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Note e discussioni L’ultima vittoria del fascismo Spagna 1938-1939 Lucio Ceva L’afflusso degli aiuti stranieri all’una o all’altra parte ebbe un peso determinante, talvolta decisi- vo, sull’andamento della guerra. La tempestività degli arrivi fu spesso più risolutiva che non la mole degli invii, giacché o l’una o l’altra parte sa- rebbe stata costretta diversamente a soccombere o ad addivenire a un compromesso, qualora non avesse ricevuto in tempo i rifornimenti necessari (corsivo mio). Queste considerazioni compendiano bene l’azione degli interventi stranieri nella trage- dia consumata in Spagna fra il 1936 e il 19391. In effetti, nel luglio 1936 pochi veli- voli italiani e tedeschi avevano permesso il trasporto delle truppe d’Africa sul territorio metropolitano impedendo alla Repubblica di domare l’ammutinamento dei generali e di parte dell’esercito. Nel successivo autun- no il materiale bellico sovietico e le brigate internazionali avevano aiutato a scongiurare la presa di Madrid da parte dei nazionalisti. Tra dicembre 1938 e febbraio 1939 l’arrivo di materiali tedeschi e soprattutto l’iniziati- va italiana del Corpo Truppe Volontarie (Ctv) permisero la liquidazione della Catalo- gna e il conseguente crollo a fine marzo del ridotto Madrid - Valencia. Così la Repubbli- ca spagnola cadde giusto in tempo perché la sua lotta non si saldasse alle vicende della seconda guerra mondiale nel settembre 1939. Infinite sarebbero le ipotesi sulle con- seguenze che il prolungarsi della guerra civi- le in Spagna avrebbe potuto avere sugli svi- luppi operativi del nuovo gigantesco conflit- to2. La logica per altro conforta la supposi- zione che, al conto finale, l’esito non sareb- be cambiato salvo che il crollo dei regimi to- talitari avrebbe travolto anche quello di Franco. Desiderando offrire, come già fatto per il precedente volume, un ordinato campiona- rio di osservazioni e commenti su questa nuova e conclusiva fatica dell’Ufficio stori- co, converrà ora seguirne la successione espositiva ritornando solo in chiusura ai consuntivi della vicenda. Nell’anno e mezzo che corre dall’autunno 1937 alla fine della guerra (1° aprile 1939) i principali eventi operativi furono cinque. L’offensiva repub- blicana di Teruel (15 dicembre 1937-23 feb- 1 Si vedano le “Considerazioni conclusive” (la citazione è tratta da p. 442) del volume che intendiamo discutere in questa sede: Alberto Rovighi, Filippo Stefani, La partecipazione italiana alla guerra civile spagnola (1936-1943), volume secondo Dall’autunno 1937all’estate 1939, Tomo I, Testo e Tomo II, Allegati, Roma, Ufficio storico dello Stato Maggiore dell’Esercito 1993. Sul primo volume vedi Lucio Leva, Ripensare Guadalajara, “Italia Contempo- ranea”, 1993, n. 192. 2 È da pensare che la dichiarazione di “neutralità” che Franco mise avanti nell’estate 1938 quando si profilò il peri- colo della guerra europea poi rimandata di un anno, poco gli avrebbe giovato finché in Spagna esisteva un fronte di guerra. Italia contemporanea”, settembre 1994, n. 196

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Note e discussioni

L ’ultima vittoria del fascismo Spagna 1938-1939

Lucio Ceva

L’afflusso degli aiuti stranieri all’una o all’altra parte ebbe un peso determinante, talvolta decisi­vo, sull’andamento della guerra. La tempestività degli arrivi fu spesso più risolutiva che non la mole degli invii, giacché o l’una o l’altra parte sa­rebbe stata costretta diversamente a soccombere o ad addivenire a un compromesso, qualora non avesse ricevuto in tempo i rifornimenti necessari (corsivo mio).

Queste considerazioni compendiano bene l’azione degli interventi stranieri nella trage­dia consumata in Spagna fra il 1936 e il 19391. In effetti, nel luglio 1936 pochi veli­voli italiani e tedeschi avevano permesso il trasporto delle truppe d’Africa sul territorio metropolitano impedendo alla Repubblica di domare l’ammutinamento dei generali e di parte dell’esercito. Nel successivo autun­no il materiale bellico sovietico e le brigate internazionali avevano aiutato a scongiurare la presa di Madrid da parte dei nazionalisti. Tra dicembre 1938 e febbraio 1939 l’arrivo di materiali tedeschi e soprattutto l’iniziati­va italiana del Corpo Truppe Volontarie (Ctv) permisero la liquidazione della Catalo­

gna e il conseguente crollo a fine marzo del ridotto Madrid - Valencia. Così la Repubbli­ca spagnola cadde giusto in tempo perché la sua lotta non si saldasse alle vicende della seconda guerra mondiale nel settembre 1939. Infinite sarebbero le ipotesi sulle con­seguenze che il prolungarsi della guerra civi­le in Spagna avrebbe potuto avere sugli svi­luppi operativi del nuovo gigantesco conflit­to2. La logica per altro conforta la supposi­zione che, al conto finale, l’esito non sareb­be cambiato salvo che il crollo dei regimi to­talitari avrebbe travolto anche quello di Franco.

Desiderando offrire, come già fatto per il precedente volume, un ordinato campiona­rio di osservazioni e commenti su questa nuova e conclusiva fatica dell’Ufficio stori­co, converrà ora seguirne la successione espositiva ritornando solo in chiusura ai consuntivi della vicenda. Nell’anno e mezzo che corre dall’autunno 1937 alla fine della guerra (1° aprile 1939) i principali eventi operativi furono cinque. L’offensiva repub­blicana di Teruel (15 dicembre 1937-23 feb-

1 Si vedano le “Considerazioni conclusive” (la citazione è tratta da p. 442) del volume che intendiamo discutere in questa sede: Alberto Rovighi, Filippo Stefani, La partecipazione italiana alla guerra civile spagnola (1936-1943), volume secondo Dall’autunno 1937all’estate 1939, Tomo I, Testo e Tomo II, Allegati, Roma, Ufficio storico dello Stato Maggiore dell’Esercito 1993. Sul primo volume vedi Lucio Leva, Ripensare Guadalajara, “Italia Contempo­ranea”, 1993, n. 192.2 È da pensare che la dichiarazione di “neutralità” che Franco mise avanti nell’estate 1938 quando si profilò il peri­colo della guerra europea poi rimandata di un anno, poco gli avrebbe giovato finché in Spagna esisteva un fronte di guerra.

Italia contemporanea”, settembre 1994, n. 196

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braio 1938) è faticosamente contenuta e alla fine respinta dai franchisti. L’offensiva na­zionalista di Aragona (9 marzo-19 aprile 1938) porta, in due distinte fasi, al risultato strategico di aprire un corridoio a sud del- l’Ebro fino al Mediterraneo isolando la Ca­talogna dal resto della Repubblica. L’ulte­riore offensiva franchista su Valencia (bat­taglia del Levante, aprile-luglio 1938) realiz­za solo avanzate costose e poco concludenti. La grande controffensiva repubblicana sul- l’Ebro (luglio-novembre 1938), dopo un esordio promettente, si stempera in azioni di logoramento per oltre cento giorni e lascia esausti i contendenti. L’offensiva franchista (23 dicembre 1938-4 febbraio 1939) conqui­sta Barcellona e l’intera Catalogna ponendo virtualmente fine al conflitto già prima del­l’ultima spallata nazionalista al centro (fine marzo 1939).

A Teruel e all’Ebro, dove era stata vera­mente fiaccata la forza militare della Repub­blica, il Ctv aveva partecipato solo con arti­glieria e aviazione e, nel secondo caso, an­che con qualche intervento di carri (pp. 40- 48 e 293-296). Nella lunga e inconclusa bat­taglia del Levante il Ctv ebbe parte di primo piano nell’ultima fase (luglio 1938). Ma nel­le battaglie di Aragona e di Catalogna l’a­zione del Ctv fu veramente decisiva e su di esse pertanto concentreremo l’attenzione. Se l’offensiva in Aragona è di concezione spa­

gnola, fu però l’azione impetuosa del Ctv a farla a tratti esorbitare dagli schemi caratte­ristici della prima guerra mondiale che in ge­nere si ritrovano nelle principali operazioni in Spagna.

Il Ctv del generale Berti (vicecomandante Frusci, capo di Stato maggiore Gambara) organicamente non è più quello di Guada­lajara e nemmeno quello di Santander. Con­sta di tre divisioni di fanteria: la “Fiamme Nere-XXIII marzo” (console generale Fran- cisci) derivata dalla fusione delle divisioni “Fiamme nere” e “XXIII marzo” e la “Lit­torio” (generale Bergonzoli) entrambe ora su formazione ternaria; la “Frecce” (genera­le Roatta) italo-spagnola e quaternaria su ben 14 battaglioni derivante dalla somma delle due brigate miste “Frecce Nere” (gene­rale Piazzoni) e “Frecce Azzurre” (generale Guassardo). Vi è poi il Raggruppamento carristi” del colonnello Babini3. L’artiglie­ria, parte frazionata nelle divisioni e nei reg­gimenti e parte concentrata in uno speciale Comando affidato al generale Manca di Mores, comprende 236 bocche da fuoco dal 149/12 al 65/17, oltre a 94 fra antiaerei e controcarri4.

I 40.000-45.000 uomini del Ctv (38.700 di cui 13.500 spagnoli nelle tre divisioni, il re­sto negli altri reparti e supporti) dispongono complessivamente, ed esclusi i motocicli, di 3.165 automezzi fra i quali 352 autovetture,

3 Articolato su due battaglioni carri (56 L3), un battaglione motomeccanizzato (1 cp. di 9 vetuste autoblindo Lan­cia IZ, 1 cp. mitraglieri con un centinaio di moto e circa 30 armi automatiche), una batteria controcarri (6 da 37/45 e 2 da 47/32).4 Comprendeva: circa 60 pezzi da 65/17 distribuiti ai reggimenti di fanteria; 32 anticarro (30 da 37/45 e 2 da 47/ 32) e 30 mitragliere contraeree da 20 in reparti reggimentali, divisionali o di brigata oltreché nel Raggruppamento carristi; 3 gruppi da 75/27 (36 pezzi), 2 gruppi da 100/17 (16 pezzi), 3 gruppi da 65/17 (36 pezzi) formanti le arti­glierie divisionali; 2 gruppi da 149/12 (24 pezzi) e 2 da 105/28 (24 pezzi), 2 gruppi da 100/17 (16 pezzi), 1 gruppo da 75/27 (12 pezzi), 1 gruppo da 65/17 (12 pezzi), 5 batterie antiaeree da 75 CK (20 pezzi) e 12 mitragliere da 20, di­stribuiti nei raggruppamenti “medi calibri”, “piccoli calibri” e “contraereo” del Comando Artiglieria Ctv. Parte dei 65/17 era someggiata, gli altri pezzi erano autotrainati oppure autotrasportati, più raramente installati su automez­zi dai quali potevano far fuoco (come i 20 pezzi da 75 CK contraerei e forse qualche mitragliera da 20). È inoltre da presumere che l’organico dei gruppi e delle batterie sia stato completato prima della battaglia attingendo ai mate­riali del “Comando centro complementi e addestramento”; inoltre il numero dei trattori era spesso inferiore al nu­mero dei pezzi da trainare. Do questo conteggio dettagliato perché esso si ricava solo, con calcoli e ragionamenti, dalle note 7-13 a pp. 92-98 le quali permettono di rimediare a qualche imprecisione dell’elenco a p. 74 del testo.

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108 trattori d’artiglieria e 20 autocannoni. A parte un certo numero di “autospeciali” (ambulanze, autoradio, autofrigoriferi, vei­coli-officina, ecc.), il grosso era rappresen­tato da autocarri leggeri e pesanti e da non molte autocarrette. La media era di 1 mezzo ogni 14-16 uomini, più che ragguardevole in assoluto e addirittura impressionante rispet­to alle disponibilità spagnole5. Poiché la for­za complessiva impiegata dai nazionalisti nell’offensiva è stimata dall’Ufficio a 14 di­visioni con 750 pezzi d’artiglieria (p. 72 sen­za indicazioni documentali), le tre divisioni del Ctv (25 per cento di tale forza) coi loro 300 pezzi di ogni genere detenevano quasi il 40 per cento dell’artiglieria. Le dotazioni del Ctv sono abbondanti anche per il genio (pur mancando un’unità pontieri) e per le tra­smissioni (sia radio sia a filo). Il genio così come il servizio sanitario e l’Intendenza so­no ben organizzati, ma trovano il loro limite nella scadente qualità dei materiali e degli equipaggiamenti che d’altronde corrispon­dono alle normali dotazioni dell’esercito ita­liano (pp. 72-75). Il morale, abbassatosi nei lunghi periodi di stasi operativa (oltre sei mesi per il grosso del corpo), pare si sia rial­zato in vista dell’impiego (pp. 54-56 e 75).

Quanto alle forze avversarie, l’Ufficio si limita a un confronto “tabellare” alquanto sfavorevole ai repubblicani: 12 divisioni con 350 pezzi d’artiglieria contro 14 con 750,

meno di 350 velivoli contro 400, fra italiani, nazionalisti e tedeschi (p. 72).

Fonti franchiste attribuiscono ai repubbli­cani effettivi più rilevanti: 12 divisioni e 33 brigate senza contare quelle accorse poi, una riserva di 200 cannoni e più di 350 aerei6. Lavori spagnoli più recenti assegnano invece ai repubblicani in tutto e per tutto 34.000 uomini con 74 cannoni poi rafforzati da truppe dell’armata di manovra e da forma­zioni internazionali7.

Il successo del Ctv culminò nella presa di Alcaniz il 14 marzo con un’avanzata di 80 chilometri in linea d’aria alla media di 15 al giorno contro una resistenza avversaria “tutto sommato scarsa, nulla addirittura su alcuni tratti” (pp. 81, 88). Ma, come le quattro giornate iniziali di Guadalajara ave­vano provato, anche resistenze non formi­dabili possono, se l’attaccante è indeciso, creare il ritardo che permette alle riserve di intervenire8. Giustamente gli autori ricono­scono al comando del Ctv il merito di aver saputo “trarre tempestivamente vantaggio dalla grave crisi morale e tecnica dell’eserci­to repubblicano in fase di riordino dopo le sconfitte di Teruel e dell’Alfambra” (p. 88) nonché quello di essere riuscito a vanificare taluni ordini di Franco intesi a far deviare il corpo italo-fascista dalle direttrici d’attacco iniziali dopo che i primi successi gli assicura­vano un ruolo da protagonista (pp. 83, 89).

5 La distribuzione era la seguente: 477 (di cui 62 vetture e 24 trattori) alla “Frecce”, 385 (di cui risp. 35 e 19) alla “F.N-XXIII marzo”, 286 (risp. 33 e 10) alla “Littorio”; 150 (16 vetture) al Raggruppamento carristi; 408 (fra cui 25 vetture, 55 trattori, 20 autocannoni e 6 autocassoni per gli stessi) al Comando Artiglieria Ctv, altri 1459 a vari ele­menti di supporto di cui 1156 all’Intendenza. Anche questa distribuzione si ricava con calcoli e ragionamenti dalle note 7-13.6 Così José Martinez Bande, nella monografia n. 11 dello Stato Maggiore spagnolo, La llegada al mar, Madrid, San Martin, 1975, pp. 36-37. Più generico il vecchio Manuel Aznar, Historia Militar de la guerra de Esporta, Ma­drid, Editora Nacional, 1958-1963 (3 voli.), I li, pp. 24-25. Notizie solo generiche nel IX volume della Historia de Esporta di autori vari diretti da Manuel Tunon de Lara, La crisis de l ’Estado: dictadura, repiiblica, guerra (1923- 1939), pp. 443-444.7 Così Gabriel Cardona, Las operaciones militares in M. Tunon de Lara (a cura di), La guerra espaiiola 50 anos después, Barcellona, Labor, 1985, p. 248, il quale peraltro riduce anche le forze nazionaliste (Ctv e corpi Marroqul e Galicia) a soli 150.000 uomini con 150 pezzi, cosa che sembra poco credibile. In Historia de Espana IX voi., cit., p. 443 si dice che il 50% delle divisioni franchiste attaccava il 20 per cento delle divisioni repubblicane.8 L. Ceva, Ripensare Guadalajara, cit.

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Quest’ultimo rilievo mi sembra credibilissi­mo dato il clima dei rapporti tra comando franchista e Ctv, del quale si è già accennato in altra occasione9.

Si può però ricordare che almeno nella vecchia storia franchista di Aznàr, non sem­pre tenera coi “legionari” di Mussolini, vi sono riconoscimenti in gran parte coinciden­ti con molte osservazioni odierne dell’Uffi­cio. Così la preparazione d’artiglieria il mat­tino del 9 marzo realizzata con grande sa­pienza dal generale Manca (pp. 79-80) è de­finita “esemplare” . Dopodiché — si aggiun­ge — “rapidamente cannoni, carri, camion da trasporto e ambulanze saltano fuori a centinaia da tutte le parti e come torrente inarrestabile spingono lo schieramento ben oltre la linea prevista per il primo giorno”. A proposito della colonna celere lanciata su Alcaniz con tempestiva energia da Francisci (p. 86) lo storico franchista annota:

[...] nella notte sul 13 Berti ha ordinato che i bat­taglioni “Lupi” e “Ardente” rinforzati da 30 car­ri d’assalto, da una compagnia motomitraglieri, dall’artiglieria della “XXIII marzo” e da due bat­terie anticarro si lancino su Alcaniz senza nessu­na particolare preparazione [...]. Gli italiani met­tono a segno il loro attacco frontale, sorprendo­no le brigate rosse [...] e concludono la manovra con l’occupazione di Alcaniz che alle prime luci dell’alba li vede trionfatori per le sue strade. La rapidità, la manovrabilità, la precisione di tiro, la violenza d’urto, lo sfruttamento della sorpresa ri­velano l’accresciuto valore delle truppe legionarie [...]. Poi, come se il Ctv volesse superare se stes­so, la divisione “XXIII marzo” collabora al suc­

cesso del corpo d’armata di Galicia sulla sua de­stra [...]. Lì, con le sue tre brigate, si trova Lister che dopo Guadalajara prova particolare piacere a contendere il terreno al Ctv [...] ma la “XXIII marzo” assale Lister e lo obbliga a sgombrare con le sue brigate malconcie. L’artiglieria italiana si è dimostrata insuperabilmente efficace e preci­sa”10.

Meno lirico e più tecnico l’Ufficio storico italiano mette in rilievo soprattutto quattro aspetti. La modernità dell’azione d’artiglie­ria, realizzata senza preventivi aggiustamen­ti, fu resa possibile dalla “minuta prepara­zione topografica” , dalla posizione molto avanzata degli osservatorii nonché dalla ra­pidità delle spinte in avanti a dispetto dei “vecchi pregiudizi” sulla sicurezza “che vor­rebbero i pezzi sempre molto protetti con la fanteria” . “Si era data importanza alla dife­sa contraerei delle batterie specie quando il terreno rendeva difficile l’occultamento”11. Buona si mostrò la capacità di manovra del­le divisioni di fanteria sia nell’iniziale pro­gresso appiedato sia nelle azioni celeri auto­carrate attraverso il “costante ricorso alla manovra in campo tattico, anche ai livelli minori” (p. 89).

Inoltre risultò spregiudicato l’uso dei co­razzati. Perfino i modestissimi L3 trovano utile impiego quando operano riuniti anzi­ché sparpagliati tra la fanteria, come l’allora colonnello von Thoma della legione Condor tentava di insegnare ai nazionalisti, sembra con limitato successo12. Si incomincia ad af­facciare il concetto che non la fanteria ha bi-

9 L. Ceva, Ripensare Guadalajara, cit., pp. 484-485.10 M. Aznar Historia militar, cit., pp. 57-59. Vedi anche p. 36 e pp. 64-65 sul procedimento di attacco speditivo contro villaggi fortificati realizzato dalle colonne motorizzate legionarie appoggiate dai carri leggeri. Si tratta di ri­conoscimenti interessanti non solo per la loro rarità nella stessa opera di Aznàr ma anche perché la battaglia di Aragona nel suo complesso è considerata merito strategico del Caudillo tanto da venir definita dallo stesso autore come “batalla de Franco y de Aragón”.11 Vedi generale Ettore Manca di M ores, L ’impiego dell’Artiglieria italiana nella guerra di Spagna. Maggio 1937- novembre 1938, Roma, Tip. Regionale, 1941, p. 342.12 Hugh Thomas, La guerra civil espanola, Barcellona, Grijalbo, 1976 ( l a ed. inglese 1961), 2 voli., II voi., pp. 773, 857 e fonti in esso citate.

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sogno dei carri ma questi di quella13 perché “ne consolidi il successo, ne faciliti il dispie­gamento e la manovra, ne protegga il dispo­sitivo” (p. 74). Ciò fu percepito dal colon­nello Babini che, nella sua relazione sulla battaglia, lamentava “la manchevole costi­tuzione organica del Raggruppamento privo di truppe di sostanza (bersaglieri e cavalle­ria)” e affermava che proprio la mancanza di queste truppe avrebbe impedito di “pro­lungare molto oltre il fortunato colpo su Al- caniz” . Dichiarò inoltre necessario che le fanterie “seguano immediatamente i carri sul loro obiettivo se si vuol mantenere sul se­rio tale obiettivo” ed evitare ai carri la ripe­tizione degli stessi percorsi “per dare mano e impulso” alle fanterie sopraggiungenti.

Infine, quarto ed ultimo punto, l’azione aerea sia a terra sia nel tenere pulito il cielo della battaglia, favorita dalle condizioni at­mosferiche, si rivelò efficace.

Più contrastato e sanguinoso, reso arduo dal terreno e dalla mancanza di sorpresa, è il successivo sviluppo della battaglia. Il Ctv, costretto più volte a sostare per la lentezza delle fiancheggianti colonne franchiste e in un caso anche per il loro inopinato arresto (pp. 139-140), porta l’operazione alla sua conclusione. Trattenuto all’altezza di Torto- sa dai forti contrattacchi di Lister, il corpo legionario vede sfumare l’occasione di arri­vare al Mediterraneo dove a Vinaroz, picco­

10 porto di pescatori, giungono invece il 15 aprile le colonne di Aranda. Il Ctv deve ac­contentarsi di occupare i quartieri di Torto- sa a destra dell’Ebro sulla cui riva i repub­blicani abbandonano uomini e materiali (15- 19 aprile)14. Questa seconda parte della bat­taglia, più dura per l’afflusso di riserve re­pubblicane con carri armati e truppe inter­nazionali, non smentisce nessuna delle “le­zioni” della fase precedente. L’aumentata necessità di proteggere i fianchi per l’am­piezza dei fronti, è meno favorevole alle pe­netrazioni audaci che tuttavia non mancano del tutto come nella manovra del Raggrup­pamento carristi (p. 135) conclusa il 31 mar­zo dalla conquista di Calaceite. Anche l’im­piego dell’artiglieria ha tratti di originalità.11 carattere d’intenso movimento assunto dalla lotta impone concentramenti improv­visati, talora con schieramento molto addos­sato agli ostacoli perfino dei grossi obici da 149/12 in contraddizione coi canoni classici che prevedevano lo scaglionamento in ordi­ne di distanza crescente con l’aumento della gittata (p. 126)15.

La duplice offensiva di Aragona, pur po­nendo a cimento la Repubblica, non fu deci­siva. Probabilmente Mussolini lo sperava a metà marzo quando, anche come compensa­zione psicologica per la sconfitta politica rappresentata dall’Anchluss, ordinò16 i bombardamenti di Barcellona (pp. 156, 170,

13 Vedi colonnello Valentino Babini, Relazione sulle operazioni da Rudilla (9 marzo) a Tortosa (19 aprile), pubbli­cata in L. Ceva, A. Curami, La meccanizzazione dell’esercito italiano dalle origini al 1943, Roma, Ussme, 1989, 2 voli., II voi. doc. 33 (pp. 165-183), vedi pp. 171, 180 e passim (ora riprodotta anche nel volume qui recensito co­me doc. 125).14 L’Ufficio lamenta (p. 158) che J. Martinez Bande, La llegada, cit., lasci in ombra l’apporto del Ctv. Ciò non meraviglia per ragioni sulle quali ritornerò. Si può notare che anche M. Aznar, Historia, cit., pur non ignorando il Ctv (III, pp. 101-110 e passim) è qui assai contenuto nei giudizi. Equilibrati appaiono i sintetici cenni di G. Cardo­na, Las operaciones militares, cit., p. 248, mentre riesce difficile commentare adeguatamente le dicerie avallate da Ramon Salas Larrazabal (pur serio in altri lavori) nell’opera curata da M. Tunon de Lara, La guerra civil, 3 voli., Madrid, Historia 16, 1986-87, IV, 19, pp. 40-41: Franco avrebbe “promesso” agli italiani di trattenere i suoi corpi per permettere loro di giungere per primi al mare e quindi di prendere Tortosa. Ben altro equilibrio si riscontra in questo come nel precedente volume dell’Ufficio storico italiano dove l’apprezzamento per i successi del Ctv è sem­pre accompagnato da obiettive denuncie di limiti ed errori: vedi ad esempio pp. 40, 99, 246-247.15 Ma vedi soprattutto E. Manca di Mores, L ’impiego dell’Artiglieria italiana, cit. pp. 352-354.16 Galeazzo Ciano, Diario, 20 marzo 1938 e anche 8 febbraio 1938. Molti anni dopo Franco spinse la sua vanità fi-

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178, 499-500) la cui ferocia anticipa quelli della seconda guerra mondiale. L’aviazione fascista, che non ha nulla da invidiare a quella tedesca di Guernica, ebbe la fortuna di non incappare in un Picasso che ne eter­nasse le gesta.

Sorvolo sui capitoli XX, XXI e XXII pur di grande interesse per le vicende delle due Spagne e dell’offensiva franchista nel Le­vante mirata a Valencia, attraverso i diffici­lissimi terreni dell’alto Maestrazgo. Alla pri­ma fase il Ctv partecipò onorevolmente con una brigata di “Frecce” e col fuoco spesso determinante della sua artiglieria (p. 194). Mentre nella seconda fase il Corpo, riordi­nato, rinforzato e molto appoggiato dall’a­viazione legionaria, realizzò progressi im­portanti verso Sagunto e Valencia per altro bruscamente interrotti il 25 luglio 1938 dal sopravvenire della controffensiva repubbli­cana sull’Ebro17.

Interamente dedicati alla battaglia dell’E- bro sono i capitoli XXIII e XXIV. Ricchi di assennate valutazioni, essi offrono una seria ricostruzione del vasto cozzo che, dopo i successi repubblicani dei primi dieci giorni (25 luglio-2 agosto), degenerò in terribile lotta di logoramento, priva di utilità per i franchisti, ma giustificata da parte dei re- pubblicani. Questi infatti, nella difesa osti­

nata — metro per metro — delle teste di ponte, videro la miglior ricetta per prolun­gare la guerra sperando di poterla dissolvere nella nuova conflagrazione europea poi scongiurata a Monaco ma che lungo i mesi estivi era sembrata imminente. Il grosso del Ctv restò in riserva ad eccezione dell’arti­glieria attivissima per tutto il tempo, sempre agli ordini di Manca di Mores, unico genera­le italiano presente in quella battaglia18. Qualche azione fu svolta tra agosto e no­vembre anche dal Raggruppamento carristi. Molto impegnata fu l’aviazione che in cam­po tattico risultò più efficace di quanto la­sciasse sperare il tipo dei velivoli in dotazio­ne19.

