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Rassegna bibliografica
La memoria della ResistenzaTradizione e nuove prospettive
di Gaetano Grassi
A suggerire il titolo di questi appunti su alcune delle opere più recenti di memorialistica della Resistenza italiana sono state le osservazioni di Giovanni Falaschi nell’appendice bibliografica all’antologia da lui curata sulla Letteratura partigiano in Italia 1943-1945 (Roma, Editori Riuniti, 1984). Nelle note di introduzione al settore “diari, memorie, biografie” (p. 291), l’autore osserva, anzitutto, che tali generi letterari sono quelli “pubblicati con maggiore continuità a partire dal 1945” (sia pure senza un “ritmo costante” di produzione, a causa del diverso andamento di molte variabili, quali “la situazione politica favorevole o meno, la saturazione o meno nel pubblico del tema resistenziale, la fortuna o meno del genere autobiografico, ecc.”); ponendo l’accento, in seguito, per ciò che qui maggiormente ci interessa, sul diverso carattere che assumono le memorie uscite dagli anni settanta in poi, quando si registrano sia una “forte ripresa”, sia soprattutto una “fisionomia”, un nuovo taglio qualitativo di queste opere, caratterizzate da uno sforzo di rievocazione dei fatti piuttosto che delle atmosfere e improntate alla critica storica piuttosto che alla pura e semplice testimonianza: “Gli autori — sostiene Falaschi — sono più attenti agli aspetti documentari, all’esattezza storica dei fatti, poiché scrivono dopo che sono state pubblicate da altri delle ricostruzioni storiche degli avvenimenti di cui furono in qualche modo protagonisti e perciò si sentono in dovere di precisare, confu
tare o confermare le affermazioni altrui” . Tendenze dalle quali deriverebbero, secondo Io stesso autore, nei testi della più fresca memorialistica un’originalità e una novità tali da farli apparire nettamente diversi da quelli usciti nei primi dieci anni della storiografia sulla Resistenza, caratteristici e tuttora validi, per riprendere il giudizio di Guido Quazza, “non solo e non tanto come fonte di dati, quanto come testimonianza diretta e veridica del clima morale e politico generale della lotta” (Resistenza e storia d ’Italia, Milano, Feltrinelli, 1976, p. 8).
Nel titolo a queste note — da leggere in chiave dubitativa — sono riassunti tutti i problemi che sorgono quando si voglia discutere, secondo i criteri adottati da Falaschi, sulle memorie apparse negli ultimi anni. Seguendo tali metri di giudizio, infatti, vediamo allargarsi in modo considerevole, per i vari intrecci che si presentano, il quadro entro il quale inserire il discorso: ad esempio, perderebbe di valore ogni rigida distinzione fra fonti storiografiche (dirette e indirette, mediate o immediate), rientrando nei compiti dello stesso autore attutirne i contrasti e segnalarne i punti d’incontro; mentre, nello stesso tempo, sarebbe senza significato una troppo netta contrapposizione fra saggistica e memorialistica, dal momento che proprio dal fatto di avere tenuto più o meno presenti i risultati ottenuti dalla ricerca storica deriverebbe una maggiore o minore validità della testimonianza scritta.
Italia contemporanea” , settembre 1984, n. 156
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Falaschi pone il caso delle Lettere a Milano di Giorgio Amendola come tipico di tali nuove tendenze della memorialistica ed esemplificativo di questo impegno, anche da parte dei protagonisti-scrittori della lotta partigiana, alla ricostruzione storica e al confronto con i risultati della storiografia. Il libro, del 1973, rappresenta senza dubbio uno dei frutti più notevoli dello sforzo, ancora in corso, condotto dai maggiori esponenti comunisti per dare alle stampe documenti e testimonianze sulla Resistenza. Ma, stando ai giudizi di Falaschi, non si ritrova nello stesso libro una chiara conferma della nuova “fisionomia” di una memorialistica partigiana, basata tanto sul rapporto memoria-documentazione, quanto sulla verifica della ricostruzione storiografica. Mentre il primo punto è facilmente ravvisabile nel sempre maggiore interesse dei memorialisti per le fonti documentarie (e non potrebbe essere diversamente dopo circa trent’anni di lavoro in questo senso), il secondo non appare con altrettanta facilità. È lo stesso Amendola, del resto, a scrivere nella sua introduzione: “La rievocazione degli avvenimenti che ho vissuto è fondata sui documenti ritrovati e sui miei ricordi senza che, tranne rare eccezioni, io abbia fatto alcuno sforzo particolare per controllare i ricordi e confrontarli con altre fonti” . E prosegue: “Non ho [...] utilizzato alcuna nota bibliografica, in appoggio a questa od a quella versione dei fatti da me sostenuta. Potrei facilmente disporre di numerose pezze d’appoggio fornite dai libri. Ma non sarebbe una documentazione bibliografica esauriente, e criticamente controllata. Ho preferito perciò rinunciarvi del tutto” (Lettere a Milano. Ricordi e documenti 1939-1945, Roma, Editori Riuniti, 1973, pp. XII-XIII).
Il parere di Falaschi — contraddetto, come si vede, dalle affermazioni di chi dovrebbe essere considerato il più notevole rappresentante del nuovo “corso” della me
morialistica — ci sembra valido, piuttosto, per guidarci con sufficiente sicurezza nell’esame delle ultime opere di tal genere e per vedere come queste si accostino maggiormente all’uno o all’altro dei poli estremi e dei limiti fra i quali risultano oscillare, a seconda che prevalga l’interesse storico o quello letterario, i diversi autori che si muovono in questo campo. Senza trovare, beninteso, in nessuna delle testimonianze prese in considerazione un orientamento che escluda di per sé, per i risultati raggiunti, l’uno o l’altro dei fini seguiti dagli autori: in particolare, quello storico-documentario rispetto a quello narrativo-lettera- rio. A questo proposito, anzi, se è vero, come si legge nella “giustificazione” posta da Mario Spinella nell’introduzione alle sue Memorie della Resistenza (Milano, Mondadori, 1974, p. 7), che “questa narrazione vuol essere semplicemente una testimonianza” e quindi “non si propone né fini letterari né di documentazione storica”; è vero anche che “una testimonianza in termini strettamente personali — scrive Elvio Guagnini nella recensione a tale opera (“Italia contemporanea”, luglio- settembre 1974, n. 116, p. 143) — “quando non sia mero sfogo di eventi privati o rievocazione di essi in chiave esasperata- mente lirica (ma tutto, al limite, è documento!) può contenere una carica documentaria di vasto respiro” . Ciò per ritornare all’importanza e al significato, unanimemente riconosciuto e sopra ricordato con le parole di Quazza, che può assumere anche tale documentazione di idee, atmosfere e stati d’animo, nello sforzo di ricostruzione storiografica del fenomeno resistenziale; e per ritrovare anche nelle memorie più recenti, in una loro naturale e più o meno evidente progressione, la stessa motivazione politico-civile e lo stesso impegno letterario delle opere del primo decennio postliberazione. E per sottolinearne, d’altro canto, i limiti e le carenze proprio
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quando gli autori dimostrano di non aver tenuto in poco o nessun conto i risultati conseguiti sul piano della raccolta documentaria e della ricerca storiografica.
Il quadro che risulta dalla scelta di alcune opere indicative della produzione memorialistica di questi ultimi anni — sono memorie uscite nel periodo 1979-1984 — appare quanto mai vario e composito. Tale varietà deriva, prima di tutto, com’è naturale, dalla diversa tipologia dei memorialisti: non solo, come nella maggior parte dei casi, esponenti politici, comandanti partigiani, militanti di partito, protagonisti in genere, a differente livello, della lotta di liberazione (come Pa- jetta e Stucchi, Cappellini e Nicoletto, Ben- tivegna e Pesce); ma anche alcuni isolati “rappresentanti” di altri gruppi di persone impegnate nella Resistenza, come 1’“ingegnere” Riccardo Levi, lo scrittore Romano Bilenchi e il militare inglese Tilman, o chi (la Cuffàro Montuoro) si fa portatrice di sogni, speranze e dolori comuni a una larga schiera di donne, mogli e sorelle di antifascisti. Ma, come ci sembra più interessante rilevare, si tratta di opere che presentano una notevole molteplicità nei risultati conseguiti anche per i diversi metodi adottati dagli autori nella narrazione delle esperienze vissute.
È da porre in evidenza che il tono auto- biografico della narrazione, pur essendo il più usato e quello caratteristico e naturale della maggior parte dei libri di memorie, non è l’unico che s’incontra nelle opere esaminate. Con l’effetto di presentarci una vasta casistica di tale letteratura: da quella tradizionale e «classica», rappresentata come esempio significativo dal libro di Rosario Bentivegna (Achtung Banditeli. Roma 1944, Milano, Mursia, 1983: “Il mio racconto” si legge nella prefazione “comunque interessa pochi fatti, anche se significativi [...]: i più importanti di quelli che ho visto e vissuto in prima persona”, p. 9), a quella di genere diverso, e a fatica collocabile nel
quadro generale dei volumi consultati, costituita dalle “memorie” di Cappellini, Moschi e Tommasi De Micheli. Mentre per le prime — presentate sotto forma di un’intervista rilasciata al figlio Osvaldo — non si perde il taglio autobiografico proprio delle memorie (anche se non è facilmente ravvisabile il confine tra la testimonianza scritta e il racconto), per i due altri volumi è ancora più problematico riferirsi a tale carattere primario: si perde chiaramente — anche se non è da sottovalutare l’apporto dato all’autore dai ricordi personali — nei Ragazzi della Fortezza (Pistoia, Istituto storico della Resistenza, 1983), in cui Fulvio Mochi narra “una storia del ’44 a Pistoia” e ricostruisce in forma narrativa, con il sussidio delle testimonianze orali dei partigiani del luogo, la vita di Aldo Calugi, giovane operaio fucilato dai nazifascisti; si ritrova a fatica in Armando racconta (Milano, Vangelista, 1982), ove la narrazione del comandante partigiano Mario Ricci passa attraverso il filtro della recezione/rielaborazione dei fatti operato dalla curatrice dell’opera — filtro più o meno efficace (come risulta dalla recensione di Luciano Casali e dalla replica della Tommasi De Micheli: cfr. “Italia contemporanea”, settembre 1983, nn. 151/152, pp. 219-220 e marzo 1984, n. 154, pp. 168-169), ma, per ciò che qui c’interessa, in ogni caso indicativo di un eccessivo distacco fra due diversi piani di lavoro.
E infatti la lenta “gestazione” delle memorie ovvero il passaggio, più o meno difficile, dal ricordo personale alla stesura del racconto, mediante lo sforzo di rielaborazione critica, di confronto fra le fonti diverse e di verifica dei fatti, ci sembra senza dubbio un altro degli elementi di cui tenere conto — in certi casi una vera e propria condizione — per poter maggiormente apprezzare i risultati raggiunti. Sono le varie esperienze ritrovabili nelle opere di Bentivegna e Nicoletto, in parte in quella di Stucchi e, sia pure con esiti più modesti, limitati alla “cronaca” dei fatti
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d’arme operati dalla 50a brigata Garibaldi in una zona del Biellese, nelle memorie di Bruno Pozzato (Sui sentieri della 50“ Garibaldi, Biella, Giovannacci, 1979).
Per Anni della mia vita (a cura di P. Corsini e G. Sciola, Brescia, Fondazione Micheletti, 1981) di Italo Nicoletto (Andreis), assistiamo ad un lavoro, a più mani, di lenta preparazione del testo: alla serie di testimonianze rilasciate dall’esponente comunista, “riscritte e rielaborate dall’autore in collaborazione con Paolo Corsini e Gianni Sciola”, è seguito ad opera degli stessi curatori, oltre la “versione narrativa” , il controllo “alla luce della documentazione reperibile” della “rispondenza storico-archivistica” del racconto (cfr. Avvertenza, p. XIX). Gli esiti di questo lavoro si rivelano spesso vivaci e brillanti, soprattutto nelle pagine che parlano della formazione civile e politica di Nicoletto e degli anni passati al confino e in esilio, dove con maggiore chiarezza ed autenticità si manifesta la personalità dell’autore; meno in quelle della lotta partigiana, nelle quali non si scoprono, rispetto agli scritti e alla documentazione sulle Langhe, né notizie di prima mano, né commenti e annotazioni interessanti sulla vita della formazioni: si vedano, per fare alcuni esempi, i passi sulle funzioni del commissario politico (pp. 171-174) e sui rapporti con la popolazione contadina (p. 175), che sembrano ricalcare alla lettera brani di relazioni di Andreis di quegli anni sugli stessi argomenti. Senza con questo togliere alle memorie, viste nel loro complesso, quel tanto di schiettezza e di genuinità che le rende una delle opere migliori della recente produzione.
Altrettanto si può ripetere per lo scritto di Rosario Bentivegna, pubblicato nel 1983 dopo essere stato tenuto lungamente nel cassetto. Come riferisce nella premessa l’autore — l’uomo dei Gap che si rese protagonista di alcuni degli episodi di maggiore rilievo della resistenza romana (si pensi all’attentato di via Rasella) — queste memorie nascono da
una relazione che egli inviò al partito comunista all’indomani della liberazione: “La mia ‘biografia’ fu consegnata allora, schematica ma ricca di elementi personali e dei ‘fatti’ che mi era occorso di vivere durante l’occupazione. Fatti, luoghi, date, orari, uomini fissati subito sulla carta perché la memoria non mi tradisse” (p. 4). Anche per Bentivegna, dunque, si parla di una successiva rielaborazione, dalla prima versione dei fatti a quella definitiva data alle stampe, senza peraltro che a tali fasi di costruzione dell’opera intervengano persone diverse dall’autore, a sicuro vantaggio dei risultati finali del lavoro: “Il grosso pacco di cartelle da me scritte — continua Bentivegna — è stato ridimensionato almeno tre volte, in tutti questi anni. È stato depurato di sensazioni e fatti personali, e soprattutto dell’enfasi che era stata quasi inevitabile nella prima stesura” (ivi). Ne guadagna il taglio del racconto che si distingue da altri analoghi per l’abbondanza dei dati oggettivi e l’estrema attenzione ai singoli particolari delle azioni di guerra: “Mi sono posto di fronte a loro — si legge nella parte finale dell’introduzione — senza la pretesa di fare una Storia, ma con tutta l’onestà possibile di chi, come me, è educato dalla sua professione di medico a guardare ai fatti nella dimensione della ricerca scientifica” (p. 9). Preoccupazione, s’intende, dettata in modo prevalente dalla necessità di rispondere alla svariata letteratura — anche a quella scandalistica —, alle note polemiche e alle molteplici versioni che sono state date in questo quarantennio delle azioni gappistiche romane; ma che torna utile, pur sempre, per la ricchezza del materiale fornito, alla ricostruzione di una realtà storica rimasta tuttora in larga parte oscura.
Secondo le tendenze di alcuni degli autori più rappresentativi finora presi in esame, anche l’impegno di Giovanni Battista Stucchi, diretto alla narrazione delle proprie esperienze di guerra (Tornim a baita. Dalla campagna di Russia alla repubblica dell’Ossola, Mi
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lano, Vangelista, 1983), non prescinde dal confronto con la letteratura e la documentazione disponibile (e in particolare, i memoriali di militari italiani e le carte in suo possesso sul Comando generale Cvl e sul Comando militare della zona libera). Ciò che distingue piuttosto l’opera di Stucchi dalle altre affini sono il carattere divulgativo del racconto, l’esposizione piana e sincera dei fatti e le pagine di commento, di “riflessioni etico politiche” (prefazione di Giorgio Ro- chat, p. 5), le “considerazioni finali” — rimaste purtroppo nella fase preliminare di appunti, per la scomparsa dell’autore prima del completamento del lavoro — sul significato della Resistenza, vista nei suoi riflessi sulla formazione dello Stato democratico.
Come si vede, non in tutte le opere consultate la Resistenza è considerata dai memorialisti come il punto centrale, meritevole di maggiore attenzione, del racconto; in alcuni casi, anzi, rappresenta un semplice capitolo dell’autobiografia (Cappellini, Nicoletto) o una parte certo importante delle memorie (come avviene in quelle di Stucchi) solo in vista delle conclusioni generali e del testamento politico e civile che è alla base del lavoro. Allo stesso modo nei Ricordi politici di un ingegnere (Milano, Vangelista, 1981) di Riccardo Levi — anch’egli scomparso —, che riguardano l’arco di tempo dagli anni venti agli anni sessanta ovvero gli anni delle vicende pubbliche italiane dalla marcia su Roma alla nazionalizzazione dell’energia elettrica, la figura del protagonista acquista maggiore risalto là dove i casi dell’ “ingegnere” prevalgono su quelli del “politico” . Ci riferiamo agli anni dell’anteguerra passati da Levi al- l’Olivetti (dove, fra l’altro, progettò il primo modello di una calcolatrice scrivente) e a quelli del dopoguerra, trascorsi prima a Torino, nella fase più critica della ripresa industriale come amministratore delegato di una fabbrica di trecento operai; poi a Genova nel settore siderurgico (dopo un periodo di pratica all’estero), alla Nuova San Giorgio; infine
a Roma come amministratore provvisorio della Società romana di elettricità, in attesa del passaggio dell’impresa alla gestione pubblica. Si tratta di vari episodi di una sorta di cronaca dell’industria italiana, scritta in uno stile quanto mai nitido ed efficace, rispetto ai quali sembrano passare in secondo piano le memorie — altrettanto lucide, ma meno originali — del periodo clandestino.
Lo stesso discorso sulla centralità o meno del tema Resistenza può ripetersi anche per altre opere viste. Nel Marco racconta (Il Pei marchigiano nelle memorie di un suo dirigente, 1921-1956, Ancona, Ed. Nuove Ricerche, 1983), per esempio, Cappellini ha dedicato un intero capitolo (il quarto) all’organizzazione della lotta partigiana nelle Marche, esaminata però soprattutto nel quadro complessivo della storia del Pei nella regione dal 1921 al 1956, secondo quello che ci sembra costituire lo scopo precipuo dell’opera. E con l’effetto di avere evitato nella trattazione degli argomenti sulla Resistenza locale il problema specifico del riscontro dei vari punti controversi oggetto degli studi finora portati a termine. Gli ultimi racconti di Giovanni Pesce, d’altro canto, vere e proprie “storie personali” e stralci di vita vissuta, dall’emigrazione in Francia alla guerra di Spagna, dalla lotta gappista al dopoguerra fino alle vicende più recenti degli anni settanta, aggiungono poco o nulla, e nemmeno potrebbero, alle pagine indimenticabili già scritte a suo tempo da uno dei maggiori protagonisti della guerriglia partigiana in città (Il giorno della bomba. Racconti, Milano, Mazzotta, 1983). Né altro di nuovo, tanto per le notizie fornite, quanto in merito allo stile usato nelle memorie, si può ritrovare nelle rimanenti opere prescelte che pure hanno al centro della narrazione, o come sfondo centrale di questa, gli anni della Resistenza: ci riferiamo alla Cronaca di un valdostano (Aosta, Istituto storico della Resistenza, 1983) di Lino Bine!, organizzatore del movimento partigiano nella valle fino al maggio 1944, poi arrestato e
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deportato nei campi di lavoro tedeschi; e a II sapore del sale (Milano, Gorlini, 1980) di Ersilia Cuffàro Montuoro, ove l’autrice racconta in stile romanzesco, ma su basi reali, le esperienze vissute da una donna di una famiglia di antifascisti a Milano, nei contatti con la polizia della repubblica di Salò, e in Svizzera nei campi di accoglienza. Più significative per l’immediatezza dei resoconti le memorie di “un maggiore inglese tra i partigiani” della zona di Belluno, Harold Tilman (Missione Simia, Belluno, Comune, Istituto storico della Resistenza, 1981), interessanti per la novità e l’originalità del racconto — pubblicate però nell’immediato dopoguerra (1946) ed ora giustamente tradotte in italiano, sia pure in parte, a cura dell’Istituto per la storia della Resistenza locale; e i testi della sezione “Documenti” , apparsi nel 1945-1947 sulla rivista “Società” , fondata da Romano Bilenchi, che ne cura l’attuale raccolta Cronache degli anni neri (Roma, Editori Riuniti, 1984) e scrive nell’introduzione alcune divertenti pagine di ricordi sulla nascita del giornale: scritti, inviati da partigiani, soldati e semplici cittadini, che si segnalano per la drammaticità della narrazione e analoghi — per fare un confronto con testi recenti — alle testimonianze sull’8 settembre 1943 spedite a “l’Unità” in occasione del concorso del 1983 (“Raccontate il vostro 8 settembre”).
Tali note sui fini principali e sui risultati dei vari racconti potrebbero essere di qualche interesse nel discorso generale sulle testimonianze scritte, se servissero a individuare le tendenze della “nuova” memorialistica sulla guerra par- tigiana non tanto a inserire la narrazione del fenomeno resistenziale in temi più ampi e di più largo respiro della storia italiana (i memoriali sono per implicita natura rievocazioni di fatti, impressioni ed esperienze legate a momenti particolari della vita di chi racconta), quanto — per ritornare sugli appunti iniziali — a impegnarsi in discorsi critici utili a chiarirne aspetti ancora poco noti o affermazioni che mancano di un’adeguata documentazione.
Si vedano a questo proposito, le memorie di Gian Carlo Pajetta, Il ragazzo rosso (Milano, Mondadori, 1983). Non desideriamo qui sottolineare, e con dispiacere, il fatto che terminano il 9 settembre del 1943, all’inizio di un periodo che vide Pajetta protagonista di alcuni degli episodi di maggiore rilievo nella storia della Resistenza italiana (ci basta citare per tutti lo svolgimento e gli esiti della “missione al Sud”, sulla quale sarebbe di particolare interesse avere la versione attuale di Mare): è probabile, e certo auspicabile, la pubblicazione di un secondo volume di memorie. Ma quelle che abbiamo sotto gli occhi ci sembrano deludenti proprio nell’ultimo capitolo (“Da galeotto a partigiano”) che dovrebbe servire da introduzione al possibile, futuro libro di ricordi. Siamo al momento della ripresa di contatto con l’organizzazione di partito, dopo undici anni di carcere: i quarantacinque giorni, è vero, Pajetta li trascorse a piede libero solo in parte, dal 21 agosto in avanti e sotto gli obblighi della libertà vigilata; devono essere, però, giorni di discussione e di intensa vita politica, nei quali il militante Pei riallaccia i rapporti con i “vecchi” compagni e con la nuova realtà del paese. Si pensi che “l’Unità” di Milano aveva già posto le prospettive dell’unità nazionale, si erano avuti poco prima i grandi scioperi di agosto, si erano delineate all’interno dei comitati antifascisti le diverse posizioni dei partiti: aspetti tutti di una complessa realtà dalla quale erano emersi “in mice” tutti i motivi di fondo e i grandi temi della futura lotta politica. Nel libro è molto difficile ritrovarli o solo leggerli fra le righe. “Una scappata a Torino mi permise di riprendere contatto con l’apparato di partito e di rendermi conto della situazione” (p. 286): e allora vediamo l’incontro con Scappini, leggiamo l’esposizione — qui riportata “grosso modo” (p. 288) — della linea del Pei, assistiamo alla scena del compagno che esorta Pajetta a “guardarsi intorno” e a “riprendere contatto col mondo” . Nulla di tutto ciò che si agita intorno e
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nel partito; nulla delle fervide discussioni — alle quali ha partecipato anche Pajetta — che hanno accompagnato sempre ogni tentativo di ricostruire questo periodo storico. Pajetta accenna solo brevemente a possibili ragioni di critica: “Ci sarebbe più di una critica da muovere a quanto fecero le nostre organizzazioni o a quanto fece ognuno di noi personalmente” (p. 288); ma non ritiene opportuno esprimerle.
Sono i limiti che si trovano spesso nei libri di memorie (nel caso di Pajetta caratterizzate, oltre tutto, dalla mancata ripresa dei documenti, “per un’analisi che sarebbe più filologica che politica” , come scrive a p. 110) e che confermano i nostri dubbi sulla presenza di una nuova memorialistica, stimolata dall’esigenza della verifica e del confronto con i prodotti della ricerca storiografica.
