La guerra a Napoli - Istituto Nazionale Ferruccio Parri · 2019. 3. 5. · Fussel, La grande guerra...

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La guerra a Napoli Il vissuto e il rimosso di Laura Capobianco L’immagine e la coscienza della guerra C’è resistenza all’immagine della guerra che il regime va costruendo sul finire degli anni Trenta? Che cosa cambia nel passaggio dalla guerra immaginata a quella vissuta? Per tentare di rispondere a queste doman- de bisogna ricercare quali elementi giocava- no nel consolidare o nel creare tra la gente l’immagine della guerra. Si tratta, cioè, di cogliere la complessa dialettica tra i segni di guerra proposti dal regime attraverso un ac- corto uso dei mezzi di diffusione di massa (stampa, immagine fotografica, radio) e del- le forme di organizzazione e di mobilitazio- ne collettiva, da una parte, e la concezione preesistente della guerra, dall’altra, compo- nente — quest’ultima — del patrimonio mi- tico-simbolico dell’inconscio collettivo, di cui permangono tracce nelle tradizioni fami- liari o di status. Sono ben note, d’altronde, l’abilità e la cura con cui il regime fascista ha proposto le immagini di una guerra come bellum ju- stum: la guerra è giusta — dichiara Mussoli- ni in uno dei suoi discorsi — perché “è la lotta dei popoli poveri e numerosi di braccia contro gli affamatori che detengono feroce- mente il monopolio di tutte le ricchezze e di tutto l’oro della terra”1. È in questione, dunque, l’esercizio di un diritto, la modifica di un assetto distorto voluto da potenze de- mocratiche “vecchie e ricche”2. Si può rin- tracciare qui uno dei motivi che da sempre hanno giustificato le guerre: esiste un nemi- co ed è lui il colpevole, visto che "... la col- pevolizzazione del nemico sembra di fonda- mentale importanza per evitare il senso di colpa che la guerra provoca nell’uomo”3. Eppure, nonostante l’alleanza con la Ger- mania, intensamente enfatizzata non è facile per Mussolini incanalare l’odio del popolo contro il nemico. I tentativi in tal senso, in questo come nel caso dell’antisemitismo4 — esempio classico di ricerca del capro espiato- rio ai fini dell’organizzazione del consenso interno e del controllo sociale — non conse- guono lo scopo e non trovano simpatia pres- so la maggioranza degli italiani. La campa- gna anti-francese e anti-britannica, iniziata 1 Discorso di Benito Mussolini del 10 giugno 1940 citato in Roberto Battaglia, La seconda guerra mondiate, Roma, E. Riuniti, 1960, p. 91. 2 Jens Petersen, Hitler e Mussolini: la difficile alleanza, Bari, Laterza, 1975, pp. 426-428. Popoli “giovani” contro popoli “vecchi”: è uno dei motivi che guiderà la politica estera italiana dopo la guerra in Etiopia; il fascismo è “gio- vinezza” contro l’effeminatezza e la senescenza delle democrazie occidentali. 3 Franco Fornari, Psicoanalisi della guerra, Milano, Feltrinelli, 1970, p. 40. 4 Ugo Cafaz, La costruzione del pregiudizio antisemita, in L ’organizzazione de! consenso del regime fascista (Atti del convegno “L’Italia e l’Umbria dal Fascismo alla Resistenza”, Perugia, 1975, materiali di preparazione).

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  • La guerra a NapoliIl vissuto e il rimosso

    di Laura Capobianco

    L’immagine e la coscienza della guerra

    C’è resistenza all’immagine della guerra che il regime va costruendo sul finire degli anni Trenta? Che cosa cambia nel passaggio dalla guerra immaginata a quella vissuta?

    Per tentare di rispondere a queste domande bisogna ricercare quali elementi giocavano nel consolidare o nel creare tra la gente l’immagine della guerra. Si tratta, cioè, di cogliere la complessa dialettica tra i segni di guerra proposti dal regime attraverso un accorto uso dei mezzi di diffusione di massa (stampa, immagine fotografica, radio) e delle forme di organizzazione e di mobilitazione collettiva, da una parte, e la concezione preesistente della guerra, dall’altra, componente — quest’ultima — del patrimonio mi- tico-simbolico dell’inconscio collettivo, di cui permangono tracce nelle tradizioni familiari o di status.

    Sono ben note, d’altronde, l’abilità e la cura con cui il regime fascista ha proposto le immagini di una guerra come bellum ju- stum: la guerra è giusta — dichiara Mussoli

    ni in uno dei suoi discorsi — perché “è la lotta dei popoli poveri e numerosi di braccia contro gli affamatori che detengono ferocemente il monopolio di tutte le ricchezze e di tutto l’oro della terra” 1. È in questione, dunque, l’esercizio di un diritto, la modifica di un assetto distorto voluto da potenze democratiche “vecchie e ricche”2. Si può rintracciare qui uno dei motivi che da sempre hanno giustificato le guerre: esiste un nemico ed è lui il colpevole, visto che "... la col- pevolizzazione del nemico sembra di fonda- mentale importanza per evitare il senso di colpa che la guerra provoca nell’uomo”3.

    Eppure, nonostante l’alleanza con la Germania, intensamente enfatizzata non è facile per Mussolini incanalare l’odio del popolo contro il nemico. I tentativi in tal senso, in questo come nel caso dell’antisemitismo4 — esempio classico di ricerca del capro espiatorio ai fini dell’organizzazione del consenso interno e del controllo sociale — non conseguono lo scopo e non trovano simpatia presso la maggioranza degli italiani. La campagna anti-francese e anti-britannica, iniziata

    1 Discorso di Benito Mussolini del 10 giugno 1940 citato in Roberto Battaglia, La seconda guerra mondiate, Roma, E. Riuniti, 1960, p. 91.2 Jens Petersen, Hitler e Mussolini: la difficile alleanza, Bari, Laterza, 1975, pp. 426-428. Popoli “giovani” contro popoli “vecchi” : è uno dei motivi che guiderà la politica estera italiana dopo la guerra in Etiopia; il fascismo è “giovinezza” contro l’effeminatezza e la senescenza delle democrazie occidentali.3 Franco Fornari, Psicoanalisi della guerra, Milano, Feltrinelli, 1970, p. 40.4 Ugo Cafaz, La costruzione del pregiudizio antisemita, in L ’organizzazione de! consenso del regime fascista (Atti del convegno “L’Italia e l’Umbria dal Fascismo alla Resistenza”, Perugia, 1975, materiali di preparazione).

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    ancora prima della dichiarazione di guerra, non sortisce in effetti un successo immediato.

    Al contrario, parrebbe che per il perdurare di una tradizione risorgimentale consolidatasi nella prima guerra mondiale gli italiani, in generale, provino in questa fase timore e diffidenza, se non proprio ostilità, verso i tedeschi5, né l’oscillante politica estera italiana verso la Germania può contribuire ad un miglioramento della situazione6. Perfino gli sforzi del regime volti a rendere più familiari nel paese la lingua e la cultura germanica appaiono per lo più privi di riscontri apprezzabili7. Sicuramente non si crea, nemmeno negli anni dell’alleanza “d’acciaio” un’interesse per la Germania paragonabile a quello che è stato definito ”il mito dell’America” formatosi negli strati più popolari della popolazione attraverso gli emigrati e nei ceti intellettuali mediante la traduzione della produzione letteraria americana, che una becera censura rende più desiderabile e ricercata.

    Per Napoli però è difficile documentare tale tradizione antitedesca; d’altronde i tedeschi vi arrivano per lo più in convalescenza dai teatri di guerra africani: alla Santarella, una parte della città posta proprio di fronte al golfo viene allestito un convalescenziario; mentre i feriti più gravi trovano nell’ospeda

    le XXIII marzo accoglienza e assistenza. Nel cimitero cittadino della Pietà un apposito recinto ospita i morti ai quali sono riservate straordinarie cerimonie funebri. Lambiase e Nazzaro utilizzando una ricca documentazione fotografica, realizzata da Guglielmo Troncone, fotografo ufficiale durante il fascismo del giornale cittadino “Roma”, sostengono che il rapporto intessuto dai tedeschi con la città non è un rapporto con i vivi ma con i morti; “una presenza discreta di turisti più che di soldati. Se c’è un mestiere infatti che i nazisti sanno fare bene a Napoli è quello di turista”8.