Circa la battaglia di Catalogna (capitolo XXVI), come del resto per le operazioni in Levante, l’Ufficio non pubblica un detta­gliato ordine di battaglia del Ctv che precisi le quantità di armi e materiali20. L’unico da­to generico, da scovarsi nel documento 83 bis, è quello dei pezzi d’artiglieria impiegati nel bombardamento d’apertura: “248 boc­che da fuoco (esclusi i contraerei) un pezzo ogni dieci metri di attacco”. Siamo lontani dalla testimonianza di Gambara che, seguito poi da altri, così descrive il bombardamento iniziale: “In un tratto di appena quattro chi­lometri erano stati schierati quasi 500 canno­

no a negare, privatamente, che Mussolini avesse potuto ordinare i bombardamenti senza il suo consenso: Francisco Franco Salgado Araujo Mis conversaciones privadas con Franco, Barcellona, Pianeta, 1976, p. 494. Vedi anche Josep M. Solé y Sabaté, Joan Villaroya y Font, Els bombardeigs de Barcelona durante la guerra civil, Barcellona, Monserrat, 1981, pp. 81-112 e Catalunya sota las bombes (1936-1939), Barcellona, Monserrat, 1986, pp. 113-143.17 Ancora una volta, diversamente dalle monografie del Servicio Histórico militar, l’apporto del Ctv è valutato con favore da M. Aznar, Historia, III voi., pp. 164-168.18 II doc. 55 coi messaggi di Manca di Mores a Berti dal fronte dell’Ebro costituisce importante testimonianza su 75 giorni di quella battaglia (19 agosto-3 novembre 1938).19 I pochi velivoli d ’assalto, i discussi Breda 65, a girono contro le passerelle gettate dai repubblicani sull’Ebro nel­la zona di Flix. Vedi: Ferdinando Pedriali, Guerra di Spagna e aviazione legionaria, Roma, U.S Aeronautica Mili­tare 1992, pp. 320-321 e Giancarlo Garello, Il Breda 65 e l ’aviazione d ’assalto, Roma, Ateneo & Bizzarri, 1980, pp. 141-143.20 Gli elementi sparsi alle pp. 303, 306-307, 315, 327-330 e doc. 74 (per la Catalogna) e alle pp. 195, 203, 217, 249 (per il Levante) non permettono il computo analitico delle artiglierie e nulla dicono circa automezzi e veicoli coraz­zati. Anche Comitato per la storia dell’Artiglieria italiana, vol. XVI, L'artiglieria nelle operazioni belliche, Roma Biblioteca di Artiglieria e Genio, 1955 (pp. 121-149) presenta le stesse lacune, essendo basato — al pari del volume dell’Ufficio storico — sul libro di E. Manca di Mores.

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ni, un cannone cioè ogni otto metri circa, quasi come durante la grande guerra!”21. A meno che Gambara abbia voluto riferirsi a tutte le artiglierie comprese quelle spagnole, in questo caso tuttavia l’ampiezza dello schieramento avrebbe dovuto essere ben al­tra. Mancano inoltre dati attendibili sulle forze repubblicane. Al riguardo non vi sono due autori che vadano d’accordo cosicché anche le cifre riportate dall’Ufficio a p. 327 (300.000 uomini, 5.000 armi automatiche, 800 pezzi compresi contraerei, costieri e ri­serve e ben 200 corazzati, oltre a 200 aerei)22 sono da prendere con beneficio d’inventa­rio. Spiacevole infine l’assenza di precise no­tizie sul materiale bellico che Franco avreb­be ottenuto dai tedeschi quale contropartita della vantaggiosa convenzione mineraria 19 novembre 193823, tanto più che l’Ufficio tende ad attribuire a questo fattore — e non già alle insistenze italiane — la decisione di Franco di assalire la Catalogna nel dicembre 1938 (pp. 319, 442).

Fatte queste premesse, la battaglia è rico­struita con minuzia e con ausilio cartografi- co buono anche se non eccellente. Troppo spesso infatti negli schizzi mancano nomi di località importanti menzionate nel testo, mentre la riproduzione delle carte d’epoca coi segni tracciati presso il Comando del Ctv è più suggestiva che utile: avrebbe dovuto essere accompagnata almeno da dettagliata legenda (questa osservazione vale anche per le operazioni precedenti). La posizione ini­

ziale del Ctv era tutt’altro che facile poiché si doveva sboccare da una ristretta testa di ponte su un fiume ingrossato dalle piogge. La resistenza dei repubblicani fu invero ine­guale ma non si può dire, come pure è stato affermato, che il Ctv avanzò nel vuoto. Ve­ro invece che esso il più delle volte fu abile e pronto a sfruttare il vuoto (o il “meno pie­no”!) secondo un canone tattico di validità invariata dalla preistoria ad oggi. Di notevo­le interesse le pur sobrie notizie sull’impiego dei carri sia in collegamento con le divisioni di fanteria nelle fasi iniziali sia poi con le va­rie colonne celeri che appoggiarono la presa di Tarragona da parte dei navarrini (20 gen­naio) e che, guidate dal colonnello Olmi, en­trarono per prime a Barcellona (26 gennaio). Presa Gerona il 4 febbraio, la corsa del Ctv si concluse sul rio Fluvià non lungi dai Pire­nei l’8 febbraio 1939. Il Corpo italiano ebbe dunque parte di rilievo nell’inseguimento dell’esercito repubblicano attardato da circa500.000 profughi civili e in atmosfera di tra­gedia.

Noto incidentalmente che su questo èso­do, definito di “dimensioni quasi bibliche”, gli autori riportano un giudizio di Thomas (altrove definito “non credibile” , p. 320), secondo cui si tratterebbe di “un movimento dettato da panico e isterismo collettivo per­ché di coloro che fuggivano soltanto una piccola percentuale avrebbe rischiato la vita se fosse rimasta” (p. 405). Sul che dissento perché non era certo facile indovinare quale

21 Gastone Gambara, L ’ultima parola sulla guerra di Spagna, “Tempo” (sei puntate sui numeri 1, 8, 22, 29 agosto, 5 e 12 settembre 1957, v. Ili, 22 agosto). I 500 pezzi si ritrovano in John F. Coverdale, Ifascisti italiani alla guerra di Spagna, Roma-Bari, Laterza, 1977, p. 345. G. Cardona, La guerra civil, in M. Tunon de Lara (a cura di), Histo- ria de Espana, cit., IV, 22, p. 12, attribuisce addirittura 600 pezzi al Ctv, mentre le fonti di H. Thomas, La guerra civil espanola, cit., II voi., p. 931, danno 565 pezzi all’intero esercito del Nord comandato da Dâvila. A parte ciò, non so perché l ’Ufficio preferisca ignorare questo testo di Gambara per altri aspetti attendibile (non mancano ri­scontri documentali) e in ogni caso vivace e interessante.22 Cifre ricavate dalla monografia n. 14 del Servicio Histórico Militar, La campana de Cataluna, Madrid, San Martin, 1979 che però l’Ufficio ritiene — credo a ragione — poco attendibile (v. oltre). H. Thomas, La guerra civil espanola, cit., vol. II, p. 932, dà cifre diverse e così altri autori come ad esempio G. Cardona nei lavori sopra citati.23 Generici e poco attendibili sono i dati offerti al riguardo da H. Thomas, La guerra civil espanola, cit., vol. II, p. 913.

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preciso trattamento i vincitori avessero in serbo per ciascun cittadino della morente Repubblica. Astraendo dai sistematici mas­sacri di avversari politici veri o supposti, i franchisti — quando non fucilavano seduta stante — “processavano” i prigionieri24 che erano in massima parte soldati di leva solo colpevoli di avere adempiuto agli obblighi militari del governo legale (circostanze rico­nosciute anche dagli autori: p. 320 e p. 444). Più utili per una valutazione del fenomeno sarebbero state queste cifre: su 470.000 spa­gnoli rifugiatisi in Francia, 288.000 rimpa­triarono nei mesi seguenti mentre ben182.000 (39 per cento) preferirono restare in esilio25.

La ricostruzione della campagna proposta dall’Ufficio è nell’insieme interessante, ma avrebbe potuto esserlo ancora di più se aves­se fatto posto a vicende significative e atten­dibili tratte da altre fonti come ad esempio il citato scritto post-bellico di Gambara. Si po­tevano ricordare problemi creati dalla pre­senza di partigiani repubblicani26 * nelle retro­vie nazionaliste. Al riguardo la testimonian­za di Gambara è netta e avrebbe forse porta­to a ripensare la frase (p. 500) circa “il nullo o scarso rilievo avuto dalla lotta partigiana nella guerra civile” . Beninteso da un paese “maestro di guerriglie” (Napoleone insegna) ci si sarebbe potuti aspettare anche di più. Tuttavia studi specifici gioverebbero sia per­

ché la presenza di guerriglieri repubblicani in territorio nazionalista risulta da varie te­stimonianze (non solo da quella di Gamba­ra) sia per indagare i collegamenti fra essi e una certa guerriglia antifranchista durata in alcune zone fino al 1951 ed oltre 21. Non sa­rebbe stato poi inutile considerare l’impatto che le leggi razziali ebbero anche sull’uffi­cialità del Ctv ricordando, fra gli altri, il ca­so del valoroso colonnello Giorgio Morpur- go che, informato del suo allontanamento dall’esercito, deliberatamente avanzò nella terra di nessuno cercando e trovando la morte alla vigilia dell’attacco sul Segre28.

La battaglia di Catalogna fu decisiva non solo per l’esito dell’intera guerra ma soprat­tutto per i tempi di tale esito in relazione alla mancata saldatura alla seconda guerra mon­diale con probabili enormi conseguenze nel futuro della Spagna: del che si è già detto in apertura. L’apporto italiano fu determinan­te sia nella decisione di scatenare l’offensiva sia nella sua favorevole condotta. Può anche darsi che a far decidere Franco abbiano con­tato i non meglio specificati rifornimenti te­deschi dell’autunno 1938, ma è certo che l’insistenza di Mussolini e dei suoi generali perché si puntasse sulla Catalogna ebbe la sua parte. In ciò concordano autori e testi­moni29. Il precedente dell’estate 1938, in cui la contesa spagnola aveva rischiato di con­fondersi in una guerra generalizzata, avrà

24 Centinaia di migliaia di prigionieri, non messi a morte dalle corti marziali, furono condannati ai lavori forzati (in perpetuità o per vari decenni) e, organizzati in “battaglioni del lavoro” e “distaccamenti penali”, vennero usati come mano d’opera schiava in lavori pubblici tra i quali l ’edificazione del faraonico Valle de los caidos iniziato nel 1940 e terminato nel 1959: Paul Preston, Franco. A Biography, Londra, Harper Collins, 1993, pp. 226-227, 352, 679, Max Gallo, Storia della Spagna franchista, Bari, Laterza, 1972 (ed. or. 1969), pp. 84-91.

J. Villaroya y Font, Exodo y los campos de refugiados en Francia, in M. Tunon de Lara (a cura di), La guerra civil, cit., vol IV, p. 90.26 G. Gambara, L ’ultima parola sulla guerra di Spagna, cit., quinta puntata, 5 settembre.

Per la guerriglia fino agli anni cinquanta e in Catalogna fino a quelli sessanta: Espaha, bajo la dictadura fran­quiste (1939-1975), in M. Tunon de Lara (a cura di), Historia de Espaha cit., vol. X, pp. 200-212 e 245-281; Paul Preston, Franco, cit., pp. 331, 334 e passim.28 G. Gambara, L ’ultima parola, cit., seconda puntata, 8 agosto.29 G. Cardona, La guerra civil, in M. Tunon de Lara (a cura di), Historia de Espaha, cit., vol. IV, p. 12; John F. Coverdale, I fascisti italiani alla guerra di Spagna, Roma-Bari, Laterza, 1977, p. 344; G. Gambara, L ’ultima paro­la, cit., passim. Cfr. inoltre doc. 80.

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certo stimolato Franco ad agire ma ciò non gli avrebbe impedito di imboccare ancora una volta la difficile e poco fortunata diret­trice di Valencia. Mentre d’altra parte il par­ziale ritiro di legionari (i noti 10.000 del no­vembre 1938 sia pure poi compensati dai “complementi”) avrà dato al Caudillo l’im­pressione che, per quanto dopo Guadalajara Mussolini fosse divenuto malleabile, non poteva far conto su un’eterna permanenza in Spagna del corpo italo-fascista.

Venendo alla conduzione osservo che, co­me già nella battaglia di Aragona, il balzo iniziale di 30 chilometri realizzato dal Ctv poteva rimanere fine a se stesso se Franco non fosse stato persuaso da Gambara — tra­mite Mussolini, l’ambasciatore Viola e il ca­po di S.M. Bodini — a ordinare il movimen­to dei corpi laterali (pp. 356, 400-401)30. Più in generale è riconosciuto anche da avversari come Lister ed altri31, che il rotolamento delle forze repubblicane fu provocato dall’a­zione carrista del Ctv su Borjas Blancas (5 gennaio). E non vi è dubbio che punta di diamante dell’intera offensiva sia stato il corpo di Gambara coi veterani italiani e con le 3 divisioni miste, dove la truppa spagnola era in gran parte alle prime esperienze. Il che naturalmente non significa sminuire l’apporto degli altri 5 corpi componenti il gruppo Dâvila e particolarmente dei navar- rini di Solchaga e dei marocchini di Yagiie.

Tutti, secondo le loro possibilità, operarono con efficacia.

Spiegabile pertanto è la protesta degli au­tori contro il più volte ricordato lavoro sulla battaglia di Catalogna del Servizio storico dell’esercito spagnolo: “È una costante della serie di monografie del ‘Servicio Historico Militar’ la minimizzazione — spesso il silen­zio assoluto — degli interventi del Ctv, an­che quando determinanti, mentre non meno frequenti sono le messe in rilievo della capa­cità operativa dell’esercito repubblicano — che è in definitiva un esercito pur sempre spagnolo — fatte forse a maggior gloria del­l’esercito nazionale” (pp. 361-362, vedi an­che pp. 158, 197, 400-401, 491).

Le origini di questo atteggiamento risal­gono agli stessi anni della guerra. Vi sono testimonianze sulla mentalità assurdamente “coloniale” da cui furono animati i più rozzi gerarchi del fascismo e purtroppo anche qualche ufficiale delle forze armate soprat­tutto nei primi tempi della guerra 1936-1939. Né va dimenticato che il giornalismo e la pubblicistica italiani del tempo dipingevano la guerra come se fossero solo gli italiani a combatterla, mentre per ognuno dei 3.318 caduti del Ctv (pp. 472, 488) vi furono al- l’incirca 30 caduti nazionalisti32. E d’altra parte i successi del Ctv in Aragona e in Ca­talogna erano stati molto facilitati dal terri­bile logoramento imposto ai repubblicani a

30 Ma vedi soprattutto documenti e narrazione in G. Gambara L ’ultima parola, cit., specie sesta puntata, 12 set­tembre nonché G. Cardona, La guerra civil, cit., p. 16; J.F. Coverdale, Ifascisti italiani alla guerra di Spagna, cit., p. 345; P. Preston, Franco, cit., p. 318.31 Enrique Lister, Nuestra guerra, Parigi, Ebro, 1966, p. 110 così citato nella monografia 14 La batalla de Catalu- na, cit., p. 92 dove sono riportati anche gli analoghi giudizi di Vicente Rojo, Alerta los pueblos!, Buenos Aires, Aniceto, Lopez, 1939, p. 124 e sgg. e di Manuel Taguena Lacorte, Testimonio de dos guerras, México, Oasis, 1973 pp. 269-270. Vedi anche H. Thomas, La guerra civil espanola cit., vol. II, p. 934. Valutazioni sintetiche ma non malevole nel cit. vol. IX di M. Tunon de Lara (a cura di), Historic deEspana, pp.491-493 e 496.32 I caduti sul campo nell’intera guerra sono stimati in circa 200.000 di cui 90.000 nazionalisti. Queste cifre non hanno nulla a vedere con le uccisioni avvenute nel territorio della Repubblica durante la guerra (intorno a 55.000) e le esecuzioni disposte dai nazionalisti: circa 75.000 guerra durante e almeno 40.000 dalla fine del 1939 al 1974. Ve­di: H. Thomas, La guerra civil espanola, cit., II, p. 993 e fonti ivi cit.; James W. Cortada (a cura di), Historical Dictionary o f the Spanish civil War 1935-1939, Westport, Connecticut, 1982 pp. 114-115; Manuel Rubio Cabeza, Diccionario de la guerra civil espanola, Barcellona, Pianeta, 1987 (2 voli.) II, pp. 617-618; M. Tunon de Lara, Ili- storia, cit., vol. XI, p. 18, nota 1.

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Teruel e sull’Ebro dove l’apporto “legiona­rio” era stato minore. Sono cose che posso­no lasciare tracce anche dopo molto tempo. È poi spiegabile, anche se non sempre giu­stificato, che una guerra civile in cui l’inter­vento straniero assunse tanto peso generi comportamenti se non proprio xenofobi quantomeno di orgoglio nazionale un po’ cieco. L’esaltazione dell’avversario spagno­lo a preferenza dell’alleato straniero è del resto diffusa anche sul versante repubblica­no. Ad esempio è risaputo che le brigate in­ternazionali furono pubblicamente e solen­nemente ringraziate dalla Repubblica du­rante la guerra, eppure bisogna vedere con quanto studio ancor oggi molti autori di simpatie repubblicane si affrettino a spiega­re per esempio che non furono le brigate internazionali a salvare Madrid nell’autun­no 193633.

E poi non tutti gli studiosi spagnoli hanno eguali reazioni. Ho riportato sopra, da una vecchia storia franchista, passi che esprimo­no ammirazione per il Ctv nella battaglia d’Aragona e ve ne sono altri analoghi a pro­posito di quella di Catalogna34. Non basta. Se si legge Cardona, uno storico militare di oggi per nulla franchista e tutt’altro che tene­ro verso gli alleati del Caudillo, ci si imbatte in questo sereno giudizio:Nonostante la loro azione nella campagna del Nord fosse stata corretta, gli italiani stentavano a liberarsi della cattiva nomea guadagnata a Gua­dalajara. Gli spagnoli di Franco scaricavano mol­te frustrazioni nazionaliste sui loro alleati del

Ctv mentre ricoprivano di elogi la legione Con­dor. Perfino i generali criticavano gli uomini del Duce e minimizzavano l’aiuto della loro aviazio­ne e dell’artiglieria [...]. Da parte loro i generali del Ctv lamentavano l’angusta visione strategica di Franco che consideravano incapace di mettere a profitto le vittorie concludendo rapidamente la guerra. Le informazioni spedite a Roma denun­ciavano la sua dissennata abitudine di trasferire artiglieria e riserve da un fronte all’altro per rin­tuzzare le offensive repubblicane invece di mirare a obiettivi strategici propri (c.vo mio)35.

È dunque probabile che gli estensori fran­chisti delle monografie del “Servicio Histó- rico Militar” avessero ancora frustrazioni da scaricare sugli antichi alleati del Corpo Truppe Volontarie.

Il capitolo XXVII contiene notizie interes­santi sulla preparazione della battaglia fina­le (non combattuta per il sopravvenuto crol­lo della Repubblica), sui rinforzi inviati dal­l’Italia e sulla permanenza del Ctv presso Barcellona coi relativi problemi disciplinari (p. 417 e doc. 97)36. Quanto all’epilogo del marzo-aprile 1939, è abbastanza nota la vi­cenda del Ctv ad Alicante: suicidio di espo­nenti repubblicani, vano tentativo degli sconfitti superstiti di avere dagli italiani trat­tamento meno estremo di quello riservato loro dai franchisti.

Meno conosciuto è invece il fatto che il 28 marzo Gambara provvide “d’iniziativa”, cioè a dispetto dei suoi superiori spagnoli, a mandare anche forze italiane a Madrid e a Guadalajara appena arrese: un nuovo episo-

33 Non ho studiato il punto abbastanza per avere opinioni precise, m’importa solo rilevare l’atteggiamento come sintomo di una forma mentis.34 M. Aznar, Historia, cit., pp. 304-305, 309-310 (riconoscimento esplicito che l’arresto del Ctv fu necessario per lasciare il tempo a Solchaga di raggiungere l’ala destra dei legionari), 311-312, 318-321, 325 (riconoscimento del contemporaneo ingresso di navarrini e Ctv a Barcellona), 328-329.35 G. Cardona, La guerra civil, cit., pp. 11-12. Vedere alle successive quattro pagine la corretta rievocazione della bataglia nonché delle pressioni italiane su Franco affinché “le truppe spagnole abbandonassero la tattica prudente e avanzassero con maggior velocità”. V. anche dello stesso autore, Las operaciones, cit., pp. 254-255.36 Né il testo né la documentazione pubblicata contengono accenni all’ordine impartito — tramite Ciano — da Mussolini a Gambara di far fucilare i comunisti e gli anarchici italiani catturati in Catalogna (cfr. G. Ciano, Dia­rio, 22 febbraio 1939).

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dio della lunga gara fra protagonismo italo- fascista e gelosia ispano-nazionalista (pp. 426-427). Non però l’ultimo episodio per­ché, come si fa notare (p. 432 e doc. 109), Franco dovette concedere al Ctv il primo posto nella sfilata della vittoria a Madrid il 19 maggio mentre — aggiungo — l’onore di chiuderla dopo ben cinque ore toccò ai tede­schi della “Condor” . Ma l’interminabile pa­rata fu uno solo e neppure il più rilevante aspetto del trionfo di una parte della Spagna sull’altra. Franco era entrato a Madrid il giorno 18 con un cerimoniale ricalcato su quello di Alfonso VI quando, accompagna­to dal Cid, aveva fatto il suo ingresso a To­ledo il 25 maggio 1085 nel cuore del Medio Evo. Unica variante: i Mori “infedeli”, inve­ce che sconfitti e fuggiaschi, formavano la Guardia a cavallo del trionfatore della guer­ra civile tra bianchi. Quindi, nella basilica di Santa Barbara e mentre gli facevano ala la bandiera di Las Navas de Tolosa e lo sten­dardo di Lepanto, Franco aveva consegnato la spada al cardinale Goma primate di Spa­gna e arcivescovo di Toledo perché la depo­nesse nella cattedrale dove si trova tutt’ora.

Sulle più alte cime d’ogni provincia ardeva­no i falò mentre dall’etere piovevano i ra­diogrammi gratulatori del fascismo mondia­le e del capo della Chiesa romana37. In quei saturnali una collocazione apparentemente non illogica potevano trovare le camicie nere del Ctv, di fatto per lo più ignare. Più duro da accettare, almeno per chi scrive, che alla festa partecipassero i discendenti di quell’uf­ficialità militare napoletana e piemontese che si era riconosciuta italiana nella bandie­ra liberale e costituzionale e che aveva chiu­so il Risorgimento con la breccia di Porta Pia.

Veniamo ai capitoli finali (XXVIII-XXX) dedicati alle riflessioni sulla guerra e sullo sforzo italiano e a un consuntivo dell’intero lavoro. Del tutto condivisibili sono le con­clusioni di carattere strettamente militare38. Anzi tutto gli autori si guardano bene dal- l’allinearsi sulla tesi corrente che lo sforzo in Spagna non ebbe conseguenze rilevanti sul rendimento militare italiano nella seconda guerra mondiale perché — si sente ripetere — non potevamo perdere in Spagna quei materiali moderni che non avevamo39. Giu-

37 Per le cerimonie della vittoria franchista: M. Gallo, Storia della Spagna franchista, cit., pp. 100-101; P. Preston, El Cid and the masonic superstate. Franco, the Western Powers and the cold war, London, School o f Economics and Political Science, 1992 (pp. 1-25), pp. 5-6 e Id., Franco, cit., pp. 329-330. Questo cerimoniale fu superato in truculenza da quello del novembre 1940 per il trasporto dei resti di José Antonio Primo de Rivera da Alicante al- l’Escorial: lungo 11 giorni e notti la bara spalleggiata e accompagnata da torce attraversò città e villaggi mentre, col procedere del corteo, il numero delle fucilazioni di repubblicani vinti era sistematicamente raddoppiato. Nel 1960 la salma fu trasferita al Valle de los caidos (M. Gallo, Storia della Spagna franchista, cit., p. 127; P. Preston, El Cid and the massonicsuperstate, cit., pp. 346-347, 689).38 Non altrettanto direi degli accenni alle intenzioni politiche di Franco (p. 434 e doc. I l i ) e al suo atteggiamento nella seconda guerra mondiale (p. 496). Le leggende riprese a questo riguardo non reggono di fronte alla storiogra­fia degli ultimi anni. Rinvio a P. Preston, Franco and Hitler. The Myth o f Hendaye 1940, “Contemporary Euro­pean History”, n. 1, 1992 (pp 1-16) tema ora esaurientemente studiato dallo stesso autore in P. Preston, Franco, cit., pp. 374-481. Vedi anche Ramón Serrano Suner, Entre el silencio y la propaganda. La Historia corno fue, Bar­cellona, Pianeta, 1977, pp. 284-324 (per taluni aspetti vedi di quest’ultimo autore anche Entre Hendaya y Gibral­tar, Barcellona, Nauta, 1947). Per il 1943 rinvio al mio Momenti della crisi del Comando Supremo in corso di pub­blicazione a cura della Commissione Italiana di Storia Militare.39 Su questa linea fra gli altri: Giacomo Zanussi, Guerra e catastrofe d ’Italia, Roma, Corso, 1945 (2 voli.) I voi., pp. 54-55; Mario Montanari, L ’impegno italiano nella guerra di Spagna, in Memorie storiche militari, Roma, Uss- me, 1980 (pp. 121-152) e L ’esercito italiano alla vigilia della seconda guerra mondiale, Roma, Ussme, edizioni 1982 e 1993 risp. a pp. 251 e 260; J.F. Coverdale, Ifascisti italiani alta guerra di Spagna, cit., pp. 381-384. Ben diverso e documentato avviso ha espresso Brian R. Sullivan, The consequences o f Italian intervention in the Spanish civil war, relazione presentata al seminario “La guerra civil espanda en su contexto europeo” tenuto a Santander (29 giugno-3 luglio 1992) presso la Universidad Internacional Menéndez Pelayo (dattiloscritto inedito di 27 cartelle).

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stamente essi ricordano che anche i materiali “di modello e di fabbricazione remoti” era­no pur sempre quelli che “armavano ed equipaggiavano l’esercito italiano” essendo tratti o dalle “scorte di mobilitazione non ri­pianatali in tempi brevi” o addirittura da dotazioni di reparti attivi comprese “le divi­sioni celeri e motorizzate” e persino “la ap­pena costituita prima brigata corazzata” (p. 481). Non tutto era poi “remoto”: moderni erano per lo più i 7.500 fra automezzi e mo­tomezzi ingoiati dalla Spagna i quali per esempio, unitamente ai 442 vecchi pezzi di medio calibro, avrebbero forse potuto ren­dere meno disastrose le nostre sorti in Africa Settentrionale nel 1940-1941 (pp. 481-482). Aggiungerei che anche altri materiali non modernissimi potevano avere un peso. Così il centinaio di S. 79, velivolo già scarseg- giante nell’estate 194040, e i quasi 400 caccia Fiat CR 32 avrebbero potuto costituire un notevole rinforzo, magari per l’aviazione dell’Africa Orientale. Fra le armi “remote” lasciate in Spagna41 figura un gruppo di 12 cannoni da 152/37, eccellente materiale Skoda di preda bellica (21 km di gittata) del quale l’Italia al giugno 1940 possedeva solo

29 esemplari una dozzina dei quali furono usati con grande efficacia in Africa Setten­trionale nel 1941-194242. Senza contare poi che quasi tutto il materiale “vecchio” avreb­be potuto essere efficacemente rimodernato con spese e tempi certo inferiori a quelli ri­chiesti dall’allestimento del “nuovo”. Sin dagli anni venti esistevano infatti studi per aumentare sensibilmente (fino al 24 per cen­to) le gittate delle principali artiglierie terre­stri italiane (75/13, 75/27, 100/17, 105/28, 105/32 e 149/13)43. Invece, come è noto, si preferì limitare l’aumento di gittata ai soli 75/13, varando per tutto il resto i masto­dontici programmi di nuovi pezzi, tanto gra­diti a industrie che — incassati gli anticipi a fondo perduto — li realizzarono solo in mi­nima parte. Ma ciò non autorizza a conside­rare “ferri vecchi” le artiglierie lasciate in Spagna così come le migliaia di pezzi analo­ghi ancora esistenti in Italia. Troppo spesso si dimentica che vari pezzi britannici, di cui lamentavamo le superiori gittate, nonché molti dei pezzi tedeschi che invidiavamo, erano appunto adattamenti di armi nate per la guerra 1914-1918 e talora “novità” sorte durante quella guerra44. Infine i “vecchi can-

40 Le necessità della ricognizione aerea sul Mediterraneo erano stringenti già nel luglio 1940: l’Aeronautica aveva dovuto rinunciare ai propri stormi di idrobombardieri (su Cant Z 506) e cedere i velivoli alla marina, ma il compito dovette presto essere affidato anche agli S 79, i migliori bombardieri terrestri disponibili. Vedi: Giuseppe Santoro, L ’aeronautica italiana nella seconda guerra mondiale, Roma, Esse 1957 (2 voli.) II voi., pp. 454-455; Francesco Pricolo, La regia aeronautica nella seconda guerra mondiale, Milano, Longanesi, 1971, p. 247 e Stato Maggiore esercito Ufficio Storico, Diario Storico del Comando Supremo, Roma, Ussme, 1986 vol. I, tomo 2, docc. 13-16. Per la potenziale straordinaria utilità dei motori dei “vecchi” aeroplani se li si fosse adattati ai carri armati rinvio a L. Ceva, A. Curami, La meccanizzazione, cit., I voi., pp. 387-392.41 Sul fatto che, forse all’infuori delle armi individuali, tutto l’altro armamento ed equipaggiamento (terrestre ed aeronautico) fu abbandonato agli spagnoli e non riportato in Italia: pp. 432-433 e docc. 110, 115, 115bis e 116.42 Cfr. Comitato per la storia dell’Artiglieria italiana, L ’artiglieria, vol. XVI, cit., (pp. 495-497) sappiamo che l’8° Raggruppamento di artiglieria d’armata sbarcato in Africa settentrionale nell’ottobre 1941 aveva un gruppo da 152/37 (nonché uno da 149/40 e due da 149/28). Il Feldmaresciallo Michael Carver nel suo Dilemmas o f the Desert (London, Batsford, 1985, p. 52) illustra il vantaggio costituito per l’Asse da questi pezzi operanti insieme con quelli tedeschi (da 170 e da 150) dell’Arko 104 del colonnello Bòttcher.43 Renzo Garrone, Le nostre artiglierie post-belliche, “Rivista di artiglieria e genio”, agosto, 1930 (pp. 1503-1516) v. pp. 1505 e sgg.44 Buona parte degli 87,6 inglesi (QF 18 pr Mks I e II, QF 25 pr Mk I) nonché vari 75, 105 e 150 tedeschi (7.5 cm le FK 18, 10.5 cm Le FH 16, 10.5 cm Le FH 18 nelle versioni M e 18/40, 15 cm s FH 18, 15 cm s FH 18/40) e altresì i famosi 88/56 (8.8 cm. Flak 18 nelle versioni 36 e 37). Vedi al riguardo Terry Gander, Peter Chamberlain, Small

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noni” italiani, anche non volendo né usarli quali erano né rammodernarli, potevano sempre essere messi “a rottame” per ricavar­ne materie prime e “correttivi pregiati”, di cui tante volte e per lo più a torto si lamen­terà l’insufficienza45.