Gaetano Grassi
Sistema politico e istituzionidi Piero Aimo
Sarebbe impresa davvero temeraria pretendere di dar conto, in una breve recensione, delle mille più pagine che costituiscono i volumi in oggetto (Gianfranco Miglio, Una repubblica migliore per gli italiani, Milano, Giuffrè, 1983, pp. 157, lire 10.000; “Gruppo di Milano”, Verso una nuova Costituzione, Milano, Giuffrè, 1983, t. I, pp. XV-532, t. II, pp. 533-1042, lire 55.000) e non incorrere nelle censure del curatore che ammonisce, preventivamente e non senza ragione, di leggere attentamente l’intera opera prima di dar avvio alle discussioni e alle critiche. D’altro canto è possibile ritenere che l’interesse prevalente dei lettori della presente rivista si rivolga non tanto alla sottigliezza delle argomentazioni giuridiche, alla raffinatezza delle interpretazioni costituzionali che pure caratterizzano i contributi presi in esame, ma alla ispirazione politico-ideologica di fondo che è sottesa a tali analisi e che informa e guida le stesse ipotesi riformatrici. Ciò premesso, si eviterà di scendere sul terreno delle argomentazioni prettamente giuridiche, molte delle quali, peraltro, opinabili, come è legittimo nella scienza del diritto e come riconoscono,
in diversi momenti, gli stessi autori, e si evidenzieranno principalmente gli aspetti che consentono di mettere in luce e, di svelare l’ottica politica, la filosofia complessiva in cui si collocano le numerose ed articolate proposte ventilate dal “Gruppo di Milano” .
Formato da Giovanni Bognetti, Serio Galeotti, Giorgio Petroni e Franco Pizzetti e diretto da Gianfranco Miglio, tale gruppo era stato incaricato dal Ceses di Milano di indagare se il cattivo funzionamento del sistema politico italiano dipendesse, e in qual misura, dalla Costituzione del 1948 e dai suoi strumenti istituzionali. L’analisi di tali disfunzioni e l’individuazione di alcuni princìpi costituzionali cui sarebbe lecito imputare una diretta, ancorché non esclusiva, responsabilità in tal senso, hanno indotto i ricercatori a non limitare i loro sforzi all’attività diagnostica ma, vista la stretta connessione dei problemi e degli argomenti, ad indicare, e fissare le coordinate di una salutare, anche se non indolore terapia. Tutti i contributi affiancano così all’esame della situazione concreta dello sviluppo delle istituzioni politiche, a partire dall’entrata in vigore della Co
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stituzione, un esteso ed articolato progetto di revisione costituzionale che dovrebbe finalmente bloccare l’attuale degenerazione del sistema politico, sociale ed economico. La sostanziale concordanza di vedute, fra i ricercatori, sulle cause dei mali che affliggono il nostro paese ha fatto sì che le riforme prospettate si collocassero, pur nella diversità del tono e delle sfumature, in una visione organica e tendenzialmente omogenea. Fattore coagulante ed unificante dell’intera ricerca risulta poi, indubbiamente, VIntroduzione di Gianfranco Miglio (trasfuse nel volume citato) che esplicita senza veli o reticenze ma con la perentorietà ed assolutezza che contraddistinguono il suo linguaggio, l’orientamento di fondo, l’opzione originaria che accompagna e sorregge, quale insostituibile architrave, l’impalcatura complessiva del progetto. Tale è la franchezza, talvolta la brutalità, con cui Miglio espone i suoi concetti, peraltro già abbastanza noti anche ai non specialisti, che ben difficilmente potrebbe negarsi la valenza fortemente conservatrice, se non addirittura autoritaria, che guida il suo pensiero. Sperando che l’epiteto non sia offensivo (ma l’autore non ritiene tale, ad esempio, quello di ‘gaullista’), certo oggi meno di ieri, e pur nella consapevolezza della obsolescenza del concetto teorico, sarebbe arduo non collocarlo fra gli esponenti della ‘destra’. Il leitmotiv delle sue argomentazioni è infatti costituito dalla critica frontale e senza riserve alle convinzioni politico-ideologiche e giuridi- co-costituzionali espresse dalla sinistra italiana, marxista e non, dal dopoguerra ad oggi. Questa posizione, del tutto legittima e sorretta anzi da una indubbia capacità di persuasione logica, si palesa, da un lato, nell’accoglimento di forme di legittimazione del potere diverse da quelle che fanno esclusivo riferimento al criterio elettivo-rappresentativo, e, dall’altro, nella adesione piena ad un ‘decisionismo’ esasperato, di ascendenza ‘schmittiana’, che porta ad una critica assoluta di ogni concezione (debole) del potere come mediazione sociale,
che par coincidere, per Miglio, tout court con la ‘democrazia consociativa’.
Il carattere estremo di queste tesi è tale che non sempre i ricercatori ne condividono, in toto, l’impostazione; anzi talvolta, ed è il caso di Pizzetti, si assiste ad un vero e proprio ripensamento, ad un prendere le distanze (cfr. le repliche finali) da alcuni dei paradigmi della concezione migliana. Significativa è, a questo riguardo, la critica ad uno dei metodi prospettati da Miglio per vincere le resistenze di coloro che, traendo cospicui profitti e rendite politiche dell’attuale deformazione del sistema, non vogliono accedere ad una revisione della Costituzione. Accanto ad una procedura ‘legale’ (da attuarsi mediante un progetto di legge di revisione costituzionale, di iniziativa popolare, teso — fra l’altro — alla modifica dell’art. 138 e che prescrivesse la sottoposizione del nuovo testo a referendum popolare), Miglio non esclude il ricorso ad una procedura ‘legittima’, tale da comportare una sia pure lieve “lacerazione” delle norme costituzionali. In altri termini, nel caso in cui le Camere lasciassero cadere o respingessero la proposta, il Presidente della Repubblica potrebbe sottoporre a referendum il progetto stesso, pun non avendo, ex lege, tale potere. Sul punto non si possono non condividere le apprensioni di Pizzetti che giudica il suggerimento un esplicito invito a compiere un ‘attentato alla Costituzione’, ai sensi dell’art. 90; appare inoltre strano che un ‘realpolitiker’, quale Miglio si definisce, ipotizzi, in concreto, la realizzabilità di un simile scenario, per lo meno nelle condizioni politiche attuali.
Pur senza le asprezze polemiche di Miglio anche nel contributo di Bognetti, rigoroso sotto il profilo dell’ermeneutica giuridica, emerge una lettura delle vicende politiche ed economiche dell’ultimo trentennio alquanto parziale e tale da rendere non sempre accettabili le istanze riformatrici che, partendo da tali presupposti, tenderebbero a ripristinare un particolare modello di democrazia socia
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le, previsto dalla Costituzione e sostanzialmente disapplicato, secondo l’autore, specialmente a partire dagli anni sessanta. Al di là dei rilievi più strettamente giuridici che pur si potrebbero fare alle proposto di Bo- gnetti (si pensi al problema della predeterminazione, a livello normativo, dei confini del modello economico costituzionale, e sul quale interviene lucidamente Augusto Barbera nelle Opinioni collocate nel tomo secondo) non si può non rimarcare la visione manichea che contrassegna il suo saggio. Pare che tutti i guasti e le carenze della nostra economia siano da addossare all’azione “distruttiva” del movimento sindacale, che lo squilibrio del sistema sia frutto, principalmente, dello Statuto dei lavoratori; in definitiva, che tutti i nodi irrisolti, i mali dell’economia italiana degli anni sessanta e settanta. Certo oggi non c’è chi non veda e riconosca gli errori (la dilatazione senza controlli e criteri di compatibilità della spesa) e le illusioni (una programmazione rigida e centralizzata delle risorse) che segnano la via italiana al Welfare State, ma le critiche esposte da Bognetti più che le modalità degli interventi hanno come bersaglio i princìpi stessi dello Stato sociale. A questo punto appare forse superfluo sottolineare la colpe e la miopia della stessa classe imprenditoriale quali fattori altrettanto determinanti della crisi del sistema economico, o quanto meno di una parte di essa, così come gli aspetti positivi ed irrinunciabili che pur sono ascrivibili a quel periodo e che hanno contribuito alla crescita sociale, civile e democratica del paese. Non stupisce poi che Bognetti, coerente con tali premesse ideologiche, giunga ad immaginare (pur offrendo, al contempo, una alternativa più soffice alla sua proposta) un vero e proprio smantellamento delle attuali organizzazioni sindacali ridotte al rango di “libere associazioni per la tutela degli interessati”, creando appositi organismi rappresentativi eletti dai lavoratori e autorizzati, in via esclusiva, a negoziare i contratti collettivi e a proclamare gli sciope
ri. Consapevole, tuttavia, delle difficoltà cui andrebbero incontro le proposte complessive da lui formulate per la prevedibile ostilità dei sindacati stessi e delle forze di sinistra, Bognetti conclude il suo contributo con un invito, sostanzialmente accettabile, ad aprire una discussione che porti alla definizione di un nuovo “patto sociale costituzionale” tale da rendere il modello economico, disegnato nella Carta costituzionale, vincolante per tutti e non soggetto ad interpretazioni di comodo.
Ad una completa ristrutturazione degli apparati costituzionali si accinge poi Serio Galeotti, il quale partendo da una stringente ed impietosa analisi (bassa) capacità decisionale del nostro sistema politico, offre appunto una serie articolata di rimedi alla ‘debolezza’ del governo e alla ‘ingovernabilità’ delle istituzioni. Qualche dissenso si potrebbe, peraltro, formulare in ordine alle “concause istituzionali” del ridotto livello di decisionalità del sistema individuate dall’autore: l’eccesso della riserva di legge, la riforma dei regolamenti parlamentari del 1971, il depotenziamento delle funzioni legislative imputabili al governo, se si configurano come strumenti di freno e di controllo nei confronti della speditezza dell’azione governativa, rappresentano pur sempre dei mezzi garantistici — di cui difficilmente si potrebbe disfare — a disposizione del Parlamento. L’ottica valutativa di Galeotti appare, a questo riguardo, un po’ troppo sbilanciata a favore delle ipotesi ‘decisionistiche’ ed efficientistiche che caratterizzano l’introduzione di Miglio e, più in generale, tutta la ricerca del Gruppo di Milano e che rappresentano, come è noto, uno degli aspetti salienti, e più discutibili, dell’attuale stile di governo di Bettino Craxi.
Accantonate le soluzioni di tipo presiden- zialistico, sia nella sua visione ‘pura’ norda- menricana che in quella ‘mista’ francese (della V Repubblica), Galeotti mostra di preferire una via diversa per la razionalizzazione del modello costituzionale, il cosiddetto “gover
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no di legislatura” , avanzata più volte in questi ultimi anni nei dibattiti sulle riforme istituzionali. Elementi qualificanti di tale proposta sono l’investitura popolare del Primo Ministro, contestuale all’elezione dell’Assemblea legislativa, e i meccanismi ‘rafforzati’ che disciplinano la cessazione della legislatura, con simultanea decadenza del governo e scioglimento dell’Assemblea stessa. Questa profonda modifica della vigente forma di governo non può non riverberarsi sulla composizione e sulle funzioni di altri organi costituzionali sia per la coerenza interna del modello, sia per garantire, ulteriormente, il perseguimento degli obiettivi stabilizzanti che si sono prefissati. Si spiegano così il superamento dell’attuale bicameralismo paritario con l’introduzione di una seconda camera intesa quale organo rappresentativo delle regioni e dotata di competenze specifiche, ed il mutamento del sistema elettorale proporzionale con uno diverso di tipo misto. Una spinta decisionistica, questa, che verrebbe comunque controbilanciata e compensata da un adeguato sistema di robuste garanzie e di efficaci freni, attraverso una revisione del ruolo e dei compiti della Corte Costituzionale, del Presidente della Repubblica, del potere giudiziario e dell’impianto generale dei controlli.
Come spesso succede quando si discute sulle proposte globali di riforma delle istituzioni è difficile valutare in anticipo, a tavolino, i possibili esiti delle riforme stesse; a ragione Galeotti, in sede di replica al commento di Giuliano Urbani, ricorda quanto labili e incerti siano gli scenari che gli studiosi possono immaginare ai fini di una simulazione del funzionamento concreto del modello. Tuttavia qualche osservazione può essere fatta e non tutte quelle che avanza G. Urbani paiono così scorrette o ingiustificate come forse Galeotti lascia intendere. Ci si può chiedere, ad esempio, se un esteso rafforzamento dei meccanismi decisionali, pur in presenza dei richiamati checks and balances,
sia effettivamente in grado di assicurare quella stabilità ed efficienza dell’esecutivo, ritenute dagli autori della ricerca come l’obiettivo fondamentale da raggiungere per frenare il declino del sistema politico. È probabile, come ha sottolineato in altra sede Gianfranco Pasquino, che esso incrementi, anziché attenuare, la ‘presa’ dei partiti sulle istituzioni di governo; così pare condivisibile il timore, esternato da Domenico Fisichella, relativo alle possibilità di aggregare attorno a tali istanze il necessario consenso di tutte le forze politiche e sociali. La proposta ha comunque il pregio di prefigurare, in modo organico e sistematico, uno schema unitario ed alternativo di gestione del potere che può dunque risultare assai utile e fare chiarezza nel dibattito in corso ove, molto spesso, ci si limita a suggerire, in modo generico, riforme di questo o quel tassello istituzionale senza tener conto dell’impianto complessivo che si vuol emendare e delle reciproche interconnessioni che legano le sue singole parti.
Infine crea non poche perplessità l’ipotesi, suggerita dallo stesso Galeotti in un altro capitolo della ricerca, circa una diversa disciplina costituzionale dei partiti politici, soprattutto nella versione “alta” (sottoposizione dell’organizzazione interna dei partiti al controllo di una sezione speciale della Corte di Cassazione; garanzia statutaria del ruolo preminente dei gruppi parlamentari e del Primo Ministro ecc.); quella “bassa” , che pare abbia incontrato maggiormente il favore del gruppo di ricerca, prevede interventi meno incisivi e controlli meno penetranti. In proposito sono da assecondare le riserve di Augusto Barbera che parla di larvate forme di “democrazia protetta” , specie qualora si pretendesse di stabilire, con legge, le condizioni per ottenere nel funzionamento interno dei partiti stessi un maggiore tasso di democraticità.
Interessante appare poi lo sforzo di Pizzet- ti di rispondere alla notevole sfida posta alla stabilità del sitema politico dalla crescente
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pressione degli interessi corporati e settoriali sulle istituzioni di governo e rappresentative abolendo il Cnel, organo obsolescente e sterile, e dando vita ad un terzo corpo costituzionale, il Consiglio deH’economia produttiva (Cep), da affiancare, seppur con compiti, strutture e ruoli ben definiti, all’Assemblea legislativa e alla Camera delle regioni. Il rischio di accedere alle istanze, mai sopite, delle correnti politiche più conservatrici per una rappresentanza organica degli interessi professionali e di categoria era forte, ma Pizzet- ti, conscio del pericolo, ha esplicitamente escluso forme di partecipazione diretta di tale organo alla funzione legislativa. Ciononostante sembrano pertinenti le critiche espresse da Gustavo Zagrebelsky (e riportate da Pizzetti) circa la legittimità democratica dell’ipotesi di istituzionalizzazione delle forze sociali e sulla sua pratica realizzabilità. Su questo ultimo punto, anzi, l’autore riconosce che i problemi che si aprono sono forse maggiori di quelli che si intendono risolvere. Le modalità di individuazione delle componenti sociali ed economiche, di designazione dei rappresentanti delle categorie e di distribuzione dei voti (del peso specifico) fra le varie componenti, costituiscono, infatti, l’ostacolo maggiore per chi voglia tradurre in concreto tali princìpi astratti. Ed è su questo scoglio, giova ricordarlo, che naufragò in Assemblea costituente, il tentativo della De di fare del Senato la camera rappresentativa degli interessi di categoria.
Un’ultima osservazione va fatta e riguarda il contributo di Petroni sulla riorganizzazione della pubblica amministrazione che compare nel tomo secondo dell’opera. Non v’è dubbio — e il Gruppo di Milano ne è consapevole — che una riforma del sistema politi
co che pretendesse di limitarsi ad una mera ristrutturazione degli organi costituzionali, dei ‘rami alti’ del sistema, sarebbe destinata a fallire ove non si ponesse mano, contestualmente, ad una profonda ed incisiva revisione degli apparati burocratici. Il richiamo al noto Rapporto Giannini ed al nuovo modello di pubblica amministrazione che esso prefigura, è corretto e puntuale; ci si potrebbe tuttavia domandare se appare ancor oggi praticabile una simile visione riformatrice di stampo ‘illuministico’, tutta inscritta all’interno dei tradizionali schemi strutturral-fun- zionali. Studi ed ipotesi recenti hanno posto in dubbio la validità di tale ottica e suggerito, anche sulla scorta di nuovi contributi ed esperienze straniere, di muoversi secondo criteri alternativi.
Il riferimento d’obbligo è ad una public policy analysis applicata alla riforma della pubblica amministrazione; in altri termini, sintetizzando al massimo idee ben più vaste e ancora in fase di elaborazione concettuale, alle predisposizione di modelli conoscitivi e predittivi che puntano ad una ricostruzione sistemica delle procedure e dei meccanismi organizzativi, degli input e output, degli effetti di feedback che si producono all’interno delle complesse attività degli apparati burocratici.
In conclusione, una volta depurato delle componenti più marcatamente ideologiche, il ponderoso lavoro di Gruppo di Milano può comunque costituire un utile contributo al dibattito sulle riforme istituzionali che, con i lavori della commissione parlamentare bicamerale, sembra giunto finalmente, dopo anni di discussioni spesso improduttive, ad una svolta decisiva.
Piero Aimo
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Rappresentanza degli interessi e corporativismodi Maria Malatesta
La produzione politologica degli ultimi anni ha posto al centro della lettura delle trasformazioni della società a capitalismo avanzato e della crisi che stanno attraversando, il problema dei gruppi di interesse e delle forme della loro rappresentanza all’interno del sistema politico. Gruppi di interesse e rappresentanza sono concetti di consolidata tradizione nell’ambito della politologia. Hanno ora assunto una valenza euristica particolare grazie al loro inserimento all’interno del concetto di corporativismo (o neocorporativismo), al quale molti autori hanno dato una portata analitica tale da essere utilizzato per descrivere i mutamenti globali delle società liberal-democratiche contemporanee. Lo spessore teorico del dibattito è innanzitutto rilevabile attraverso il confronto con la tradizione politologica costituita dalle teorie classiche sul pluralismo. Da questo punto di vista la lettura in chiave corporativa della politica degli interessi rappresenta una “rivoluzione paradigmatica” rispetto al modello pluralistico. Esso postula, come indica il termine stesso, la presenza nella società di numerose fonti di potere e di controllo oltre allo Stato. Nella società differenziata, i molteplici interessi di base vengono rappresentati da organizzazioni in grado di esercitare forme autonome di potere. L’organizzazione autonoma degli interessi impedisce così la formazione di una struttura sociale stratificata in poche classi omogenee (Theodore J. Lowi, The end o f liberalism. The second republic o f the United States, New York, Nort- ton and Company, 1979).
Secondo il modello pluralista classico i gruppi di interesse costituiscono non solo il luogo primario di formazione delle domande sociali e politiche ma permettono la realiz
zazione di una scala procedurale di suddivisione dei compiti, secondo la quale ai partiti è attribuita in seconda istanza la funzione di aggregazione delle domande e alla pubblica amministrazione la produzione di provvedimenti come risposta finale del processo.
Ph. Schmitter, in un saggio del 1974, che può considerarsi l’origine della “ripresa neocorporativa”, ha individuato la rottura epistemologica tra l’approccio pluralistico e quello corporativo nel concetto di monopolio della rappresentanza. Al processo decisionale politico-parlamentare tende a sostituirsi un meccanismo di Policy-making basato sulla contrattazione tra i grandi gruppi di interesse (Phlippe C. Schmitter, Ancora il secolo del corporativismo?, in La società neocorporativa, a cura di M. Maraffi, Bologna, Il Mulino, 1981). La regola di maggioranza, come ha osservato anche C. Offe, non è più l’unico procedimento decisionale: essa tende ad essere esautorata dal compromesso tra organizzazioni di interesse e corporazioni settoriali (Claus Offe, Legi'turnazione politica mediante decisione a maggioranza?, in N. Bobbio, C. Offe, S. Lombar- dini, Democrazia, maggioranza e minoranze, Bologna, Il Mulino 1981). All’interno di questa nuova fenomenologia lo Stato non è più un oggetto di competizione tra i gruppi, ma assume la funzione di regolamentazione, autorizzazione o repressione delle associazioni, che spesso sono ammesse alla formazione delle politiche pubbliche. I gruppi di interesse, a loro volta, non sono più un semplice luogo di ricezione delle domande della base, ma entrano attivamente nella produzione stessa degli interessi. La logica del monopolio attraversa anche le associazioni, che vincolano i loro iscritti, impeden-
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do al tempo stesso la formazione di gruppi concorrenti.
La differenza tipologica tra corporativismo e pluralismo resta tuttora l’unica concezione stabile condivisa dai politologi (Gerhard Lehmbruch, Corporativismo liberale e governo dei partiti, in La società neocorporativa, cit.). Non solo permangono dubbi nei riguardi stessi del termine, che evoca cupi ricordi di soluzioni organicistiche realizzate con la coercezione. Anche la distinzione tra corporativismo di Stato, o dall’alto e corporativismo societario, prodotto generalmente da domande interassociative e da processi interorganizzativi dal basso, necessita ulteriori approfondimenti e verifiche. Resta comunque l’incertezza dovuta al fatto che il termine viene sovente usato per delineare una tendenza storica generale, quella del crescente ruolo delle organizzazioni nella società, anche quando ciò non dà luogo ad effettivi sviluppi corporativi, che, secondo Crouch, sono definibili solo alla luce dello scambio tra potere politico e consenso (Colin Crouch, Stato, mercato e organizzazione: la teoria neocorporativa, “Stato e mercato”, agosto 1981).
Nella definizione data da Ph. Schmitter, secondo il quale il termine va usato nell’accezione esclusiva di processo di intermediazione degli interessi, il corporativismo è strettamente legato al problema della rappresentanza. Due sono gli elementi compresi nella definizione: il riconoscimento e il controllo del governo; la struttura del sistema di intermediazione degli interessi. In base a questo assunto Schmitter stabilisce una differenza tra corporativismo inteso come “formazione delle politiche di pressione”, ossia una forma particolare di organizzazione di interessi contrapposti che entrano a far parte del processo politico (G. Lehmbruch, Il neo-corporativismo in una prospettiva comparata, in La politica degli interessi nei paesi industrializzati, a cura di G. Lehmbruch e Ph. C. Schmitter, Bologna, Il
Mulino, 1984); e corporativismo inteso come “concertazione”, ossia metodo di formazione di politiche pubbliche (soprattutto nel campo della politica dei redditi), nelle quali i gruppi di interesse partecipano alla formazione del processo politico solo come consulenti o parti in causa. A differenza della politica di pressione, in cui le decisioni assumono forma parastatale, nella concertazione le autorità pubbliche gestiscono direttamente, anche se influenzate dai gruppi di interesse, i criteri di applicazione delle politiche (Schmitter, Neocorporativismo: riflessioni sull’impostazione attuale della teoria e sui possibili sviluppi della prassi, in La politica degli interessi nei paesi industrializzati, cit.). Il corporativismo inteso come intermediazione degli interessi si dilata in una prospettiva storica all’interno della quale la rappresentanza degli interessi viene analizzata nelle sue modificazioni in rapporto a quelle dello Stato (si vedano a questo riguardo, D. Feldman, in L ’organizzazione degli interessi nell’Europa occidentale, a cura di S. Berger, Bologna, Il Mulino, 1983).
È anche in una prospettiva storica che Schmitter utilizza la nozione di intermediazione degli interessi per analizzare il problema della governabilità nelle società industriali a capitalismo avanzato. Queste sono caratterizzate dal mutamento dei processi di intermediazione politica, costituito dall’af- fermarsi del “perseguimento implacabile dell’interesse soggettivo, correttamente e razionalmente inteso, per mezzo di organizzazioni specializzate e funzionalmente differenziate” (Ph. Schmitter, Intermediazione degli interessi e governabilità nei regimi contemporanei dell’Europa occidentale e dell’America del Nord, in L ’organizzazione degli interessi, cit.). L’introduzione di elementi di coercizione e di collusione nel rapporto tra autorità pubbliche e gruppi di interesse ha modificato tutti i meccanismi di intermediazione tra Stato e società, dando avvio a quel processo di perdita di distinzio
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ne tra attività pubblica e privata che Habermas aveva messo in luce nei suoi aspetti più generali già agli inizi degli anni sessanta (Jurgen Habermas, Storia e critica dell’opinione pubblica, Roma-Bari, Laterza, 1977). Per Schmitter la governabilità di un sistema tardo-capitalistico non è verificabile misurando la perdita di potere delle istituzioni rappresentative, ma studiando il modo in cui gli interessi vengono mediati tra la società e lo Stato. Il declino del ruolo del Parlamento e dei partiti è il sintomo, non la causa dell’ingovernabilità delle società contemporanee. Questa non è prodotta dall’eccesso di domande sociali rivolte al sistema, che provocherebbero un “sovraccarico” sulle istituzioni rappresentative, ma dal modo in cui la proliferazione degli interessi soggettivi e delle domande d’accesso garantite, l’acuirsi del senso di ineguaglianza tra gli stessi gruppi, l’insoddisfazione delle risposte statali trovano espressione e mancata risoluzione nelle strutture nazionali di intermediazione degli interessi.