    Per quanto riguarda la cultura tedesca si può dire che per intellettualità e borghesia colta essa abbia lo stesso peso di quella francese così come solo alcuni ambienti dell’alta borghesia frequentano ufficiali o personale politico del Terzo Reich, mentre per il resto della popolazione si può parlare di sostanziale indifferenza. In tal senso le testimonianze raccolte: “Hitler mi faceva paura, ma anche quando venne a Napoli mi appariva lontanissimo. In verità noi non sapevamo proprio niente della Germania”9. “Noi non li amavamo, però ammiravamo la loro organizzazione. Tutto sommato non avevamo molte occasioni di incontro. La maggior parte dei tedeschi abitava sulla collina di Po- sillipo, o in via Tasso e vivevano piuttosto

    5 Alberto Aquarone, Lo spirito pubblico in Italia alla vigilia della seconda guerra mondiale, in “Nord e Sud” , 1964, n. 110, p. 117.6 J. Petersen, Hitler e Mussolini, cit., pp. 549-551.7 È la tesi sostenuta dal Petersen anche nel corso di un seminario svoltosi recentemente a Napoli sull’argomento, e coordinato da Aurelio Lepre neH’ambito della ricerca sul 1940.8 Sergio Lambiase-Gian Battista Nazzaro, Napoli 1940-1945, Milano, Longanesi, 1978, p. 102.9 Intervista a S. Girosi, professoressa di storia dell’arte, 22 dicembre 1984. Nel presente saggio sono state utilizzate solo una parte delle interviste raccolte; contingentemente non si è tenuto conto di quelle realizzate con testimoni di estrazione proletaria per la loro notevole difformità e frammentarietà che rendono necessarie sia una campionatura più ampia, sia una griglia interpretativa più specifica. Per difficoltà analoghe non si è conservata apposita distinzione tra i ricordi degli uomini e quelli delle donne anche se è convincimento dell’Autrice che la donna interna alla struttura familiare ne conserva più fedelmente la memoria inserendo quasi sempre gli avvenimenti della propria vita nel contesto più largo della sua famiglia così rendendo più preziosa testimonianza delle trasformazioni o delle persistenze sociali. Nel prosieguo della ricerca, infine, si darà spazio alle numerose storie di vita parimenti raccolte e in questa sede tralasciate.

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    appartati”10. “I tedeschi con noi sono stati sempre corretti; non ho mai avuto di che lagnarmi”11.

    Solo alcuni testimoni, soprattutto persone di non grande cultura, hanno sostenuto che fin dalPinizio del conflitto il tedesco è il nemico: non è difficile pensare ad un fenomeno di sovrapposizione dei tempi nel ricordo per cui le tragiche esperienze sofferte (ad opera dei tedeschi) nel corso della guerra e soprattutto a partire dall’8 settembre hanno alterato la successione degli eventi. Del resto, anche se per motivazioni diverse tale sovrapposizione si riscontra anche presso intellettuali, quali ad esempio l’archeologo Amedeo Maiuri che annota nel suo diario sugli avvenimenti di guerra: “ ... ho sentito di nuovo il fragoroso passaggio dei carri armati tedeschi... i mostri, le voci metalliche dure... un plotone di tedeschi che segue al passo cadenzato la marcia dei carri...”; l’annotazione è del dicembre 1941, un periodo in cui non ci sono motivi giustificativi di tali descrizioni. La pubblicazione del diario è del 1956 ed appare evidente che sia stato rivissuto e rivisto alla luce del poi12.

    Ma ancora più complesso è documentare una tradizione anti-francese o anti-inglese precedente il conflitto: gli stessi slogans messi in circolo dalla propaganda ufficiale (“Se la Francia non è una troia, ci deve dare Nizza e Savoia” , o “La più forte della terra è

    sempre stata l’Inghilterra”) finiscono per essere assorbiti in quel ricco campionario di scherzi linguistici con cui anche il popolo napoletano reagiva variamente alle decisioni prese dai potenti13. In ogni caso, i napoletani non avevano tradizioni tali da identificare il nemico in qualche popolo determinato. Tornando al tema della guerra giusta, questa tuttavia non è tale solo perché esiste un nemico colpevole, ma anche perché si propone come la Prova14, una sorta di iniziazione attraverso cui i giovani possono dare misura di sé a se stessi e agli altri. Al riguardo Leed, l’acuto storico della “grande guerra”, nota che attraverso il conflitto la coscienza individuale maschile crede di entrare nella sfera della libertà per il fatto che ci si espone al rischio per motivi che non sono biologicamente necessari. Seguendo questo ragionamento, non sembra che si possano ritenere, come fa invece Zangrandi, “spostati, declassati, avvelenati da quattro anni di consuetudine guerresca in Africa o in Spagna”15 quei giovani, molti o pochi che fossero, lasciatisi prendere dall’entusiasmo al momento della dichiarazione di guerra. Piuttosto, si può pensare che quei valori di “virilità” composti allo stesso tempo di terrori e desideri continuavano ad esercitare un grande fascino ed un ruolo oggettivo nei processi di formazione della personalità dei giovani pure in presenza di elementi non secondari di trasfor-

    10 Intervista a A. Valoti, dirigente Enel, 30 gennaio 1985.11 Intervista a A. Gambuli, professore di matematica, 27 novembre 1984.12 Amedeo Maiuri, Taccuino napoletano, Napoli, 1956, pp. 49-50.13 Gli “slogans” ed il relativo commento sono stati ricordati da V. Selvaggi, professoressa di lettere, vedova del prefetto V. Selvaggi, in una intervista del 10 dicembre 1984. Una “variante” interessante è costituita da una parodia delle preghiere (“Credo”, “Ave” e “Pater”) intrisa di sentimenti antinglesi, conservata da Antonietta Leone, archivista presso lo studio Troncone, e da lei gentilmente fornitami.14 Scrive a tale proposito Ch. Isherwood in Lions and Shadows: an education in the twenties, 1938, citato in Paul Fussel, La grande guerra e la memoria moderna, Bologna, Il Mulino, 1984, p. 139: “Guerra, in questo suo significato meramente nevrotico, significava la Prova. La prova del nostro coraggio, della nostra maturità, della nostra validità sessuale. ‘Sei realmente un uomo?’. Nel subconscio, credo che desiderassi essere sottoposto a questa prova; ma nello stesso tempo, paventavo il fallimento”.15 Ruggero Zangrandi, Il lungo viaggio attraverso il fascismo. Contributo alla storia di una generazione, Milano, Feltrinelli, 1963, p. 183.

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    mazione del contesto e della mentalità. Non bisogna dimenticare, d’altronde, che il fascismo attingeva a piene mani ad un patrimonio del genere.

    Non sono infrequenti, ad esempio, sul maggiore quotidiano cittadino, “Il Mattino”, articoli ed editoriali ispirati a tale tematica: “La guerra è un severo banco di prova, sul quale devono passare per uno spietato collaudo idee, uomini, popoli. Il vaglio della guerra è per i popoli e per le grandi idee la prova definitiva. Da questa nascono la potenza e Pavvenire o derivano decadenza e miseria”16. Toni meno aulici, ma egualmente giustificativi, sono rintracciabili in alcune testimonianze raccolte oggi: “... del resto, volendo essere sincero con me stesso, dovevo riconoscere che questa guerra mi incuriosiva, anche mi attraeva, aiutato forse in questo da un’eredità trasmessami da un’altra generazione”17. “La guerra per me era davvero la bella guerra. Se ci andavi e morivi, diventavi un eroe; altrimenti lo eri lo stesso; la morte in guerra, poi, non comportava dolore, era rapida, senza sofferenze”18.

