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Rassegna bibliografica 573 in misura cospicua, la geografia umana fran- cese — è del tutto ignorato da Farinelli. Ep- pure anche il vecchio Marx si sorprende ad avere, a volte, una qualche idea normativa delle regole secondo le quali procede la dia- lettica tra sviluppo e integrazione; se da una parte “il processo di scambio delle merci im- plica relazioni contraddittorie, che si esclu- dono a vicenda”, dall’altra, “lo svolgimento della merce non supera tali contraddizioni, ma crea la forma entro la quale esse si posso- no muovere. Questo è, in genere, il metodo col quale si risolvono le contraddizioni reali” {Il Capitale, Libro I, Torino, Einaudi, 1975, p. 126). Nulla dunque della contrapposizione antinomica tra valore d’uso e valore di scam- bio — nella fattispecie che in questa sede in- teressa, dei prodotti cartografici e della ricer- ca geografica —, tipica della sociologia “cri- tica” e della sinistra hegeliana da cui deriva. La problematica agitata da Farinelli con tale perentorietà d’assunti si giustifica, in parte, con la lunga tradizione di geogra- fia descrittiva e positivistica, non solo ita- liana, da cui si cerca di uscire; di qui la ne- cessità di offrire, oggi, della geografia, un’immagine più “critica”, alla pari con le altre discipline umane. Ma, occorre se- gnalare, di fronte alla dissoluzione della geografia cui sembra approdare la scepsi filosofica dell’autore — il cui peso viene forse gettato con troppa immediatezza en- tro i termini circostanziati e scientifici del- la ricerca geografica — il lettore, partito dal- l’esame della funzione ideologica della geografia, è trascinato involontariamente a porsi il vecchio, accademico quesito: ma qual è l’oggetto della geografia? Aldino Monti Italia liberale Enzo Ciconte, ’Ndrangheta dall’unità a oggi, Roma-Bari, Laterza, 1992, pp. 415, lire 38.000. Nell’autunno del 1992, un pentito di mafia, Leonardo Messina, avrebbe rivelato agli inquirenti due novità assolute dell’universo di affari e di mor- te alla ribalta: la prima, che nel- lo scompiglio creato dentro la costellazione mafiosa dalle of- fensive dello Stato sarebbe sorta una specie di federazione di co- sche, parallela e concorrente ri- spetto al vecchio impianto di Cosa nostra, qualcosa denomi- nato stidda per il carattere stel- lare dell’organizzazione; la se- conda, che la stessa Cosa no- stra, sia per far fronte agli at- tacchi delle forze dell’ordine e della magistratura, sia per argi- nare il dinamismo dei nuovi ve- nuti, avrebbe intrecciato rap- porti più stretti con la camorra napoletana, con la “Sacra coro- na unita” e, soprattutto, con la ’ndrangheta calabrese. Secondo Messina, alcuni esponenti di spicco delle famiglie regnanti sulle ’ndrine sarebbero stati cooptati nel circuito di Cosa no- stra e quindi una parte della ’ndrangheta farebbe corpo, a tutti gli effetti, con la mafia sici- liana. Se queste rivelazioni corri- spondono al vero, il tessuto del- la criminalità associata calabre- se avrebbe compiuto — o sta- rebbe per compiere — un enne- simo salto di qualità, per rag- giungere ai livelli massimi della criminalità nazionale il ceppo biecamente illustre della malavi- ta con radici sicule. Si trattereb- be, forse, di una specie di iden- tificazione totale coi metodi ed i volumi delinquenziali di un pro- totipo di società del malaffare di cui per l’addietro la ’ndran- gheta aveva ripetuto certe mo- dalità d’azione, certi schemi di sviluppo, ma senza mai confon- dersi coi suoi connotati e man- tenendo ben evidente un profilo proprio, frutto di un itinerario storico originale. Avremmo così l’ulteriore conferma delle tenaci e selvagge qualità di macchina del crimine racchiuse nel feno- meno della ’ndrangheta che En- zo Ciconte, in quattrocento densissime pagine, ci racconta da storico attento e da analista che ne ha intelligentemente pe- netrato i retroterra antropologi- ci, sociologici e psicologici. Ciconte ricostruisce cento- trent’anni di vita e di evoluzione di una realtà delinquenziale le