Nonostante il mutamento registratosi soprattutto negli ultimi quindici anni nel sistema della rappresentanza politica, caratterizzato da fenomeni definiti da Alessandro Piz- zorno come: l’indistinzione programmatica, la difficoltà della riproduzione, l’emergere di nuove identità collettive, gli istituti tipici del pluralismo, ossia i partiti, continuano a sopravvivere. Secondo Pizzorno è possibile spiegare questo dato apparentemente contraddittorio utilizzando il concetto di scambio politico. Concetto che l’autore condivide con Crouch e che ha utilizzato in passato per definire compiutamente la forma assunta dalle relazioni industriali negli ultimi ven- t ’anni, quando la contrattazione collettiva è stata sostituita da uno scambio che avviene nel mercato politico, nel quale la minaccia non è costituita dall’interruzione della continuità del lavoro, ma dal ritiro del consenso sociale (Colin Crouch, Relazioni industriali ed evoluzione del ruolo dello Stato nell’Eu
ropa occidentale, Alessandro Pizzorno, Scambio politico e identità colletettiva nel conflitto di classe, in Conflitti di classe in Europa. Lotte di classe in Europa dopo il ’68, a cura di C. Crouch, A. Pizzorno, Milano, Etas Libri, 1977). Le transazioni che durano nel tempo e che coinvolgono un vasto numero di attori sociali, necessitano la presenza di mediatori che garantiscano la fiducia posta in essi. “Soltanto in quanto riproduce risorse (legami di fiducia) necessari allo scambio politico, il consenso elettorale dato ai diversi partiti è funzionale al sistema politico nel suo complesso” . La fine della logica oppositiva non costituisce, per Pizzorno, una mutazione rispetto agli assetti precedenti, ma uno svolgimento delle premesse con cui la rappresentanza era nata, nel senso che viene a completarsi in questo modo la negoziabilità generalizzata delle domande politiche. Nell’evoluzione, e non nella rottura delle forme della rappresentanza, Pizzorno individua comunque una crescita di instabilità, causata dall’indebolimento della “salvaguardia dell’esclusione” (Alessandro Pizzorno, Il sistema pluralistico di rappresentanza, in L ’organizzazione degli interessi, cit.).
L’ipotesi dello scambio politico si differenzia, da un lato, dalla posizione di Luhmann, secondo la quale la funzione dei partiti risiede nella loro capacità di ridurre la complessità sociale e di fornire sostegno alle decisioni vincolanti prodotte nella sfera amministrativa (Niklas Luhmann, Stato di diritto e sistema sociale, Napoli, Guida, 1978; Teoria politica nello stato del benessere, Milano, Angeli, 1983). Dall’altro dalle linee elaborate nell’ambito nella cultura neomarxista, secondo cui la sopravvivenza dei partiti è legata alla funzione di produzione di consenso e di legittimazione all’attività dello Stato (Claus Offe, Lo Stato nel capitalismo maturo, Milano, Etas Libri, 1977; Luigi Ferrajoli, Danilo Zolo, Democrazia autoritaria e capitalismo maturo, Milano, Feltrinelli, 1978; Silvio Gambino, Stato dei partiti e partiti-Stato. Il
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dibattito politico-costituzionale fra ingegneria costituzionale e raggiustamenti pragmatici, “Critica del diritto”, 1980, nn. 16/17). La cultura neomarxista si è inserita all’interno del dibattito sul corporativismo con posizioni che costituiscono per molti aspetti una critica alle interpretazioni in esso dominanti. Nelle società tardo-capitalistiche la crisi di governabilità, secondo Offe, ha origine nel tentativo di risolvere il problema della riproduzione con due sistemi che si escludono a vicenda, ossia con la privatizzazione della ri- produzione e con la socializzazione. Il neocorporativismo è la strada scelta dalle autorità pubbliche per tentare di conciliare la contraddizione insita nella struttura dello Stato tardo-capitalistico, prodotta dalla necessità di mantenere le forme della rappresentatività di massa assieme alla funzione di accumulazione capitalistica (Claus Offe, Ingovernabilità e mutamento delle democrazie, Bologna, Il Mulino, 1982). La strategia neocorporativa risponde ai medesimi criteri sui quali è articolata la politica sociale dello statocapitalistico, ossia l’esigenza di rispondere alle domande del lavoro e del capitale “in maniera solidale”, collegandoli l’uno all’altro (Claus Offe, Gero Lenhard, Teoria dello stato e politica sociale, Milano, Feltrinelli, 1979). Il corporativismo è comunque produttore di diseguaglianza. L’istituzionalizzazione della rappresentanza funzionale comporta sempre uno scambio, che è diverso a seconda delle entità collettive interessate. Nel caso dei sindacati lo Stato persegue, attraverso il corporativismo, un obiettivo di controllo; in quello delle organizzazioni del capitale, un obiettivo di delega di una parte del potere statale a gruppi privati. In questo modo lo Stato ottiene il duplice scopo di dislocare il conflitto in termini di gruppi, problemi e tattiche, alleggerendo il sovraccarico causato da un eccesso di domande e di partecipazione e riproducendo al tempo stesso la differenziazione di classe tramite lo “svolgimento asimmetrico” della depoliticizzazione. Il corpora
tivismo così non è solo un assetto che garantisce il mantenimento dell’equilibrio tra rappresentanza e controllo, ma anche una forma di occultamento della logica di classe adeguata alla struttura dello stato tardo- capitalistico (Claus Offe, L ’attribuzione dello status pubblico ai gruppi di interesse: osservazioni sul caso della Germania occidentale, in L ’organizzazione degli interessi, cit.). Il problema degli effetti di lungo periodo del corporativismo è stato affrontato soprattutto da quegli autori che lo hanno studiato nel campo delle relazioni industriali. Queste hanno registrato una profonda modificazione dovuta non solo all’intervento dello Stato nella determinazione dei salari, ma anche al- l’affermarsi di una struttura sindacale centralizzata e burocratizzata, che costituisce il presupposto della contrattazione tripartita. La centralizzazione negoziabile ed organizzativa implicita nei sistemi industriali regolati politicamente è considerata da molti autori come un elemento destinato a provocare nel tempo forti tensioni tra base e vertice. Sui fattori di instabilità interna del corporativismo sono d’accordo sia autori come Sabel, che negano la possibilità di relazioni stabili tra sindacati ed organizzazioni del capitale (Charles F. Sabel, La politica interna dei sindacati, in L ’organizzazione degli interessi, cit.); sia i neomarxisti, per i quali il corporativismo verrà incrinato dalla ripresa degli obiettivi di classe all’interno della base e dalle spinte provenienti dalle marginalità non integrate nell’assetto corporativo.
Bordogna e Provasi hanno sostenuto in un recente libro che la centralizzazione sindacale in un contesto di scambio politico non produce necessariamente delle spinte contrarie da parte della base. Per dare una valutazione realistica degli effetti del corporativismo all’interno delle organizzazioni sidacali bisogna tenere in considerazione, da un lato, gli elementi forniti dalla teoria degli incentivi, secondo la quale la partecipazione non è più — come postulava la teoria pluralista — l’unione sponta
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nea di interessi comuni, ma una scelta basata su di un calcolo di opportunità. Dall’altro è importante riflettere sui casi in cui l’assetto corporativo ha dimostrato di funzionare stabilmente. Secondo i due autori l’esperienza svedese, con la sua adesione al modello Rehn, dimostra che è possibile conciliare pieno impiego e stabilità dei redditi, evitando di colpire la dinamica salariale attraverso l’applicazione della politica dei redditi. In questo caso la presenza di un sindacato fortemente centralizzato, che partecipa alle decisioni macroeconomiche, unito ad un massiccio e sostenuto intervento dello Stato nell’economia, costituiscono una garanzia per modificare le politiche economiche che mantenendo il principio dell’egualitarismo e del solidarismo, senza intaccare l’unità e la coesione del movimento sindacale. Il problema di fondo del corporativismo — e la conseguente debolezza della sua teoria — consiste, a giudizio di Bordogna e di Provasi, nel postulare uno Stato come luogo funzionale dell’integrazione corporativa, quando nella maggior parte delle società occidentali la fine del compromesso di classe keynesiano e la frammentazione del mercato hanno prodotto un pesante deficit di autorità dello Stato. Come ha osservato Pizzorno (// sistema pluralisti- co di rappresentanza, cit.), è difficile anche parlare di rappresentanza, quando l’intreccio tra Stato e interessi particolaristici, tra
pubblico e privato è tanto stretto. I due autori sostengono così che il corporativismo, più che una strategia razionale, sia un dispositivo messo in atto per pura necessità di sopravvivenza, in assenza delle condizioni necessarie alla realizzazione di un vero pluralismo politico. La fine dell’equilibrio keynesiano, provocata dal fatto che la politicizzazione del conflitto non è stata accompagnata dalla rimozione del mercato come luogo principale della strutturazione degli interessi, può portare come conseguenza ad una restrizione della democrazia per assicurarsi maggiore funzionamento della società e più ampia libertà di mercato. Per evitare di incorrere in questa soluzione, caldeggiata dalle correnti neoliberiste e neoconservatrici, Bordogna e Provasi sottolineano l’urgenza di individuare dei meccanismi di azione sociale che siano “aperti” e “consistenti” , in grado di conciliare gli interessi di parte con quelli generali. Meccanismi aperti e consistenti, governati da un unico principio: “che le regole vengano rispettate o cambiate, ma non svuotate dall’interno forzandole a proprio favore, senza assumersi l’onere (e il rischio) politico di una loro negoziazione esplicita” (Lorenzo Bordogna, Giancarlo Provasi, Politica, economia e rappresentanza degli interessi, Bologna, Il Mulino, 1984).
Maria Malatesta
Dalla stona scienza alla stona materiadi Laura Capobianco Guido D ’Agostino
Il libro di Scipione Guarracino, Guida alla storiografia e didattica della storia (Roma, Editori Riuniti, 1983, pp. 171, lire 12.000) pubblicato nella collana delle “Guide di Pai- deia” diretta da Roberto Maragliano, si ri
volge “all’insegnante impegnato nella ricerca di una nuova dimensione professionale e desideroso di tradurre in saper fare il patrimonio di progetti e di suggestioni didattiche accumulato negli ultimi tempi” .
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In esso si tende a chiarire il rapporto tra la ricerca storica e le forme di trasmissione della stessa, tra la ‘storia-scienza’ e la ‘storia- materia’ poiché, come avverte il Maragliano nella presentazione, solo una lettura ingenua può portare a credere che quanto più “cresce il patrimonio di risorse metodologiche ed epistemologiche di un sapere, tanto più risultano chiari e perseguibili gli intenti e gli indirizzi operativi della sua didattica” (p. 5). In realtà, Guarracino fa notare come per un lunghissimo periodo si è ritenuto che la storia non avesse i requisiti per possedere autonomie e specifiche finalità pedagogiche e per essere considerata una disciplina scolastica, e come tale riconoscimento sia alfine avvenuto solo in vista di finalità del tutto esterne (formazione del buon cittadino, sviluppo del senso di umanità e di solidarietà ecc.).
La Guida nel suo complesso si sviluppa su due piani: il primo, di carattere culturale, riguarda il lungo percorso che i modelli di ricerca storiografica e quelli di trasmissione hanno realizzato dal Quattrocento a oggi; l’altro, rivolto alla parte professionale del lettore, comprende proposte di trasformazione della prassi didattica ancora oggi, a quel che sembra, chiusa all’innovazione che la ‘nuova storia’ e la pedagogia del curricolo potrebbero invece apportare. Il secondo piano è, a parere di chi scrive, largamente più coinvolgente e persuasivo, anche se nell’economia del libro la parte di carattere culturale è nettamente prevalente. Non mancano nell’insieme momenti di grande interesse anche se l’impressione generale è di una certa fati- cosità espositiva dovuta al tentativo di tenere insieme problemi che vengono sviluppati in maniera non lineare e su un arco di tempo molto ampio, in un numero di pagine peraltro piuttosto contenuto.
Come e quando la storia è diventata una disciplina scolastica? L’insegnamento della storia, se pure solo di quella antica, e non come disciplina a sé stante, è presente nella Ratio studiorum dei gesuiti, come appare chia
ramente nel prototipo dei manuali gesuitici, il Ristretto delle Historié del mondo di Ora- tio Torsellini, ma le finalità sono del tutto esterne; la storia infatti serve a fornire elementi necessari all’erudizione in un corso di studi orientato a giustificare gli eventi in funzione della teologia. In quest’epoca, la stagione umanistica ha già dato i suoi frutti ma la perdita dell’indipendenza politica ha ormai ridotto la storiografia dalle vette del modello etico-politico del Valla, del Bruni e del Machiavelli a un repertorio di exempla di un superficiale moralismo; l’erudizione ha preso il sopravvento sulla critica delle fonti, prevalgono gli interessi di tipo formale, e gli stessi repertori di exempla in qualche caso rasentano il grottesco.
Sul finire del Seicento il lungo dibattito sul significato della storia animato dai ‘pirronisti’, e la querelle sugli antichi e sui moderni, portano alla crisi della storia antica come modello, ma anche della storia sacra e del suo quadro di riferimento di storia universale, mentre l’opera degli antiquari e degli eruditi arreca profonde innovazioni di metodo. La pratica scolastica rimane al contrario, nello stesso periodo, ancorata ai vecchi modelli. Nel manuale di Nicolas Lenglet Dufre- snoy (.Metodo per studiare la storia), che è del 1713, si legge che la storia viene insegnata agli adolescenti “per confermarli nella religione” e “che sempre bisogna vedere nelle rivoluzioni delle grandi Monarchie l’opera della Provvidenza” (p. 58). Non saranno dunque le innovazioni della storiografia a modificare l’insegnamento della storia e a trasformarla in una disciplina scolastica autonoma, ma gli avvenimenti. Dalla Rivoluzione francese in poi, si va affermando infatti il concetto di ‘pubblica istruzione’, completato poi con quello di ‘educazione nazionale’, l’insegnamento della storia appare sempre più un utile strumento di formazione ideologica.
Questo processo risulta in tutta evidenza in Francia, dove le successive riforme scolastiche (1838, 1852, 1863, 1882) accompagna
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no con un parallelismo non sempre netto, gli sviluppi della storiografia, e dove i successi della storia critico-erudita vanno ormai consolidando un modello di storia nazionale all’interno di una visione di storia ‘generale’ che privilegia sempre più gli aspetti politicodiplomatici. Modello che via via si afferma anche in Germania dove, con qualche anticipo rispetto alle altre nazioni, si era ampiamente diffusa la concezione scientista della storia, e nella stessa Italia, sia pure con una certa sfasatura cronologica dovuta al ritardo del conseguimento dell’unità nazionale e a certe persistenze culturali.
Il finire del secolo vede dovunque affermarsi un modello storiografico incentrato sul concetto di nazione e di progresso, secondo cui la storia d’Europa si pone come storia della civiltà e quella della nazione come tappa precipua di questo sviluppo. Al riguardo, l’autore rileva come non sia avvertita nell’Ottocento la contraddizione tra un’ideologia eurocentrica e patriottica e una concezione scientista della storia.
Questo modello storiografico, fondato in realtà su una sequenza abbastanza lineare: “libertà, Stato-nazione, democratizzazione della politica, scienza, benessere materiale, valorizzazione dell’immanenza” (p. 106) è durato in Italia fino agli anni sessanta, “superando i limiti pensabili della sua sopravvivenza” (p. 106), mentre in altri paesi ha avuto una durata minore. Sono stati certamente i fascismi, la fine del colonialismo, la seconda guerra mondiale a spingere verso altre direzioni, ma la storiografia aveva già dal suo interno modificato il proprio paradigma. Significativa a tale riguardo è la data del 1929, l’anno di fondazione delle “Annales”, che va assunta, a parere dell’autore, piuttosto che come momento iniziale quale punto di arrivo, crocevia di percorsi intrapresi all’inizio del secolo soprattutto dagli storici dell’economia e più tardi dagli scienziati sociali, e da cui sono derivati problemi che sono ancora oggi ben lungi dall’essere risolti. Allo stato
attuale, Guarracino ritiene che non si possa più parlare di una storia ma di una sua molteplicità e di almeno quattro modi diversi di praticarla, secondo si parli di storia narrativa, quantitativa, strutturale o della mentalità. Saggiamente, ma anche procurando una certa delusione al lettore, l’autore rinunzia a trarre da questa situazione conclusioni unitarie; “nella coesistenza dell’eterogeneo e nella sempre più spinta specializzazione della ricerca storica... non c’è più grande speranza di comprendere come frammenti di una stessa storia fatti disparati come il clima, l’ambiente, la tecnica, la vita materiale, gli atteggiamenti” (p. 119). Emerge tuttavia con chiarezza un’indicazione di metodo che nasce proprio dalla esistenza delle molte ‘nuove storie’; sembra infatti oggi assolutamente impossibile praticare l’insegnamento della storia senza distinguere finalità interne ed esterne, nel senso che è proprio dalla molteplicità e delle tematiche e delle metodologie che nasce la necessità di “fornire all’allievo una adeguata coscienza delle operazioni compiute dallo storico” (p. 120).
L’indicazione su esposta è d’altra parte del tutto coerente con quanto alcuni filoni della pedagogia sono andati affermando nell’ultimo trentennio. In particolare le teorie del curricolo (interessanti a parere dell’autore soprattutto i sistemi tassonomici di Benjamin, Bloom e Gagné), la cui applicazione mette in crisi anche la storia narrativa così come qualsiasi altra disciplina organizzata in maniera normativa e centralizzata piuttosto che essere una programmata e razionale organizzazione di successive esperienze culturali. La programmazione curricolare consente invero di articolare tutta una serie di traguardi parziali, lontani sia dagli obiettivi massimi ma sfuggenti (formazione del senso della storia), che da quelli minimi e insoddisfacenti (conoscenza dei dati), oltre ad offrire criteri di valutazione atti a fuoriuscire dal soggettivismo e dal verbalismo. La parte conclusiva del libro, forse la più utile, è dedi
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cata alla proposta di un modello alternativo ed è preceduta, secondo un procedimento che è tipico di tutta l’opera, da un’esposizione “delle vie che in concreto ha preso negli ultimi decenni la critica del modello didattico tradizionale” (p. 17). I modelli alternativi sono riconducibili, sia pure con una certa approssimazione, a due, entrambi critici del concetto di ‘storia generale’: il primo incentrato sulla conoscenza del presente e come strumento di formazione civica, nonché in funzione dei bisogni proposti dalla vita. Sotto questo ultimo profilo è evidente il presupposto che la storia non si insegna e non si conosce, ma si usa. L’altro modello è quello fondato sulla ricerca che, nelle varie versioni di storia locale e di microstoria, è comunque l’unica strada per opporsi veramente alla ‘storia generale’. Non del tutto persuasiva e non sempre chiara è la posizione del Guarra- cino rispetto alla storia-ricerca; egli scrive da un canto che “l’unica, e questo non è certo poco, legittimità della storia-ricerca sta nella sua capacità di smontare le procedure con cui gli storici lavorano sui documenti, costituiscono ipotesi, avanzano spiegazioni” (p. 137). Dall’altro, poi, definisce “stravagante... l’idea che il luogo privilegiato della ricerca sia l’ambiente, la storia locale” (p. 137). Cosa significa allora l’aggettivo ‘stravagante’, a che cosa si riferisce, dal momento che solo un po’ più avanti si legge che “vi sono, certamente, vari sensi in cui la ricerca di storia locale è altamente raccomandabile” (p. 137)? Se — come sostiene Guarracino — la storia ‘generale’ è nata culturalmente come astrazione e proprio per questo motivo tutti i modelli di ‘nuova storia’ vi si sono opposti, appare poi inconciliabile l’affermazione successiva per cui la ricerca di storia locale spetta unicamente agli specialisti.
In realtà, sia il discorso sulla storia ‘generale’ che quello relativo alla ricerca storica e alla storia locale risultano in qualche punto contraddittori e sembrano scontare una sorta di irenismo dialettico-culturale. A nostro av
viso, la ricerca degli specialisti e la ricerca nell’ambito della didattica della storia hanno finalità diverse quanto ai risultati, ma in ogni caso se la seconda si muove sulla scorta delle operazioni proposte dalla pratica del curricolo, ne compie evidentemente di omogenee rispetto a quelle praticate dagli storici di professione. Da ciò ne consegue oltretutto che è indifferente se il terreno di applicazione sia dato dal ‘locale’ o venga scelto in base alle possibilità di pratica didattica. Tuttavia l’ambito locale per alcune operazioni offre certamente le più vantaggiose opportunità, e metodologiche e contenutistiche, ed è quindi compito di una corretta programmazione curricolare stabilire come, quando e che tipo di rapporti si devono cercare con altri e diversi settori e in altre direzioni, senza alcuna esclusione preconcetta.
Non meno sconcertante è leggere, a breve distanza, la proposta alternativa alla storia narrativa — “una multidisciplinarietà da costruire intorno a problemi determinati che nel loro insieme non fanno la storia” — (p. 139), coniugata alla non esclusione dall’inse- gnamento di alcuni momenti della vecchia storia ‘generale’, non perché importanti ma perché “punti cruciali del funzionamento e della trasformazione dei sistemi sociali storicamente dati” (p. 139). Un’aggiunta francamente assurda, considerati i presupposti e le ipotesi da cui si vuol partire; metodologicamente dannosa, poi, perché interromperebbe l’apprendimento fondato su operazioni di ricerca incompatibili con contenuti stabiliti a priori e che comunque appartengono ad altre scelte ideologiche e ad altri paradigmi storiografici.
Qui, evidentemente, il nostro disaccordo con le tesi dell’autore rischia di essere totale; ci sembra in effetti che la stessa riflessione sul nesso fra ricerca in didattica e informazione sul terreno delle ‘istituzioni di storia’ o del sapere storico sistematico abbia da tempo imboccato strade diverse, come d’altra parte, in altri luoghi del volume Guarracino mo
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stra di sapere. La storia ‘generale’, datata e quale comunemente la si intende, non ha ragione di esistere; va interamente ripensata e resa altro da ciò che ancora oggi si vuole che sia. È questo un punto di enorme spessore epistemologico al quale non si possono far corrispondere sforzi, anche meritori, di trasformazione degli attuali ‘manuali’.
Resta quindi la questione altrettanto grossa del curricolo; non può evidentemente trattarsi di un nuovo ‘feticcio’ adoperato perché prenda il posto di altri e precedenti, né può essere la classica ‘cartina di tornasole’a riprova della reazione avvenuta, né l’altrettanto classica, ma famigerata, ‘camicia di forza’ entro cui si imbrigliano volontà e tensioni dirompenti. Sussidio e supporto di libertà nella sperimentazione, necessario codice di riferimento per una pratica che non può non essere che flessibile e modulare, ma insieme coinvolgente e contagiosa. Non dunque ricerca ‘selvaggia’, se questo è il timore, ma ricerca in libertà (guidata) e con il gusto di praticarla. La proposta del Guarracino è più vicina invece alle tecniche dello ‘smontaggio’ e assai sensibile ai problemi della valutazione.
Pur apprezzando, in definitiva, l’invito dell’autore alla razionalizzazione e regolamentazione dell’intervento didattico sulla base di una tassonomia (nel caso specifico, ricalcata da quella di Bloom), non ne condividiamo l’uso e l’unicità dell’espediente. Del resto, l’ipotesi a sei livelli da lui presentata appare ben costruita sui piano teorico ma più debole su quello applicativo. L’esempio che se ne fornisce (da Marc Bloch, Come e perché finì la schiavitù antica, in Lavoro e tecnica nel Medioevo, Bari, Laterza, 1959), illustra i passaggi successivi previsti dalla tassonomia stessa (conoscenza dei dati, concettualizzazione, elaborazione, analisi, spiegazione, valutazione) ma in troppi casi non sembra tenere in alcun conto le difficoltà che l’insegnante può trovare ad esempio di fronte al problema delle fonti. A tale ri
guardo infatti egli si domanda: “Bloch cita una gran quantità di passi tratti da documenti dei secoli V-IX; che genere di informazione ci si può attendere rispettivamente dalla vita di un santo, dagli atti dei beni di grandi abbazie del IX secolo?” (p. 155), dando per scontato che è possibile reperire dappertutto fonti di tale genere e che, ammesso pure che si sia in possesso della fonte si possa tranquillamente realizzare un’operazione di lettura che richiede invece abilità e requisiti rari anche presso gli storici di professione e tali che non necessariamente debbono possedere studenti ed insegnanti. Ma detto tutto questo, ci corre l’obbligo di ringraziare Guarracino perché ancora una volta, con i suoi interventi sulla storia e sulla didattica della stessa, ci offre l’opportunità di sforzarci sempre più alla ricerca di punti di incontro e di soluzioni, accettabili, comuni.
