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federalismi.it numero 7/2005 LA LEGGE DI REVISIONE: CRISI E TRASFIGURAZIONE DEL MODELLO COSTITUZIONALE di Sandro Staiano (Professore ordinario di diritto costituzionale, Università di Napoli Federico II) 8 aprile 2005 Sommario: 1. Ricostruzione del procedimento di revisione e radici storiche dell’art. 138 Cost. – 2. La garanzia delle minoranze nella genesi dell’art. 138 Cost. – 3. La messa in opera dell’art. 138 della Costituzione. Consolidamento e declino della fase “consensuale”. – 4. Affievolimento della consensualità e rottura della norma costituzionale sulla revisione. – 5. Dalla rottura “maggiore” (proposta) alle rotture “minori” (praticate, rectius prospettate). – 6. La revisione come atto della maggioranza di governo e la mutazione del referendum confermativo. – 7. Prospettive di una nuova revisione a maggioranza ristretta: la conferma normativa di un modello inedito di referendum in chiave plebiscitaria. – 8. Un possibile recupero di ragionevolezza. 1. Ricostruzione del procedimento di revisione e radici storiche dell’art. 138 Cost. – Il procedimento di revisione costituzionale, per una lunga fase dell’esperienza repubblicana, è stato posto raramente in opera, e sempre per introdurre correzioni o specificazioni sostanzialmente marginali nel testo della Costituzione, tali da non chiamare in causa gli equilibri di fondo del sistema. E’ a partire dal 1999 – in concomitanza con una situazione di incertezza e di crisi politico- istituzionale di durata inusuale – che l’orientamento a introdurre leggi di revisione, anche intese a rimodellare organicamente interi ambiti normativi della Costituzione, si è affermato come uno dei tratti salienti dell’attività parlamentare e, non del tutto propriamente, dei programmi di governo, attraendo lo strumento della revisione costituzionale nel fuoco della contesa politica contingente. Tale sovraccarico di aspettative quanto alla capacità di interventi sul testo della Costituzione di condurre ad obiettivi “di riforma” politicamente forti e spesso segnati da una marcata connotazione ideologica ha chiamato in causa la ratio stessa dell’art. 138 Cost., dando luogo a modalità di applicazione inedite e, in apparenza, lontane dalle premesse sulle quali la disciplina del procedimento di revisione era stata originariamente conformata. Si è dunque proposto l’interrogativo – non secondario, ma anch’esso connotato in chiave politico-ideologica – sul significato da attribuire alla propensione ad attenuare la funzione di garanzia per le minoranze parlamentari, propensione che si è ritenuto di ravvisare nei casi più recenti di revisioni introdotte o prospettate. Per tentare di elaborare qualche linea ricostruttiva dello strumento della revisione costituzionale conviene, allora, muovere appunto da quelle premesse storiche, da quelle scelte trasfuse nella ratio dell’art. 138 Cost. che si assumono negate, dando fondo anche alle indicazioni comparative, in questo caso non prescindibili, ricavabili dai lavori preparatori della Costituzione. Questo saggio sarà pubblicato anche negli Atti del Convegno di studi sul tema “La garanzia delle opposizioni parlamentari nella democrazia maggioritaria”, organizzato dal Dipartimento di Scienze giuridiche dell’Università di Cassino nel giugno 2004.

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LA LEGGE DI REVISIONE: CRISI E TRASFIGURAZIONE DEL MODELLO COSTITUZIONALE∗

di

Sandro Staiano (Professore ordinario di diritto costituzionale, Università di Napoli Federico II)

8 aprile 2005 Sommario: 1. Ricostruzione del procedimento di revisione e radici storiche dell’art. 138 Cost. – 2. La garanzia delle minoranze nella genesi dell’art. 138 Cost. – 3. La messa in opera dell’art. 138 della Costituzione. Consolidamento e declino della fase “consensuale”. – 4. Affievolimento della consensualità e rottura della norma costituzionale sulla revisione. – 5. Dalla rottura “maggiore” (proposta) alle rotture “minori” (praticate, rectius prospettate). – 6. La revisione come atto della maggioranza di governo e la mutazione del referendum confermativo. – 7. Prospettive di una nuova revisione a maggioranza ristretta: la conferma normativa di un modello inedito di referendum in chiave plebiscitaria. – 8. Un possibile recupero di ragionevolezza.

1. Ricostruzione del procedimento di revisione e radici storiche dell’art. 138 Cost. – Il

procedimento di revisione costituzionale, per una lunga fase dell’esperienza repubblicana, è stato posto raramente in opera, e sempre per introdurre correzioni o specificazioni sostanzialmente marginali nel testo della Costituzione, tali da non chiamare in causa gli equilibri di fondo del sistema. E’ a partire dal 1999 – in concomitanza con una situazione di incertezza e di crisi politico-istituzionale di durata inusuale – che l’orientamento a introdurre leggi di revisione, anche intese a rimodellare organicamente interi ambiti normativi della Costituzione, si è affermato come uno dei tratti salienti dell’attività parlamentare e, non del tutto propriamente, dei programmi di governo, attraendo lo strumento della revisione costituzionale nel fuoco della contesa politica contingente.

Tale sovraccarico di aspettative quanto alla capacità di interventi sul testo della Costituzione di condurre ad obiettivi “di riforma” politicamente forti e spesso segnati da una marcata connotazione ideologica ha chiamato in causa la ratio stessa dell’art. 138 Cost., dando luogo a modalità di applicazione inedite e, in apparenza, lontane dalle premesse sulle quali la disciplina del procedimento di revisione era stata originariamente conformata. Si è dunque proposto l’interrogativo – non secondario, ma anch’esso connotato in chiave politico-ideologica – sul significato da attribuire alla propensione ad attenuare la funzione di garanzia per le minoranze parlamentari, propensione che si è ritenuto di ravvisare nei casi più recenti di revisioni introdotte o prospettate.

Per tentare di elaborare qualche linea ricostruttiva dello strumento della revisione costituzionale conviene, allora, muovere appunto da quelle premesse storiche, da quelle scelte trasfuse nella ratio dell’art. 138 Cost. che si assumono negate, dando fondo anche alle indicazioni comparative, in questo caso non prescindibili, ricavabili dai lavori preparatori della Costituzione.

∗ Questo saggio sarà pubblicato anche negli Atti del Convegno di studi sul tema “La garanzia delle opposizioni parlamentari nella democrazia maggioritaria”, organizzato dal Dipartimento di Scienze giuridiche dell’Università di Cassino nel giugno 2004.

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2. La garanzia delle minoranze nella genesi dell’art. 138 Cost. – La genesi dell’art. 138 Cost. rivela un incoercibile sentimento misto nei confronti della necessità di conformare il procedimento di revisione costituzionale secondo le esigenze di garanzia delle minoranze, intese come minoranze parlamentari (questione in parte diversa è quella di apprestare strumenti di garanzia accogliendo un concetto più lato di minoranza, comprensivo del riferimento all’articolazione e ai punti di tensione ravvisabili nei rapporti sociali, anche al di fuori del contesto parlamentare).

Da una parte, invero, si ravvisava nella previsione di una maggioranza qualificata – molto più estesa di quella sufficiente ad approvare le leggi ordinarie e potenzialmente corrispondente a quella legata al Governo dalla relazione fiduciaria – una tecnica deliberativa difficilmente rinunciabile quando si intenda dare “rigidità” alla Costituzione. Dall’altra, si temeva un eccesso di ruolo delle minoranze, nel caso di un procedimento che sulla maggioranza qualificata si incentrasse interamente, imponendo una difficile convergenza tra le posizioni degli schieramenti parlamentari.

Nella relazione presentata da Paolo Rossi alla Seconda Sottocommissione dell’Assemblea Costituente, il “sistema della maggioranza qualificata dei tre quinti o dei due terzi” – per esemplificare il quale venivano chiamate in causa le “costituzioni” di ordinamenti non ascrivibili al contesto delle democrazie: sovietica del 1936, turca del 1924 – era ritenuto “né democratico né razionale”, ascritto ad una “inversione del principio maggioritario”, tale da determinare una “insopportabile antinomia”1. Si proponeva dunque uno “schema”, in cui, all’approvazione della proposta di revisione con la sola maggioranza assoluta in entrambe le Camere, facesse necessariamente seguito lo scioglimento di queste, e una nuova deliberazione del testo, senza emendamenti, da parte delle nuove Camere elette entro un mese dalla prima convocazione2. Questa

1 Cfr. P. ROSSI, La revisione della Costituzione, Relazione alla Seconda Sottocommissione dell’Assemblea Costituente: “… Quando la minoranza si ponga in urto con la maggioranza e prevalendosi del privilegio costituzionale inverta il principio maggioritario, tutto il sistema crolla e viene a determinarsi una insopportabile antinomia. In pratica il Governo non può governare e il Paese è posto al bivio tra l’insurrezione e una sostanziale dittatura, mal dissimulata sotto il velo di formale costituzionalità”. 2 Cfr. il testo proposto, nella citata relazione di Paolo Rossi alla Seconda Sottocommissione: “Ogni proposta di modificazione della Costituzione può essere introdotta dal Governo, o per iniziativa parlamentare, secondo l’ordinaria procedura dei progetti di legge, ma deve ottenere, in entrambe le Camere, una maggioranza pari almeno alla metà più uno dei membri che organicamente le compongono. La proclamazione stessa del risultato affermativo determina lo scioglimento del Parlamento. Entro novanta giorni saranno convocati i comizi elettorali e le nuove Camere dovranno, entro un mese dalla loro rispettiva convocazione, porre ai voti, senza emendamenti, il progetto già approvato dal disciolto Parlamento. Ove il progetto risulti confermato, a normale maggioranza, esso diventa legge costituzionale. Dopo il voto il Parlamento continua la sua ordinaria attività legislativa.” Il modello riecheggiava quello accolto dalla Costituzione del Belgio, confermato nel testo coordinato del 17 febbraio 1974, art. 195: «Le pouvoir législatif fédéral a le droit de déclarer qu’il y a lieu à la révision de telle disposition constitutionnelle qu’il désigne. Après cette déclaration, les deux Chambres sont dissoutes de plein droit. Il en sera convoqué deux nouvelles, conformément à l’article 46. Ces Chambres statuent, d’un commun accord avec le Roi, sur le points soumis à la révision. Dans ce cas, les Chambres ne pourront délibérer si deux tiers au moins des membres qui composent chacun d’elles ne sont présents ; et nul changement ne sera adopté s’il ne réunit au moins les deux tiers des suffrages. » Lo schema approvazione parlamentare/scioglimento delle Camere/approvazione da parte delle nuove Camere è accolto e reso più ancor più gravoso dalla Costituzione della Danimarca, che prevede, a coronamento della già complessa sequenza, un referendum confermativo necessario, con quorum di validità della maggioranza assoluta degli aventi diritto e con la previsione dell’esito positivo ove la legge di revisione ottenga la maggioranza dei voti validi non inferiore al quaranta per cento degli elettori. Nel caso danese, la ratio sembra quella di rendere particolarmente ardua la revisione. Cfr. Section 88, nella versione in lingua inglese, in www.oefre.unibe.ch.htlm: «When the Parliament passes a Bill for the purposes of a new constitutional provision, and the Government wishes to proceed with the matter, writs shall be issued for the election of Members of a new Parliament. If the Bill is passed issued for the election of Members of a new Parliament. If the Bill is passed unamended by the Parliament assembling after the election, the Bill shall within six months after its final passing be submitted to the Electors for approval or rejection by direct voting. Rules for this voting shall be laid down by Statute. If a majority of the persons taking part in

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soluzione – molto radicale quanto alla necessità di sottoporre a verifica, nel procedimento di revisione, il rapporto tra orientamenti della maggioranza parlamentare e volontà del corpo elettorale – non sarebbe stata accolta.

Ma il tema del temperamento dell’eccesso di ruolo della minoranza sarebbe rimasto all’attenzione dei costituenti e avrebbe condotto al modello poi accolto nell’art. 138 Cost.: possibilità di determinare la revisione anche a maggioranza assoluta, in caso di mancato conseguimento della maggioranza dei due terzi, chiamando in causa eventualmente il corpo elettorale attraverso un referendum confermativo senza la previsione di un quorum di validità. In tal modo, il peso attribuito alla minoranza parlamentare, anche nel suo rapporto con gli elettori, non si sarebbe mai tradotto in un potere di veto: né in sede di deliberazione da parte delle Camere, per la possibilità di deliberazione con la sola maggioranza assoluta, né nella consultazione referendaria, per l’impossibilità di impedire un risultato favorevole alla revisione facendo appello all’astensione dal voto (arma, questa, potenzialmente molto efficace, come dimostrano le vicende del referendum abrogativo).

Sembra utile, ai fini della individuazione della ratio dell’art. 138 Cost., seguire il percorso logico che condusse a tale soluzione.

Nel dibattito costituente, quanto all’art. 130 del progetto di Costituzione (poi art. 138 Cost.), risulta centrale il richiamo ad un “criterio di ragionevolezza”, alla necessità di una soluzione “di buon senso”, sia con riferimento all’impianto generale della disposizione, sia con riferimento specifico alla preclusione del procedimento referendario in caso di approvazione a maggioranza dei due terzi nella seconda deliberazione e all’esclusione di un quorum per la validità della consultazione: esplicito in tal senso l’intervento di Perassi, nella seduta pomeridiana dell’Assemblea Costituente del 3 dicembre 1947, quando illustrava il proprio emendamento sostitutivo dell’intero art. 130, che sarebbe risultato nella sostanza corrispondente al testo definitivo dell’art. 1383. Si tratta di stabilire a quale punto di equilibrio intendesse condurre tale “soluzione di buon senso”. Non sembra che l’obiettivo primario perseguito fosse quello della garanzia delle minoranze parlamentari: questo profilo rimaneva implicito nel dibattito costituente. Anzi, il profilo garantista del procedimento “rallentato” e “raffreddato” risulta essere una implicazione, un carattere naturale della tecnica di legislazione prescelta: una implicazione, se non subita come una necessità, percepita tuttavia come un tratto del sistema da moderare e bilanciare. In altri termini, una volta stabilito che la soluzione più “ragionevole” è quella del procedimento aggravato, e che lo strumento più efficace di siffatto aggravamento è nella previsione di maggioranze qualificate, si introducono i correttivi necessari a ridimensionare l’effetto di garanzia per le minoranze che da tale previsione potrebbero derivare. Il punto di equilibrio ricercato in prima istanza non attiene ai rapporti the voting, and at least 40 per cent of the Electorate has voted in favor of the Bill as passed by the Parliament, and the Bill receives the Royal Assent it shall form an integral part of the Constitution Act.» 3 Atti dell’Assemblea Costituente, seduta pomeridiana di mercoledi 3 dicembre 1947, Discussioni, CCCXVII, 4322 s.: “…Si tratta, dunque, di contemperare questi due concetti: da un lato la rigidità della Costituzione, e dall’altro, la sua non immutabilità. Questi due criteri determinano il problema legislativo che dobbiamo ora risolvere. Si tratta, cioè, di inserire nella Costituzione una norma che regoli il procedimento di formazione delle leggi costituzionali … Quale può essere questa norma? Il mio emendamento non tocca nessuna parte sostanziale del testo elaborato dalla Commissione dei Settantacinque. Questo testo è ispirato ad un criterio di ragionevolezza che risponde a quanto abbiamo detto prima, e cioè che la Costituzione deve essere rigida, ma non immutabile, inflessibile. Non si può concepire la Costituzione come una lastra di vetro; occorre che sia un metallo duro, ma un metallo plasmabile. Si tratta, dunque, di trovare un formula che contemperi queste due esigenze … Infine, nell’ultimo comma, che è uguale a quello del testo della Commissione, si stabiliscono i casi in cui su una legge costituzionale non è ammesso il referendum facoltativo … Questo comma, che potrebbe eventualmente diventare, dal punto di vista formale, un inciso del precedente, viene a porre un limite ragionevole alla facoltà di chiedere il referendum e quindi alla messa in moto di una macchina notevolmente pesante, quale è quella della votazione popolare. Anche qui, sotto questa formula, c’è un’idea di buon senso. Quando, secondo il procedimento abbastanza complicato che previsto, una legge costituzionale è stata votata dalle due Camere e ciascuna di queste l’abbia approvata a maggioranza dei due terzi dei suoi membri, si può fondatamente presumere che si è di fronte a una legge costituzionale che risponde a esigenze sentite dalla maggioranza del Paese. Quindi sembra inutile condizionare la perfezione di una tale legge all’eventualità del referendum. Ricordo, a questo riguardo, che anche recenti Costituzioni, per esempio quella francese, contengono qualche analoga disposizione.”