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in misura cospicua, la geografia umana fran­cese — è del tutto ignorato da Farinelli. Ep­pure anche il vecchio Marx si sorprende ad avere, a volte, una qualche idea normativa delle regole secondo le quali procede la dia­lettica tra sviluppo e integrazione; se da una parte “il processo di scambio delle merci im­plica relazioni contraddittorie, che si esclu­dono a vicenda”, dall’altra, “lo svolgimento della merce non supera tali contraddizioni, ma crea la forma entro la quale esse si posso­no muovere. Questo è, in genere, il metodo col quale si risolvono le contraddizioni reali” {Il Capitale, Libro I, Torino, Einaudi, 1975, p. 126). Nulla dunque della contrapposizione antinomica tra valore d’uso e valore di scam­bio — nella fattispecie che in questa sede in­teressa, dei prodotti cartografici e della ricer­ca geografica —, tipica della sociologia “cri­tica” e della sinistra hegeliana da cui deriva.

La problematica agitata da Farinelli con tale perentorietà d’assunti si giustifica, in parte, con la lunga tradizione di geogra­fia descrittiva e positivistica, non solo ita­liana, da cui si cerca di uscire; di qui la ne­cessità di offrire, oggi, della geografia, un’immagine più “critica”, alla pari con le altre discipline umane. Ma, occorre se­gnalare, di fronte alla dissoluzione della geografia cui sembra approdare la scepsi filosofica dell’autore — il cui peso viene forse gettato con troppa immediatezza en­tro i termini circostanziati e scientifici del­la ricerca geografica — il lettore, partito dal­l’esame della funzione ideologica della geografia, è trascinato involontariamente a porsi il vecchio, accademico quesito: ma qual è l’oggetto della geografia?

Aldino Monti

Italia liberale

Enzo Ciconte, ’Ndrangheta dall’unità a oggi, Roma-Bari, Laterza, 1992, pp. 415, lire38.000.

Nell’autunno del 1992, un pentito di mafia, Leonardo Messina, avrebbe rivelato agli inquirenti due novità assolute dell’universo di affari e di mor­te alla ribalta: la prima, che nel­lo scompiglio creato dentro la costellazione mafiosa dalle of­fensive dello Stato sarebbe sorta una specie di federazione di co­sche, parallela e concorrente ri­spetto al vecchio impianto di Cosa nostra, qualcosa denomi­nato stidda per il carattere stel­lare dell’organizzazione; la se­conda, che la stessa Cosa no­stra, sia per far fronte agli at­tacchi delle forze dell’ordine e

della magistratura, sia per argi­nare il dinamismo dei nuovi ve­nuti, avrebbe intrecciato rap­porti più stretti con la camorra napoletana, con la “Sacra coro­na unita” e, soprattutto, con la ’ndrangheta calabrese. Secondo Messina, alcuni esponenti di spicco delle famiglie regnanti sulle ’ndrine sarebbero stati cooptati nel circuito di Cosa no­stra e quindi una parte della ’ndrangheta farebbe corpo, a tutti gli effetti, con la mafia sici­liana.

Se queste rivelazioni corri­spondono al vero, il tessuto del­la criminalità associata calabre­se avrebbe compiuto — o sta­rebbe per compiere — un enne­simo salto di qualità, per rag­giungere ai livelli massimi della criminalità nazionale il ceppo biecamente illustre della malavi­ta con radici sicule. Si trattereb­

be, forse, di una specie di iden­tificazione totale coi metodi ed i volumi delinquenziali di un pro­totipo di società del malaffare di cui per l’addietro la ’ndran­gheta aveva ripetuto certe mo­dalità d’azione, certi schemi di sviluppo, ma senza mai confon­dersi coi suoi connotati e man­tenendo ben evidente un profilo proprio, frutto di un itinerario storico originale. Avremmo così l’ulteriore conferma delle tenaci e selvagge qualità di macchina del crimine racchiuse nel feno­meno della ’ndrangheta che En­zo Ciconte, in quattrocento densissime pagine, ci racconta da storico attento e da analista che ne ha intelligentemente pe­netrato i retroterra antropologi­ci, sociologici e psicologici.