Nella fattispecie, ci ha consentito la messa a fuoco di divergenze, ma anche permesso di ribadire che nella scuola c’è bisogno assoluto di previsione, di programmazione, di consequenzialità nelle scelte degli obiettivi, nell’adozione degli strumenti e nell’assunzione di responsabilità in ordine ai percorsi operativi lungo i quali si ritiene doversi muovere, quali che essi siano concretamente. Strategie didattiche non casuali, insomma, che partano da punti fermi e che arrechino sicurezza e verificabilità, dopo aver comportato tormenti e insicurezze salutari quanto dolorose, ma a condizione — e ciò crediamo sia ancor più necessario, se possibile — che dalla parte degli insegnanti si rinnovi l’impegno a ritrovare la voglia e la capacità di operare, la concreta e motivata tensione all’acquisizione intrecciata del sapere e del saper fare, nonché al loro continuo affinamento. Tenendo conto, infine, del fatto che non è vero che “in ogni epoca la coscienza storica sia solo una ideologia subita” (p. 161) e che al contrario “essa può anche essere considerata un obiettivo raggiungibile consapevolmente” , prima ancora di chiederci
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a quali valori l’insegnamento debba tendere dobbiamo operare una precisa opzione didattica perché anche da qui, se non in maniera prioritaria, nasce o almeno può nascere,
non già il ‘comune senso storiografico’, ma un civile, autentico ‘senso della storia’.
Laura Capobianco Guido D ’Agostino
Politica e politologia
Ernesto Bettinelli, A ll’origine della democrazia dei partiti. La formazione del nuovo ordinamento elettorale nel periodo costituente (1944-1948), Milano, Comunità, 1982, pp. 406, lire 30.000.
Sicuramente interessante e promettente il tema affrontato da Bettinelli in questo denso e minuzioso volume. In realtà, nonostante la cospicua messe di studi recenti sulla Costituente e in generale su momenti e problemi specifici connessi al “cambio” politico e istituzionale di ormai quaranta anni fa, un’indagine sulla formazione dell’ordinamento elettorale maturata tra il 1944 ed il 1948 può fornire utili contributi di novità, e persino di originalità, se condotta a certe condizioni.
Essenziale, ad esempio, parrebbe mantenere ben fermo, per così dire, l’argomento, di per sé sgusciarne e insidioso, bloccandolo nella sua dimensione e nel suo orizzonte più peculiari, impedendo l’accavallamento di piani teorici e di discorso che ha come conseguenza quella di fare “sfumare” il tema stesso, renderlo secondario rispetto a contesti ritenuti più forti o comunque dichiarati esplicitamente sostanziali e quindi primari. Non si discute qui, ovviamente, se sia vero o meno, giusto o sbagliato, rite
nere il problema di fondo quello del ruolo, organizzazione e rilevanza costituzionale dei partiti nel nuovo ordinamento dello Stato, e valutare come meta- discorsi (p. 39), pure funzioni di quello, il duro, articolatissimo dibattito in materia di leggi elettorali attraverso cui giungere a formare prima l’Assemblea costituente e successivamente le assemblee rappresentative ordinarie. Meno ancora si intende contestare la legittimità di approcci di più ampio respiro pluridisciplinare; se ne fa piuttosto una questione di opportunità scientifica e tecnica insieme, e più generale, visto che da una simile impostazione è derivato, di necessità, un libro ridotto all’osso nella parte dedicata al testo, ed elefantiaco, invece, in quella riservata alle note. Così sono proprio queste ultime in definitiva a ospitare la ricca disamina della molteplici fonti del dibattito stesso, e a costituire pertanto la sezione più fruttuosa dell’opera, nonché la più rispondente all’oggetto della trattazione. E di qui, ancora, emergono con tutti i loro innegabili pregi, l’idea e la relativa realizzazione da parte dell’autore, della globale rivisitazione e ricostruzione, di un iter in qualche maniera “duplicato” , dapprima dalla caduta del fascismo alla Costituente e quindi nella fase della formazione del Parlamento repubblicano, e approdato faticosamente, nello scontro cruciale tra uninominalisti e propor-
zionalisti, al “nuovo” ordinamento elettorale, tuttora, tra l’altro, largamente vigente.
Leggi elettorali e principi costituzionali in materia di voto si materializzano, retrospettivamente, sotto gli occhi del lettore, nei momenti alti e nelle pieghe più riposte della discussione e del confronto, pure dai toni sovente accesamente polemici; nelle prese di posizione di autorevoli esponenti delle principali correnti e opinioni del tempo, si trattasse di “tecnici” o di politici; nell’impatto, infine, tra teoria e realtà degli eventi che scandiscono la difficile transizione dal fascismo alla Repubblica. L’estensione del voto alle donne, la riforma delle leggi elettorali amministrative, la proporzionale pura adottata per la Costituente, il voto di preferenza, la disputa sul “voto obbligatorio”, la legge elettorale per la Camera dei deputati, la rinuncia a un sistema elettorale effettivamente diversificato per il Senato: questi i punti salienti trattati, in un ambito che rappresenta un significativo terreno di verifica per l’irrisolta questione della “continuità/rottura” nella più recenti storia italiana. In questo caso, di “continuità” se ne vede molta, forse troppa, come di trasformismo, del resto, che ne è il corollario, quando non l’essenza stessa: ma forse è stato proprio questo a orientare in maniera tanto netta l’attenzione
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dello studioso sulle forme di organizzazione interna dei partiti (antiproporzionalisti all’interno, mentre erano favorevoli alla proporzionale all’esterno), sui modi del loro radicamento sociale, della loro collocazione tra cittadini e Stato.
E il risultato è stato, a nostro avviso, che nell’illustrazione del nesso storico e del rapporto giustamente ravvisato tra leggi elettorali e “democrazia dei partiti” ci si sia sbilanciati, privilegiando il secondo termine del binomio: un pedaggio in più, si direbbe, pagato al sistema delle istituzioni formalizzate, ma anche verifica dell’esito di un processo storico che ha coinvolto, insieme, società civile e sistema politico.
Guido D’Agostino
Stein Rokkan, Cittadini, elezioni, partiti, Bologna, Il Mulino, 1982, pp. 474, lire 25.000.
Il contributo offerto da Stein Rokkan è stato, a ragione, definito determinante per l’interpretazione della storia politica europea e ha prodotto durevoli innovazioni sia nella formulazione di nuovi paradigmi interpretativi della politica, che nella costruzione di un solido legame fra due grandi tradizioni di studi politici, quella storico-istituzionale europea e quella empirico-sociologica americana.
Il volume Cittadini, elezioni, partiti, pubblicato in Norvegia nel 1970 e tradotto in Italia solo da due anni, raccoglie alcuni saggi, scritti negli anni cinquanta e sessanta, tra i più importanti della produzione scientifi
ca di Rokkan. La raccolta presenta nella sua edizione italiana, come in quella originaria, tre sezioni distinte: nella prima si esaminano gli approcci nei processi di formazione delle nazioni; nella seconda si approfondiscono le tappe di estensione del suffragio e delle ondate di mobilitazione elettorale; nella terza, infine, vengono proposti i risultati di ricerche empiriche condotte sugli atteggiamenti e sulla partecipazione politica in diversi paesi.
L’intero volume si sviluppa intorno al tema, analizzato in chiave storico-comparata, delle uniformità e differenze nella genesi, sviluppo e consolidamento delle democrazie di massa e delle alleanze politiche in Europa. Gli strumenti analitici e gli schemi interpretativi consistono nel recuperare alcune categorie già usate nelle analisi della società norvegese — come la divisione centro-periferia e le dimensioni culturali e funzionali del processo politico — combinandole con elementi analitici presenti nella letteratura internazionale, in particolare il paradigma funzionale dei sistemi d’azione di Talcott Parsons.
Utilizzando tali elementi nell’analisi storica l’autore ha indicato come l’Europa ottocentesca sia stata scossa da due rivoluzioni: quella industriale, di origine inglese, e quella nazionale, il cui catalizzatore è stato rappresentato dalle vicende francesi, dal 1789 alle guerre napoleoniche. Combinandosi in modi e tempi diversi da paese a paese questi due eventi hanno dato origine a quattro fratture strutturali, cioè opposizioni permanenti (cleavages) fra diversi settori della popolazione: la frattura fra cultura dominante
del centro e culture periferiche, quella tra Stato e Chiesa, quella tra città e campagna e, infine, quella di classe. La loro diversa forza e le loro molteplici combinazioni hanno prodotto svariate configurazioni di alleanze e di conflitti tra gli strati delle popolazioni nel corso dei processi di mobilitazione politica dell’Ottocento.
Per poter spiegare i diversi tempi di manifestazione delle fratture nei sistemi politici europei Rokkan considera la forza esercitata dalle singole cleavages nei paesi considerati. La frattura di classe, che è stata l’ultima in ordine temporale a manifestarsi, ha operato in modo generalizzato in tutti i paesi europei, al contrario delle altre tre che han inciso con variazioni notevoli da caso a caso, creando una sorta di “effetto omologatore” che ha dato vita ovunque ai partiti socialisti e ai movimenti sindacali.
Altro elemento fondamentale di carattere istituzionale, la cui presenza/assenza ha facilitato o scoraggiato le alleanze politiche e le trasformazioni dei sistemi partitici, è rappresentata dai tempi e modi di mobilitazione che hanno provocato l’“ evoluzione istituzionale” ,cioè il passaggio dall’assolutismo alla democrazia.
Per Rokkan tale superamento è scandito da quattro soglie critiche: a. soglia di legittimazione, che indica il momento in cui viene riconosciuta l’esistenza dell’opposizione; b. soglia di incorporazione, che indica il momento in cui vengono riconosciuti i diritti politici dell’opposizione; c. soglia di rappresentanza, che indica il momento in cui vengono riconosciuti i diritti dell’opposizione ad eleg
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gere propri rappresentanti; d. soglia del potere esecutivo, che indica il momento in cui diventa possibile la conquista del governo da parte dell’opposizione.
La terza variabile, considerata da Rokkan è rappresentata dal tipo di sistema elettorale e dall’evoluzione delle regole del gioco della competizione politica. L’analisi riguarda le differeze tra paesi “propor- zionalisti” e quelli “maggiori- tari” .
Valutato nel suo insieme il volume di Rokkan appare come un riferimento imprenscin- dibile per lo studio dei sistemi politici. Originale risulta la capacità dell’autore di muoversi agevolmente tra discipline diverse (dalla scienza politica, alla storia, alla sociologia) senza la pretesa di dare compiutezza alla sua intepretazione dello sviluppo europeo, convinto che solo l’interscambio tra studiosi di diverse discipline possa dar luogo a progressi sostanziali. Interessante risulta il procedimento metodologico di individuazione, dallo studio dell’evoluzione politica norvegese, di particolari idee forza (eredità storiche, differenze geografiche) da mettere poi alla prova nello studio comparato sul “caso” Europa.
Il lavoro di Rokkan è e sarà, nei prossimi anni, una fonte inesauribile di stimoli e di idee grazie al suo carattere di impresa aperta ed incompiuta. A partire dalle sue analisi ed adottando il suo metodo sarà possibile approfondire molti aspetti che l’autore ha toccato solo di passaggio.
Maurizio Mandolini
Paolo Farneti, Il sistema dei partiti in Italia 1946-1979, Bologna, Il Mulino, 1983, pp. 250, lire 10.000.
Il lavoro postumo di Paolo Farneti, l’acuto politologo scomparso alcuni anni or sono, affronta la dimensione teorica di alcuni problemi e momenti delle vicende politiche italiane del secondo dopoguerra, tentando di cogliere le ragioni della peculiare configurazione del nostro sistema politico e della sua marcata differenziazione dai sistemi liberalde- mocratici occidentali.
L’analisi, incentrata sulla genesi e sullo sviluppo del sistema dei partiti in Italia dal 1946 al 1979, si articola in tre ampie sezioni in cui si considerano, rispettivamente, il ruolo dei partiti all’interno delle dinamiche parlamentari, le relazioni che legano ciascuna forza politica alla propria base elettorale, e alcuni meccanismi di funzionamento dei gruppi politici, con particolare riferimento al Pei e alla De. Nella quarta ed ultima sezione, invece, viene esplicitata e definita la chiave di lettura unitaria in base alla quale è svolta la ri- costruzione precedente, riconducibile sinteticamente alla formula del “pluralismo centripeto”.
Alla teoria di Giovanni Sartori del “pluralismo polarizzato” — per cui il sistema partitico italiano, lungi dal modellarsi sullo schema del “bipartitismo imperfetto”, vede piuttosto la progressiva erosione del centro politico a favore delle estreme — Farneti assegna validità interpretativa esclusivamente per il periodo 1946-1965; dal 1965 al 1979, invece, si afferma, a suo avviso, una tendenza inversa per cui, nell’ambito di un processo di complessiva “deradicalizzazio-
ne” politica, le estreme tendono a estendere la propria area di influenza e di azione verso la zona mediana dello schieramento politico, seguendo un trend non sempre lineare e, soprattutto, non conseguentemente portato a termine, a causa dell’azione frenante esercitata dai rispettivi settori “integralisti”.
Il presupposto di tale teoria sembra essere la divisione dei partiti politici italiani in due blocchi — una destra, che va dal Msi al Pri, e una sinistra che va dai gruppi della nuova sinistra al Psdi — ciascuno dei quali è dotato di un alto grado di eterogeneità ed è segmentato da cleavages così profondi da impedire ogni realistica ipotesi di coalizione governativa. È a causa di tale incapacità “coalittiva”, interna ai singoli schieramenti quindi — e qui la tendenza centripeta è utilizzata da Farneti per spiegare anche la genesi delle caratteristiche dell’area di governo italiana, pur nelle sue successive molteplici versioni — che si è costituito artificiosamente un polo di centro, formatosi attraverso l’accorpamento dei settori meno estremisti e separati dalle fratture meno profonde.
Tali dinamiche, inoltre, sono da valutare in relazione all’elemento principale che caratterizza il caso italiano: l’assenza di quell’“accordo sui fondamenti” che altrove, invece, è stato il risultato di “un ben riuscito processo di formazione dello Stato 0State-building) e di formazione della nazione (Nation-buil- ding)” (p. 230), e che ha permesso la creazione di “un referente nazionale unitario entro cui inserire la definizione del liberalismo, del socialismo, della democrazia” (p. 231). In tal senso, quindi, il “pluralismo centripe-
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to” italiano è definito “l’alternativa funzionale” all’“accordo sui fondamenti” ; un’alternativa che ha evitato ed evita tuttora lacerazioni troppo profonde e irreversibili all’interno del quadro politico, ma che, al tempo stesso, impedisce una piena attuazione del regime democratico-parlamentare.
L’analisi svolta da Farneti non si limita tuttavia alla sola indagine interna al sistema dei partiti, ma si estende anche al complessivo rapporto tra società civile e società politica, con la particolare attenzione alla dimensione storica che ha costituito uno degli aspetti più interessanti e proficui del suo lavoro intellettuale.
Riccardo Vigilante
Marcello Montanari, Crisi della ragione liberale. Studi di teoria politica, Manduria, La- caita, 1983, pp. 167, lire10.000
Il libro di Montanari esamina in Benedetto Croce, Santi Romano e Alfredo Rocco tre momenti fondamentali della riflessione politica e giuridica italiana di fronte alla crisi dello Stato liberale. La scelta dell’oggetto di indagine e dei criteri di ricerca rispondono a una precisa opzione storiografica che l’autore esplicita con chiarezza nella premessa. Si tratta di invertire il tradizionale approccio marxista che ha trascurato e “tacciato di decadentismo” il tratto specifico di tale cultura borghese. Essa è caratterizzata da una comune
attenzione agli elementi passionali, prerazionali, non-logi- ci della politica e della storia, da un costante “riconoscimento della ‘forza’ come momento costitutivo della società moderna” .
Il marxismo, conservando un’immagine depurata e semplificata dello sviluppo storico giocata sulle opposizioni società civile/società politica e produzione/ideologia, proprie della borghesia in ascesa, ha espunto dal suo orizzonte le analisi sui temi della “vita” e delle passioni necessitanti che articolano il tessuto sociale, privandosi così di contributi conoscitivi rilevanti. La rilettura che Montanari propone degli autori in esame ha appunto lo scopo di riattivare questi contenuti troppo rapidamente accantonati sotto la facile etichetta di “irrazionalismo” e di consentire un confronto critico con essi. Un’indagine così indirizzata si colloca efficacemente nel dibattito politico-culturale attuale e pone in discussione, con gli strumenti agguerriti di una ricerca serrata e approfondita, l’elemento portante delle tesi neoli- beriste e neocontrattualiste oggi riproposte: l’ipotesi di una “progettazione razionale e consapevole” della società.
Marcella Pogatschnig
Antifascismo e Resistenza
Institut d ’histoire du temps present, Jean Moulin et le Conseil National de la Résis
tance, Paris, CNRS, 1983, pp. 192, Ff. 40.
Il Conseil National de la Résistance, l’organismo che rappresenta l’unità politica e militare della “Resistenza interna” francese, viene costituito dai mouvements, i partiti politici e i sindacati operai, il 27 maggio 1943, quasi tre anni dopo il crollo della Terza Repubblica e l’inizio dell’occupazione nazista. La sua nascita costituisce il punto d ’arrivo d’un processo unitario già avviato da tempo, sul terreno, tra diversi mouvements e alcuni partiti impegnati nell’opposizione e nella lotta armata all’occupante (sostanzialmente i comunisti e i socialisti), ed è il segno del vigore raggiunto, all’interno del paese, dalla Resistenza. La nascita d’un simile organismo serve anche a rafforzare in modo decisivo la posizione del generale de Gaulle e del suo comitato londinese, impegnato proprio in quelle settimane in un confronto durissimo con gli Alleati (soprattutto gli americani) che preferiscono appoggiare il generale Giraud, continuando nella strada che già, al momento dello sbarco in Africa del Nord, li aveva portati a puntare su Darlan e su una sorta di “vichysmo” senza Pétain. La nascita del Cnr presenta quindi, agli occhi del mondo ancor prima che dei francesi, la fisionomia compiuta della Francia che succederà a Pétain, col generale de Gaulle come unico rappresentante di tutti e francesi che combattono l’hitlerismo e suoi collaboratori, fuori o dentro il territorio metropolitano.
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A questo importante risultato si è arrivati grazie a un intenso e paziente lavoro di contatti, di confronti e di scontri tra le principali formazioni resistenti, e tra esse e il Comitato nazionale di de Gaulle: lavoro che è stato condotto a buon fine da Jean Moulin, che cadrà poche settimane dopo aver compiuto la sua missione nelle mani di Klaus Barbie, il famigerato capo della Gestapo di Lione (che tra l’altro anche di questo dovrà rendere conto fra non molto ai giudici francesi).
Sul ruolo decisivo giocato da Jean Moulin nella costituzione del Cnr, sui rapporti tra resistenza interna e de Gaulle, e anche tra movimenti di resistenza e partiti politici più o meno impegnati nella lotta all’invasore, l’Institut d’Histoire du Temps Présent del Cnrs ha riunito a Parigi, il 9 giugno 1983, secondo una formula ormai abituale, un gruppo di storici (Claire An- drieu, Jean-Pierre Azema, François Bedarida, Réné Hostache, Henri Noguerés, Réné Rémond) e un gruppo di protagonisti di spicco della Resistenza (Claude Bourdet di “Combat” , Eugène Claudius-Petit e Jean-Pierre Levy del “Franc-Tireur” , Fernad Grénier del Pcf, André Manuel del Bcra, Daniel Mayer del “Comité d’Action Socialiste” , Christian Pineau di “ L ibération-Nord”), che hanno discusso, in termini anche estremamente polemici, una relazione introduttiva di Daniel Cordier, già segretario di Jean Moulin all’epoca dei fatti e depositario dei suoi archivi.
La vivacità del dibattito rende bene, per giunta attraverso molti dei suoi protagonisti originali, il clima e i problemi politici che
si è trovata ad affrontare la resistenza francese tra l’estate del 1942 e la primavera del 1943: i movimenti di resistenza, in quel periodo, progettano più o meno confusamente una Francia libera da cui siano banditi tutti i partiti politici che abbiano favorito il crollo della Repubblica, i cui rappresentanti abbiano votato i pieni poteri a Pétain il 10 luglio 1940, e che non partecipino attivamente alla lotta armata contro l’invasore. Così facendo, i movimenti di resistenza accarezzano l’idea di sostituirsi ai vecchi partiti politici — tra i quali salvano soltanto il partito comunista, per il suo impegno Resistente — anche dopo il raggiungimento dell’obiettivo per il quale sono nati, la liberazione del paese e la distruzione del regime collaborazionista di Vichy. Da qui l’opposizione dei movimenti di resistenza a costituire un organismo di direzione nel quale siedano di rappresentanti dei partiti, i quali non avrebbero i titoli “resistenti” sufficienti. E da qui anche i contrasti con Jean Moulin, che intende invece garantire a de Gaulle la formazione d’un organismo che rappresenti tutte le correnti d ’opinione della nazione che non si siano apertamente compromesse col regime. Daniel Cordier dimostra anche l’infondatezza della leggenda, fatta circolare dal fondatore di “Combat” Henri Frenay, d ’un Moulin “criptocomunista” ; Jean Moulin, in un primo tempo, si opponeva ad aver contatti con il “Front National”, che riconosceva semplice- mente come una filiale del partito comunista, e preferiva avere rapporti direttamente con la casa-madre. Soltanto una più realistica considerazione dell’entità
della resistenza comunista lo induce, in un secondo momento, a far posto anche al Fn ed alla sua organizzazione militare, i Ftpf, tra le organizzazioni rappresentate nel Cnr.
In conclusione, si può riprendere un’immagine di Claude Bourdet (forse il più lucido dei grandi resistenti presenti al dibattito) che vede confermato, sulla scorta dei documenti citati dalla relazione di Cordier, il grande ruolo di Jean Moulin, ambasciatore di de Gaulle presso i resistenti francesi e ambasciatore delle formazioni resistenti presso de Gaulle. Dall’andamento del colloquio, come dal più ampio saggio di Cordier compreso nel volume, si ha ragione di attendere con interesse l’annuciata prossima apparizione dei volumi dello stesso Cordier su Jean Moulin, l ’inconnu du Panthéon.
Giorgio Caredda
Leo Valiani, Sessant’anni di avventure e battaglie, Riflessioni e ricordi raccolti da Massimo Pini, Milano, Rizzoli, pp. 187, lire 14.000.
Nell’ottobre del 1939, il romanziere e saggista ungherese Arthur Koestler venne arrestato a Parigi, quale straniero indesiderabile, e rinchiuso nell’infausto campo di concentramento di Le Vernet. Questa triste esperienza è narrata in un suo libro, oggi quasi dimenticato, che, a mio modesto avviso, è il documento più drammatico, la testimonianza più valida della tragedia che si abbatté sulla Francia negli anni 1939-40, coinvolgendo il destino di migliaia di pro-
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fughi ebrei e di perseguitati politici di mezza Europa (A. Koe- stler, Schiuma della terra, Firenze, Edizioni “U ” , s.d., ma1945). Qui s’imbatté in un profugo italiano — che nel libro assume un ruolo da protagonista— e che Koestler chiama “Mario” , del quale descrive “il sorriso distratto” , soggiungendo: “c’erano voluti nove anni di prigionia a modellare quel sorriso— tre anni per farlo fermentare nella segregazione cellulare e i sei anni seguenti per maturarlo e addolcirlo, mentre divideva i due metri quadrati di spazio con i compagni. Aveva diciannove anni quando la porta della cella s’era chiusa dietro di lui e ven- totto quando si era riaperta... Questo genere di esperienza o distrugge un uomo o produce qualcosa di raro e di perfetto — e ‘Mario’ apparteneva a que- st’ultima categoria” (p. 107). E più oltre: “Mario aveva un’idea fissa, evitare ogni occasione di essere umiliato da chi ci poteva comandare. Questa ossessione, risultato di nove anni di vita in prigione, determinava la sua condotta al campo e lo portava ad un atteggiamento masochistico e quasi suicida; continuava a lavorare con la febbre a quaranta, rifiutava di scrivere domande per la sua liberazione nel fiorito stile francese richiesto in tali documenti e perfino rifiutava una dichiarazione scritta della sua lealtà alla causa alleata — aveva fatto domanda come volontario nell’esercito francese dal primo giorno di guerra — per timore che ciò potesse essere interpretato come un atto forzato e non volontariamente politico” (p. 121). Ma nel gennaio del ’40, Koestler fu liberato dall’internamento grazie all’intervento di
esponenti del mondo giornalistico e politico inglese. “Mario” invece vi resterà fino all’ottobre successivo, allorché riuscì il suo piano di fuga.
Patetico l’addio fra i due amici: “Arrivederci, Mario. Se dovessi mai scrivere la storia della tua vita, metterei come motto le parole: C’era un uomo nel paese di Uz, il cui nome era Giobbe, e quell’uomo era perfetto e giusto.