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maggioranza/minoranze parlamentari, ma al rapporto rigidità formale/immodificabilità (Perassi, loc. cit.: “si tratta di contemperare questi due concetti: da un lato la rigidità della Costituzione, e dall’altro, la sua non immutabilità”). Si realizzava, in tal modo, una sorta di compromesso per omissione: il tema del possibile eccesso di ruolo delle minoranze – agitato espressamente da Paolo Rossi, ma tale da toccare diffuse sensibilità nell’Assemblea Costituente – scompariva dal dibattito, o, più esattamente, diveniva sotterraneo, assorbito nella tranquillizzante soluzione del referendum confermativo (al quale veniva ascritto da Perassi il “valore giuridico di un elemento di formazione della legge costituzionale”4), nel quale la maggioranza, come maggioranza nel corpo elettorale, possa comunque prevalere in ultima istanza, al riparo dalla “volontà negativa” delle minoranze. E lo stesso referendum non è configurabile necessariamente come uno strumento “ulteriore” nelle mani delle minoranze parlamentari, attraverso il quale queste possano far valere la propria posizione una volta battute nelle Camere, ma può assumere funzione confermativa della volontà della maggioranza, su iniziativa di essa, o – ricorrendone le condizioni politiche e in ipotesi di revisioni maggiori – anche funzione plebiscitaria, con significativi effetti di riduzione delle minoranze allo stato di marginalità.

La valutazione piena del significato da attribuire a tale soluzione, che non contempla la possibilità per l’opposizione parlamentare – in sé considerata, cioè senza il coinvolgimento diretto del popolo – di impedire la revisione, si può cogliere in chiave comparativa, raffrontando ad essa il caso della Costituzione degli Stati Uniti, il cui art. V non consente di “proporre emendamenti” se non con il consenso dei due terzi di entrambe le Camere (o degli organi legislativi dei due terzi degli Stati: ciò che non è mai avvenuto). Il procedimento di revisione si contiene poi tutto, tipicamente, nel sistema delle rappresentanze parlamentari – federale e statali –, occorrendo la “ratifica” da parte degli organi legislativi di tre quarti degli Stati5, in conformità ad una cultura costituzionale segnata dall’affermazione pervasiva del principio rappresentativo e dall’orientamento a garantire le minoranze nei confronti di manifestazioni dirette della volontà popolare.

La riprova dell’esito ricostruttivo proposto si rinviene nella considerazione complessiva del dibattito sulla revisione costituzionale: questo avrebbe ben presto abbandonato il tema del rapporto maggioranza/minoranze parlamentari, per spostarsi su quello, idoneo a suscitare grandi passioni, della possibile disciplina esplicita di limiti alla revisione nel campo delle libertà fondamentali. Tale ambito problematico è largamente esterno alla linea di tensione tra componenti parlamentari nella decisione politico-legislativa. Esso chiama in causa il rapporto del singolo cittadino e delle formazioni sociali, titolari di diritti costituzionalmente protetti, con le sedi della decisione politica, quale che sia la modalità di adozione di queste. Lo spostamento del fuoco del confronto può confermare quale fosse il vero tema forte del dibattito costituente: non il rapporto maggioranza/minoranze, ma il rapporto e il contemperamento tra rigidità formale e rigidità assoluta. Ma, tra i costituenti, il rigetto della proposta, avanzata da Benvenuti e integrata da Laconi, di introdurre un articolo 130-bis, recante il divieto espresso di modificare le disposizioni poste a garanzia dei “diritti di libertà e del lavoro”6, si accompagnava al convincimento che le posizioni soggettive da sottrarre al potere di revisione costituzionale appartengano ad una sfera di “diritti naturali”, posti “al di sopra delle mutevoli esigenze della vita politica” 7, ad un nucleo di

4 Atti dell’Assemblea Costituente, loc. cit., 4323. 5 L’ipotesi alternativa della convocazione di convention in tre quarti degli Stati si è verificata una sola volta, nel 1933, per la “ratifica” del XXI emendamento; ipotesi alternativa che, del resto, nulla toglie alla forza garantista della regola della maggioranza qualificata dei due terzi per la presentazione della “proposta” di emendamento, ferma anche nel caso della consultazione popolare. 6 Atti dell’Assemblea Costituente, loc. cit., 4332: “Le disposizioni della presente Costituzione che riconoscono e garantiscono i diritti di libertà e del lavoro, rappresentando l’inderogabile fondamento per l’esercizio della sovranità popolare, non possono essere oggetto di procedimenti di revisione costituzionale, tendenti a misconoscere o a limitare tali diritti, ovvero a diminuirne le guarentigie”. 7 Cfr. l’intervento di Aldo Moro nella richiamata seduta pomeridiana dell’Assemblea Costituente del 3 dicembre 1947: “… Sono diritti che noi chiamiamo naturali e poniamo al di sopra delle mutevoli esigenze della vita politica. Ma la norma così come è formulata, nel significato che fatalmente assumerebbe, è da un lato inutile … e dall’altro pericolosa,

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intangibilità a garanzia del quale non varrebbe porre alcun limite di tipo normativo. Sicché nessuna garanzia procedimentale, meno che mai orientata a tutelare la posizione delle minoranze parlamentari, potrebbe avere campo in tale nucleo di intangibilità. Solo Paolo Rossi sembrava opporsi all’introduzione dell’art. 130-bis argomentando anche in termini di “disutilità” di esso per considerazioni di tecnica procedimentale8 (considerazioni che peraltro scolorivano alla luce di un approccio sostanzialistico al tema della rigidità assoluta9); ma la posizione prevalsa nel dibattito costituente è segnata da altro registro culturale.

In sintesi: il testo della Costituzione, nella parte suscettibile di revisione, veniva assoggettato ad un procedimento modificativo, per il cui aggravamento era ritenuta non rinunciabile la soluzione tecnica della maggioranza qualificata, ma il cui effetto “collaterale implicato” – la garanzia delle minoranze parlamentari – doveva essere moderato, affinché non travalicasse in eccesso di ruolo di queste10. Quanto alla parte della Costituzione, concernente i diritti fondamentali, ritenuta intangibile, l’esigenza di tutela delle minoranze parlamentari era, ovviamente, del tutto fuori quadro, trattandosi di questione estranea al campo di incidenza delle procedure legislative: ed invero l’art. 131 (poi art. 139) veniva disegnato come un argine puramente concettuale alla revisione, poiché la determinazione in concreto dei campi di immodificabilità assoluta veniva affidata all’interpretazione degli elastici disposti di principio posti a garanzia dei diritti fondamentali.

Peraltro, i costituenti mostravano spiccata consapevolezza della difficoltà ad introdurre un’adeguata disciplina della rigidità, valutando, da una parte, come irrealistico, ed anzi rischioso,

perché diventa un ostacolo a quelle riforme di dettaglio che attengono a quel tanto di storico e di mutevole che è in questi diritti assoluti. Quindi la norma proposta finirebbe per essere un impedimento a quel processo di revisione e di adattamento che invece è garanzia di stabilità della Costituzione…”. In senso analogo, Ruini: “… Le libertà che abbiamo messo nella Costituzione sono libertà che hanno un inderogabile fondamento … così che, se non potessimo toccarle, non potremmo mai toccare l’arca santa della Costituzione. O noi vogliamo affermare un’altra cosa: che vi sono diritti di libertà e di democrazia, che sono inviolabili e che neppure la Costituzione può violare; le leggi «superiori a quelle della città» di cui parla Antigone; i diritti naturali; gli «immortali principî»; ed io sono perfettamente d’accordo con l’onorevole Benvenuti, nel sentire l’esigenza di queste istanze supreme: ma non si tratta di vere norme giuridiche; non ci muoviamo più nella zona del diritto; siamo in quella zona più alta, dove stanno i principî di natura etico-politica; superiori alla lettera del diritto; e tali che non possono essere tradotti in norme concrete di Costituzione, come quelle che l’onorevole Benvenuti ha proposto. Noi, del resto, spingendoci ai limiti del contenuto d’un testo costituzionale, abbiamo già parlato nei primi articoli della nostra Costituzione di diritti «inviolabili» dell’uomo; non possiamo andare più il là e stabilire che tutto quanto riguarda le libertà non può essere oggetto di revisione costituzionale…”. Richiama l’impostazione di Moro, aderendovi, C. MORTATI, Concetto, limiti, procedimento della revisione costituzionale, in Scritti sulle fonti del diritto e sull’interpretazione, Milano, 1972, 31. 8 Cfr. il suo intervento nella stessa seduta pomeridiana del 3 dicembre 1947, il Atti dell’Assemblea Costituente, loc. cit., 4329: “Ahimè, dal punto di vista formale, dal punto di vista legalitario, dal punto di vista costituzionale, questo povero articolo 130-bis è una ben modesta garanzia. Pensi l’onorevole Benvenuti che basterebbe il procedimento della doppia revisione per porre nel nulla questa garanzia che egli considera un argine insormontabile, una tutela invincibile dei diritti fondamentali della personalità umana; basterebbe che un’Assemblea con un primo procedimento di revisione costituzionale cancellasse dalla Costituzione l’articolo 130-bis e una seconda volta, dopo questa cancellazione, modificasse taluni degli articoli che garantiscono le principali libertà dell’uomo perché accadesse questa cosa enorme: che una violazione fondamentale dei diritti della libertà umana avesse l’apparenza della legalità, ciò che non vogliamo noi della Commissione, ciò che spero l’Assemblea non vorrà.” 9 Lo stesso Paolo Rossi, invero, soggiungeva: “… Se un lesione di questo genere dovesse mai avvenire nel futuro, avvenga col sangue, avvenga con la violenza, avvenga contro la legge, non avvenga almeno col soccorso formale della Costituzione.”. 10 Il segno dell’equilibrio “ragionevole” conseguito con l’art. 130 della proposta di Costituzione può plausibilmente spiegare l’abbandono, melius re perpensa, dell’originaria proposta di Paolo Rossi (cfr. supra nota 2): lo scioglimento delle Camere che avessero deliberato la revisione e la necessità di una nuova deliberazione da parte delle nuove Camere avrebbero consentito all’opposizione di esercitare il suo diritto maggiore – quello di operare per divenire maggioranza – nel quadro di un confronto elettorale che si sarebbe potuto incentrare (e probabilmente si sarebbe incentrato) proprio sul tema della proposta di revisione, dovendo poi trovare esito nella sede parlamentare. L’opposizione, garantita con lo strumento dello scioglimento, avrebbe trovato di nuovo nel Parlamento la sede in cui far valere le proprie posizioni, sulla base di una verifica del consenso, ovvero per contrastare vittoriosamente la proposta di revisione, nel caso di nuova composizione politica delle Camere a parti invertite.

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affidare la garanzia di essa al ruolo delle minoranze parlamentari, dall’altra considerando non del tutto tranquillizzanti, se non controindicate, posizioni di garanzia affidate ad altri organi costituzionali: veniva, infatti, ritirato, dopo un richiamo di Perassi, un emendamento Preti inteso ad introdurre il divieto, a carico del Presidente della Repubblica, di promulgare leggi incostituzionali. Anche in questo caso prevaleva il timore di un eccesso di ruolo in un punto del sistema, tale da incidere impropriamente sulle dinamiche della decisione politica attraverso l’uso strumentale di un potere di garanzia della rigidità11.

La convinzione che non fosse utile, in questo campo, tentare di restringere la capacità di incidenza della “prassi costituzionale” trovava conferma nel ruolo prefigurato per la Corte costituzionale, ruolo di moderazione e di razionalizzazione, tale da poter impedire effetti dissolutivi del sistema prodotti per via di applicazione impropria del procedimento di revisione. Ed, invero, sarebbero risultati minoritari e non accolti i timori di chi prospettava il pericolo del “fatto compiuto”, irretrattabile da parte di una Corte “svuotata” dalla forza irresistibile della decisione politica, se fossero state soppresse, per vie formalmente legali, le libertà costituzionali12.

Il dibattito costituente, dunque, suggerisce di considerare la disciplina dell’art. 138 come un modulo a schema aperto, saldamente ancorato alla tecnica dell’aggravamento del procedimento legislativo parlamentare (nei limiti segnati dalla rigidità assoluta dei princìpi supremi), ma destinato a vedere assumere variabile significato ad alcune sue implicazioni in fase dinamica, in ragione dell’influenza contingente del processo storico-istituzionale: tra tali variabili va posta la valenza garantista per le minoranze parlamentari derivante dalla necessità di approvazione a maggioranza qualificata. Con una conseguenza: l’approvazione della legge di revisione a maggioranza ristretta non può essere ritenuta, in sé, come un’applicazione estrema e non desiderabile dello schema costituzionale; ma neppure come una modalità perfettamente alternativa a quella dell’approvazione a maggioranza qualificata. L’armonia con il tessuto costituzionale di ciascuna delle forme consentite dalla lettera dell’art. 138 sarà, invece, funzione di altre variabili, da individuare in chiave di sistema: funzione delle formule elettorali, della fase storicamente determinata della forma di governo, dello specifico assetto partitico, della dimensione stessa della revisione (puntuale, parziale, organica).

Da ciò, l’opportunità di una lettura del disposto costituzionale che tragga lezione dall’esperienza, ricostruendola secondo contesti temporali, ciascuno dei quali designa una fase diversamente connotata, in ragione dei mutamenti nella “politica costituzionale” e, specie quando crescono le tensioni da questa derivanti, nella “lotta per la costituzione”13.

Adottato questo punto di vista, può dirsi che, oltre le intenzioni e i timori dei costituenti, l’esperienza costituzionale ha rivelato, per un periodo non breve, la centralità della funzione di 11 Cfr. l’intervento di Perassi, in Atti dell’Assemblea Costituente, loc. cit., 4327: “… Al Presidente spetta solo di accertare che, trattandosi di una legge costituzionale, questa sia stata votata secondo il procedimento stabilito dalla Costituzione. Ma, ciò posto, conviene arrivare ad inserire espressamente nella Costituzione una disposizione che vieti in maniera assoluta al Presidente di far uso di questa facoltà? Io ritengo che non sia il caso di fare questa inserzione, né ritengo che sia opportuno – e su questo punto vorrei richiamare particolarmente l’attenzione dell’onorevole Preti – che su questo emendamento intervenga un voto da parte dell’Assemblea. Mi pare che sia una questione estremamente delicata, da lasciare alla prassi costituzionale. E’ questa che permetterà di dare al funzionamento della Costituzione quell’indirizzo che meglio corrisponde alla realtà delle cose.”. 12 Cfr. l’intervento di Benvenuti, il Atti dell’Assemblea Costituente, loc. cit., 4325: “ … se si ricorresse alla Corte costituzionale, quando una legge anticostituzionale e liberticida fosse già entrata in vigore (supponete una legge che sciogliesse i partiti, che sopprimesse la stampa, che imbavagliasse i giornali, che arrestasse i cittadini, una legge cioè che rievocasse i fasti del 3 gennaio mussoliniano e tutta la legislazione successiva), allora mi domando: la situazione incostituzionale ed eccezionale che sarebbe venuta a crearsi, quale margine lascerebbe al popolo italiano per adire sul serio la Corte costituzionale? Quale margine di libertà lascerebbe il fatto compiuto al Parlamento ed ai cittadini per insorgere contro la legge incostituzionale? In realtà, il fatto compiuto svuoterebbe la Corte costituzionale della sua sostanziale funzione di difesa del cittadino…” 13 Per l’impiego di queste categorie nell’osservazione delle proposte di revisione costituzionale, M. DOGLIANI, I. MASSA PINTO, La “lotta per la Costituzione”: come impedire che una revisione incostituzionale determini una discontinuità costituente, in AA.VV., Costituzione una riforma sbagliata. Il parere di sessantatre costituzionalisti, a cura di F. Bassanini, ASTRID, Antella (Firenze), 2004, 117 ss.

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garanzia delle minoranze parlamentari nella messa in opera dell’art. 138 della Costituzione. Tuttavia, tale centralità è stata progressivamente erosa nelle vicende e nei complessivi sviluppi istituzionali. Dapprima, il mutamento “materiale” nella funzione del procedimento di revisione non ha incontrato resistenze insuperabili nel modello normativo costituzionale, per la capacità di assorbimento che questo presenta in virtù della richiamata complessità della sua matrice storica. Poi l’art. 138 è parso smarrire la propria capacità conformativa come corrispondente alla sua ratio, divenendo in tal modo attuale la questione dell’adeguamento della disciplina del procedimento di revisione.

