­nerale (25 giugno); ricompense per atti di valore, Malta e Gibil­terra, impiego dell’aviazione (2 luglio); rifornimenti all’Africa orientale italiana (21 luglio); ri- fornimenti all’Egeo (26 agosto); situazione politico-militare (25 settembre); potenziamento della ricognizione marittima (14 otto­bre). Poi appare la “Emergenza G” che campeggia nell’ultimo gruppo di verbali, sempre più tesi e concitati: azione contro la Grecia (17 ottobre); operazioni in Grecia, occupazione di Corfù e Cefalonia (24 ottobre); situa­zione in Grecia (1° e 3 novem­bre); invio forze in Albania (11 novembre); situazione della 9° Armata (4 dicembre); come rin­forzare l’Albania (18 dicembre); ripianamento materiali in Al­bania (19 dicembre); situazio­ne operativa in Albania (29 di­cembre).

Osserva Biagini: “I verbali delle riunioni tenute dal Capo di Stato maggiore generale sono tra gli strumenti più significativi per ricostruire il processo di for­mazione delle principali decisio­ni militari correlate a quelle che furono le direttive politiche. Questo lavoro assolve a questo tipo di esigenza...” (p. XII). A tal fine, viene eliminato qualsia­si intermediario tra il testo e il lettore: nessuna nota, solo l’in­dice dei nomi e l’elenco delle abbreviazioni. In prospettiva, si prefigura qualcosa di simile ai documenti diplomatici italia­ni, fatte salve le debite propor­zioni: sarebbe certamente un’i­niziativa molto utile in tempi in cui si assiste all’uso disinvolto delle fonti, gelosamente custo­dite, e talvolta anche alla prese- lezione, su basi non scientifi­che, degli studiosi per l’accesso a certi fondi privati.

Antonio Sema

Romagna 1944-1945. Le imma­gini dei fotografi di guerra ingle­si dall’Appennino al Po, Bolo­gna, Clueb, 1983, pp. 194, sip.

Si tratta del catalogo della mostra fotografica organizzata dall’Istituto per i beni artistici, culturali e naturali della Regio­ne Emilia-Romagna, dal Museo del Senio di Alfonsine e dall’I­stituto storico della Resistenza di Ravenna. Le immagini, trat­te dalla ricchissima serie recu­perata presso 1’Imperial War Museum di Londra da Gian Franco Casadio e Giuseppe Masetti, costituiscono un nuo­vo supporto alla lettura delle vicende belliche romagnole e bolognesi, pur tenendo conto

dello scopo propagandistico (e non certo di documentazione storica) che induceva i reporter inglesi alla loro realizzazione. Non possiamo, perciò, che se­gnalare positivamente la pubbli­cazione di un materiale che può rappresentare uno strumento per la lettura degli avvenimenti; complementare alla documenta­zione scritta conservatasi, anche se abbiamo l’impressione che la scelta delle immagini esposte (e riprodotte nel catalogo) sia stata più determinata dalla volontà di coprire geograficamente tutte le località della Romagna, che non di costruire un discorso organi­co sul paesaggio rappresentato o sulla popolazione ripresa.

Ben raramente ci troviamo di fronte ad immagini artistica­mente valide, anzi, troppo spes­so, esse sono piatte e fredde, co­struite a posteriori (scomparsa ogni azione e passato ogni peri­colo) e meccaniche, quasi mai determinate da “amore” del fo­tografo per quel soggetto che viene ripreso. Scarsa o nulla l’attenzione per il paesaggio e i costumi “strani” per un cittadi­no inglese, ben pochi gli slanci della fantasia o le riprese “ardi­te” nel soggeto e nel taglio-, la luce serve semplicemente ad il­luminare il soggetto, mai a rile­varne le emozioni o gli stati d ’a­nimo. Dominano quindi tradi­zionali gruppi di soldati, le au­torità e i carri armati; vengono documentati scrupolosamente tutti gli ingressi in ogni località liberata, mettendo ben in evi­denza il cartello stradale con il nome del paese. Nemmeno i millenari monumenti di Raven­na sembrano destare il minimo interesse in questi fotografi di guerra che, seguendo un rigido “manuale” e regole ben precise,

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debbono solo mostrare che il conflitto procede e se ne avvici­na lentamente la fine. I morti sono drasticamente esclusi dalle immagini che registrano una guerra senza vittime umane per non provocare reazioni negative dell’opinione pubblica d’oltre Manica.

Nonostante questi limiti delle immagini, in esse restano, co­munque, importanti segni del passaggio della guerra e delle di­struzioni o casuali scorci di un paesaggio agricolo (pp. 132- 135) ormai scomparso.

Luciano Casali

Antonia Setti Carraro, Carità e tormento. Memorie di una cro­cerossina, 1940-46, Milano, Mursia, 1982, pp. 321, lire 14.000.

Queste memorie di guerra di una crocerossina si segnalano per più aspetti, in primo luogo perché introducono nell’am­biente poco conosciuto delle “sorelle” della Croce rossa, una delle strutture portanti dell’assi­stenza bellica. Proveniente da una grande famiglia padovana, con due fratelli caduti in guerra, la Carraro prestò servizio al confine orientale e in Jugosla­via, poi su una delle navi che nel 1942-1943 rimpatriarono donne e malati dal perduto impero etiopico; sorpresa dall’armisti­zio in Grecia e portata in Ger­mania, alla fine del 1943 aderì alla Rsi e lavorò per quasi un anno nei centri di addestramen­to tedeschi delle truppe repub­blichine, poi negli ultimi mesi del conflitto in vai d’Aosta. So­no soprattutto le esperienze di questo ultimo periodo a interes­

sare la Carraro, che dedica 45 pagine ai tre anni 1940-1943 e 260 pagine ai 18 mesi successivi, certamente più ricchi di scelte e avvenimenti. L’autrice rifiuta ogni discorso di politica (oggi, perché nel 1944 collaborò alla propaganda fascista) e parla soltanto di patriottismo come unica guida, di guerra sbagliata in cui i giovani muoiono senza futuro e di valori privati come la responsabilità verso i feriti affi­dati alle sue cure, di culto per i suoi morti, di orgoglio profes­sionale e di fede cristiana. Que­sto patriottismo tradizionale e l’ostentata disponibilità umana verso i feriti di tutte le parti ce­lano però motivi prettamente fascisti, come l’odio verso la re­sistenza partigiana: si vedano le pagine sulle barbarie della guer­ra jugoslava (pp. 24 sgg.), che dimenticano gli orrori sistemati­ci della nostra invasione e re­pressione, e poi le pagine sulla resistenza aostana e torinese, in cui tutti i gesti di violenza, tutte le brutalità e gli assassini sono commessi da partigiani e dai lo­ro vili sostenitori civili, mentre i fascisti appaiono intenti soltan­to a difendere il confine della patria dagli invasori francesi. A quarant’anni di distanza la Car­raro non sa uscire dall’angusto cerchio dei ricordi e dei rancori degli anni di guerra, fino a scri­vere frasi di una superficialità inaccettabile: “Giustizia e liber­tà” ad esempio, diventa la ban­da personale di Galimberti, dif­fusa solo nell’alto Piemonte e quindi i suoi partigiani non pos­sono che essere montanari così incalliti da rifiutare di lavarsi con l’acqua tiepida (p. 298).

Malgrado questi limiti di fon­do, le memorie della Carraro non sono del tutto inutili, come

testimonianza ancora diretta della triste vita delle formazioni repubblichine nei campi tede­schi di addestramento e come documentazione dello spirito di casta che pervadeva l’esercito regio come quello fascista, con una contrapposizione tra uffi­ciali e crocerossine e la truppa, vista sempre con paternalistico distacco.

Giorgio Rochat

Alberto Santoni, La seconda battaglia navale della Sirte, Ro­ma, Edizioni dell’Ateneo, 1982, pp. 87, lire 7.000.

Sulla base della bibliografia italiana e inglese disponibile e di ricerche negli archivi militari italiani e presso il Public Record Office di Londra, Alberto San­toni presenta un’accurata rico­struzione della cosiddetta secon­da battaglia navale della Sirte, che il 22 marzo 1942 vide pro­ponderanti forze navali italiane e forze aeree italiane e tedesche impegnate contro un convoglio di quattro mercantili britannici diretti a Malta da Alessandria con la scorta complessiva di cin­que incrociatori leggeri e dicias­sette cacciatorpediniere.