    Alla tradizione più antica, di cui s’è detto prima, e che affonda profonde radici nella secolare storia del mondo occidentale, si sono sovrapposti elementi più recenti consolidatisi all’interno del nucleo familiare: “Avevamo avuto un cugino morto nella guerra d’Africa ed uno nella prima guerra mondiale; noi ragazzi siamo cresciuti nel loro ricordo. Allo scoppio della guerra ero universitario, per cui fui esonerato dal servizio militare: ma a me parve una discriminazione, rispetto agli altri giovani che partivano, per cui andai volontario”19. “Nella mia famiglia, ed è una cosa che bisogna tenere molto presente per capire la borghesia napoletana,

    ci sono stati sempre due ritratti di caduti nella prima guerra mondiale, i fratelli di mio padre, uno dei quali tenente dei bersaglieri. Io nacqui pochi giorni dopo la loro morte ed ebbi il nome di uno di loro. Mia nonna era una donna distrutta che passò la vita chiusa in una stanza a pregare per i figli morti, ma noi siamo vissuti nell’atmosfera della guerra vinta. Questi ritratti per un ragazzo che cresceva erano una cosa irrazionale ed esaltante”20.

    L’adesione dei giovani alla guerra eroica, prova di virilità, è dunque possibile, soprattutto in quegli ambienti nei quali il ricordo della prima guerra mondiale aveva dato corpo ad un’idea di patria altrimenti estranea o, almeno, lontana, data la vicenda storica della città e del resto del Mezzogiorno d’Italia. Anche qui ha avuto efficacia la memoria celebrativa come si è andata fissando attraverso il culto dei morti, il sacrario dei caduti, i monumenti funebri. Scomparsa un po’ alla volta la trasmissione diretta dell’esperienza di guerra, è intervenuta la cristallizzazione dei ricordi nella quale il dolore viene incanalato e sublimato nelle forme richieste dall’ufficialità e dal rito pubblico. La “grande guerra” agisce ormai come stereotipo e nella psiche di alcuni in maniera tanto rigida e fissa da produrre effetti anche in momenti in cui l’unico sentimento umano comprensibile sarebbe l’odio e l’esecrazione per la guerra.“Inchiniamoci al nostro esercito paziente ed eroico, ai nostri ufficiali sereni e coraggiosi dal cui cuore nessuna crudele sventura potrà strappare il ricordo solare di Vittorio Veneto”, sono le parole con cui E. Scaglione, giornalista del “Roma”, l’altro quotidano locale, nel settembre del 1943 si rivolge alla folla radunata nella galleria Um-

    16 Cesare Marrone in “Il Mattino”, 15 giugno 1941.17 Intervista a F. Frascani, giornalista, ivi, 23 ottobre 1984.18 Intervista a M. Martinelli, ingegnere, ivi, 15 ottobre 1984.19 Ivi.20 Intervista citata a F. Frascani, ivi.

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    berto I all’annunzio dell’armistizio21. Certo, lo stereotipo della guerra eroica ha avuto risonanza limitata, non paragonabile a quanto si è prodotto in Francia o in Germania in seguito all’altissimo numero dei caduti. L’idea di patria, però, formatasi tardi in Italia, e particolarmente a Napoli, attraverso particolari mediazioni culturali può agire in alcuni strati della borghesia colta, spesso intrecciandosi ambiguamente con il consenso al regime. Giovani intellettuali di cultura liberale, ed ammiratori del Croce da cui pure finiscono in qualche modo per sentirsi frenati e limitati, confluiscono a Napoli nel gruppo del Guf, trovando spazio per la discussione ed un primo confronto di idee nel quindici- naie “IX Maggio”22.

    Sicuramente l’ambito politico entro cui sono vissuti questi giovani è il fascismo, ed essi pur avvertendone le oscurità, gli aspetti negativi, non possiedono strumenti sufficienti per capire e soprattutto per opporsi. La guerra è per loro “una cupa, allucinante maledizione che non li spinse tuttavia ad un’opposizione manifesta, ma a rimanere piuttosto in una condizione paralizzante e ossessiva”; ultima generazione risorgimentale, non esitò tuttavia a partecipare alla guerra per difendere “una patria le cui buone ragioni, la cui santa causa non poteva condividere”23. Motivazioni inconscie si congiungono con altre di carattere razionale, come è testimoniato dalle scelte di vita di quegli stessi giovani che, liberatisi da questa ambiguità, troveranno nell’antifascismo, più tardi, una più sicura collocazione. Ma anche

    tali motivi influenzano esigue quote della popolazione, e tuttavia al fascismo rimanevano ancora altri elementi per procurare il consenso o addirittura rendere popolare la sua guerra. Uno di questi è costituito dal ricorso, assai ben pubblicizzato, alla tecnologia per usi bellici: con molta efficacia si sottolinea come l’impiego di armi sofisticate renda la guerra rapida e vittoriosa, inducendo un’immagine di efficienza da cui sono scomparse le tracce del sangue, del sudore, dei corpi. Si è già notato come si sia rimossa dalla memoria collettiva la percezione, il vissuto diretto della prima guerra, caratterizzata dal totale asservimento delle membra e degli apparati del corpo umano alla macchina, fino alla radicale modifica della sensibilità, del senso del tempo, del rapporto tra la vita e la morte24. A Napoli, lontana dalle trincee della prima guerra moderna tecnologica, tutto ciò è stato ancor meno avvertito. Semmai, va rilevato l’impatto che per la città, scelta dal regime come luogo di rilancio economico e produttivo, può avere l’utilizzo delle risorse tecnologiche ad uso civile. Proprio negli anni tra il 1937 e il 1940, il fascismo realizza una serie di opere assai vistose nella direzione dell’ammodernamento e della razionalizzazione (quali la Mostra triennale delle terre italiane di oltremare, grandioso spazio celebrativo dell’impero e della capacità colonizzatrice del popolo italiano, portata a termine in tempi record, con la bonifica dell’intero quartiere di Fuorigrotta; l’ospedale Monaldi; il Collegio Ciano). E nella stessa ottica potrebbe inquadrarsi lo

    21 Cit. in Nino Aversa, Napoli sotto il terrore tedesco. Contributo alla storia degli avvenimenti dall’Armistizio alla Liberazione a cura delle “Quattro giornate”, Napoli, 1944, p. 13.22 Sul ruolo svolto dal quindicinale “IX Maggio” e sul contributo prodotto da giovani intellettuali del tempo, cfr. Sergio Riccio, introduzione al volume II de La Campania dal Fascismo alla Repubblica, a cura di Luigi Cortesi ed altri autori, Napoli, Esi, 1977, pp. 15-30.23 R. Zangrandi, Il lungo viaggio, cit., p. 186.24 A riguardo cfr. la bellissima relazione di Eric Leed, The law o f Violence and the Language o f War: the Front Experience in World War /, al Convegno internazionale sul tema “La Grande Guerra - Esperienza, memoria, immagini”, Rovereto, 26-28 settembre 1985.

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    straordinario apparato allestito per la visita di Hitler alla città nel 1937, episodio rimasto impresso nella memoria collettiva come un’eccezionale dimostrazione di efficienza e di potenza. “Ricordo che dall’alto di Capo Miseno vedevamo tutto il golfo pieno di navi, tante non ne avevamo mai viste. Mio padre ci portò appositamente a Napoli, io ero piccolissima ma rimasi molto impressionata dalle luci: Castelnuovo mi sembrò avvolta dalle fiamme”25. “Ricordo perfettamente la visita di Hitler: fu spettacolo scenografico indimenticabile: il Führer mi sembrò un dio”26. Ha scritto E. Canino nel suo diario: “Hitler ha potuto vedere Napoli nel suo splendore... cielo splendente, mare azzurro. La rivista è stata imponente. Quando le navi sono uscite dal porto con gli incrociatori in testa, per tutti è stato un momento di emozione vivissima...”27.

    Dato il clima, è dunque possibile una certa adesione alla guerra fascista che servendosi della tecnologia risparmia l’uomo. È una bugia, ma è un fatto che fino ad allora le guerre sono state combattute lontano dal territorio italiano e sono state vittoriose. Si può perciò concludere che anche grazie agli eccezionali successi delle armate tedesche la guerra a Napoli viene in principio accettata

    senza apparenti manifestazioni di dissenso28. La verità è, tuttavia, che la guerra è accettata e subito rimossa, per essere collocata sul piano di un’alterità lontana: saranno altri uomini a doversene occupare, e d’altra parte essa terminerà presto, sarà vittoriosa ed i vantaggi saranno immediati per tutti. È l’antica estraneità del Sud, un diffuso senso di fatalismo, l’incapacità/impossibilità di opporsi? Probabilmente tutti questi motivi insieme.