3. La messa in opera dell’art. 138 della Costituzione. Consolidamento e declino della fase

“consensuale”. – L’art. 138 Cost. ha pienamente mostrato la propria virtù conformativa, nel condurre ad esiti condivisi, in momenti di stretta “normalità” costituzionale, connotati dalla stabilizzazione dei rapporti tra maggioranza e minoranze parlamentari e dal significato sostanzialmente minore delle revisioni o di altre modalità di impiego del procedimento aggravato. Si è trattato di interventi nei campi di riserva di legge costituzionale, con “altre leggi costituzionali” non intese alla revisione, ma all’attuazione delle previsioni della Costituzione (art. 71, c. 1; art. 132; art. 137), o di interventi di tipo interpretativo a forte significato politico (ai quali sembra dover essere ascritto l’articolo unico della legge cost. 21 giugno 1967, n. 1, che esclude il delitto di genocidio dal novero dei reati politici, per i quali gli artt. 10, u.c. e 26 Cost. vietano l’estradizione).

In tali fasi, l’implicazione garantista per l’opposizione parlamentare nella disciplina del procedimento ex art. 138 Cost. è assurta a centralità nella sequenza deliberativa: le revisioni sono state largamente condivise, rinunciandosi solo al consenso delle componenti meno significative o marginali degli schieramenti parlamentari.

Questo tipo di rendimento è stato favorito dalla mancata disciplina del referendum, protrattasi a lungo e tale da imporre che le revisioni potessero avvenire solo a maggioranza dei due terzi. Tuttavia, poiché la propensione consensuale del procedimento di revisione si è manifestata anche oltre la disciplina dell’istituto referendario, essa deve essere ascritta sopratutto ad altri fattori, che si sono venuti disponendo nell’assetto delle relazioni politiche e parlamentari, tale da far maturare il convincimento, perdurante, di una certa recessività del referendum confermativo nella messa in opera dell’art. 138 Cost. Peraltro, una mutazione del modello, segnata dall’affievolimento dell’originario carattere di consensualità, si è manifestata nella cultura politica ben prima delle revisioni a maggioranza parlamentare ristretta, compiute o prospettate: un fenomeno legato al mutamento delle condizioni generali, cioè alla perdita o alla messa in discussione di quella “normalità costituzionale” che aveva assistito la fase precedente. Tale affievolimento segue due linee, concettualmente, e ad oggi anche cronologicamente, distinte:

I. Individuazione nell’art. 138 Cost. di un ostacolo a revisioni profonde ed ampie della Costituzione, revisioni tuttavia percepite, o fatte percepire, come necessarie. Il modulo procedimentale dell’art. 138 Cost. viene configurato come un ostacolo sotto due profili, distinti ma connessi: a) difficoltà nell’attuazione della sequenza per eccesso di garanzia dell’opposizione; b) inidoneità del procedimento a raccogliere il necessario consenso intorno alla riforma costituzionale, consenso da realizzare nella società, nel corpo elettorale, non solo e non tanto nella sede parlamentare, che è anzi riguardata come spesso lontana dal corpo vivo del popolo, attraversata da logiche autoreferenziali, afflitta da una crisi permanente della relazione rappresentativa.

Si tratta di assunti dal forte significato ideologico. L’eccesso di ruolo delle minoranze non è quello presente ai costituenti, come pericolo da fronteggiare in astratto, ma è quello concreto dell’opposizione presente in Parlamento, che conserverebbe, in tesi, tratti antisistema, o almeno di irriducibile estraneità al sistema, e che troverebbe nell’assetto costituzionale in atto le migliori possibilità di manifestare questa sua vocazione, alla lunga dissolutiva. La revisione costituzionale andrebbe dunque sottratta al potere interdittivo delle minoranze, restituita al rapporto diretto tra maggioranza parlamentare e popolo, per introdurre riforme rivolte al mutamento della forma di governo (al fine di potenziarne i tratti monocratici);

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II. Concezione dell’art. 138 come pura modalità tecnica della revisione: si respinge metodologicamente la necessità di tener conto della ratio – ritenuta originaria o modellatasi in forza dell’evoluzione dei rapporti istituzionali – della norma sulla revisione. L’interpretazione letterale dell’art. 138 conduce, oltre che alla lettura più riduttiva possibile dei profili garantisti del procedimento di revisione, a perseguire la semplificazione massima della decisione. Si dà, in tal modo, fondamento teorico all’orientamento ad approvare la legge di revisione a maggioranza ristretta e all’impiego “deviante” dello strumento referendario.

4. Affievolimento della consensualità e rottura della norma costituzionale sulla revisione. –

La prima manifestazione dell’affievolimento della visione consensuale del procedimento disciplinato dall’art. 138 Cost. si è compiuto in forma di prospettazione di una diversa modalità di revisione, ritenuta meglio corrispondente alle esigenze di un’ampia “riforma costituzionale”. Si tratta di posizioni – espresse anche in alta sede istituzionale – che si inserivano in un quadro di più generale svalutazione di singole previsioni costituzionali e dell’intero impianto della Costituzione.

L’art. 138 Cost. veniva presentato come un ostacolo, uno strumento inidoneo, connesso irrimediabilmente ad una visione superata dei rapporti politici, ad esigenze di garanzia delle minoranze rese inerti dalla crisi irreversibile dei partiti. La mediazione partitica, che nell’art. 138 avrebbe trovato adeguata possibilità di manifestarsi, si sarebbe dovuta ritenere pretermessa, a vantaggio di forme di appello diretto al popolo, realizzate attraverso l’elusione – o la manifesta violazione – della rigidità assoluta del disposto costituzionale. Per questa via, si esploravano i limiti estremi del potere di revisione, rendendone assai sottile la linea di confine con il potere costituente.

Il messaggio del Presidente Cossiga del 26 giugno 1991 era propriamente ispirato a questa logica: affermata una crisi di sistema che si riteneva dovesse essere affrontata nei modi di una organica riforma (riforma, non revisione) della Costituzione, riconosciuti i limiti “impliciti” alla revisione, si proponeva di superarli sottoponendo a revisione anzitutto lo stesso art. 138 Cost., al fine di rendere obbligatorio il referendum, sia che si volesse istituire un’Assemblea Costituente sia che si volesse attribuire il potere di “riforma” alle Camere, con ciò abilitando il procedimento previsto a statuire “anche in deroga ai limiti espressi o inespressi che si ritenessero essere contenuti nella Costituzione del 1948”14.

E’ evidente che, in questo schema, la funzione garantista dell’opposizione parlamentare, per quanto soltanto “implicata” nel modello costituzionale di revisione a maggioranza qualificata dei due terzi con ricorso eventuale al referendum nel caso di approvazione a maggioranza ristretta, sarebbe andata del tutto perduta. Anzi, era proprio quella “implicazione” garantista che si voleva cancellare, spostando verso il potere diretto del popolo il punto di bilanciamento tra esso e il potere parlamentare, il cui esercizio conduce per sua natura alla necessità o all’opportunità del compromesso tra schieramenti, specie, come allora, in presenza di una formula elettorale marcatamente proporzionalistica. In tal modo, il referendum avrebbe assunto una connotazione spiccatamente plebiscitaria, strumento per confermare la posizione della maggioranza prevalente, in una fase storica in cui si poteva ritenere che il discredito intorno agli equilibri consolidati nel sistema, e in particolare intorno alle sedi della rappresentanza, fosse giunto a tal segno da condurre al consenso popolare per riforme radicali, tali da chiamare in causa la forma di Stato.

Tale disegno non ebbe esito. Ed anzi – per uno di quei paradossi che, quando si agisce ai vertici del sistema, possono

allontanare assai nettamente fini prefigurati e risultati effettivamente conseguiti – fu proprio l’eccesso di ruolo del Presidente della Repubblica, per la reazione suscitata nella cultura giuridica e per le resistenze alla sua capacità di stravolgimento degli equilibri politici, a compromettere una linea “revisionista” delle consolidate architetture interpretative dell’art. 138 Cost. a lungo invalse, che stava più sottilmente emergendo ridando corpo a posizioni cedenti nel dibattito sulla rigidità svoltosi nei primi anni della Repubblica, e che avrebbe avuto una sua (invero più blanda) 14 Cfr. Messaggio alle Camere del Presidente della Repubblica del 26 giugno 1991 (sulle riforme istituzionali e sulle procedure idonee a realizzarle) a norma dell’art. 87 comma 2 Cost., in Giur. cost., 1992, 3374 ss. e spec. 3381.

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manifestazione solo molto tempo dopo (peraltro mancando ancora una volta l’obiettivo della revisione “organica” della Costituzione).

Questa linea “revisionista” prendeva avvio da una confutazione – singolarmente tardiva ed enfatizzata – della tesi di Alf Ross15, basata su argomenti di logica formale (nessuna norma può regolare le condizioni della propria validità), intesa a sostenere l’immodificabilità delle norme sulla revisione costituzionale: la questione non era attuale, sia perché lo stesso Ross aveva rinunciato all’assolutezza della propria originaria costruzione teorica16, sia perché proprio la dottrina italiana aveva sempre mostrato di non condividere, in tema di regime giuridico delle norme costituzionali, in ispecie delle norme sulla revisione, impostazioni formalistico-gradualiste, essendo invece incline a valorizzare le connessioni tra vicende delle norme costituzionali e contesto storico-politico. Tale ancoraggio alla vicenda storica accomuna costruzioni pure, per molti versi, distanti: quella di Mortati, che riconduce il nucleo di immodificabilità della Costituzione al concetto di costituzione materiale17 (salvo poi ammettere la difficoltà “di identificare per i singoli ordinamenti siffatto nucleo essenziale, così da potere accertare se ed in quale momento … il suo venir meno determina la caduta dell’ordinamento”18: ma proprio questa difficoltà afferma la storicità del concetto di limite alla revisione, poiché deriva dalla complessità degli elementi che compongono il processo storico, complessità tale da rendere difficile riconoscerne il segno prima del suo compiersi); quella di Esposito, che, nel quadro di una concezione del sistema normativo fondata su rapporti di competenza19, conclude nel senso che il problema dei limiti alla revisione “non è risolvibile una volta per tutte, ma può essere risolto solo alla stregua di un dato ordinamento positivo”20; quella di altra dottrina, che ha confutato posizioni teoriche, largamente precedenti le costruzioni logico-formali di Ross, assumendo che questi le riprendesse in modo pressoché conforme21.

15 Cfr. A. ROSS, Theorie der Rechtsquellen, Leipzig und Wien, 1929, 359 ss., e On Law and Justice, London, 1958, trad. it. Diritto e giustizia, Torino, 1965, 78: “Si può ritenere che una certa autorità … possa essere istituita in virtù di norme poste da essa stessa, il che equivale a dire che è possibile che una norma determini le condizioni per la propria emanazione, compreso il modo in cui può essere modificata. Una «riflessività» di questo tipo, tuttavia, è logicamente impossibile, come generalmente riconoscono i logici … Una proposizione non può riferirsi a se stessa. Si potrebbe darne una dimostrazione completa, ma non è questo il luogo adatto. Tuttavia, io penso che si sarà d’accordo nel ritenere che non si può immaginare un potere legislativo istituito da una legge, e che una legge non possa dettare le condizioni per la propria modificazione. Le norme a questo scopo debbono trovarsi necessariamente ad un livello più alto di quello della legge. Se si ammette questo per una legge, lo stesso dev’essere ammesso anche per la Costituzione. La Costituzione, proprio come una legge, è incapace di stabilire le condizioni per la propria modificazione”. E, con riferimento all’art. 5 della Costituzione degli Stati Uniti d’America, norma sulla revisione: “L’art. 5 della Costituzione non fa ... logicamente parte della Costituzione, ma contiene norme presupposte su un piano più elevato. Queste non possono, neppure a loro volta, stabilire le condizioni della propria modificazione. Se tali condizioni esistessero davvero, esse si troverebbero su un piano ancora più alto. Ma di fatto esse non esistono. L’art. 5 della Costituzione non è diritto posto, ma presupposto … Infine, se l’art. 5 della Costituzione viene di fatto modificato con una procedura conforme alle sue stesse norme, non è possibile considerare il nuovo articolo 5 come derivante da quello precedente, o come valido in quanto derivato da quello. Qualsiasi derivazione di tale tipo presuppone la validità della norma superiore, e così la permanenza della stessa, e mediante la derivazione non si può emanare una nuova norma che sia in conflitto con la fonte di derivazione”. 16 Cfr. A. ROSS, Sull’autoriferimento e su un «puzzle» nel diritto costituzionale, in Critica del diritto e analisi del linguaggio, Bologna, 1982, 231 ss. 17 Cfr. C. MORTATI, La Costituzione in senso materiale, Milano, 1940, passim, e spec. 101 ss. 18 C. MORTATI, Istituzioni di diritto pubblico, tomo II, Padova, 1976, 1242. 19 C. ESPOSITO, La validità delle leggi, in Annali dell’Università di Camerino, 1934, passim. 20Questa la lettura sintetica che della posizione di Esposito dà A. CERRI, Commento al Messaggio presidenziale del 26 giugno 1991, in Giur. cost., 1992, 3236. 21Cfr. W. BURCKHARDT, Verfassung und Gesetzesrecht, in Politisches Jahrbuch des schweizerichen Eidgenossenschaft, 1910, 37 ss. Per una confutazione di queste tesi, cfr. S.M. CICCONETTI, La revisione delle Costituzione, Padova, 1972, 250 ss., il quale rileva esplicitamente la priorità dell’elaborazione di Burckhardt rispetto a quella di Ross in Revisione costituzionale, ad vocem, in Enc. dir., vol. XL, Milano, 1989, 149 s. Ma già Mortati aveva sottoposto a critica la posizione di Burckhardt, osservando “come non sia giustificato estendere alle norme sulla revisione lo stesso carattere che si attribuisce alla costituzione da cui derivano, identificandosi così potere costituente e potere di revisione. In realtà la disciplina di quest’ultimo è da considerare eteronoma non autonoma, ed è appunto tale posizione che spiega la sussistenza di un problema di limiti”: C. MORTATI, Costituzione (Dottrine generali), ad vocem, in Enc. dir., vol. XI,

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La “polemica” fuori tempo con le tesi di Ross – che coglie l’occasione del dibattito sul messaggio presidenziale del 26 giugno 1991 – può avere solo il senso di rimettere in gioco il tema della rigidità assoluta delle norme sulla revisione.

Invero, le critiche alle posizioni logico-formali di Ross, che la dottrina italiana aveva avanzato, non avevano affatto condotto a concludere per la mera rigidità relativa-formale dell’art. 138 Cost.: Mortati, proprio confutando Ross, aveva invitato “ad escludere ogni generalizzazione”, per ritenere impraticabile il “mutamento apportato alle norme disciplinanti la revisione”, quando esso minacciasse la “conservazione del sistema”22; Esposito, con riferimento all’ordinamento statutario a Costituzione flessibile, si era orientato per l’immodificabilità assoluta delle disposizioni costituzionali, in carenza di una norma sulla revisione23, ma, nella sua costruzione teorica, la modificabilità della norma costituzionale sulla revisione è concepita come problema di diritto positivo, di interpretazione della Costituzione vigente24; anche per Crisafulli, di ogni mutamento delle norme costituzionali va verificata l’ammissibilità in chiave strettamente positiva25.

Insomma, un salda tradizione teorica, respingendo le ricostruzioni logico-formali, aveva bensì concluso per la modificabilità del procedimento disciplinato dall’art. 138 Cost., ma non oltre il limite di un nucleo intangibile, di un tratto essenziale da individuare sul piano dei valori.