Mario sorrise: Giobbe visse per centocinquantanni; e morì vecchio e sazio di giorni. Sentirò la tua mancanza. Se sarò trasferito alla squadra della latrina, potrò impiegare il tempo libero a scrivere un saggio sulla Storia del secolo XIX di Benedetto Croce” (p. 161).
Orbene, questo “Mario” non è un personaggio mitico, né tipizzato quale modello dell’italiano povero, ma onesto e geniale, come il Settembrini de La montagna incanta di Thomas Mann, ma è Leo Valiani, tale e quale, che ha giocato e gioca un ruolo non piccolo nelle vicende del nostro paese.
Ho abbondato nel citare Io scrittore ungherese perché nei ricordi biografici della presente intervista, Valiani è piuttosto scarso nel colorare gli avvenimenti narrati con dettagli che possano lumeggiare coraggio e sacrificio personale. Essi documentano comunque sessantanni di storia italiana, nonché il travaglio ideologico e culturale di chi ha visto e vissuto gli avvenimenti non solo da protagonista, ma da storico, quale Valiani effettivamente è. Ciò è comprovato fra l’altro anche dalla recentissima ristampa di una parte dei suoi saggi, raccolti ora nel volume: Scrit
ti di storia: movimento socialista e democrazia (Milano, Su- garco, 1983). Qui Valiani si dimostra crocianamente giusti- ficatore e non giustiziere; vuole cioè comprendere gli uomini e gli avvenimenti cui partecipa, e non solo viverli con la passionalità del momento. Da qui una singolare serenità di giudizio e una valutazione talvolta eccessivamente positiva, che non sempre mi sentirei di condividere.
La vicenda di Leo, giovane d’intelligenza precoce, comincia da lontano, comincia dagli anni dell’adolescenza nel liceo italiano della natia Fiume, la nostra — ahimè — “patria perduta” . Colà, nel crogiuolo di un municipalismo italiano si erano fusi il mondo tedesco, ungherese e slavo sotto stimolanti impulsi dell’intellettualità israelita. Nacque così quella particolare spiritualità italiana che nelle terre di confine riuscì ad assorbire la cultura di altre stirpi, per cui un ebreo tedesco di nome Hector Schmitz, diventa lo scrittore Italo Svevo. Una italianità che dalle altre culture assume i valori anche più caratteristici e li fa propri. Siffatto processo, che non ha nulla di dogmatico e di nazionalistico, avrebbe continuato nel tempo, se su Riccardo Zanella (G. Dalma, Testimonianza su Fiume e Riccardo Zanella, “Il movimento di liberazione in Italia” , 1965, n. 1, pp. 50-75) non avesse prevalso D’Annunzio e se l’Italia fascista non avesse prevalso su quella democratica.
Oggi tutto ciò è dimenticato o quasi, ma di questa poliedricità culturale è tuttora testimone Leo Valiani, con la sua
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ascendenza familiare, con la sua versatilità linguistica, con la sua cultura italiana e mitteleuropea nello stesso tempo. A diciassette anni socialista, ma non insensibile alle suggestioni della propaganda e della stampa comunista, che attraverso Sussak filtrava in Fiume, ebbe a Milano i primi contatti soprattutto con gli uomini di “Quarto Stato”, Carlo Rosselli e Pietro Nenni. E fu proprio questo cercare la stampa comunista d’oltre Eneo, che gli procurò il primo arresto a un anno di confino a Ponza. Come comunista nel 1930 venne di nuovo condannato a dodici anni di carcere (che le successive amnistie ridussero a sei). Su di un giovane doveva indubbiamente fare maggiore impressione il rigore ideologico e la volontà di combattere dei comunisti che non la pur onesta rassegnazione dei socialisti. E fu cosi che scontò gli anni di galera nei penitenziari di Lucca e di Civitavecchia insieme a compagni prestigiosi quali Terracini, Spinelli, Li Causi, Secchia, Rossi Doria ecc.
Liberato nel 1936, si recò in Francia, collaborando alla stampa comunista dell’esilio e partecipando alla guerra civile di Spagna come corrispondente di guerra. Ma la feroce repressione staliniana degli anarchici catalani, nonché un’autonoma evoluzione intellettuale, cui non dovette essere estranea l’incontro con gli elementi di GL e l’amicizia di Aldo Garosci e di Franco Venturi, le lezioni di Halevy e la lettura di Croce, lo spinsero ad abbandonare il Pcd’I, abbandono che divenne effettivo dopo il patto sovietico — tedesco. Ma — e sottolineiamo lo scrupolo morale — le di
missioni non furono rese pubbliche in quel momento, poiché i comunisti stavano subendo allora la dura repressione petaini- sta e Valiani non voleva sembrare di essersi staccato dal partito per evitare i guai della persecuzione. Così visse a Le Vernet — come è dato di capire anche dal libro di Koestler — sotto la sferza di Pétain, isolato e disprezzato nello stesso tempo come traditore anche dai suoi ex compagni. La meditazione sui testi dei grandi economisti e teorici da Proudhon a Stuart Mill e a Keynes, le ricerche storiografiche sul movimento operaio internazionale, che sfociarono nell’opera che rappresentò allora il suo maggiore contributo di studioso: Storia del Socialismo nel secolo X X — pubblicato in Messico nel 1943 e ristampato in Italia due anni dopo, (Roma-Fi- renze-Milano, Edizioni “U ”), nonché le meditazioni sul Socialismo liberale di Rosselli, del cui testo era a conoscenza fin dagli anni della prigione in Italia, lo portarono a un coraggioso revisionismo di Marx. Di questa crisi, di questo ragionato superamento del marxismo troviamo oggi una puntuale descrizione nella prefazione al già citato volume di Scritti storici (pp. 7-13).
Ma tornando all’intervista di cui stiamo parlando, nuove e di notevole interesse sono le pagine sull’esilio in Messico e negli Stati Uniti, dopo la riuscita fuga da Le Vernet. Nonché il fortunoso rientro in Italia condizionato dalla diplomazia alleata. Qui l’intervista — ottimamente portata avanti da Massimo Pini — viene a integrare, forse con una maggiore analisi critica, il volume Tutte le strade conducono a Roma, pubblicato nel lontano
1946, ed ora ristampato (Bologna, Il Mulino, 1983). Per quanto le vicende prese in considerazione siano vissute con sofferto impegno, Valiani — come ho già detto — non perde mai la serenità di giudizio e considera gli avvenimenti contemporanei con rara prospettiva storica. Si leggano in proposito le parole dedicate a De Gasperi o a Togliatti; ma soprattutto convincenti mi sono parse quelle dedicate a Nenni, presentato sotto una nuova luce nell’ag- grovigliato dibattito istituzionale (p. 110).
Si tratta insomma di un testo, in cui l’intervistato viene spinto, sia come testimone che come protagonista, a esprimere giudizi sui più importanti avvenimenti italiani dal 1921 a oggi. Ne escono lumeggiati alcuni aspetti della travagliata storia del Partito d’Azione, a integrazione o a rettifica del pur buon lavoro di Giovanni De Luna. Vengono passati in rassegna una miriade di personaggi, maggiori o minori, del mondo politico e culturale: da Saragat a Mattioli, da Jemolo a Pannunzio, sinteticamente tratteggiati e talvolta analiticamente giudicati. E tale rassegna termina con un parallelo tra Rosselli e Craxi, attuale e certamente lusinghiero per quest’ultimo.
Carlo Francovich
Enrico Serra, I tempi duri della speranza (1943-1945), Roma, s.e., 1982, pp. 96, sip.
È un vero peccato che questo libretto sia stato pubblicato in edizione fuori commercio e de
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stinato quindi soltanto a pochi fortunati: only fo r happy few, per dirla con Stendhal. L’autore ebbe infatti non piccola parte nella guerra di liberazione e nel periodo successivo, operando agli ordini di Ferruccio Par- ri e collaborando con Leo Va- liani, che ha premesso una lucida prefazione a queste concise memorie. Si tratta qui non solo della descrizione di alcuni episodi resistenziali, ma di una testimonianza sui momenti essenziali della lotta antifascista e dell’immediato dopoguerra.
Testimonianza rara, di cui purtroppo — per ragioni di data — non ha potuto tenere conto Giovanni De Luna nel suo ottimo libro sul Partito d’Azione (Storia del partito d ’Azione. La rivoluzione democratica (1942/1947), Milano, Feltrinelli, 1982). Enrico Serra appartiene a quella generazione di giovani, che, cresciuti in clima totalmente fascista, avevano perso ogni contatto con la precedente generazione di opposizione, ormai dispersi, fra confino, galera ed esilio, o ridotti al silenzio dall’occhiuta repressione fascista. Essi dovettero per lo più formarsi da soli — quasi sempre nel corso della guerra — una propria cultura e ideologia antifascista. “Valoroso sottotenente carrista nella divisione Ariete, ferito e decorato di medaglia d’argento sul campo in Libia”— come scrive Valiani (p. 10)— quando rientrò in Italia alla fine del 1942, lavorò presso 1T- spi di Milano, al fianco di Federico Chabod. Oggi è ordinario di storia dei trattati a Bologna e dirige il servizio storico e di documentazione del ministero degli Esteri. E all’Ispi entrò in
contatto con gli altri esponenti del PdA e soprattutto con Ferruccio Parri, che si valse di lui per tenere i contatti con la Resistenza della natia Emilia e, in modo particolare, per aiutare e facilitare le evasioni dal campo di Fossoli. La successiva missione fu una analoga incombenza per il campo di Bolzano.
Tutto ciò è narrato con grande semplicità e naturalezza. Ma per lo storico politico avrà forse maggiore interesse quanto l’autore ci racconta sull’attività svolta a Milano tra la fine del 1944 e il 1945, come fondatore e dirigente della Gioventù d’Azione, nelle sue implicazioni politiche con il Fronte della Gioventù, stretta- mente condizionato dal Pei. Avrà maggiore interesse quanto scrive circa la sua attività di redattore dell’“Italia Libera” clandestina e nei mesi successivi alla liberazione. Rivive così tutto un mondo di personaggi, che recitano e hanno recitato successivamente una parte non secondaria nella politica italiana: da Ugo La Malfa a Vittorio Foa, da Fermo Solari a Leo Valiani. Rivive anche tutta una serie di avvenimenti: dalla insurrezione di Milano alla uccisione di Mussolini, dalla fondazione dellTtalo-American Press Club, ad opera dello stesso Serra, alla rifondazione dell’Ispi.
Questa attività così intensa si svolse al fianco di Parri, come capo della Resistenza prima e come presidente del consiglio poi. E anche dopo, nel variare delle sorti politiche, Serra sentimentalmente non si allontanerà da colui che fu suo maestro spirituale, nemmeno negli anni bui del suo quasi completo iso
lamento e negli anni ancora più tristi della sua malattia. Credo che nessuno abbia descritto, né avrebbe potuto descrivere, le condizioni di “Maurizio” alla vigilia della morte, con maggiore finezza e con maggiore delicatezza di quanto abbia fatto Serra in questa raccolta di articoli: sono pagine dettate da commossa pietas filiale.
Carlo Francovich
Santi Fedele, I repubblicani di fronte al fascismo (1919-1926), introduzione di Giovanni Spadolini, Firenze, Le Monnier, 1983, pp. XXV-336, lire 22.000.
Nell’esaminare le vicende e il ruolo svolto dal Pri di fronte alla nascita e alla presa di potere del fascismo l’autore — uno studioso che ha già avuto modo di affrontare aspetti della storia dei partiti politici nell’Italia contemporanea — ha preso le mosse dalla prima guerra mondiale. Come viene indicato nell’introduzione di Spadolini (p. VII), il conflitto rappresentò uno spartiacque nella storia della penisola: il Pri non rimase estraneo a questa evoluzione e ne sperimentò anzi le conseguenze e le contraddizioni.
Al termine delle ostilità il partito republicano si collocava all’interno dello schieramento interventista, sebbene il suo interventismo si fosse caratterizzato come democratico e fosse influenzato dal pensiero risorgimentale e mazziniano. La posizione favorevole alla guerra aveva però rafforzato l’ostilità repubblicana sia nei confronti del giolittismo, sia nei confronti del socialismo massimalista. L’av
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versione verso il Psi si traduceva anche in una sorta di “concorrenza” . Partito non esente dal condizionamento ad opera di “notabili” ed espressione, in alcune zone, di ceti medi di tradizione patriottico-risorgi- mentale, esso si qualificava in altre aree del paese come movimento politico nettamente contrapposto all’istituzione monarchica e particolarmente sensibile alla problematica econo- mico-sociale.
Questi caratteri, a volte contraddittori, influenzarono profondamente l’atteggiamento del Pri nell’immediato dopoguerra. Fedele individua alcuni limiti ed equivoci dell’azione repubblicana, fra cui le simpatie nei confronti del dannunzianesimo, dell’impresa fiumana, delle prime manifestazioni fasciste. Nell’esaminare gli obiettivi del Pri, l’autore rileva però l’intenzione del partito re- pubblicano di farsi portavoce, magari in modo confuso, delle istanze di rinnovamento che ispiravano larga parte degli ex combattenti e i settori democratici dell’interventismo; un ruolo non secondario in tale ambito avrebbe dovuto svolgere la creazione di una Costituente. Né Fedele trascura di sottolineare le speranze nutrite dai repubblicani negli ideali wilsoniani, un aspetto, questo, che forse meriterebbe ulteriore approfondimento.
Dopo il parziale insuccesso elettorale nelle elezioni del 1919 e il Congresso di Roma (13-15 dicembre) il Pri recuperò rapidamente il ruolo di forza della sinistra. Con la segreteria di Fernando Schiavetti e con il Congresso di Ancona (25-27 settembre 1920) si operò una
svolta che — come scrive Fedele — rappresentò “il superamento della fase più acuta della grave crisi” vissuta nell’immediato dopoguerra, nonché “l’avvio di quel profondo processo di rinnovamento in virtù del quale il Pri, unico tra quelli che Giorgio Galli ha definito i micro-partiti della sinistra italiana, resistette] al processo di destrutturazione che colp[ì] questi ultimi nel primo dopoguerra determinandone [...] la scomparsa” (p. 113).
Il Pri avrebbe ben presto dato prova della sua vitalità di fronte al progressivo affermarsi dello squadrismo. A dispetto del “tendenzialismo repubblicano” espresso da Mussolini, dell’opera scissionista di alcuni gruppi ed esponenti locali, presto emarginati, della comune origine interventista, i repubblicani dichiararono apertamente la loro ostilità al fascismo. La rapida ascesa di questo movimento si manifestò quasi contemporaneamente alla “ripresa” organizzativa del Pri. Questa trovò espressione nella fondazione del quotidiano “La Voce repubblicana” , nonché nel rafforzamento della presenza del partito in alcune zone: il grossetano, grazie all’azione di Randolfo Pacciardi; il trevigiano a opera dei fratelli Bergamo. Le elezioni del 1921, nonostante il Pri si fosse presentato in sole 13 circoscrizioni elettorali su 40, confermarono la radicata presenza del partito in alcune aree del paese. Proprio a partire dal 1921 su queste zone cominciò ad abbattersi la violenza fascista ed esse dovettero subire 1’“occupazione” squadrista (da Treviso nel lu
glio 1921 a Ravenna nel luglio 1922). Pur individuando con acume alcuni caratteri e obiettivi del movimento fascista, il Pri, alla stregua di altri partiti democratici, si trovò sostanzialmente impotente di fronte alla marcia su Roma. L’affermazione di Mussolini e dei suoi seguaci non mancò di provocare inoltre alcuni sbandamenti e incertezze (quali la scissione della Federazione repubblicana autonoma della Romagna nel gennaio 1923). Ma nel complesso — come Fedele sottolinea — il Pri non scese a compromessi con il fascismo. Nonostante le violenze e l’intimidazione le elezioni del 1924 confermarono la tenuta di alcune aree del voto repubblicano.
Con il delitto Matteotti le opposizioni a Mussolini parvero avere l’occasione propizia per abbattere il governo fascista. L’atteggiamento repubblicano nell’ambito dell’Aventino si caratterizzò per la sua peculiarità e l’autore illustra infatti le critiche della leadership del Pri alla strategia perseguita dalle forze antifasciste, in particolare all’eventuale ruolo assegnato alla Corona nell’allontanamento di Mussolini dal potere.
L’analisi di Fedele si fonda prevalentemente su un’attenta utilizzazione della stampa repubblicana e di alcuni fondi
- dell’Archivio centrale dello Stato. Lo studio fornisce nel complesso un utile panorama della realtà repubblicana nel periodo preso in esame e offre una serie di spunti per ulteriori studi e ricerche.
Antonio Varsori
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Nicola De Janni, Una scuola di vita. Funzionari comunisti tra Partito e società, Napoli, Piron- ti, 1984, pp. 182, sip.
Il libro del De Janni è il primo dei “Quaderni dell’antifascismo napoletano” che nascono per iniziativa congiunta dell’Istituto campano per la storia della Resistenza e dell’Anppia, sezione di Napoli, con l’intento di “promuovere la conoscenza, la riflessione e la discussione attorno a modi e temi salienti della peculiare esperienza storica e politica dell’antifascismo napoletano e meridionale” , come precisato dai curatori della collana. In realtà la ricerca del De Janni spazia oltre questa delimitazione geografica, salvo recuperarla nella figura umana e politica di Clemente Maglietta, noto esponente dell’antifascismo e della rinascita sindacale napoletana, con un’intervista che apparentemente costituisce una seconda e distaccata parte del libro, ma che si integra strettamente con la prima e ne sottolinea la novità e il particolare interesse.
La figura del funzionario nasce e assume catteri e ruolo in relazione alle fasi di sviluppo della vita politica e sindacale, dalla nascita del Psi e della Confederazione generale del lavoro, alla costituzione del Pei e alle sue possibilità di organizzazione e di azione nel periodo della lotta clandestina. Le vicende di questa sono strettamente legate alle capacità organizzative o al blocco dell’attività a opera della polizia, di coloro che vengono designati “rivoluzionari professionali” , portatori, a diversi gradi, di una idealità politica e rivoluzionaria. La ricostruzione dell’autore si svolge attraverso le
vicende dei singoli, cogliendo caratteri, forza eroica di sacrificio, ma anche debolezze: una forte umanizzazione delle vicende politiche che lega il lettore, intessuta di momenti di caduta, di sospetti a volte ingiusti, di perdite improvvise di fiducia accanto allo slancio passionale e al sacrificio degli interessi privati.
Nella Resistenza la figura del funzionario rimane essenzialmente quella che si è caratterizzata in precedenza, pur con necessari cambiamenti di attività e di funzioni implicati dal nuovo tipo di lotta e pur nelle diverse articolazioni che intervengono nella gerarchia del funzionariato e nell’allar- garsi di questo ai giovani. Elemento di continuità, dunque, tra il partito della clandestinità e quello che va nascendo ora con l’accorrere di nuove leve giovanili.
Certo, con il ritorno alla legalità le cose non rimangono inalterate. E descrivendo la nuova situazione, il libro del De Janni apre la prospettiva sugli aspetti che hanno incrinato la democraticità dei risorti partiti, e via via deteriorato la loro vita interna e la loro immagine nella coscienza dei cittadini. Il funzionario, negli anni cinquanta e sessanta, diventa lo strumento di una concezione e organizzazione burocratica, che impedisce una vita politica fatta di reale partecipazione e responsabilizzazione, incapace di cogliere le indicazioni e le esigenze del movimento reale della società.
La figura del rivoluzionario di professione riemergerà nel sessantotto tra i giovani dei “gruppi” proprio contro la
sclerotizzazione burocratica e la concezione autoritaria ad essa connessa, di tutta la struttura politica e sociale, analoga per certi aspetti alla vecchia generazione degli anni del fascismo, ma incapace di vincerne la diffidenza. Risuona certamente una nota di impegno personale nella chiusura di questa parte del libro, allorché si dice dei giovani del sessantotto sfuggiti alla “disperata scelta del terrorismo” (p. 81) che essi “si inseriscono nella società con i ristretti margini di chiarezza che la situazione politica concede, pronti comunque a partecipare al grande processo di trasformazione con un patrimonio di esperienze di vita maturato nella lotta, potenzialmente utilizzabile o utilizzato in più campi, ma comunque non riscontrabile nel cittadino comune” (p. 81).
Nella seconda parte del libro, dedicata a Clemente Maglietta, l’intervistatore riesce a ricostruire in rapida sintesi tutta la vita del personaggio, non senza alcune note caratteriali e psicologiche dell’infanzia e dell’adolescenza già indicative delle scelte future e della qualità dell’uomo e del politico. Allo stesso modo in cui emerge sin dal 1924 la sua politicità appassionata e “ingenua”, così più tardi, negli anni universitari, la consapevolezza ideologica non precede ma segue, a distanza di tempo, la scelta politica a sinistra. Marx e Lenin entreranno nel suo bagaglio culturale molto più tardi, al momento egli sente solo la lotta contro il fascismo. È “una grande manifestazione di antifascismo e di amore per la libertà” (p. 97) tenutasi all’Università nel ’30 contro il Rettore fascista che gli apre, nella persona di Eu-
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genio Reale, le porte del Partito, nella primavera del ’31. E si inizia la sua carriera politica con il primo incarico di re- sponsabilile dei giovani; quindi, nel luglio del ’31, dopo l’arresto di Reale, l’espatrio: “il caso volle che mi trovassi a Parigi in un momento in cui il Partito aveva bisogno di funzionari, e diventai funzionario” (p. 104).
Nelle vicende che segnano i momenti di questa sua attività ritroviamo come momenti concreti di vita vissuta certe premesse psicologiche e politiche di cui si è detto. Da Parigi in Toscana come corriere, di qui a Losanna, a Parigi, poi in Emilia come funzionario, di nuovo a Parigi e infine il terzo viaggio in Abruzzo, che termina con l’arresto, cui segue una condanna che dai 21 anni si riduce ad 8 per l’amnistia del decennale e poi ancora a 3 con un anno di libertà vigilata. Con il ritorno a Parigi segue la prima esperienza negativa nei riguardi del partito; Maglietta viene infatti espulso nel maggio 1937, senza chiari addebiti, se non vaghi accenni al suo comportamento al processo, senza un interrogatorio, senza che nulla fino allora avesse fatto trapelare i sospetti. La cosa avrà strascichi lunghi, fin oltre la fine della guerra, in alcuni atteggiamenti dei dirigenti nei suoi riguardi.
Dopo l’esaltante esperienza della guerra di Spagna, in cui svolge funzioni di commissario politico, il ferimento, le traversie nei vari campi di concentramento francesi, il nuovo periodo di pena da scontare nel carcere della Giudecca a Venezia, la sorveglianza speciale, il confino a Summonte; finalmente è a
Napoli, libero, la sera del 15 ottobre 1943.
L’intervista tocca infine il complesso e delicato problema dell’autonomia del sindacato, che Maglietta, divenuto segretario della Camera del lavoro, deve sostenere contro l’ingerenza della Federazione. Stanco, lascia l’incarico nel 1955, e pochi anni dopo, nel 1962, sentendosi poco e male utilizzato, si ritira dall’attività di partito e non rinnova la tessera l’anno successivo. Tuttavia, disilluso da una breve esperienza socialista, sentendosi colpevole di aver lasciato la vecchia famiglia, dopo diversi anni vi rientra. “Uscendo dal Partito, non rinnovando la tessera nel 1963 ho commesso un errore, perché avrei dovuto agire in maniera diversa” (p. 174).
Avrà fatto nel frattempo un’esperienza di lavoro di tut- t ’altra natura da cui egli sostiene di aver tratto una conoscenza meno schematica e più aderente alla realtà degli uomini e dei loro rapporti.
Vera Lombardi
Giancarlo Pajetta, Il ragazzo rosso, Milano, Mondadori, 1933, pp. 316, lire 12.000
Non sono moltissime le notizie non note che ci vengono fornite da questo volume di memorie, forse perché uscite dopo che tanto numerosi dirigenti e militanti comunisti hanno ampiamente — e spesso con vivacità e dovizia di particolari — narrato le loro esperienze della clandestinità e del carcere fascista; forse anche perché l’autore in troppe pagine sembra eccessivamen
te preoccupato di “conciliare” ricordi ed esperienze degli anni trenta con le sue attuali responsabilità politiche. Troppo rapidamente (e, ci pare, superficialmente) viene così liquidata l’esperienza degli emigrati nel- l’Urss; ma ugualmente sotto- valutate sono certamente l’importanza e l’incidenza della difficile attività cospirativa ed organizzatrice del Pcd’I in Italia. Certo, il livello organizzativo (strettamente inteso) non poteva dare risultati clamorosi e non era certo sufficiente la visita del “funzionario” o del “fenicottero” per far sì che l’Italia “imperiale” conoscesse un vasto reclutamento di rivoluzionari di professione. Eppure “l’accettazione quasi inerte del fascismo da parte di fasce di popolo sempre più estese” (p. 112) è ampiamente messa in discussione dalla stessa documentazione conservata negli archivi della polizia fascista. Egualmente affrettato è il giudizio che porta l’autore alla strana (e contraddittoria?) conclusione che in zone “dove le antiche radici del movimento operaio avevano creato un ambiente favorevole come l’Emilia Romagna e la Toscana” il partito comunista riusciva ad ottenere “qualche movimento”, mentre dove “insieme ad un’antica tradizione c’era il realismo fatto di esperienza e di coscienza di classe”, come nel Triangolo industriale, la presenza attiva dei comunisti veniva “bocciata” (p. 176). Donde si dedurrebbe che la grande crescita comunista partita dalle radici “sovversive” emiliane fu dovuta alla mancanza di realismo politico e di coscienza di classe e che giustamente gli operai torinesi
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attesero il marzo 1943 prima di impegnarsi partiticamente rischiando il carcere e il confino.