    L’elemento determinante che distingue nel vissuto individuale il tempo di guerra da quello di pace, è evidentemente l’esperienza distruttiva e questa, per la città di Napoli, non è venuta subito e pur nella generale drammaticità delle situazioni non è stata né comune né condivisa. Un primo segno tangibile ed immediato della guerra è stato preceduto di qualche mese dalle misure di razionamento dei generi alimentari e dall’apparizione delle tessere annonarie, la partenza dei giovani per i vari fronti: si tratta per i primi tempi dell’impiego dei militari di leva il cui allontanamento dal suolo nazionale è certamente per i parenti fonte di preoccupazione e di dolore; in alcuni casi può tuttavia trasformarsi in vantaggio a causa delle paghe

    2' Intervista citata a S. Girosi.26 Intervista a A. Gambuli cit.27 Elena Canino, Clotilde tra due guerre, Milano, Longanesi, 1956, annotazione del 24 aprile 1938.28 Non si vuole entrare nel merito della intricata questione del consenso al regime (cfr. Luciano Casali, E se fosse dissenso di massai, in “Italia contemporanea”, 1981, n. 144) o della verità sulle entusiastiche manifestazioni del popolo all’annunzio della guerra (cfr. Patriottismo ed entusiasmo di Napoli guerriera, in “Il Corriere di Napoli” , 11 giugno 1940). Allo stato attuale della ricerca appare difficile documentare manifestazioni dichiarate di dissenso o atti di opposizione alla guerra oltre quelli già noti ed indicati in altri saggi. In Aula IV. Tutti iprocessi del Tribunale speciale fascista, a cura di A. Dal Pont, A. Leonetti, P. Maiello, L. Zocchi, Roma, Anppia, 1961, non è riportata alcuna sentenza a carico di napoletani per l’anno 1940 e i processi per disfattismo e vilipendio alle forze armate per l’anno successivo sono solo quattro. È possibile rintracciare alcuni episodi di scontento ed inquietudine nelle relazioni della Questura di Napoli al Ministero degli Interni, episodi ovviamente più frequenti e numerosi ovunque con l’incalzare delle ostilità e la crescita dei disagi per la popolazione. Per tali episodi oltre al già citato volume sulla Campania dal Fascismo alla Repubblica, v. L ’Italia dei quarantacinque giorni, Studio e documenti, Milano, Insml, 1969, che contiene un quadro di sintesi sulla situazione dell’ordine pubblico, inclusi elenchi di morti, feriti e arrestati nelle varie regioni d’Italia. A Napoli e alla Campania tra il 1943 e il 1946 è dedicato infine il volume dell’Icsr di imminente pubblicazione, Alle radici del nostro presente, Napoli, Guida, 25 aprile 1986, cui si rimanda per la ricca appendice bibliografica.

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    considerevoli, soprattutto in alcuni settori ed armi. Nel complesso, però, la vita in città per quasi tutto il primo anno di guerra non subisce variazioni notevoli. I quotidiani del tempo dedicano alla guerra la prima pagina ed i toni sono sempre esaltanti, le vittorie continue ed i teatri di guerra descritti come luoghi esotici e, in qualche modo, affascinanti. Le altre pagine, al contrario, scandiscono ritmi di vita normale riferendo anche di episodi banali (mance per lo smarrimento di un cane, parto trigemino, ecc.); i mezzi di trasporto e altri servizi funzionano regolarmente anche se gli utenti vengono pressantemente invitati a limitare gli sprechi29. Lo spazio maggiore è ovviamente dedicato a momenti di vita fascista (premiazione di coppie prolifiche, visite del podestà, ecc.); anche cinema, teatri, circoli culturali sono regolarmente aperti. Alla guerra si accenna diversamente solo per riportare le norme per l’oscuramento, in vigore dal 15 giugno 1940, e quelle per l’allestimento e l’uso dei ricoveri. A tale riguardo già dall’agosto del 1939 tutti i giornali cittadini invitano i proprietari dei fabbricati ad allestire i ricoveri “casalinghi” : vi si ritorna nel settembre dello stesso anno, e dal 14 giugno del 1940 in poi a intervalli regolari si sottolinea l’importanza della figura del “capo palazzo”, la sua funzione di coordinamento e di controllo, così come si illustrano le attrezzature necessarie alla sicurezza dei ricoveri e si suggerisce il corretto comportamento da tenere durante le incursioni.

    In genere si tratta di trafiletti dai toni abbastanza secchi, a cui però spesso si affiancano articoli dallo stile esaltato e trionfalistico: “Una fitta cortina di fuoco sbarra il territorio metropolitano alle eventuali incursioni aeree nemiche ...tutto è stato meticolosa

    29 “Il Mattino”, 17 luglio 1940.30 “Il Mattino”, 11 luglio 1940.31 “11 Mattino”, 3 novembre 1940.32 “Il Corriere di Napoli” , 3 novembre 1940.

    mente curato, dai materiali ai servizi; ci si è preoccupati di addestrare una figura particolare, l’ascoltatore, che percepisce con l’orecchio, prima che con gli strumenti, l’aereo di cui coglie con precisione la rotta e la quota”30. E ancora, “non si viene impunemente verso le coste italiane!” concludono gli articolisti che peraltro in questa fase cercano sempre di minimizzare il pericolo reale: “I napoletani hanno trovato nell’incursione aerea nemica un diversivo alla placidità di queste notti invernali” è la risposta beffarda all’articolista inglese il quale aveva provocatoriamente affermato che gli aerei inglesi avrebbero fatto concorrenza al Vesuvio con il fuoco dei loro violenti attacchi31. È evidente da parte delle autorità l’intento di dare l’idea della capacità di fronteggiare le evenienze e di avere la situazione sotto controllo, ma anche quello di tranquillizzare la popolazione trasformando in occasione di interesse un pericolo reale che tale non appariva ancora nemmeno ai più responsabili. Un ulteriore segno della distanza psicologica che c’è ancora rispetto alla guerra è dato da altri tipi di articoli che, mentre, vorrebbero esortare la popolazione al rispetto delle norme imposte dalla nuova situazione, finiscono con l’essere puri esercizi di retorica e di astratto paternalismo: “... prima di scendere nei rifugi, stropicciarsi bene gli occhi e ravviarsi i capelli per non assumere il volto di uno spiritato...; un altro consiglio, non destituito di saggezza, è di tener alto il morale. Tanto più che ci si trova in un luogo basso, bisogna tenerlo alto. I deliqui possibili nelle donne emotive si possono vincere con un sorso di acqua fresca e con un piccolo rabuffo sulle guance esangui. Il terrore dei bambini si domina con una paterna carezza... È così che bisogna trascorrere la breve permanenza nei rifugi”32.

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    L’esperienza dei ricoveri

    I bombardamenti su Napoli nel 1940, senza contare quelli imprecisi e puramente dimostrativi dei francesi nei primissimi giorni di guerra, sono stati in tutto nove, con un totale di sessanta morti e circa cento feriti. Incursioni notturne, di non lunghissima durata (dai trenta ai quarantacinque minuti) rivolte sempre ad obiettivi militari; gli aerei inglesi privi di scorta e con strumenti di identificazione dei bersagli da colpire poco precisi, spesso vengono intercettati ed allontanati dalla contraerea. La memoria ha forse cancellato quei primi momenti di guerra, o almeno, differenziandoli da quelli successivi, ha fissato un ricordo di “normalità” priva di angosce che contrasta con affermazioni di alcuni storici studiosi dell’evento bellico: “La percezione di queste tremende novità della guerra moderna è immediata da parte della popolazione: già nel settembre del 1939 i rapporti dei fiduciari fascisti raccolgono i timori diffusi circa l’impiego dell’arma aerea”33. In realtà non sembra esserci ancora né la paura né la percezione del pericolo incombente: “La prima bomba è caduta a Porta Capuana, inespolosa, e per qualche giorno... si vedeva dal tram un grande spiazzo vuoto e, intorno allo spiazzo, una fila rada di militi, e una fila più densa di popolani comunicarsi a bassa voce le prime impressioni..., ma vicino c’era una buffa giostra di paese, tutta dipinta di cilestrino... e grandi e piccoli s’affrettavano a salire in arcioni sui cavallucci... per sbirciare dall’alto il nemico appiattito sul terreno”34.