Ora, se ci si interroga circa l’identificazione di tale nucleo – sulla quale la richiamata dottrina, pervenuta ad alcune chiare conclusioni sul piano del metodo, mantiene, nel merito, una certa sospensione di giudizio – occorre considerare che, nell’art. 138, è definito un punto di equilibrio tra esercizio della sovranità popolare attraverso i corpi rappresentativi ed esercizio diretto di essa: a ciò conduce la soluzione “di buon senso” voluta dai costituenti. Nel modello costituzionale, per quanto elasticamente concepito, il procedimento di revisione non è mai squilibrato verso la prevalenza assoluta della volontà popolare diretta, non dà campo a determinazioni di tipo plebiscitario. Il Parlamento possiede la chiave della revisione e, se esso in parte la rende inidonea allo scopo non potendo deliberare a maggioranza ampia, la dislocazione del potere verso l’intervento diretto del popolo è subordinata ad efficaci cautele: la necessità di una delibera parlamentare a maggioranza assoluta; la necessità di un’iniziativa referendaria, derivante da forze parlamentari o da rappresentanze politiche regionali, o anche da un quorum di elettori, ma di entità tale da favorire il ruolo di mediazione di forze partitiche o associative organizzate a livello nazionale. E, se è vero che la decisione ultima sulla revisione può risultare affidata anche ad una minoranza attiva del corpo

Milano, 1962, 205. Peraltro, Mortati riconduce la posizione di Burckhardt alle “correnti esistenzialiste”, per la “comunanza del presupposto storico” (ivi, nota 181), collocandola dunque in un contesto culturale molto lontano dall’elaborazione di Ross. Ed, invero, Mortati segnala, quando confuta le tesi di Ross, come questi, nonostante il “richiamo” a Burckhardt, non giunga mai “a negare la stessa giuridicità delle norme sulla revisione” (ivi, 208). 22 C. MORTATI, Costituzione (dottrine generali), cit., 208 s. Cfr. anche, dello stesso autore, Istituzioni di diritto pubblico, cit., 1245, ove si esclude il mutamento dello “stesso processo di revisione” inteso ad “eludere il principio di rigidezza della costituzione, da ritenere anch’esso elemento caratterizzante il regime delle garanzie”. 23 C. ESPOSITO, La validità delle leggi, Milano, 1934, 208. 24 Cfr., sulla posizione di Esposito, A. CERRI, La teoria dell’abrogazione della legge in costituzione flessibile ed il «paradosso» dell’onnipotenza del legislatore, in Atti del Convegno Il pensiero costituzionalistico di Carlo Esposito, Macerata, 5-6 aprile 1991, Milano, 1993, 255 ss. 25 Ed, invero, Crisafulli sottopone a critica il concetto di “limite logico” alla revisione costituzionale, sollevando obiezioni contro “il nucleo centrale della tesi del Mortati, secondo il quale il potere di revisione sarebbe sempre limitato, perché derivante dalla Costituzione e da questa disciplinato”: V. CRISAFULLI, Fonti del diritto (dir. cost.), ad vocem, in Enc. dir., vol. XVII, Milano, 1968, 939, nota 28. Egli imputa a Mortati di non avere condotto ad esiti coerenti la critica a Ross, apparendogli la costruzione mortatiana del potere di revisione come potere logicamente costituito, distinto da quello costituente, riecheggiare le tesi rossiane “che il limite alla revisione fanno consistere nelle norme costituzionali sul mutamento, poiché queste soltanto sono il fondamento positivo legittimante determinate fonti a modificare la costituzione: solamente con riferimento a quelle norme può quindi affermarsi un rapporto di condizionante a condizionato nei confronti della legge di revisione” (ibidem). Esposito, invece – mentre ritiene esaurito il potere costituente manifestatosi con il referendum istituzionale del 1946, e dunque sottratta alla revisione la forma repubblicana dello Stato – assume che esista un “potere costituente in costanza di ordinamento”, spettante al popolo, e idoneo ad essere esercitato nei confronti del “testo costituzionale come «legge»”, sia pure limitato nella forma (art. 138 Cost.) e nel contenuto (art. 139 Cost.): cfr. op. loc. cit.

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elettorale prevalente su una maggioranza anche ampia poco incline a partecipare, non essendo stabilito un quorum strutturale per la validità del referendum, è anche vero che ad un simile esito si potrebbe pervenire solo superando filtri procedurali (e politici) tanto stretti da escludere l’affermarsi di forme di “arbitrio popolare”, da escludere il prevalere della “massa” come entità incontrollata operante al di fuori del diritto26 ovvero di una “avanguardia” elitaria secondo una modalità estranea al principio democratico. Nel modello dell’art. 138 Cost., l’esercizio della sovranità popolare è, dunque, concepito come rigorosamente regolato, per “forme” e per “limiti” sostanziali.

Ed è appunto la compromissione di questo equilibrio tra sedi della rappresentanza e volontà popolare diretta, mediante lo spostamento verso quest’ultima dell’asse della decisione, che può far perdere all’art. 138 la sua funzione di garanzia; garanzia della Costituzione, precipuamente, non tanto delle minoranze e neppure del “popolo sovrano”, ma della Costituzione come obiettivo fondamento dell’assetto democratico dello Stato, in cui minoranze e popolo trovano le forme e i limiti delle loro funzioni e dei loro poteri versus il potere, anch’esso limitato, degli organi della rappresentanza.

Questo concetto di democrazia fu presente a chi – di fronte al messaggio del Presidente della Repubblica del 26 giugno 1991, che adduceva l’ipotesi di una consultazione popolare necessaria, introdotta secondo il procedimento stabilito dall’art. 138 Cost., per forzare i limiti “assoluti” posti alla revisione costituzionale – segnalò il rischio che si affermasse una nozione di “sovranità popolare” estranea al disegno costituzionale27.

Tuttavia, la critica “tardiva” al formalismo rossiano fu l’occasione per annodare il filo rosso di una linea teorica e culturale tendente a relativizzare la rigidità dell’art. 138 proprio nel punto cruciale del rapporto tra volontà delle sedi della rappresentanza e volontà diretta del popolo, filo rosso che avrebbe condotto a successive soluzioni derogatorie rispetto alla sequenza procedimentale disegnata dalla Costituzione, e che ancora permane in alcune letture di essa: in tal senso, veniva avanzata l’ipotesi di un “referendum propositivo o consultivo, da affiancare a quello previsto dall’art. 138 Cost., con valore, come è ovvio, non formale, ma idoneo … a dispiegare una segreta compulsione sulle remore e sui veti incrociati che bloccano le riforme”28; o, più radicalmente, assumendo appunto ad occasione una critica a Ross che dichiarava la propria derivazione da una lettura (in realtà in qualche misura decontestualizzata) dell’approccio storico-positivo e “realistico”

26 Su questi concetti, C. ESPOSITO, La Costituzione italiana. Saggi, Padova, 1954, 11. 27 Cfr. F. SORRENTINO, Commento al Messaggio presidenziale del 26 giugno 1991, in Giur. cost., 1992, 3338 s.: “In realtà è lo stesso concetto di sovranità popolare fatto proprio dal messaggio presidenziale che non può essere accolto. L’idea stessa di un «sovrano reale» in contrapposizione ad un «sovrano legale», se vale a sottolineare che il popolo è nell’attuale costituzione il titolare della sovranità, giusta la proclamazione dell’art. 1, appare, dal punto di vista giuridico, assai confusa… La Costituzione, invero, … non pone il popolo come forza primigenia anteriore e superiore ad essa, ma lo regola e lo organizza attribuendogli poteri e segnandone i limiti … In quest’ottica la stessa previsione di un meccanismo di revisione più duttile di quello dell’art. 138, sia pure stabilito nelle forme da questo previste, nella misura in cui comporti maggioranze più basse di quelle oggi vigenti e/o un intervento popolare non eventuale (e sollecitato dalla minoranze), ma obbligatorio e d’ufficio, rischia di alterare i connotati fondamentali … della nostra Costituzione … Sotto il profilo sostanziale, poi, … il richiamo al popolo come sovrano reale finirebbe col collocarne la posizione al di fuori della Costituzione, non potendosi ovviamente immaginare che la sovranità popolare, che si esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione, sia la stessa ad esercitarsi in forme diverse ed al di là di quei limiti”. Cfr. anche A. PACE, Commento, ivi, 3310, sulla proposta di introdurre un referendum “non eventuale, facoltativo e su richiesta, ma obbligatorio e d’ufficio”: “… tale proposta … stravolge la struttura del procedimento di revisione ex art. 138”, stravolgendo altresì la “sintesi mirabile” realizzata dai costituenti tra “sovranità popolare, democrazia partecipativa e istituti di rappresentanza” (sintesi alla quale, per vero, lo stesso messaggio presidenziale faceva richiamo). In termini altrettanto critici, secondo un approccio più generale, M. LUCIANI, Commento, ivi, 3281 s.: “… le regole della revisione sono dunque intangibili nella (sola) loro essenza di valore. Ciò però non toglie che la loro posizione resti peculiare e differenziata. La delegittimazione (meglio: il tentativo di delegittimazione) delle regole sulla revisione si traduce perciò puntualmente nella delegittimazione (nel tentativo di delegittimazione) dell’intera Costituzione. E se una Costituzione viene delegittimata, la sola strada che resta aperta è il ricorso al «potere costituente», il solo capace di dettarne un’altra”. 28 A. CERRI, Commento, cit., 3238.

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di Mortati29, si perveniva a condividere l’ipotesi di un “referendum confermativo obbligatorio nel procedimento di revisione costituzionale”, in modo da accentuare “il profilo deliberativo dell’intervento popolare”, ipotesi ritenuta conforme ai “valori essenziali o «principi supremi» alla cui osservanza è condizionata la conservazione … del vigente ordinamento costituzionale”30.

Queste tesi conservano l’ambiguità di fondo dell’occasione che le ha generate. La pretesa di modificare la Costituzione oltre i limiti della rigidità formale sul fondamento della revisione dell’art. 138 presenta un’aporia teorica fondamentale: l’assolutezza del limite implicito (un limite che non tollera di essere superato per vie legali) dovrebbe essere elusa attraverso la correzione del procedimento di revisione, ritenendosi che, grazie ad un’attenuazione della rigidità formale, ottenuta facendo prevalere l’appello diretto al popolo su ogni volontà parlamentare, si possa attingere un livello di previsione costituzionale altrimenti sottratto alla volontà di una qualsiasi maggioranza. Qui, evidentemente, non viene tanto in discussione la garanzia della minoranza come schieramento parlamentare (circondata dalle richiamate cautele), quanto – più radicalmente – la funzione della Costituzione come garanzia delle minoranze – nel sistema, non solo nel Parlamento – garanzia qualificata dalla titolarità dei diritti inviolabili e affermata nei confronti di qualsiasi maggioranza, non solo parlamentare, ma anche coagulatasi nelle determinazioni dirette del popolo. Lungo questa via – cioè lungo la via che tende ad assolutizzare il potere del popolo sovrano, sottraendolo alla dimensione storica che non lo concepisce se non come limitato dalla regola costituzionale – si potrebbe anche smarrire il senso profondo della tutela giuridica dei diritti fondamentali: se tali diritti, oltre che garantiti dalla rigidità assoluta della Costituzione, sono anche “divenuti coessenziali all’esperienza politica dell’uomo”31, l’evento che li travolga è bensì qualificabile come “costituente”, quanto alla forza dissolutiva dell’ordine esistente, ma non è concepibile come inteso alla creazione di un nuovo ordine costituzionale. Esso travolgerebbe bensì la Costituzione esistente, ma negherebbe anche il costituzionalismo stesso, come esperienza storica: il riconoscimento di una sovranità popolare assoluta condurrebbe a questo esito, estremo, ma conseguente alle premesse.

5. Dalla rottura “maggiore”(proposta) alle rotture “minori” (praticate, rectius prospettate).

– Occorre, peraltro, riconoscere che gli scenari evocati per i toni di quel dibattito e le inquietudini da essi derivanti non hanno trovato riscontro nella dimensione delle rotture costituzionali introdotte al fine di semplificare il processo politico di revisione.

Invero, procedimenti derogatori all’art. 138 della Costituzione sono stati bensì previsti, ma non al fine dichiarato di attingere il nucleo della rigidità assoluta: si è, invece, ritenuto di rendere praticabile, per questa via, una “riforma” maggiore della Costituzione, volta a mutare “organicamente” intere parti di essa – in specie tutta la Parte Seconda – e tuttavia assunta come conforme ai princìpi “di regime”. Si perviene così a quella che è stata qui individuata come la seconda linea di affievolimento del carattere “consensuale” del procedimento disciplinato dall’art.

29 P. A. CAPOTOSTI, Commento, ivi, 3224: “… va richiamata la definizione del Mortati sul carattere «semi-rappresentativo» della democrazia, in quanto si tratterebbe di un sistema rappresentativo, che però annovera consistenti istituti di democrazia diretta. Nell’ambito di questo sistema possono dunque coesistere diverse accentuazioni o del carattere «rappresentativo» o del carattere «diretto» della nostra democrazia, senza peraltro alterare i valori fondamentali che identificano il vigente ordinamento”. Ove il riferimento al pensiero di Mortati appare troppo generico: la ricostruzione che valuta il rapporto tra democrazia diretta e democrazia rappresentativa nel sistema italiano (rapporto peraltro diseguale, a vantaggio della democrazia rappresentativa, com’è tipico degli assetti statali contemporanei ispirati al “principio repubblicano”) si colloca su un piano troppo preliminare rispetto alla questione dell’equilibrio tra deliberazione parlamentare e volontà popolare diretta nel procedimento di revisione. Tale ultima questione è, invero, considerata da Mortati secondo un approccio molto specifico, che la connette, dal punto di vista teorico, al tema della rigidità assoluta, come questa si sostanzia nel concetto di costituzione in senso materiale. Trarre esiti argomentativi da alcune notazioni che presentano un legame indiretto con il problema dei limiti alla revisione dell’art. 138 e pretermettere la complessa elaborazione ex professo compiuta da Mortati sul tema della rigidità assoluta non sembra metodologicamente condivisibile. 30 Ibidem. 31 M. LUCIANI, Commento, cit., 3285.

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138 Cost.: questo viene concepito come pura modalità tecnica della revisione, sradicata dal suo retroterra storico e tale da doversene attenuare gli effetti di rallentamento e di moderazione della decisione politica intesa alla “riforma” della Costituzione.

In tale linea si sono successivamente collocate la legge costituzionale 6 agosto 1993, n. 1, istitutiva della prima Commissione bicamerale per le riforme istituzionali, e poi la legge costituzionale 24 gennaio 1997, n. 1, intesa a costituire una Commissione bicamerale per l’elaborazione di un “progetto di revisione della parte II della Costituzione”, di cui la prima costituisce il “precedente” (“pesante come un macigno”, come rilevato dalla dottrina più critica nei confronti di siffatte modalità di intervento sul testo costituzionale32).

Tra le due vicende – di “tentata riforma” della Costituzione – vi sono effettivamente tratti comuni, che le fanno ricondurre ad una stessa matrice culturale: a) il convincimento che una revisione costituzionale ampia – e solo in quanto tale utile a superare quella che viene ritenuta una crisi di sistema – non possa compiersi se non sottraendola alle lentezze e alle farragini prefigurate dall’art. 138 Cost., introducendo dunque un procedimento derogatorio, conforme alle straordinarie necessità del momento, dunque destinato ad essere applicato una sola volta33 e tale da non degradare il rango gerarchico delle norme costituzionali prodotte, suscettibili di essere a loro volta modificate solo con il procedimento di revisione previsto in via generale34; b) la ravvisata necessità di bilanciare il quantum di semplificazione del procedimento, ottenuto derogando all’art. 138 in ordine alla fase della deliberazione parlamentare, con la previsione di un referendum confermativo necessario35.

Sul primo versante – quello della semplificazione del procedimento parlamentare – l’effetto di accelerazione del dibattito (dunque di ridimensionamento delle garanzie) veniva ricercato, nelle due leggi costituzionali del 1993 e del 1997, sia attraverso la previsione della sola maggioranza assoluta nella seconda deliberazione da parte di ciascuna Camera, sia attraverso il contingentamento dei tempi nella Commissione bicamerale, l’esclusione delle questioni pregiudiziali, sospensive e di non passaggio agli articoli in Commissione e in Assemblea, e attraverso la necessità del voto palese36.