Le riflessioni di altri protagonisti e di molti studiosi non sono quindi coincidenti con i ricordi di Pajetta. E questo non sarebbe certo un problema, se questi ricordi aiutassero ad una diversa lettura dettata da esperienze diverse di cui fosse dato un convincente resoconto. Purtroppo, invece, l’autore si limita ad affermazioni lapidarie, anche a proposito di problemi sui quali ampia è stata la riflessione: “una cultura fascista non esisteva, ma il fascismo non ne aveva bisogno” (p. 112). Non ci pare per niente un contributo alle riflessioni su cultura e intellettuali che da anni portano avanti studiosi come Gabriele Turi e Mario Isnenghi o, su un versante opposto di conclusioni, Norberto Bobbio.
Egualmente poco utili a comprendere o completare le biografie dei compagni di carcere o di clandestinità dell’autore ci paiono i brevi ritratti che egli ne fa troppo spesso limitati a episodi o battute nei quali la nota vena sarcastica di Pajetta sembra trovare sfogo. E un po’ tutti ne fanno le spese, da Germanetto (pp. 157- 159, 179) a Scoccimarro (pp. 222-223), da Pastore (pp. 160-161) a Miglioli (p. 159).
Più vive ci sono parse le pagine relative alla prima esperienza carceraria (pp. 72-80) e soprattutto quelle finali sugli ultimi giorni di detenzione e sulle convulse giornate tra Milano e Torino attorno all’8 settembre (pp. 278-304). Egualmente interessanti le pagine
sulle quali vengono esaminati ed elencati gli studi svolti in carcere e si aggiungono titoli ed autori a quelli già noti dalle memorie di altri frequentatori dell’Università di Civitavecchia (Volpe viene indicato come un “modello di metodo per la ricerca storica” , pp. 236). Ma, tutto sommato, il volume non riesce ad assumere il tono della memoria, di cui manca la precisione dell’informazione e certo la ricchezza in quei particolari che soli possono riuscire a far comprendere il clima e l’attività di quegli anni. Ma nello stesso tempo esso non è neppure un saggio (più volte l’autore sottolinea di non essere andato a rivedere i documenti d ’epoca per non dare una “analisi filologica” , p. 110), né una riflessione critica su esperienze personali e collettive. Resta quindi sospeso, quasi in un limbo in cui prevale la “malignità naturale” (p. 251) dell’autore sulla volontà di raccontare e descrivere una esperienza umana e politica di singolare valore ed importanza come è stata quella di Giancarlo Pajetta.
Luciano Casali
Anna Maria Simi, Il Comitato di liberazione nazionale a Ferrara. 1945-1946, Ferrara, Centro studi storici Resistenza, 1983, pp. V-237, sip.
Una rapida e attenta introduzione precede la pubblicazione di alcuni importanti documenti relativi al Cln di Ferrara all’indomani della liberazione; particolarmente importante (pp. 79-139) il materiale relativo sii due convegni provin
ciali del comitato che cercarono di fare il punto sulla ricostruzione in provincia nell’estate e nell’autunno del 1945. Vanno anche segnalati i difficili rapporti fra i comitati locali e gli inglesi, soprattutto in relazione alla defascistizzazione (non certo secondaria nel Ferrarese, dove si era avuta una alta percentuale di adesioni alla Rsi) e al sequestro dei beni agli ex dirigenti fascisti (si vedano i “divertenti” Doveri del CLN precisati dal Governatore di Ferrara il 28 maggio 1945, pp. 200-202): una riprova ulteriore, in sede locale, di linee di comportamento note a livello generale per gli Alleati e, per quanto concerne gli inglesi, già ampiamente studiate per la confinante provincia di Ravenna.
Luciano Casali
Tribunale speciale per la difesa dello Stato, Decisioni emesse nel 1927, a cura dell’Ufficio storico dello Stato maggiore dell’esercito, Roma 1980, pp. 664, lire 7.800; Idem, Decisioni emesse nel 1928, Ivi, 1981, [ma 1982], t. 3, pp. 1501, lire 25.000.
L’Ufficio storico dell’esercito si è assunto la pubblicazione della documentazione dell’attività del Tribunale speciale per la difesa dello Stato, creato nel novembre 1926 con il compito di reprimere il dissenso politico con un’efficienza, una speditezza e una mancanza di remore legali, che la giustizia ordinaria non poteva assicurare. Il tenente generale della giustizia militare Floro Rosselli, curatore e
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principale autore dell’opera, precisa nell’introduzione che in essa saranno contenuti i nomi di tutti gli imputati denunciati al Tribunale speciale, gli estratti di tutte le 2.500 sentenze emesse dal Tribunale, dalla Commissione istruttoria e dal giudice istruttore, con la pubblicazione integrale di quelle che rivestono un carattere di particolare interesse o che hanno semplicemente un carattere rappresentativo, e infine i dati relativi all’espiazione della pena di tutti i condannati, con annotazione dei relativi provvedimenti di clemenza. Tutto ciò garantisce un’informazione ampia e scrupolosa, ma richiede anche molto lavoro e molte pagine, oltre duemila per i primi due anni di attività del Tribunale speciale; il completamento dell’opera si farà quindi attendere. I volumi già editi (ad un prezzo praticamente simbolico) comprendono processi di grande rilievo, come quelli per gli attentati a Mussolini del 1925-1926 (Zaniboni, Gibson, Lucetti, Zamboni), il processo a Gramsci, Roveda, Scoccimarro, Terracini e altri, e la prima condanna a morte nei confronti del giovane comunista Michele Della Maggiora. È forse più impressionante l’attività “ordinaria” del Tribunale speciale, ossia la quantità di processi per gesti di apologia degli attentati a Mussolini o per attività sovversiva, che documenta la vastità e sospettosità della presenza poliziesca sul territorio nazionale. Un documento essenziale per lo studio della repressione fascista, di cui non possiamo che raccomandare la diffusione (che, lo ricordiamo, passa attraverso l’Ufficio pubblicazioni militari, via Lepanto 1, Roma).
Giorgio Rochat
Seconda guerra mondiale
Loris Rizzi, Lo sguardo del potere, La censura militare in Italia nella seconda guerra mondiale, 1940-1945, Milano, Rizzoli, 1984, pp. 225, lire 14.000.
Mentre l’editoria italiana sembra voler continuare la caccia a facili successi cucinando e proponendo sommarie ricostruzioni dedicate a delineare “quello che pensavano gli italiani” nel corso dell’ultimo conflitto Loris Rizzi ha trovato la singolare pazienza e la perseverante intelligenza di andare contro corrente. Il suo volume affronta, con rigore metodo- logico e complessità critica, l’analisi dei sentimenti collettivi, delPorientamento politico, delle aspirazioni esistenziali dei combattenti e dei civili coinvolti nel conflitto.
L’osservatorio privilegiato dal quale Rizzi può dispiegare la sua analisi è costituito dalla ricostruzione dell’attività delle commissioni provinciali di censura. Istituite alla vigilia dell’entrata in guerra queste provvedono non solo “a sopprimere le informazioni pericolose per la difesa del segreto militare o dannose per lo spirito del paese” contenute nella corrispondenza che passano al vaglio, ma devono anche sintetizzare in relazioni periodiche, destinate alle più alte gerarchie politiche e militari del regime, le valutazioni sul morale del paese, indispensabili al potere per tener sotto controllo il fronte interno ed i soldati alle armi.
I quasi ottomila funzionari addetti all’esame della posta non possono materialmente procedere al controllo di tutta la corrispondenza in arrivo e in partenza per i diversi scacchieri di guerra:
nel corso del primo anno di conflitto le lettere spedite superano ampiamente la media giornaliera di nove milioni.
Tuttavia — nonostante la mole immensa del materiale smistato dagli uffici postali — la censura riesce a svolgere la sua attività “sul 50-60 per cento della posta militare e sul 30 per cento di quella civile mentre continua ad essere effettuata in modo totalitario sia la censura sulla posta estera sia quella sulla corrispondenza dei prigionieri ed internati di guerra” .
Nella prima parte del libro, dopo aver brevemente delineato l’ordinamento della censura dal 1940 al 1945, vengono affrontati modelli e funzioni della censura. Proponendo vari schemi interpretativi (si susseguono con vivace concatenamento modelli semiotici e modelli linguistici, approccio psicoanalitico e teorie dei giochi) Rizzi riesce ad evidenziare pratiche e strategie dei censori, privilegiando l’approfondimento delle griglie che la censura deve applicare “per rispondere contemporaneamente a due diverse e complementari esigenze: da un lato reprimere l’indicibile, e dall’altro acquisire informazioni utili al potere”. Ne deriva — fa notare l’autore — una situazione in cui la griglia “più che ad una scacchiera con alcune caselle bloccate ed altre libere, assomiglia ad una mappa topografica in cui sono indicati i territori controllati e quelli liberi, i territori da conquistare e quelli invece ritenuti poco importanti” .
Momento successivo — ricostruito ampiamente dal lavoro di Rizzi — è la presa di coscienza, da parte dei censurati, dello sguardo che viene diretto sui
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loro pensieri e sui loro sentimenti. Sguardo di cui viene colta, in molti casi, la duplice funzione. Si delinea così una complessa partita che, apparentemente giocata sul terreno di ciò che può essere detto e di ciò che è indicibile, in realtà si arricchisce di un’ulteriore, complessa variabile: quella che permette al censurato, sottoposto al controllo del potere, di giudicare i suoi giudici inserendo nelle lettere sentimenti, episodi, momenti della propria vita quotidiana, che suonano come condanna senza appello verso le gerarchie politico-militari che stanno portando il paese alla catastrofe.
La seconda parte del volume affronta l’analisi dei contenuti dei messaggi passati al vaglio delle commissioni provinciali di censura. L’opportuna suddivisione del materiale in una precisa successione cronologica, attraverso la quale è possibile cogliere l’evolversi delle valutazioni e degli umori che scandiscono il passaggio dalla non belligeranza al fallimento della guerra parallela fino ad arrivare al crollo del fronte interno ed ai mesi della Repubblica di Salò, riesce a dare concretezza alle ipotesi ed alle intuizioni prospettate nella prima parte.
Ulteriore corposità alla ricostruzione viene data nell’ultimo capitolo del libro attraverso la puntuale messa a fuoco dei temi che scandiscono gran parte della corrispondenza scambiata tra la popolazione civile e gli uomini in divisa: la vita al fronte e le preoccupazioni familiari, la rassegnazione verso il dominio dei potenti e la ribellione inconteni
bile contro la corruzione e l’arroganza delle gerarchie, la scoperta deU’umanità del “nemico” e il peso della lontananza sui sentimenti e sul sesso.
Un’appendice documentaria, costituita da alcune relazioni- tipo redatte dalle Commissioni provinciali di censura e dall’Ispettorato censura militare, completa il lavoro che s’impone all’attenzione del lettore sia per l’ampiezza e novità della ricostruzione che per gli stimoli e le proposte di approfondimento suggerite a tutti coloro che, lavorando su quel periodo, non vogliono cadere prigionieri né di luoghi comuni né di schemi interpretativi rivelatisi, col passar del tempo, piuttosto fragili.
Giorgio Boatti
Ricciotti Lazzero, La Decima Mas, Milano, Rizzoli, 1984, pp. 377, lire 18.000.
Continuando nel suo studio delle formazioni paramilitari della Rsi, Ricciotti Lazzero, dopo le Ss italiane e le Brigate nere, prende in esame la Decima Mas. L’autore ha saputo evidenziare il tratto caratteristico di questa unità, abbastanza anomala anche per il variopinto panorama repubblichino, interpretandola come una moderna compagnia di ventura, per certi versi simile ai Freikorps baltici del primo dopoguerra, offrendo perciò la dovuta attenzione alla figura del suo creatore ed unico comandante, Junio Valerio Borghese.
Ampio spazio viene dedica
to all’analisi dell’organizzazione interna dalla Decima Mas, la cui struttura complessa è chiarita nei vari particolari, individuando anche la sua progressiva atomizzazione in tanti feudi personali, legati assieme, col passar del tempo, solo dalla figura carismatica di Borghese, continuamente impegnato a correre da un comando all’altro per tenere tutto sotto controllo. I limiti di Borghese come organizzatore militare emergono proprio dall’esame di questo meccanismo alla prova dei fatti: finché si trattava di operare a livello dei singoli battaglioni, la Decima Mas si dimostrava un efficace strumento bellico. Tutti i difetti del sistema di parcellizzazione personalistica venivano impietosamente alla luce al momento di operazioni più impegnative, che richiedevano un’organizzazione basata sulla cooperazione e integrazione delle forze, e che si rivelavano un compito superiore alla preparazione bellica dei vari comandanti locali: al tempostesso questi difetti strutturali minavano alla radice tutte le ambizioni politiche di Borghese perché diminuivano il suo peso nelle oscure trame politiche intessute fuori e dentro la Rsi.
L’autore ricostruisce l’insieme dei contatti tra la Decima Mas e alcune formazioni parti- giane in vista di un comune impegno contro le forze slave in difesa del confine orientale, e delinea anche le trattative tenute in prima persona da Borghese con gli Alleati. Alla fine, mentre la situazione precipita, ciò che interessa agli inglesi è soprattutto di mettere le mani sul military
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desperado per conoscere i segreti del suo passato di specialista dei mezzi di assalto subacquei: al ruolo politico del “duce numero due” , ormai non crede più nessuno, se non i marò lasciati soli di fronte ai partigiani vittoriosi. Il problema della tenuta morale di questa unità, nettamente superiore a quello delle altre formazioni della Rsi, viene trattato con una certa ampiezza. Se non è difficile comprendere i motivi della compattezza del piccolo nucleo di assaltatori della Marina, élite superaddestrata e del tutto atipica nel panorama militare italiano, i motivi profondi della massiccia adesione all’esercito privato di Borghese non vengono chiariti se non in termini descrittivi e numerici. Sono riportati i tratti essenziali del materiale di propaganda diffuso dalla Decima Mas; emergono alcuni tratti tipici di un combattentismo cupamente entusiasta, con una precisa seppur allucinata ideologia, con elementi comuni ai paras della guerra d’Algeria così come alle Ss delle ultime fasi del conflitto; sono citati episodi di fronda all’interno della Rsi: ma in sostanza il fenomeno è descritto senza essere interpretato. L’autore accenna, però, ad alcuni elementi importanti: l’elevato numero di nobili nei ranghi della Decima Mass, la tradizione degli ufficiali di marina di vivere e combattere accanto ai propri uomini, puntando costante- mente alla ricerca dello spirito di iniziativa, i nuovi criteri addestrativi e di gestione del personale che rivoluzionavano i precedenti sistemi in voga nel regio esercito.
Il quadro che si delinea è quello di uomini che, almeno
nei gradi più bassi, non hanno compreso appieno i dati essenziali dello scontro in atto: convinti di difendere l’onore della patria obbedivano senza difficoltà ai tedeschi; portatori di un ideale patriottico si rendevano conto di essere estranei alla loro stessa gente; arruolatisi sulla base di una esplicita promessa di impugnare le armi contro gli Alleati per lo più hanno combattuto contro i loro connazionali; come militari, infine, hanno compreso molte cose giuste quando ormai era troppo tardi. Il mito del combattente puro e duro, alieno dagli intrighi politici (che per conto suo Borghese tesseva instancabilmente), non poteva reggere in uno scontro di portata nazionale sino ad assumere una precisa valenza politica alternativa al fascismo ufficiale, del resto sempre dubbioso sulle iniziative di Borghese: alla fine si dimostrò una semplice, per quanto intensa, spinta emozionale facilmente strumentalizzabile.
Antonio Sema
Mario Montanari, L ’esercito italiano alla vigilia della seconda guerra mondiale, Roma, Stato Maggiore dell’Esercito - Ufficio storico, 1982, pp. 581, lire12.000.
La situazione delle forze armate italiane alla vigilia del 10 giugno 1940 è un tema fonda- mentale per lo studio della seconda guerra mondiale. In quest’opera, il generale Montanari, già noto per il suo lavoro sulla guerra di Grecia, ha indirizzato la sua analisi verso molte direzioni, mirando alla ricostruzione dei processi teorici che hanno
guidato le realizzazioni operative del regio esercito. In ogni momento del suo lavoro, però, l’autore ha tenuto fermo il principio del confronto con le valutazioni dei contemporanei, utilizzando a questo fine i commenti alle manovre in tempo di pace, i verbali delle riunioni e le varie circolari diramate dai comandi. Allo stesso obiettivo mira il costante riferimento alle decisioni e alle dottrine degli anglo-francesi, anche se forse il confronto dottrinale è appena accennato mentre sarebbe stato opportuno inserire la linea del pensiero italiano all’interno dell’evoluzione teorica dei principali Stati maggiori europei.
In questo tipo di ricerca la quantificazione numerica è importante, perché fissa in maniera non equivoca i termini materiali del problema militare, ma l’autore evita di limitare il suo discorso al mero confronto numerico. Tabelle, diagrammi e percentuali acquistano un senso abbastanza preciso nel momento in cui possono appoggiarsi su di una analisi del materiale “uomo” , compiuta dal punto di vista addestrativo, amministrativo e anche culturale. L’impossibilità di una verifica quantitativa in questo tipo di problematica indebolisce la validità di ogni valutazione, ma un parziale rimedio può essere trovato in un ricco supporto documentario, che diminuisce il rischio dell’eccesso di soggettivismo. Talvolta, come nel caso dello spirito di iniziativa, il giudizio negativo si appoggia all’analisi delle manovre e all’individuazione di un difetto amministrativo, la sovrapposizione di competenze gerarchiche, che risultava demotivante per gli ufficiali di grado inter
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medio. Altre volte ci si deve limitare a indicare delle linee di tendenza. Così, i limiti teorici ed organizzativi dell’Italia nel settore dei mezzi corazzati sono fatti risalire alla convinzione “che la guerra italiana, guerra difensiva per giunta, fosse da combattere sulle Alpi” , (p. 235), ma anche all’assenza “nei capi militari di una vera mentalità motorizzata e, ancor meno, corazzata” , (p. 236): l’azione congiunta dei due errori condusse la dirigenza militare a trascurare le realizzazioni internazionali nel campo della guerra corazzata, sopravvalutando però le modeste realizzazioni nazionali.
Pur senza mai assurgere a canone interpretativo centrale, il tema del ritardo culturale dei vertici militari e politici dinanzi alla complessità delle domande poste da una guerra moderna affiora spesso nelle pagine dell’autore, pronto a criticare senza mezzi termini le scelte dei militari. Così, viene censurata la mancanza di una precisa volontà di fare tutto il possibile con il materiale a disposizione una volta accettata la decisione politica di entrare in guerra: a quel punto “diventava imperiosa non l’attesa del 1943... bensì la necessità di impostare una linea strategica che, tenendo conto di quanto era realizzabile a breve scadenza, puntasse tutto sulla risoluzione in pochi mesi di un conflitto limitato” , (p. 357). Correttamente, l’autore avverte che ogni discorso sul grado di efficienza del dispositivo militare italiano deve tener conto del fatto che “la politica estera fascista era così variabile che è difficile individuare una decisa volontà di procedere con una certa coerenza verso obiettivi chiaramente definiti... Conseguentemente, anche
nel campo degli apprestamenti militari gli alti e bassi si alternavano a pause di attesa, senza una programmazione organica, senza un indirizzo preciso” (pp. 56-57). Questo non è il discorso delle “occasioni mancate”, ma l’analisi di un tecnico che soppesa i dati strategici. Da questo retroterra nasce l’attenzione alle realizzazioni della Francia e dell’Inghilterra, messe a confronto scacchiere per scacchiere con quelle dell’Italia, e discusse sulla scorta delle informazioni allora disponibili, anche se non mancano i dati sull’effettivo stato degli apprestamenti bellici. L’autore ammette che “in un mondo quale quello anteguerra, in cui i giochi delle amicizie e degli schieramenti presentavano alti e bassi con conseguenti mutamenti di indirizzo, era in un certo senso inevitabile una preparazione generica degli eserciti, specialmente in rapporto ai possibili sviluppi tecnici ed operativi, da molti intuiti ma da pochi compresi” (p. 302), ma è costretto a concludere amaramente che il “poco che inizialmente poteva essere fatto non fu nemmeno tentato” (p. 357). Una ricca selezione di documenti, in parte inediti, completa il volume che si annuncia come la “premessa alle varie monografie relative alle campagne combattute dall’Esercito Italiano nel secondo conflitto mondiale” (p. 7). I fondi utilizzati giacciono presso l’Ufficio storico e riguardano la Commissione suprema di Difesa per le sessioni XV, XVI e XVII, il carteggio 1939-1940 del ministero della Guerra, Gabinetto, i piani operativi oltre a relazioni e verbali di alcune riunioni.
Antonio Sema
Verbali delle riunioni tenute dal Capo di S.M. Generale, volume I (26 gennaio 1939 - 29 dicembre 1940), Roma, Ufficio storico dello Stato Maggiore dell’Esercito, 1982, pp. 147, lire 5.000.
Questa raccolta di verbali si discosta dalla tradizione delle monografie dell’Ufficio storico relative alla relazione ufficiale sul secondo conflitto mondiale perché non si tratta di un lavoro di interpretazione ma di una raccolta di documentazione estremamente utile agli studiosi. Il volume, curato dal colonnello Mazzaccara e dal professor Biagini, si annuncia come il primo di una serie che tra l’altro comprenderà un’Appendice relativa al funzionamento dello Stato maggiore generale durante la guerra e alcune biografie dei massimi esponenti militari del periodo. Tale iniziativa si colloca all’interno del processo di revisione e perfezionamento delle opere pubblicate dell’Ufficio storico dell’esercito negli anni scorsi. In questo modo, lo spoglio degli archivi si accompagna ad uno sforzo di pubblicazione e accorpamento delle fonti in insiemi accessibili anche senza la consultazione diretta. Una sintetica “Nota introduttiva” apre la serie di 22 verbali delle riunioni tenute dal Capo di Stato maggiore generale nel periodo 26 gennaio 1939-29 dicembre 1940. Tranne il primo verbale, il grosso del materiale riguarda il periodo della “non belligeranza” e della “guerra parallela” . Gran parte della documentazione sulla “non belligeranza”, tuttavia, era già stata pubblicata in Emilio Faldella, L ’Italia nella seconda guerra mondiale. Revi
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sione di giudizi ( Rocca San Ca- sciano, Cappelli, 1959, pp. 717- 746).
Il materiale inedito, integralmente tratto dai fondi dell’archivio deirufficio storico dello Stato maggiore dell’esercito, si riferisce a vari argomenti, dei quali forniamo un sintetico elenco. Il 22 gennaio 1939, alla presenza di Badoglio e dei capi di Stato maggiore delle tre armi, si discute delle direttive politico-strategiche, delle scorte per le industrie di guerra, della mobilitazione civile e di quella per la Milizia Dicat. Seguono i verbali pubblicati da Faldella e poi quelli a ridosso della dichiarazione di guerra, nei quali vengono esaminati gli argomenti più disparati: richiesta di materiale da parte di Balbo, trasferimento dei Comandi fuori Roma, difesa di Roma (8 giugno 1940); Gibilterra e Malta, situazione generale (25 giugno); ricompense per atti di valore, Malta e Gibilterra, impiego dell’aviazione (2 luglio); rifornimenti all’Africa orientale italiana (21 luglio); ri- fornimenti all’Egeo (26 agosto); situazione politico-militare (25 settembre); potenziamento della ricognizione marittima (14 ottobre). Poi appare la “Emergenza G” che campeggia nell’ultimo gruppo di verbali, sempre più tesi e concitati: azione contro la Grecia (17 ottobre); operazioni in Grecia, occupazione di Corfù e Cefalonia (24 ottobre); situazione in Grecia (1° e 3 novembre); invio forze in Albania (11 novembre); situazione della 9° Armata (4 dicembre); come rinforzare l’Albania (18 dicembre); ripianamento materiali in Albania (19 dicembre); situazione operativa in Albania (29 dicembre).