A escludere del resto che l’intervento in Spagna sia rimasto senza apprezzabili conse­guenze sulle prestazioni militari italiane nel­la seconda guerra mondiale basterebbe il suo costo in denaro: circa 8 miliardi di lire se­condo la valutazione più restrittiva che gli autori fanno propria (p. 506). È stato calco­lato che dei 116 miliardi di lire stanziati per forze armate e colonie dal 1935 al 1940 ben 77 siano stati spesi fra Etiopia (campagna e successiva “pacificazione”), Spagna e Alba­nia. Dunque la Spagna se non fu la più co­stosa delle avventure fasciste certo pesò in modo più che notevole46.

Al riguardo però eviterei di parlare di “ri- strettezze finanziarie italiane” (p. 481) per­ché è affermazione che può dar luogo a equivoci. Qui infatti non rilevano povertà o ricchezza in termini assoluti ma solo le spe­se affrontate per le forze armate. Ora nel periodo 1926-1940 la spesa militare italiana fu pari al 79,5 per cento di quella britannica e al 97 per cento di quella francese. Tali percentuali nel quinquennio 1935-1939 rag­giunsero P89,5 per cento della prima e su­perarono la seconda del 28 per cento, pro­porzioni impressionanti se si considera che il reddito nazionale italiano (ecco la pover­tà!) fu nel 1940 meno di un quarto di quello britannico e meno della metà di quello fran­cese47.

Un’altra osservazione dell’Ufficio riguar­da i mancati vantaggi economici tratti dal­l’alleanza con Franco. Con esatta percezione gli autori non ripetono la solita versione se­condo la quale l’Italia fascista non avrebbe voluto ottenerne. Notano che per varie ragio­ni, pur proponendosi di ricavarne, essa non vi riuscì (pp. 505-506). Certamente l’aspetto economico non stava particolarmente a cuo­re a Mussolini il quale nella Spagna cercava soprattutto l’occasione di una seconda vitto­ria militare, dopo quella etiopica (p. 501). E tuttavia non si può dire che esso fosse pro­grammaticamente escluso. Si tratta di un’os­servazione incidentale in una trattazione d’indole militare ma che mostra come l’at­tenzione degli autori sia spesso vigile anche al di fuori dello specifico campo d’indagine.

Ben colta appare, nei capitoli finali, la fi­sionomia tattica e operativa della guerra di Spagna. Nel corso dell’opera sembrerebbe a volte di imbattersi in affermazioni contrad­dittorie. Ad esempio, si elogia il “costante ricorso alla manovra anche in campo tatti­co” e la raggiunta capacità del Ctv di “aggi­rare le resistenze più robuste senza prenderle di petto ma isolandole” (pp. 89 e 382). Al tempo stesso si afferma però che “nonostan­te i richiami continui alla necessità della ma­novra anche ai livelli medi e minori [...] pre­valsero [...] i combattimenti a botta dritta e i dispositivi delle unità rimasero in genere compatti e serrati anziché articolati, aperti e distesi” favorendo così “avanzate uniformi poco adatte alla manovra” (p. 449 ma anche 468 e passim). In realtà, a parte il fatto che nel corso dello stesso ciclo operativo la fan-

arms, artiller and special weapons o f the Third Reich-An encyclopedic survey, Londra, MacDonald and Jane’s, 1978, pp. 147, 154, 170-174, 176-177, 187, 188, 194, 195, 198, 200.45 Vedi esplicitamente Aussme, Diario Cavallero, promemoria 6 agosto 1942, allegato 6 di quel mese. Constato che il tema della “mancanza” italiana di materie prime viene acriticamente ripreso (sia pure in via incidentale) anche nel 1° tomo dell’opera qui recensita (ad es. a pp. 509 e 481).46 Brian R. Sullivan, The Italian armed forces 1918-40 in Military Effectiveness, (3 voli.), Boston, Allen & Unwin, 1988, II voi., The interwar Period (pp. 169-217), p. 171 e fonti citate.47 B.R. Sullivan, The Italian armed forces, cit.

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teria del Ctv fu ora più ora meno “restìa ad abbandonare i procedimenti tattici tradizio­nali per evolvere verso la tattica d’infiltra­zione” (basta confrontare le due fasi della battaglia d’Aragona: pp. 46 e 77), la con­traddizione non è nei rilievi dell’Ufficio sto­rico bensì nelle cose stesse. Infatti, come no­tano gli autori,la guerra civile spagnola, pur simile sotto molti aspetti sul piano tecnico-militare alla prima guer­ra mondiale, se ne discosto per altri, prefiguran­do, specialmente negli ultimi periodi, la strategia e la tattica della seconda guerra mondiale (p. 448).

Spesso si ha proprio l’impressione di un contegno bellico che, per improvvisi spunti favoriti da questa o quella circostanza di ter­reno o di cedimento avversario, tenti di por­si sui binari della guerra di movimento salvo poi ricadere negli schemi del più opaco coz­zo frontale, dell’ossessiva tutela dei fianchi, in una parola del logoramento.

Rilievi del pari centrati riscontriamo nelle pagine dell’Ufficio sull’impiego dei corazza­ti dalle due parti. Con riferimento al versan­te nazionalista si scrive che “i carri armati fino ad allora impiegati quasi sempre in stretta cooperazione con la fanteria appieda­ta, pur restando prevalente o quasi assoluto tale tipo d’impiego, aprirono larghe pro­spettive alla loro funzione di arma-base, nel­l’ambito di raggruppamenti corazzati, com­prendenti anche fanterie e artiglierie mobili, dotate di analoga velocità di movimento e di analoga capacità di operare fuori strada” (p. 448). E in effetti “prefigurazioni” del genere si possono cogliere sia nell’azione carrista del Ctv ad Alcaniz (marzo 1938) sia nella de­cisiva puntata su Borjas Blancas del gennaio 1939. E più in generale è innegabile che il Ctv, pur nella modestia di molte sue presta­zioni, sia stata l’unità più manovriera del versante nazionalista (p. 499). Su ciò avrà si­

curamente influito la ricchezza di automez­zi, non però la qualità tecnica dei carri infe­riore persino a quella dei Panzer I forniti dai tedeschi ai franchisti, veicoli modesti an- ch’essi ma pur sempre di tonnellaggio quasi doppio dell’L3 e dotati di torretta girevole. Interesserebbero perciò chiarimenti circa ta­lune affermazioni del ricordato rapporto Babini sul ciclo operativo Rudilla-Tortosa. Le imprese degli L3 italiani vengono con­trapposte a quelle dei carri russi e tedeschi (stranamente considerati come un tutt’uno) i quali “non reggono il confronto, in vivacità, in maneggevolezza, in prestazioni, in rendi­mento tattico; essi partecipano pigramente alla battaglia, non hanno mai dato un ap­porto decisivo e travolgente, manifestano la loro presenza con azioni limitate e procedi­menti monotoni”48. Indubbiamente i carristi di Babini e poi di Olmi realizzarono qualche brillante penetrazione in profondità e taluni avvolgimenti a piccolo e medio raggio, ma c’è da chiedersi se l’accenno sfavorevole ai tedeschi (che avevano presso la Condor un maestro quale von Thoma!) sia qualche cosa di più e di diverso da altre vanterie che nel rapporto stesso sono messe avanti solo per “farsi perdonare” dalle superiori autorità le lamentele sul materiale Fiat-Ansaldo e le ri­chieste di mezzi migliori. Per fortuna dei na­zionalisti la capacità di servirsi abilmente dei carri mancò quasi del tutto sul versante re- pubblicano nonostante le superiori doti d’armamento e di abitabilità dei T26B e dei BT5 sovietici. In ogni caso anche gli spunti di iniziativa carristica del Ctv furono per lo più epidermici e si deve convenire con gli au­tori che “nella impostazione e condotta delle operazioni non furono mai concretamente neppure adombrati i criteri ai quali si atter­ranno di lì a poco i tedeschi nelle loro offen­sive di Polonia e di Francia. Eppure” — essi aggiungono — “la guerra civile spagnola se-

48 A. Rovighi, F. Stefani, La partecipazione italiana alla guerra civile spagnola, cit., p. 448.

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gnò la transizione da un tipo di guerra ad un altro” (p. 499, corsivo mio).

Circa l’impiego italiano dei corazzati si può ancora notare che esso avvenne quasi sempre nell’ambito del Raggruppamento carristi che comprendeva, oltre ai motocicli­sti, piccoli reparti di fanteria autoportata (battaglione motomeccanizzato, compagnie Arditi) e alla fine anche una batteria da 65 autotrasportata49. Vien fatto di chiedersi se questa assegnazione in proprio ai carri di elementi motorizzati non abbia fatto balena­re il concetto, divenuto poi cardinale nella guerra corazzata tedesca, che il carro anzi­ché appoggiare la normale fanteria doveva essere appoggiato da una sua apposita fante­ria (per accenni vedi p. 75).

A proposito delle prestazioni dei nostri corazzati nella successiva campagna norda­fricana 1940-1943 è stato scritto con ragione che la trascuratezza italiana per le vicende della forza corazzata inglese sperimentale degli anni venti-trenta mantenendoci lontani dalla scuola britannica All Tanks basata sul­le teorie estremiste di Fuller e non su quelle di Liddell Hart50, finì per giocare come un premio all’ignoranza. Infatti le truppe co­razzate italiane, non appesantite da alcuna teoria, assimilarono più rapidamente di quanto non poterono gli inglesi la concezio­ne tedesca della guerra corazzata come fatto

di cooperazione e non di esclusività51. È mai possibile che l’esperienza italiana di Spagna abbia anch’essa aiutato l’assimilazione del modello tedesco? Tenderei ad escluderlo e non tanto per il fatto che nella nostra più grossa sconfitta carrista in Libia (Beda Fomm, febbraio 1941) il comandante italia­no, che era proprio Babini divenuto nel frat­tempo generale, aveva ai suoi ordini carri M 13 quattro volte più numerosi dei cruiser britannici. La superiorità quantitativa italia­na non compensava infatti il danno dovuto alla ignoranza da parte degli equipaggi di quelle nuove macchine non rodate, appena uscite d’officina, ancor prive di impianti ra­dio, ecc.52. La ragione mi sembra altra e cioè che da parte di Babini non vi fu alcun tenta­tivo di coordinare l’azione dei carri quanto meno con l’artiglieria motorizzata di cui gli italiani avevano larga disponibilità53. Dun­que non la sconfitta in sé ma le sue modalità portano ad escludere ogni profitto delle esperienze di Spagna. Infatti le migliori pro­ve furono date successivamente da altri re­parti corazzati italiani (Ariete e Littorio), che messi a diretto confronto con le novità tedesche seppero improvvisare da soli il pro­prio modo di combattere54.

La Spagna aveva reso evidente la necessità di migliorare l’addestramento. Esigenza ca­pitale ma davvero non assimilata dall’eserci-

49 E. Manca di Mores, L ’impiego dell’Artiglieria italiana, cit., pp. 171-172.50 In difetto di indicazioni dell’Ufficio su quantità e genere dei mezzi occorre aiutarsi con altre fonti non sempre esaurienti come José L. Alcofar Nassaes, C.T. V. Los Legionarios italianos en la guerra civil espahola 1936-1939, Barcellona, Dopesa, 1972, pp. 170-174 e passim.51 Per la precoce intuizione della fanteria corazzata (“marines dei carri armati”), Basii Henry Liddell Hart, The Memoirs, Londra, Cassell, 1965 (2 voli.) I vol, pp. 90-92, 124-125, 175, 275 e II vol., pp. 249-250.52 Questa maggior rapidità di assimilazione italiana è stata notata da MacGregor Knox, The italian armed forces 1940-1943 (“Effectiveness” cit., I ll, p. 151) che appunto la collega esclusivamente all’ignoranza italiana dei concet­ti britannici A ll Tanks. Vedi fra gli altri Robert H. Larson, The British Army and the Theory o f Armoured Warfa­re 1918-1940, Londra-Toronto, Associated University Press, 1984 e per una sintesi il mio I “Tank Advocates" e la strategia britannica 1918-1940, “Storia Contemporanea”, n. 1, 1986.53 Rinvio ai miei Africa settentrionale 1940-43 negli studi e nella letteratura, Roma, Bonacci, 1982, pp. 19-20 e pas­sim; Gli italiani in Africa Settentrionale, in Francesca Ferratini Tosi, Gaetano Grassi, Massimo Legnani (a cura di), L ’Italia nella seconda guerra mondiale e nella Resistenza, Milano, Angeli, 1988 (pp. 185-196), pp. 186-187 e The North African Campaign 1940-43: a Reconsideration, “The Journal o f Strategic Studies”, n. 1, 1990, pp. 87-88.54 I resti della X armata italiana contavano circa 200 pezzi fra medi e piccoli calibri tutti a traino meccanico, oltre

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to italiano il cui stato addestrativo nel 1940 si confermerà infimo. Il bisogno invece era stato ben avvertito nell’ambito stesso del Ctv e nel corso della campagna e tuttavia non si era potuto fare abbastanza per la ra­gione già illustrata dagli autori nel preceden­te volume: la “mancanza di provetti istrutto­ri”55. Cosicché i ricordati accenni di questo volume al miglior rendimento della fanteria, alla sua capacità di fare manovra anche alla soglia tattica sono da intendersi in senso comparativo rispetto al disastroso livello di Guadalajara nonché alla primitività di molte operazioni spagnole, ma fermo restando quanto già scritto dagli autori e cioè che l’addestramento anche nei casi migliori ri­mase “tale da poterlo considerare appena sufficiente56”. Né infine va dimenticato che anche i repubblicani, pur battendosi col va­lore frequente nel soldato spagnolo, erano — come scrisse Babini57 — “sensibilissimi alla manovra” ma “incapaci di manovrare”.

Informazioni sugli insegnamenti della guerra furono spesso richieste dagli organi­smi centrali romani e abbondantemente for­nite dai comandi in Spagna (pp. 506 e sgg., docc. 113, 121/a, 121/b, 122). Ma scarso profitto ne fu ricavato. Taluni fra i pareri espressi non furono confermati dalle succes­sive esperienze del conflitto mondiale. Valga l’esempio dell’opinione di Gambara secondo

cui si sarebbe dovuto tornare a una fanteria “pura”, fatta di soli fucilieri, concentrando le armi di accompagnamento e anticarro in separati reparti (pp. 509, 510 e doc. 98). Ep­pure tutti gli eserciti si avviavano al frazio­namento di tali armi fino alle soglie minime di compagnia e addirittura di plotone e di squadra! Altri pareri furono rifiutati perché contrastanti con riforme in corso (divisione ternaria) alle quali alti papaveri militari ave­vano legato il loro nome. Quanto invece alle opinioni su armi e mezzi (carri, artiglierie, ecc.) e sulla necessità di migliorarli, è indub­bio che esse non ebbero séguito per ragioni connesse a difetti di capacità industriale58.

Degni di attenzione sembrano alcuni giu­dizi espressi dagli autori sui generali italiani e specialmente su quelli che ebbero poi parte di qualche rilievo nella seconda guerra mon­diale. Di Bastico si parla soprattutto nel pre­cedente volume e abbiamo già avuto modo di scriverne59. Qui si ribadisce che il suo silu­ramento, pur alPindomani del successo di Santander, fu il più clamoroso dei cedimenti di Mussolini alla prepotenza di Franco (p. 464), divenuta irresistibile dopo che Guada­lajara aveva definitivamente inchiodato l’I­talia fascista alle sorti della Spagna naziona­le. Su Roatta è ribadito un apprezzamento forse anche troppo severo (p. 464). Manca un giudizio complessivo su Bergonzoli cui si

agli anticarro e agli antiaerei: M. Montanari, Le operazioni in Africa Settentrionale (4 voli.), I voi., Sidi el Banani, Roma, Ussme, 1985, pp. 338 e 405-406.55 Vedi: Feldmaresciallo Claude J.E. Auchinleck, Operations in the Middle East from 1st November 1941 to 15th August 1942, supplemento della “London Gazette”, 15 gennaio 1948, pp. 332, 334; Enrico Serra, Carristi dell’A ­riete (fogli di diario 1941-1942), Roma ed. fuori commercio, 1979, pp. 21-22 e 126-127 nonché L. Ceva, Interludio carristico di uno studioso, in Alessandro Migliazza, Enrico Deeleva (a cura di), Diplomazia e storia delle relazioni internazionali. Studi in onore di Enrico Serra, Milano, Giuffrè, 1991 (pp. 15-30), pp. 28-30.56 Cfr. A. Rovighi, F. Stefani, La partecipazione italiana alla guerra civile spagnola, cit., vol. I, p. 354 e L. Ceva, Ripensare Guadalajara, cit., pp. 484-485.57 A. Rovighi, F. Stefani, La partecipazione italiana alla guerra civile spagnola, cit. Sintomo di deficiente addestra­mento è la proporzione di ufficiali caduti in combattimento: 1 ogni 9,7 sottufficiali e soldati (p. 472). Decisamente elevata anche se non fu di 1 ogni 5 come scrive Dino Campini, Nei giardini del diavolo, Milano, Longanesi, 1979, p. 87.58 E. Manca di Mores, L ’impiego dell’Artiglieria, cit., p. 167.59 Poco comprensibilmente gli autori accennano una difesa dell’industria scrivendo di “insufficienza di materie pri­me” (p. 481, 509). Vedi sopra nota 45.

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riconoscono qua e là doti di coraggio e fer­mezza. Molto positivo e generalmente con­diviso il giudizio su Manca di Mores (p. 469 e passim). Alquanto sfaccettata la valutazio­ne di Gambara. Gli sono riconosciute “peri­zia manovriera” e “condotta magistrale” in Catalogna allorché l’azione del Ctv “condi­zionò positivamente quella più vasta dell’e­sercito del nord” (p. 400). Si menziona una sua capacità di farsi “voler bene dai subor­dinati” e dalla truppa di cui curò sempre il benessere, ma al tempo stesso gli si rimpro­verano modi inutilmente burberi e duri (pp. 400 e 487)60. Grave mi sembra inoltre l’ap­punto messo a Gambara a proposito del po­sitivo giudizio da lui pronunciato sulla divi­sione “binaria” . Sarebbe dipeso dalla sua in­clinazione a non muovere controcorrente e a “rimettersi alle tendenze del capo di Stato maggiore dell’esercito del momento” (p. 451). Si afferma altresì che, se si eccettua la finale adesione a Salò e qualche altro tra­scorso, Gambara avrebbe confermato nel 1940-1943 le doti positive, sul che non tutti sono però d’accordo61. In ogni caso Gamba­

ra dopo la Spagna divenne il generale predi­letto da Mussolini, Ciano e relativo entou­rage e fu per conseguenza inviso al clan di Badoglio dove suscitò scandalo questo ap­prezzamento del duce: “il nostro Gambara che in Catalogna ha spinto avanti la sua di­visione senza troppo preoccuparsi dei fian­chi”. È una “teoria contrastante con una delle più ferme norme strategiche del mare­sciallo” annota sconvolto il generale Armel­lini62 63.

Occorre infine ribadire quanto già rileva­to a proposito del volume precedente e cioè che, per ricchezza di documenti, acume, or­dine, gradevolezza di scrittura, attenzione agli aspetti politici e alla pubblicistica stra­niera, questa monografia dei generali Rovi- ghi e Stefani si allinea fra le migliori pub­blicate dall’Ufficio storico negli ultimi an­ni. I volumi offrono la prima articolata trattazione degli aspetti militari di quella che doveva essere l’ultima vittoria del fasci­smo. Essi saranno utile punto di partenza di ogni futuro studio.

Lucio Ceva

60 Rinvio al mio Ripensare Guadalajara, cit., pp. 484-485.61 II rilievo è mosso con riferimento all’urto fra Gambara e il comandante dell’aviazione legionaria generale Mario Bernasconi che portò alla sostituzione di quest’ultimo col generale Giuseppe Maceratini (pp. 486-487). Si può ricor­dare che il gerarca Bottai, descrivendo il Gambara del 1940, gli attribuisce “una tonda faccia badiale” e modi tut- t’altro che burberi: Giuseppe Bottai, Diario 1935-1944, Milano, Rizzoli, 1982, p. 194.62 Giudizio severo su Gambara esprime il generale Mario Montanari, Le operazioni, cit., vol. II, Tobruk, Roma, Ussme, 1985, p. 758. Interessanti anche i giudizi riduttivi di Montanari sull’operato in Africa Settentrionale di altri generali attivi in Spagna come Berti e Babini a p. 414 del I volume (Sidi el Barrani, 1983) della stessa opera. Una valutazione complessiva di Gambara dovrebbe considerare anche la sua azione in Albania nel 1941 e quella alla te­sta del XV Corpo d’Armata nell’operazione del giugno 1940 che conquistò parte dell’abitato di Mentone.63 Quirino Armellini, Diario di guerra-nove mesi al comando supremo, Milano, Garzanti, 1946, pp. 9-10.

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RIVISTA STORICA ITALIANASommario del 3, settembre 1993

Edizioni scientifiche italiane, Napoli

Domenico Ligresti, L'organizzazione militare del Regno di Sicilia (1575-1635)\ Gior­gio Spini, Sulle origini dei termini “socialista" e "socialismo"-, Enrico Serra, Il governo Giolitti-Sforza (15 giugno 1920-4 luglio 1921) ed il riconoscimento dell'Urss.

Rassegne

Paolo Simoncelli, Nei labirinti della Controriforma

Problemi e discussioni

Maurizio Harari, Cultura moderna e arte etrusco-italica; Aldo A. Settia, Longobardi in Italia: necropoli altomedievali e ricerca storica-, Renato Pasta, Libertà degli studi e controlli ecclesiastici nel primo Settecento-, Giorgio Vaccarino, / problemi degli studi e controlli ecclesiastici nel primo Settecento-, Giorgio Vaccarino, / problemi dell'uni­tarismo cisalpino nell’interpretazione di Carlo Zaghi.

Recensioni

G.W. Bowersock, Hellenism in Late Antiquity {E. Gabba); Achille Olivieri, Riforma ed eresia a Vicenza nel Cinquecento (S. Caponetto); Massimo Firpo, Riforma protestan­te ed eresie nell’Italia del Cinquecento (G, Spini); Vincenzo Burlamacchi, Libro di ricordi degnissimi delle nostre famiglie (0. Niccoli); Das Erbe des Christian Rosenk- reuz. Vortràge gehalten anlasslich des Amsterdamer Symposiums: 18-20. November 1986. Johann Valentin Andreae 1586-1986 und die Manifeste der Rosenkreuzer 1614-1616 {G. Cengiarotti); La scienza moderata. Fedele Lampertico e l ’Italia libera­le (R. Nieri); Angelo Russi, Bartolomeo Capasso e la storia del Mezzogiorno d ’Italia (E. Gabba); Oleg V. Chlevnjuk, 1937: Stalin, Nkvd i sovetskoe obscestvo [1937: Sta­lin, il Nkvd e la società sovietica] (E. Cinnella).

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Gli analfabeti nell’Italia del secondo Ottocento

Eugenio Torrese

Questa nota espone alcune sintetiche consi­derazioni che sono alla base di una ricerca in corso sulla scuola elementare del secondo Ottocento. Con essa non si vuole riproporre una storia dell’istituzione attraverso i suoi protagonisti e gli operatori, ma si intende ri­volgere l’attenzione ai soggetti destinatari dell’offerta formativa, in particolare a quelli appartenenti alle “classi povere”, cercando in prima istanza di delinearne il profilo e le caratteristiche. Verso di loro l’offerta si pre­senta in modo codificato e programmato (le materie), tuttavia l’insegnamento della tec­nica della lettura e scrittura, considerata non solo come prodotto, ma anche come educa­zione corporea, pur essendo ben diversa dal­la ginnastica, risulta, rispetto a questa, più presente e condizionante.

Anche lo spazio svolge lo stesso compito silenzioso sui corpi, unendo alla cogenza im­plicita la regolamentazione nell’uso; uno spazio non inteso, quindi, come edilizia sco­lastica e relativa politica, ma quale luogo che simboleggia precetti morali dominanti (ad esempio la differenza di genere) e li raf­forza mentre “parla” a quei corpi in cresci­ta. La nota che segue tenta di offrire una ge­nerale, anche se incompleta, ricognizione bi­

bliografica e ha lo scopo di fornire al lettore le indicazioni essenziali per riconoscere il percorso compiuto. Forzature e schematismi presenti nel testo sono ingredienti, forse al momento, meno dannosi di nebulose pro­spettive prefigurabili e probabilmente sono il frutto di un rapporto purtroppo ancora strumentale con gli apparati concettuali del­le altre discipline, antropologia e sociologia in primo luogo.

Nella storia dell’alfabetismo occidentale1 l’Ottocento è sicuramente un secolo di svol­ta, perché nasce e si afferma quel sistema che in breve tempo renderà la scuola grande agenzia formativa e luogo di socializzazione di primaria importanza.

L’inizio è certamente stentato, ma, anche non condividendo l’enfasi di Bantock, per il quale si assiste ad un “esperimento unico nella storia deH’umanità”2, non c’è dubbio che in questo secolo prenda avvio una nuova fase. L’attenzione degli studiosi italiani3, prevalentemente indirizzata ad indagare connotazione sociale, limiti, lentezze e con­traddizioni del processo di scolarizzazione, ha permesso di accumulare conoscenze di notevole interesse ed utilità, ma non ha va­lorizzato adeguatamente il segno innovativo

1 Harvey J. Graff, Storia dell’alfabetizzazione occidentale, voli. 3, Bologna, Il Mulino, 1989.2 Geoffrey H. Bantock, Cultura, industrializzazione, educazione, Firenze, La Nuova Italia, 1976.3 Onde evitare un lungo elenco di titoli, si richiamano qui alcuni autori: Dina Bertoni Jovine, Tina Tomasi, Giu­seppe Ricuperati, Franco Cambi, Giovanni Genovesi, Enzo Catarsi, Ester De Fort, Stefano Pivato, Gaetano Bo- netta, Simonetta Ulivieri, Marzio Barbagli, Giacomo Cives, Marcella Bacigalupi, Piero Fossati.