Ciconte ricostruisce cento- trent’anni di vita e di evoluzione di una realtà delinquenziale le

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cui scaturigini hanno probabil­mente un passato lontano nei secoli e che, comunque, dal sor­gere dello Stato unitario è an­data via via intrecciandosi sem­pre più profondamente con la società calabrese, si è insinuata via via nelle sue strutture eco­nomiche, è passata dalla “qua­lità” di rete criminosa delle campagne all’imponenza cre­scente di potere malavitoso ur­bano ed ha finito per tracimare sul terreno delle grandi specula­zioni nelle infrastrutture pub­bliche e negli insediamenti in­dustriali, legandosi a doppio e triplo filo con grande industria, politica e amministrazione. Per decenni mal conosciuta nella sua fisionomia peculiare, sicché erano devianti le stesse denomi­nazioni “picciotteria” e “onora­ta società” sotto cui magistrati e poliziotti ne catalogavano la natura, la ’ndrangheta ha avuto e conservato nel tempo il carat­tere specifico di organizzazione a base famigliare, con riti e li­turgie misterici destinati a in­fondere negli adepti, oltreché un senso di vincolo infrangibi­le, la consapevolezza di una ap­partenenza e di una conquistata posizione di “rispetto” sociale come fattori incentivanti, tanto più in una società contadina, povera e, a cagione della con­formazione medesima del terri­torio, soggetta a frustranti iso­lamenti. Dalle primitive prati­che estorsive, il tessuto delle ’ndrine si è progressivamente dislocato sui fronti più avanzati e più appetibili dei ricatti, dei sequestri di persona e delle più variegate occasioni di illegalità lucrosa, giovandosi a tutto campo delle debolezze, delle complicità e delle arretratezze

del contesto statale nel quale operava. Ciconte ha spogliato centinaia di sentenze di tribuna­li dall’unità ad oggi, ha frugato negli atti parlamentari e nella pubblicistica, non trascurando la rappresentazione letteraria e il testimoniale “colto” sul signi­ficato e l’entità della piaga: ne è venuta fuori una ricostruzione il cui merito non è soltanto di costituire il primo approccio globale ai misfatti di questo po­tere occulto, bensì anche di for­nirne un quadro di esplorazione nelle viscere, ricomposto an­dando a frugare nelle mille pie­ghe, più o meno nascoste, delle insolvenze, delle collusioni e delle interessate tolleranze di cui, decennio dopo decennio, la ’ndrangheta si è avvalsa per in­quinare in ogni direzione socie­tà, economia, vita civile della Calabria. Un processo di pro­gressivo ingigantimento malavi­toso nel quale la figura dello Stato e delle sue articolazioni istituzionali hanno ruoli sinistri di complicità dirette o di indo­lenze oblique, di spazi artata­mente aperti al dilagare della violenza determinata a piegare la legge o di estese, sotterranee omertà vissute tra la paura e il prevalere dello spirito imbelle sui doveri d’ufficio, tra losche interessenze e autentici tradi­menti degli impegni giurati al servizio della comunità. Prefet­ti, magistrati, poliziotti hanno scritto, in questa storia crivella­ta di morti, di sopraffazioni, di insediamenti nella ricchezza a danno del privato e del pubbli­co, pagine vergognose. Potere sveltamente astuto e preveggen­te nell’adeguarsi al mutare delle condizioni e dei tempi, la ’ndrangheta si è inserita nelle

fibre dello Stato lavorando di intimazioni e di corruzione, ha saputo gettarsi nella manovra del personale politico e ammini­strativo con tutte le seduzioni delle proprie egemonie elettora­li e della capacità di volgere a proprio vantaggio le falle e le pigrizie delle strutture di garan­zia formale della legalità collet­tiva. Così si sono affermate le protervie di una criminalità co­vata nel grembo delle latitanze statali e delle immaturità di una borghesia calabrese non mai uscita dall’alveo asfittico delle sue consuetudini di parassiti­smo inerte e micragnoso. Para­dossalmente, quello Stato lar­gamente inteso come un nemico irrimediabile, è stato per tanti versi fattore primario delle truci fortune ’ndranghiste.