Osserva Biagini: “I verbali delle riunioni tenute dal Capo di Stato maggiore generale sono tra gli strumenti più significativi per ricostruire il processo di formazione delle principali decisioni militari correlate a quelle che furono le direttive politiche. Questo lavoro assolve a questo tipo di esigenza...” (p. XII). A tal fine, viene eliminato qualsiasi intermediario tra il testo e il lettore: nessuna nota, solo l’indice dei nomi e l’elenco delle abbreviazioni. In prospettiva, si prefigura qualcosa di simile ai documenti diplomatici italiani, fatte salve le debite proporzioni: sarebbe certamente un’iniziativa molto utile in tempi in cui si assiste all’uso disinvolto delle fonti, gelosamente custodite, e talvolta anche alla prese- lezione, su basi non scientifiche, degli studiosi per l’accesso a certi fondi privati.
Antonio Sema
Romagna 1944-1945. Le immagini dei fotografi di guerra inglesi dall’Appennino al Po, Bologna, Clueb, 1983, pp. 194, sip.
Si tratta del catalogo della mostra fotografica organizzata dall’Istituto per i beni artistici, culturali e naturali della Regione Emilia-Romagna, dal Museo del Senio di Alfonsine e dall’Istituto storico della Resistenza di Ravenna. Le immagini, tratte dalla ricchissima serie recuperata presso 1’Imperial War Museum di Londra da Gian Franco Casadio e Giuseppe Masetti, costituiscono un nuovo supporto alla lettura delle vicende belliche romagnole e bolognesi, pur tenendo conto
dello scopo propagandistico (e non certo di documentazione storica) che induceva i reporter inglesi alla loro realizzazione. Non possiamo, perciò, che segnalare positivamente la pubblicazione di un materiale che può rappresentare uno strumento per la lettura degli avvenimenti; complementare alla documentazione scritta conservatasi, anche se abbiamo l’impressione che la scelta delle immagini esposte (e riprodotte nel catalogo) sia stata più determinata dalla volontà di coprire geograficamente tutte le località della Romagna, che non di costruire un discorso organico sul paesaggio rappresentato o sulla popolazione ripresa.
Ben raramente ci troviamo di fronte ad immagini artisticamente valide, anzi, troppo spesso, esse sono piatte e fredde, costruite a posteriori (scomparsa ogni azione e passato ogni pericolo) e meccaniche, quasi mai determinate da “amore” del fotografo per quel soggetto che viene ripreso. Scarsa o nulla l’attenzione per il paesaggio e i costumi “strani” per un cittadino inglese, ben pochi gli slanci della fantasia o le riprese “ardite” nel soggeto e nel taglio-, la luce serve semplicemente ad illuminare il soggetto, mai a rilevarne le emozioni o gli stati d ’animo. Dominano quindi tradizionali gruppi di soldati, le autorità e i carri armati; vengono documentati scrupolosamente tutti gli ingressi in ogni località liberata, mettendo ben in evidenza il cartello stradale con il nome del paese. Nemmeno i millenari monumenti di Ravenna sembrano destare il minimo interesse in questi fotografi di guerra che, seguendo un rigido “manuale” e regole ben precise,
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debbono solo mostrare che il conflitto procede e se ne avvicina lentamente la fine. I morti sono drasticamente esclusi dalle immagini che registrano una guerra senza vittime umane per non provocare reazioni negative dell’opinione pubblica d’oltre Manica.
Nonostante questi limiti delle immagini, in esse restano, comunque, importanti segni del passaggio della guerra e delle distruzioni o casuali scorci di un paesaggio agricolo (pp. 132- 135) ormai scomparso.
Luciano Casali
Antonia Setti Carraro, Carità e tormento. Memorie di una crocerossina, 1940-46, Milano, Mursia, 1982, pp. 321, lire 14.000.
Queste memorie di guerra di una crocerossina si segnalano per più aspetti, in primo luogo perché introducono nell’ambiente poco conosciuto delle “sorelle” della Croce rossa, una delle strutture portanti dell’assistenza bellica. Proveniente da una grande famiglia padovana, con due fratelli caduti in guerra, la Carraro prestò servizio al confine orientale e in Jugoslavia, poi su una delle navi che nel 1942-1943 rimpatriarono donne e malati dal perduto impero etiopico; sorpresa dall’armistizio in Grecia e portata in Germania, alla fine del 1943 aderì alla Rsi e lavorò per quasi un anno nei centri di addestramento tedeschi delle truppe repubblichine, poi negli ultimi mesi del conflitto in vai d’Aosta. Sono soprattutto le esperienze di questo ultimo periodo a interes
sare la Carraro, che dedica 45 pagine ai tre anni 1940-1943 e 260 pagine ai 18 mesi successivi, certamente più ricchi di scelte e avvenimenti. L’autrice rifiuta ogni discorso di politica (oggi, perché nel 1944 collaborò alla propaganda fascista) e parla soltanto di patriottismo come unica guida, di guerra sbagliata in cui i giovani muoiono senza futuro e di valori privati come la responsabilità verso i feriti affidati alle sue cure, di culto per i suoi morti, di orgoglio professionale e di fede cristiana. Questo patriottismo tradizionale e l’ostentata disponibilità umana verso i feriti di tutte le parti celano però motivi prettamente fascisti, come l’odio verso la resistenza partigiana: si vedano le pagine sulle barbarie della guerra jugoslava (pp. 24 sgg.), che dimenticano gli orrori sistematici della nostra invasione e repressione, e poi le pagine sulla resistenza aostana e torinese, in cui tutti i gesti di violenza, tutte le brutalità e gli assassini sono commessi da partigiani e dai loro vili sostenitori civili, mentre i fascisti appaiono intenti soltanto a difendere il confine della patria dagli invasori francesi. A quarant’anni di distanza la Carraro non sa uscire dall’angusto cerchio dei ricordi e dei rancori degli anni di guerra, fino a scrivere frasi di una superficialità inaccettabile: “Giustizia e libertà” ad esempio, diventa la banda personale di Galimberti, diffusa solo nell’alto Piemonte e quindi i suoi partigiani non possono che essere montanari così incalliti da rifiutare di lavarsi con l’acqua tiepida (p. 298).
Malgrado questi limiti di fondo, le memorie della Carraro non sono del tutto inutili, come
testimonianza ancora diretta della triste vita delle formazioni repubblichine nei campi tedeschi di addestramento e come documentazione dello spirito di casta che pervadeva l’esercito regio come quello fascista, con una contrapposizione tra ufficiali e crocerossine e la truppa, vista sempre con paternalistico distacco.
Giorgio Rochat
Alberto Santoni, La seconda battaglia navale della Sirte, Roma, Edizioni dell’Ateneo, 1982, pp. 87, lire 7.000.
Sulla base della bibliografia italiana e inglese disponibile e di ricerche negli archivi militari italiani e presso il Public Record Office di Londra, Alberto Santoni presenta un’accurata ricostruzione della cosiddetta seconda battaglia navale della Sirte, che il 22 marzo 1942 vide proponderanti forze navali italiane e forze aeree italiane e tedesche impegnate contro un convoglio di quattro mercantili britannici diretti a Malta da Alessandria con la scorta complessiva di cinque incrociatori leggeri e diciassette cacciatorpediniere.
Con una polemica documentata, anche se inutilmente astiosa, contro la storiografia ufficiale e agiografica, Santoni rileva l’insuccesso totale delle forze aeree italiane, impegnate a spizzico contro il convoglio senza alcun risultato, e di quelle navali, che in tutto un pomeriggio di scontri non riuscirono a sfruttare la loro schiacciante superiorità, finendo con l’indietreggiare dinanzi alla determinazione delle forze leggere britanniche senza aver danneggiato una sola
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nave nemica. Anche l’aviazione tedesca non ebbe maggiore fortuna nei suoi attacchi del 22, ma nei giorni seguenti, a prezzo di non poche perdite, riuscì a distruggere uno dei mercantili britannici in mare e gli altri tre nei porti di Malta, prima che potessero scaricare tutti i rifornimenti indispensabili alla resistenza dell’isola.
Santoni sottolinea impietosamente, ma fondatamente l’estensione del fallimento italiano chiamando in causa non solo l’imperizia degli alti comandi, ma l’intera organizzazione militare; infatti nota che le condizioni atmosferiche furono considerate pesanti, ma non proibitive da tedeschi e inglesi, mentre invece ostacolarono gravemente l’azione delle forze italiane, tanto che nel rientro alle basi due cacciatorpediniere furono affondati e un’altra mezza dozzina di navi danneggiate dal mare grosso.
Il volumetto merita di essere letto e meditato, anche per le considerazioni generali che se ne possono trarre su tutta la condotta della guerra aeronavale italiana e come reazione un po’ eccessiva, ma sacrosanta, all’impostazione agiografica della storiografia tradizionale.
Giorgio Rochat
Campagne de Tunisie, novembre 1942-mai 1943. Actes du colloque international sur l ’histoire de la deuxième guerre mondiale, Tunisi, Comité national tunisien d’histoire de la deuxième guerre mondiale, 1983, pp. 318, sip.
Il volume presenta le relazioni del convegno internazionale organizzato a Tunisi nell’ottobre 1982 dal Comité national tunisien d’histoire de la deuxième
guerre mondiale sulla Tunisia nella seconda guerra mondiale e in particolare sulla campagna di Tunisia. Pur con gli scompensi abituali in un volume di atti e in una veste grafica alquanto sconnessa, il volume contiene alcuni contributi di rilievo sia sulle operazioni in Tunisia dei vari eserciti impegnati, sia sulla Tunisia, con qualche concessione alle esigenze patriottiche locali, ma anche con studi rigorosi come quello di J. Bessis sulla minoranza italiana di Tunisia nella guerra mondiale. Il volume, che non risulta in vendita, può essere richiesto al citato Comité national tunisien presso il ministero tunisino di difesa, oppure all’ambasciata tunisina di Roma.
Giorgio Rochat
Gigi Speroni, Amedeo duca d ’Aosta. La resa dell’Amba Alagi e la morte in prigionia nei documenti segreti inglesi, Milano, Rusconi, 1984, pp. 228, lire12.000.
Non basta reperire negli archivi londinesi i telegrammi che le autorità politiche e militari britanniche si scambiarono in occasione della malattia e della morte di Amedeo d’Aosta per presentare un quadro convincente di una personalità certamente interessante, se per tutto il volume si continua ad utilizzare come fonte soltanto la produzione agiografica e divulgativa. La bibliografia presentata in appendice al volume è significativa: ci sono i testi giornalistici di Bandini, Bertoldi e Montanelli e le biografie celebrative, manca tutta la produzione storiografica, a cominciare da Del Boca e
dall’Ufficio storico dell’esercito. Non c’è perciò da meravigliarsi se gli errori piccoli e grandi pullulino nelle pagine del volume, che non si distacca dal livello delle rievocazioni illustrate dei rotocalchi, nella convinzione così diffusa che per avere successo la divulgazione storica debba essere condotta con incompetenza e superficialità.
Giorgio Rochat
Giuseppe Rotolo, Dal Piave al Don. Tre guerre nella vita di un chirurgo, Milano, Mursia, 1984, pp. 171, lire 18.000.
Sommari ricordi di un illustre chirurgo, che ripercorre le diverse tappe della sua vita privata, professionale e militare, fermandosi in particolare sui venti mesi di servizio in Etiopia e sui quasi quattro anni di prigionia in Russia. Pur nella loro brevità, questi ricordi sono interessanti per l’equilibrio con cui l’autore ripercorre anche i momenti più tragici delle sue esperienze di guerra e di prigionia, senza rancori e con molti affetti.
Giorgio Rochat
Institut d’histoire du temps présent, Institut Charles de Gaulle, De Gaulle et la nation face aux problèmes de la défense (1945-1946), Paris, Plon, 1983, pp. 317, Ff. 110.
Quali forze armate, e per quale politica? Intorno a questa domanda, nella Francia appena uscita dalla vittoria alleata sul nazismo, si è sviluppato un grande dibattito nazionale, che ha coinvolto le principali forze politiche uscite dalla lotta di liberazione e
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il governo provvisorio guidato dal generale de Gaulle. Sostenitore, fin dagli anni trenta, di un esercito professionale che non legasse la sua operatività alle lunghe e farraginose mobilitazioni generali, immancabili preludi di guerre lunghe e disastrose, de Gaulle ritiene che la Francia del dopo 8 maggio 1945 non debba attenuare il suo sforzo per dotarsi d’una forza militare il più possibile autonoma e operativa, per poter ritrovare pienamente il suo ruolo di grande potenza, e seppure sotto la forma d’una libera associazione di stati nazionali, mantenere tutto il suo impero, che ha visto più volte minacciato dagli inglesi (soprattutto in Medio Oriente) e dagli americani (in Africa del Nord e in Indocina).
Per i più importanti partiti politici che hanno collaborato, nel governo provvisorio e nel paese, a sostenere lo sforzo bellico fino alla sconfitta della Germania, la fine della guerra non potrebbe non rappresentare anche la diminuzione dei sacrifici che la nazione deve consentire al suo armamento, e l’avvio invece di una “battaglia della produzione” diretta alla ricostruzione e al potenziamento dell’apparato industriale del paese, sostanzialmente stremato dagli anni dell’occupazione nazista prima e dalla partecipazione alla guerra alleata poi. Il contrasto tra le due posizioni, reso evidente da una decurtazione del 20 per cento sui crediti militari per il 1946 richiesti dal governo dell’Assemblea Costituente, si risolve con le dimissioni di de Gaulle e la formazione d’un governo tripartito (Mrp, Sfio, Pcf) a direzione socialista.
Nel colloquio tenutosi a Parigi il 21 e 22 ottobre 1982, e di
cui in questo volume vengono pubblicati gli atti, un nutrito gruppo di storici contempora- neisti, di storici militari (o militari storici, visto che rappresentano i servizi storici delle tre armi) e di testimoni illustri restituisce nel dettaglio i momenti di questo grande dibattito nazionale, nei suoi aspetti di politica militare innanzitutto, ma anche di prospettiva politica più complessiva.
Le nuove forze armate repubblicane non rinascono certo 1*8 maggio 1945; un loro rappresentante poteva anzi presenziare alla firma della resa tedesca, al fianco degli americani, dei sovietici e degli inglesi (insieme ai quali i francesi occuperanno la Germania), proprio perché de Gaulle era già riuscito ad ottenere, con tutta la resistenza francese, il grande risultato di far rientrare le forze armate francesi nella guerra contro il Reich: gli atti del colloquio mostrano, cifre alla mano, l’entità dello sforzo consentito dal governo provvisorio per la partecipazione della Francia alla guerra, come non nascondono gli ostacoli d’ogni tipo (materiali, politici, diplomatici) che la Francia liberata ha dovuto sormontare per arrivare a quella firma, che riscattava l’armistizio del giugno 1940. Un lavoro di ricostruzione reso ancora più difficile dal carattere eterogeneo del nuovo quadro militare, che ha dovuto assemblare ceppi talmente diversi: i pochissimi ufficiali della France libre, i petainisti pentiti dell’Africa settentrionale e dell’Esercito dell’armistizio, i combattenti della Resistenza metropolitana. Su tutti questi aspetti, e anche sui primi segni dell’insor- gere delle grandi questioni del
l’Indocina e dell’Algeria, chi legge queste pagine ricava utili notizie e approfondimenti, basati in buona parte su fonti documentarie ineccepibili.
Dove però gli atti del colloquio sono meno convincenti, è in una quasi universale sopravvalutazione delle scelte politiche di de Gaulle e della sua lungimiranza; per la maggior parte degli intervenuti, il generale aveva ragione su tutto e aveva capito tutto: la “minaccia sovietica” (la miopia di Churchill avrebbe irresponsabilmente consentito all’Armata Rossa di stazionare a seicento chilometri, in linea d’aria, da Parigi, senza chiedere il permesso e de Gaulle), la prospettiva d’una decolonizzazione che andava guidata con lungimiranza (l’Union française avrebbe permesso d’evitare le disastrose guerre coloniali della IV Repubblica, garantendo gli interessi francesi sia in Indocina che in Nord Africa), le conseguenze di Hiroshima (grazie alla sua volontà di costituire il Commissariat à PEnérgie Atomique la Francia è potuta restare nel novero delle potenze che contano, quelle che hanno la bomba), l’impotenza d’un regime basato sul “potere assembleare” che tiene prigioniero il governo (e le sue dimissioni sono una metafora della virtù oltraggiata). Il tono è tale che uno degli storici intervenuti, Jean-Pierre Rioux, chiede se sia illegittimo che “i tre partiti che riuniscono i tre quarti dei voti dei francesi, affermino d’avere la capacità politica di dire che il Generale de Gaulle può essere un ostacolo all’affermazione della politica che preconizzano” e se “peut-on dire que les 3 /4 des Français ont systématiquement tort con-
Rassegna bibliografica 139
tre le Général de Gaulle?” (p. 168). Su un altro piano, quello dell’identificazione del nuovo nemico esterno nell’Urss e di quello interno in un Pcf sempre e soltanto servo di Mosca, molti intervenuti non sembra siano riusciti ad osservare un’avvertenza di Réné Rémond, che, concludendo i lavori del colloquio, mette in guardia dal “projeter sur le printemps 1945 — et sur ce que l’opinion pense — l’ombre portée de la guerre froide, deux ans plus tard” (p. 293).
Giorgio Caredda
Pietro Verri, Appunti di diritto bellico, Roma, ed. della “Rassegna dell’arma dei carabinieri” , 1982, pp. 212, sip.
Il volume è esplicitamente rivolto ai militari, cui fornisce in forma manualistica un’introduzione agli enormi problemi tecnici, politici e morali posti dal diritto bellico, ossia dal tentativo di stabilire dei limiti concordati all’impiego della violenza armata in caso di guerra. Lo storico non può che avvicinarsi con molta circospezione a questa materia, perché il diritto bellico è stato e viene violato tutte le volte che uno dei belligeranti lo sente come ostacolo all’affermazione della sua volontà di vittoria. Tuttavia la conoscenza dei tentativi di ieri e di oggi di porre qualche limitazione all’impiego della violenza bellica è di grande interesse, anche perché l’autore presenta un apparato bibliografico ricco e articolato, da non perdere per chi segue questa problematica.
Giorgio Rochat
Rassegna delle riviste
Nuove riviste
“Analisi storica", I, (luglio- dicembre 1983) n. 1.
La rivista — diretta da Matteo Pizzigallo, a sua volta affiancato da un comitato scientifico che comprende tra gli altri Gabriele De Rosa, Simona Colarizi, Renato Mori e Fabio Grassi — si presenta manifestando un duplice scopo. A livello territoriale essa sottolinea un “legame privilegiato” con le Università di Bari e di Lecce, intorno alle quali intende creare “nuovi momenti di aggregazione e di dibattito”; sul piano degli orientamenti storiografici — ribadita una particolare attenzione al “dibattito meridionalista” attraverso la “rubrica di punta” Mezzogiorno: storia e storiografia (che in questo primo numero ospita un intervento di De Rosa su II terremoto del Sud del 23 novembre 1980 e la “memoria storica” — sono presenti rubriche differenziate o per scelte tematiche (la Sezione monografica) o per “generi” (Testi e documenti, “spazio riservato alla scoperta individuale” e Tesi di lavoro che pubblicherà “su proposta dei rispettivi relatori, il capitolo più interessante di una tesi di laurea in storia discussa nelle Università italiane”).
Trattandosi di un fascicolo d’esordio, non è evidentemente possibile valutare sin d’ora la rispondenza tra l’architettura sopra richiamata e la ripartizione dei contenuti; ciò che va sottolineata è l’ampiezza del raggio di intervento e la presumibile difficoltà di offrire una
campionatura significativa anche sotto il profilo quantitativo data la cadenza semestrale del periodico. La Sezione monografica) di questo primo numero comprende tre ricerche sull’intreccio tra impulsi economici e iniziative diplomatiche all’indomani della “grande guerra” : si tratta di Ludovica de Courten, Marina mercantile e politica estera. L ’Ansaldo di Pio Perrone nel primo dopoguerra-, Luciano Flussi, La diplomazia delle cannoniere: gli sbarchi italiani in Anatolia nel 1919; Matteo Pizzigallo, L ’ u l timo” accordo con la ‘Sublime Porta’ e la fine dell’occupazione italiana in Anatolia (1922).
Vale osservare che le questioni affrontate affiancano una lettura che sta conoscendo, negli ultimi anni, un rilevante sviluppo sia sul versante economico che su quello politico (m.l.).
“Storia in Lombardia”. Ili (1984), n. 1, pp. 253, lire12. 000.
L’Istituto lombardo per la storia del movimento di liberazione in Italia ha pubblicato il primo numero di una nuova rivista di storia contemporanea lombarda. Questo quadrimestrale riprende e completa la già ampia raccolta di informazioni e di strumenti di ricerca offerta dal bollettino dallo stesso nome, uscito in tre fascicoli dal 1982 al 1983.
“Storia in Lombardia” ha un’ampia parte dedicata a saggi e ricerche specifiche, nella quale ci si propone di privilegiare i momenti portanti della storia regionale dalla rivoluzione in
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dustriale ai nostri giorni, con particolare interesse per la storia sociale negli ambiti che vanno dalla demografia, alla sanità, dalla scuola alla cultura popolare, all’assistenza. In questo primo numero vengono pubblicati saggi di Giorgio Bigatti su Trasformazioni urbane e condizioni abitative nella Milano austriaca (1816-1859), di Fabio Pizzamiglio su Manicomio e classi subalterne a Mantova (1858-1918), di Stefano Fusi su Il Partito popolare in Lombardia dalle origini alla marcia su Roma e di Alexander De Grand su I primi anni del Partito comunista italiano a Milano (1921-1926): i problemi di una federazione dissidente. Sono tutti saggi che si caratterizzano per una seria ricerca documentaria, una intelligente prospettiva di storia sociale negli ambiti più specifici della ricerca condotta negli ultimi anni dall’Istituto lombardo per la storia del movimento di liberazione in Italia.
Questa parte dedicata alla ricerca viene completata da due rubriche di proposte e provocazioni metodologiche: una Discussioni in cui si affrontano i temi più significativi del dibattito storiografico attuale. In questo numero Duccio Bigazzi apre una tavola rotonda sui problemi di metodo e le prospettive di ricerca della storia delle imprese. Molto utile è anche la rubrica Testimonianze e documenti che ospita fonti archivistiche inedite e che in questo numero pubblica le lettere di De Gasperi a Stefano Jacini negli anni difficili in cui lo statista trentino dopo il carcere iniziava il suo lavoro alla Biblioteca vaticana.
Nella seconda parte, più strumentale, vengono riprese le ru
briche già avviate nel precedente bollettino, e viene offerto un panorama completo ed esauriente della ricerca storica in Lombardia con una serie di rubriche dedicate agli archivi e alle biblioteche, agli istituti di ricerca, alla didattica della storia, alle informazioni bibliografiche. Un servizio utile per quanti in Lombardia, ma anche nelle altre regioni, voglia avere un prospetto dello stato degli studi contemporanei in un ambito che supera ampiamente per la ricchezza delle prospettive metodologiche e l’ampia articolazione dei materiali, il ristretto ambito della storia locale (n.t.).
“Estudis d ’história contemporanea del Pais Valencia’’, 1980-1984, nn. 1-4.
Nella vivace ripresa degli studi di storia locale degli ultimi anni, conseguenza della democratizzazione e insieme segno del nuovo spazio riconsciuto nella Spagna postfranchista alle autonomie locali, il Dipartimento di storia contemporanea dell’Università di Valencia pubblica ogni anno, dal 1980, un volume, che raccoglie i contributi più significativi sulla storia della comunità valenciana dall’età moderna ad oggi, prodotti nella Facoltà di geografia e storia.
Negli ultimi anni sono considerevolmente aumentate in Spagna le pubblicazioni monografiche o strumentali per la storia locale; particolarmente numerosi sono quelle in lingua catalana. Fra di esse si segnala questo periodico che si propone di superare invece ogni forma di localismo, e tende a fare, pur nell’ambito geografico considerato, una storia “tota
le e globale”, nella linea tematica e interpretativa della scuola storica francese e, in particolare, di quella delle “Annales” . I saggi vertono prevalentemente su problemi di storia sociale e affrontano questioni di demografia storica, delle classi subalterne, dell’industrializzazione ecc. Si vedano, ad esempio, fra gli altri i contributi di J. Castellò Traver, La estructura demogràfica urbana en la demografia preindustriai: la ciudad de Valencia en el Censo de Floridablanca (1787) (n. 1), o quello di M. Bàdenes e J.S. Bernat, Epidemia y hambre en la crisis del “Antiguo Régimen” valenciano. Estudio démografico (1808-1814) (n. 2).
Un grande spazio viene anche dedicato alla storia dell’istruzione, in particolare alle vicende dell’Università di Valencia (n. 2 e 3), alle scuole popolari (n. 1 e 2) o alla storia della stampa (n. 3 e 4). Una rubrica apposita (Materials) viene dedicata alla descrizione di fonti documentarie o bibliografiche o alle discussioni su problemi storiografici attuali.