“Italia contemporanea”, settembre 1994, n. 196

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e dirimente che questa realtà rappresenta con il passato più o meno recente. Una tale osservazione non vuole far cadere nell’erro­re opposto, ma sollecitare una sensibilità di­versa e proporre altri spunti per l’indagine.

Il primo è rappresentato dall’esatta collo­cazione dell’istituzione scuola rispetto alle altre agenzie di comunicazione ed accultura­zione. Harvey J. Graff sottolinea a più ri­prese che se la scuola è uno dei canali di al­fabetizzazione che nella società raggiungono un numero sempre più elevato di individui, esercito, editoria e stampa concorrono in questa azione a senso unico: dall’alto al bas­so della gerarchia sociale e, si aggiunga, dal mondo degli istruiti, a prevalente cultura scritta, a quello degli analfabeti, a prevalen­te cultura orale. È opportuno sottolinearlo perché non è né data né scontata la coinci­denza tra due minoranze: quella degli scri­venti e quella dei gruppi che occupano i gra­dini più alti della scala sociale, riservando all’Italia pochi concorrenti tra i paesi euro­pei, quali Grecia, Portogallo e Russia. In virtù di ciò è possibile considerare l’insieme degli interventi, le prese di posizione e le ar­gomentazioni che le sorreggono come un unico ampio dibattito, a volte appassionato e dai toni aspri, altre ripetitivo, sulle ragio­ni, le modalità, le caratteristiche e le diffi­

coltà di un processo di alfabetizzazione di massa attraverso la scuola. I vari ministri ed esperti della Pubblica istruzione, i parlamen­tari, Villari, De Sanctis, Ascoli e Manzoni e in generale gli intellettuali, gli agrari ed i ca­pitalisti, i direttori e i collaboratori di riviste pedagogico-didattiche4 ne sono gli animato­ri, tutti accomunati dal possesso, al più alto grado, delle abilità del parlare, leggere e scri­vere. A questi vanno aggiunti i dirigenti del nascente movimento operaio. Da un lato, quindi, un mondo di parlanti, di leggenti e di scriventi e dall’altro un popolo di parlanti, di leggenti in minor misura ed ancor meno di scriventi, e probabilmente con una compe­tenza scrittoria superficiale, limitata alla ca­pacità di apporre la propria firma5. La sud- divisione — a cui è estraneo ogni tentativo di minimizzare le tensioni di cui parla Ariès6 o di negare evidenti radicamenti sociali — può rivelarsi utile per puntare uno sguardo diver­so sui destinatari dell’offerta formativa. Sguardo diverso perché fino ad ora sono sta­ti osservati attraverso l’ottica dell’istituzione scuola e dei suoi operatori e sostenitori, con i quali gli storici di oggi condividono non una comunanza di pensiero e tanto meno di ideo­logia, ma il possesso dell’abilità scrittoria7. Infatti, una volta rilevati quantitativamente, gli analfabeti8 acquisiscono fisionomia stati-

4 Giorgio Chiosso (a cura di), Scuola e stampa nel Risorgimento. Giornali e riviste per l ’educazione prima dell’U­nità, Milano, Angeli, 1989 e Id., I periodici scolastici nell’Italia del secondo Ottocento, Brescia, La Scuola, 1992.5 Nell’indagine storiografica si registra l’orientamento di tipo quantitativo con François Furet e Mona Ozouf e quello di tipo qualitativo con Engelsing, Hurichs, Norden e Rudolf Schenda. Sul primo si vedano le osservazioni di Roger Chartier, Le pratiche della scrittura, in Philippe Ariès, George Duby, La vita privata dal Rinascimento all’Il­luminismo, Roma-Bari, Laterza 1990; per l’Italia Giovanni Vigo, “... quando il popolo cominciò a leggere’’. Per una storia dell’alfabetismo in Italia, “Società e storia”, n. 22, 1983. Sul tema cfr. Tullio De Mauro, Storia linguisti­ca dell’Italia unita, Roma-Bari, Laterza, 1991; F. Tempesti, Carlo Collodi e la didattica dell’italiano: alcune risul­tanze di un centenario: 1890-1990, “Schedario”, n. 2, 1990, che anticipa gli atti di un convegno (in corso di stampa) “La scrittura dell’uso al tempo di Collodi”, tenuto a Pescia nel 1990; per un’analisi da economista cfr. Carlo M. Cipolla, Istruzione e sviluppo, Torino, Utet, 1969.6 Cfr. P. Ariès, voce Educazione, in Enciclopedia, Torino, Einaudi, 1978 e dello stesso Padri e figli, Roma-Bari, Laterza, 1976.7 Cfr. Robert Escarpit, Scrittura e comunicazione, Milano, Garzanti, 1976.8 G.S. Del Vecchio, La statistica dell’analfabetismo, Genova, 1894; Luigi Faccini, Rosalba Graglia, Giuseppe Ri­cuperati, Analfabetismo e scolarizzazione, in Storia d ’Italia, Atlante, vol. VI, Torino, Einaudi, 1976; Daniele Mar­chesini, L ’analfabetismo femminile nell’Italia dell’Ottocento: caratteristiche e dinamiche, in Simonetta Soldani,

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stica in quanto senza alfabeto, con una in­dubbia connotazione negativa; altre volte saltano alla ribalta come soggetti da sottrar­re all’ignoranza, sempre indissolubilmente legata a superstizione e abbrutimento; altre ancora diventano i destinatari di un’offerta formativa, di cui non approfittano perché non ne comprendono i benefici, o, quando l’evidenza non può essere negata, ne sono allontanati a causa della miseria9. Il tentati­vo di problematizzare questa visione recla­ma la rivalutazione, senza alcuna enfasi, del “punto di vista” dell’analfabeta, e trova ne­gli studi di antropologi e di altri autori uno stimolo ed un incoraggiamento. Ci si riferi­sce ad Ong, Goody, Havelock, Watt e, in Italia, Callari Galli, Harrison e Cardona10, a cui vanno aggiunti Bartoli Langeli, Pétrucci, Marchesini e Azzolini11.

Lo stimolo è alimentato dagli studi sulla formazione di società dotatesi di codici scrit­tori e dalla dinamica, all’interno di queste, tra mondo della scrittura e mondo dell’orali­tà, senza alcuna separazione manichea. È bene, però, sgombrare il campo da equivoci. Qui si vogliono individuare le manifestazio­ni del punto di vista degli illetterati, cercan­do di evitare quegli errori che a lungo hanno

caratterizzato gli studi italiani di antropolo­gia, relativi alla cultura delle classi subalter­ne12. Non esiste, cioè, alcun punto di vista intimamente coerente e tanto meno un pen­siero alternativo alla scuola in difesa della propria cultura, ma una varietà di atteggia­menti e pratiche che il processo di alfabetiz­zazione, attraverso la scuola, incontra sulla strada. Metterli in risalto è il primo passo, occorre poi individuare l’entità e le relazioni con l’ambiente circostante e la società del tempo, nella misura consentita dai limiti e dalla peculiarità delle fonti. Solo per como­dità espositiva si propone una suddivisione tra ragioni materiali ed altre di natura cultu­rale, nel senso più ampio del termine.

Alle prime appartiene la necessità di uti­lizzare i minori quale forza lavoro presso terzi o come aiuto nelle attività dei grandi: quando devono svolgere il lavoro nei campi si assentano nei periodi primaverili ed estivi, quando sono impiegati in altre attività, dalle fabbriche tessili del Nord alle zolfatare sici­liane13, non sono affatto iscritti o, se lo so­no, frequentano in modo molto irregolare. Se si dovesse fare una graduatoria sulla base delle fonti è certo che le ragioni dello stoma­co sarebbero al primo posto. Notissima è la

L ’educazione delle donne, Milano, Angeli, 1989. Maria Montessori, negli anni cinquanta, definiva l’analfabeta un “anormale”, un “extrasociale” (in Anna Lorenzotto, Alfabeto e analfabetismo, Roma, Armando, 1962, p. 168).9 Cfr. Roberto Berardi, Scuola e politica nel Risorgimento, Torino, Paravia, 1982.10 Walter J. Ong, Oralità e scrittura. Le tecnologie della parola, Bologna, Il Mulino, 1986; Jack Goody, L ’addo­mesticamento del pensiero selvaggio, Milano, Angeli, 1981; Id., La logica della scrittura e l ’organizzazione della società, Torino, Einaudi, 1988 e II suono e i segni, Milano, Il Saggiatore, 1989; Eric A. Havelock, La musa impara a scrivere, Bari, Laterza, 1987; P .P. Giglioli (a cura di), Linguaggio e società, Bologna, Il Mulino, 1974; Giorgio R. Cardona, Antropologia della scrittura, Torino, Loescher, 1981; Matilde Callari Galli, Antropologia ed educa­zione, Firenze, La Nuova Italia, 1975; della stessa con Gualtiero Harrison, Né leggere, né scrivere, Milano, Feltri­nelli, 1976; della stessa, Antropologia ed educazione: problemi e prospettive, in Tullio Tentori et al., L ’antropolo­gia oggi, Roma, Newton Compton, 1982.11 Si veda Attilio Bartoli Langeli, Armando Pétrucci (a cura di), Alfabetismo e cultura scritta (Atti del seminario tenutosi a Perugia il 29-30 marzo 1977), Bologna, Il Mulino, 1978; Orfeo Azzolini, La fatica di conoscere, Roma- Bari, Laterza, 1991; D. Marchesini, Il bisogno di scrivere. Usi della scrittura nell’Italia moderna, Roma-Bari, La- terza, 1992.12 Cfr. Luigi M. Lombardi Satriani, Antropologia culturale e analisi della cultura subalterna, Milano, Rizzoli, 1980.13 Accanto alle fonti statistiche vanno tenuti presenti gli atti delle inchieste ministeriali e la produzione letteraria di Verga e di autori minori, sui quali Daniela Maldini Chiarito, Ceti popolari nella narrativa dell’Ottocento. Realtà storica e immagine letteraria, Torino, Tirrenia-Stampatori, 1983.

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denuncia di Villari del 1872 ed è solo una delle tante che ricorrono nelle sedi più diver­se e sulla stampa del tempo14. I più determi­nati accusatori sono i dirigenti del nascente movimento operaio. Essi ritengono che la prima riforma da attuare sia il miglioramen­to delle miserrime condizioni di vita; solo un tale cambiamento pone le premesse per la diffusione dell’istruzione negli strati popola­ri della società15.

Tra i fattori di natura immateriale, due sembrano essere i più frequentemente osser­vati: l’estraneità e la diffidenza degli analfa­beti. In tutti e due i casi il risultato è la resi­stenza alla diffusione deU’alfabetismo attra­verso la scuola. La diffidenza si manifesta ora nei confronti di chi insegna, soprattutto se viene dalla città, ora nei confronti del simbolo della cultura scritta, il libro16. Paola Lombroso, nella sua indagine, compiuta sul finire del secolo, rivela, non senza scandaliz­zarsi, che “le donne di Basaluzzo, che sono tutte un poco più colte, credono che i libri siano per istruirsi, per far andare avanti le terre, per raccontare le vite dei santi e per andare a messa. In generale anche su questo argomento dei libri ripetono il giudizio ste­reotipato che han sentito predicare dal pul­pito; i libri buoni sono i libri da messa e del­le vite dei santi; gli altri son tutti libri che fanno perdere l’anima e i romanzi fanno fa­re gli omicidi” .17. E recentemente Livia Be- duschi, nel suo studio su noti testi di tradi­zione orale del Mantovano e del Bergama­sco, afferma: “in molti casi gli atteggiamenti

verso la pagina scritta, la stampa, denotano resistenze e rifiuti radicati e difficili da scal­zare: basta ricordare la funzione comica del­la lettera, del bando pubblico e della loro lettura nel teatro dei burattini, o l’uso della carta stampata per fare copricapi a perso­naggi da prendere in giro”18. A conferma dell’estraneità, ma anche della lontananza e dell’ostilità nei confronti del mondo della scuola torna utile la testimonianza di un ad­detto all’alfabetizzazione, il maestro Tito Miserocchi, il quale, nella seconda metà del­l’Ottocento in occasione di una cerimonia di premiazione di alunni ed alunne di scuole rurali romagnole, così si esprime: “il mae­stro cerca di sradicare, per esempio, gli erro­ri, i pregiudizi e le superstizioni sulla creduta rotazione del sole intorno alla terra, sull’illi­mitata influenza della luna, sulle streghe, sul venerdì, sugli spiriti ecc.: allorquando il fi­glio racconta a casa ciò che gli ha insegnato il maestro in iscuola, gli sono quelle verità smentite con argomentazioni false e con una sequela di fatti apparentemente veri, perché corredati di nomi di famiglia e di circostanze di luogo e di tempo in cui si dicono accadu­ti”19.

È abbastanza evidente che i fattori mate­riali non vanno separati da quelli culturali, perché non si tratta solo di una loro compre­senza nello stesso ambiente, ma anche di una combinazione che produce sinergie con­siderevoli. L’impiego dei minori, ad esem­pio, nel lavoro dei campi trova un sicuro al­leato nella lentezza dei cambiamenti della

14 Pasquale Villari, La scuola e la questione sociale, in Id., a cura di Francesco Barbagallo, Le lettere meridionali e altri scritti sulla questione sociale, Napoli, Guida, 1979.15 Cfr. I dati sulla scarsa alimentazione degli alunni delle scuole elementari di Milano sul finire del secolo in R. Guaita, Igiene delta scuola e della famiglia, Milano, 1903; sui costi della scuola elementare cfr. Gianni Resti, L ’i­struzione popolare a Siena nella seconda metà dell’Ottocento, Roma, Bulzoni, 1987.16 Alfonso di Nola, Libro, in Enciclopedia, Torino, Einaudi, 1979.17 Mario Carrara, Paola Lombroso, Nella penombra della civiltà, Torino, 1906; Amerigo Seghieri, Il libro magico, in L.M. Lombardi Satriani e Mariano Meligrana, Diritto egemone e diritto popolare, Vibo Valentia, 1975.18 Lidia Beduschi, Atteggiamenti e ideologie della scrittura nei testi della tradizione orale, “La ricerca folklorica”, n. 5, 1982.19 Stefano Pivato, Pane e grammatica, Milano, Angeli, pp. 141-144.

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condizione dei genitori, cioè del loro analfa­betismo, soprattutto se ciò comporta anche l’onere di vecchi sacrifici (quelli economici) e di nuovi impegni (i compiti a casa di Tito Miserocchi). L’ignoranza e la povertà, in­somma, non generano naturalmente il biso­gno di scuola20: perché ciò avvenga occorre anche un clima diverso nell’ambiente circo­stante e nella società nel suo insieme. Nel tentativo di dare spiegazione del disinteresse nei confronti dell’istituzione, molti osserva­tori contemporanei sono convinti che esso risieda nella incomprensione dei vantaggi da parte dei destinatari; i ragazzi, cioè, non fre­quentano perché le famiglie non ne capisco­no l’utilità. Ma, a differenza di quanto ri­tengono i colti, la dimensione valoriale e simbolica della scrittura21 non è disgiunta, agli occhi degli incolti, da quella funzionale e questa, a sua volta, non può vantare nes­suna neutralità in una società in cui scrittura e potere, nel senso più ampio della parola, stipulano alleanze e rimandano reciproci ri­specchiamenti. A prevalere è una dinamica che abbraccia e travalica gruppi sociali più o meno ristretti, quella, cioè, tra mondo della scrittura e mondo dell’oralità. Un suo deciso

rafforzamento nell’Ottocento è dato dal- l’infittirsi dei canali di comunicazione22 gra­zie alla stampa periodica, ai libri “spazzatu­ra” , all’editoria23, all’opera di marginali24, alla scuola stessa con una tendenziale pre­valenza della scrittura sull’oralità. Questo processo è incarnato simbolicamente e ma­terialmente dall’alfabetismo, la cui penetra­zione nei tessuti della società25 però non ri­specchia nessun modello di diffusionismo lineare. Alcuni esempi lo dimostrano.

In primo luogo l’istruzione per o delle donne, anche negli strati più elevati, non è generalizzata né pacificamente condivisa26. Se, cioè, negli strati subalterni le ragioni dello stomaco si abbinano ad altre meno immediate, in quelli più alti è il ruolo a di­ventare fattore primario. Paola Lombroso ed altre sono per lungo tempo “mosche bianche” . La stessa istruzione è fortemen­te caratterizzata: nei primi anni sono i la­vori donneschi a predominare come testi­moniano anche i ricami, pizzi, tovaglie e consimili, che abbondano nelle esposizio­ni didattiche. Il genere, cioè, precostituisce non solo percorsi ma anche contenuti diffe­renziati.

20 Cfr. Oscar Lewis, La cultura della povertà e altri saggi di antropologia, Bologna, Il Mulino, 1973.21 G.R. Cardona, Antropologia cit., e alcuni aspetti dell’indagine di De Martino in Vittorio Lanternari, L ’“incivili- mento dei barbari”. Problemi di etnocentrismo e d ’identità, Bari, Dedalo, 1983, pp. 82-84; Roland Barthes, Pa­trick Mauriès, Scrittura, in Enciclopedia, Torino, Einaudi, 1981.22 G.R. Cardona, Sull’“etnografia della scrittura”, in Id., I linguaggi del sapere, Roma-Bari, Laterza, 1990; Id., / percorsi della scrittura, “Biblioteche”, n. 2, 1985; Giovanna Cerina, Cristina Lavinio, Luisa Mulas (a cura di), Oralità e scrittura nel sistema letterario, Roma, Bulzoni, 1982.23 Richard D. Altick, La democrazia tra le pagine, Bologna, Il Mulino, 1987 e tra gli altri Giulia Barone, Armando Pétrucci, Primo: non leggere, Milano, Mazzotta, 1976; Alberto M. Sobrero, Problemi di ricostruzione della menta­lità subalterna letteratura e circolazione culturale alla fine dell’Ottocento, in Studi antropologici italiani e rapporti di classe, Milano, Angeli, 1980; A. Palermo, Per una antologia della sociologia letteraria, in Fernando Ferrara et al. (a cura di), Sociologia della letteratura. A tti del primo convegno nazionale (Gaeta 2-4 ottobre 1974), Roma, Bulzoni, 1978; Guido Verucci, L ’Italia laica prima e dopo l ’unità (1848-1876). Anticlericalismo, libero pensiero e ateismo nella società italiana, Bari, Laterza, 1981; Renato Monteleone, Che cosa legge la classe operaia?, “Movi­mento operaio e socialista”, n. 2-3, 1977; L. Martyn, Le triomphe du livre, France, 1987.24 Glauco Sanga, Marginali e scrittura, “La ricerca folklorica”, n. 15, 1987.25 Paolo Macry, Ottocento, Torino, Einaudi, 1988, p. 119.26 Cfr. Soldani, L ’educazione, cit.; la discussione in “Passato e presente”, n. 17, 1988 e i saggi di N.L. Green, La formazione della donna ebraica e M.C. Hoock Dentarle, Leggere e scrivere in Germania, in George Duby, Michelle Perrot (a cura di), Storia delle donne, L ’Ottocento, Roma-Bari, Laterza, 1990; ancora Simonetta Ulivieri (a cura di), Educazione e ruolo femminile, Firenze, La Nuova Italia, 1992.

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In secondo luogo tra i protagonisti del di­battito sul tema non è difficile trovare possi­denti, latifondisti e capitalisti che temono anche un grado minimo di istruzione delle classi subalterne. I timori, ed in molti casi la paura, si nutrono della concezione negativa che essi hanno del popolo, rendendo ancora più temibile il binomio popolo-istruzione. Le proposte di questi settori sociali vanno dal rifiuto di qualsiasi offerta formativa a quella di un intervento a soli scopi educativi; insomma, se socializzazione vi deve essere, non può e non deve travalicare i confini rigi­di di una introiezione di concetti ed atteggia­menti di totale passività ed accettazione del­la propria condizione sociale e politica. A questi si contrappongono le élite dirigenti del movimento operaio propugnando l’esat­to contrario, ma nei due casi si può registra­re una concezione strumentale dell’alfabeti­smo: per i primi a fini di stabilità, per i se­condi a fini di cambiamento27.

Come è noto, l’esito fu piuttosto contro­verso: finì col prevalere l’orientamento fa­vorevole a un minimo di istruzione, forte­mente segnata, però, da una volontà di ac­culturazione, tanto intensa quanto pervasi- va28. È questo il prezzo che la parte più grande della società dovette pagare alla dif­

fusione e al radicamento di uno dei valori più noti della modernizzazione29.

Infine si deve considerare che la differen­za sociale richiama quella ambientale: è la città, infatti, ad offrire, come dimostra Da­niel Roche per la Francia, Attilio Bartoli Langeli e Daniele Marchesini per l’Italia30, occasioni e stimoli provenienti dalla sua par­te inanimata (edifici, strade, insegne, ecc.) e dalla coesistenza di pratiche di lettura31 e di scrittura32. La contiguità di vari gruppi so­ciali (si pensi ai domestici) con queste provo­ca un contagio a considerevole potere diffu­sivo. La stessa formazione dello Stato mo­derno, che ha il suo cuore nella città, si ac­compagna alla proliferazione di strumenti e di prassi indissolubilmente legate alla scrit­tura33. Città e campagna, quindi, si presen­tano fortemente differenziate, evidenziando due metabolismi con ritmi diversi e con ma­nifestazioni ed effetti duraturi34.

Oggi le statistiche italiane, anche per mo­tivi demografici, mostrano in via di conclu­sione questo processo, registrando percen­tuali molto basse di analfabeti totali, che vengono soppiantati da due nuove figure: gli analfabeti di ritorno e “gli ignoranti del ter­zo tipo”35, mentre il “potere linguistico”36 ha subito solo scossoni. Infatti, “cosa acca-

27 Stefano Pivato, Movimento operaio e istruzione popolare, Milano, Angeli, 1986; Tina Tomasi (a cura di), Scuo­la e società nel socialismo riformista 1891-1926. Battaglie per l ’istruzione popolare e dibattito sulla questione fem­minile, Firenze, Sansoni, 1982.28 H.J. Graff parla di “curricolo implicito” e tra gli altri cfr. Marcella Bacigalupi, Piero Fossati, Da plebe a popo­lo, Firenze, La Nuova Italia, 1986.29 Gérard Delille, Stabilità e innovazione nella Puglia dei trulli: Alberobello nel X IX secolo, in Storia d ’Italia, Le regioni dall’Unità a oggi. La Puglia, Torino, Einaudi, 1989.30 Daniel Roche, Popolo di Parigi, Bologna, Il Mulino, 1986; Attilio Bartoli Langeli, D. Marchesini, I segni della città: Parma nell’antico regime e D. Marchesini, Una città e i suoi spazi scritti: Parma, secoli XVIII-XIX, “Storia urbana”, n. 34, 1986.31 Roger Chartier, Letture e lettori nella Francia di Antico Regime, Torino, Einaudi, 1988; Rudolf Schenda, Leg­gere ad alta voce: tra analfabetismo e sapere libresco, “La ricerca folklorica”, n. 15, 1987.32 A. Pétrucci, La scrittura. Ideologia e rappresentazione, Torino, Einaudi, 1986.33 D. Marchesini, Il bisogno, cit.34 Secondo G. Sanga “l’alfabetismo... è stato adottato e rivendicato dagli operai” mentre “ [...] è stato subito dai contadini”, in Id., Marginali e scrittura, cit., p. 15.35 Ermanno Detti, Il piacere di leggere, Firenze, La Nuova Italia, 1987; A. Pétrucci, Scrivere e no, Roma, Editori Riuniti, 1983 e prima A. Lorenzotto, Alfabeto, cit., pp. 28-30.36 Raffaele Simone (a cura di), L ’educazione linguistica, Firenze, La Nuova Italia, 1979, p. 6.

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drebbe se il mondo intero divenisse alfabe­tizzato? Risposta: nulla di speciale, giacché è strutturato nel suo complesso in modo da assorbire un simile impatto. Ma se l’intero mondo consistesse di individui alfabeti, au­tonomi, critici, costruttivi, capaci di tradur­re le idee in azione, individualmente e collet­tivamente, allora il mondo cambierebbe”37.

Non è riduttivo quindi ritenere quella del­l’alfabetizzazione la storia dell’affermazione e del radicamento di un valore38, direttamen­te correlata al successo della scrittura sull’o­ralità: scrittura ed alfabetismo quali valori positivi, oralità ed analfabetismo quali di­svalori, da sospingere alla periferia delle città e della società. L’antropologia, però, non ha negato alcun diritto di cittadinanza a questa realtà nell’Ottocento con i Raffaele Satriani ed i Pitré ed in anni più recenti con De Marti­no, Lombardi Satriani, Cirese, Carpitella e Bosio. E sono gli antropologi delle società senza scrittura che, avendo fatto “il giro più lungo”39, sollecitano un diverso sguardo del “Noi” e spingono a non considerare la civiltà della scrittura come unico sbocco ed esito scontato di un processo naturale.

Rispondendo a simili sollecitazioni an­drebbe, ad esempio, diversamente analizzata la data simbolo del processo di alfabetizza­zione (1887), riducendone la portata nella diffusione sociale dell’alfabetismo, ma riva­

lutandola come segnale importante degli orientamenti politici e culturali delle élite dell’Italia liberale; andrebbero indagate con diversa sensibilità le conseguenze di un simi­le processo, evitando di ricercare conferme al binomio scrittura-modernità, per riconsi­derare le pratiche e gli atteggiamenti dei de­stinatari dell’offerta formativa; la scuola andrebbe esaminata non solo come centro di socializzazione palese, ma anche come luogo di educazione e disciplina del corpo che av­viene non solo con l’attività didattica, ma anche attraverso la dimensione spaziale del­l’ambiente scolastico, la sua organizzazione, il suo arredo e la sua fruizione, regolata e quindi esplicitamente orientata, ma anche implicitamente condizionata da scelte, come ad esempio quelle architettoniche, solo par­zialmente dettate da criteri di funzionalità.

Il condizionale è d’obbligo, perché l’invi­to di Ricuperati40, rivolto venti anni fa e rin­novato successivamente, a produrre una sto­ria sociale della scuola non ha sortito grandi effetti, perché pedagogisti e storici procedo­no per vie parallele o seguono percorsi diffe­renziati ed infine perché gli stimoli prove­nienti da altre discipline, quali la sociologia e l’antropologia, trovano ancora scarsa rice­zione nella ricerca storico-pedagogica.

Eugenio Torrese

37 H.J. Graff, Storia dell’alfabetizzazione, cit., voi III, p. 303.38 Renzo Gubert, Dall’analfabetismo come dato di fatto all’analfabetismo come condizione accettata: tentativi di un’analisi causale, “Quaderni della Regione Lombardia”, n. 88, 1982.39 Francesco Remotti, Noi, primitivi, Torino, Bollati Boringhieri, 1990.40 Giuseppe Ricuperati, La scuola nell’Italia unita, in Storia d ’Italia. I documenti, vol V, tomo 1, Torino, Einaudi, 1973; Id., La storia dell’istruzione nella storiografia contemporanea, in Antonio Santoni Rugiu et al., Storia della scuola e storia d ’Italia dall’Unità a oggi, Bari, De Donato, 1982.