32 A. PACE, Processi costituenti italiani 1996-97, in Dir. pubbl., 1997, 595. 33 In tal senso, nel corso di un dibattito parlamentare in cui si manifestarono anche posizioni avverse alla modalità di revisione in deroga all’art. 138 Cost., cfr., in Atti Senato, XIII legislature, 39^ seduta pubblica, 30 luglio 1996, gli interventi del senatore Villone, allora Presidente della Commissione affari costituzionali (“… nego che si tratti di uno strappo così violento come qualcuno prospetta. Credo invece che la disciplina, così come viene articolata, rimanga complessivamente nell’ambito del modello di cui all’art. 138 della Costituzione e risponda pienamente all’ispirazione dello stesso articolo, tenendo conto del fatto che non si può negare la particolarità di questa specifica occasione e di questa specifica fase di riforma che giustifica, ritengo, la diversità rispetto al modello stabilito, pur mantenendosi nell’ambito di una piena coerenza e di una piena razionalità che consentono, come dicevo, di riportare questa disciplina al modello generale di cui all’art. 138”, e, sulla continuità con la soluzione apprestata con la legge costituzionale n. 1 del 1993: “… Vorrei aggiungere infine che abbiamo un precedente specifico. Il che, per quanto riguarda la decisione dei Parlamenti, come è noto, è sempre un fatto importante.”), e del senatore Andreotti (“… Non credo che in questo caso si voglia toccare l’articolo 138 della Costituzione, che rimane nella sua integrità; qui si stabilisce che per questo esercizio particolare, di riforma costituzionale, si segue una determinata strada e quindi nulla si tocca, in via generale, dell’art. 138 …”). Analoghe posizioni in Atti Camera, XIII legislatura, 1° agosto 1996: cfr. l’intervento del deputato De Mita (“… L’art. 138 definisce, e con una certa rigidità, le procedure di revisione costituzionale. Questo è vero; credo però che la nostra riflessione non vada riferita alla modifica di questa procedura, alla modificabilità in assoluto …, ma alla straordinarietà che impone alle forze politiche di recuperare una distrazione, direi storicamente giustificata, determinata da una mancata politica costituente nel nostro Paese da quando è stata fatta la Costituzione … La questione relativa all’art. 138 secondo me si spiega benissimo perché noi conveniamo di adottare una procedura straordinaria con riferimento ad alcune parti definite della Costituzione.”). 34 Cfr. art. 5 l. cost. n. 1 del 1993: “Per la modificazione delle leggi costituzionali od ordinarie approvate secondo quanto stabilito dalla presente legge costituzionale, si osservano le norme di procedura rispettivamente previste dalla Costituzione”, e art. 5, c. 2, l. cost. n. 1 del 1997: “Per la modificazione della legge costituzionale approvata secondo quanto stabilito dalla presente legge costituzionale, si osservano le norme di procedura previste dalla Costituzione”. 35 Cfr. art. 3 legge cost. n. 1 del 1993 e art. 4 legge cost. n. 1 del 1997. 36 Cfr. art. 2, c. 2, legge cost. n. 1 del 1993: “Nel corso dell’esame davanti alle Assemblee si osservano le norme dei rispettivi regolamenti. Non sono ammesse questioni pregiudiziali, sospensive, per il non passaggio all’esame degli articoli o per il rinvio in Commissione. Fino a cinque giorni prima della data fissata per l’inizio della discussione

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Peraltro, alla omogeneità delle soluzioni normative nelle due vicende di legislazione costituzionale intesa alla “riforma” faceva riscontro la radicale diversità delle prospettive di implementazione: nel 1997, infatti, erano state già messe in opera le nuove formule elettorali, e la composizione delle Camere corrispondeva all’inedito assetto dei rapporti determinato dal peculiare modello “maggioritario corretto” intanto introdotto in Italia. Il “precedente specifico”37 del 1993 era tale, dunque, solo dal punto di vista dell’omogeneità delle forme; non lo era in una prospettiva di sistema, essendo troppo mutate le relazioni tra le forze parlamentari e tra queste e i meccanismi della legittimazione.

Più in particolare, anche nel 1993, il motore della “riforma” costituzionale aveva tratto avvio dalla crisi del sistema partitico e dal tentativo di superare una fase di transizione – allora già percepita come troppo prolungata e dunque troppo rischiosa – apprestando risposte normative: trasponendo le dinamiche di tale crisi dal campo delle relazioni politiche al quadro istituzionale, nel tentativo di trovare in questo, in esiti di stabilità e di efficienza, un meccanismo di razionalizzazione. E tale esigenza sarebbe ritornata come pressante anche nel 1997. Ma nella prima vicenda, la semplificazione del procedimento di revisione costituzionale si poneva un obiettivo lineare e diretto: semplificare la decisione, renderla possibile alle condizioni date di frammentazione partitica e di estenuata quanto improduttiva ricerca di convergenze tanto larghe da poter fondare riforme istituzionali maggiori.

Nel 1997, invece, l’obiettivo si mostrava più specifico, ritagliato sul nuovo scenario. La deroga al procedimento prescritto dall’art. 138 Cost. obbediva all’esigenza di modellare la

sequenza sulle contingenti combinazioni politico-parlamentari. L’applicazione della nuova formula elettorale aveva attribuito allo schieramento vincente una maggioranza ancora relativamente ristretta. Cominciava a manifestarsi un fenomeno destinato poi a consolidarsi, cioè la traslazione (e dunque la crescita) del potere di condizionamento delle forze minori già alla fase di composizione delle coalizioni, rese necessarie dalla nuova formula elettorale: poiché si fronteggiano schieramenti raccolti intorno a partiti maggiori di consistenza non diseguale, diviene decisiva l’alleanza con partiti dal seguito elettorale relativamente limitato o territorialmente definito, ma tale da poter determinare la prevalenza della coalizione o la sua sconfitta. La trattativa di tali partiti minori con le forze maggiori di ciascuno schieramento si svolge anzitutto sulla distribuzione delle candidature nei collegi uninominali, e nel corso di essa essi possono ottenere (normalmente ottengono) che si creino le condizioni per rappresentanze parlamentari più consistenti di quanto sarebbe possibile fondare sul grado di diffusione del rispettivo consenso. Si manifesta, perciò, l’insuperata tendenza alla frammentazioni partitica, che, prima della riforma elettorale, consentiva rendite di posizione in Parlamento, prodotte dal “potere di coalizione” che ciascuna forza riusciva a far valere in sede di formazione e di conservazione in vita del Governo, dopo campagne elettorali condotte separatamente; nella fase successiva alla riforma, il “potere di coalizione” sarà stato già utilizzato in fase pre-elettorale e avrà dato il suo prodotto a ciascuna forza quando il nuovo Parlamento si

generale, i componenti dell’Assemblea possono presentare emendamenti al testo della Commissione, in diretta correlazione con le parti modificate, e ripresentare gli emendamenti respinti dalla Commissione. La Commissione può presentare emendamenti o subemendamenti fino a quarantotto ore prima dell’inizio della seduta in cui è prevista la votazione degli articoli o degli emendamenti ai quali si riferiscono. Agli emendamenti della Commissione, che sono immediatamente stampati e distribuiti, possono essere presentati subemendamenti da parte di almeno un presidente di Gruppo o di almeno dieci deputati o cinque senatori fino al giorno precedente l’inizio della seduta in cui è prevista la votazione a tali emendamenti”; e art. 3, c. 3, legge cost. n. 1 del 1997: “Nel corso dell’esame davanti alle Assemblee si osservano le norme dei rispettivi regolamenti. Il voto è palese. Non sono ammesse questioni pregiudiziali, sospensive, di non passaggio agli articoli, di rinvio in Commissione. Fino a cinque giorni prima della data fissata per l’inizio della discussione generale, i componenti dell’Assemblea possono presentare emendamenti al testo della Commissione, in diretta correlazione con le parti modificate, e ripresentare gli emendamenti o subemendamenti fino a quarantotto ore prima dell’inizio della seduta in cui è prevista la votazione degli articoli o degli emendamenti ai quali si riferiscono. Agli emendamenti della Commissione, che sono immediatamente stampati e distribuiti, possono essere presentati subemendamenti da parte di un presidente di Gruppo o di almeno venti deputati e dieci senatori fino al giorno precedente l’inizio della seduta in cui è prevista la votazione di tali emendamenti”. 37 La formula è dell’allora Presidente della Commissione Affari Costituzionali del Senato: cfr. supra nota 33.

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insedia, sicché il potere di condizionamento di ciascuna componente è maggiore quanto alla capacità di orientare le decisioni parlamentari e dunque le politiche della coalizione che esprime il Governo.

Tuttavia, le componenti della maggioranza possono più difficilmente spingere il conflitto oltre la soglia della crisi di Governo. Invero, da una parte, dapprima si è manifestata, poi si è consolidata la conventio di attribuire la carica di Presidente del Consiglio al leader della coalizione elettorale vincente; d’altronde, si è appreso poi dall’esperienza che un eccesso di conflitto, tale da provocare una crisi di Governo, se può essere assorbito nelle dinamiche delle forma parlamentare, conducendo ad un nuovo Governo con un diverso Presidente del Consiglio, è esposto alla sanzione dell’elettorato, poiché è più visibile e meglio assoggettato al circuito della responsabilità di quanto non potesse avvenire nell’indistinto “multipartitismo estremo” che aveva caratterizzato le vicende anteriori alla riforma elettorale del 1993.

Se si tiene conto di questo scenario, la soluzione apprestata con la legge costituzionale n. 1 del 1997 presenta tratti di “unicità”, ma in senso diverso da quanto avevano concepito i suoi autori parlamentari: questi nutrivano l’intenzione di introdurre una “grande riforma” costituzionale derogando – per le difficoltà intrinseche della decisione – all’art. 138 Cost.; ma derogando “una sola volta”, sul presupposto che la razionalizzazione del sistema politico-istituzionale ottenuta per la via della revisione della Parte Seconda della Costituzione avrebbe reso accettabile il ritorno al precedente grado di rigidità del testo.

I fatti avrebbero poi dimostrato che la “unicità” della legge del 1997 risiedeva, invece, nelle condizioni parlamentari date: esse imponevano di realizzare un compromesso tra le forze maggiori dei due schieramenti, vincendo il potere di interdizione delle forze minori. La regola della maggioranza assoluta corrispondeva allo scopo: realizzare un nuovo compromesso costituzionale preparato e condotto attraverso il compromesso politico-parlamentare. Ma v’era anche – consequenzialmente – la necessità di legittimare tale compromesso con il suffragio della volontà popolare diretta (è questa l’esigenza di “bilanciamento” come funzione del referendum, cui si faceva sopra cenno). Si trattava di un rilevante mutamento del significato attributo all’istituto di democrazia diretta: non più tanto strumento “oppositivo” nelle mani della minoranza soccombente in Parlamento, ma strumento inteso a sostenere a posteriori le scelte della maggioranza parlamentare.

Questo mutamento di segno – o, se si vuole, forse più propriamente, il manifestarsi di una doppia valenza in parte già intrinseca nel referendum previsto dall’art. 138 Cost., ma portata ad implicazioni più nette con la legge costituzionale del 1997 – è rivelato da due scelte normative: la previsione di un quorum strutturale per la validità della consultazione referendaria; la previsione di un “unico referendum popolare” (art. 4, l. cost. n. 1 del 1997).

Quanto alla necessità che al referendum partecipasse “la maggioranza degli aventi diritto”, è evidente l’intento di ottenere un effetto di legittimazione della decisione parlamentare, effetto non conseguibile secondo la regola generale stabilita dall’art. 138 Cost., il quale, com’è noto, non prevede un quorum di validità. Ma di quale tipo di legittimazione si trattasse è reso evidente dalla disciplina del quesito, unico sul testo della delibera legislativa, pur dichiaratamente destinata a recare un intervento molto articolato, sull’intera Parte Seconda della Costituzione. Tale intrinseca disomogeneità del quesito, per il necessario riferimento a norme prive di “matrice razionalmente unitaria”, avrebbe potenzialmente attribuito alla pronuncia popolare il segno dell’adesione plebiscitaria (o del rigetto, con conseguenze politiche non eludibili, in caso di esito negativo della consultazione su un “indirizzo politico costituzionale” voluto dalle forze parlamentari maggiori)38. I dubbi su tale esito, pur sollevati in sede di lavori preparatori della legge costituzionale n. 1 del

38 Tale modalità di impiego del referendum veniva ricostruita come extra ordinem, manifestazione di “una logica politico-istituzionale che non è certamente quella che portò i costituenti ad adottare l’art. 138…” da C. DE FIORES, La Commissione bicamerale per le riforme istituzionali e l’art. 138 Cost.: i paradossi di una riforma, in Giur. Cost., 1993, passim e spec. 1559 ss.

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199739, furono contrastati e infine soffocati col richiamo alle “straordinarie” esigenze della fase storica, che, dall’osservatorio parlamentare, si pervenne a qualificare impropriamente come “costituente”40, e certo non appariva solo connotata da un obiettivo di mutamento profondo nella forma di governo e nelle relazioni tra centro e periferia, ma anche segnata da una concezione del rapporto con la volontà popolare intesa come semplificata e diretta. In tal senso, ove non v’era “matrice razionalmente unitaria” del quesito referendario – secondo il consolidato orientamento della Corte costituzionale, riferito al referendum abrogativo, ma che si poteva considerare estensibile, per il suo pregio logico generale, anche al referendum confermativo41 – si riteneva potesse darsi “matrice politicamente unitaria” di esso e, più in generale, delle scelte istituzionali che si venivano compiendo: al fondo, si affermava un’idea generale (che forse era anche una risposta alla crisi di ruolo del sistema partitico) di prevalenza della ragion politica sulla stringente razionalità giuridica42.

39 Cfr. (in Atti Senato, seduta pubblica del 30 luglio 1996, cit.), per esempio, le “fiere perplessità sull’art. 4” del disegno di legge dichiarate dal senatore Smuraglia, in considerazione della “estrema” difficoltà di “immaginare un referendum – che deve essere su materie omogenee – su un elenco di materie a dir poco complesso, come quello che è formulato nell’art. 1”; il senatore Marino faceva riferimento ad una “convergenza” politica impropria tra schieramenti parlamentari, “avvenuta sulla violazione dell’articolo 138 della Costituzione e sul referendum unico”, in forza della quale si sarebbe costretto “l’elettorato … ad esprimersi su un unico testo contenente il nuovo modello di Stato e di Governo”; il senatore Manconi riteneva non convincente “l’articolo che prevede di sottoporre a un unico referendum la disciplina costituzionale approvata”. Ma si trattava di posizioni espresse da forze di consistenza minore o da piccole minoranze interne ai partiti maggiori. 40 Cfr. la Relazione introduttiva del Presidente della Commissione parlamentare per le riforme costituzionali on. Massimo D’Alema, resa il 30 giugno 1997, passim. Cfr. anche le dichiarazioni del senatore D’Onofrio (in Atti Senato, seduta pubblica del 30 luglio 1996, cit.): “… questa è una legislatura costituente. Ci siamo battuti fin dall’inizio perché la natura costituente di questa legislatura si affermasse …”. 41 Per la necessità che anche il quesito nel referendum ex art. 138 Cost. abbia “matrice razionalmente unitaria”, cfr. la copiosa dottrina coeva alle leggi costituzionali n. 1 del 1993 e n. 1 del 1997, nella quale si segnalano: M. DOGLIANI, Potere costituente e potere costituito, in Alternative, 1996, n. 4, 65 ss.; R. ROMBOLI, Le regole della revisione costituzionale, in AA.VV., Cambiare o modificare la Costituzione?, a cura di E. Ripepe e R. Romboli, Torino, 1995, 91 ss.; R. TARCHI, Leggi costituzionali e di revisione costituzionale, in AA.VV., Commentario della Costituzione, a cura di G. Branca e A. Pizzorusso, Bologna-Roma, 1995, 281; M. VOLPI, Referendum (dir. cost.), in Dig. disc. pubbl., vol. XII, Torino, 1977, 516; A. PACE, Problemi della revisione costituzionale in Italia: verso il federalismo e il presidenzialismo?, in Studi parl. pol. cost., 1995, 15; G. FERRARA, La revisione costituzionale come sfigurazione: sussidiarietà, rappresentanza, legalità e forma di governo nel progetto della Commissione bicamerale, in Pol. dir., 1998, 97. Sul tema, per tesi analoghe, da ultimo, M. PIAZZA, Una rilettura dei limiti alla revisione costituzionale, in Quaderni costituzionali, n. 4, 2004, 892 ss. Contra: G. SALERNO, Referendum, ad vocem, in Enc. dir., vol. XXXIX, Milano, 1988, passim; S. PANUNZIO, Le forme ed i procedimenti per l’innovazione, in AA.VV., La riforma costituzionale, Padova, 1999, 38 ss.; A. BALDASSARRE, Il «referendum» costituzionale, in Quaderni costituzionali, 1994, 254. E’ coerente con la tesi della necessaria omogeneità del quesito anche per il referendum che si colloca nel procedimento di revisione costituzionale ritenere inammissibile il mutamento “globale” e “sistematico” della Costituzione, la quale invece consentirebbe solo modifiche limitate e puntuali, tali appunto da far risultare le norme di revisione dotate di “matrice razionalmente unitaria”: cfr. A. PACE, Processi costituenti italiani 1996-97, cit., 599. Il divieto di revisioni non riferite a “particolari previsioni” è, in qualche caso, previsto dal testo costituzionale. Cfr., in tal senso, la Costituzione del Regno di Norvegia, art. 112, nel testo inglese disponibile sul sito del governo norvegese (http://odin.dep.no.htlm): «If experience shows that any part of this Constitution of the Kingdom of Norway ought to be amended, the proposal to this effect shall be submitted to the first, second or third Storting after a new General Election and be publicly announced in print. But it shall be left to the first, second or third Storting after the following General Election to decide whether or not the proposed amendment shall be adopted. Such amendment must never, however, contradict the principles embodied in this Constitution, but solely relate to modification of particular provisions which do not alter the spirit of the Contitution, and such amendment requires that two thirds of the Storting agree thereto. An amendment to the Constitution adopted in the manner aforesaid shall be signed by the President and the Secretary of the Storting and shall be sent to the King for public announcement in print, as an applicable provision of the Constitution of the Kingdom of Norway.» 42 Ciò che è parso evidente a chi, sostenendo l’illegittimità della legge costituzionale n. 1 del 1997 e della revisione eventualmente introdotta sul fondamento di questa, riconosceva tuttavia la pratica inapplicabilità di sanzioni giuridiche: cfr. A. PACE, loc. ult. cit.