Per quanto ci riguarda più direttamente segnaliamo due contributi di Ismael Saz Campos: il primo Falange e Italia. Aspectos poco conocidos del fa scismo espanol (n. 3) esamina i rapporti fra i fascisti spagnoli e l’Italia negli anni precedenti l’inizio della guerra civile; mentre l’altro: Revolución o contrarre- volución? El fascismo corno problema (n. 4) analizza le diverse interpretazioni del fascismo, soffermandosi particolarmente su quelle italiane (Renzo De Felice), ma allargando anche la sua prospettiva alle interpreta zioni sociologiche di ispirazione anglosassone (n.t.).
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Fait divers, fait d’bistoire
La presentazione di Marc Ferro (“Annales” , 1983, n. 4), di una serie di saggi rivolti all’analisi di fait divers, in un ventaglio di tempi e di luoghi differenti, si presenta come proposta di una nuova direzione di studi storici. Il fa it divers, lasciato sinora alla cronaca dei giornali, solo recentemente è stato studiato in chiave psicologica ed epistemologica da Roland Barthes (Essais critiques, Paris, 1964) e da Georges Auclair (Le Maria Quotidien. Structure et fonctions de la rubrique de fait divers, Paris, 1970).
Mentre Barthes individua le ragioni dell’interesse da sempre suscitato dal fatto diverso nel proporre un rapporto causale aberrante o inconsueto, tra eventi consueti, Auclair ne vede la specificità nelle modalità soggettive di ricezione, ossia nel rivolgersi ai meno integrati nel sistema sociale dominante ispirando al lettore un sentimento di superiorità. Ma sia Barthes che Auclair propendono per una teorizzazione del fa it divers come fenomeno atemporale e quindi astorico per definizione. Ferro, pur accettando la validità di tali ricerche, afferma che il fatto diverso, proprio in quanto si manifesta con contenuti e modalità variabili nei tempi e nelle culture, costituisce senz’altro un fa it d ’histoire, anzi un soggetto di storia privilegiato. La fenomenologia che lo caratterizza varia infatti con il variare degli eventi storici: durante la Rivoluzione russa i giornali non riportarono più la rubrica apposita, mentre il progresso del sapere scientifico e la sua diffusione ne hanno ridotto progressivamente l’estensione. Il fa it di
vers, secondo Ferro, è da interpretare essenzialmente come ‘sintomo’ che segnala le crisi del tessuto sociale, economico, politico e del sistema dei valori: una sorta di indicateur de santé delle società. il suo inserimento nella storia, mediato spesso dalla narrativa, conduce all’analisi del tessuto sociale e delle rappresentazioni collettive. Le operazioni di analisi possono considerarsi simili e complementari rispetto a quelle della microstoria: la microstoria muove dallo studio di un paese per ricostruire un sistema globale sulla base di una famiglia, di una permanenza di elementi immodificabili, mentre lo storico del fatto diverso individua uno stato di crisi per cogliere i momenti di discontinuità o di andamento normale di una società.
Alle teorizzazioni di Ferro seguono alcuni saggi tendenti ad illustrare le modalità, i paradigmi messi in atto nell’analisi storica concreta. Michel Bée (Le spectacle de l ’execution dans la France de l ’Ancien Regime) è attento alla dinamica dei sentimenti e delle emozioni, alla ricostruzione del gioco di interazione dei fattori individuale-collettivo-comunitario, che si sviluppa nel clima del momento e del tempo pressoché immobile delle esecuzioni capitali.
Raffaella Comaschi (La dinamiche de Serra) ferma la sua attenzione sull’uccisione nel 1567 del notaio Melchiorre Carelli.
L’interrogatorio degli abitanti di Serra, ricostruito sulla base dei documenti dell’Archivio di Stato di Bologna e di Faenza, permette di ristabilire la dimensione del quotidiano (lo svolgersi nei suoi diversi momenti di una domenica ‘normale’) e nel contempo l’intelaiatura dei rapporti di solidarietà tra le più importanti famiglie
della zona. Lucette Valensi (Le fa it divers, témoin des tensions sociales: Djerba 1892) prende le mosse da un caso di furto compiuto nella comunità ebraica della Tunisia da un giovane gioielliere accusato dal suo datore di lavoro e deferito al giudizio del rabbino locale e quindi al Procuratore della Repubblica. Questo fatto di cronaca, sulla base di documenti degli Archives Generales du Gouvernement de Tunis, illumina i rapporti tra la suprema autorità di una comunità locale e il potere centrale, e in ultima analisi il comportamento di un gruppo etnico rispetto al sistema coloniale nel suo complesso.
Michel Perrot (Note critique. Fait divers et histoire au X IX siècle), quasi a conferma della rilevanza di questa linea storiografica, ricostruisce la storia del fatto di cronaca a partire dal XVII secolo quando tali eventi del quotidiano erano narrati da canar- diers, e che solo dopo il 1860 diedero luogo a rubriche di giornali, oggetto di lettura privata e non più materia di ‘leggendario’. Alcuni giornali, per ragioni commerciali, gli dedicarono ampie rubriche, mentre contemporaneamente il loro oggetto si trasformava, quasi interamente assorbito nei misteri del crimine.
La direzione di studi proposta da Ferro appare interessante soprattutto per l’intreccio di molteplici dimensioni interpretative, dalla psicologia all’antropologia, ma non sempre percorribile nell’ambito della storia contemporanea per la molteplicità degli strumenti esplicativi necessari alla comprensione della vasta problematica propria di un fatto di attualità.
Paola Pirzio
Spoglio dei periodici italiani 1983di Franco Pedone
Sono stati presi in considerazione i seguenti periodici: “Annali dell’Istituto Alcide Cervi” (Bologna), “Annali della Fondazione Lelio e Lisli Basso” (Roma), “Annali della Fondazione Giangiacomo Feltrinelli” (Milano), “Annali della Fondazione Luigi Einaudi” (Torino), “Annali dell’Istituto italo- germanico” (Trento), “Archivio trimestrale” (Roma), “Belfagor” (Firenze), “Città e regione” (Firenze), “Civitas” (Roma), “Classe” (Milano), “Comunità” (Milano), “Critica marxista” (Roma), “Critica storica” (Napoli), “Economia e lavoro” (Milano), “Economia e storia” (Milano), “Economia italiana” (Roma), “Giornale degli economisti e annali di economia” (Milano), “Italia contemporanea” (Milano), “The Journal of European Economie History” (Roma), “Laboratorio politico” (Torino), “Memoria” (Torino), “Movimento operaio e socialista” (Genova), “Il Mulino” (Bologna), “Note economiche” (Siena), “Nova americana” (Torino), “Nuova antologia” (Firenze), “Nuova rivista storica” (Milano), “Passato e presente” (Firenze), “Il pensiero economico moderno” (Verona), “Il pensiero politico” (Roma), “Politica del diritto” (Bologna), “Il Politico” (Pavia,
“Il ponte” (Firenze), “Primo maggio” (Milano), “Problemi del socialismo” (Milano), “Problemi dell’informazione” (Bologna), “Quaderni costituzionali” (Bologna), “Quaderni di storia” (Bari), “Quaderni piacentini” (Milano), “Quaderni storici” (Ancona), “Rassegna storica del Risorgimento” (Roma), “Ricerchestoriche” (Piombino), “Rivista di politica economica” (Milano), “Rivista di storia contemporanea” (Torino), “Rivista di storia dell’agricoltura” (Firenze), “Rivista di storia della Chiesa in Italia” (Roma), “Rivista internazionale di scienze economiche e commerciali” (Padova), “Rivista italiana di scienza politica” (Bologna), “Rivista di studi politici internazionali” (Firenze), “Società e storia” (Milano), “Storia contemporanea” (Bologna), “Storiae politica” (Milano), “Storia urbana” (Milano), “Studi emigrazione” (Roma), “Studi storici” (Roma).Lo spoglio che è stato effettuato da Franco Pedone, non comprende gli ultimi numeri di alcuni periodici che, al momento della stampa, non erano stati ancora pubblicati. Sono invece compresi alcuni numeri arretrati che, per lo stesso motivo, non erano stati, a suo tempo, presi in considerazione.
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Storiografia
Stefano Angeli, Alla ricerca della cultura industriale: recenti pubblicazioni Usa in termini di business e social history, in “Società e storia” , a. VI, n. 20, pp. 395-418.
Gino Barbieri, La figura scientifica e umana di Luigi Dal Pane, in “Il pensiero economico moderno” , a. Ili, n. 1-2, pp. 11-17.
Giacomo Begattini, L ’acclima- tamento del pensiero di Keynes in Italia: introduzione ad un dibattito, in “Passato e presente” , n. 4, pp. 85-104.
Norberto Bobbio, Per una definizione della destra reazionaria, in “Belfagor” , a. XXXVIII, n. 6, pp. 655-668.
Renato Bordone, Tema cittadino e “ritorno alla terra” nella storiografia comunale recente, in “Quaderni storici” n. 52, pp. 255-277.
Gian Mario Bravo, L ’opera di Marx in Italia tra fascismo e dopoguerra, in “Studi storici” , n. 3-4, pp. 523-548.
Dino Cofrancesco, Miti politici e nuova storiografia (Considerazioni in margine a un saggio di Renzo De Felice), in “Storia e politica” , a. XXII, n. 2, pp. 290-319 [a proposito di “Storia fotografica del fascismo", a cura di Renzo De Felice e Luigi Goglia].
Dino Cofrancesco, Riflessioni sul nazionalismo, la Germania e l ’Europa. A proposito di un
libro di Rosario Romeo, in “Storia contemporanea” , a. XIV, n. 2, pp. 255-286 [a proposito di Rosario Romeo, Italia mille anni. Dall’età feu dale all’Italia moderna ed europea] .
Contributi sulla storia dell’antisemitismo moderno, in “Rivista di storia contemporanea” , a. XII, n. 1, pp. 1-69 [contiene; Pierre Vidal-Naquet, Tesi sul revisionismo-, Bruno Bon- giovanni, Figure marxiane della mediazione: l’ebreo e il denaro-, Marco Revelli, I “nuovi proscritti”: appunti su alcuni temi culturali della “nuova destra”].
Paul Corner, I limiti del potere fascista, in “Passato e presente” , n. 4, pp. 167-174.
Giuseppe De Rita, La “nazione italiana”: una discussione con i comunisti, in “Critica marxista” , a. XXI, n. 6, pp. 15-28.
Michael Eve, L ’opera storica di Norbert Elias, in “Rivista di storia contemporanea” , a. XII, n. 3, pp. 396-408.
Saul Friedlànder, Il dibattito storiografico sull’antisemitismo nazista o lo sterminio degli ebrei d ’Europa, in “Storia contemporanea” , a. XIV, n. 3, pp. 399-422.
Nicola Gallerano, Cercatori di tartufi contro paracadutisti: tendenze recenti delta storia sociale americana, in “Passato e presente”, n. 4, pp. 181-196.
Walter Ghia, Filosofia della storia ed europeismo in Ortega
y Gasset, in “Storia contemporanea” , a. XIV, n. 6, pp. 975-1012.
Paolo Golinelli, Agiografia e storia in studi recenti: appunti e note per una discussione, in “Società e storia”, a. VI, n. 19, pp. 109-120.
Ideologie (Le) e la crisi, in “Classe”, a. XIII (1982), n. 21, pp. 83-209 [contiene: Paolo Bolzani, Il sindacato tra crisi e rinnovamento; Domenico Cor- radini, Intellettuali e praxis rivoluzionaria; Ornella Bianchi, Storia operaia o storia sociale?; Costanzo Preve, Pagani e clericali. Note sulla ideolgia del nefasto triennio 1976-1979; Attilio Mongano, Sulla crisi ideale e strategica della nuova sinistra] .
Gianni Isola, Bibliografia degli scritti di Giuseppe Berti con un saggio introduttivo “Giuseppe Berti fra memoria e storia”, in “Annali della Fondazione Giangiacomo Feltrinelli” , a. XXII (1982), pp. 375-392.
Otto Kallscheur, Note sullo sviluppo della teoria critica marxiana nella Repubblica federale tedesca, in “Studi storici” , a. XXIV, n.3-4, pp. 507-522.
Massimo Legnani, Linea di dibattito su antifascismo e questione agraria, in “Annali dell’Istituto Alcide Cervi” , n. 4 (1982), pp. 11-28.
Yves Lequin, Lineamenti per una storia della cultura operaia in Francia, in “Annali della Fondazione Lelio e Lisli Basso”, vol. VI (1982), pp. 234-251.
Rassegna bibliografica 145
Elsa Luttazzi Gregori, Cultura materiale e storia sociale: note sulla casa rurale nell’area dell ’insediamento sparso mezzadrile, in “Società e storia” , a. VI, n. 19, pp. 137-164.
Giuseppe Maccaroni, Austro- marxismo e “terza via”. Max Adler e Otto Bauer nei più recenti studi italiani, in “Classe ”, a. XIII (1982), n. 21, pp. 21-59.
Michele Maggi, Su Benedetto Croce, in “Il Ponte” , a. XXXIX, n. 3-4, pp. 311-339.
Piero Meaglia, Stato ed economia in Gobetti, in “Annali della Fondazione Luigi Einaudi”, vol. XVI (1982), pp. 383-416.
Romano Molesti, L ’opera di Pasquale Jannaccone, in “ Il pensiero economico moderno” , a. Ili, n. 3, pp. 193-205.
Mauro Moretti, La nozione di “Stato moderno” nell’opera storiografica di Federico Cha- bod: note e osservazioni, in “Società e storia”, a. VI, n. 22, pp. 869-908.
Giorgio Mori, Storiografia dell ’industria e storiografia dell ’impresa in Italia, in “Studi storici”, a. XXIV, n. 1-2, pp. 127-135.
Oskar Negt, Per un rinnovamento del marxismo: caratteri e prospettive, in “Studi storici” , a. XXIV, n. 3-4, pp. 475-506.
Serge Noiret, Interventismo e socialismo, nelle “Memorie” di Destrée, in “Italia contemporanea” , n. 151-152, pp. 135-147 [a proposito di Jules Destrée, Souvenirs de temps de guerre].
Pier Luigi Orsi, La storia delle mentalità in Bloch e Febvre, in “Rivista di storia contemporanea”, a. XII, n. 3, pp. 370- 395.
Marco Pella, Un diario fascista, in “Passato e presente”, n. 4, pp. 197-209 [a proposito di Giuseppe Bottai, Diario 1935- 1944].
Maria Grazia Pollini, Recent Interpretation o f Mussolini and Italian Fascism, in “II Politico”, a. XLVIII, n. 4, pp. 751-764.
Silvio Pons, Roy Medvered storico dello stalinismo, in “Passato e presente”, n. 3, pp. 115-134.
Giuseppe Regis, Il primo annuario statistico della Cina popolare, in “Rivista internazionale di scienze economiche e commerciali” a. XXX, n. 2, pp. 176-186.
Marco Revelli, Antonella Tarpino, Folla e rivolta tra storia e scienze sociali, in “Rivista di storia contemporanea”, a. XII, n. 4, pp. 490-543.
Shlomo Sand, Prolegomeni ad una critica della storiografia soreliana. Due leggende da sfatare, in “Annali della Fondazione Luigi Einaudi”, vol. XVI (1982), pp. 329-382.
Giulio Sapelli, Per la storia comparata delle imprese industriali e bancarie. Ipotesi di lavoro, in “Annali della Fondazione Giangiacomo Feltrinelli”, a. XXII (1982), pp. 329-354.
Maurizio Serra, Note in margine ad una storia della cultura italiana nel Novecento, in “Storia contemporanea”, a. XIV, n.2, pp. 287-307 [a proposito di: I miti e le ideologie. Storia della cultura italiana, 1870-1960].
Maurizio Serra, Terza forza e fascismo. A proposito di un libro di G. L. Mosse, in “Storia contemporanea” , a. XIV, n. 1, pp. 77-86 [a proposito di George L. Mosse, L ’uomo e le masse nell’ideologia nazionalista] .
Ernesto Sestan, Federico Cha- bod e la nuova storiografia: profilo di una generazione di storici, in ‘“ Nuova antologia” , voi. 552°, fase. 2146, pp. 91- 111.Elisa Signori, La storiografia del Partito d ’azione, in “Nuova antologia”, voi. 552°, fase. 2148, pp. 313-319.
Mario Stoppino, Croce e il liberalismo, in “Il Politico” , a. XLVIII, n. 2, pp. 205-234.
Alberto Tenenti, A proposito di storici e sociologi, in “Quaderni storici” , n. 52, pp. 305-311.
Nicola Tranfaglia, Fascismo e mass media: dall’intervista di De Felice agli sceneggiati televisivi, in “Passato e presente” , n.3, pp. 135-148.
Leo Valiani, Benedetto Croce, filosofo della libertà, in “Nuova antologia” , voi. 552°, fase. 2146, pp. 55-67.
Armando Vitale, Filosofia e politica del Novecento italiano, in
146 Rassegna bibliografica
“Italia contemporanea” , n. 151- 152, pp, 149-156.
Aldo Zanardo, Cultura e violenza politica, in “Critica marxista” , a. XXI, n. 5, pp. 23-44.
Renato Zangheri, Gramsci e la teoria del materialismo storico, in “Critica marxista” , a. XXI, n. 5, pp. 5-22.
Claudio Zannier, Il Gandhi di Attenborough, in “Passato e presente” , n. 4, pp. 151- 159.
Metodologia e organizzazione della ricerca
Carlo Carotti, I periodici nelle biblioteche: un patrimonio da salvare. Resterà solo una proposta?, in “Società e storia, a. VI, n. 21, pp. 723-728.
Cultura (La) operaia nella società industrializzata, in “Rivista di storia contemporanea” , a. XII, n. 4, pp. 544-590 [contiene: Ersilia Alessandra Pero- na, Un dibattito: per un museo della cultura operaia', Michele Perzot, Che cosa è la cultura operaia?', John Gorman, I preliminari: e le grandi raccolte-, Horst Stefens, Crisi della coscienza operaia, Madeleine Re- berioux, L ’esperienza degli eco- musées-, Pietro Clemente, Studi demologici e museografia operaia: Arturo Fittipaldi, Musei della cultura operaia o di storia della condizione operaia, Giovanni Romano, Il nuovo ruolo del conservatore],
Loretta De Felice, Un fondo bibliografico, d ’interesse documentario nell’Archivio centrale
dello Stato: la “CollezioneMussolini”, in “Storia contemporanea” , a. XIV, n. 3, pp. 475-517.
Fabrizio Dolci (a cura), Una fonte per la storia del movimento contadino: i patti agrari a stampa (1872-1925), in “Società e storia” , a. VI, n. 19, pp. 185-204.
Indirizzi storiografici e organizzazione della ricerca, in “Passato e presente”, n. 4, pp. 3-10.
Michele Longonelli, Gli archivi d ’impresa, in “Passato e presente” , n. 3, pp. 173-178.
Pier Paolo Poggio, Gianni Scio- la, Le fon ti della Repubblica sociale italiana per lo studio della questione contadina durante la seconda guerra mondiale, in “Annali dell’Istituto Alcide Cervi” , n.4 (1982), pp. 183- 210.Domenica Porcaro Massafra, Archivi ed occupazione giovanile nel Mezzogiorno: un primo bilancio, in “Società e storia” , a. VI, n. 20, pp. 439-447.
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Altri Paesi
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Italia
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Piero Gobetti, Lettere a Giovanni Papini (1919-1922). Con introduzione e a cura di Paolo Bagnoli, in “Nuova antologia” , voi. 552°, fase. 2145, pp. 361-374.
Antonio Gramsci, Dall’“Ordine Nuovo”: prima pagina e cronache torinesi 1921. Sette scritti riconosciuti da Sergio Caprioglio, in “Belfagor” , a. XXXVIII, n. 1, pp. 17-42.
Intellettuali e politica tra le due guerre, in “Storia contemporanea” , a. XIV, n. 4-5 [contiene: Maurizio Serra, Sui miti fascisti dell’umanesimo borghese negli anni trenta; Giuseppe Parlato, Vittorio Cian: un intellettuale nazionalista durante il fascismo-, Giovanni Belardelli, L ’adesione di Gioacchino Volpe al fascismo-, Susanna De Angelis, Il corporativismo giuridico nell’opera di Sergio Pannunzio-, Renzo De Felice, Gli storici italiani nel periodo fascista; Renato Moro, La formazione giovanile di Aldo Moro].
Libero Lenti, Gli ottant’anni della Bocconi, in “Nuova antologia” , voi. 552°, fase. 2148, pp. 205-249.
Maria Rosaria Lo Giudice, Razza e giustizia nell’Italia fa scista, in “Rivista di storia contemporanea”, a. XII, n. 1, pp. 70-90.
Nicla Capitini Maccabruni, Appunti per una ricerca sull ’antifascismo in alcune fabbriche fiorentine, in “Ricerche storiche” , a. XIII, n. 2, pp. 383-435.
Meir Michaelis, Il Maresciallo dell’aria Italo Balbo e la politica mussoliniana. Il frondismo di Balbo alla luce di alcuni documenti e testimonianze inediti, in “Storia contemporanea” , a. XIV, n. 2, pp. 333-357.
Mussolini nel giudizio dei primi antifascisti, interventi di Giovanni Spadolini, Leo Valiani, Cosimo Ceccuti e testi di Piero Gobetti, Antonio Gramsci e Fernando Schiavetti, in “Nuova antologia” , voi. 552°, fase. 2148, pp. 5-39.
Luisa Passerini, Donne operaie e aborto nell’Italia fascista, in “Italia contemporanea” , n. 151-152, pp. 83-109.
Daniele Pompeiano, Autobiografia di un capitano degli Arditi 1927-1928, in “Rivista di storia contemporanea”, a. XII, n. 2, pp. 194-218.
Antonio Resta, “La Nuova Italia” nella Firenze di Alessandro Pavolini (dalle carte di Luigi Russo del 1931), in “Belfagor” , a. XXXVIII, n. 3, pp. 309-322.
150 Rassegna bibliografica
Riccardo Bauer testimone del nostro tempo, interventi di Aldo Garosci, Carlo Ludovico Ragghianti, Max Salvadori, Giovanni Spadolini, Leo Valia- ni, in “Nuova antologia” , voi. 552°, fase. 2145, pp. 5-30.
Alceo Riosa, I miti del fascismo e le tante anime dell’apostolo Filippo Corridoni, in “Ricerche storiche” , a. XIII, n. 1, pp. 131-149.
Enzo Santarelli, Alfonso Leo- netti, in “Belfagor”, a. XXXVIII, n. 3, pp. 299-308.
Emma Scaramuzza, Professioni intellettuali e fascismo. L ’ambivalenza dell’Alleanza muliebre culturale italiana, in “Italia contemporanea” , n. 151-152, pp. 111-133.
Giovanni Spadolini, Giolitti si è dimesso, in “Nuova antologia” , voi. 552°, fase. 2146, pp. 22-54.
Giovanni Spadolini, La Malfa, Mattioli, la Bocconi, una certa Milano, in “Nuova antologia” , voi. 552°, fase. 2148, pp. 250-260.
Alessandra Staderini, Rivendicazioni territoriali e mobilitazione nazionale nei documenti del 1919 di Giovanni Giuriati e Oscar Senigaglia, in “Storia contemporanea” , a. XIV, n. 1, pp. 89-140.
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Enrico Terracini, L ’italiano in Algeri, in “Archivio trimestrale”, a. IX, n. 2, pp. 295-330; n. 3, pp. 475-524.
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Jemolo e “Voce operaia”, a cura di Francesco Margiotta Bro
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Ilaria Lasagni, La stampa minore cattolica della provincia di Cremona negli anni della ricostruzione (1943-1948), in “Annali dell’Istituto Alcide Cervi” , n. 4 (1982), pp. 401-417.
Adolfo Omodeo, Lettere inedite, Con introduzione e a cura di Cosimo Ceccuti, in “Nuova antologia”, voi. 552°, fase. 2145, pp. 171-190 [le lettere si riferiscono al periodo 1942-1946].
Ercole Ongaro, Campagna e Resistenza nel Lodigiano, in “Annali dell’Istituto Alcide Cervi” , n. 4 (1982), pp. 211-239.
Luigi Paselli, Marzotto, 29 settembre 1944. Leggenda e tragedia di una brigata partigiano, in “Archivio trimestrale” , a. IX, n. 2, pp. 393-421.
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Repubblicani (I) a Roma 1943-1944, in “Archivio trimestrale” , a. IX, n. 3, pp. 465-473 [contiene: Alberto Mario Leonardi, La ricostituzione del Partito repubblicano nella testimonianza di un giovane; Giorgio Braccialarghe, I repubblicani a Roma durante l ’occupazione nazista; Spartaco Migliorati, Il Partito repubblicano durante l ’occupazione nazista di Roma. Relazione sull’attività svolta dalle squadre d ’azione nella VI zona (S. Giovanni)].
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