    In questa fase non si va ancora nei ricoveri, se non sporadicamente; si cerca di concentrarsi nei piani bassi, o al più nei ricoveri

    casalinghi che altro non sono se non scantinati più o meno attrezzati con panche e sacchetti di sabbia. Non si è certo ancora disposti ad abbandonare la casa, bene da custodire, ma anche tana protettiva perché la paura non è tale da renderla ostile, insicura. Si comincia comunque ad intravvedere il nuovo mondo psicologico introdotto dal tempo di guerra: si tratta di trasformazioni nella scansione del tempo di vita quotidiana, di modifica delle proprie abitudini. È frequente, ad esempio, il cambio delle abitazioni, sia per evitare quelle situate ai piani alti, perché ovviamente le più esposte, sia per poter usufruire di ricoveri più sicuri e confortevoli. I nuclei familiari cominciano a ricompattarsi; i figli ritornano presso i genitori, le giovani mogli lontane dai mariti vanno a vivere presso i suoceri, interi nuclei trovano conveniente la coabitazione. Si prendono ad evitare le strade più esposte per percorrere solo le più familiari, dove si conoscono i punti di rifugio.

    In queste trasformazioni, tuttavia, non tutto è vissuto come negativo: “Il problema era ancora di evitare eventuali spezzoni e schegge, ma si provava piacere nello stare tutti insieme. Tutto sommato lo scendere al primo piano, per noi bambini, diventa un’occasione di festa, ma anche per gli adulti era un modo per stare di più con gli altri”35. In alcuni strati sociali questa prima fase della guerra sembra far rinsaldare vincoli di amicizia: “Già ci conoscevamo nel palazzo, ma non avevamo mai avuto occasione, almeno noi giovani, per stare tanto tempo insieme, ed io di ciò ero molto contenta”36. “Quando la nostra casa alla Marina fu bombardata, e fu una delle prime case di Napoli, andammo a vivere al Corso Vit-

    33 Nicola Gallerano, Gli italiani in guerra 1940-43. Appunti per una ricerca, in “Italia contemporanea”, 1985, n.160, p. 82.34 A. Maiuri, Taccuino, cit., p. 23.35 Intervista a S. Girosi cit.36 Intervista a I. Miale, professoressa di lettere, 30 settembre 1984.

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    torio Emanuele da alcuni parenti; certo non fu facile, ma ci aiutammo molto a vicenda”37. In alcuni casi si è potuto registrare addirittura l’aprirsi di piccoli spazi di libertà: giovani e giovanissime donne, ad esempio, si sottraggono all’autoritarismo familiare e per pochi momenti, brevi in verità, vivono esperienze diverse: “In quel periodo ho imparato a ballare: ci riunivamo da una signora a pianoterra e con mio fratello, ed alcuni suoi amici, facevamo andare dei dischi”38.

    Si verifica pure, ma in condizioni del tutto atipiche, una particolare forma di resistenza da parte di una piccola collettività: non indifferenza verso la realtà, da parte di un gruppo di antifascisti non ancora organizzati e pienamente politicizzati e che solo più tardi cercheranno forme esplicite di opposizione, bensì tentativi di allontanare la paura attraverso una sorridente visione di sé e delle proprie debolezze, capacità di rimanere aderenti a se stessi, al proprio spazio vitale, al proprio mondo culturale nel momento in cui ci si sente attaccati. Racconta una testimone: “All’inizio si stava nel ricovero molto a lungo perché le sirene funzionavano male e non avevamo ancora molta esperienza, finivamo per passarvi le intere notti. Dopo un paio di giorni di permanenza — e sono ancora i primi tempi di guerra — l’architetto Greco e mio padre, Salvatore Scognamiglio, decisero di movimentare un po’ l’atmosfera, organizzando nel ricovero casalingo recite di poesie, di madrigali alle donne, scherzi sui cognomi e sulle piccole manie della gente. Avvicinandosi il Natale pensammo di allesti

    re per burla una trasmissione radiofonica. Nel giorno stabilito, mentre tutti si trattenevano nel ricovero, chi preparando i bambini per la notte, chi commentando gli ultimi avvenimenti, mio padre, l’architetto ed io ‘mandammo in onda’, mediante un’attrezzatura di fortuna, il nostro ‘programma’, suscitando molta ilarità ed entusiastiche accoglienze... Dopo Natale, prendemmo un’altra iniziativa, quella di preparare un giornaletto, ‘Il Sottoterra’, un foglio elio- grafato, con articoli a sfondo satirico; in regalo agli abbonati, e l’abbonamento si pagava in natura, era promessa una fotografia del capopalazzo (!) con una dedica... La Befana porta doni ai bambini onesti e buoni ma ne porta anche ai decani. Che poteva il Sottoterra nel fragor di tanta guerra dare in dono agli abbonati più del cavalier Rosati? Dopo questi primi mesi di guerra, però, il ricovero sarà frequentato con tutt’altro spirito”39.

    Su altri versanti, ad esempio su quello dell’attribuzione delle competenze, dei limiti e dei vincoli relativamente all’allestimento dei ricoveri casalinghi, si manifestano tenaci quanto radicati atteggiamenti che rivelano mancanza di senso civico, attaccamento alla “roba” , incapacità di andare oltre il piccolo interesse personale da un lato, e dall’altro l’inadeguatezza dell’intervento pubblico che si limita a prescrivere e a minacciare, a far ricadere sul privato gli oneri della difesa, consentendo ai proprietari degli immobili di rivalersi sugli inquilini in una sorta di rimando continuo in cui i meno abbienti, come al solito, finiscono per essere i più esposti40.

    37 Intervista a S. Amodio, casalinga, 20 aprile 1985.38 Ivi.39 Intervista a A.M. Bonucci, funzionaria presso la Soprintendenza per i Beni artistici e storici di Napoli, 7 giugno 1985.40 “Gli stabili devono essere tutti muniti di ricoveri... I proprietari devono compiere il loro dovere... Ricordiamo che il prefetto con previggente senso di responsabilità fin dal 23 dello scorso mese ha nominato una commissione apposita che ha l’incarico di esaminare tutte le questioni attinenti appunto alla difesa dell’inquilinato in rapporto alle offensive aeree” , in “Il Mattino”, 7 novembre 1940. Ma di inadempienze dovevano essercene molte se periodi-

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    L’intervento diretto delle autorità locali si limita alla costruzione di trincee nei giardini pubblici, alla difesa dei monumenti cittadini e all’indicazione al nemico di chiese, ospedali, orfanotrofi con grandi croci dipinte di giallo, mentre solo ad un anno dall’inizio della guerra si dà notizia dell’allestimento di 103 ricoveri pubblici. La notizia è del marzo 1941: mentre si riferisce che la protezione antiaerea è passata tra le competenze del Ministero degli Interni, si annunzia anche alla popolazione lo stanziamento di un fondo di diciotto milioni per i ricoveri pubblici. Dal gennaio al giugno del 1941 la guerra sembra essersi allontanata dalla città: due soli bombardamenti, il primo l’8 gennaio ed il secondo il 28 dello stesso mese. Ma ormai il dato bellico è ineludibile: l’esperienza distruttiva ancora limitata sta diventando diffusa, ci si rende sempre più conto della fragilità delle case e dell’insicurezza dei ricoveri casalinghi, cominciano a pesare il tesseramento per i viveri, il razionamento della benzina, il rarefarsi dei generi di prima necessità. Ancora un altro elemento si fa avvertire con cupa drammaticità: le notizie dei caduti sul suolo africano e il rientro in patria dei feriti e dei mutilati rendono palpabile l’esperienza della morte. In un discorso dell’l l novembre 1941 Mussolini esalta il popolo napoletano come del tutto all’altezza della situazione e al lavoro per la vittoria; riconosce anche che sono già 1089 i napoletani morti in Africa. La morte, certo, anche in caso di guerra è vissuta nell’allucinante solitudine di una vicenda che terminate le celebrazioni del rito viene ricondotta nell’ambito del privato, ma ormai non possono più passare inosservati l’aumento delle vedove e degli orfani di

    guerra o le striscette nere con le stellette bianche all’occhiello di un numero crescente di persone in lutto per bombardamenti; i segni della morte sono ormai sempre più evidenti e non si può più distogliere lo sguardo.