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ISTITUTO NAZIONALE PER LA STORIA DEL MOVIMENTO

DI LIBERAZIONE IN ITALIACollana storica 1985-1992

Storiografia e fascismo. Con appendice bibliografica. Scritti di Guido Quazza, Enzo Col­lotti, Massimo Legnani, Marco Palla, Gianpasquale Santomassimo, Milano, Angeli, 1985 Le formazioni GL nella Resistenza. Documenti. Settembre 1943/aprile 1945, a cura di Giovanni De Luna, Piero Camilla, Danilo Cappelli, Stefano Vitali, Milano, Angeli, 1985 Italia 1945-1950. Conflitti e trasformazioni sociali. Scritti di Gloria Chianese, Guido Crainz, Marco Da Vela, Gabriella Gribaudi, Milano, Angeli, 1985 Giampaolo Valdevit, La questione di Trieste 1941-1945. Politica internazionale e contesto locale, Milano, Angeli, 1985Gianni Oliva, Esercito, paese e movimento operaio. L’antimilitarismo dal 1861 al­l’età giolittiana, Milano, Angeli, 1986Linea gotica 1944: eserciti, popolazioni, partigiani, a cura di Giorgio Rochat, Enzo Santarelli, Paolo Sorcinelli, Milano, Angeli, 1986Mauro Cerutti, Tra Roma e Berna. La Svizzera italiana nel ventennio fascista, Mila­no, Angeli, 1986Elite politiche nella Sardegna contemporanea, Scritti di Virgilio Mura, Graziano Tido- re, Giangiacomo Ortu, Luciano Marrocu, Maria Rosa Cardia. A cura di G.G. Ortu, Mila­no, Angeli, 1987L’Italia nella seconda guerra mondiale e nella Resistenza, a cura di Francesca Fer- ratini Tosi, Gaetano Grassi, M. Legnani, Milano, Angeli, 1988Giorgio Vaccarino, La Grecia tra Resistenza e guerra civile 1940-1949, Milano, An­geli, 1988La “città del silenzio’’. Ravenna tra democrazia e fascismo. Scritti di Pierpaolo D’At- torre, Pierluigi Errani, Paola Morigi, Milano, Angeli, 1988Roberto Ruffilli: un percorso di ricerca. Scritti di Enzo Balboni, Leopoldo Elia, Guido Melis, Paolo Pombeni, Andrea Riccardi, Raffaele Romanelli, Piero Scoppola, Nicola Tranfaglia. A cura di Maurizio Ridolfi, Milano, Angeli, 1990Guerra, guerra di liberazione, guerra civile. Atti del convegno di Belluno, 27-29 otto­bre 1988. A cura di M. Legnani e Ferruccio Vendramini, Milano, Angeli, 1990 Ruggero Giacomini, Antimilitarismo e pacifismo nel primo Novecento. Ezio Barta- lini e “La Pace” 1903-1915. Milano, Angeli, 1990La Toscana nel secondo dopoguerra, a cura di Pier Luigi Ballini, Luigi Lotti, Mario G. Rossi, Milano, Angeli, 1991Municipalità e borghesie padane tra Ottocento e Novecento. Alcuni casi di studio,a cura di Salvatore Adorno, Carlotta Sorba, Milano, Angeli, 1991Maria Rosa Cardia, La nascita della Regione autonoma della Sardegna 1943-1948,Milano, Angeli, 1992Lucio Ceva, Andrea Curami, Industria bellica anni trenta. Commesse militari, l’An- saldo ed altri, Milano, Angeli, 1992Giampaolo Valdevit, Gli Stati Uniti e il Mediterraneo da Truman e Reagan, Milano, Angeli, 1992

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Tra f o n t i e ricerca

Toscana autunno 1943Un rapporto dei servizi di sicurezza della Wehrmacht

Giovanni Verni

L’immediata, diffusa e manifesta ostilità popolare verso le truppe di occupazione ger­maniche che dopo l’otto settembre 1943 si erano impadronite fulmineamente del terri­torio italiano dalla Campania al Brennero è affermazione comune a tutte le opere storio­grafiche o memorialistiche riguardanti la nostra lotta di liberazione, ma nella quasi totalità dei casi essa è priva di un attendibile supporto documentario coevo ed ancor più rari sono i ricorsi alla documentazione di fonte tedesca1. Tanto è vero che le principali opere generali sulla storia della Resistenza italiana sono assai caute sia nel tratteggiare il quadro delle prime formazioni partigiane e della loro dislocazione, sia nel valutarne la consistenza: cautela particolarmente accen­tuata per quanto concerne la Toscana e in­dotta probabilmente da una forse accessiva diffidenza verso la documentazione disponi­bile fino a non molto tempo fa, costituita essenzialmente dalle relazioni ufficiali delle formazioni partigiane e da ricordi di prota­gonisti, ancora segnate dalle diffidenze su­

scitate dal clima politico che si ebbe in Italia dagli ultimi anni quaranta a tutti gli anni cinquanta. Ma le fonti tedesche — pur sot­tovalutando il carattere degli italiani: “Gli stessi italiani che operano alla formazione delle bande non dovrebbero possedere, in generale, lo slancio richiesto e la durezza ne­cessaria per una attiva azione di bande”2 e sopravalutando la possibilità di conquistarsi la fiducia della popolaziona italiana — ci of­frono un quadro ben più ricco e articolato della situazione esistente nel nostro paese nei primi mesi dell’autunno 1943, anche se le valutazioni che vi compaiono risultano rife­rite ad un periodo leggermente antecedente alla data del documento in cui sono riporta­te, probabilmente per la difficoltà dei colle­gamenti, assai sensibile nel primo periodo. Infatti a metà di ottobre del 1943 L’Heer- esGruppe B, cui competeva il controllo del­l’Italia centrosettentrionale, malgrado il giu­dizio negativo sugli italiani sopra riportato, era costretto a riconoscere anche “Umore e atteggiamento della popolazione civile sono

1 Già nel 1985 Jens Petersen in occasione del convegno promosso dall’Insmli su “L’Italia nella seconda guerra mondiale e nella Resistenza” faceva osservare questo limite della storiografia italiana, che solo in tempi recentissimi sembra muoversi in direzione di un suo superamento.2 HeeresGruppe B, Feindnachrichtenblatt N. 5, 23 ottobre 1943 in National Archives Washington (d’ora in poi NAW), T 311. Non si può fare a meno di rilevare la concordanza di questa valutazione con quella espressa ancora nel dicembre 1943 dal Comando supremo del R. Esercito italiano, che in apertura della sua circolare 333/OP, aven­te per oggetto “Direttive per l’organizzazione e la condotta della guerriglia” non si peritava ad affermare: “In Italia terreno e popolazione poco si prestano alla guerriglia”; cfr. Comando Raggruppamenti Bande Italia Centrale. Atti­vità delle bande. Settembre 1943-luglio 1944, Roma, Istituto Poligrafico dello Stato, 1945, p. 195.

Italia contemporanea”, settembre 1994, n. 196

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nel complesso immutati... Nelle città più grandi persiste l’atteggiamento di rifiuto e, in parte, di ostilità verso i tedeschi”3. A di­stanza di circa tre settimane il comando di Rommel, pur sostenendo che “l’attività del­le bande nell’Italia Settentrionale ha conti­nuato ad essere limitata” , rilevava che “sol­tanto nella zona di confine occidentale e nel­la zona appenninica ai due lati di Firenze so­no riconoscibili indizi sicuri della presenza di bande e degli sforzi in direzione di un’at­tività di bande organizzata”4. A questa rela­zione sono allegate le esperienze nella lotta alle bande maturate fino ad allora dal LI Gebirge Armee Korps. Nel quadro dell’ope­razione “Alarico” Rommel aveva affidato a questa grande unità il compito, poi solo par­zialmente riuscito, di impadronirsi del setto­re costiero tirrenico da Rapallo a Massa, con l’obbiettivo primario di occupare il por­to militare di La Spezia ed impedire l’uscita in mare delle unità della Marina militare ita­liana ivi alla fonda; nei turbinosi giorni che seguirono l’otto settembre la scarsa resisten­za incontrata e, soprattutto, la limitatezza delle forze a disposizione dell’HeeresGruppe B fecero sì che gli venisse affidato l’incarico di estendere il controllo del territorio fino oltre Livorno, di assicurarne la difesa contro i paventati sbarchi angloamericani e di av­viare i rilievi per la costruzione della fortifi­cazione appenninica — poi divenuta nota come Linea Gotica e quindi come Linea Verde — che, secondo gli orientamenti di Rommel, doveva costituire il primo bastione della difesa del territorio del Reich5. Nell’as- solvere tali compiti il LI Gebirge Armee Korps aveva dovuto registrare in data 24 set­

tembre un attentato effettuato in Lunigiana contro la linea ferroviaria6, di grande impor­tanza per i trasporti germanici, che, colle­gando la Spezia con Parma, mette in comu­nicazione la rete ferroviaria dell’Italia set­tentrionale con quella tirrenica ed il giorno successivo aveva ricevuto dall’HeeresGrup- pe B l’ordine di impegnare unità della su­bordinata 24 Panzer Division nella ricogni­zione del tratto appenninico da sud-est di Bologna a nord-ovest di Ancona, dove ave­vano fatto la loro apparizione le prime ban­de di ribelli7. Il LI Gebirge Armee Korps nel controllo del territorio assegnatogli era coa­diuvato per le questioni relative alla sicurez­za, oltre che dagli Uffici informazione dei comandi dipendenti, operanti nell’area di competenza delle loro unità, dalla Abwehr- trupp 371, il cui compito principale era l’in­dividuazione delle bande, nonché l’accerta­mento delle loro caratteristiche e dei collega- menti loro e dei gruppi di resistenza onde consentirne l’annientamento, che veniva af­fidato ad altri reparti della Wehrmacht o, là dove possibile, della milizia fascista, alla cui resurrezione nell’ambito territoriale di sua competenza l’Abwehrtrupp 371 dette, come vedremo, un valido contributo. Il reparto di sicurezza in questione, stando alla relazione che segue, risulta essere stato impiegato fin dall’inizio, come conferma un documento di poco successivo, “soprattutto nella zona della costa occidentale e nella parte ovest dell’Appennino per la sorveglianza delle bande e delle organizzazioni comuniste”8, ma, a partire dalla seconda metà di ottobre, anche nelle provincie di Siena e Arezzo.

Il documento che viene presentato nelle

3 HeeresGruppe B, Feindnachrichtenblatt n. 5, loc. cit.4 Feindnachrichtenblatt N. 6, 14 novembre 1943, in NAW, T311, bob. 276.5 Enzo Collotti, L ’amministrazione tedesca dell’Italia occupata 1943-1945, Milano, Lerici, 1963, p. 105.6 LI Gebirge Armee Korps, Kriegstagebuch 1, 24 settembre 1943 in NAW, T 314, bob. 1263.7 LI Gebirge Armee Korps, Kriegstagebuch 1, 25 settembre 1943, in NAW, T 314, bob. 1263.8 14 Armeeoberkommando, comunicazione dell’Ic/Ia LI Gebirge Armee Korps al 14 Armeeoberkommando, 18 di­cembre 1943, in NAW, T312, bob. 480.

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pagine seguenti è uno degli allegati alla “Re­lazione sull’attività svolta dall’ 1 al 31 otto­bre 1943” dall’Ic, cioè dall’Ufficio Informa­zioni del LI Gebirge Armee Korps9 e si tratta della prima relazione ad essere stata indivi­duata e probabilmente, stando alla data ed al contesto, della prima ad essere stata re­datta nella nuova zona di operazioni dall’u­nità in questione.

L’interesse del documento — risultato di un vantaggio i cui scopi erano la valutazione delle condizioni di sicurezza della zona, la raccolta di rapporti sulla situazione e l’ap­prontamento di una rete di informatori — risiede soprattutto nella ricchezza di notizie relative allo spirito ed all’ordine pubblico quale si era venuto determinando nel primo mese di occupazione nazista nelle provincie di Firenze, Pistoia, Lucca, Pisa e Livorno: notizie in parte fino ad oggi inedite o dimen­ticate.

Diviso in cinque capitoli, il documento si apre con la descrizione provincia per provin­cia della struttura informativa che l’Ab- wehrtrupp 371 era riuscita a costituire; strut­tura in cui, accanto a comandi e uffici ger­manici ed a pochi civili, compare un cospi­cuo numero di persone qualificate come ap­partenenti alla Milizia fascista o esponenti locali del Pfr, i quali vengono considerati come gli elementi più attendibili e disponibi­li ad attuare le direttive degli occupanti, ma di cui non è stato fino ad ora possibile accer­tare la continuità della collaborazione con la Wehrmacht nei mesi successivi. Seguono poi due capitoli dedicati alle notizie concernenti le prime formazioni partigiane e su coloro che avevano manifestato o manifestavano la

loro avversione verso i tedeschi e i fascisti, dai quali risulta una situazione assai fluida circa il diffuso aiuto prestato agli ex prigio­nieri angloamericani ed alle formazioni par­tigiane che andavano costituendosi in nume­rose località; situazione tutt’altro che conge­lata dalle minaccie e dalle repressioni nazifa- sciste che cominciavano a colpire con durez­za. A questo proposito è opportuno notare che la relazione conferma in alcuni casi la presenza in questo periodo di bande la cui esistenza era finora considerata con molta cautela per il fatto che essi si erano poi dis­solte senza seguito e senza storia per non es­ser riuscite a superare la crisi invernale o non aver saputo sottrarsi tempestivamente alla repressione degli occupanti. Devono es­sere, invece, oggetto di un accurato riscon­tro le ripetute affermazioni a proposito del­l’esistenza di collegamenti fra bande e allea­ti, al pari dei dati relativi alla consistenza delle singole bande — spesso evidentemente sovradimensionate10 — ed al ruolo di orga­nizzatori e comandanti di quest’ultime attri­buito ad ex prigionieri angloamericani e ad ufficiali, spesso superiori, dell’esercito ita­liano. Infatti allo stato attuale delle cono­scenze relative all’area ed al periodo in que­stione il ruolo sia dei primi che dei secondi appare decisamente eccessivo, come del re­sto si erano resi conto gli stessi comandi su­periori germanici. Ma questi due capitoli del rapporto confermano anche come l’ostilità al nazifascismo, malgrado le prime rappre­saglie di quest’ultimo, si manifestasse in ogni ceto sociale e sebbene in questa fase as­sumesse forme prevalentemente incruente essa segnava una precisa e decisa scelta di

9 LI Gebirge Armee Korps, Taetigkeitsberichte der Abt. Ic v. 1/31 ottobre 1943 mit Anlagen in NAW, T 314, bob. 1265 purtroppo la serie di allegati a questa relazione risulta lacunosa. Il documento di seguito riprodotto, tradotto dall’originale tedesco da chi scrive, comprende una cartina della zona, qui non pubblicata.10 II già ricordato Feindnachrichtenblatt n. 6 del 14 novembre 1943 osservava a questo proposito: “Le informazio­ni sulle bande provenienti dalla popolazione civile o dagli organi italiani si sono dimostrare per lo più esagerate o inesatte e possono essere valutate in parte come opera consapevole di sviamento”, Heeresgruppe B, Feindnachri­chtenblatt n. 6, in NAW, T 311, bob. 276.

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campo, che “dovette [...] esercitarsi fra una disobbedienza dai prezzi sempre più alti e le lusinghe della pur tetra normalizzazione fa­scista” e fu “una rivolta contro il potere del­l’uomo sull’uomo, una riaffermazione del­l’antico principio che il potere non deve averla vinta sulla virtù”11: dall’autista luc­chese Masetto, che si era fatto notare per il trasporto di viveri alle bande, al nobile pi­stoiese, che forniva ad alcuni ex prigionieri fuggiaschi la sua biancheria con tanto di co­rona marchionale, al colonnello livornese organizzatore, non molto esperto di clande­stinità, della lotta di liberazione nella zona è tutto un moltiplicarsi di iniziative che deter­mineranno le condizioni per raffermarsi della lotta di liberazione. Certamente il com­plesso quadro politico italiano e toscano di quei giorni doveva costituire un bel rompi­capo per i servizi di sicurezza come è attesta­to non solo dalla qualifica di “comunista” , attribuita sbrigativamente e frequentemente anche a quegli oppositori del nazifascismo che tali non erano, ma anche dalla inclusio­ne nel terzo capitolo — dedicato agli “Ele­menti antitedeschi e antifascisti” — degli ap­partenenti al Mgir (Movimento dei Giovani Italiani Repubblicani), movimento che trovò adepti fra i giovani fascisti soprattutto fio­rentini, parte dei quali finì poi per schierarsi con la Rsi e/o divenire agenti dei servizi di spionaggio tedeschi12; l’inclusione di questo movimento fra gli oppositori sembrerebbe doversi far risalire al fatto che essi, pur defi­niti “neu-Faschisten”, nel tentativo di dar nuovo credito al fascismo, puntavano ad emarginare i vecchi e ormai screditati gerar­chi locali, tentando anche, secondo l’esten­sore del rapporto, di porre in secondo piano la figura dello stesso Mussolini. Tentativo che, stando a quanto è detto nel quarto ca­

pitolo, trovava consensi anche negli ambien­ti italiani filotedeschi, di cui è riportato an­che il disagio per l’eccessivo spazio assunto dal Pfr nella struttura della Rsi fino al pun­to di sostituirsi, almeno in parte, anche al­l’esercito; tutti aspetti, questi, che, incideva­no negativamente sull’atteggiamento della maggior parte della popolazione, prostrata dalle privazioni indotte dalla guerra e pro­pensa, anche per formazione mentale, ad ac­cogliere le indicazioni della propaganda an­gloamericana.

Il quinto ed ultimo capitolo si rivela di particolare interesse poiché evidenzia non solo il comportamento arrogante e violento delle truppe naziste nei confronti della po­polazione italiana — comportamento che in taluni casi era istigato dagli stessi comandi inferiori della Wehrmacht o riceveva di fatto anche la copertura, almeno parziale, dei tri­bunali militari germanici chiamati a giudica­rci reati commessi — ma anche la natura dei rapporti intercorrenti fra i comandi tedeschi e le autorità politiche e amministrative della Rsi, cui si negavano mezzi e non si lesinava­no umiliazioni — la mancata restituzione della visita di cortesia al prefetto ed al fede­rale di Livorno da parte del comandante germanico della piazza o le lunghe attese cui dovevano sottostare il vicefederale ed il te­nente della milizia prima di aver un collo­quio con il comandante del presidio di Pi­stoia — pur pretendendo da essi efficienza e sollecitudine nell’esecuzione degli incarichi loro affidati; comportamenti che suscitava­no le decise critiche del capo dell’Abwehr- trupp 371, sonderfùhrer Gruenhagen, il quale metteva in rilievo il disagio che doveva serpeggiare fra gli esponenti salotini locali, portando ad esempio l’atteggiamento del fe­derale livornese, e sollecitava provvedimenti

11 Claudio Pavone, Una guerra civile: saggio storico sulla moralità nella Resistenza, Torino, Bollati Boringhieri, 1991, p. 25.12 Per maggiori notizie sul Mgir Cfr. Carlo Francovich, La Resistenza a Firenze, Firenze, La Nuova Italia, 1962, pp. 52-55 e Marcello Coppetti, La “fronda”fascista, Firenze, Il giornale di bordo, 1983.

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volti a favorire il potenziamento e la funzio­nalità della milizia fascista. In quale misura questi rilievi riuscissero nei mesi seguenti a modificare la situazione non è possibile sta­bilirlo allo stato attuale delle ricerche, certo è che la situazione tratteggiata nel rapporto in questione corrisponde in buona parte a quella allora esistente, come è dimostrato tra l’altro dalla corretta individuazione delle zone di “ribellismo”, che nella primavera successiva vedranno il sorgere o ospiteranno

Br. B. Nr. 2/43 G. Kdos17 ottobre 1943

Allegato: 1 schizzo d’insieme sulla situazione del­le bande

AH’Abwehrkommando 309 (1 e 2 copia)Al generale Kdo. LI Gebirge Armee Korps/ le (3 copia).Progetto (4 copia)

Rapporto sul viaggio di ricognizione nella zona Lucca-Pistoia-Prato-Firenze-Livorno-Pisa dal 9 al 15 ottobre 1943Scopo del viaggio: valutazione dello stato delle misure di sicurezza, stabilire relazioni, prepara­zione di una rete informativa.

I. Fonti di informazione

Nel seguente rapporto le fonti vengono indicate mediante cifra (es. Al, B3, ecc.).

A. Lucca1) il comandante del luogo, capitano Ludwig2) il Gruppe Geheime Feldpolizei 637 (L)3) tenente Camillo Cerboneschi, ufficiale del­l’Ufficio di informazioni politiche della Milizia4) caporale della Milizia Tommaso Stussi5) sottufficiale della Milizia Ezio Tirinanzi6) sottufficiale della Milizia Pellegrino Papera7) sottufficiale della Milizia Papini8) sottufficiale della Milizia Rosso9) sottufficiale della Milizia Palla10) signora Rosa Gennari, abitante a Marlia, S. Caterina (nata in Germania)

alcune delle più efficienti formazioni parti- giane toscane. Abbiamo ritenuto opportuno rendere noto il documento in questione poi­ché, ci pare, possa risultare utile alla com­prensione del processo che creò le condizioni indispensabili al profondo radicamento del­la guerriglia in una zona di grande impor­tanza per la Wehrmacht, inutilmente accani­tasi con le più dure e sanguinose forme di re­pressione.

Giovanni Verni

Valutazioni: A3 si è impegnato con notevole atti­vità nella collaborazione con gli ufficiali tedeschi. Le sue informazioni appaiono attendibili, poiché sono state ripetutamente confermate da parte te­desca. Egli dispone di una serie di informatori (quelli da A4-A9), i quali sono stati da lui avvici­nati per l’attuazione degli incarichi affidatigli. Con AIO si è progettato di stabilire un collega­mento. Essa ha ripetutamente fornito informa­zioni ad Al. Con A2 c’è stato un abboccamento sulla situazione. Sono stati accettati alcuni rap­porti non perfezionati.

B. Pistoia

1) il comandante della piazza, tenente colon­nello conte von Hardenberg2) tenente Siracusa, ufficiale dell’Ufficio di in­formazioni politiche della Milizia3) vicefederale Celli

Valutazioni: il collegamento con B2 e B3 è stato stabilito dalla ex le della 90 Panzergrenadiere Di­vision, colonnello Kristomanus, il quale ha colla­borato con essi per qualche tempo. B2 e B3 sono disponibili ed animati dalla migliore volontà di una positiva collaborazione. I loro rapporti ap­paiono attendibili.

C. Prato

1) commissario del fascio Gino Bresci, Casa del fascio, piazza Vittorio Emanuele, tei. 2314, 2315

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2) maggiore della Milizia Danilo Sanesi133) Eckberger, svizzero tedesco, proprietario di una ditta di spedizioni in Prato4) Milano-Alieto, Prato, via Calimaia, 3

Valutazioni: Cl e C2 finora non hanno collabo­rato con i servizi tedeschi e non sono ancora pro­vati. Con C3 è stabilito il collegamento. La sua possibilità di impiego viene esaminata. C4, il quale ha già portato dei rapporti, è previsto per l’istituzione dei collegamenti.

D. Firenze1) comandante militare, colonnello von Ku- nowski2) console generale dottor Wolf3) maggiore della Schtzpolizei Star4) capitano dei Servizi di Sicurezza Gòbel5) dottor Siebenhiiner, direttore facente fun­zioni dell’Istituto tedesco di storia dell’arte di Firenze6) generale della Milizia Marino, comandante della VII zona7) generale dei Carabinieri Calino8) Giuseppe Varrocchi, viale principessa Mar­gherita, 43, tei. 248859) Vanetti, capo del personale viaggiante della stazione fiorentina di Campo di Marte10) Giuseppe Lombardi11) Angiolo Bertini, via Aretina

Valutazioni: D3 e D4 hanno già collaborato stret­tamente con D6 e D7; D4 particolarmente con un certo capitano Carità14 della Milizia. La Milizia viene indicata come sicura. D7 viene indicato da D2 come persona fidata, però pare necessaria ri­servatezza. D8-D11 sono previsti come informa­tori.

È prevista l’installazione di una succursale a Firenze sotto il sottufficiale Spinner. Il sottuffi­

ciale Spinner è stato lasciato il 14 ottobre a Firen­ze ed ha già avviato il lavoro. Nei prossimi giorni dovrà essergli assegnato un assistente della Sicu­rezza ed una autovettura.

E. Livorno1) Comandante del luogo colonnello Zallmer- Derbe2) console Bauer3) federale Paglia4) il prefetto della provincia di Livorno

Valutazioni: E3 ed E4 i primi due giorni erano in servizio15. E4 era già attivo prima del 25 luglio come prefetto di Livorno. E3 è un fascista con­vinto e assai energico e volenteroso. I suoi rap­porti appaiono utili ed attendibili.

F. Pisa1) Comandante della città, maggiore Giinther2) De Angelis, segretario dei sindacati fascisti3) Pietro Conti, finora a Pisa, adesso a Via­reggio presso il fascio, attivo nel servizio segre­to del partito

Valutazione: con F2 non è stato possibile stabilire nessun rapporto, poiché egli per il momento si trova a Roma. Ugualmente non è stato possibile incontrare F3. Entrambi vengono qualificati da FI come buoni informatori. Prevista la istituzio­ne di rapporti.

II. Situazione delle bande(confronta schizzo allegato [qui non obbligato])

A. Lucca

Si delineano due zone di bande: 1) monti delle Pizzorne, fra Lucca, Bagni di Lucca e Pescia; 2)

13 Con molta probabilità si tratta di Duilio Sanesi, che rimase ferito gravemente in uno scontro con i partigiani, ve­rificatosi il 3 gennaio 1944 a Valibona, località fra Prato e Firenze, e deceduto dieci giorni dopo nell’ospedale di Prato a seguito delle ferite; cfr. Michele Di Sabato, La battaglia di Valibona, Prato, Comitato unitario per la dife­sa dell’ordine democratico del Comune di Prato, 1992.14 Mario Carità dopo l’8 settembre 1943 fu comandante di un reparto speciale, nominalmente dipendente dalla 92a legione della Mvsn nma di fatto dal comando del Servizio di sicurezza germanico di sede a Firenze; cfr. C. Franco- vich, La Resistenza a Firenze cit., in particolare p. 87.15 Alla data dell’otto settembre 1943 il prefetto di Livorno era Riccardo Ventura, che dal 16 agosto precedente ave­va sostituito Giannino Romualdi; quest’ultimo assunse nuovamente l’incarico di prefetto di Livorno in data primo

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la Garfagnana, cioè l’alta valle del Serchio, fra Piazza al Serchio e Barga. Le informazioni per ciascuna di queste aree sono state elencate in or­dine cronologico. Seguono alcune notizie sull’at­tività delle bande in altre zone.

1. Monti delle Pizzorne8 settembre. Matraia e S. Pancrazio (A3). In ognuna di queste due località lavoravano 50 pri­gionieri inglesi. Quando la truppa italiana di vigi­lanza si è squagliata dopo l’armistizio abbando­nando le proprie armi, i prigionieri sono fuggiti nei monti; essi pernottano nei casolari, vengono raccolti nei castagneti e da allora sono stati man­tenuti dai loro ex datori di lavoro.

8 settembre. Marlia (AIO). Nella villa reale erano occupati cinquanta prigionieri di guerra. Essi sono fuggiti alla proclamazione dell’armistizio e da allo­ra sono assistiti dall’amministratore della villa.

25 settembre. Pescia (A2). Nei monti a nord di questa località, presso Pietrabuona, una banda di italiani armati.

Inizi ottobre. Villa Basilica (Rapporto le d. 90. 1. Panzer Grenadiere Division). Presi prigionieri 2 inglesi e 1 disertore italiano.

Inizi ottobre. Boveglio (A3). Attraverso La Fo­ce presso Boveglio (vicino a Colorno e Ropracon- do [sic!]) sono arrivati badogliani e inglesi diretti verso Bagni di Lucca (dunque a nord).

15 ottobre. Boveglio (A3). Un negozio di ali­mentari di Boveglio con una macchina rifornisce le bande di viveri in scatola; guidatore della mac­china un certo Masetto, abitante in Lucca, piazza S. Michele.

15 ottobre. Casoli (A3). Le bande che si trova­vano sotto un capitano di aviazione fra Casoli e Bagni di Lucca si sono spostate verso i monti del­le Pizzorne, cioè a sud, per effetto dei movimenti di truppe tedesche (sulla strada S. Marcello-Ba- gni di Lucca).

15 ottobre. Matraia. Là due prigionieri di guer­ra inglesi si spacciano per evacuati francesi. Essi vengono preavvertiti telefonicamente dal mare­sciallo dei Carabinieri di Ponte a Moriano dei movimenti delle truppe tedesche. Questo rappor­to viene confermato da Valgiano.

Repressione. Finora solo sporadica (cfr. il rap­porto della 90 1. Panzer Grenadiere Division. Un progetto di azione del 23 settembre si trova fra gli atti di A2. Il piano prevede un attacco concentri­co da nord (Lugliano e Benabbio), da est (Villa Basilica, Pontore, Boveglio) e da sud ovest (Ma­traia). Inoltre in alcuni rapporti vengono indicate le persone da arrestare per il sostegno alle bande.