Con una polemica documen­tata, anche se inutilmente astio­sa, contro la storiografia uffi­ciale e agiografica, Santoni rile­va l’insuccesso totale delle forze aeree italiane, impegnate a spiz­zico contro il convoglio senza alcun risultato, e di quelle nava­li, che in tutto un pomeriggio di scontri non riuscirono a sfrutta­re la loro schiacciante superiori­tà, finendo con l’indietreggiare dinanzi alla determinazione del­le forze leggere britanniche sen­za aver danneggiato una sola

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nave nemica. Anche l’aviazione tedesca non ebbe maggiore fortu­na nei suoi attacchi del 22, ma nei giorni seguenti, a prezzo di non poche perdite, riuscì a distruggere uno dei mercantili britannici in mare e gli altri tre nei porti di Malta, prima che potessero scari­care tutti i rifornimenti indispen­sabili alla resistenza dell’isola.

Santoni sottolinea impietosa­mente, ma fondatamente l’esten­sione del fallimento italiano chia­mando in causa non solo l’impe­rizia degli alti comandi, ma l’inte­ra organizzazione militare; infatti nota che le condizioni atmosferi­che furono considerate pesanti, ma non proibitive da tedeschi e inglesi, mentre invece ostacolaro­no gravemente l’azione delle for­ze italiane, tanto che nel rientro alle basi due cacciatorpediniere furono affondati e un’altra mez­za dozzina di navi danneggiate dal mare grosso.

Il volumetto merita di essere letto e meditato, anche per le con­siderazioni generali che se ne pos­sono trarre su tutta la condotta della guerra aeronavale italiana e come reazione un po’ eccessiva, ma sacrosanta, all’impostazione agiografica della storiografia tra­dizionale.

Giorgio Rochat

Campagne de Tunisie, novembre 1942-mai 1943. Actes du colloque international sur l ’histoire de la deuxième guerre mondiale, Tuni­si, Comité national tunisien d’hi­stoire de la deuxième guerre mon­diale, 1983, pp. 318, sip.

Il volume presenta le relazioni del convegno internazionale or­ganizzato a Tunisi nell’ottobre 1982 dal Comité national tuni­sien d’histoire de la deuxième

guerre mondiale sulla Tunisia nella seconda guerra mondiale e in particolare sulla campagna di Tunisia. Pur con gli scompensi abituali in un volume di atti e in una veste grafica alquanto scon­nessa, il volume contiene alcuni contributi di rilievo sia sulle ope­razioni in Tunisia dei vari eserci­ti impegnati, sia sulla Tunisia, con qualche concessione alle esi­genze patriottiche locali, ma an­che con studi rigorosi come quello di J. Bessis sulla mino­ranza italiana di Tunisia nella guerra mondiale. Il volume, che non risulta in vendita, può esse­re richiesto al citato Comité na­tional tunisien presso il ministe­ro tunisino di difesa, oppure al­l’ambasciata tunisina di Roma.

Giorgio Rochat

Gigi Speroni, Amedeo duca d ’Aosta. La resa dell’Amba Alagi e la morte in prigionia nei documenti segreti inglesi, Mila­no, Rusconi, 1984, pp. 228, lire12.000.

Non basta reperire negli ar­chivi londinesi i telegrammi che le autorità politiche e militari britanniche si scambiarono in occasione della malattia e della morte di Amedeo d’Aosta per presentare un quadro convin­cente di una personalità certa­mente interessante, se per tutto il volume si continua ad utilizza­re come fonte soltanto la produ­zione agiografica e divulgativa. La bibliografia presentata in ap­pendice al volume è significati­va: ci sono i testi giornalistici di Bandini, Bertoldi e Montanelli e le biografie celebrative, manca tutta la produzione storiografi­ca, a cominciare da Del Boca e

dall’Ufficio storico dell’esercito. Non c’è perciò da meravigliarsi se gli errori piccoli e grandi pullulino nelle pagine del volume, che non si distacca dal livello delle rievo­cazioni illustrate dei rotocalchi, nella convinzione così diffusa che per avere successo la divulgazione storica debba essere condotta con incompetenza e superficialità.

Giorgio Rochat

Giuseppe Rotolo, Dal Piave al Don. Tre guerre nella vita di un chirurgo, Milano, Mursia, 1984, pp. 171, lire 18.000.

Sommari ricordi di un illustre chirurgo, che ripercorre le diverse tappe della sua vita privata, pro­fessionale e militare, fermandosi in particolare sui venti mesi di servizio in Etiopia e sui quasi quattro anni di prigionia in Rus­sia. Pur nella loro brevità, questi ricordi sono interessanti per l’e­quilibrio con cui l’autore riper­corre anche i momenti più tragici delle sue esperienze di guerra e di prigionia, senza rancori e con molti affetti.

Giorgio Rochat

Institut d’histoire du temps pré­sent, Institut Charles de Gaulle, De Gaulle et la nation face aux problèmes de la défense (1945-1946), Paris, Plon, 1983, pp. 317, Ff. 110.

Quali forze armate, e per quale politica? Intorno a questa do­manda, nella Francia appena uscita dalla vittoria alleata sul na­zismo, si è sviluppato un grande dibattito nazionale, che ha coin­volto le principali forze politiche uscite dalla lotta di liberazione e

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il governo provvisorio guidato dal generale de Gaulle. Sosteni­tore, fin dagli anni trenta, di un esercito professionale che non legasse la sua operatività alle lunghe e farraginose mobilita­zioni generali, immancabili pre­ludi di guerre lunghe e disastro­se, de Gaulle ritiene che la Fran­cia del dopo 8 maggio 1945 non debba attenuare il suo sforzo per dotarsi d’una forza militare il più possibile autonoma e ope­rativa, per poter ritrovare pie­namente il suo ruolo di grande potenza, e seppure sotto la for­ma d’una libera associazione di stati nazionali, mantenere tutto il suo impero, che ha visto più volte minacciato dagli inglesi (soprattutto in Medio Oriente) e dagli americani (in Africa del Nord e in Indocina).

Per i più importanti partiti politici che hanno collaborato, nel governo provvisorio e nel paese, a sostenere lo sforzo belli­co fino alla sconfitta della Ger­mania, la fine della guerra non potrebbe non rappresentare an­che la diminuzione dei sacrifici che la nazione deve consentire al suo armamento, e l’avvio invece di una “battaglia della produzio­ne” diretta alla ricostruzione e al potenziamento dell’apparato in­dustriale del paese, sostanzial­mente stremato dagli anni del­l’occupazione nazista prima e dalla partecipazione alla guerra alleata poi. Il contrasto tra le due posizioni, reso evidente da una decurtazione del 20 per cento sui crediti militari per il 1946 richiesti dal governo dell’Assemblea Co­stituente, si risolve con le dimis­sioni di de Gaulle e la formazione d’un governo tripartito (Mrp, Sfio, Pcf) a direzione socialista.

Nel colloquio tenutosi a Pari­gi il 21 e 22 ottobre 1982, e di

cui in questo volume vengono pubblicati gli atti, un nutrito gruppo di storici contempora- neisti, di storici militari (o mili­tari storici, visto che rappresen­tano i servizi storici delle tre ar­mi) e di testimoni illustri resti­tuisce nel dettaglio i momenti di questo grande dibattito nazio­nale, nei suoi aspetti di politica militare innanzitutto, ma anche di prospettiva politica più complessiva.