I flussi incontrollati di dana­ro pubblico, il voto di scambio, l’intrallazzo amministrativo, accanto alle inadempienze co­lossali del riequilibrio economi- co-produttivo, sociale ed ecolo­gico del territorio, hanno dato alla società del crimine oppor­tunità enormi di consolidamen­to del proprio dominio. Oggi, una generazione di magistrati giovani e anche di poliziotti ge­nerosamente sulla breccia tenta di bloccare una valanga che de­borda al Nord, si avvale di ra­mificazioni all’estero, ricicla in­cessantemente danaro sporco in attività finanziarie (bancarie in specie, e Ciconte sottolinea le responsabilità gravissime del settore in questa materia), ucci­de spietatamente secondo rego­le antiche del proprio “ordine”, lacerando la miseria calabra con incessanti fendenti. Non sono i presidi militari sull’A- spromonte e tanto meno gli in­

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terventi finanziari a pioggia a poter fermare la piena di questa forza d’urto: il problema sta in una diversa coscienza dei nodi socio-economici e culturali da sciogliere, in una diversa mora­lità della classe dirigente. Ma, ovviamente, qui si esce dalla storia e si entra, drammatica- mente, nell’attualità che è anco­ra cronaca: alla quale, però, il lavoro di Ciconte conferisce il respiro di una riflessione tra passato e presente di ineludibile eloquenza.

Mario Giovana

Dianella Gagliani, Mariuc- cia Salvati (a cura di), La sfe­ra pubblica femminile. Percorsi di storia delle donne in età con­temporanea, Bologna, Clueb, 1992, pp. 240, lire 28.000 (Qua­derni del Dipartimento di disci­pline storiche).

Il libro, nato con un intento soprattutto didattico, raccoglie gli atti del seminario organizza­to, nel dicembre 1990, dal grup­po di lavoro sulla storia delle donne del Dipartimento di di­scipline storiche dell’Università di Bologna. I singoli contributi mantengono, per lo più, il ca­rattere di interventi seminariali e sono disuguali tra di loro ri­spetto al lavoro di ricerca che li sostiene. Alcuni, infatti, fanno riferimento a ricerche ad uno stadio avanzato e, in taluni ca­si, già pubblicate (Anna Rossi- Doria, Victoria De Grazia). Al­tri, invece, rimandano a ricer­che allo stadio di progetto, o in corso, oppure si presentano co­me ipotesi di lavoro, oppure, infine, suggeriscono una valu­tazione critica e una proposta

di discussione dei principali no­di teorici affrontati dalle ricer­che sulla “sfera pubblica fem­minile” . Gli interventi sono presentati secondo un ordine cronologico che va dall’inizio dell’Ottocento ai giorni nostri, e sono disposti secondo alcune aree tematiche quali, ad esem­pio, la rappresentanza, l’asso­ciazionismo femminile, il lavo­ro e l’istruzione, la cittadinan­za. Essi fanno riferimento alla situazione italiana, tranne due, quello di Mathilde Aspmair e quello di Maria Clara Donato, che riguardano, rispettivamen­te, la Germania di Weimar e la Cina. Il libro è arricchito da una bibliografia ragionata, cu­rata da Maria Pia Bigaran, che integra ed offre un inquadra­mento generale ai riferimenti bibliografici delle singole se­zioni.

L’introduzione di Mariuccia Salvati vuole chiarire e proble­matizzare, ad un tempo, il con­cetto di “sfera pubblica femmi­nile”, in relazione alle diverse tematiche contenute negli inter­venti raccolti nel volume. Sal­vati localizza soprattutto in quell’area di confine e di attrito tra sfera pubblica e sfera priva­ta, lo spazio in cui è possibile rintracciare in epoca contempo­ranea un ruolo ‘pubblico’ delle donne. Tuttavia, l’inserimento di una dimensione femminile porta con sé una riformulazio­ne del concetto stesso di sfera pubblica. Con esso non si può più soltanto intendere l’ambito delle istituzioni che si occupano del bene pubblico, oppure lo spazio sociale al cui interno si definisce l’opinione pubblica, dai quali le donne sono state tradizionalmente escluse. È ne­

cessario far riferimento ad un concetto di sfera pubblica in grado di contemplare tra i suoi attori sia gli uomini che le don­ne, entrambi responsabilizzati del corretto funzionamento del­l’organizzazione sociale. Salvati individua nelle riflessioni di Hannah Arendt, in particolare nel concetto di “mantenimento della vita”, inteso come ragion d’essere della società occidenta­le, la base teorica per una rifor­mulazione della definizione di sfera pubblica, in grado di in­cludere e di valorizzare il con­tributo femminile.