2. Zona della GarfagnanaQui abita molta gente di modesta estrazione, che ha fatto soldi con il commercio delle figurine di gesso in Inghilterra e in America; essa sostiene le bande con raccolte, con trasmissione di informa­zioni (per questo vengono usate anche auto priva­te) e generalmente in ogni maniera. Anche i cara­binieri di Barga e Gallicano sono attivi contro di noi (A3).

15 ottobre Gorfigliano (A3). Là si nascondono prigionieri di guerra inglesi.

15 ottobre Gallicano-Tiglio-Biaccioni (Al). Di­slocato là un maresciallo tedesco cammuffato da inglese. Notata attività di bande.

15 ottobre Piazza al Serchio (A3). Là molti pri­gionieri di guerra inglesi, che sono fuggiti.

15 ottobre Castelnuovo Garfagnana (A2). An­che là prigionieri di guerra inglesi fuggiti.

3. Varie25 settembre Abetone (A2). Le indagini, eseguite sulla già in precedenza segnalata attività delle bande colà, non hanno potuto individuare nessu­na attività da parte di quest’ultime.

15 ottobre Lunate (A3). In questo sobborgo di Lucca si dovrebbero nascondere dei prigionieri.

15 ottobre Faeta (A3). Là venticinque prigio­nieri di guerra inglesi sono nascosti presso conta­dini. Non è stato possibile finora rilevare la situa­zione di questo paese.

B. Pistoia

Due principali zone di bande: 1. a nord di Pi­stoia, nell’Appennino; 2. a sud di Pistoia, sul monte Albano. Nel territorio a nord sono state iniziate reazioni approntate dal capitano Kristo-

ottobre 1943, per designazione della Rsi. Dal contesto appare ipotesi attendibile che l’estensore della relazione si ri­ferisca ai Romualdi. Per le nome dei suddetti prefetti v. Mario Missori, Governi, alte cariche dello Stato, alti magi­strati e prefetti del regno d ’Italia, Roma, Ministro dei Beni Culturali e Ambientali, 1989, pp. 503-504.

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manus; egli ha voluto riferire direttamente sulla sua attività ed ha comunicato solo che là sarebbe­ro attivi paracadutisti inglesi e che un generale Aselli sarebbe l’organizzatore delle bande. Perciò si può riferire solo sul territorio a sud.

Monte AlbanoA quanto pare si trova nelle vicinanze di Case Nuove di Masiano dove c’era un campo di con­centramento per prigionieri di guerra. Da là e forse anche dal campo di concentramento di Al- topascio, anch’esso poco distante, dove di nove- mila prigionieri ne sono rimasti solo ottocento, i prigionieri sono fuggiti sul monte Albano. Da al­lora essi si spostano là intorno, in piccoli gruppi di sei sette uomini e vengono aiutati dalla popola­zione, come dai numerosi civili inglesi e america­ni là internati (B2).

14-16 settembre. Cecina, presso Larciano. Due inglesi alloggiati dal parroco, uno da Pietro Dami in via del Popolino (B2).

25 settembre. Casalguidi. Là accertati prigio­nieri inglesi. Aiutati dalla popolazione (B2).

25 settembre. Burlano e Bacchereto. Fra questi paesi e il S. Baronto prigionieri inglesi (B2).

6 ottobre. Cantagrillo. Là prigionieri inglesi aiutati dalla popolazione (C2).

C. Prato

Due principali zone di bande: 1. a nord-ovest di Prato, presso Montale; 2. a nord di Prato, lungo il tratto della ferrovia principale per Bologna.

Metà settembre. Montale. Nella casa colonica di Casa al Bosco, presso Montale, erano impiega­ti 10 prigionieri inglesi. Alla proclamazione del­l’armistizio essi sono fuggiti in una casa colonica isolata nei dintorni di Case Basse, precisamente Ponte di Luciaccio, non lontano da Montale. Es­si sono mantenuti dalla popolazione (C2 e A2 e C4).

11-13 ottobre. Prato. Nella notte dall’ 11 al 12 ottobre e nella notte dal 12 al 13 ottobre i soldati della milizia di Prato di guardia alla linea ferro­viaria principale Prato-Bologna sono stati fatti segno a colpi di arma da fuoco (C2).

13 ottobre. Vernio-Montecuccoli-Vaiano. Atti­vità di bande in questa zona, che si trova nel trat­to principale ricco di tunnel della linea ferroviaria principale Prato-Bologna (D7).

D. FirenzeBande soprattutto nella zona montagnosa a nord di Firenze e precisamente in prossimità di tutte le strade dei passi che portano ai monti e delle linee ferroviarie. Ma anche, oltre a ciò, bande a est, sud e ovest di Firenze. La maggior parte dei se­guenti rapporti sono senza data.

8 settembre. Firenze. Il giorno dell’armistizio una colonna di automezzi con apparecchiature (anche radio) e armi ha lasciato le caserme fio­rentine, seguendo la strada maestra per Bologna in direzione nord. Il materiale potrebbe essere adoperato per l’addestramento delle bande (D5).

25 settembre. Campi. (Fra Firenze e Prato, vi­cino all’aereoporto di Peretola, immediatamente a nord dell’autostrada Firenze-Viareggio). Là cir­ca cento militari italiani con armi, fuggiti, prove­nienti dalla caserma fiorentina del 127 reggimen­to di fanteria e dall’aereoporto militare di Pereto- la. È da supporre che questa banda si sia unita con la grossa banda situata su monte Morello (vedi sotto) a nord, vicinissimo a Campi (B2).

Fine settembre. Borgo S. Lorenzo (nella valle del Mugello, a nord di Firenze, non lontano dalla strada statale per Bologna). Là circa duecento soldati italiani fuggiti, la maggior parte armati (B2).

Senza data. Londa (30 km. da Firenze, situa­zione ancora non ben definita). La famiglia Pan- zani ha alloggiato un ufficiale inglese (D2).

27 settembre. Cerreto Guidi (a ovest di Firen­ze, a nord di Empoli). Banda, secondo quanto si dice, di oltre cento soldati italiani con armi, ap­poggiata dal segretario politico Torzini (B2).

Senza data. Impruneta (a sud di Firenze). Là si trova una banda (D9).

Inizi ottobre. Monte Busoni (presso S. Donato in Collina, a sud-est di Firenze). Là attività di bande (D5).

Inizi ottobre. Figline (nel Valdarno, a sud-est di Firenze, sulla linea ferroviaria Arezzo-Roma). Bande hanno estorto viveri ecc. alla tenuta della famiglia Brunetti, posta nelle vicinanze (D5).

Inizi ottobre. Monte Senario (fra Firenze e Borgo S. Lorenzo, a est della strada statale per Bologna). Là attività di bande. Forse collegata con la riferita attività di bande a Borgo S. Loren­zo? (vedi sopra) (D5).

13 ottobre. Monte Morello (a nord-ovest di Fi­renze, vicinissimo alla città). Presso Cercina e

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Pratolino una banda ben armata di soldati italia­ni fuggiti. I dati sulla consistenza oscillano tra i duecento e i tremila uomini. Comandante, a quanto si dice, il generale italiano Pozzolini. Pare che questa banda aspiri a unificarsi con la banda che si trova presso S. Crispino (vedi sotto). Il tre­dici ottobre la banda di monte Morello ha respin­to trenta soldati della milizia che muovevano da Pratolino contro di essa! In questa occasione essa ha usato delle mitragliatrici. Reazione in corso da parte di DI (DI, D2, D6, D7).

13 ottobre. Passo della Futa (sulla strada stata­le per Bologna). Là attività di bande (D7).

13 ottobre. Crispino-Fantino-Marradi (sulla ferrovia e la strada per Faenza). Là una banda italiana sotto la direzione di un ufficiale inglese; secondo quanto si dice, essa è rifornita quotidia­namente per via aerea e mantiene rapporti con la banda su monte Morello (D2).

13 ottobre. S. Benedetto in Alpi (sulla strada Firenze-Forlì, vicinissimo al passo del Muraglie­ne). Una banda ha attaccato con fucili e bombe a mano la locale caserma dei carabinieri ed ha so­praffatto la guarnigione (D7).

13 ottobre. Monte Falterona (un po’ a est della strada Firenze-Forlì, vicinissimo al passo del Mu­ragliene). Là si trova una banda attiva. Forse è la stessa precedente o con essa in collegamento (D7).

13 ottobre. Bibbiena-Camaldoli (nella valle del Casentino, a est-sud-est di Firenze). In questa zo­na attività di bande (D8). L’informatore si offre per indicare la strada che porta al nascondiglio della banda.

E. Livorno

Nella provincia di Livorno finora non è stata ac­certata attività di bande e anche non è probabile, poiché la provincia è pianeggiante, aperta e assai popolata. Della banda che inizialmente si diceva dovesse trovarsi nei monti sopra Cecina attual­mente non si hanno più notizie.

F. Pisa

Secondo i rapporti finora raccolti le bande si tro­vano solo sui monti Pisani, che sono posti a nord-est di Pisa, fra Pisa e Lucca. Si tratta pro­babilmente dei prigionieri inglesi fuggiti dal lager

di Altopascio, dove di novemila prigionieri ne so­no rimasti solo ottocento.

13 ottobre. Monti Pisani. In questi giorni è in corso un’azione contro la banda che si trova là (FI). Lo stesso giorno l’Ic di Viareggio, tenente Fahrenholz, ha veduto una gigantesca O, che le bande hanno incendiato nei boschi sul versante dei monti prospiciente il mare.

G. Deduzioni finaliNelle bande, che è stato possibile individuare nel­l’area oggetto del rapporto, si trovano riuniti pri­gionieri di guerra angloamericani fuggiti e soldati italiani disertori. Secondo il rapporto del capita­no Kristomanus, il compito assegnato a queste bande dall’esercito angloamericano d’invasione nel caso di una ritirata tedesca sugli Appennini è di far saltare strade e ponti e di ostacolare la riti­rata stessa. Come termine di un imminente sbar­co angloamericano in Toscana secondo le bande è ritenuta valida la fine di ottobre (circa il 30 ot­tobre), secondo i carabinieri della Garfagnana, a quanto pare, il 20 ottobre, secondo la popolazio­ne di Firenze il 28 ottobre.

Difficilmente i suddetti compiti saranno estesi a tutte le bande. Nell’area di Lucca, con ogni evi­denza, si tratta soltanto di un relativamente pic­colo numero di prigionieri di guerra angloameri­cani fuggiti, i quali vogliono evitare un arresto da parte nostra fino all’atteso sbarco angloamerica­no; ad essi sembrano essersi uniti anche alcuni soldati e ufficiali italiani disertori. Lo stesso vale per la banda sul monte Albano, nella zona di Pi­stoia, e per la banda presso Montale, nella zona di Prato. Le cose sembrano andare diversamente nell’area a nord di Pistoia e Prato e soprattutto nella zona a nord ed est di Firenze. Là le bande sono in maggior numero, dispongono di un buon armamento e di ufficiali comandanti (italiani o inglesi), sono in collegamento reciproco e, si sup­pone, anche con le truppe d’invasione angloa­mericane per attacchi contro le ferrovie, contro la milizia e contro i carabinieri. Esse sono appostate nelle immediate vicinanze delle poche strade e li­nee ferroviarie, che dalla Toscana vanno verso nord attraverso l’Appennino: sono dislocate sulla linea ferroviaria Firenze-Prato-Bologna, sulla strada Firenze-Bologna (passo della Futa), sulla linea ferroviaria e la strada Firenze-Faenza, sulla strada Firenze-Forlì (passo del Muraglione) e sul-

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la strada e linea ferroviaria Firenze-Arezzo. È da presupporre che vi siano bande anche sulla linea ferroviaria e sulla strada Pistoia-Bologna (passo di Porretta). Nella zona di Pisa il rapporto su un importante segnalazione — le bande hanno ap­piccato il fuoco sul versante verso il mare dei monti Pisani — induce a ritenere che queste ban­de siano collegate con l’esercito di invasione an­gloamericano, oppure che quantomeno cerchino questo collegamento.

III. Elementi antitedeschi e antifascisti

A. Zona intorno a Lucca

LuccaIl federale Morseo16, il quale era già in carica pri­ma del 25 luglio 1943, deve avere persone infide nella sua cerchia. Egli deve essere odiato dalla popolazione (A3).

I carabinieri di Lucca sabotano l’ordine di pre­sentazione alle armi per gli appartenenti all’ex esercito italiano, invitando quest’ultimi a presen­tarsi per il servizio con essi. Perciò la già numero­sa forza dei carabinieri sarebbe notevolmente ac­cresciuta (A3).

Viene riferita la vendita di contrabbando in Lucca di materiali di cuoio da parte delle fabbri­che e dei magazzini di cuoio (A3).

I carabinieri e la pubblica sicurezza di Lucca su richiesta di un comando tedesco di Viareggio (probabilmente il le della 371 Inf. Div.) hanno consegnato a questo un elenco di comunisti della città. Di conseguenza i comunisti devono essere stati messi in guardia dai predetti uffici italiani (A3).

Un dipendente della pizzicheria di Boveglio, Masetto, abitante a Lucca, piazza S. Michele, aiuta le bande (cfr. “Situazione delle bande”, p. 3 [quip. 551]) (A3).

II maggiore Bonelli, di Lucca, ed il maggiore Pesci, di Lucca (via Filunga) fanno propaganda sobillatrice tra l’altro a Barga. Essi vanno dicen­do che i tedeschi, nell’eventualità di una ritirata da Lucca, avrebbero minato tutta la città. Così, ad esempio, sotto l’acquedotto si troverebbero

cinquecento bombe. Inoltre che i tedeschi hanno bastonato della gente sulle strade e l’hanno cac­ciata dalle sue case (A3).

Bardocchi Alberto, via Molinetto 4, ufficio via S. Croce 62, fa propaganda antitedesca. Egli de­ve venire arrestato immediatamente per la sua pe­ricolosità (A3).

I due funzionari della Prefettura Pardini e Ragghianti si vantano entrambi di essersi sottratti al richiamo e affermano di conoscere la data del­lo sbarco inglese in Toscana.

MarliaL’amministratore della tenuta della Villa Reale in Marlia aiuta le bande (cfr. “Situazione delle ban­de”, p. 3 [qui p. 551]) (AIO).

Ponte a MorianoQuesto paese dovrebbe essere un nido di comuni­sti. Il maresciallo dei carabinieri del luogo aiuta le bande. Per controllare la sua lealtà gli si dovrebbe chiedere un elenco nominativo di comunisti che si trovano nella zona di sua competenza (A3). Cfr. anchep. 3 [quip. 551] (15 ottobreMatraia).

BoveglioIn Boveglio dovrebbe trovarsi una grande quanti­tà di casse dal contenuto ignoto, probabilmente da consegnare alle bande.

Bagni di LuccaI carabinieri là di presidio si rifiutano di procede­re alla repressione delle bande, dicendo che essi non hanno ricevuto nessun ordine in tal senso fi­no al 20 ottobre 1983. In questo paese dovrebbe essersi fermato un colonnello dei carabinieri col­laboratore delle bande. Egli deve aver già lavora­to a Livorno contro i tedeschi (E2).

GallicanoUna fabbrica si esplosivi di Gallicano (Sipe), che ha anche personale tedesco, sarebbe in procinto di licenziare i suoi operai e chiudere l’impresa (A4).

Valentini Italo di Gallicano, via S. Giovanni, pres­so la Casa del fascio, dovrebbe essere un dirigente comunista ed essere in collegamento con gli inglesi, ai quali dà notizie sulle truppe tedesche (A2).

Recte Michele Morsero, cfr. Mario Missori, Gerarchie e statuti del Pnf, Roma, Bonacci, 1986, pp. 117 e 245.16

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Fornaci di Bagno (recte di Barga, ndt)

I direttori delle locali fabbriche di munizioni e metalli leggeri hanno ridotto i loro operai (seimi­la) fino a duecento uomini e affermano che ciò è dovuto a disposizioni dei tedeschi. La maggior parte degli operai deve aver vagato per i monti oppure deve essersi unita alle bande (A4).

BargaAnalogamente una fabbrica di esplosivi di qui, che aveva anche personale tedesco, sarebbe in procinto di licenziare i suoi operai (A4).

Il maresciallo dei carabinieri di Barga, Merlini, ha esortato i locali carabinieri alla fuga e ha dato loro modo di predisporla. Questa deve essere già avvenuta, essendosi i carabinieri procurati abiti civili e trovate abitazioni private (A3).

Castelnuovo GarfagnanaUna maniera di lignite della società Orlando in questo paese ha licenziato tutti gli operai (quat­trocento uomini), i quali in massima parte si tro­vano ora sui monti (A4).

I carabinieri di stanza in questo paese lasciano indisturbati i prigionieri di guerra inglesi fuggiti e dicono loro che in verità i prigionieri non sono gli inglesi, ma gli stessi carabinieri.

B. Zona intorno a Pistoia

PistoiaNella fabbrica S. Giorgio si è costituita una “Commissione rossa”, i cui componenti sono co­nosciuti nominativamente (B2).

Da un treno occupato da trecento operai di­pendenti dalla fabbrica S. Giorgio l’otto ottobre 1943 sono stati sparati dei colpi sulla milizia fer­roviaria (B2).

Talini Adolfo aiuta i prigionieri (B2).Baldini, piazza d’Arme, e Marcello, via Erbosa

5, sono informati sul luogo dove si trovano le ar­mi portate via dall’ebreo Philippson (cfr. sotto Empoli). Le armi sarebbero state nascoste lungo la via Erbosa (B2).

L’ex caporalmaggiore Ventavoli aiuta le bande (B2).

Il tenente d’aviazione Gusmano17 aiuta le ban­de (B2).

Fagioli aiuterebbe le bande (B2).Fangoni aiuta ugualmente le bande (B2).Lottini Renato, proprietario del negozio di ar­

ticoli fotografici di via Curtatone e Montanara, e Maganelli, via Bengasi 19 o 21, aiutano ugual­mente le bande (B2).

Magrini Franco, corso Vittorio Emanuele 26, fa propaganda antitedesca. Egli soggiorna spesso in un piccolo albergo in Lizzano Pistoiese, nel co­mune di S. Marcello Pistoiese, presso suo zio Carradori Cesto (DIO).

LamporecchioIl soldato fuggiasco Pacini fa propaganda in Lamporecchio contro il richiamo nell’esercito ita­liano e nella milizia (B2).

I civili inglesi internati negli alberghi e nelle vil­le di Lamporecchio devono potersi muovere piut­tosto liberamente e indisturbati. Essi fanno pro­paganda e aiutano i prigionieri di guerra inglesi fuggiti (B2).

Un dottore polacco, che abita a Lamporecchio ma si ritiene debba essere di nascita siriana o gre­ca, proprietario di due negozi di radio a Firenze, aiuterebbe le bande. Egli possiede un lasciapassa­re tedesco (B2).

II podestà di Lamporecchio, un sostenitore di Badoglio, aiuta gli internati. Il 25 luglio 1943 egli ha tenuto un discorso su Badoglio dalla finestra del municipio.

Masiano - CasenuoveUn marchese C.E. aiuta i prigionieri inglesi fug­giti da là. Egli li rifornisce, tra l’altro, con bian­cheria che porta ancora la sua corona di marche­se (B2).

Cecina di Larciano

Dami Pietro, via del Popolino, svolge propagan­da antitedesca insieme a Andreini Ugo e Bandelli Vittorio (B2).

17 Recte Giuseppe Cusmano; per la sua attività sulla montagna pistoiese al momento dell’armistizio e nei mesi dell’autunno del 1943 mi sia consentito di rinviare a Giovanni Verni, La brigata “Bozzi”, Milano, La Pietra, 1975, pp. 40, 52, 57.

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Acerbi Ada aiuta prigionieri inglesi fuggiti (B2).

MarescaL’ostetrica locale fa propaganda comunista. Al­trettanto tre ebrei nella pensione “Cordella” (B2).

C. Prato

Lombardi Renato, via S. Fabiano 28, proprieta­rio di due fabbriche di tessuti, dovrebbe aver na­scosto con la sua amante Lina Bussotti Martini delle armi sotto delle balle di stoffa (DI). Frat­tanto il Lombardi, secondo le informazioni di Cl, si è trasferito, ma abita ancora a Prato. Ci seguirà la questione.

Le fabbriche di Prato e dintorni hanno avuto l’ordine di comunicare entro una data stabilita le loro giacenze al Manufakturen-Trust di Milano. I direttori di fabbrica di Biella nella zona di Prato dovevano far spedire la corrispondenza al riguar­do a Prato. Il direttore delle Poste di Prato, Al­fio Bonelli, si è rifiutato di spedire la posta e l’ha lasciata in giacenza fino ad oggi. Secondo l’opi­nione degli informatori si tratta di un evidente sa­botaggio per compromettere le consegne dei tes­suti (Cl). La questione è stata riferita al Servizio di Sicurezza di Firenze.

Nelle fabbriche di Prato hanno luogo raccolte in favore delle bande. In Prato si trova una stam­peria clandestina di volantini. L’informatore è sulle sue tracce (C2).

D. Zona intorno a Firenze

FirenzeD2 ha riferito il seguente fatto verificatosi in Fi­renze, che caratterizza il comportamento dei ca­rabinieri: il comandante dei carabinieri di Roma

aveva richiesto ai suoi sottoposti di prestar giura­mento al partito fascista repubblicano. In conse­guenza di ciò sono avvenuti scontri sanguinosi anche con truppe tedesche. La gran parte dei ca­rabinieri è stata arrestata e deportata. Mentre il treno con gli arrestati era in sosta alla stazione di Firenze, i carabinieri hanno gettato dal treno dei volantini coi quali invitavano i carabinieri posti di sentinella a lasciare il loro posto e a fuggire. Altrimenti sarebbe loro accaduto quanto ad essi. In conseguenza di ciò circa ottanta carabinieri so­no scomparsi da Firenze e probabilmente sono andati sui monti.

In occasione di un raduno della gioventù fasci­sta repubblicana il 12 ottobre 194318 in Firenze è avvenuto uno scontro fra i vecchi squadristi e i nuovi fascisti, poiché, a quanto si dice, questi evitavano di mettere in risalto il nome di Mussoli­ni al fine di guadagnare al partito fascista repub­blicano anche quella parte della popolazione, che biasimava Mussolini (D5).

Nella notte dal 13 al 14 ottobre 1943 si sono avute a Firenze piccole sparatorie, che potrebbe­ro esser messe in relazione all’avvenimento ripor­tato sopra. Nelle strade sono stati affissi ritratti di Mussolini.

L’attuale federale di Firenze, generale Onori19, dovrebbe essere stato proposto per l’incarico di comandante della milizia fiorentina. Egli viene indicato come una persona infida (D2).

Il prefetto di Firenze, Manganiello20, si è reso odioso alla popolazione di Firenze con una sel­vaggia opera di arresti. Egli ha fatto arrestare tutte le persone che in passato hanno ricoperto un ruolo secondario, anche se questo è avvenuto oltre trenta anni fa. Tra questi c’erano un genera­le ottantenne malato e la settantaseienne duches­sa di Spoleto, degente. Entrambi sono scagionati da ogni accusa da colui che ha fornito questa in­formazione (D2).

18 Cfr. Carlo Francovich, La Resistenza a Firenze cit., pp. 53-54 e Marcello Coppetti, La “fronda” fascista cit.,p. 20.19 Si tratta di Onorio Onori, uno dei primi aderenti al movimento fascista ed esponente di rilievo dell’ala intransi­gente del fascismo fiorentino. Alcune notizie sulla sua attività dopo l’otto settembre si trovano in Giuseppe Rossi, Romano Bilenchi, Firenze: settembre 1943, “La Resistenza in Toscana-Atti e studi dell’Istituto Storico della Resi­stenza in Toscana”, 1974, nn. 9-10, p. 14.20 Raffaele Manganiello era stato nominato dalla Rsi prefetto di Firenze in data 1° ottobre 1943, v. Mario Missori, Governi, alte cariche cit., p. 474; circa la sua attività come capo della provincia di Firenze V. Carlo Francovich, La Resistenza a Firenze” cit.

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L’officina Fiat (seimila uomini) e l’officina Galileo (duemila uomini) di Firenze sono in crisi; secondo quanto si dice, esse si accingono a licen­ziare i loro operai a causa della mancanza di ma­teriali. Da Milano vengono riferite situazioni analoghe (D4).

Presso la famiglia Roselli, via C. Nigra 2 o 4, si tengono riunioni sotto la direzione di un maggio­re italiano, che abita in via G. Mariani, 108 (D2).

Leati, figlio dell’avvocato Leati, è in relazione con il polacco di cui sopra si è parlato a Lampo­recchio.

Il droghiere Dei Gerardo, in piazza dei Cerchi 1, dovrebbe avere nascosta nel suo negozio una radio trasmittente, mediante la quale egli è in col- legamento con il nemico (DII).

Nel quartiere di S. Spirito dovrebbero effet­tuarsi raccolte in favore delle bande (D5).

EmpoliL’ebreo Dino Philipson21, dirigente comunista, abitante a villa Fibbiani presso Empoli, è stato il caporione del saccheggio effettuato a suo tempo nella caserma dell’83° reggimento di fanteria a Pistoia. È pronto un elenco delle sue malefatte. Il Philipson è fuggiasco. È ricercato (B2).

E. Livorno

Nella casa del colonnello Odero22, via di Monte­nero, villa Carina, Quattro Palle, devono esserci armi nascoste. Là hanno regolarmente luogo riu­nioni di dieci-dodici persone. Come accertato, es­si fanno propaganda antitedesca e si impegnano anche attivamente. Il fiduciario ha collocato un informatore presso di lui (E3).

Ardenza (sobborgo di Livorno)In Ardenza dovrebbero trovarsi dei comunisti. A suo tempo là fu sparato su soldati della 24 Pan­zer Grenadiere Division. Sono stati presi cento

ostaggi, però sono stati rimessi in libertà dopo al­cuni giorni passati senza nuovi avvenimenti (El).

PiombinoIn Piombino si trovano due fabbriche metallurgi­che, che lavorano il ferro dell’Elba. Là lavorano ottomila operai, che in prevalenza dovrebbero es­sere orientati verso il comuniSmo. Il fiduciario, già prima del 25 luglio 1943 aveva fra questi ope­rai delle persone di fiducia e vuole infiltrarne di nuovo qualche altra. Secondo quanto si dice i di­rettori farebbero chiudere le fabbriche per man­canza di carbone (E4).

Vedi aggiunta al paragrafo E, p. 19 [qui p. 560]23

IV. La situazione politica attuale in To­scana

La presente situazione del popolo italiano è ca­ratterizzata dalla straordinaria discordia politica interna. I vecchi squadristi fedeli a Mussolini si contrappongono ai neofascisti, i quali si allonta­nano da Mussolini poiché egli, a loro avviso, non è più idoneo a governare dopo gli avvenimenti del 25 luglio (si veda il già riportato incidente al­l’adunata della gioventù fascista repubblicana in Firenze). Mussolini ha perduto molti dei suoi ex sostenitori, poiché ha gettato il popolo in una du­ra guerra senza riconoscere sufficientemente la debolezza interna dell’Italia e si è lasciato ingan­nare dalla più ristretta cerchia del suo ambiente. Anche nei circoli italiani filotedeschi si sostiene che per dare nuovo impulso al movimento fasci­sta si dovrebbe far cadere Mussolini. Il nome di Graziani è considerato di gran lunga più presti­gioso e, a mo’ d’esempio, viene criticato che il ri­chiamo degli ex appartenenti all’esercito italiano, al fine di ricostruire un’armata italiana, non sia stato emanato a suo nome, bensì dalle autorità

21 Philipson, uno dei primi sostenitori dello squadrismo fiorentino, dopo le leggi razziali venne inviato al confino; dopo l ’armistizio fu sottosegretario di Stato per la presidenza del Consiglio dei ministri nel gabinetto Badoglio a partire dal 1° febbraio 1944; v. Renzo Cantagalli, Storia del fascismo fiorentino 1919-1925, Firenze, Vallecchi, 1972; Id., Cronache fiorentine del ventennio fascista, Roma, Cadmo, 1981, p. 260; Mario Missori, Governi, alte cariche cit., p. 174.22 Recte tenente colonnello Domenico Odeilo, attivo nell’organizzazione antifascista livornese già durante il perio­do del governo Badoglio, cfr. Ivano Tognarini, Là dove impera il ribellismo, Napoli, Esi, 1988, 2 voli.23 II riferimento è all’ultima pagina del testo originale paragrafo “Aggiunte al capitolo III” .