Le nuove forze armate repub­blicane non rinascono certo 1*8 maggio 1945; un loro rappre­sentante poteva anzi presenziare alla firma della resa tedesca, al fianco degli americani, dei so­vietici e degli inglesi (insieme ai quali i francesi occuperanno la Germania), proprio perché de Gaulle era già riuscito ad otte­nere, con tutta la resistenza francese, il grande risultato di far rientrare le forze armate francesi nella guerra contro il Reich: gli atti del colloquio mo­strano, cifre alla mano, l’entità dello sforzo consentito dal gover­no provvisorio per la partecipa­zione della Francia alla guerra, come non nascondono gli ostaco­li d’ogni tipo (materiali, politici, diplomatici) che la Francia libe­rata ha dovuto sormontare per arrivare a quella firma, che ri­scattava l’armistizio del giugno 1940. Un lavoro di ricostruzione reso ancora più difficile dal ca­rattere eterogeneo del nuovo quadro militare, che ha dovuto assemblare ceppi talmente diver­si: i pochissimi ufficiali della France libre, i petainisti pentiti dell’Africa settentrionale e del­l’Esercito dell’armistizio, i com­battenti della Resistenza metro­politana. Su tutti questi aspetti, e anche sui primi segni dell’insor- gere delle grandi questioni del­

l’Indocina e dell’Algeria, chi leg­ge queste pagine ricava utili noti­zie e approfondimenti, basati in buona parte su fonti documen­tarie ineccepibili.

Dove però gli atti del collo­quio sono meno convincenti, è in una quasi universale soprav­valutazione delle scelte politiche di de Gaulle e della sua lungimi­ranza; per la maggior parte de­gli intervenuti, il generale aveva ragione su tutto e aveva capito tutto: la “minaccia sovietica” (la miopia di Churchill avrebbe irresponsabilmente consentito all’Armata Rossa di stazionare a seicento chilometri, in linea d’aria, da Parigi, senza chiedere il permesso e de Gaulle), la pro­spettiva d’una decolonizzazione che andava guidata con lungi­miranza (l’Union française avrebbe permesso d’evitare le disastrose guerre coloniali della IV Repubblica, garantendo gli interessi francesi sia in Indocina che in Nord Africa), le conse­guenze di Hiroshima (grazie alla sua volontà di costituire il Com­missariat à PEnérgie Atomique la Francia è potuta restare nel novero delle potenze che conta­no, quelle che hanno la bomba), l’impotenza d’un regime basato sul “potere assembleare” che tiene prigioniero il governo (e le sue dimissioni sono una metafo­ra della virtù oltraggiata). Il to­no è tale che uno degli storici in­tervenuti, Jean-Pierre Rioux, chiede se sia illegittimo che “i tre partiti che riuniscono i tre quarti dei voti dei francesi, af­fermino d’avere la capacità po­litica di dire che il Generale de Gaulle può essere un ostacolo all’affermazione della politica che preconizzano” e se “peut-on dire que les 3 /4 des Français ont systématiquement tort con-

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tre le Général de Gaulle?” (p. 168). Su un altro piano, quello dell’identificazione del nuovo nemico esterno nell’Urss e di quello interno in un Pcf sempre e soltanto servo di Mosca, molti intervenuti non sembra siano riusciti ad osservare un’avverten­za di Réné Rémond, che, con­cludendo i lavori del colloquio, mette in guardia dal “projeter sur le printemps 1945 — et sur ce que l’opinion pense — l’om­bre portée de la guerre froide, deux ans plus tard” (p. 293).

Giorgio Caredda

Pietro Verri, Appunti di diritto bellico, Roma, ed. della “Ras­segna dell’arma dei carabinie­ri” , 1982, pp. 212, sip.

Il volume è esplicitamente ri­volto ai militari, cui fornisce in forma manualistica un’introdu­zione agli enormi problemi tec­nici, politici e morali posti dal diritto bellico, ossia dal tentati­vo di stabilire dei limiti concor­dati all’impiego della violenza armata in caso di guerra. Lo storico non può che avvicinarsi con molta circospezione a que­sta materia, perché il diritto bellico è stato e viene violato tutte le volte che uno dei belli­geranti lo sente come ostacolo all’affermazione della sua vo­lontà di vittoria. Tuttavia la conoscenza dei tentativi di ieri e di oggi di porre qualche limi­tazione all’impiego della vio­lenza bellica è di grande inte­resse, anche perché l’autore presenta un apparato bibliogra­fico ricco e articolato, da non perdere per chi segue questa problematica.

Giorgio Rochat

Rassegna delle riviste

Nuove riviste

“Analisi storica", I, (luglio- dicembre 1983) n. 1.

La rivista — diretta da Mat­teo Pizzigallo, a sua volta af­fiancato da un comitato scien­tifico che comprende tra gli al­tri Gabriele De Rosa, Simona Colarizi, Renato Mori e Fabio Grassi — si presenta manife­stando un duplice scopo. A li­vello territoriale essa sottolinea un “legame privilegiato” con le Università di Bari e di Lecce, intorno alle quali intende crea­re “nuovi momenti di aggrega­zione e di dibattito”; sul piano degli orientamenti storiografici — ribadita una particolare at­tenzione al “dibattito meridio­nalista” attraverso la “rubrica di punta” Mezzogiorno: storia e storiografia (che in questo primo numero ospita un inter­vento di De Rosa su II terremo­to del Sud del 23 novembre 1980 e la “memoria storica” — sono presenti rubriche differen­ziate o per scelte tematiche (la Sezione monografica) o per “generi” (Testi e documenti, “spazio riservato alla scoperta individuale” e Tesi di lavoro che pubblicherà “su proposta dei rispettivi relatori, il capito­lo più interessante di una tesi di laurea in storia discussa nelle Università italiane”).

Trattandosi di un fascicolo d’esordio, non è evidentemente possibile valutare sin d’ora la rispondenza tra l’architettura sopra richiamata e la ripartizio­ne dei contenuti; ciò che va sot­tolineata è l’ampiezza del rag­gio di intervento e la presumi­bile difficoltà di offrire una

campionatura significativa an­che sotto il profilo quantitativo data la cadenza semestrale del periodico. La Sezione mono­grafica) di questo primo nume­ro comprende tre ricerche sul­l’intreccio tra impulsi economi­ci e iniziative diplomatiche al­l’indomani della “grande guer­ra” : si tratta di Ludovica de Courten, Marina mercantile e politica estera. L ’Ansaldo di Pio Perrone nel primo dopo­guerra-, Luciano Flussi, La di­plomazia delle cannoniere: gli sbarchi italiani in Anatolia nel 1919; Matteo Pizzigallo, L ’ u l ­timo” accordo con la ‘Sublime Porta’ e la fine dell’occupazio­ne italiana in Anatolia (1922).

Vale osservare che le que­stioni affrontate affiancano una lettura che sta conoscen­do, negli ultimi anni, un rile­vante sviluppo sia sul versante economico che su quello politi­co (m.l.).

“Storia in Lombardia”. Ili (1984), n. 1, pp. 253, lire12. 000.

L’Istituto lombardo per la storia del movimento di libera­zione in Italia ha pubblicato il primo numero di una nuova ri­vista di storia contemporanea lombarda. Questo quadrime­strale riprende e completa la già ampia raccolta di informazioni e di strumenti di ricerca offerta dal bollettino dallo stesso nome, uscito in tre fascicoli dal 1982 al 1983.

“Storia in Lombardia” ha un’ampia parte dedicata a saggi e ricerche specifiche, nella quale ci si propone di privilegiare i momenti portanti della storia regionale dalla rivoluzione in­

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140 Rassegna bibliografica

dustriale ai nostri giorni, con particolare interesse per la sto­ria sociale negli ambiti che van­no dalla demografia, alla sani­tà, dalla scuola alla cultura po­polare, all’assistenza. In questo primo numero vengono pubbli­cati saggi di Giorgio Bigatti su Trasformazioni urbane e condi­zioni abitative nella Milano au­striaca (1816-1859), di Fabio Pizzamiglio su Manicomio e classi subalterne a Mantova (1858-1918), di Stefano Fusi su Il Partito popolare in Lombar­dia dalle origini alla marcia su Roma e di Alexander De Grand su I primi anni del Partito co­munista italiano a Milano (1921-1926): i problemi di una federazione dissidente. Sono tutti saggi che si caratterizzano per una seria ricerca documenta­ria, una intelligente prospettiva di storia sociale negli ambiti più specifici della ricerca condotta negli ultimi anni dall’Istituto lombardo per la storia del movi­mento di liberazione in Italia.