I saggi compresi nel volume si collocano all’interno di que­ste riformulazioni concettuali e di queste ridefinizioni di ambiti di appartenenza. Essi sono or­ganizzati intorno ad alcune ca­tegorie analitiche, ed è soprat­tutto in questo che consiste l’in­teresse del libro, cruciali per un’indagine sulla presenza fem­minile nella sfera pubblica. Si tratta, innanzitutto, della cate­goria di cittadinanza, nella sua triplice accezione di cittadinan­za civile, politica e sociale, aspetti che, per le donne, non sempre hanno coinciso storica­mente. Come emerge dall’inter­vento di Maria Pia Bigaran, al­le donne italiane vengono ga­rantiti, infatti, i diritti civili e sociali assai prima di quelli po­litici. Non solo, l’attribuzione dei diritti sociali, attraverso la realizzazione del Welfare State, diventa in molti casi, per le donne, la premessa di un loro coinvolgimento politico. De Grazia mette in luce, ad esem­pio, che le iniziative assistenzia­li del fascismo si basano sulla partecipazione delle donne, su “un attivismo sociale femmini­

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le” che esprime un paradosso di fondo del regime, riconducibile ad una definizione contraddito­ria della cittadinanza femmini­le. Il fascismo, infatti, intende mobilitare politicamente le donne, garantendo loro una presenza pubblica, proprio a partire dalla rivalutazione so­ciale del loro ruolo domestico svolto nell’interesse dello Stato. Come risulta, inoltre, dagli in­terventi di Dianella Gagliani e Angela Verzelli, la realizzazio­ne degli obiettivi del Welfare State diventa l’area privilegiata dell’impegno politico delle don­ne. Tuttavia, non sempre l’e­stensione dei benefici del Wel­fare State, che ha sicuramente portato con sé un aumento del lavoro extradomestico delle donne e, quindi, un’espansione della loro presenza pubblica, ha significato un sensibile incre­mento del numero delle donne sul terreno della rappresentanza politica.

La categoria interpretativa di rappresentanza sta dietro a molti degli interventi di questa raccolta. Un aspetto interessan­te analizzato in diversi contri­buti è la relazione che viene sta­bilita, nel caso delle donne, tra capacità di “autorappresenta­zione” e di “rappresentazione pubblica”, da un lato, e “rap­presentanza politica”, dall’al­tro. Paola Di Cori dimostra che l’attenzione per le “rappresen­tazioni di genere”, per una più precisa definizione dell’identità sessuale femminile e per una sua più netta differenziazione da quella maschile, aumenta con l’intensificarsi del dibattito sull’estensione della rappresen­tanza politica alle donne. Laura Mariani mette in luce, invece,

che l’autorevolezza delle attrici e la capacità di “rappresenta­zione pubblica” acquisita attra­verso la loro arte, risponde ad un’esigenza cruciale dell’eman- cipazionismo, quella di creare una immagine femminile pub­blica ed universale. Non sem­pre, come abbiamo visto, una presenza delle donne sul merca­to del lavoro si traduce diretta- mente in una loro presenza an­che al livello della rappresen­tanza politica. Determinante, a questo fine, sembra essere, co­me emerge da alcuni contributi del volume che riguardano le donne lavoratrici e l’associazio­nismo femminile, 1’ “autorap­presentazione” che queste don­ne lavoratrici hanno di sé e l’immagine pubblica e la consi­derazione di cui godono social­mente che, nel loro caso, non è molto elevata. Tuttavia, anche nel caso di donne attive sul mercato del lavoro intellettuale, come le insegnanti, la loro pro­fessione, che pur gode di un certo prestigio sociale, non è in grado di emanciparle dalla loro marginalità politica. Simonetta Soldani, ad esempio, a proposi­to del coinvolgimento delle donne nella scuola a partire dalla riunificazione del sistema scolastico nazionale, analizza la contraddizione vissuta dalle in­segnanti di essere, da un lato, escluse dal diritto di voto e di essere riconosciute, dall’altro, come le dispensatrici-garanti delle conoscenze necessarie per esercitare proprio quel diritto.