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locali (a Pistoia, per esempio, la chiamata in que­stione è stata firmata dal prefetto di Pistoia e dal comandante tedesco della piazza).

Nei circoli monarchici si contano particolar­mente i carabinieri, i quali si sentono ancora pro­fondamente legati al loro giuramento al re e lo considerano ancora adesso non responsabile degli avvenimenti del 25 luglio. I rapporti al riguardo riportati nel capitolo terzo illustrano a sufficien­za il contrastante comportamento dei carabinieri. Altrettanto contrastante è il giudizio che si dà di loro da parte italiana e tedesca. Il console genera­le di Firenze ha dichiarato che essi sono ancora gli unici elementi efficienti per l’ordine italiano, di cui è assolutamente necessaria la conservazio­ne. Le Kommandanturen di Firenze e di Lucca, come il Servizio e la polizia di sicurezza talvolta collaborano con essi. Il prefetto di Livorno ha una buona opinione dei carabinieri; il federale di Livorno, anch’egli un vecchio fascista, chiede quando verranno disarmati i carabinieri. I fasci­sti e la milizia di Lucca Pistoia e Prato mettono nel modo più assoluto in guardia dai carabinieri, i quali fanno il doppio gioco politico e difatti di casi del genere vi sono sicure testimonianze, par­ticolarmente nella zona di Lucca.

D’altra parte i sostenitori di Badoglio non sem­pre appoggiano nello stesso tempo il re. Il recente comportamento del conte Sforza ha confuso an­cora di più la situazione. La via d’uscita più radi­cale da questa situazione è stata presa dal batta­glione paracadutisti “Nembo”, che è stato ripor­tato sulla terraferma dalla Sardegna con la 90 1 Panzer Grenadiere Division e che non ha ricono­sciuto nessun governo italiano, ma ha prestato giuramento al Führer e combatte per un’Europa sotto la direzione tedesca. Il pericolo di una dif­fusione del comuniSmo è provocato dagli operai dell’industria licenziati e disoccupati, i quali di­

vengono facile preda della propaganda comuni­sta a causa dell’inadeguata assistenza ai disoccu­pati. Sarebbe necessario inviare celermente a la­vorare in Germania tutta questa componente, se non sarà possibile darle lavoro in Italia.

I circoli ecclesiastici si comportano con riserva­tezza a prescindere da alcuni episodi di aiuto a fuggiaschi inglesi da parte di ecclesiastici. Il car­dinale arcivescovo di Firenze, Della Costa24, è considerato dal console generale Wolf25 come persona di sicura affidabilità.

La comunità russa in Firenze, della forza di circa trecento persone, sotto la guida del principe Kousak si comporta altrettanto tranquillamente. Si tratta esclusivamente di emigrati antibolscevi­chi. Non è stato possibile trovare tracce di Nd so­vietico.

La generale aspirazione del popolo italiano alla pace lo sospinge verso quella propaganda che gli promette questa pace. Su questo aspetto gioca la propaganda nemica. Essa si accorda alla situazio­ne e alla mentalità italiana, orientata alla resi­stenza passiva: nessun aiuto ai tedeschi, riduzio­ne della produzione ecc. Nell’area finora control­lata non si sono verificati veri e propri atti di sa­botaggio, fino alle due esplosioni al tunnel a nord di Prato, sebbene, ad esempio, la sorveglianza della stazione sia assai insufficiente. Casi più lievi di scomparsa di armi e furti di benzina e altro vengono riferiti, ad esempio, da Firenze. Le ban­de italiane sono più il risultato delle confuse con­dizioni italiane, che il prodotto di un pianificato sostegno del nemico e di una collaborazione coordinata della quale, comunque, cominciano a profilarsi gli inizi.

È fuori dubbio dunque che nelle mani di un ca­po attivo la formazione delle bande possa diveni­re un crescente pericolo per la sicurezza delle truppe tedesche e ciò potrebbe essere confermato

24 Si tratta del Cardinale Elia Dalla Costa, sulla cui attività nel periodo in questione si vedano: Carlo Francovich, La Resistenza a Firenze, cit.; Bruna Bocchini Camaiani, Il cardinale Dalla Costa, in Francesco Margiotta Broglio (a cura di) La Chiesa del Concordato, Bologna, Il Mulino, 1977; Id., Ricostruzione concordataria e processi di se­colarizzazione. L ’azione pastorale di Elia Dalla Costa, Bologna, Il Mulino, 1983; Id., Per un profilo storico del cardinale Elia Dalla Costa, in II clero toscano nella Resistenza, Firenze, La Nuova Europa, 1975; Giulio Villani, Il Vescovo Elia Dalla Costa. Per una storia da fare, Firenze, Vallecchi, 1974.25 L’estensore della relazione si riferisce a Gerhardt Wolf, console germanico a Firenze, che cercò di contemperare i suoi doveri d’ufficio con l’amore per la città; su di lui e la sua attività nel 1943-1944 si veda quanto scrivono Carlo Francovich, La Resistenza a Firenze, cit., e, in chiave apologetica, David Tutaev, Il console di Firenze, Torino, Aeda, 1972.

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Toscana autunno 1943 559

anche dalla situazione delle bande descritta nel II capitolo.

V. Le relazioni delle truppe tedesche con la popolazione italiana, particolarmente in vi­sta dell’impiego degli ambienti disposti alla collaborazione

Data la caotica situazione italiana, è solo con molta difficoltà che il rapporto delle truppe tede­sche con la popolazione italiana può seguire una linea chiara e inequivocabile. Per poter attirare a sé gli elementi attivi, disposti alla collaborazione, gli uffici tedeschi devono trattare questi articoli in modo abile e corrispondente al carattere del popolo.

Gli elementi relativamente più sicuri si trovano nelle fila dei fascisti convinti e degli appartenenti alla milizia. Essi devono venire portati alla colla­borazione nella maniera opportuna. Il personale della milizia e del fascio, con il quale si è preso contatto, si è mostrato sempre lieto di agire, ma finora non è stato impiegato. Non si deve rinun­ciare alla sua collaborazione per le sue specifiche conoscenze locali, particolarmente per il ridotto margine di fiducia su cui per il momento poggia in Italia la causa tedesca. Per un’efficace collabo- razione con questi italiani pronti all’azione sono però necessarie tre cose:

1) Si deve loro lasciare una sicura libertà di movimento e di autorità. Non appare ammissibi­le che il federale di Livorno, il quale è un fascista entusiasta, non disponga di una macchina per re­carsi nella provincia da lui dipendente. La milizia né a Pistoia, né a Lucca ha avuto a disposizione un automezzo, sebbene abbia dato prova di esse­re pronta a collaborare. Con un automezzo essi possono lavorare diversamente e con pieno suc­cesso. Questa richiesta è stata presentata alle ri­spettive Kommandanturen. Agli appartenenti alla milizia di Lucca (A3-A9) sono stati rilasciati dei documenti a tempo limitato, che li sollevano dal- l’obbligo del servizio e danno loro la possibilità di circolare liberamente in abito civile per le stra­de di Lucca e dintorni.

Un ulteriore problema è la forza o meglio la debolezza numerica della milizia. Il generale della milizia Marino dispone solo di trenta uomini in Firenze. Marino propone di selezionare dalle file dei soldati della milizia fiorentini dislocati dalle

Ss a Imola gli elementi sicuri e di riportarli a Fi­renze. Questi soldati a suo tempo erano stati fatti prigionieri in Corsica, poiché alcune unità italia­ne si erano mosse contro quelle tedesche. Anche a Pistoia e Lucca dovrebbero essere mandati in numero sufficiente soldati della milizia addestra­ti, ai quali affidare da parte tedesca i compiti che devono essere assolti. Anche la questione dell’ar­mamento dei soldati della milizia può venire rapi­damente chiarito e coerentemente risolto; in alcu­ne città, ad esempio Lucca, essi sono disarmati.

2) Per una prevedibile collaborazione tedesca con gli italiani, è necessario tener conto della loro mentalità. Così il prefetto e il federale di Livorno attendono che il comandante della città renda lo­ro la visita, dopo che essi gli avevano fatto una visita di presentazione. Neanche corrisponde alla dignità di un altro funzionario politico, quale il federale di Livorno, il dover svolgere la sua atti­vità ed effettuare le sua visite a piedi. È altrettan­to insostenibile che il tenente della milizia e il vi­cefederale di Pistoia per ogni contatto, che essi hanno nell’interesse della causa tedesca, con il comando della piazza debbano attendere per ore e ore. Qui deve essere trovato un altro sistema.

3) Ma prima di tutto è necessario che le truppe tedesche in Italia non si presentino come un eser­cito di occupazione fino a quando da parte tede­sca viene riconosciuto un governo italiano.

A questo proposito purtroppo diversi rapporti riferiscono di eccessi e violenze compiuti da sol­dati tedeschi, i quali inaspriscono la popolazione e contro i quali non è si è sempre proceduto con sufficiente energia. Anche se è comprensibile che lo stato d’animo dei soldati tedeschi nei confronti degli italiani non è sempre il migliore, a questo atteggiamento devono essere anteposti gli interes­si superiori.

Dai carabinieri di Firenze vengono riferiti ec­cessi di soldati tedeschi a Pelago e Tosi, presso Vallombrosa. Là essi hanno preso ottocentocin- quanta fucili e sono penetrati in abitazioni priva­te. A S. Leonardo Treponzio, presso Lucca, due soldati tedeschi hanno minacciato la gente per la strada ed hanno portato via le loro cose (rappor­to di A3).

Inoltre il federale di Livorno ha riferito, tra l’altro, che soldati tedeschi hanno requisito da un hotel venti materassi e li hanno venduti per stra­da a prezzi da usuaraio. La stessa cosa è avvenu­ta con sigarette che erano state rubate, le quali

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sono state vendute a cinquanta lire il pacchetto. Sono numerosi i civili investiti dai motociclisti e le motociclette portate via (in altre città sono sta­te requisite tutte le motociclette, anche a persone che dimostravano che queste occorrevano loro per recarsi al lavoro). A un vecchio fascista e amico dei tedeschi di Livorno è stato portato via sulla strada il suo camion da un ufficiale tedesco, senza che egli ricevesse anche soltanto una rice­vuta.

Il comandante della città di Pisa ha riferito un episodio analogo. Dei soldati sorpresi sulla stra­da a vendere sigarette hanno dichiarato di aver agito per ordine del comandante del loro reparto, poiché occorreva denaro per l’acquisto di mate­riale d’ufficio. Sulla strada sarebbero stati ferma­ti e derubati camions di ortaggi, requisite motoci­clette ecc.

Analogamente dal comandante della città di Pisa, maggiore Giinther, è stato riferito il seguen­te grave episodio: dei soldati della contraerea, ubriachi, una sera sono penetrati in una abitazio­ne italiana dopo aver forzato la porta. Uno di es­si ha sospinto una donna, che si trovava nella ca­sa, contro una parete e ha tentato di violentarla. I familiari maschi presenti sono intervenuti per difenderla. Nel corso della colluttazione uno dei soldati è stato ferito con una coltellata ad una spalla.

Gli italiani hanno denunciato l’accaduto. Nella conseguente udienza del tribunale di guerra i sol­dati sono stati condannati solo a sei settimane di arresti di rigore per violenza e gravi molestie. La violazione di domicilio e il tentativo di stupro so­no rimasti impuniti. Con questo il presidente del tribunale di guerra, venuto da Firenze, ha sanzio­

nato che adesso i soldati tedeschi devono solo stabilire in quale abitazione italiana essi vogliano entrare.

Un simile atteggiamento è insopportabile e ci toglie il terreno sotto i piedi. Che questo atteggia­mento possa portare cattive conseguenze lo di­mostra l’affermazione del federale di Livorno, il quale ha dichiarato che talvolta ha avuto l’im­pressione che i soldati tedeschi si considerino truppe d’occupazione. Se egli avesse questa cer­tezza, deporrebbe immediatamente il suo incarico e non collaborerebbe più in nessuna maniera con noi.

Aggiunte al capitolo III:

ap. 11 [quip. 555]Castelnuovo GarfagnanaIn questo paese da alcuni giorni vengono segnate con una croce milleottocento casse portate sulla strada, di cui si ignora il contenuto. Da là esse vengono caricate su un automezzo da alcuni civili. Il fiduciario riceverà entro alcuni giorni informa­zioni più precise su questa questione (A4).

a p. 14 [qui p. 556]D. Zona intorno a FirenzeCerreto Guidi (a ovest di Firenze, a nord di Em­poli). Il segretario politico Torrini aiuta le bande (cfr. “Situazione delle bande”, p. 6 [qui p. 556]) (B2).Londa (30 Km a nord di Firenze). La famiglia Panzani ha ospitato un ufficiale inglese (cfr. “Si­tuazione delle bande”, p. 6 [qui p. 552]) (D2).

Gruenhagen

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“Centro” e “periferia”Un rapporto da ricostruire

Roberto Botta

I l d ib a ttito sugli Is titu ti della R esistenza

Il dibattito sulle prospettive future degli Istituti storici della Resistenza si è arricchi­to di un nuovo, inquietante interrogativo: esiste un “futuro” per gli Istituti? Sopravvi­verà la rete nel suo complesso alla prossima scadenza del Cinquantesimo? È inutile na­scondercelo, la sensazione di una assenza di futuro ha trovato spazio da qualche tempo tra gli operatori degli Istituti, è richieggiata, tra il serio e il faceto, in discussioni ufficia­li o semiufficiali, ha fatto capolino anche nei primi interventi di questo dibattito. Vorrei essere più drastico di Stefano Maga- gnoli (cfr. Dagli Istituti “militanti” agli Isti­tuti “scientifici”, “Italia contemporanea”, n. 195, giugno 1994), e dire esplicitamente che questo modo di affrontare la discussio­ne a me pare davvero “un’impropria tra­sposizione di termini dello scontro politico nelle questioni degli Istituti”, la spia di una tendenza da respingere con decisione. Non perché non veda le difficoltà aggiuntive per il nostro futuro inscritte nel deterioramento del quadro politico (ma non siamo forse abituati ad operare tra mille difficoltà fi­nanziarie e financo di spazi fisici?), e ancor più neirimpoverimento del senso comune collettivo e nella facilità con cui gli italiani — non tutti, fortunatamente — sembrano disposti a dismettere la memoria del pro­prio passato, ma perché temo che, se per ventura il nostro dibattito finirà con il farsi condizionare dalle preoccupazioni e dal di­sagio politico comune a molti di noi, non

potrà evitare di arenarsi su secche perico­lose.

Il tema dell’intreccio tra impegno politico e ricerca scientifica ha sempre costituito, nel bene e nel male, uno dei cardini centrali del­l’attività e della filosofia stessa degli Istituti, e non è per nulla casuale se Luca Baldissara (Gli Istituti della Resistenza e la ‘fine del do­poguerra’. Contributo al dibattito, “Italia contemporanea”, n. 194, marzo 1994) e do­po di lui Stefano Battilossi (Oltre la norma­lizzazione. Per una storiografia critica (e un nuovo senso comune democratico), “Italia contemporanea”, n. 195, giugno 1994) e Magagnoli hanno insistito con forza su que­sto punto, sottolineando la necessità di con­tinuare a operare ispirandosi a questo nesso, e anzi rafforzandolo. Difficile non condivi­dere le considerazioni sull’impulso propulsi­vo che l’intrecio tra ispirazione etica e lavo­ro scientifico ha saputo dare all’attività della rete degli Istituti, e tuttavia anche in tempi recenti l’impegno storiografico non di rado è stato inteso e praticato come se fosse un prolungamento dell’impegno politico anzi­ché come tentativo di offrire strumenti critici e problematici alla sfera della politica. Vizio antico, il quale, per dirla con le “Annales”, rimanda a strutture mentali profonde e radi­cate nella storia e negli uomini degli Istituti, e destinato perciò a condizionare inevitabil­mente le forme e la sostanza di queste nostre riflessioni. La corretta declinazione del bino­mio impegno storiografico-impegno politico

‘Italia contemporanea”, settembre 1994, n. 196

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resta dunque un nodo ancora in gran parte irrisolto della nostra storia; un prerequisito indispensabile per riflettere su noi stessi con qualche produttività risiede dunque nella ca­pacità di emanciparci da uno schema di pen­siero ormai incapace di offrire soluzioni per il futuro: dobbiamo riuscire, collettivamen­te, a superare una impostazione mentale da cui ancora stentiamo a liberarci — forse a parole, ma non sempre nei fatti — e speri­mentare percorsi nuovi dell’intreccio tra la­voro scientifico e engagement.

Chi mi ha preceduto ha dedicato molte e condivisibili pagine alla riflessione sul lega­me tra il nostro dibattito e lo stato della con- temporaneistica in Italia ed una rivisitazione della quarantennale storia della federazione degli Istituti, indicandone alcune scansioni (in particolare la successione delle “genera­zioni” di ricercatori e dei temi e metodi di ri­cerca) assai utili per comprendere la nostra realtà attuale e le sue radici. Qui non vorrei spendere molte altre parole sull’argomento, se non per sottoscriverne il senso: in questa direzione deve senz’altro orientarsi la nostra discussione, non solo per analizzare le ragio­ni di una crisi di orientamenti che sembra in­vestire l’intero settore della contemporanei- stica, o per rileggere con rigore critico il ruo­lo giocato dagli Istituti nel dibattito storio­grafico di questi decenni, ma soprattutto per misurare quale posto, in termini di autore­volezza e di visibilità, gli Istituti possono ri­vendicare nel rinnovamento della contempo- raneistica italiana. Sotto questo aspetto il bi­lancio per noi è alquanto deficitario, com­plice anche quel riduttivo modo di intendere il rapporto tra ricerca e impegno politico cui ho già accennato: spesso il volontarismo e la militanza — doti generose ma non sempre destinate a passare all’incasso — hanno pre­valso sulla ricerca di riconoscimenti istitu­zionale e, appunto, sulla conquista di un vi­sibilità per il nostro lavoro. Penso ad esem­pio al rapporto con l’Università, caratteriz­zato sempre più spesso, e non credo di sba­

gliare nonostante la perifericità del mio pun­to di osservazione, da una sorta di scambio ineguale. Molto abbiamo dato all’Università organizzando seminari, caricandoci di com­piti di supplenza, stimolando gli stessi orien­tamenti didattici e di ricerca, ospitando e “allevando” ricercatori, e poco abbiamo ri­cevuto in termini di riconoscimento scienti­fico e istituzionale. Alla mole di lavoro non ha spesso corrisposto un adeguato riconosci­mento: ed è questo proprio uno dei terreni su cui si misura concretamente la necessità di ritessere il nostro rapporto con le istitu­zioni culturali, con il mondo della scuola e con la politica.

Tuttavia, questo mi pare solo uno degli orizzonti della discussione: altrettanta atten­zione occorre destinare a un aspetto rimasto sinora un po’ in ombra nei primi interventi di questa discussione, e cioè il terreno, per dirla ancora una volta in termini “militan­ti”, del che fare. O meglio, di come dare maggiore autorevolezza e visibilità al nostro fare. Perché quanto è avvenuto nel rapporto con l’Università è a ben guardare uno sche­ma ricorrente della nostra attività: molto la­voro ma pochi — od effimeri — riconosci­menti. Una situazione che impone una mag­giore incisività nel ripensare le modalità stes­se della nostra presenza nel panorama della contemporaniestica italiana.

Volendo esemplificare, il banco di prova è imminentissimo. Nel prossimo autunno si svolgerà il seminario sugli archivi sonori, a coronamento di quell’impegno sul terreno della ricerca e della raccolta di fonti orali al quale moltissimi Istituti hanno dedicato tan­te energie in lunghi anni, e di cui fornisce una efficace sintesi un’articolo di Franco Castelli {Dal censimento alla conservazione attiva. Problemi e prospettive degli archivi sonori, “Quaderno di storia contempora­nea”, n. 14, 1993). Quella scadenza io la im­magino non solo come l’occasione per fare il punto sul nostro lavoro di ricerca e di rac­colta delle testimonianze e sul nostro patri­

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monio archivistico, o per confrontare le no­stre con altre esperienze, ma anche come la sede in cui porre con forza il tema di una de­finizione giuridica degli archivi di fonti ora­li, provando a proporre la questione della conservazione oltre l’orizzonte del volonta­riato o della rassegnata convinzione che nul­la sul piano istituzionale potrà mutare. In­somnia, si tratta di passare dal giusto orgo­glio di essere stati tra i pionieri della storia orale italiana, alla volontà di diventare il soggetto capace di porre con forza il tema della conservazione sollecitando soprinten­denze archivistiche, amministrazioni regio­nali e locali, ministero dei Beni Culturali ad un dibattito serrato e ad una efficace opera­tività. Il seminario sugli archivi sonori dovrà allora diventare la sede in cui porre il pro­blema di una legislazione adeguata, che sap­pia ridisegnare i compiti degli Archivi di Stato in relazione alle nuove fonti per la sto­ria contemporanea ma anche riconoscere agli Istituiti lo stato di istituzioni che rappre­sentano, nel loro complesso, il maggior cen­tro archivistico italiano di storia orale. In termini generali, si tratta di declinare con un atto concreto la produttività dell’intreccio impegno scientifico-impegno civile che ci ca­ratterizza.

La riflessione sulla nostra capacità di la­voro — e di sopravvivenza — per il futuro deve obbligatoriamente assumere questo orizzonte, l’unico in grado di valorizzare pienamente le peculiarità della rete. Il tratto più caratteristico dell’esperienza degli Istitu­ti storici della Resistenza credo debba essere individuato nella sua capillare presenza sul territorio, che ha contribuito a rendere me­no drammatica la nostra situazione in un quadro di difficoltà al quale nulla sembra riuscire a sottrarsi. In effetti la tendenza a guardare con grande pessimismo al futuro trova buoni argomenti nella crisi generaliz­zata degli enti e delle istituzioni storico-cul­turali. La Fondazione Feltrinelli, l’Istituto Gramsci, il De Martino, ossia tutte quelle

istituzioni culturali nate e vissute all’incro­cio tra ricerca e impegno politico, versano in situazioni difficili e spesso drammatiche. Se i nostri Istituti stanno (relativamente) me­glio ciò è dovuto proprio alla loro diffusa territorialità, che ha permesso di accedere a fonti diversificate di finanziamento, ma so­prattutto di articolare meglio il dibattito, la ricerca e le iniziative pubbliche, e ha consen­tito di rispondere con efficacia alla doman­da di storia che continua ad arrivarci, so­prattutto dal mondo della scuola. Su questa nostra peculiarità converrà dunque conti­nuare a puntare molto, naturalmente dopo aver saputo compiere un lavoro critico, che per alcuni aspetti dovrà essere anche impie­toso, sull’esperienza complessiva degli Isti­tuti. La loro proliferazione negli anni più re­centi non ha infatti contribuito a un mag­gior coordinamento, sia nelle attività di ri­cerca che nella prassi istitutizionale, nono­stante gli auspici di quanti vedevano in un aumentato peso della “periferia” l’antidoto contro una tendenza alla sclerotizzazione. Anzi, alle volte sono prevalse le ragioni par­ticolari e la refrattarietà ad ogni forma di coordinamento programmatico (la vicenda dell’ultimo numero del bollettino di “Noti­zie e documenti” , rinviato per assoluta man­canza di contributi da parte degli Istituti, è un indizio piccolo ma significativo di questa situazione). La presenza radicata sul territo­rio contiene quindi in sé i germi di una pos­sibile crescita ma anche del suo contrario. È dunque necessario, naturalmente salvaguar­dando le sacrosante autonomie, recuperare una capacità di coordinamento che non può essere lasciata solo alla buona volontà o agli interessi del momento dei singoli Istituti.

Il tema del coordinamento si pone sia sul terreno della ricerca, sia su quello delle strutture. Per quanto riguarda le strutture, la risorsa fondamentale resta il nostro patri­monio archivistico. Dieci anni or sono, pre­sentando la seconda edizione della Guida agli archivi della Resistenza (corposo aggior­

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namento dell’edizione 1974), Guido Quazza sottolineava con giusto orgoglio l’importan­za di un patrimonio costituito da “tre milio­ni di documenti e oltre 550 fondi” senza “eguali, in Italia, al di fuori degli Archivi di Stato”. A dieci anni da quella importante iniziativa la situazione è decisamente cam­biata. La Guida del 1985 era ancora intera­mente dedicata al patrimonio archivistico resistenziale, mentre nel giro di dieci anni gli archivi degli Istituti si sono arricchiti per consistenza ma soprattutto per gli assi tem­porali e tematici dei fondi conservati. I no­stri archivi, restando centrale la documenta­zione resistenziale e ciellenistica, spaziano ormai ben dentro gli anni della costituzione dell’Italia repubblicana, ospitando archivi sindacali e di partiti politici, fondi personali, archivi sonori e audiovisivi. Essi sono quindi diventati lo specchio dell’attività e delle pro­spettive di lavoro degli Istituti, la prova tan­gibile della loro « nuova » fisionomia di veri e propri Istituti di storia contemporanea, forse i primi a poter vantare un consistente ed accessibile patrimonio archivistico sulla storia politica e sociale dell’Italia repubbli­cana, intrecciando fondi pubblici e privati, documentazione cartacea e fonti sonore, fo­tografiche e visive.

Credo perciò sia giunto il tempo di porre il problema di una nuova guida che sappia dare ragione, partendo proprio dalla descri­zione del patrimonio archivistico, della nuo­va prospettiva di lavoro degli Istituti. Si tratta dunque non solo di rivendicare una nuova edizione resa imprescindibile dalla di­latazione degli interessi della federazione della rete, ma di mettere in luce, attraverso la presentazione dei nostri archivi, la nuova veste assunta dalla rete: non solo qualcosa di molto diverso dalla consorteria veterore- sistenziale, ma anche di assai lontano dalla catena di Istituti votati in sempiterno allo studio settoriale e cronologicamente limitato di un periodo e di un problema storiografi- co. Al contrario, Istituti di storia contempo­

ranea a pieno titolo, come la stessa strumen­tazione archivistica acquisita (e quasi sem­pre sottratta alla distruzione, colpevole o gioiosamente irresponsabile) è in grado di mostrare. Anche in questo caso occorre co­niugare la necessità imposta dalla nuova si­tuazione con l’esigenza di acquistare visibili­tà: il problema deve dunque essere posto al ministero dei Beni culturali, in primo luogo, che già aveva promosso la riedizione della precedente guida, e poi alle Sovraintendenze archivistiche. Sottolineando contempora­neamente anche il problema della conserva­zione, delle condizioni spesso precarie e an­guste in cui gli Istituti sono costretti stipare fondi non di rado preziosi. Non sono così ingenuo da ritenere che tutto questo generi grande commozione tra ministri, sovrinten­denti e funzionari: ma la questione va posta, investendo dei problemi degli Istituti, a que­sto livello e in questo modo, anche le forze politiche e culturali che ancora si richiama­no a quei valori cui noi ispiriamo la nostra attività.

Un discorso per molti aspetti analogo de­ve essere fatto per le biblioteche. Sfogliando la guida Quarantanni di vita dell’Istituto nazionale e degli Istituti associati curata da Gaetano Grassi l’impressione è enorme: cen­tinaia di migliaia di volumi, e soprattutto migliaia di testate giornalistiche spesso or­mai introvabili, centinaia e centinaia di tesi di laurea, una mole sterminata di opuscoli ed altre pubblicazioni. L’obiettivo da perse­guire mi pare mettere in comunicazione que­sto grande patrimonio depositato in decine di sedi. La realizzazione risulta, però, piut­tosto problematica, per mancanza di risorse, per la diversa caratterizzazione delle singole biblioteche, per le oggettive difficoltà ad av­viare un lavoro di questo genere. Tuttavia la possibilità di rendere fruibile questo patri­monio per tutta la rete (penso soprattutto alle pubblicazioni di carattere locale) è un passaggio indispensabile per rompere una tendenza a sviluppare ricerche costrette en-

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Il dibattito sugli Istituti della Resistenza 565

tro confini territoriali determinati a priori (in genere, quelli della singola provincia o di una porzione di essa) che già da altri è stata individuata come un limite “tipico” delle ri­cerche sviluppate dagli Istituti. Non avanzo dunque proposte, mi limito a segnalare il problema.

Accanto alle strutture, lo sviluppo delle ri­cerche rimane un altro tassello determinante della nostra attività. Per provare ad indicar­ne possibili prospettive future converrà par­tire da alcune linee interpretative sulla vicen­da degli Istituti nell’ultimo decennio.