Questa parte dedicata alla ri­cerca viene completata da due rubriche di proposte e provoca­zioni metodologiche: una Di­scussioni in cui si affrontano i temi più significativi del dibatti­to storiografico attuale. In que­sto numero Duccio Bigazzi apre una tavola rotonda sui problemi di metodo e le prospettive di ri­cerca della storia delle imprese. Molto utile è anche la rubrica Testimonianze e documenti che ospita fonti archivistiche inedite e che in questo numero pubblica le lettere di De Gasperi a Stefa­no Jacini negli anni difficili in cui lo statista trentino dopo il carcere iniziava il suo lavoro alla Biblioteca vaticana.

Nella seconda parte, più stru­mentale, vengono riprese le ru­

briche già avviate nel preceden­te bollettino, e viene offerto un panorama completo ed esau­riente della ricerca storica in Lombardia con una serie di ru­briche dedicate agli archivi e alle biblioteche, agli istituti di ricerca, alla didattica della storia, alle in­formazioni bibliografiche. Un servizio utile per quanti in Lom­bardia, ma anche nelle altre re­gioni, voglia avere un prospetto dello stato degli studi contempo­ranei in un ambito che supera ampiamente per la ricchezza delle prospettive metodologiche e l’ampia articolazione dei mate­riali, il ristretto ambito della sto­ria locale (n.t.).

“Estudis d ’história contempo­ranea del Pais Valencia’’, 1980-1984, nn. 1-4.

Nella vivace ripresa degli studi di storia locale degli ultimi anni, conseguenza della democratizza­zione e insieme segno del nuovo spazio riconsciuto nella Spagna postfranchista alle autonomie lo­cali, il Dipartimento di storia contemporanea dell’Università di Valencia pubblica ogni anno, dal 1980, un volume, che raccoglie i contributi più significativi sulla storia della comunità valenciana dall’età moderna ad oggi, pro­dotti nella Facoltà di geografia e storia.

Negli ultimi anni sono conside­revolmente aumentate in Spagna le pubblicazioni monografiche o strumentali per la storia locale; particolarmente numerosi sono quelle in lingua catalana. Fra di esse si segnala questo periodico che si propone di superare invece ogni forma di localismo, e tende a fare, pur nell’ambito geografi­co considerato, una storia “tota­

le e globale”, nella linea tematica e interpretativa della scuola stori­ca francese e, in particolare, di quella delle “Annales” . I saggi vertono prevalentemente su pro­blemi di storia sociale e affronta­no questioni di demografia stori­ca, delle classi subalterne, dell’in­dustrializzazione ecc. Si vedano, ad esempio, fra gli altri i contri­buti di J. Castellò Traver, La estructura demogràfica urbana en la demografia preindustriai: la ciudad de Valencia en el Censo de Floridablanca (1787) (n. 1), o quello di M. Bàdenes e J.S. Ber­nat, Epidemia y hambre en la crisis del “Antiguo Régimen” valenciano. Estudio démografico (1808-1814) (n. 2).

Un grande spazio viene an­che dedicato alla storia dell’i­struzione, in particolare alle vi­cende dell’Università di Valen­cia (n. 2 e 3), alle scuole popo­lari (n. 1 e 2) o alla storia della stampa (n. 3 e 4). Una rubrica apposita (Materials) viene dedi­cata alla descrizione di fonti documentarie o bibliografiche o alle discussioni su problemi storiografici attuali.

Per quanto ci riguarda più direttamente segnaliamo due contributi di Ismael Saz Cam­pos: il primo Falange e Italia. Aspectos poco conocidos del fa ­scismo espanol (n. 3) esamina i rapporti fra i fascisti spagnoli e l’Italia negli anni precedenti l’i­nizio della guerra civile; mentre l’altro: Revolución o contrarre- volución? El fascismo corno problema (n. 4) analizza le di­verse interpretazioni del fasci­smo, soffermandosi particolar­mente su quelle italiane (Renzo De Felice), ma allargando anche la sua prospettiva alle interpreta zioni sociologiche di ispirazione anglosassone (n.t.).

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Rassegna bibliografica 141

Fait divers, fait d’bistoire

La presentazione di Marc Fer­ro (“Annales” , 1983, n. 4), di una serie di saggi rivolti all’anali­si di fait divers, in un ventaglio di tempi e di luoghi differenti, si presenta come proposta di una nuova direzione di studi storici. Il fa it divers, lasciato sinora alla cronaca dei giornali, solo recen­temente è stato studiato in chiave psicologica ed epistemologica da Roland Barthes (Essais critiques, Paris, 1964) e da Georges Auclair (Le Maria Quotidien. Structure et fonctions de la rubrique de fait divers, Paris, 1970).

Mentre Barthes individua le ragioni dell’interesse da sempre suscitato dal fatto diverso nel proporre un rapporto causale aberrante o inconsueto, tra eventi consueti, Auclair ne vede la specificità nelle modalità sog­gettive di ricezione, ossia nel ri­volgersi ai meno integrati nel si­stema sociale dominante ispiran­do al lettore un sentimento di superiorità. Ma sia Barthes che Auclair propendono per una teorizzazione del fa it divers co­me fenomeno atemporale e quindi astorico per definizione. Ferro, pur accettando la validità di tali ricerche, afferma che il fatto diverso, proprio in quanto si manifesta con contenuti e modalità variabili nei tempi e nelle culture, costituisce senz’al­tro un fa it d ’histoire, anzi un soggetto di storia privilegiato. La fenomenologia che lo carat­terizza varia infatti con il varia­re degli eventi storici: durante la Rivoluzione russa i giornali non riportarono più la rubrica appo­sita, mentre il progresso del sa­pere scientifico e la sua diffusio­ne ne hanno ridotto progressiva­mente l’estensione. Il fa it di­

vers, secondo Ferro, è da inter­pretare essenzialmente come ‘sin­tomo’ che segnala le crisi del tes­suto sociale, economico, politico e del sistema dei valori: una sorta di indicateur de santé delle socie­tà. il suo inserimento nella storia, mediato spesso dalla narrativa, conduce all’analisi del tessuto so­ciale e delle rappresentazioni col­lettive. Le operazioni di analisi possono considerarsi simili e complementari rispetto a quelle della microstoria: la microstoria muove dallo studio di un paese per ricostruire un sistema globale sulla base di una famiglia, di una permanenza di elementi immodi­ficabili, mentre lo storico del fat­to diverso individua uno stato di crisi per cogliere i momenti di di­scontinuità o di andamento nor­male di una società.

Alle teorizzazioni di Ferro se­guono alcuni saggi tendenti ad il­lustrare le modalità, i paradigmi messi in atto nell’analisi storica concreta. Michel Bée (Le specta­cle de l ’execution dans la France de l ’Ancien Regime) è attento al­la dinamica dei sentimenti e delle emozioni, alla ricostruzione del gioco di interazione dei fattori in­dividuale-collettivo-comunitario, che si sviluppa nel clima del mo­mento e del tempo pressoché im­mobile delle esecuzioni capitali.

Raffaella Comaschi (La dina­miche de Serra) ferma la sua at­tenzione sull’uccisione nel 1567 del notaio Melchiorre Carelli.

L’interrogatorio degli abitanti di Serra, ricostruito sulla base dei documenti dell’Archivio di Stato di Bologna e di Faenza, permette di ristabilire la dimensione del quotidiano (lo svolgersi nei suoi diversi momenti di una domenica ‘normale’) e nel contempo l’inte­laiatura dei rapporti di solidarie­tà tra le più importanti famiglie

della zona. Lucette Valensi (Le fa it divers, témoin des tensions sociales: Djerba 1892) prende le mosse da un caso di furto com­piuto nella comunità ebraica del­la Tunisia da un giovane gioiellie­re accusato dal suo datore di la­voro e deferito al giudizio del rabbino locale e quindi al Pro­curatore della Repubblica. Que­sto fatto di cronaca, sulla base di documenti degli Archives Gene­rales du Gouvernement de Tunis, illumina i rapporti tra la suprema autorità di una comunità locale e il potere centrale, e in ultima ana­lisi il comportamento di un grup­po etnico rispetto al sistema colo­niale nel suo complesso.