    A metà aprile 1941 l’Asse sferra una nuova offensiva sul suolo africano per frenare l’avanzata inglese e dall’estate dello stesso anno riprendono con rinnovata violenza le incursioni sulle città del sud del paese. Gli aerei inglesi sono diventati nel frattempo più efficienti e più precisi, i bombardamenti durano più a lungo (quello tra il 9 e il 10 luglio è di circa tre ore) e gli aerei del tipo Wellington si susseguono in trenta e più ondate successive. Negli ultimi tre mesi dell’anno Napoli diviene la città italiana più colpita; il bilancio ufficiale nell’arco dei dodici mesi raggiunge la cifra di centosei morti, ma certamente sono stati più di trecento. In questa fase della guerra l’obiettivo più importante per gli inglesi sembra essere quello di colpire i porti e gli aereoporti da cui partono i rifornimenti per l’Africa settentrionale, oltre che di intaccare le capacità produttive degli italiani41. Ormai non vengono bersagliati solo gli obiettivi militari, ma profonde voragini cominciano a punteggiare tutte le strade della città il cui assetto dal Vomero a S. Lucia, a Capodimonte appare sconvolto. Annota al riguardo il Maiuri: “... le case lungo la Marina, i quartieri poveri e popolosi del Carmine... le case del quartiere di Loreto presso la zona industriale, assistono ogni notte ad una vera battaglia del fronte: sentono il rumore sinistro dei motori passare e ripassare, il sibilo e il tonfo delle bombe, lo scotimento dei vetri e delle mura... A chi guardi da Sorrento, da Capri, da Procida parrà una festa di

    camente e fino a tutto il 1942 ricompaiono su tutti i quotidiani articoli dello stesso genere anzi con la diffida ai proprietari ad adattare immediatamente scantinati e terranei, a pena di fare eseguire egualmente i lavori in loro danno. Una vera e propria guerra privata giostrata tra inquilini, proprietari, capi-fabbricati e le altre figure che avrebbero dovuto fornire assistenza alla popolazione.41 G. Bonacina, Obiettivo Italia. I bombardamenti aerei delle città italiane dal 1940 al 1945, Milano, Mursia, 1970.

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    luce, la luminaria di un fantasioso pirotecnico, una Piedigrotta più fragorosa”42. Dal gennaio al settembre 1942 i bombardamenti diminuiscono di nuovo: gli inglesi sono impegnati nella difesa di Malta, massicciamente attaccata dalla Luftwaffe e dalla aereonautica italiana; la stampa locale riprende fiato e trova il modo per commentare i terribili giorni trascorsi come se il pericolo fosse ormai passato. “ ... Napoli sentì con il suo senso della più antica capitale del continente che essa in quelle tetre notti dello scorso novembre rappresentava tutto l’onore e tutta la dignità dell’Italia in guerra... (essa) fece fallire in pieno tutti i piani politici e strategici combinati tra Charles Portai e Churchill nei suoi riguardi, e ridusse il famoso memoriale dell’attuale comandante della Raf ad essere un documento non più come dicevano i giornali inglesi, di energia, ma un documento di imbecillità presuntuosa ed arrogante... Questa splendida resistenza morale di Napoli che ebbe luogo nel novembre e nel dicembre fu un segnale di tutto un mutamento di prospettiva e di destini di tutto il bacino del Mediterraneo”43.

    È noto come sul finire del 1942 cominci la reale collaborazione tra la Raf e la Usaf: sono le grandi città del nord a sperimentare per prime la diversa e infinitamente più forte capacità distruttiva dell’alleato americano. Ma il 4 dicembre dello stesso anno è la volta di Napoli: “È questa una data scritta a caratteri indelebili nella storia della nostra città, che in questa sola incursione ebbe tre- centocinquantanove morti e oltre trecento feriti accertati”44. Si tratta di un bombardamento a ondate successive compiuto da aerei americani (Consolidated Liberators) in for

    mazione compatta che inizia alle 7,33 riprende alle 16,45 e si rinnova alle 21,20. Un bombardamento diurno, dunque, non diretto solo su obiettivi militari, ma efficace su tutte le zone della città: vengono colpite le navi nel porto, ma anche il pieno centro cittadino è sconvolto perché il bombardamento non è stato preceduto dall’allarme ed ha colto la popolazione nel pieno delle proprie attività. Le vittime sono un po’ dappertutto, ma particolare impressione desta l’episodio di via Monteoliveto dove sono centrate vetture tranviarie cariche di passeggeri. Questo episodio, insieme all’esplosione della Caterina Costa, la nave carica di novecento tonnellate di esplosivo saltata in aria nel porto, per motivi ancora oggi incerti, nel marzo 194345, è rimasto nella memoria della gente ancor più dei terribili bombardamenti degli ultimi mesi della guerra del sud, forse perché la morte colpisce in quel momento in maniera assolutamente casuale, forse perché lo spettacolo straziante di membra dilaniate, di corpi insepolti un po’ dovunque, dell’odore acre della legna bruciata non si era ancora visto. “1 bombardamenti fino al dicembre del 1942 erano stati per me qualcosa di irreale; le bombe cadevano sulla zona industriale che per me era un luogo molto distante... Erano le quattro del pomeriggio ed io ero uscita con mia madre a fare delle spese: ricordo di aver sentito un rombo fortissimo, ho alzato la testa e subito dopo ci siamo trovate per lo spostamento d’aria in una strada vicina. Ero a terra e mi si sono resa conto subito che era successo qualcosa di molto grave. Né io né mia madre potevamo muoverci, sentivamo i lamenti e vedevamo la gente con la faccia a terra, immobile. Ad

    42 Amedeo Maiuri, Taccuino, cit., p. 63.43 Giovanni Ansaldo, in “Il Mattino”, 31 marzo 1942.44 Aldo Stefanile, I cento bombardamenti di Napoli. I giorni delle Am-Lire, Napoli, Marotta, 1968, p. 55.45 Sulla terribile esplosione, v. quanto riferito dalle fonti alleate: PRO (London) FO 371/37262, R. 3588-89 (in copia presso l’Archivio dell’Icsr).

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    un certo punto l’aereo è tornato e ha mitragliato, allora mi sono formate davanti agli occhi delle immagini che fino a qualche tempo fa, fin quando non le ho riviste in una trasmissione televisiva, ho creduto incubi. Ho visto un cavallo che camminava senza testa e il tram con i morti in piedi...”46.

    Dopo questa data, i bombardamenti in città non subiranno più interruzioni: particolarmente gravi nel luglio e nell’agosto, quando dureranno ininterrottamente da sette a ventiquattro ore; l’ultimo realizzato dagli anglo-americani è dell’8 settembre 1943, secondo alcune testimonianze, o del 12 secondo altre. Dal 21 ottobre fino al 14 maggio 1944 bombarderanno i tedeschi, provocando nuove distruzioni e lutti. I morti civili, vittime delle bombe, alla fine del conflitto ammonteranno a circa quattromila (in tutta Italia, complessivamente, sessanta- quattromila)47. Un numero che avrebbe potuto essere anche maggiore senza il riparo offerto dalle tante cavità, di cui è sempre stato ricco il sottosuolo napoletano, trasformate in ricoveri pubblici. La particolare conformazione geologica della città ha consentito, sin dai tempi più antichi, di realizzare escavazioni di materiali d’asporto impiegato nell’edilizia e il riutilizzo degli spazi vuoti, tanto che si può parlare di una seconda Napoli sotterranea. Al momento in cui si comincia a pensare ai ricoveri, circa metà dell’area comunale risulta dotata di vuoti sotterranei per una superficie complessiva di quasi settecentomila mq. distribuiti sotto dodici

    quartieri cittadini. Sin dal primo momento vengono utilizzate le gallerie viarie, soprattutto quelle moderne (la “Laziale”, il tunnel di Fuorigrotta, quello della Vittoria, oltre che i trafori delle quattro funicolari e delle ferrovie Cumana e metropolitana)48.