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Un tale radicamento della legge costituzionale n. 1 del 1997 nella fase politica contingente ne qualifica la non riproducibilità. Se si guarda a quella vicenda attraverso l’esperienza maturata più tardi, la si può considerare come l’estremo tentativo di realizzare una nuova “consensualità” intorno ad una revisione ampia della Costituzione. Assumendosi esaurita – soprattutto in ragione delle nuove formule elettorali e del mutato contesto partitico – la capacità dell’art. 138 Cost. di condurre a determinazioni politiche largamente condivise, di cui tuttavia si continuava a percepire l’opportunità, veniva stabilita una diversa sequenza procedimentale, ritenuta idonea a decisioni efficaci e legittimate. Il mancato conseguimento dell’obiettivo – il procedimento prefigurato dalla legge costituzionale n. 1 del 1997 non fu posto in essere in tempo utile, per il mancato accordo sulle soluzioni di merito da parte delle forze politiche che si erano intese sulle forme – segnava l’improponibilità di ulteriori deroghe all’art. 138 Cost. E la constatata impossibilità di porre in essere un nuovo modulo consensuale avrebbe condotto sulla via della revisione a maggioranza ristretta e al mutare della funzione riconoscibile al referendum previsto dall’art. 138 Cost.

6. La revisione come atto della maggioranza di governo e la mutazione del referendum

confermativo. – Il nuovo modello decisorio, che è stato condotto a compimento per la prima volta con le legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3, segna una discontinuità radicale sia nel raffronto con l’esperienza storica delle revisioni sia con riguardo ai tentativi di individuare forme derogatorie più consone al mutato contesto politico: sempre, infatti, la condivisione ampia del mutamento costituzionale era stata praticata o prefigurata anche dalle forze politiche e parlamentari – in una certa fase prevalenti – secondo le quali la sequenza dell’art. 138 Cost. doveva ritenersi obsoleta e costrittiva. Mai si era ritenuto di trasferire il conflitto politico contingente sul piano delle leggi di revisione.

La cesura con l’intera esperienza pregressa è troppo evidente perché la si possa negare. Vero è che – quando si compiva il procedimento che avrebbe condotto alla legge costituzionale n. 3 del 2001 – vi erano già stati interventi di revisione a maggioranza ristretta43. Ma essi non sono assimilabili alla legge costituzionale che ha interessato l’intero Titolo V della Costituzione; non lo sono per dimensione e non lo sono quanto al conseguente disporsi dei rapporti tra forze parlamentari: ciò che si rivela agevolmente ad un esame appena più approfondito del procedimento legislativo (e alla interpretazione non meramente letterale del parametro apprestato dall’art. 138 Cost.). Si può considerare: in sede di seconda deliberazione della legge costituzionale 17 gennaio 2000, n. 1, recante “Modifica all’art. 48 della Costituzione concernente l’istituzione della circoscrizione Estero per l’esercizio del diritto di voto ai cittadini italiani residenti all’estero”, la maggioranza dei due terzi non veniva conseguita44; ma non si può certo ritenere che si fosse costituito allora un fronte parlamentare corrispondente alla maggioranza di governo, contrapposto ad uno schieramento di opposizione contrario all’approvazione della legge di revisione. Che non fosse così è dimostrato dalla marginalità quantitativa delle posizioni contrarie o di astensione, ascrivibili a gruppi di consistenza molto limitata o a singoli parlamentari in dissenso dai gruppi di appartenenza45. Il mancato conseguimento della maggioranza dei due terzi, in casi siffatti, non si colloca sulla linea di tensione maggioranza/opposizione, ma deve piuttosto ascriversi alla difficoltà quasi materiale di ottenere l’assenso di una quota tanto estesa di parlamentari in collegi tanto

43 Casi siffatti sono richiamati da R. BIN, Riforme costituzionali “a colpi di maggioranza”: perché no?, in Quaderni costituzionali, www.unife.it/forumcostituzionale/contributi . Contro la “giustificazione”, sulla base dei “precedenti”, di revisioni approvate a maggioranza ristretta, A. CHIAPPETTI, Di “colpi di maggioranza ne basti uno!, ivi. 44 Alla Camera, il d.d.l. n. 5186-B veniva approvato, in seconda deliberazione, nella seduta del 30 giugno 1999, con 383 voti favorevoli, 17 contrari e 15 astenuti; al Senato, il d.d.l. n. 3841-B veniva approvato nella seduta del 29 settembre 1999, con 205 voti favorevoli, 17 contrari e 13 astenuti. 45 Cfr. Atti Camera, seduta antimeridiana n. 558 del 30 giugno 1999, dichiarazioni di voto contrarie per il gruppo Misto, verdi-l’Ulivo, per il gruppo Misto, Rifondazione comunista; di astensione del gruppo Comunista e del gruppo Lega Nord. E cfr. Atti Senato, seduta pomeridiana n. 678 del 28 settembre 1999, dichiarazioni di voto contrarie del gruppo Misto, Comunista; Misto, Rifondazione comunista; Misto; e, in dissenso dai gruppi di appartenenza, dei senn. Fulvio Camerini (gruppo D.S.-Ulivo), Tana De Zulueta (D.S.-Ulivo); Gian Giacomo Migone (D.S.-Ulivo).

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numerosi quali le Camere parlamentari in Italia (a riprova di un certo meccanico “eccesso di ruolo” che residua in ogni caso anche a minoranze ristrette nei procedimenti aggravati di revisione costituzionale, secondo le previsioni e le preoccupazioni dei costituenti46). Il consenso parlamentare intorno alla revisione era, dunque, diffuso e saldo, oltre quanto non potesse emergere dalla “tecnica di deliberazione” imposta in via generale dall’art. 138 Cost. Ed, infatti, il mancato conseguimento della maggioranza dei due terzi non condusse certo alla richiesta di referendum confermativo/oppositivo, come invece sarebbe certamente avvenuto nel caso di un significativo dissenso parlamentare.

Considerazioni analoghe possono farsi con riferimento alla legge costituzionale 23 gennaio 2001, n. 1, “Modifiche agli articoli 56 e 57 della Costituzione concernenti il numero di deputati e senatori in rappresentanza degli Italiani all’estero”47, nel cui procedimento di formazione le posizioni contrarie appaiono di consistenza quantitativa particolarmente modesta, specie al Senato; e, con ancor più chiaro fondamento, alla legge costituzionale 31 gennaio 2001, n. 2, “Disposizioni concernenti l’elezione diretta dei Presidenti delle Regioni a Statuto speciale e delle Province autonome di Trento e Bolzano”, che ha conseguito la maggioranza dei due terzi alla Camera, senza pervenire ad esito analogo al Senato, in tutta evidenza per la scarsa presenza in aula al momento della votazione48, e ciò benché, a giudicare dal dibattito parlamentare, la contrapposizione politica, senza pervenire a rimarchevole intensità, fosse tuttavia più serrata che nei richiamati casi in cui la maggioranza qualificata non è stata raggiunta in nessuno dei due rami del Parlamento49, a conforto della prudenza con la quale deve essere valutato il significato politico del mancato conseguimento di maggioranze particolarmente ampie, il cui coagularsi può dipendere da contingenze in cui non mancano elementi di casualità.

Siffatto modulo – approvazione della legge di revisione a maggioranza ristretta pur in assenza di contrapposizioni politiche radicali e dunque senza che segua proposta di referendum confermativo – è stato messo in opera anche successivamente alla vicenda della legge costituzionale n. 3 del 200150. Di questa, tuttavia, esso non presenta l’identico segno. Il suo affermarsi dimostra

46 Cfr., supra, par. 2. 47 Al Senato, il d.d.l. n. 4518-B veniva approvato, in seconda deliberazione, nella seduta del 5 ottobre 2000, con 194 voti favorevoli, 6 contrari e 19 astenuti, con la sola dichiarazione di voto contrario, in dissenso dal gruppo di Forza Italia, del sen. Ettore Antonio Rotelli (cfr. Atti Senato, seduta antimeridiana n. 919 del 5 ottobre 2000); e, alla Camera, il d.d.l. n. 4979-D veniva approvato, in via definitiva, con 406 voti favorevoli, 49 contrari e 30 astenuti, con dichiarazioni di voto contrario del gruppo Misto-Rifondazione Comunista; Misto; Popolari Democratici-Ulivo (cfr. Atti Camera, seduta antimeridiana n. 793 del 18 ottobre 2000). 48 Alla Camera, nella seduta antimeridiana n. 798 del 25 ottobre 2000, il d.d.l. n. 168-D conseguiva, in seconda deliberazione, 434 voti favorevoli, 50 contrari e 14 astensioni; al Senato, nella seduta antimeridiana n. 919 del 5 ottobre 2000, il d.d.l. n. 4368-B conseguiva, in seconda deliberazione, 170 voti favorevoli, 52 contrari, 13 astensioni. 49 Si consideri una certa consistenza dei voti contrari (sia pure in netta flessione, specie in termini relativi, nel passaggio dal Senato alla Camera per l’ultima lettura) e le posizioni contrarie o di astensione – più significative alla Camera, per la maggiore partecipazione alla seduta – di interi gruppi (Atti Camera, richiamata seduta n. 798 del 2000, dichiarazioni di voto contrario dei gruppi Rifondazione Comunista, Lega Nord Padania, e di astensione dei gruppi Misto-CDU e Alleanza Nazionale) o di singoli parlamentari anche in dissenso dal gruppo (Franco Frattini, del gruppo Forza Italia, contrario a titolo personale; Pietro Mitolo, del gruppo Alleanza Nazionale, contrario a titolo personale). Qualche tensione interna ai gruppi di rivela anche nel voto favorevole in dissenso a titolo personale (Giuseppe Calderisi, del gruppo Misto-Patto Segni; Marco Boato, del gruppo Misto-Verdi Ulivo; Massimo Grillo, del gruppo Misto-CDU; Francesco Paolo Lucchese, del gruppo Misto-CCD) 50 Cfr. legge costituzionale 30 maggio 2003, n. 1, “Modifica dell’art. 51 della Costituzione”: il d.d.l. n. 1583-B ha conseguito alla Camera, nella seduta n. 169 del 3 luglio 2002, 365 voti favorevoli, 66 contrari e 37 astensioni; il d.d.l. n. 1213-B ha conseguito al Senato, nella seduta n. 338 del 20 febbraio 2003, 217 voti favorevoli e 5 astensioni. Cfr., altresì, legge costituzionale 23 ottobre 2002, n. 1 “Legge costituzionale per la cessazione degli effetti de commi primo e secondo della XIII disposizione transitoria e finale della Costituzione”. In questo caso, la combinazione maggioranza ristretta/mancato ricorso al referendum ha resistito anche all’intensità delle posizioni ideologiche coinvolte nel dibattito parlamentare, intensità che si è espressa in posizioni favorevoli o contrarie in dissenso dai gruppi: cfr. Atti Senato, seduta antimeridiana n. 172 del 15 maggio 2002, dichiarazioni di voto contrario dei senatori Maria Chiara Acciarini (gruppo DS-Ulivo), Mario Cavallaro (gruppo Margherita DL-Ulivo), Fulvio Tessitore (gruppo DS-Ulivo), e favorevole del senatore Giampaolo Zancan (gruppo Verdi-Ulivo); e Atti Camera, seduta antimeridiana n. 174 dell’11 luglio 2002,

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semmai che si tende a rinunciare alla faticosa ricerca dell’amplissima maggioranza dei due terzi, resa difficile anche dal numero assai rilevante dei membri delle assemblee parlamentari italiane, proprio perché l’assenza di contrasto radicale tra forze politico-parlamentari fa presumere che il procedimento avrà conclusione senza la richiesta del referendum nel termine stabilito dall’art. 138 Cost.: calcolo “di economica procedurale” rivelatosi finora fondato, se è vero che, anche quando la revisione costituzionale suscita sentimenti forti, l’iniziativa referendaria non si produce se non ne assumono il carico il prescritto quorum di parlamentari o forze politiche sufficientemente organizzate su scala nazionale51.

Ben altro è invece avvenuto nella richiamata vicenda che ha condotto alla legge costituzionale n. 3 del 2001.

In essa, il contrasto parlamentare culminava e si rivelava, all’atto della votazione finale, alla Camera nell’assenza dall’aula delle opposizioni, contrarie per assunto politico alla legge di revisione (assenza prodottasi, oltre che per rimarcare il dissenso, forse anche con l’obiettivo – non conseguito ma ritenuto alla portata delle minoranze in ragione dell’assai prossima scadenza della legislatura52 – di bloccare la deliberazione facendo mancare il quorum strutturale, per infliggere in tal modo alla maggioranza una sconfitta parlamentare ancora più eclatante di quella derivante dalla soccombenza nel voto53) e al Senato nel rifiuto dichiarato di partecipare al voto (con effetti analoghi, considerato che l’art. 107, c. 1 del Regolamento vigente in tale ramo del Parlamento si riferisce alla “partecipazione” al voto dei senatori – e non alla “presenza”, come a norma dell’art. 46, c. 1 della Camera – per stabilire le condizioni di validità della seduta)54.

Ma, soprattutto, la pressione sul modello di revisione apprestato si manifestava nell’impiego peculiare dello strumento referendario. Impiego peculiare i cui prodromi apparivano già nell’acceso e contrastato dibattito parlamentare, con la dichiarazione dell’inedito intendimento di provocare la consultazione popolare sia da parte della maggioranza sia da parte dell’opposizione in Parlamento, le quali negavano ciascuna all’altra, reciprocamente, la legittimazione – almeno politica – al modo di impiego della consultazione, assumendo invece il perfetto fondamento della propria visione del referendum previsto dall’art. 138 Cost. (sulla base di argomenti destinati a perdere consistenza e ad essere rimossi, mutati di lì a breve i rapporti di forza elettorale): il referendum veniva variamente e contingentemente definito come “oppositivo”, “a finalità avversative”, “confermativo”, “ulteriore

dichiarazioni di voto contrario dei deputati Enzo Bianco (Margherita DL-Ulivo), Gianclaudio Bessa (Margherita DL-Ulivo), Giovanna Grignaffini (DS-Ulivo), e dichiarazione di astensione del deputato Mauro Zani (DS-Ulivo). 51 Cfr., nella nota precedente, quanto alla legge costituzionale n. 1 del 2002. 52 Cfr. Atti Senato, resoconto stenografico della seduta antimeridiana n. 1052 dell’8 marzo 2001, intervento del relatore sen. Cabras: “ … vorrei richiamare all’attenzione dell’Aula le considerazioni che feci lo scorso mese di novembre, quando, rappresentando l’impossibilità che aveva determinato la conclusione dei lavori della I Commissione in sede referente, a causa dei numerosi emendamenti presentati durante la discussione dalla forze di opposizione, paventai il pericolo che, se non avessimo investito in quella circostanza l’Aula dell’esame del provvedimento perché potesse essere concluso … quasi certamente non saremmo riusciti a concluderne positivamente l’iter entro la corrente legislatura. Quella previsione si rivela oggi del tutto fondata, tanto è vero che questa è da tutti considerata l’ultima giornata utile di lavoro del Parlamento in carica …” 53 Cfr. Atti Camera, seduta antimeridiana n. 869 del 28 febbraio 2001, nella quale il d.d.l. n. 4462-B otteneva 316 voti favorevoli, 12 contrari e 6 astensioni; e Atti Senato, seduta antimeridiana n. 1052 dell’8 marzo 2001, cit., nella quale il d.d.l. n. 4809-B otteneva 171 voti favorevoli, 3 contrari e 3 astensioni. Il tipo di votazione prescritto, nel caso di specie, dall’art. 49, c. 1-quater del Regolamento della Camera e dall’art. 120, c. 3 del Regolamento del Senato è quello simultaneo mediante procedimento elettronico con registrazione dei nomi, che implica necessariamente il numero legale. 54 Cfr. Atti Senato, resoconto stenografico della seduta antimeridiana n. 1052 dell’8 marzo 2001, cit., intervento del senatore La Loggia: “… Per quanto riguarda il nostro voto … a nome del gruppo che ho l’onore di presiedere, Forza Italia, e dei gruppi della Casa delle libertà, annuncio che, pur restando presenti in quest’aula, non intendiamo partecipare alla votazione in segno di profondo e radicale dissenso nei confronti di questo provvedimento, che consideriamo un legge truffa nei riguardi dei cittadini italiani”.