Michel Perrot (Note critique. Fait divers et histoire au X IX siè­cle), quasi a conferma della rile­vanza di questa linea storiografi­ca, ricostruisce la storia del fatto di cronaca a partire dal XVII se­colo quando tali eventi del quoti­diano erano narrati da canar- diers, e che solo dopo il 1860 die­dero luogo a rubriche di giornali, oggetto di lettura privata e non più materia di ‘leggendario’. Al­cuni giornali, per ragioni com­merciali, gli dedicarono ampie rubriche, mentre contempora­neamente il loro oggetto si tra­sformava, quasi interamente as­sorbito nei misteri del crimine.

La direzione di studi proposta da Ferro appare interessante so­prattutto per l’intreccio di mol­teplici dimensioni interpretati­ve, dalla psicologia all’antropo­logia, ma non sempre percorri­bile nell’ambito della storia con­temporanea per la molteplicità degli strumenti esplicativi neces­sari alla comprensione della va­sta problematica propria di un fatto di attualità.

Paola Pirzio

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Spoglio dei periodici italiani 1983di Franco Pedone

Sono stati presi in considerazione i seguenti periodici: “Annali dell’Istituto Alcide Cervi” (Bologna), “Annali della Fondazione Lelio e Lisli Basso” (Roma), “Annali della Fonda­zione Giangiacomo Feltrinelli” (Milano), “Annali della Fondazione Luigi Einaudi” (Torino), “Annali dell’Istituto italo- germanico” (Trento), “Archivio trimestrale” (Roma), “Belfagor” (Firenze), “Città e re­gione” (Firenze), “Civitas” (Roma), “Clas­se” (Milano), “Comunità” (Milano), “Criti­ca marxista” (Roma), “Critica storica” (Na­poli), “Economia e lavoro” (Milano), “Eco­nomia e storia” (Milano), “Economia italia­na” (Roma), “Giornale degli economisti e an­nali di economia” (Milano), “Italia contem­poranea” (Milano), “The Journal of Euro­pean Economie History” (Roma), “Labora­torio politico” (Torino), “Memoria” (Torino), “Movimento operaio e socialista” (Genova), “Il Mulino” (Bologna), “Note economiche” (Siena), “Nova americana” (Torino), “Nuo­va antologia” (Firenze), “Nuova rivista sto­rica” (Milano), “Passato e presente” (Firen­ze), “Il pensiero economico moderno” (Vero­na), “Il pensiero politico” (Roma), “Politica del diritto” (Bologna), “Il Politico” (Pavia,

“Il ponte” (Firenze), “Primo maggio” (Mila­no), “Problemi del socialismo” (Milano), “Problemi dell’informazione” (Bologna), “Quaderni costituzionali” (Bologna), “Qua­derni di storia” (Bari), “Quaderni piacentini” (Milano), “Quaderni storici” (Ancona), “Ras­segna storica del Risorgimento” (Roma), “Ri­cerchestoriche” (Piombino), “Rivista di politi­ca economica” (Milano), “Rivista di storia con­temporanea” (Torino), “Rivista di storia dell’a­gricoltura” (Firenze), “Rivista di storia della Chiesa in Italia” (Roma), “Rivista internazio­nale di scienze economiche e commerciali” (Pa­dova), “Rivista italiana di scienza politica” (Bologna), “Rivista di studi politici internazio­nali” (Firenze), “Società e storia” (Milano), “Storia contemporanea” (Bologna), “Storiae politica” (Milano), “Storia urbana” (Milano), “Studi emigrazione” (Roma), “Studi storici” (Roma).Lo spoglio che è stato effettuato da Franco Pedone, non comprende gli ultimi numeri di alcuni periodici che, al momento della stampa, non erano stati ancora pubblicati. Sono invece compresi alcuni numeri arretrati che, per lo stesso motivo, non erano stati, a suo tempo, presi in considerazione.

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144 Rassegna bibliografica

Storiografia

Stefano Angeli, Alla ricerca della cultura industriale: recenti pubblicazioni Usa in termini di business e social history, in “Società e storia” , a. VI, n. 20, pp. 395-418.

Gino Barbieri, La figura scien­tifica e umana di Luigi Dal Pa­ne, in “Il pensiero economico moderno” , a. Ili, n. 1-2, pp. 11-17.

Giacomo Begattini, L ’acclima- tamento del pensiero di Keynes in Italia: introduzione ad un di­battito, in “Passato e presen­te” , n. 4, pp. 85-104.

Norberto Bobbio, Per una de­finizione della destra reaziona­ria, in “Belfagor” , a. XXXVIII, n. 6, pp. 655-668.

Renato Bordone, Tema cittadi­no e “ritorno alla terra” nella storiografia comunale recente, in “Quaderni storici” n. 52, pp. 255-277.

Gian Mario Bravo, L ’opera di Marx in Italia tra fascismo e dopoguerra, in “Studi storici” , n. 3-4, pp. 523-548.

Dino Cofrancesco, Miti politici e nuova storiografia (Conside­razioni in margine a un saggio di Renzo De Felice), in “Storia e politica” , a. XXII, n. 2, pp. 290-319 [a proposito di “Storia fotografica del fascismo", a cura di Renzo De Felice e Luigi Goglia].

Dino Cofrancesco, Riflessioni sul nazionalismo, la Germania e l ’Europa. A proposito di un

libro di Rosario Romeo, in “Storia contemporanea” , a. XIV, n. 2, pp. 255-286 [a proposito di Rosario Romeo, Italia mille anni. Dall’età feu ­dale all’Italia moderna ed eu­ropea] .

Contributi sulla storia dell’anti­semitismo moderno, in “Rivi­sta di storia contemporanea” , a. XII, n. 1, pp. 1-69 [contie­ne; Pierre Vidal-Naquet, Tesi sul revisionismo-, Bruno Bon- giovanni, Figure marxiane del­la mediazione: l’ebreo e il de­naro-, Marco Revelli, I “nuovi proscritti”: appunti su alcuni temi culturali della “nuova de­stra”].

Paul Corner, I limiti del potere fascista, in “Passato e presen­te” , n. 4, pp. 167-174.

Giuseppe De Rita, La “nazione italiana”: una discussione con i comunisti, in “Critica marxi­sta” , a. XXI, n. 6, pp. 15-28.

Michael Eve, L ’opera storica di Norbert Elias, in “Rivista di storia contemporanea” , a. XII, n. 3, pp. 396-408.

Saul Friedlànder, Il dibattito storiografico sull’antisemitismo nazista o lo sterminio degli ebrei d ’Europa, in “Storia con­temporanea” , a. XIV, n. 3, pp. 399-422.

Nicola Gallerano, Cercatori di tartufi contro paracadutisti: tendenze recenti delta storia so­ciale americana, in “Passato e presente”, n. 4, pp. 181-196.

Walter Ghia, Filosofia della storia ed europeismo in Ortega

y Gasset, in “Storia contempo­ranea” , a. XIV, n. 6, pp. 975-1012.

Paolo Golinelli, Agiografia e storia in studi recenti: appunti e note per una discussione, in “Società e storia”, a. VI, n. 19, pp. 109-120.

Ideologie (Le) e la crisi, in “Classe”, a. XIII (1982), n. 21, pp. 83-209 [contiene: Paolo Bolzani, Il sindacato tra crisi e rinnovamento; Domenico Cor- radini, Intellettuali e praxis ri­voluzionaria; Ornella Bianchi, Storia operaia o storia sociale?; Costanzo Preve, Pagani e cleri­cali. Note sulla ideolgia del ne­fasto triennio 1976-1979; Atti­lio Mongano, Sulla crisi ideale e strategica della nuova sini­stra] .

Gianni Isola, Bibliografia degli scritti di Giuseppe Berti con un saggio introduttivo “Giuseppe Berti fra memoria e storia”, in “Annali della Fondazione Giangiacomo Feltrinelli” , a. XXII (1982), pp. 375-392.

Otto Kallscheur, Note sullo svi­luppo della teoria critica mar­xiana nella Repubblica federale tedesca, in “Studi storici” , a. XXIV, n.3-4, pp. 507-522.

Massimo Legnani, Linea di di­battito su antifascismo e que­stione agraria, in “Annali del­l’Istituto Alcide Cervi” , n. 4 (1982), pp. 11-28.

Yves Lequin, Lineamenti per una storia della cultura operaia in Francia, in “Annali della Fondazione Lelio e Lisli Bas­so”, vol. VI (1982), pp. 234-251.