    È evidente che la facilità di accesso al livello della strada le fa adoperare come riparo d’emergenza per essere ben presto utilizzate stabilmente in sostituzione delle abitazioni da parte degli inquilini dei “bassi” . Come ricorda ancora il Maiuri: “Per molti pomeriggi ho assistito dalla finestra alla quotidiana emigrazione nei ricoveri. Sono famiglie e famiglie che muovono dai quartieri della Marina con il fagotto delle coperte, il fornelletto di coccio, il fascette delle legne, il seggiolino per il pupo, una pentola di cucina; i meglio provvisti, con un carrettino a mano e qualche materasso arrotolato, verso il dormitorio della Galleria... Nell’interno della galleria c’è una fila di celle per i ricoveri, come stalli di una scuderia di magnati... già i primi gruppi hanno occupato la cella assegnata: qualche fornelletto sprizza di fiamme per la bollitura di una zuppa di verze; gli uomini siedono gravemente sulla panca... i ragazzi si danno un gran da fare con i fiaschi dell’acqua a andare e venire a gara dalla fontana più vicina... più di un ricoverato ha steso pudicamente una vecchia coltre su di una corda e fa la sua vita al coperto da ogni sguardo indiscreto... È la vita dei bassi che si trasporta dai vicoli al ricovero senza troppi disagi e senza proteste: le condizioni

    46 Intervista a S. Girosi cit.47 Cfr. N. Gallerano, Gli italiani in guerra, cit., p. 82.48 Le notizie sul sottosuolo sono ricavate da un ampio studio che lo speleologo Lucio Bartoli va conducendo sull’argomento e per il quale cfr. intanto il suo contributo, Le cavità sotterranee, nel volume di AA.VV., Napoli: una storia per immagini, Napoli, Macchiatoli, 1985, pp. 379-386.

    Il Bartoli ha inoltre raccolto con il gruppo speleologico napoletano un ampio materiale fotografico riguardante le cavità sotterranee adibite a ricovero; è stato in tal modo possibile prendere concretamente visione delle modifiche realizzate in quegli ambienti, i sedili, i servizi igienici, i particolari accorgimenti per rendere meno pericolosi gli accessi.

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    d’alloggio non sono per molti di loro peggiori...”49.

    Ma le cavità più usate perché più centrali sono state le cosiddette “cisterne cave” ricavate dalla asportazione di materiali di antichi acquedotti. Tra il 1941 e il 1942 sono stati realizzati i lavori di adattamento necessari, soprattutto allargando le canne di pozzo, cioè gli stretti cunicoli di accesso. A lavori ultimati, la città è in possesso di una fitta rete di ricoveri spesso in collegamento, abbastanza profondi, tanto da essere resistenti al potenziale distruttivo delle bombe di quel tempo, con numerosi accessi da strade piuttosto lontane le une dalle altre. Senza grandi interventi o meriti particolari delle autorità, la popolazione trova modo di ripararsi nel momento in cui la permanenza nel ricovero diviene sempre più prolungata. Ormai il tempo della guerra è diventato per tutti presenza corposa ed incancellabile: "... quando si parla di guerra, si pensa allo sfacelo, alla morte, al dolore; ma c’è anche quest’altra cosa terribile che è ancora più forte perché dura: il fatto cioè di essere scaraventati nel caos e nella paura costante. Mi ero data delle norme, un’organizzazione di vita, ma l’angoscia perenne di lasciare i figli a casa quando dovevo allontanarmi per qualche motivo non mi abbandonava mai. Il mio sistema nervoso era regolato in maniera tale che balzavo in piedi al primo allarme. Le fotografie di quel tempo ci rimandano le nostre facce scavate non solo dalla fame, ma anche da questa tensione continua che non ci lasciava mai. Non c’era più domani, sapevi già che dovevi di nuovo sentire l’allarme, gli scoppi, la terra che tremava in una continua ripetizione che fiaccava le energie e la volontà...”50.

    Pure, nemmeno per i momenti più terribi

    li del conflitto, si può fare un discorso generalizzato. La società napoletana è appena alle soglie della modernità, e se le forme di adattamento soggettivo possono essere state molteplici e diversificate, a grandi linee le stratificazioni sociali sono ancora leggibili, tanto da cogliere l’ineguale distribuzione delle risorse e le evidenti condizioni sperequate di privilegio. Sempre partendo dalla vita nei ricoveri, accanto al già ricordato esempio relativo ad una zona borghese residenziale (Vomero), se ne possono addurre altri svoltisi in aree dalle caratteristiche ambientali alquanto diverse. Così nel caso del ricovero, ancor oggi esistente in corso Vittorio Emanuele, alle spalle dell’albergo Parker, noto in tutta la città per la sua solidità e sicurezza. Si tratta di una grotta ben areata che entra profondamente nella collina del Vomero con più ingressi; allo scoppio delle ostilità era stato prontamente attrezzato con la costruzione di comode stanze, tra loro divise, e di ambienti comuni. “La sicurezza di tale ricovero — scrive Aversa — è quasi assoluta, le comodità da esso offerte non sono comuni. Per poterne usufruire, la parte più facoltosa della cittadinanza aveva pigliato stabile dimora nell’albergo Parco, dove era diventato difficilissimo, quasi impossibile trovar posto. Intensificatisi gli attacchi, per la cortesia del signor Loeliger, cittadino svizzero, proprietario sia del Parco che del Bellavista, avevano ottenuto di accedere al ricovero gli inquilini del palazzo d’Ayala e pochi abitanti nelle vicinanze da lui personalmente conosciuti”51. Ed ancora, nel caso del ricovero sottostante un palazzo della signorile via Martucci (adiacente la Riviera di Chiaia), ci si riuniva per nucleo di conoscenti come si sarebbe fatto per andare in visita nei giorni di festa: “ ... c’era un gruppo di

    49 A. Maiuri, Taccuino, cit., pp. 47-48.50 Intervista a G. Rattazzi, pubblicista, 2 febbraio 1985; nello stesso senso si esprime N. Gallerano, Gli italiani in guerra, cit., p. 84.51 Nino Aversa, Napoli sotto il terrore tedesco, cit., p. 8.

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    inquilini tra cui un conte, la sorella di un ambasciatore ed altre persone piuttosto facoltose che nel ricovero giocavano a carte come erano soliti fare in tempo di pace. Era gente che non si spaventava molto, abituata al controllo e al rapporto con gli altri, ma anche con un forte senso di superiorità che nemmeno in quel momento perse. Pensarono addirittura ad arredare il ricovero con poltrone costruite appositamente ed in vendita presso il negozio in via dei Mille che si chiamava ‘Domus’”52. andavamo in alcune grotte a Posillipo attrezzate con le cabine che si usavano per i bagni di mare. Qualcuno aveva portato delle sedie a sdraio, altri addirittura dei letti. Non ricordo scene di panico; scendevamo nelle grotte come se si andasse a fare una visita. Si aveva rispetto per sé e per gli altri per cui ci si vestiva, ci si pettinava e quando le persone si incontravano nel ricovero avevano quegli atteggiamenti che si hanno in un salotto”53.