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arma di propaganda”, in ragione del significato che si intendeva desumere dalla pronuncia popolare (e della individuale capacità di raffinare l’argomentazione giuridica)55.

Siffatte concezioni peculiari del referendum nel procedimento di revisione conducevano, poi, in fase implementativa, a comportamenti che ponevano l’istituto in rapporto di stretta strumentalità con la posizione delle parti: queste, raccolte in due schieramenti in aperto conflitto sui contenuti della revisione, entrambi orientati a chiedere, a fini diversi, la consultazione referendaria, modulavano i loro comportamenti in ragione delle puntuali esigenze politiche contingenti sia nei rapporti esterni (con i propri interlocutori dialettici della coalizione avversa) sia nei rapporti interni (con le forze componenti una medesima coalizione).

Invero, l’iniziativa del referendum veniva effettivamente assunta sia dalla maggioranza che aveva votato a favore della legge di revisione, sia dall’opposizione che l’aveva avversata, e, in vista delle consultazioni politiche che si sarebbero svolte di lì a pochi mesi, le prime dichiarazioni delle parti – una per la conferma della legge per volontà popolare, l’altra contro – apparivano tanto nette da far supporre un confronto molto intenso in sede di campagna referendaria56. 55 Cfr. Atti Senato (ove si compie l’ultima lettura del disegno di legge di revisione), resoconto stenografico della seduta n. 1052 dell’8 marzo 2001, cit., interventi del sen. D’Onofrio (“ … abbiamo posto la questione del referendum oppositivo rispetto alla riforma costituzionale che il Senato si accinge a votare non perché non ci basta questo o quel federalismo – argomento peraltro molto vero, sul quale molti altri potranno intervenire – ma perché abbiamo ritenuto e riteniamo di avere un certo tipo di cultura istituzionale e politica …”); del sen. Castelli (“ … siamo di fronte ad una gigantesca truffa e ora voi, maestri dell’inganno, meditate anche di utilizzare il referendum popolare come ulteriore arma di propaganda. Ebbene, esso vi si ritorcerà contro, poiché saremo noi a chiamare il popolo a raccolta. La Casa delle libertà, infatti, ha già attivato le procedure per chiedere immediatamente il referendum …”); del sen. Elia (“… Mentre … la Lega è rimasta su posizioni coerenti è il Polo che, per esigenze di alleanza con i leghisti, ha sacrificato alcune linee di fondo della sua politica costituzionale e l’urgenza della nostra deliberazione riformatrice deriva anche dalla constatazione che oggi la Casa delle libertà è profondamente divisa sui temi autonomistici e incapace di contrapporci un progetto alternativo. E’ solo in grado di dire no al nostro progetto, rifugiandosi in un referendum a finalità avversative che lo esonera da una proposta organica e positiva … Quanto al consenso popolare non è certo precluso un nostro ricorso al referendum previsto dall’art. 138 della Costituzione, giacché la norma costituzionale non distingue né tra fini né tra soggetti nella richiesta referendaria, e, dove la legge non distingue, nessuno deve distinguere …”); del sen. La Loggia (“… Annunciamo – lo abbiano già fatto, ma voglio ribadirlo qui formalmente in quest’Aula – che stiamo già provvedendo alla raccolta delle firme per opporci, per proporre ai cittadini di opporsi, di valutare con il loro voto se questa è una legge che possa soddisfare le esigenze dei cittadini italiani stessi ovvero se valutare nel progetto che nei prossimi giorni sarà presentato dalla Casa delle libertà in campagna elettorale cosa s’intenda realmente per federalismo …”); del sen. Angius (“ … Ho ascoltato poco fa, da parte del Presidente del Gruppo Forza Italia, l’annuncio di un’iniziativa referendaria motivata con il fatto che noi approveremmo questa legge a colpi di maggioranza: a maggioranza, senatore La Loggia, come avviene in tutti i parlamenti democratici, perché se si vota a maggioranza secondo voi c’è sopruso, se si cerca l’accordo si vuole l’inciucio … Ci si arroga per sé, come minoranza, il diritto di porre il veto ad una maggioranza, il diritto a decidere … Poiché si è sollevata da parte delle opposizioni una questione gravissima di legittimazione democratica del nostro Parlamento a decidere, noi, senatore La Loggia, colleghi dell’opposizione, vi annunciamo che assumeremo un’iniziativa referendaria per andare subito a chiedere al popolo italiano un pronunciamento, raccogliendo da oggi le firme popolari su questa materia … Non sarete soli, lo faremo noi a norma di Costituzione …”). 56 Si considerino le dichiarazioni rese in sede politica nel marzo 2001, a ridosso del voto parlamentare, con le quali, da una parte, si sosteneva la necessità del referendum per “bocciare il falso federalismo che viola il principio di sussidiarietà” e per “cancellare la truffa con il voto degli elettori” (cfr., per esempio, le dichiarazioni rese da esponenti della Casa delle libertà ai quotidiani La Padania nei giorni 7, 13, 14 e 18 marzo 2001; La Stampa, 7 marzo 2001, «Un referendum per fermare il federalismo». Il Polo contesta la legge che domani sarà varata al Senato; Il Corriere della Sera, 9 marzo 2001, Il federalismo è legge, lite sul referendum); dall’altra, si proponeva di confermare per intanto la revisione, rinviando alla legislatura successiva “proposte di riforma da discutere e approvare con il più ampio consenso”, quasi a considerare non proponibili per il futuro nuove esperienze di leggi di revisione a maggioranza ristretta (cfr. il manifesto, 7 marzo 2001 «Il referendum ci sarà». Il centrodestra avvia la raccolta di firme per bocciare il «falso federalismo». L’Ulivo offre un documento «bipartisan» (per il futuro). Ma giovedì il senato vara la legge). L’uso strumentale del referendum era così esplicito da indurre i leader politici a sovrapporre i propri scopi ai dati tecnico-istituzionali nella definizione della natura dell’istituto: il referendum veniva definito “confermativo” dalla parte che ne voleva l’esito positivo, “abrogativo” da chi dichiarava di volerne l’esito negativo (cfr. La Stampa, 7 marzo 2001, cit.: “… Si è subito scatenato un ping-pong sulla natura «confermativa» o piuttosto «abrogativa» del referendum in gestazione. Per la prima tesi si sono pronunciati Francesco Rutelli, Lamberto Dini, Pietro Folena e Pierluigi Castagnetti. Alla seconda scuola di pensiero s’è iscritto Silvio Berlusconi perché «lo strumento offerto dalla Costituzione è

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Ma non sarebbe stato così: prima accantonata l’ipotesi, pur sostenuta da alcuni, di svolgere la consultazione referendaria insieme con le elezioni politiche nella tornata del 2001 e mutati poi, in tali elezioni, i rapporti di forza, con il rovesciamento delle posizioni tra maggioranza e opposizione, il referendum perdeva molto del suo significato nel contrasto politico. La maggioranza che aveva votato la legge di revisione, divenuta opposizione, conduceva una campagna in tono minore; la vecchia opposizione, divenuta maggioranza, tendeva a qualificare come “inutile” il referendum, in ragione della sua intenzione di procedere ad una nuova revisione del titolo V della Costituzione (a maggioranza ristretta), anche con l’obiettivo di attenuare il rilievo di alcune posizioni, manifestatesi nel suo ambito, favorevoli alla riforma introdotta57.

La vittoria del “sì”, dunque, si riduceva ad un evento minore nella dinamica delle relazioni partitiche: chi aveva voluto la consultazione referendaria per ottenere una legittimazione piena del proprio operato, con l’adesione popolare intorno a scelte parlamentari controverse, conseguiva un risultato tardivo e perciò disutile; chi avrebbe voluto riscattare attraverso il responso diretto degli elettori la sconfitta parlamentare non aveva più alcun interesse a tanto, ed anzi poteva vedere nel permanere in vigore di una recente nuova disciplina costituzionale del sistema delle autonomie, da assumere necessariamente a base di partenza di una nuova riforma, un plausibile motivo per allontanare adempimenti programmatici destinati a suscitare controversie non lievi all’interno della nuova maggioranza58.

Insomma, la torsione plebiscitaria che tutte le parti in causa avevano ritenuto di poter imprimere all’istituto referendario non si produceva; almeno, non si produceva nella situazione contingente venutasi a determinare, per la discrasia tra tempo della consultazione e tempo del nuovo disporsi della rappresentanza parlamentare. Ma si trattava, appunto, di un esito contingente: i fatti avevano dimostrato per intero le potenzialità inedite dello strumento referendario, quando la legge di revisione fosse approvata a maggioranza ristretta in presenza di un forte contrasto politico-parlamentare. E ciò costituisce certamente un monito per gli sviluppi futuri, poiché la potenzialità plebiscitaria del referendum rimane ferma, non potendosi invece prevedere se specifici fattori politici possano valere ad impedirne il pieno dispiegarsi.

abrogativo, dunque non può usarlo chi vuole confermare la legge bensì chi ha votato contro»”; Il Corriere della Sera, 9 marzo 2001, cit.: “Il ministro per le Riforme Antonio Maccanico promette: «Il referendum ci sarà». Ma sulla questione c’è grande confusione in entrambi i Poli. Il centrosinistra lo considera «confermativo» e tende a distinguerlo da quello richiesto dalla Casa delle Libertà che lo definisce «abrogativo», anche se già numerosi costituzionalisti hanno spiegato che si tratta della stessa cosa”). Siffatte dichiarazioni dimostravano la radicale diversità di significato politico attribuibile ad una medesima consultazione referendaria (va da sé che, invece, non sono qualificabili né il fondamento in diritto delle nozioni proposte né l’accuratezza delle cronache che si richiamano alle ricostruzioni rese in sede tecnica, poiché esse appartengono ad un universo logico distinto da quello giuridico). La diversità di denominazione attribuita al referendum previsto dall’art. 138 Cost. in ragione della funzione attesa ritorna oggi nel dibattito sulla “riforma” dell’intera Parte Seconda della Costituzione. Chi valuta la proposta di revisione come rivolta a “sradicare la nostra Costituzione dai suoi princìpi originari” parla invero di “referendum impeditivo”: cfr. A. MANZELLA, Le garanzie cancellate, in La Repubblica, 24 marzo 2005; in senso analogo, richiama la “funzione oppositiva, conservativa, di tutela delle minoranze” da riconoscersi al referendum M. LUCIANI, Introduzione ad AA.VV., Sull’attualità della Costituzione, Fondazione Lelio e Lisli Basso-Issoco, Roma, 2004, 17. 57 Cfr. Il Corriere della Sera, 23 settembre 2001, Referendum, l’Ulivo punta sugli ultimi quindici giorni: “…A favore si è schierato naturalmente l’Ulivo … da dove spiegano che la vittoria del sì incatenerebbe l’azione di governo a quella riforma e segnerebbe un gol politico ai danni della maggioranza … Per il momento però anche le iniziative del centrosinistra scarseggiano… La Casa delle libertà dichiara il suo no, ma mantiene un profilo basso, puntando sull’«inutilità» del referendum, visto che, dicono, la vera riforma la faremo noi. In materia di federalismo però lo schieramento presenta delle crepe … la maggior parte degli amministratori locali di centrodestra sono favorevoli (almeno come «primo passo») al testo varato dall’Ulivo: lo hanno dichiarato tutti i presidenti di Regione, con l’eccezione di Giancarlo Galan (Veneto); e «sì» arriva anche dall’Unione delle Province (UPI) e dall’Associazione dei comuni (ANCI)”. 58 Ed infatti ad enfatizzare il significato della consultazione referendaria, adducendone la “pericolosità”, ma per tentare di ottenere l’accelerazione di un nuovo procedimento di revisione costituzionale del Titolo V della Parte II della Costituzione, rimaneva solo una componente della maggioranza parlamentare, di consistenza quantitativa ridotta e di radicamento territoriale limitato, adusa far il massimo conto del proprio “potere di coalizione”: cfr. Il Corriere della Sera, 13 giugno 2001, Bossi al Cavaliere: ferma la consultazione, altrimenti siamo finiti.

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7. Prospettive di una nuova revisione a maggioranza ristretta: la conferma normativa di un

modello inedito di referendum in chiave plebiscitaria. – La vicenda parlamentare, che si è sinora compiuta, del d.d.l. di iniziativa governativa per la revisione dell’intera Parte II della Costituzione59 pone il tema dell’approvazione a maggioranza ristretta e, in connessione, delle potenzialità plebiscitarie del referendum in una prospettiva di ancor più radicale mutamento.

Si è discusso della propensione a connotare come “necessaria” la “riforma” costituzionale, e si è concluso – con ricchezza di argomenti – nel senso che una revisione tanto ampia e profonda quale quella prospettata non sembra corrispondere ad effettive esigenze di stabilità e di efficienza addotte a fondamento dell’iniziativa governativa60. La Costituzione ha mostrato, invero, un radicamento storico e una stabilità tali da assorbire prima la crisi e poi la trasformazione del sistema partitico, indotta anche dall’introduzione delle nuove formule elettorali tendenzialmente maggioritarie, e, allo stesso tempo, ha offerto un quadro saldo di princìpi, sul fondamento dei quali la Corte costituzionale ha saputo rimodulare rapporti istituzionali e moderare eccessi.

Rimangono, peraltro, ferme due ragioni a far da motore alla proposta di revisione, entrambe derivanti dalle pulsioni maggioritarie e plebiscitarie assecondate con la legislazione costituzionale di più ampio raggio nell’esperienza più recente61: la notevole efficacia ideologica del concetto di “riforma”, il quale può essere adoperato in modo agevole per disegnare un confine percepibile tra “innovatori” (portatori del “nuovo”, come orientamento assiologicamente positivo) e “conservatori” (come custodi dei mali antichi e delle disfunzioni del sistema); la volontà di modellare la Costituzione, le vicende di essa, sulle esigenze di schieramento, favorendo per questa via il consolidarsi di una classe di governo e di un progetto politico.

La prima di queste ragioni si è innestata sulla esigenza di conchiudere – con un intervento di “grande riforma dello Stato” – una legislatura, la XIII, ed un’esperienza di governo, tormentate da elementi di instabilità e di perdita di coesione tra le forze della maggioranza, ed avare di realizzazioni programmatiche corrispondenti alle attese. Oggi, nonostante la più piena messa in opera del modello dell’alternanza e la più spiccata autonomia della maggioranza parlamentare, un obiettivo analogo incombe sullo scorcio della legislatura.

Quanto alla seconda ragione, nella passata legislatura si era pensato di poter dare finalmente sbocco, al più alto livello normativo, ad un cultura delle autonomie regionali e locali a lungo sedimentata e alla quale si era formata un’estesa classe di governo, senza coinvolgere il livello dei princìpi, anzi confermandone la validità in un “equilibrio più avanzato”, e senza operare sulla forma di governo (più di quanto non fosse già avvenuto con le nuove formule elettorali e con la “razionalizzazione” indotta dalla legislazione di riforma “a costituzione invariata”): ove all’ambizione dei fini ha fatto riscontro l’inadeguatezza dei mezzi e delle soluzioni. Oggi, si vorrebbe trasporre sul piano costituzionale una concezione della democrazia di “investitura”, fondata sulla concentrazione monocratica delle decisioni, che valuta come un disvalore i lacci dell’articolazione partitica, per quanto essi si siano già venuti allentando in ragione dei mutamenti del sistema “spontanei” o indotti dalla legislazione ordinaria. 59 Atti Senato, XIV legislatura, d.d.l. costituzionale n. 2544, deliberato il 25 marzo 2004; trasmesso alla Camera di deputati, ove ha assunto il n. 4862-A, è stato approvato con modificazioni e trasmesso il 18 ottobre 2004 al Senato, ove ha assunto il n. 2544-B; il Senato lo ha approvato, con maggioranza inferiore ai due terzi, il 23 marzo 2005. 60 Cfr. V. ONIDA, Il “mito” delle riforme costituzionali, in Il Mulino, n. 1, 2004, 15 ss. In senso analogo, R. BIN, Le riforme costituzionali: un “mito” fuorviante, in Quaderni costituzionali, www.unife.it/forumcostituzionale/contributi. Di diversa opinione M. CAMMELLI, Le riforme costituzionali: un “mito” necessario, in Il Mulino, n. 1, 2004, 30 ss. 61 Il carattere di cattivo precedente della legge costituzionale 18 ottobre 2001, n.3, evidente a chi abbia soprattutto presenti le necessità di conservazione degli equilibri del sistema, è richiamato, tra gli altri, da V. ONIDA, op. cit., 18: “… bisogna pur dire che la riforma del titolo quinto della parte seconda della Costituzione, varata allo scadere della scorsa legislatura con il voto dell’allora maggioranza di governo, oggi all’opposizione, benché su testi in parte già confortati nel corso della stessa legislatura da un consenso più ampio, e avallata dopo le nuove elezioni da un referendum scarsamente sentito dagli elettori (legge costituzionale n. 3 del 2001), non costituisce un bel precedente: e ciò sia detto a prescindere dal merito di essa, come pure dalle non poche incertezze e difficoltà (alle quali però forse non è del tutto estranea questa genesi) manifestatasi nel corso della sua ancora incipiente attuazione legislativa e giurisprudenziale”.