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Rassegna bibliografica 145

Elsa Luttazzi Gregori, Cultura materiale e storia sociale: note sulla casa rurale nell’area del­l ’insediamento sparso mezzadri­le, in “Società e storia” , a. VI, n. 19, pp. 137-164.

Giuseppe Maccaroni, Austro- marxismo e “terza via”. Max Adler e Otto Bauer nei più re­centi studi italiani, in “Classe ”, a. XIII (1982), n. 21, pp. 21-59.

Michele Maggi, Su Benedetto Croce, in “Il Ponte” , a. XXXIX, n. 3-4, pp. 311-339.

Piero Meaglia, Stato ed econo­mia in Gobetti, in “Annali della Fondazione Luigi Einaudi”, vol. XVI (1982), pp. 383-416.

Romano Molesti, L ’opera di Pasquale Jannaccone, in “ Il pensiero economico moderno” , a. Ili, n. 3, pp. 193-205.

Mauro Moretti, La nozione di “Stato moderno” nell’opera storiografica di Federico Cha- bod: note e osservazioni, in “Società e storia”, a. VI, n. 22, pp. 869-908.

Giorgio Mori, Storiografia del­l ’industria e storiografia del­l ’impresa in Italia, in “Studi storici”, a. XXIV, n. 1-2, pp. 127-135.

Oskar Negt, Per un rinnova­mento del marxismo: caratteri e prospettive, in “Studi storici” , a. XXIV, n. 3-4, pp. 475-506.

Serge Noiret, Interventismo e socialismo, nelle “Memorie” di Destrée, in “Italia contempora­nea” , n. 151-152, pp. 135-147 [a proposito di Jules Destrée, Sou­venirs de temps de guerre].

Pier Luigi Orsi, La storia delle mentalità in Bloch e Febvre, in “Rivista di storia contempora­nea”, a. XII, n. 3, pp. 370- 395.

Marco Pella, Un diario fasci­sta, in “Passato e presente”, n. 4, pp. 197-209 [a proposito di Giuseppe Bottai, Diario 1935- 1944].

Maria Grazia Pollini, Recent Interpretation o f Mussolini and Italian Fascism, in “II Po­litico”, a. XLVIII, n. 4, pp. 751-764.

Silvio Pons, Roy Medvered storico dello stalinismo, in “Passato e presente”, n. 3, pp. 115-134.

Giuseppe Regis, Il primo an­nuario statistico della Cina po­polare, in “Rivista internazio­nale di scienze economiche e commerciali” a. XXX, n. 2, pp. 176-186.

Marco Revelli, Antonella Tar­pino, Folla e rivolta tra storia e scienze sociali, in “Rivista di storia contemporanea”, a. XII, n. 4, pp. 490-543.

Shlomo Sand, Prolegomeni ad una critica della storiografia soreliana. Due leggende da sfa­tare, in “Annali della Fonda­zione Luigi Einaudi”, vol. XVI (1982), pp. 329-382.

Giulio Sapelli, Per la storia comparata delle imprese indu­striali e bancarie. Ipotesi di lavoro, in “Annali della Fon­dazione Giangiacomo Feltri­nelli”, a. XXII (1982), pp. 329-354.

Maurizio Serra, Note in margi­ne ad una storia della cultura italiana nel Novecento, in “Sto­ria contemporanea”, a. XIV, n.2, pp. 287-307 [a proposito di: I miti e le ideologie. Storia della cultura italiana, 1870-1960].

Maurizio Serra, Terza forza e fascismo. A proposito di un libro di G. L. Mosse, in “Sto­ria contemporanea” , a. XIV, n. 1, pp. 77-86 [a proposito di George L. Mosse, L ’uomo e le masse nell’ideologia nazio­nalista] .

Ernesto Sestan, Federico Cha- bod e la nuova storiografia: profilo di una generazione di storici, in ‘“ Nuova antologia” , voi. 552°, fase. 2146, pp. 91- 111.Elisa Signori, La storiografia del Partito d ’azione, in “Nuova antologia”, voi. 552°, fase. 2148, pp. 313-319.

Mario Stoppino, Croce e il libe­ralismo, in “Il Politico” , a. XLVIII, n. 2, pp. 205-234.

Alberto Tenenti, A proposito di storici e sociologi, in “Quaderni storici” , n. 52, pp. 305-311.

Nicola Tranfaglia, Fascismo e mass media: dall’intervista di De Felice agli sceneggiati televi­sivi, in “Passato e presente” , n.3, pp. 135-148.

Leo Valiani, Benedetto Croce, filosofo della libertà, in “Nuova antologia” , voi. 552°, fase. 2146, pp. 55-67.

Armando Vitale, Filosofia e po­litica del Novecento italiano, in

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146 Rassegna bibliografica

“Italia contemporanea” , n. 151- 152, pp, 149-156.

Aldo Zanardo, Cultura e vio­lenza politica, in “Critica mar­xista” , a. XXI, n. 5, pp. 23-44.

Renato Zangheri, Gramsci e la teoria del materialismo storico, in “Critica marxista” , a. XXI, n. 5, pp. 5-22.

Claudio Zannier, Il Gandhi di Attenborough, in “Passa­to e presente” , n. 4, pp. 151- 159.

Metodologia e organizzazione della ricerca

Carlo Carotti, I periodici nelle biblioteche: un patrimonio da salvare. Resterà solo una propo­sta?, in “Società e storia, a. VI, n. 21, pp. 723-728.

Cultura (La) operaia nella so­cietà industrializzata, in “Rivi­sta di storia contemporanea” , a. XII, n. 4, pp. 544-590 [con­tiene: Ersilia Alessandra Pero- na, Un dibattito: per un museo della cultura operaia', Michele Perzot, Che cosa è la cultura operaia?', John Gorman, I pre­liminari: e le grandi raccolte-, Horst Stefens, Crisi della co­scienza operaia, Madeleine Re- berioux, L ’esperienza degli eco- musées-, Pietro Clemente, Studi demologici e museografia ope­raia: Arturo Fittipaldi, Musei della cultura operaia o di storia della condizione operaia, Gio­vanni Romano, Il nuovo ruolo del conservatore],

Loretta De Felice, Un fondo bibliografico, d ’interesse docu­mentario nell’Archivio centrale

dello Stato: la “CollezioneMussolini”, in “Storia contem­poranea” , a. XIV, n. 3, pp. 475-517.

Fabrizio Dolci (a cura), Una fonte per la storia del movimen­to contadino: i patti agrari a stampa (1872-1925), in “Società e storia” , a. VI, n. 19, pp. 185-204.

Indirizzi storiografici e orga­nizzazione della ricerca, in “Passato e presente”, n. 4, pp. 3-10.

Michele Longonelli, Gli archivi d ’impresa, in “Passato e presen­te” , n. 3, pp. 173-178.

Pier Paolo Poggio, Gianni Scio- la, Le fon ti della Repubblica so­ciale italiana per lo studio della questione contadina durante la seconda guerra mondiale, in “Annali dell’Istituto Alcide Cervi” , n.4 (1982), pp. 183- 210.Domenica Porcaro Massafra, Archivi ed occupazione giovani­le nel Mezzogiorno: un primo bilancio, in “Società e storia” , a. VI, n. 20, pp. 439-447.

Maria Stella Rollandi, Gli archi­vi delle imprese industriali, in “Società e storia” a. VI, n. 21, pp. 715-722.

Giorgio Roverato, Un archivio industriale: il caso della Marzot- to, in “Rivista di storia contem­poranea” , a. XII, n. 2, pp. 266- 275.

Paolo Traniello, Un rapporto difficile: editoria e biblioteche in Italia dal fascismo a oggi, in

“Società e storia” , a. VI, n. 20, pp. 419-447.

Storia fino alla prima guerra mondiale

Europa

Jens Alber, L ’espansione de! Welfare State in Europa occi­dentale: 1900-1975, in “Rivista italiana di scienza politica”, a. XIII, n. 2, pp. 203-260.

Dino Cofrancesco, La naziona­lizzazione delle masse: società e politica nel ’900, in “Econo­mia e lavoro” , a. XVII, n. 3, pp. 133-150 [a proposito di George L. Mosse, L ’uomo e le masse nelle ideologie nazionali­ste].