Un ultimo aspetto, di estre­mo interesse, presente in molti contributi, è costituito dal rap­porto tra moralità e sfera pub­blica. La moralità, infatti, è stata spesso la qualità principa­

le rivendicata dall’emancipazio- nismo per legittimare un impe­gno femminile nella sfera pub­blica. Ma di quale concetto di “moralità” si tratta? Rossi-Do- ria insiste sul fatto che nella storia del suffragismo sono sta­te presenti, fin dall’inizio, due istanze morali. La prima è lega­ta al concetto di responsabilità individuale e all’esigenza di estendere anche alle donne que­sto diritto universale, che è alla base della libera scelta morale. La seconda, nasce dall’esigenza di fondare teoricamente una specificità femminile che espri­ma una differenza, senza essere alternativa all’uguaglianza ri­spetto agli uomini. Essa si basa sulla convinzione religiosa di una superiorità morale femmi­nile che si esprime, soprattutto, nella capacità di amore e dedi­zione insita nel ruolo materno che, per volere divino, tutte le donne sono in grado di assolve­re. Tuttavia, come appare da molti degli interventi raccolti in questo volume, proprio perché l’istanza morale legata al ruolo materno è radicata più profon­damente nella tradizione fem­minile, ed è quella in cui le don­ne si sono più facilmente identi­ficate, essa ha finito col preva­lere sull’istanza morale fondata sul diritto dell’individualità. Di conseguenza, nelle rivendica­zioni femminili, si è teso a legit­timare l’ingresso delle donne nella sfera pubblica, valoriz­zando le qualità di “maternità estesa” e facendo appello alla loro “utilità sociale” come ga­ranti della giustizia e della mo­rale e non piuttosto al loro di­ritto, come cittadine-individui, di essere responsabilizzate, in­sieme agli uomini, del buon an-

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damento della società in cui vi­vono.

Delfina Dolza

Aa.Vv., Dai due versanti delle Alpi. Studi sull’emigrazione italiana in Francia, Alessan­dria, Edizioni dell’Orso, 1991, pp. 154, lire 25.000

Nel suo saggio su Temi, me­todi e fon ti nella recente lettera­tura italiana e francese, Renato Monteleone ripropone gli studi di sintesi sull’emigrazione per superare i limiti delle ricerche microdimensionali e delineare i mercati del lavoro tra Ottocen­to e Novecento, l’interdipen­denza economica di aree conti­gue separate politicamente co­me il Cuneese e Marsiglia. L’autore cita inoltre alcuni pos­sibili temi di ricerca: il ruolo dell’emigrazione come “mecca­nismo di ricostruzione della manodopera”, le sue compo­nenti economiche e politiche per una storia sociale della mo­bilità operaia, i suoi nessi con l’industrializzazione.

Anche lo studio di Michel Dreyfus, Le fon ti sull’emigra­zione italiana in Francia: come e perché?, offre spunti stimo­lanti intorno alle modalità di ri­cerca e collega le migrazioni al­la storia del movimento ope­raio. Ribadita la carenza delle fonti rispetto alle diverse onda­te migratorie per le distruzioni belliche, le esigenze della clan­destinità, gli orizzonti culturali dei curatori di archivio, Drey­fus sottolinea il carattere fuor­viarne dei materiali letti senza sufficiente intelligenza critica, la discrepanza tra il peso ogget­tivo dei fenomeni storici e la lo­

ro documentazione, la fram­mentarietà delle fonti nono­stante l’attivismo o per la mar­ginalità sindacale dei lavora­tori.

Gli altri contributi non ap­paiono conseguenti rispetto a tali premesse, presentano i ri­sultati di ricerche indipendenti, salvo la delimitazione di un am­bito geografico comune di stu­dio (Piemonte e Francia) e l’ac­cordo di collaborazione nel campo tra le università di Tori­no e di Aix-en-Provence; in ombra rimangono proprio i ca­ratteri distintivi delle aree di partenza e di arrivo, i loro lega­mi profondi.

Da “La Stampa” e “La Gaz­zetta del Popolo” degli anni venti si recuperano alcuni ele­menti dell’emigrazione tempo­ranea e permanente, clandesti­na e ufficiale, del fuoriusciti- smo (Nicola Giannotti), condi­zionati però dal controllo go­vernativo sui giornali. Numero­si sono i riscontri documentari necessari per approfondire la conoscenza dell’esodo negli an­ni tra dopoguerra e dittatura. Censimenti e passaporti, dati demografici e dei renitenti alla leva sono già noti per la scarsa attendibilità, poco significativi rispetto alle peculiarità di paesi come Scarnafigi e Paesana (Li­dia Craverso); “un’analisi det­tagliata di casi specifici” deve prendere in considerazione an­che le interdipendenze con l’e­sterno nutrite dall’emigrazione. In alcuni casi si ricorre alle let­tere per ricostruire le vicende di un gruppo familiare (Manuela Dossetti), in altri si insite sul te­ma delle catene migratorie e dei legami parentali (Gérard Clau­de) o della mobilità degli immi­grati tra quartieri diversi a Mar­