    Insomma, angoscia, smarrimento, lacerazione e miserie materiali non riguardano tutti, evidentemente; persino la guerra, un evento coinvolgente e agglomerante, enfatizza al contrario la disparità di condizioni sociali, innanzitutto, e quindi di quelle culturali e psicologiche, interferendo fortemente in maniera differenziata sui vissuti indivi

    duali e collettivi. C’è da aggiungere, poi, che tutto sembra congiurare ai danni in particolare dei ceti della piccola e media borghesia urbana; per quanto concerne, infatti, gli strati popolari si è già notato come il trasferimento nelle gallerie rappresentasse in qualche modo il proseguimento della vita precedente, con forti capacità di adattamento, di autodifesa e di riorganizzazione del “quotidiano”54. È proprio la minuta borghesia che per abitudine ed educazione appare poco propensa verso forme di vita comunitaria a soffrire di più quando deve rinunziare al rassicurante “privato” , agiato o no che fosse, ed è costretta a sommare ai disagi generali una forzata promiscuità che la disturba più che qualsiasi altra cosa. Le famiglie si ritraevano in sé, evitando il contatto con gli estranei, desiderose comunque di rimarcare la differenza sociale e di far valere un “noi” e un “loro” che era inteso come unica forma di difesa possibile. Le cose stanno in maniera assai diversa da quel che sembra suggerire il perbenismo letterario delle colonne del “Il Mattino” a proposito di “un senso di solidarietà umana di unione e di eguaglianza” che si sarebbe sviluppato attraverso le varie fasi dell’esistenza sotterranea, e addirittura di processi e risultati scaturitine per cui “la gente ha potuto comprendere ed apprezzare

    52 Intervista a G. Rattazzi cit.53 Intervista a A. Gambuli cit.54 In un vastissimo ambiente capace di contenere circa diecimila persone, sottostante l’attuale piazzetta Augusteo che si apre nella centralissima via Roma, a cui si poteva accedere anche da altri nove varchi sono state ritrovate e fotografate da Lucio Bartoli in buono stato di conservazione delle scritte sui muri, testimonianza della varietà di cultura, di sentimenti, di stati d’animo delle persone che hanno condiviso forzatamente quegli spazi. I messaggi esprimono dunque l’instabilità degli umori politici (“Vinceremo!” , ma anche “Abbasso il re, abbasso Mussolini!”), il progressivo distacco dal regime (“Viva il Duce che alla fame ci conduce!”) e il senso di liberazione nel momento in cui il ricovero può essere abbondato (“Longobardi Antonio finalmente liberato da questo sepolcro, il 1° ottobre 1943”); inoltre fantasie erotiche e delicate rappresentazioni di paesaggi montani, silhouettes ironiche di personaggi ma anche malinconici visi di donne. Da alcune scritte si intravedono anche forme di adattamento che i ceti popolari sanno trovare nei momenti di difficoltà (“La signorina Di Guida Nunzia lavora in questo ricovero”); potrebbe essere solo la stizzosa risposta di un innamorato respinto ma sicuramente ispirata a dati di realtà visibili da parte di tutti coloro che frequentavano quegli ambienti. Su un’altra parete si può leggere in dialetto napoletano (“La fame la soffre chi non sa arrangiarsi”). Anche questa potrebbe essere un’affermazione ironica ma ispirata alle mille “risorse”, dal contrabbando al saccheggio dei magazzini, a cui il popolo è ricorso negli anni più difficili del conflitto.

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    il punto di vista delle varie classi, attenuare le differenze e le divergenze”55. Ricordano alcuni testimoni: "... abitavamo alla Marina e andavamo in un ricovero in piazza Nicola Amore. Si camminava al buio, e nessuno si riconosceva; ognuno teneva stretta la borsa in cui aveva raccolto quel poco oro che era rimasto e le tessere annonarie. L’imboccatura del ricovero era stretta e c’era molta confusione per scendere; gli uomini erano i più paurosi e ti spingevano e ti calpestavano. Mia madre ci teneva strette, me e mia sorella, che era già una ragazza e non voleva che parlasse con nessuno...”56. “ ... i miei genitori non volevano andare al ricovero perché nel tunnel della metropolitana in piazza Oli- velia, che era vicino a casa nostra, andava solo il popolino; abbiamo dovuto toccare con mano la necessità prima di decidere di mescolarci con gli altri. Dicevano a noi ragazzi di non avvicinarci troppo a determinate persone perché avremmo potuto prendere i pidocchi (che effettivamente abbiamo preso tutti). I genitori cercavano di non farci parlare con gli altri, ma per me era una esperienza straordinaria stare con tanta gente, e si può dire che nel ricovero ho imparato il dialetto napoletano”57. “Mio padre non ha mai voluto scendere nel ricovero: diceva sempre che la bomba poteva cadere e non, la polmonite invece era sicura, che i ricoveri erano pieni di sporcizia perché la gente era andata proprio ad abitarvi e lui non aveva nessuna intenzione di andare a prendersi dei malanni in quei luoghi bui, freddi e pieni di gente di tutte le specie...”58.

    Dunque, la vita nei ricoveri non ha avvicinato gli strati sociali, anche per l’assoluta mancanza di interventi assistenziali e di mediazioni pubbliche da cui in altre realtà sono procedute esperienze del tutto diverse59. In un caso come quello napoletano gli strati popolari hanno ritrovato nell’allentarsi del controllo fascista in tempo di guerra una capacità di manovra che gli altri ceti non potevano avere. All’opposto, su strati sociali più alti e da sempre abituati al privilegio, nemmeno il fascismo e la guerra hanno indotto trasformazioni nelle condizioni materiali e nei comportamenti.

    Anche la vita nei ricoveri, insomma — emblematica condizione esistenziale del tempo di guerra — ripropone il tratto tipico della società napoletana al cui interno il divario di sempre con la politica e con il potere istituzionalizzato induce, soprattutto nei momenti di crisi, forme di difesa specifiche del proprio status e di riorganizzazione spontanea della socialità collettiva, autonome e “altre” rispetto alla sfera pubblica. D’altronde, se è vero che “nessun altro evento come la guerra è capace di esprimere in maniera tanto attuale, e insieme simbolica, il consolidamento o la decadenza, il dispiegarsi o il crollo del potere”60, ciò risalta con nettezza ancora maggiore nel caso napoletano. Di fronte al tentativo di immettere in loco dall’esterno un modello statuale estraneo, “avventizio”, il contesto locale ha reagito irrigidendo ed incrementando “le caratteristiche della stessa struttura sociale per comparti verticali, aree ‘cilindriche’ non comuni-

    55 Francesco Mastracchio, Notte d ’allarme, in “Il Mattino”, 12 gennaio 1985.36 Intervista a S. Amodio cit.57 Intervista a S. Girosi cit.58 Intervista a I. Poderico, insegnante elementare, 4 marzo 1985.59 Sui mutamenti sociali indotti dalla I e II guerra mondiale si veda A. Marwick, War and Social Change in the Twentieth Century. A Comparative Study o f Britain, France, Germany, Russia and the United States, London, 1974. Da notare l’avviso diverso manifestato da Lambiase e Nazzaro, Napoli 1940-1945, cit., secondo i quali non sarebbe mancata una “gelida trama di divieti e di doveri”, stesa dai pubblici poteri e tale da conferire alla vicenda di guerra un suo ritmo assolutamente originale.60 Introduzione di Ernesto Galli della Loggia al citato volume di Paul Fussel, La grande guerra, p. 7.

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    canti, (le quali) maturate e organizzate secondo schemi e modelli stratificatisi e consolidatisi nel tempo, permangono ancora più tenaci e peculiari”61. In conclusione, a guerra finita e a regime ormai caduto, ciascun segmento della società napoletana si ritrova più chiuso in se stesso ed incapace di rompere con il proprio passato, e contemporaneamente più debole e più esposto. Nella tremenda crisi appena vissuta è sembrato ad

    ognuno che l’unica protezione consistesse nella difesa della tradizione di vita all’interno della quale si era vissuto fino ad allora; per questo in definitiva ci si sentiva pure disponibili e necessitati a ricevere dall’esterno nuovi e rassicuranti ripari, si trattasse dell’occupazione anglo-americana oppure della rinnovata egemonia moderata62.

    Laura Capobianco

    61 Guido D’Agostino, Napoli: governo e amministrazione della città dalla caduta del fascismo all’avvento della Repubblica (1943-1946), in AA.VV., Alle radici de! nostro presente, cit.62 Va rilevato che nel ricordo della maggior parte dei testimoni intervistati, circola una valutazione molto negativa del ruolo e dell’influenza avuta dagli americani sul costume della popolazione napoletana dell’epoca, soprattutto di quella giovanile.