Gli anni ottanta registrano un’altra singo­larità nella storia degli Istituti. Condivido solo in parte il giudizio di Baldissara secon­do il quale dopo “il momento alto vissuto negli anni settanta” , caratterizzati da un di­namismo sul piano della ricerca e del rinno­vamento metodologico, l’attività degli Isti­tuti “sembra appannarsi” all’ingresso nel decennio successivo, perché ritrovo in que­sta lettura la tendenza ad adattare alla storia degli Istituti scansioni mutuate dall’analisi politica. Non che la considerazione sia priva di fondamento, ma credo si debba riflettere sulla storia degli Istituti in quel decennio da una prospettiva più complessa e differenzia­ta, analizzando in parallelo quanto accade su scala nazionale e le tendenze riscontrabili sul piano locale. Su scala nazionale, con gli anni ottanta si interrompe la tradizione dei “grandi progetti” nati e cresciuti intorno a gruppi di lavoro coordinati dall’Istituto na­zionale e capaci di dare un segno anche di immagine alla nostra attività di ricerca, con quelle conseguenze su cui Baldissara e Ma- gagnoli si sono soffermati; ma leggendo le cose dall’angolazione della periferia l’ultimo decennio si caratterizza per una notevole crescita numerica degli Istituti, i quali sono in qualche misura proprio il prodotto dell’“onda lunga” di quelle iniziative; e pro­prio perché si collegano, non solo idealmen­te, ma spesso anche negli uomini che li ani­mano, a quella felice stagione di studi, quel­

lo della crescita numerica è da considerare solo uno dei tratti significativi di quanto è accaduto in periferia in questi ultimi anni: sono proprio gli anni ottanta, pur con le lo­ro contraddizioni alle quali anche la rete de­gli Istituti non può sottrarsi, il periodo del più fecondo rinnovamento nel campo della ricerca che porta, come dimostra la recente pubblicazione curata da Gaetano Grassi, al­la produzione di contributi significativi da parte di molti Istituti (anche se non per tutti è stato così, e su questo dirò ancora qualche cosa in conclusione): non solo ricerche ma mostre, convegni, iniziative didattiche. Que­sto dinamismo della periferia ha un riscon­tro anche sul piano istituzionale: non è cer­tamente casuale se diversi Istituti, a partire dalla seconda metà degli anni ottanta, sento­no la necessità di aggiornare la loro denomi­nazione aggiungendo con varie ma non mol­to differenti declinazioni la dichiarazione di “Istituto di storia contemporanea” a quella tradizionale di richiamo resistenziale.

Tra le diverse tendenze che distinguono la periferia del centro una mi pare particolar­mente significativa: il cambio generazionale, così importante nei decenni precedenti, e che a livello nazionale sembra interrompersi, o segnare una battuta d’arresto nell’ultimo de­cennio, continua invece in periferia, dove trovano spazio giovani — allora! — ricerca­tori i quali contribuiscono, magari un po’ caoticamente, a sollecitare nuovi temi e nuo­vi motivi di interesse e di dibattito (la vicen­da legata alla storia orale può, anche in que­sto caso, essere un buon punto di osserva­zione per capire quanto accade in molti Isti­tuti e nel loro rapporto con l’esterno).

Gli anni ottanta sono dunque il decennio in cui si determina una sfasatura — in termi­ni positivi possiamo chiamarla “diversifica­zione” — tra le diverse istanze della rete, i cui effetti oggi appaiono in tutta la loro rile­vanza e il cui segno è, ancora una volta, du­plice. Il ponderoso Quarant’anni di vita de­gli Istituti ne richiama gli aspetti positivi e

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alla lettura di quelle pagine rimando; per gli intenti di questo dibattito conviene invece puntare l’attenzione sugli aspetti di difficoltà nel rapporto tra gli Istituti e nello sviluppo delle richerche. Il centro: l’Istituto nazionale non sempre appare in grado di comprendere quanto sta avvenendo su scala periferica, e mostra più di una difficoltà a svolgere quel ruolo insieme di collante e di stimolo nei con­fronti dei nuovi Istituti che iniziano proprio in quegli anni ad operare nelle realtà provin­ciali. La periferia: rallentarsi del rapporto con l’Istituto nazionale finisce con l’alimen­tare la tendenza, magari involontaria o addi­rittura opposta alla volontà dichiarata, a rin­chiudersi nel localismo, rompendo quella tensione propulsiva tra storia locale e nazio­nale alla quale gli Istituti dovrebbero invece costantemente richiamarsi, poiché rappre­senta uno dei percorsi più suggestivi su cui lavorare e sperimentare. Il “lavoro cultura­le” degli Istituti provinciali continua così ad oscillare tra una ancora pericolosa somi­glianza con i paradigmi sapientemente de­scritti da Luciano Bianciardi e la capacità di proporre iniziative originali e innovative.

Lo so, è detto schematicamente. Ma uti­lizzando questo schema diventa forse com­prensibile lo scarso riscontro al nuovo pro­gramma generale, o l’andamento altalenante delle diverse sessioni del Seminario perma­nente sul Novecento, vuoi per la partecipa­zione attiva dei diversi Istituti, vuoi per la “mobilitazione” intorno ad esse.

Dalla consapevolezza di questa situazione occorre ripartire. I programmi generali, troppo calati dall’alto su una realtà ormai abituata ad elaborare per proprio conto va­sti programmi su cui concentrare le energie, e quindi in difficoltà anche oggettive se chia­mati a partecipare ad iniziatie troppo esterne alla propria elaborazione e ai propri interes­si, hanno mostrato di essere una via poco praticabile, almeno nell’immediato. D’altra parte l’assoluta mancanza di relazioni, se non casuali, tra le attività dei singoli Istituti,

non porta solo verso i rischi di erudito loca­lismo accennati, ma, tendenza altrettanto pericolosa, contribuisce fortemente alla per­dita di visibilità del nostro lavoro. Occorrerà allora ripensare al problema inventando nuove forme di coordinamento, magari li­mitate territorialmente o, come è avvenuto per il Seminario permanente sul Novecento sulla “Partecipazione dell’Italia alla seconda guerra mondiale” , e come è forse più pro­duttivo per superare l’ottica localista, intrec­ciando collaborazioni e percorsi di lavoro in grado di coinvolgere Istituti di regioni diver­se per avviare progetti di ricerca condotti su territori socialmente, politicamente ed eco­nomicamente differenziati.

Nell’autunno 1994 ci sarà un’importante occasione di confronto proprio sulla nostra attività futura. Abbiamo chiamato quella scadenza, forse un po’ impropriamente e chiedendo a prestito, ancora una volta, il lessico al linguaggio della politica, “Confe­renza di produzione”. Sarà quella la sede per individuare quali percorsi sono possibili, ma qui vorrei segnalare almeno due esigenze che a me paiono imprescindibili. La prima è la necessità di entrare decisamente con le no­stre ricerche nei primi anni dell’Italia repub­blicana, assumendo i nodi storici legati agli anni post liberazione come uno degli assi portanti della nostra elaborazione storiogra­fica: sia per valorizzare il nostro patrimonio documentario e di riflessioni, sia per non la­sciare questo terreno di lavoro alle strumen­talizzazioni cui giornalmente dobbiamo assi­stere. Gli Istituti, per la loro storia e le loro competenze, possono ambire a diventare il fulcro attorno a cui avviare, con grande spi­rito critico, una stagione di studi sulle origi­ni dell’Italia repubblicana, nei suoi diversi aspetti politici e sociali, in un costante ri­chiamo tra locale e nazionale.

La seconda questione attiene alla sfera metodologica. Ritengo estremamente impor­tante riuscire a praticare metodi di lavoro che sappiano intrecciare lo sviluppo della ri-

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cerca con la costruzione di repertori archivi­stici e strumenti di lavoro. Negli ultimi due anni gli Istituti piemontesi hanno realizzato una importante ricerca dal titolo “Partigia­no piemontese e società civile”. La ricerca si è proposta obiettivi tra loro complementari: attraverso lo spoglio delle schede personali di tutti i riconosciuti dalla Commissione re­gionale per l’attribuzione delle qualifiche partigiane (partigiani, ma anche patrioti e benemeriti) abbiamo la possibilità, per la prima volta, di rispondere con una docu­mentazione rigorosa e omogenea alla do­manda quanti e chi erano i partigiani, che rappresenta indubbiamente una novità di ri­lievo nella storiografia sul movimento parti­giano italiano. Ma la ricerca ci ha anche con­sentito di acquisire una enorme mole di do­cumentazione (le circa 100.000 schede perso­nali, i verbali della Commissione di ricono­scimento, i diari storici delle formazioni pie­montesi, ed altro ancora) duplicate e rese di­sponibili per la consultazione; l’immissione in computer delle informazioni ha infine portato alla creazione di banche dati (accan­to alle schede biografiche dei partigiani sono stati immessi in computer, per le indispensa­bili operazioni di analisi e confronto, anche i dati relativi alla popolazione e alle attività produttive di tutti i comuni e di tutte le fra­zioni del Piemonte relativamente ai censi­menti 1936 e 1951) che saranno assai utili (indispensabili?) per qualsiasi altra ricerca non solo sul movimento partigiano, ma, ad esempio, sulle vicende dei primi decenni del­l’Italia repubblicana. Al di là del merito del­la ricerca, mi pare un percorso operativo esemplare perché consente di realizzare una ricerca dai tratti sicuramente innovativi e, contemporaneamente, di approntare reper­tori che restano come strumenti per ricerche future. Una linea di lavoro in grado di dare visibilità alla nostra attività e di affermare il ruolo non effimero degli Istituti.

Mi ero ripromesso di non abusare dello spazio e intendo mantenere fede all’impe­

gno. Tralascio quindi di affrontare altre te­matiche estremamente importanti nel dise­gno di un futuro possibile per gli Istituti: penso ad esempio alla didattica, tema a mio avviso di primaria importanza accanto alle strutture e alla ricerca, con la quale la didat­tica dovrebbe rapportarsi più di quanto sia sino ad ora accaduto; sulla didattica e sui problemi della scuola mi aspetto dal Landis e dalle sezioni didattiche attive in molti Isti­tuti più di un contributo al nostro dibattito. Vorrei limitarmi, solo per accenni e ri­schiando quindi ancora una volta la sche­maticità, ad alcune note conclusive su tre questioni.

La prima riguarda le riviste. Baldissara notava nel suo intervento la magmaticità del panorama editoriale degli Istituti e, in parti­colare, delle loro riviste. Anche queste sono considerazioni senz’altro condivisibili, a patto di avere presenti alcune peculiarità delle nostre pubblicazioni periodiche. Le ri­viste sono quasi sempre lo specchio della produzione dei singoli Istituti, servono cioè a restituire, magari con una particolare at­tenzione al piano locale, il senso dell’attività di ricerca, di sistemazione archivistica e di dibattito delle singole realtà; con queste ca- ratteritiche si ritrovano inevitabilmente a scontare qualche problema di ripetitività, non sempre mantengono un sufficiente rigo­re analitico, senza dubbio non di rado con- fliggono con criteri di economicità. Ma que­sti problemi devono essere affrontati senza perdere di vista la funzione fondamentale delle riviste, che spesso le rende uno stru­mento indispensabile per l’attività degli isti­tuti, quella cioè di strumenti privilegiati per la socializzazione delle attività. Sono quindi un po’ scettico riguardo a soluzioni o ipote­si drastiche, che privilegiano solo l’efficien­za editoriale e i principi dell’economicità; ritengo invece utile e necessaria una discus­sione che, salvaguardando le singole testa­te, individui forme di collaborazione o, al­meno, alcuni criteri editoriali omogenei.

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L’esito delle giornate di studio sul lavoro editoriale svolte a Modena nel settembre 1992 non è stato certamente dei più felici, è bene non dimenticarlo; credo tuttavia sia praticabile, nei prossimi mesi, almeno una riunione dei responsabili delle singole testa­te, per rintracciare i possibili spunti di un la­voro comune.

La seconda questione riguarda la divulga­zione. il vero limite delle nostre pubblicazio­ni, ma anche di molte altre attività pubbli­che, a me pare l’eccessivo specialismo. Non voglio riproporre l’idea — già sufficiente- mente stigmatizzata — di qualche “Mille li­re” sulla Resistenza o altro argomento più o meno affine, ma ritengo che il problema del­la divulgazione della nostra produzione al di fuori della stretta cerchia degli specialisti, o meglio, di una produzione espressamente pensata per la larga diffusione, debba essere prima o poi affrontato. Se, come altri han­no già sottolineato, questa è la fase dell’uso — abuso — pubblico della storia realizzato soprattutto attraverso l’utilizzo spregiudica­to dei mass-media, gli Istituti, sia per la loro ambizione di essere soggetti insieme della cultura e della politica, sia per la loro predi­sposizione a operare con soggetti di “mas­sa”, a partire dal mondo della scuola, non possono evitare di confrontarsi anche con questo problema. Iniziando magari proprio con la storia della Resistenza. Nel loro com­plesso, gli Istituti sono senza alcun dubbio in grado di porre mano ad una pubblicazio­ne agile, di larga diffusione, con una parti­colare attenzione al mondo della scuola, ca­pace di sintetizzare le più recenti acquisizio­ni storiografiche sui venti mesi in Italia. Una operazione certamente non facile, che non si può realizzare attraverso scorciatoie o atti improvvisati, ma alla quale varrebbe la pe­na pensare. In fondo, cosa ci sarebbe di più adatto per coniugare rigore scientifico, am­bizione di offrire strumenti critici rigorosi, capacità di confrontarsi con le forme mo­

derne del comunicare, visibilità del nostro lavoro?

La terza questione investe un aspetto per così dire istituzionale. Mentre stavo redigen­do queste pagine mi è capitato tra le mani il materiale promozionale di una iniziativa di un Istituto della rete. La manifestazione è il Cinquantesimo anniversario di una battaglia partigiana e il programma è così concepito: “Santa Messa - Benedizione impartita da Sua Eccellenza il Vescovo. [...] Orazione Ufficiale. [...] Saranno in funzione ristoran­te e bar ed attrazioni varie” . Null’altro.

L’autonomia degli Istituti è un bene pre­zioso e va salvaguardato. Ma se esiste un problema di adeguamento ad una realtà in rapido mutamento, allora è forse il caso di ripensare all’ambito entro cui è giusto ed opportuno si dispieghino le attività degli Istituti. Senza vincoli troppo ferrei, natural­mente, ma senza neppure lasciare tutto alla fantasia di ciascuno. Anche perché episodi come quello citato, che a mio avviso travali­cano le competenze degli istituti o una cor­retta concezione del rapporto tra fare storia e impegno politico, non sono isolati. Tre o quattro anni fa, ad esempio, un altro Istitu­to dava alle stampe un volume con questa “dedica” : “Ai compagni di Lotta dell’Eser­cito di Liberazione Nazionale Albanese, gui­dati dal loro comandante supremo, il com­pagno ENVER HOXHA [scritto proprio co­sì, tutto maiuscolo!], che, fraternamente, ci accolsero nelle loro fila [...]” .

Mi chiedo dunque, semplicemente, se non sia il caso — magari per evitare che Norber­to Bobbio ponga anche a noi qualche do­manda imbarazzante in proposito — di co­minciare a pensare ad un nuovo statuto della rete, capace di definirne compiti e imposta­zione di lavoro in una fase non facile ma, se affrontata con la giusta padronanza del no­stro ruolo, foriera di prospettive suggestive.

Roberto Botta

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N o te a convegni

Pratiche e culture della violenza tra guerra e dopoguerra

Massimo Legnani

Anche in rapporto alla realtà italiana, vio­lenza e seconda guerra mondiale costituisco­no un binomio che non abbisogna certo di verifiche dimostrative. L’indissociabilità dei due termini contiene tuttavia, proprio per la sua forza condizionante, qualche insidia, quantomeno nel senso di far passare in se­condo piano — di fronte alla intensità e per- vasività del fenomeno — l’opportunità di una analisi più ravvicinata, capace di coglie­re nella varietà delle manifestazioni e delle situazioni la diversità degli impulsi e delle motivazioni. Partendo da questa considera­zione, l’Istituto di storia della Resistenza di Vercelli ha promosso (con la collaborazione dell’Istituto nazionale e della Fondazione Micheletti) un seminario su “Pratiche e cul­ture della violenza tra guerra e dopoguerra. 1939-1946”, che si è svolto a Santhià il 12 e 13 maggio 1994. Chi scrive, oltre che ai la­vori, ha partecipato, insieme con Piero Am­brosio e Pier Paolo Poggio, alla preparazio­ne dell’incontro, donde il carattere partico­lare di queste note.

La prima parte del seminario è stata dedi­cata a fissare alcune coordinate generali. Luigi Bonanate (La violenza nelle guerre del Novecento) ha particolarmente insistito sul­la eccezionalità del caso italiano, ovvero di un paese che ha conosciuto tutti e tre i tipi di guerra (tra gli stati, partigiana, civile) che si sono succeduti e intersecati, ma ha rilevato anche quanto la riflessione storiografica si sia mostrata sinora inadeguata a restituire lo

spessore del fenomeno (forse anche per la renitenza di molti studiosi a porre un colle­gamento stretto tra tipologia delle guerre e tipologia dei regimi politici che le conduco­no). Alberto Burgio (La cultura della violen­za) ha analizzato in profondità i codici lin­guistici della propaganda nazista (il ‘tedesco dei tedeschi’ doveva risultare intraducibile per quanti cadevano sotto la servitù del Reich) nell’ambito del più generale processo di “naturalizzazione” delle differenze cultu­rali come momento fondativo del razzismo. Antonio Gibelli (Guerra, violenza e morte: un paradigma del nostro secolo) ha posto in stretta relazione le pratiche della violenza quali si sviluppano lungo l’arco della prima metà del secolo (“da Verdun ad Auschiwtz”) con la modernità in quanto processo di mas­sificazione, esaltazione dell’efficienza, mes­sa a punto di sempre più incisivi apparati tecnico-scientifici; ed ha, sotto questo profi­lo, sottolineato la consecutività della secon­da guerra mondiale rispetto alla prima (lad­dove i bombardamenti sulle città costitui­scono, ad esempio, l’equivalente dell’espe­rienza del fronte per i soldati della grande guerra e le guerre civili si presentano in varia misura come prodotto e corollario della “guerra totale”). Ha chiuso questa prima parte la neuropsichiatra Marcella Balconi (Gli effetti psicologici della guerra) che, an­che sulla scorta dell’esperienza personale, ha tracciato un quadro degli effetti bellici sulla psiche infantile.

‘Italia contemporanea”, settembre 1994, n. 196

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II secondo tempo del seminario, prevalen­temente centrato sul biennio 1943-1945, ha posto a confronto la violenza di “occupan­ti” e “occupati” . Claudio Dellavalle (Vio­lenza fascista, violenza tedesca, violenza partigiano) ha sì rilevato la necessità di co­struire più puntuali categorie di analisi, ma anche di effettuare una ricognizione più at­tenta ai dati quantitativi (ad esempio al fatto che nel Cuneese i civili caduti nei venti mesi della lotta armata superino quelli partigia­ni). Circa le culture e gli impulsi sottostanti alle forme della violenza, Dellavalle ha invi­tato a cogliere quella tedesca soprattutto nella sua fase genetica, a collegare quella fa­scista al disperato recupero di una identità minata dal mancato consenso, ad esaminare quella partigiana in stretta relazione al tema dei rapporti intercorrenti tra le bande e le popolazioni. Brunello Mantelli (Le deporta­zioni) ha esaminato il problema in dimensio­ne europea, assumendo lo spostamento coatto di popolazione come tratto specifico della seconda guerra mondiale, funzionale alla instaurazione dell’ordine nuovo nazista, e chiedendosi se da questo punto di vista i piani tedeschi non si debbono considerare largamente realizzati. Paolo Ceda (7 bom­bardamenti) ha affacciato, quale definizione delle incursioni a tappeto sulle città (e del bombardiere strategico come primo esempio di “arma totale”), quella di ‘sterminio di massa circoscritto’, rilevando tuttavia come essa si differenzi qualitativamente sia dalla pratica dello sterminio condotto dai nazisti contro un nemico ritenuto inferiore sia dal­l’impiego dell’arma atomica. Mario Giova- na (La repressione nelle città) ha soprattutto approfondito il ricorso alla violenza siste­matica come modalità costitutiva del potere fascista nelle città, laddove la principale preoccupazione tedesca era quella di evitare che le proprie unità restassero ingabbiate nelle strutture dei grandi centri. Claudio Si- lingardi (Guerriglia, popolazione e territorio nella pianura emiliana) ha in parte accolto la

tesi che vede nel radicalizzarsi della violenza il riemergere di lontane lacerazioni (ultima nel tempo quella determinata dallo squadri­smo fascista), ma ha sottolineato anche co­me il suo esplodere sia legato anzitutto alla parabola della resistenza emiliana, dai ritar­di iniziali (connessi al difficile rapporto tra Partito comunista e mondo contadino) alla intensificazione dello scontro nel settembre- ottobre 1944 (quando tedeschi e fascisti con­trollano le città ed i partigiani dominano nelle campagne), alle dure condizioni di so­pravvivenza dell’inverno 1944-1945. Gloria Chianese (Rappresaglie naziste, saccheggi e violenza alleata: alcuni esempi al Sud) ha in­teso correggere alcuni luoghi comuni corren­ti (quale quello che i tedeschi si sarebbero per regola astenuti dagli stupri) e soprattutto proporre una articolazione più ricca del te­ma, differenziando i contesti socioeconomi­ci (la già largamente nota area napoletana, ma anche la zona agricola del Casertano), le fasi (la caduta dell’immagine degli angloa­mericani come liberatori in rapporto al loro ricorso alle organizzazioni mafiose e camor­ristiche), ed i soggetti (la pratica del saccheg­gio messa in atto dai civili lungo l’intero corso della guerra). Roberto Botta e Ga­briella Solaro (L’amministrazione della giu­stizia nelle formazioni partigiane) hanno ri­levato da un lato come centrale nella costru­zione del sistema disciplinare delle bande il ruolo e l’esempio dei commissari politici e dall’altro il peso esercitato dai rapporti dei partigiani con le comunità locali nel deter­minare una diversa valutazione, anche in termini di violenza da esercitare, a seconda che il nemico fosse “esterno” o “interno”. Adolfo Mignemi (L’uso del tema della vio­lenza nella propaganda) si è soffermato principalmente sulla visualizzazione degli at­ti e degli effetti della violenza come approdo di un processo di addestramento alla aggres­sività tendente alla militarizzazione perma­nente. Paola Olivetti (La violenza nel cine­ma di Salò) ha sottolineato il carattere larga­

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mente velleitario del progetto della Rsi di ri­lanciare una propria cinematografia intima­mente connessa alle tematiche della guerra in corso. Gianni Sciola {Il tema della violenza nella pubblicistica della Rsi) ha approfondito soprattutto l’ideologia funebre che caratte­rizza la pubblicistica dell’ultimo fascismo at­traverso l’esibizione della morte. A queste relazioni hanno fatto da contorno quelle, de­dicate alla guerra fascista 1940-1943, di Rino Sala {La codificazione della violenza. Italiani e tedeschi nell’area balcanica, 1941-1943), che ha rilevato la politica di rapina più che di lungimirante sfruttamento messa in pratica dalla presenza italiana e della violenza siste­matica ad essa connessa (rinviando in parti­colare alla repressione guidata dal generale Robotti nella provincia di Lubiana nel secon­do semestre del 1941) e di Mimmo Franzinel- li {La religione tra armonizzazione e legitti­mazione della violenza bellica) che, utilizzan­do largamente fonti ecclesiastiche dirette, ha delineato una tipologia dei cappellàni milita­ri (fascisti, nazionalisti, politicamente neutri) e operato interessanti sondaggi nella loro cultura (ad esempio, la costante accusa, gui­data anche da pregiudizi sessuali, alle donne dei territori occupati di tramare contro i mili­tari italiani).

La terza e conclusiva parte del seminario ha raccolto una serie di relazioni concernenti l’insurrezione e l’immediato dopoguerra. Gianni Perona {L’insurrezione e la violenza: il punto di vista degli Alleati) ha illustrato i diversi atteggiamenti e posizioni presenti tra inglesi e americani, anche in rapporto allo stallo delle operazioni nell’inverno 1944- 1945 e al problema del contenimento della violenza. Raul Pupo {Le foibe giuliane) ha ripercorso l’ininterrotto dibattito sulle re­sponsabilità degli eccidi al confine orientale ed auspicato una maggiore strutturazone delle indagini moltiplicando gli approcci in­terdisciplinari. Mirco Dondi {Le denunce anonime nell’immediato dopoguerra) ha ri­levato come la maggior parte delle denunce

riguardino il tema degli illeciti arricchimenti e come esse si rifacciamo alla diffusione del­le delazioni durante la Resistenza. Guido Pi­si e Marco Minardi {Fenomeni di illegalità diffusa nell’immediato dopoguerra: il caso parmense) hanno affrontato, attraverso la ricostruzione di alcuni episodi, le connessio­ni tra reati comuni e quadro politico postin­surrezionale. Angela Politi {La persecuzione antipartigiana in Emilia) ha esposto i risulta­ti di una sua ampia ricerca, condotta su fon­ti in gran parte originali, sulla istruzione di processi contro partigiani per fatti diretta- mente attinenti alla guerra di liberazione. Laurana Lajolo {Agosto 1946, i partigiani di Santa Libera) ha ricostruito il più noto e ri­levante tra gli episodi di “ritorno in monta­gna” dopo il voto del 2 giugno 1946 e 1’“am­nistia Togliatti”.

Anche dalla semplice elencazione delle numerose relazioni e dei temi via via trattati credo emerga la ricchezza del seminario e, prima ancora, l’opportunità di far converge­re in una sede comune spunti, analisi parzia­li, ricostruzioni fattuali che, pur affrontan­do problematiche affini, erano rimasti per lo più chiusi in ambiti di interesse locale o di approfondimento specialistico. La creazione di un circuito più ampio, e quindi di un più ravvicinato contatto tra i singoli studiosi, dovrebbe consentire l’ampliamento degli orizzonti interpretativi. In questa direzione il seminario ha tracciato un profilo attendi­bile degli attuali limiti delle conoscenze e delle elaborazioni. Una prima constatazione riguarda la guerra fascista, tuttora latitante come entità complessiva. Non si tratta sol­tanto di rimuovere tabù politici e pretesti di falso patriottismo e portare finalmente alla luce il quadro dei crimini fascisti sinora so­verchiato dallo stereotipo dell’“italiano buo­no”; si tratta anche di misurare in profondi­tà, al di là delle rievocazioni di costume spesso limitate agli aspetti buffoneschi, che pure ci furono, gli effetti del militarismo fa­scista, della cultura della guerra e della mor­

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te che permeano l’intera vita del regime, premessa e condizione perché, secondo le parole di Mussolini, i “legionari di Cesare” riapparissero sulla scena del mondo. Il tema investe anche la popolazione civile e si in­treccia con il procedere, sempre più aspro, del vissuto collettivo della guerra, antefatto indispensabile per comprendere molti degli atteggiamenti, di singoli e di gruppi, dinanzi alle prove del 1943-1945.

Quest’ultima osservazione pone in eviden­za un’altra zona poco esplorata. Mentre l’a­nalisi di singole pratiche di violenza, soprat­tutto se istituzionalizzate, ha potuto appog­giarsi ai dati della storia generale e di quella politica, le culture che a quelle pratiche im- troducono sono rimaste per lo più in ombra, anche per le evidenti difficoltà metodologi­che che la loro ricostruzione comporta. Que­

sto dato, insieme con evidenti renitenze di origine politica, pesano anche su quella che, molto genericamente e inadeguatamente, si può definire come violenza postinsurrezio­nale. Problema che ancora una volta non ri­guarda solo il partigianato o il contesto poli­tico in cui esso si muove (da protagonista non marginale della liberazione a corpo reso estraneo dalla incombente normalizzazione), ma l’insieme del tessuto sociale, la diffusa assuefazione alla violenza, la perdita di pre­stigio di ogni autorità ordinaria, l’eredità dei lutti disseminati dall’eversione fascista. Il recupero di queste diverse dimensioni sem­bra dunque indispensabile per riproporre or­ganicamente il tema del seminario e sospin­gerlo verso obiettivi di ricerca più ambiziosi.

Massimo Legnani

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