siglia, senza però valutare il pe­so degli interessi edilizi (Marcel Dottori), sul bilinguismo e l’in­tegrazione religiosa (Jean-Char­les Vegliante e Laurent Cou­der). Si tratta tuttavia, nel com­plesso, di filoni secondari di ri­cerca.

Confermata la critica alle fonti, la tendenza comune è quella di limitarsi ad un rias­sunto del contenuto, senza ri­connettere gli avvenimenti par­ticolari con quelli di valenza na­zionale ed europea. L’emigra­zione sembra così appartenere a secoli diversi rispetto a quelli che hanno generato, ad esem­pio, la Comune parigina, gli scioperi e le repressioni, la rivo­luzione russa, il movimento in­ternazionale per la liberazione negli Usa degli emigrati italiani Sacco e Vanzetti, ed è invece tra Ottocento e Novecento uno dei fenomeni sociali più com­plessi e articolati. Limitarsi al­l’esame delle fonti più accessi­bili rischia di condurre a fre­quenti ripetizioni su argomenti settoriali; i documenti parlano non solo, e in primo luogo, di chi li ha prodotti, ma anche de­gli studiosi che vi ricorrono e del loro impegno per approfon­dire le ricerche.

Franca Modesti

Mario Silvestri, Riflessioni sulla Grande Guerra, Roma- Bari, Laterza, 1991, pp. VIII-206, lire 34.000.

È difficile recensire un libro di questo genere, poiché per molti versi se ne esce, alla fine della lettura, abbastanza scon­certati ed anche un po’ irritati. Scritto da un docente universi­

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tario del Politecnico di Milano che non è uno storico ma da an­ni si occupa anche di storia, il volume è certamente da leggere, pur se in un’ottica ben precisa e, oserei dire, quasi didascalica. Esso infatti si presenta come un fecondo terreno di riflessione ex contrario, istruendoci sul co­me non si scrive la storia (Paul Veyne, dove sei?), sui metodi da non usare in una corretta ri­cerca storiografica, sulle opere da non prendere a modello. Un pregio, certo, è innegabile: sia­mo davanti finalmente ad un lavoro che nel titolo rispecchia i propri contenuti, in quanto si tratta davvero di “riflessioni” sulla prima guerra mondiale, che però denunciano il piccolo difetto di essere un po’ troppo a ruota Ubera e di dar vita ad un coacervo composito di giu­dizi fortemente opinabili, sia nel merito sia nella cifra stilisti­ca (con una sintassi spesso in­voluta che a tratti, francamen­te, lascia perplessi).

L’autore non utilizza fonti di alcun tipo né documenti storio­grafici (che pure sull’argomen­to sono decisamente abbondan­ti) per suffragare le proprie af­fermazioni, le quali però si mo­strano assai nette, decise, gene­ralizzanti, lapidarie, fino a stri­dere con la carenza di precise li­nee metodologiche all’interno dell’opera. Vi sono pagine da elevare a paradigma, in cui spiccano riflessioni su temi e personaggi talmente complessi da meritare ben altro sforzo cri­tico-analitico, ben altra penna e, mi sia consentito, ben altra umiltà scientifica e intellettuale. Scoviamo così assiomi scultorei (che non ammettono dialettica e danno il tono dell’intero im­