Francesco Guida, Il compimen­to dello Stato nazionale romeno e l ’Italia. Opinione pubblica e iniziative politico-diplomatiche, in “Rassegna storica del Risor­gimento” , a. LXX, n. 4, pp. 425-462.

John R. Lampe, Debating the Balkan Potential fo r Pre-1914 Development, in “The Journal of European Economic Histo­ry” , voi. 12, n. 2, pp. 187-196.

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Rassegna bibliografica 147

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Italia

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Silvio Ferrari, La politica eccle­siastica di Giuseppe Zanardelli, in “Il Politico” , a. XLVIII, n. 4, pp. 621-639.

Romano Molesti, Il carteggio inedito Jannaccone-Einaudi, in “Il pensiero economico moder­no” , a. III, n. 4, pp. 373-395 [il carteggio si riferisce al periodo 1906-1959],

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Enrica Piscel Sant’Ambrogio, Diario 1914, in “II Ponte” , a. XXXIX, n. 2, pp. 182-199.

Elio Santarelli, “La lotta di Clas­se” e “IlPensiero Romagnolo"di fronte alla conversione di Musso­lini, in “Archivio trimestrale”, a. IX, n. l,p p . 175-203.

Maurizio Scaglione, Appunti sulle origini del movimento na­zionalista in Sicilia. La rivista “Tripoli italiana”, in “Rassegna

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Socialismo e massoneria, Docu­mento LX XVI, in “Archivio tri­mestrale” , a. IX, n. 2, pp. 331-367; n. 3, pp. 525-566.

Paolo Sorcinelli, Note sull’ali­mentazione nell’Italia giolittia- na, in “Italia contemporanea” , n. 150, pp. 89-94.

Luigi Tomassini, Intervento dello Stato e politica salariale durante la prima guerra mon­diale: esperimenti e studi per la determinazione di una “scala mobile” delle retribuzioni ope­raie, in “Annali della Fondazio­ne Giangiacomo Feltrinelli”, a. XXII (1982), pp. 87-185.

Angelo Varni, Il ruolo dei re- pubblicani da Giolitti al fasci­smo. Interpretazione e problemi di metodo, in “Il Politico” , a. XLVIII, n. 3, pp. 469-483.

Altri Paesi

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Marina Cattaruzza, Il mercato del lavoro come istanza di con­trollo: Trieste 1890-1911, in “Annali della Fondazione Lelio e Lisli Basso” , vol. VI (1982), pp. 216-229.

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148 Rassegna bibliografica

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Heinz-Gerhard Haupt, La legi­slazione per il riposo domenica­le in Francia prima del 1914: uno strumento di controllo so­ciale, in “Annali della Fonda­zione Lelio e Lisli Basso” , voi. VI (1982), pp. 321-332.

Reinhart Kannonier, A i margini della lotta di classe. Il movimen­to musicale operaio in Austria dalle origini al 1934, in “Movi­mento operaio e socialista” , a. VI, n. 2, pp. 335-346.

Sandro Segre, Forze armate e società nella Germania imperia­le (1870-1914), in “Storia con­temporanea” , a. XIV, n. 3, pp. 459-471.

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Ayse Saracgil, La dissoluzione dell’impero ottomano e la na­scita dei movimenti socialisti, in “Movimento operaio e so­cialista” , a. VI, n. 3, pp. 411- 438.

Storia tra le due guerre

Europa

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Giuliano Caroli, L ’Italia e il problema nazionale romeno alla Conferenza della Pace di Parigi, 1919-1920, in “Storia e politica” , a. XXII, n. 3, pp. 435-489.

Enzo Collotti, Fascismo e Heimwehren: la lotta antisocia­lista nella crisi della prima re­pubblica austriaca, in “Rivista di storia contemporanea” , a. XII, n. 3, pp. 300-337.

Carlo Fumian, Il governo del­l ’agricoltura in Italia e in Fran­cia, 1914-1940, in “Italia con­temporanea” , n. 151-152, pp. 65-81.

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Robert Schwarz, The Nazi Di­plomatic Offensive against A u­stria: from Agreement to Ag­gression, in “Il Politico” , a. XLVIII, n. 1, pp. 5-30.

Italia

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Riccardo Bauer, Andrea Vi- glongo, Giugno 1922. La ridu­zione dei salari, a cura di Gian­carlo Bergami, in “Il Ponte” , a. XXXIX, n. 6-9, pp. 608-618.

Bruno Bezza, Alcune conside­razioni statistiche sugli scioperi

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Rassegna bibliografica 149

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Francesco M. Biscione, Rivolu­zione e contadini del Sud nella politica comunista, 1921-1926, in “Italia contemporanea” , n. 150, pp. 23-55.

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Stefano Caretti, Matteotti ine­dito, in “Nuova antologia” , voi. 552°, fase. 2148, pp. 97-118.

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Carlo De Frede, Il giudizio di Mussolini su Croce “Imboscato della storia”, in “Storia e politi­ca” , a. XXII, n. l ,p p . 114-137.

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Roberto Ducei, Ojetti e Feder- zoni, in “Nuova antologia” , voi. 552°, fase. 2145, pp. 289- 305.

Paolo Favilli, Il sindacato ri­formista nelle lettere di Fausto Pagliari a Rinaldo Rigola (1907-1911), in “Ricerche stori­che”, a. XIII, n. 2, pp. 437- 447.

Alessandro Galante-Garrone, Carteggio Zanotti Bianco- Salvemini, in “Nuova antolo­gia”, voi. 552°, fase. 2146, pp. 225-252.

Piero Gobetti, Lettere a Gio­vanni Papini (1919-1922). Con introduzione e a cura di Paolo Bagnoli, in “Nuova antologia” , voi. 552°, fase. 2145, pp. 361-374.

Antonio Gramsci, Dall’“Ordi­ne Nuovo”: prima pagina e cronache torinesi 1921. Sette scritti riconosciuti da Sergio Caprioglio, in “Belfagor” , a. XXXVIII, n. 1, pp. 17-42.

Intellettuali e politica tra le due guerre, in “Storia contem­poranea” , a. XIV, n. 4-5 [con­tiene: Maurizio Serra, Sui miti fascisti dell’umanesimo bor­ghese negli anni trenta; Giu­seppe Parlato, Vittorio Cian: un intellettuale nazionalista du­rante il fascismo-, Giovanni Be­lardelli, L ’adesione di Gioac­chino Volpe al fascismo-, Su­sanna De Angelis, Il corporati­vismo giuridico nell’opera di Sergio Pannunzio-, Renzo De Felice, Gli storici italiani nel pe­riodo fascista; Renato Moro, La formazione giovanile di Aldo Moro].

Libero Lenti, Gli ottant’anni della Bocconi, in “Nuova anto­logia” , voi. 552°, fase. 2148, pp. 205-249.

Maria Rosaria Lo Giudice, Razza e giustizia nell’Italia fa ­scista, in “Rivista di storia con­temporanea”, a. XII, n. 1, pp. 70-90.

Nicla Capitini Maccabruni, Appunti per una ricerca sul­l ’antifascismo in alcune fabbri­che fiorentine, in “Ricerche storiche” , a. XIII, n. 2, pp. 383-435.

Meir Michaelis, Il Maresciallo dell’aria Italo Balbo e la politi­ca mussoliniana. Il frondismo di Balbo alla luce di alcuni do­cumenti e testimonianze inediti, in “Storia contemporanea” , a. XIV, n. 2, pp. 333-357.

Mussolini nel giudizio dei primi antifascisti, interventi di Gio­vanni Spadolini, Leo Valiani, Cosimo Ceccuti e testi di Piero Gobetti, Antonio Gramsci e Fernando Schiavetti, in “Nuo­va antologia” , voi. 552°, fase. 2148, pp. 5-39.

Luisa Passerini, Donne operaie e aborto nell’Italia fascista, in “Italia contemporanea” , n. 151-152, pp. 83-109.

Daniele Pompeiano, Autobio­grafia di un capitano degli Ar­diti 1927-1928, in “Rivista di storia contemporanea”, a. XII, n. 2, pp. 194-218.

Antonio Resta, “La Nuova Ita­lia” nella Firenze di Alessandro Pavolini (dalle carte di Luigi Russo del 1931), in “Belfagor” , a. XXXVIII, n. 3, pp. 309-322.