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E’, dunque, possibile un parallelo, invero non tranquillizzante, tra i due “finali di partita” della XIII legislatura (finale consumato e noto nelle sue implicazioni di “precedente distorsivo”) e della XIV (finale ancora aperto, non deterministicamente necessitato, e tuttavia plausibile): chi coglie questo possibile “ritorno dell’uguale” nella vicenda delle revisioni si avvede degli effetti dirompenti che potrebbero derivarne, quanto alla perdita della capacità inclusiva finora dimostrata dalla Costituzione62.

Ma, come spesso accade nel campo delle relazioni istituzionali, travolta la consolidata linea di confine nei modi di produzione delle leggi di revisione – che era stata tracciata sul saldo terreno della larga condivisione del mutamento costituzionale (di qualsiasi mutamento, dapprima, almeno del mutamento maggiore, poi) – i possibili sviluppi si prefigurano come ancora più estremi. Se lo scorcio della XIII legislatura ha visto sperimentare l’approvazione a maggioranza ristretta e l’impiego inedito del referendum definibile per ossimoro “confermativo/oppositivo”, la riforma progettata pretende – con l’impiego di questi stessi strumenti – un maggiore grado di legittimazione, a regime, delle riforme introdotte, attraverso il fondamento sulla “volontà popolare” diretta.

Tale obiettivo è perseguito con la modifica dell’art. 138 della Costituzione, questa volta prefigurata come stabile e non, come coi precedenti tentativi di revisione privi di esito, come una rottura destinata a cessare.

Nel corso del dibattito in Senato63 si era pervenuti a prospettare l’introduzione del quorum di validità del referendum – il cinquanta per cento più uno degli aventi diritto al voto – nel caso l’approvazione da parte delle Camere avvenisse con la maggioranza assoluta ma non con quella dei due terzi64. Essendo nota la difficoltà a conseguire il quorum di validità nelle consultazioni referendarie (lo insegna l’esperienza del referendum abrogativo), la minoranza soccombente in Parlamento in questa legislatura – nel corso della quale la revisione deve compiersi ovviamente nelle forme dell’attuale art. 138 Cost. – avrebbe incontrato forti ostacoli a sottoporre a nuova modifica la Costituzione nella prossima legislatura, anche se fosse riuscita a divenire maggioranza: a meno di ritenere che la formula maggioritaria possa consentire ad un solo schieramento di ottenere la maggioranza dei due terzi, alla nuova minoranza parlamentare, per quanto ristretta, sarebbe bastato proporre il referendum per vedere piuttosto agevolmente bloccato il progetto di revisione. In altri termini, il processo di riforma costituzionale sarebbe stato destinato a compiersi una sola volta nelle forme oggi prescritte; poi esso si sarebbe consolidato ben oltre quanto oggi consenta il procedimento di revisione disciplinato dall’art. 138 Cost. Ed anche le norme destinate ad un’attuazione differita dalla complessa normazione transitoria prefigura dal d.d.l. di revisione65

62 Cfr. M. LUCIANI, Il rischio referendum, in La Stampa, 16 ottobre 2004: “… Quel che colpisce è che non ci si avveda del rischio che, alla fine, a perdere siano tutti, sia i vincitori che gli sconfitti. Una revisione di questa ampiezza cambierebbe completamente il volto dell’intera Costituzione, sicché il voto popolare sulla riforma si trasformerebbe in un pronunciamento pro o contro la Costituzione di «quella» maggioranza. La metà del Paese sconfitta nel referendum, allora, sentirebbe di essere stata privata delle «sue» regole costituzionali e di aver subito l’imposizione di quelle dell’altra metà. Con il risultato che a perdere sarebbe comunque la Costituzione nel suo complesso, che smarrirebbe per strada quella forte capacità di legittimazione delle istituzioni e di integrazione sociale che ha posseduto sino ad oggi”. 63 Cfr. Atti Senato, d.d.l. 4862, cit., nuova formulazione dell’art. 138, c. 2, Cost. : “Le leggi stesse sono sottoposte a referendum popolare quando, entro tre mesi dalla loro pubblicazione, ne facciano domanda un quinto dei membri di una Camera o cinquecentomila elettori o cinque Consigli regionali. La legge sottoposta a referendum non è promulgata se non è approvata dalla maggioranza dei voti validi e, nel caso in cui nella seconda votazione la legge sia stata approvata da ciascuna delle Camere con una maggioranza inferiore ai due terzi dei suoi componenti se non ha partecipato al voto la maggioranza degli aventi diritto”. 64 Su questo aspetto del d.d.l. di revisione, E. GROSSO, Il referendum costituzionale e la blindatura della riforma, in AA.VV., Costituzione una riforma sbagliata. Il parere di sessantatre costituzionalisti, cit., 606 ss. 65 L’art. 53 del d.d.l., nel testo approvato dall’assemblea della Camera e rimasto immutato nelle successive fasi parlamentari, disegna una complessa fase transitoria, che modula nel tempo l’efficacia delle revisioni introdotte. Il differimento – diseguale, con riferimento a gruppi di norme, e dipanato tra la prima e la seconda legislatura successive all’entrata in vigore delle revisione – riguarda alcuni punti cardine della riforma: l’assetto bicamerale del Parlamento (toccando in specie il ruolo del “Senato federale della Repubblica” ed il raccordo delle elezioni di quest’organo con

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sarebbe stata destinata ad un’attuazione inesorabile nel tempo, non scalfibile dal mutamento delle condizioni di fatto e dei rapporti di forza in Parlamento.

Siffatto “bagliore di potere costituente” si è poi spento con la soppressione del richiamato disposto sul quorum di validità già nel corso dell’esame del d.d.l. da parte della I Commissione permanente della Camera; orientamento confermato dall’Assemblea66.

Tuttavia, è rimasta ferma la proposta di abrogare l’ultimo comma dell’art. 138 Cost., rendendo così ammissibile il referendum quale che sia la maggioranza ottenuta dalla deliberazione legislativa di revisione. La conseguenza sarebbe quella di disincentivare del tutto la ricerca di larghe convergenze parlamentari intorno alle leggi di revisione da parte delle maggioranze governative in carica, le quali, vigendo le attuali formule elettorali maggioritarie, sarebbero dotate di regola della forza sufficiente ad imporre le proprie proposte di “riforma”. Sarebbe dunque il corpo elettorale a poter decidere in via ultima mediante referendum; e ciò, in linea di tendenza, avverrebbe sempre, poiché risulterebbe molto difficile non trasporre il conflitto politico-parlamentare sul piano del conflitto politico-elettorale: l’esperienza recente insegna che ne trarrebbero interesse sia lo schieramento di maggioranza sia lo schieramento di opposizione. Ma ciò non sembra corrispondere ad un’esigenza di democratizzazione del processo di integrazione politica in cui la legge di revisione consiste. Infatti, la natura plebiscitaria della pronuncia – anche per questa valutazione soccorre l’esperienza della revisione del titolo V della Parte Seconda della Costituzione nella XIII legislatura – risulterebbe da due elementi: la necessità per l’elettore di respingere una proposta di revisione prevalentemente complessa e articolata in soluzioni varie e disparate ovvero di aderire ad essa, senza ipotesi intermedie, cioè senza potersi determinare nel merito in modo avvertito e responsabile (le “riforme” costituzionali “a colpi di maggioranza” sono destinate a non presentare carattere puntuale, ma ad intervenire “per intere parti”, secondo un approccio spiccatamente ideologico, inteso ad affermare una concezione generale di parte dello Stato e della Costituzione); la possibilità che la determinazione referendaria derivi dalla volontà di una minoranza, anche ridotta, del corpo elettorale, la più attiva e sensibile alla “chiamata alle armi” da parte degli schieramenti in campo67.

8. Un possibile recupero di ragionevolezza – E’ fin troppo agevole intravvedere a quale sorte

la descritta modalità di applicazione dell’art. 138 destinerebbe quel bilanciamento accurato, “di buon senso”, trasfuso nella norma costituzionale dopo una genesi assai meditata.

Certo, quel bilanciamento appare ormai palesemente compromesso, se si guarda alla strumentazione procedimentale apprestata, travolto dall’assetto bipolare del sistema partitico dopo la riforma elettorale. Ma non può andarne smarrita l’ispirazione di fondo: stabilire una forma della revisione che, rallentando e raffreddando il mutamento, a garanzia della stabilità del sistema, non indulga ad eccessi di ruolo della minoranza, “pietrificando” la Costituzione.

Tuttavia, se questo è vero, occorrerebbe muovere dal carattere logicamente preliminare di un’intesa su una nuova norma costituzionale sulla revisione. Non si può cioè concepire – lo impediscono argomenti di razionalità giuridica e ragioni derivanti dalla sensibile considerazione del sistema – che si ponga in essere, oggi, una revisione profonda e diffusa del testo costituzionale attraverso un procedimento ritenuto ormai non più idoneo a rappresentare i mutati caratteri delle relazioni politiche e si prefiguri, contestualmente, il mutamento pro futuro di questo stesso

quelle dei Consigli regionali e delle Province autonome), la forma di governo, la composizione della Corte costituzionale. 66 Cfr. Atti Camera, d.d.l. 4862-A, cit. 67 A quali esiti lesivi dei connotati di democratici di un sistema possa condurre lo strumento referendario – se non contenuto entro limiti rigorosi quanto all’ammissibilità del suo oggetto – si ricava anche da casi recenti: cfr. S. BRAGA, A proposito di una recente consultazione referendaria in Alabama (e del problema del consenso intorno ai valori costituzionali in Europa), in www.costituzionalismo.it, 16 febbraio 2005, ove è segnalato l’esito del referendum del novembre 2004 in Alabama, favorevole alla conservazione, nella Costituzione di quello Stato nordamericano, delle norme fondanti il regime di segregazione razziale nelle scuole, benché esse fossero divenute “inapplicabili in virtù della prevalenza … delle leggi federali”.

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procedimento (a conferma della sua ritenuta inidoneità), accettando le distorsioni che si ritiene da esso per intanto derivino.

La considerazione responsabile, nelle sedi della rappresentanza, del ruolo di legislatore costituzionale imporrebbe un mutamento di approccio: andrebbe sottoposto a revisione, nella legislatura corrente, il solo procedimento disciplinato dall’art. 138 Cost., individuando una nuova forma del mutamento costituzionale ampiamente condivisa, accettata “sotto il velo dell’ignoranza” circa le posizioni reciproche future (in maggioranza, all’opposizione, con quale rapporto di forza relativa), con l’intesa di non farne applicazione prima dello scioglimento delle assemblee parlamentari. Solo dopo nuove elezioni politiche generali – sollevato quel “velo d’ignoranza” che può consentire un accordo sulle garanzie reciproche – potrebbe porsi mano, nei limiti resi possibili dal nuovo involucro formale dato alla legge di revisione, all’adeguamento del testo costituzionale per i profili ritenuti necessari68.

Le cronache parlamentari inducono a chiedersi fondatamente se un siffatto buonsenso possa prevalere, o se esso sia stato ucciso dal senso comune delle “revisioni costituzionali secondo il Governo in carica”69. Se l’esito del dibattito attuale fosse quello meno fausto, l’ultimo presidio di conservazione dei tratti di fondo del sistema potrebbe essere costituito dalla Corte costituzionale. Essa – se la “riforma” fosse approvata superando anche la prova referendaria – potrebbe dismettere l’atteggiamento di self-restraint mantenuto in occasione della prima revisione ampia della Costituzione “a colpi di maggioranza”, affrontando il tema della componibilità con la forma di Stato delle revisioni introdotte, anche sul versante della ragionevolezza-congruità, e la questione della compatibilità della eventuale (ma prevedibile) consultazione referendaria con la garanzia costituzionale della libertà di voto, essendo evidente la disomogeneità nei contenuti del testo (come si accennava, matrice ideologicamente unitaria non equivale a matrice razionalmente unitaria dal punto di vista giuridico)70. La Corte potrebbe essere chiamata, in particolare, a giudicare sul vizio formale della legge di revisione, nel quadro di un’interpretazione adeguatrice dell’art. 138 che tocchi anche la ratio obiettiva della norma sul referendum (essendo probabilmente vano attendersi esiti particolarmente significativi dalla “verifica” sulla conformità della richiesta di referendum all’art. 138, commessa all’Ufficio centrale per il referendum presso la Corte di cassazione dall’art. 12, c. 2, legge 25 maggio 1970, n. 352).

E’ vero che un tale presidio non si è manifestato in occasione della revisione del Titolo V della Parte II della Costituzione, radice amara dei rischi di oggi. Ma, al tempo della legge costituzionale n. 3 del 2001, gli specifici contenuti di questa, l’assenza (irragionevole, per vero) di una normazione transitoria, l’apertura dei principi introdotti ad esiti applicativi non del tutto prevedibili hanno potuto indurre la Corte a differire il suo intervento senza suscitare una troppo marcata linea di tensione con il legislatore costituzionale. Ed invero la scelta si è mostrata avvertita: dopo aver atteso invano che il legislatore – ordinario – nazionale (e quelli regionali) ottemperassero all’obbligo di implementare pienamente i princìpi del nuovo Titolo V, la Corte, specie nel corso del 2004, ha ridisegnato essa il nuovo assetto delle autonomie.

Peraltro un diverso orientamento – che porrebbe la Corte costituzionale nella difficile condizione di dover contrastare una pronuncia popolare favorevole alla revisione – potrebbe maturare solo se essa ritenesse in gioco la conservazione complessiva degli equilibri di fondo del sistema.

68 Forse questo potrebbe essere il presupposto utile a compiere della Costituzione “interpretazioni e revisioni rispettose e costruttive”, e non condotte “a colpi di «opinioni» di transitorie maggioranze”: tali formule, poste in opposizione per designare concezioni del costituzionalismo in irriducibile contrasto e che si richiamano a drammatiche esperienze storiche, sono riproposte da M. DOGLIANI, Validità e normatività delle costituzioni (a proposito del programma di costituzionalismo.it), in www.costituzionalismo.it, 18 gennaio 2005. 69 Cfr. G. AZZARITI, L’ultima idea: la revisione della costituzione secondo il Governo in carica. Un approccio critico, editoriale, in www.costituzionalismo.it, 4 novembre 2003. 70 Per la letteratura sull’applicabilità del limite dell’omogeneità del quesito anche al referendum previsto dall’art. 138 Cost., cfr., supra, nota 41.

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L’eventualità va considerata senza eccessi di schematismo: occorrerebbe leggere in concreto il risultato referendario, valutando l’entità della partecipazione al voto e il senso da attribuire ad una pronuncia appunto viziata dalla disomogeneità del quesito. La Corte dovrebbe, inoltre, valutare, nelle sue scelte di “politica giurisdizionale”, se la dilazione nel tempo dell’efficacia di gran parte dei contenuti della legge di revisione71 suggerisca un intervento a ridosso dell’entrata in vigore di questa – ove se ne presentino ritualmente le condizioni – ovvero consigli di attendere il dipanarsi di una più distesa fase attuativa, nella quale possa trovare campo anche la ritrattazione parlamentare dei mutamenti introdotti nella Costituzione. Tutto dipenderebbe dalla considerazione del momento storico, in ragione della quale la Corte costituzionale potrebbe disporsi negli orientamenti propri dei momenti di “normalità costituzionale” ovvero essere indotta ad esplorare ogni possibilità offerta dal suo ruolo di custode della Costituzione.

71 Cfr., supra, nota 65.