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150 Rassegna bibliografica

Riccardo Bauer testimone del nostro tempo, interventi di Al­do Garosci, Carlo Ludovico Ragghianti, Max Salvadori, Giovanni Spadolini, Leo Valia- ni, in “Nuova antologia” , voi. 552°, fase. 2145, pp. 5-30.

Alceo Riosa, I miti del fascismo e le tante anime dell’apostolo Filippo Corridoni, in “Ricerche storiche” , a. XIII, n. 1, pp. 131-149.

Enzo Santarelli, Alfonso Leo- netti, in “Belfagor”, a. XXXVIII, n. 3, pp. 299-308.

Emma Scaramuzza, Professioni intellettuali e fascismo. L ’ambi­valenza dell’Alleanza muliebre culturale italiana, in “Italia con­temporanea” , n. 151-152, pp. 111-133.

Giovanni Spadolini, Giolitti si è dimesso, in “Nuova antologia” , voi. 552°, fase. 2146, pp. 22-54.

Giovanni Spadolini, La Malfa, Mattioli, la Bocconi, una certa Milano, in “Nuova antologia” , voi. 552°, fase. 2148, pp. 250-260.

Alessandra Staderini, Rivendi­cazioni territoriali e mobilita­zione nazionale nei documenti del 1919 di Giovanni Giuriati e Oscar Senigaglia, in “Storia contemporanea” , a. XIV, n. 1, pp. 89-140.

Jolanda Torraca, Ricordo di Francesco Fancello, in “Archi­vio trimestrale” , a. IX, n. 4, pp. 661-674.

Emanuele Tortoreto, La legi­slazione annonaria e l ’economia

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Gian Paolo Treccani, Brescia tra le due guerre mondiali: la questione dello spostamento della ferrovia, in “Storia ur­bana” , a. VII, n. 24, pp. 85- 110.Giacomo L. Vaccarino, Scuola, cultura e professione ne “L ’Or­dine Nuovo”, in “Rivista di sto­ria contemporanea” , a. XII, n.2, pp. 242-265.

Leo Valiani, Il confino di poli­zia sotto il fascismo, in “Nuova antologia” , voi. 552°, fase. 2147, pp. 31-37.

Bruno Wanrooy, Giovani e vec­chi nel fascismo italiano, in “Il Politico” , a. XLVIII, n. 3, pp. 485-503.

Belgio

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Marcel Smets, Koen Verbrug­gen, La ricostruzione di Ter- monde dopo la grande guerra, ovvero la creazione di uno sce­nario urbano artificiale, in “Storia urbana” , a. VII, n. 22-23, pp. 211-236.

Peter Uyttenhove, La ricostru­zione di Lovanio dopo il 1914: “arte urbana” e “town planing” a confronto, in “Storia urba­na”, a. VII, n. 22-23, pp. 237- 273.

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Lilia Hartman, L ’organizzazio­ne clandestina del Partito comu­nista di Germania e la sua evo­luzione dall’instaurazione della dittatura nazista alla vigilia del­la guerra, in “Storia contempo­ranea” , a. XIV, n. 3, pp. 423-456.

Politica (La) del III Reich, in “Rivista di studi politici interna­zionali” , a. L, n. 2, pp. 241-252 [contiene; Klaus Hildebrand, Die Aussenpolitik des “Dritten Reich”: Tatsachen, Kontrover- sen, Perspektiven; Giuseppe Ve­dovato, La politique extérieure du IIIe Reich pendant les deux premières années d ’Hitler chan- cellierj.

Spagna

Joseph Harrison, The Inter- War Depression and the Spa­nish Economy, in “The Journal of European Economic Histo­ry” , voi. 12, n .2 , pp. 295-321.

A. Monjo, C. Vega, M. Vilanova, Trajectoires électorales, leaders et masses sous la Ilème République en Catalogne (1934-1939), in “Il Politico” a. XLVIII, n. 1, pp. 91-114.

Luigi Paselli, Garçia Lorca “apo­litico” (1931-1936), in “Nuova antologia”, vol. 552°, fase. 2148, pp. 288-312.

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Rassegna bibliografica 151

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Fabio Bettanin, La formazione dei processi decisionali nel PCUS. Le sezioni politiche delle M TS e dei sovchoz 1933-1934, in “Annali della Fondazione Giangiacomo Feltrinelli” , A. XXII (1982), pp. 186-228.

Bruno Bongiovanni, In terra di Stalin, in “Belfagor” , a. XXXVIII, n. 3. pp. 348-355.

Altri Paesi

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Federico Montanari, Paul Ni- zan, in “Belfagor”, a. XXXVIII, n. 6, pp. 669-682.

Carlotta Sorba, Politica abitati­va in Francia tra le due guerre, in “Rivista di storia contempo­ranea” , a. XII, n. 3, pp. 338- 369.

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Europa

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Dino Cofrancesco, Il mito eu­ropeo del fascismo (1939- 1945), in “ Storia contempo­ranea” , a. XIV, n. 1, pp. 5-45.

Fulvio Mazza, La polemica Lussu-La Malfa sull’ideologia e sul programma del partito d ’A- zione, in “Archivio trimestrale, a. IX, n. 2, pp. 423-436.

Roberto Morozzo Della Rocca, La vicenda dei prigionieri in Russia nella politica italiana,1944-1948, in “Storia e politi­ca” , a. XXII, n. 3, pp. 480-542.

Enrico Terracini, L ’italiano in Algeri, in “Archivio trimestra­le”, a. IX, n. 2, pp. 295-330; n. 3, pp. 475-524.

Leo Valiani, Io e Koestler nel campo di concentramento, in “Nuova antologia” , voi. 552°, fase. 2148, pp. 87-96.

Antonio Varsori, Aspetti della politica inglese verso L ’Italia (1940-1941), in “Nuova antolo­gia”, voi. 552°, fase. 2147, pp. 271-297.

Italia

Alberto Tino e il Partito d ’a­zione, a cura di Elisa Signori, in “Nuova antologia”, voi. 552°, fase. 2146, pp. 319-376.

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Emilio Braga, L ’economia agri­

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Gianluigi Della Valentina, Agri­coltura e aspetti del rapporto città-campagna in Lombardia tra crisi e seconda guerra mon­diale, in “Società e storia” , a. VI, n. 20, pp. 337-377.

Gianluigi Della Valentina, Le campagne insubri dal fascismo alla Resistenza, in “Annali del­l’Istituto Alcide Cervi” , n. 4 (1982), pp. 29-75.

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152 Rassegna bibliografica

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Luigi Ganapini, Pane e lavoro. Aspetti del rapporto città- campagna, in “Annali dell’Isti­tuto Alcide Cervi”, n. 4 (1982), pp. 77-104.

Gaetano Grassi, Il centro diri­gente del PCI, l ’organizzazione delle Brigate Garibaldi e il mon­do contadino lombardo, in “Annali dell’Istituto Alcide Cervi” , n. 4 (1982), pp. 133- 154.

Guerra (La) partigiano in Italia, in “Civitas” , a. XXXIV, n. 1 [contiene: Paolo Emilio Tavia- ni, La guerra dei cento fronti-, Gaetano Troisi, Gli scugnizzi', Mario Argenton, Come nacque­ro le prime bande armate-, Gio­vanni Allara, Dopo Anzio: la battaglia del Tancia; Italo Man­derò, Le formazioni partigiane nelle Prealpi venete; Lia Miotti Carli, L ’epopea di Padova; Ari­stide Marchetti, Valdossola: al di sopra delle faziosità; Giovan­ni Allara, A Milano, la capitale; Paolo Emilio Taviani, Dio degli uomini liberi; Paolo Emilio Ta­viani, Donne nella Resistenza; Chino Ermacora, Cosacchi nel Friuli, Ettore Cambra, Dicias­sette giorni dell’inverno ’44; Paolo Emilio Taviani, Il tambu­rino di Bardineto; Carlo Brizzo- lari, L ’insurrezione modello].

Jemolo e “Voce operaia”, a cu­ra di Francesco Margiotta Bro­

glio, in “Nuova antologia”, voi. 552°, fase. 2146, pp. 143-163.

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