pianto del libro), ad esempio sull’esperienza della rivoluzione francese, sminuita in due battu­te en passant (pp. 6-8) oppure su Marx, definito “pseudoteori­co” tout court (p. 9); sull’evo­luzione tecnico-tattica degli eserciti (pp. 10-20) o sul com­plesso fenomeno dell’imperiali- smo (pp. 19-22); sulla storia russo-sovietica, verso la quale l’autore mostra una singolare superficialità (tra le altre cfr. pp. 41 e 156) oppure su Hitler, la sua figura personale, la sua politica e un intero pezzo di storia europea liquidata an- ch’essa in meno di due senten­ziose battute (pp. 155-161); op­pure sulla fine e la funzione storica dell’impero austro-un­garico, rimpianto senza grandi sforzi di analisi (p. 191); per fi­nire in apoteosi con disarmanti interpretazioni del coloniali­smo, tanto eurocentriche da ap­parire ormai caricaturali, alla fine di questo millennio e dopo tanto impegno storiografico (pp. 198-199) e con aforismi sulle responsabilità nello scop­pio del secondo conflitto mon­diale, di cui Roosevelt sarebbe stato il principale colpevole... (p. 200). Il tutto condito, d’al­tro canto, da frequenti spunti “fascinosi” (soprattutto nei passi di cronaca degli avveni­menti, spesso incalzanti e ben condotti, e nell’affresco sulle innovazioni tecnologiche legate agli sviluppi bellici), che ri­schiano di irretire il lettore me­no esperto e di trascinarlo in questa cavalcata che rende sem­plice e semplicistica la com­prensione della storia europea e mondiale, con una troppo greve apoteosi del modello di civiltà bianca, occidentale, destinata a guidare i destini del pianeta.

C’è un solo passo che vorrei presentare al potenziale lettore, scelto tra i tanti che sono co­stretto a tralasciare per gli evi­denti limiti di spazio. A p. 160 Mario Silvestri, dopo aver par­lato degli accordi di Monaco, scrive: “Se Hitler fosse morto il 1° ottobre 1938 oggi sarebbe ri­cordato dai tedeschi come il più grande uomo di Stato germani­co dopo Bismarck (...). Al pas­sivo aveva solo [sic!] i suoi at­teggiamenti antisemiti e le leggi di Norimberga, che però non si erano ancora tradotte in eccidi e crudeltà, ma solo in vessazio­ni, da cui è difficile che ogni statista sia esente”. Questa bre­ve citazione vuol essere, para­dossalmente, uno stimolo a leg­gere tutto intero il volume, ad “interrogarlo” con metodo maieutico traendone insegna- menti e avvertimenti sui pericoli che corriamo nel vederci “ri­scrivere” sotto gli occhi la sto­ria non in maniera profonda, analitica, e storiograficamente “sofferta”, ma attraverso gli ammalianti canti di sirene della semplificazione e dei giudizi dogmatici (che, per di più, tro­vano Vimprimatur da Laterza). Penso a quanto aleggino lonta­ne da questo libro le acquisizio­ni della ultima e più valida sto­riografia, sia italiana che inter­nazionale, sulla grande guerra, e rifletto su quanto stridano queste Riflessioni al cospetto, per esempio, dei risultati, frutto di decennali ricerche e di un metodo da seguire conseguiti da Antonio Gibelli (L ’officina del­la guerra, Torino, Bollati Bo- ringhieri, 1991, recensito in “Italia contemporanea”, 1991, pp. 517-519).

Enzo Fimiani

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Rassegna bibliografica 579

Silvia Inghirami, La predica inutile dei liberisti. La lega anti­protezionista e la questione do­ganale in Italia (1904-1914), Milano, Angeli, 1991, pp. 176, lire 24.000.

Prevalentemente basato sulla pubblicistica coeva e su fonti edite, questo lavoro delinea al­cuni aspetti e problemi della polemica tra liberisti e protezio­nisti in età giolittiana, non con l’obiettivo di “riaprire ancora una volta il dibattito sul valore del protezionismo ed aggiunge­re nuovi giudizi alle esaurienti analisi compiute dagli storici dell’economia sullo sviluppo in­dustriale italiano”, bensì piut­tosto di “offrire un contributo alla ricostruzione di un brano della storia politica dell’Italia liberale e di ridare voce a perso­naggi trascurati dalla storiogra­fia” (p. 12). L’accento forte ca­de sul ruolo svolto nella Lega da uomini come Salvemini, De Viti de Marco, Giretti, Einaudi, Cabiati, Borgatta, Carano Donvito, Prato, Luzzato, i qua­li, opponendosi “all’autoritari­smo statale” e reclamando “la libertà economica”, intesero “perseguire e completare la bat­taglia di fine secolo per la liber­tà politica” . Che tale finalità fosse centralissima nella loro azione il libro cerca di dimo­strare, analizzando i contenuti soprattutto ideologici del con­fronto tra le parti e fornendo un corpus argomentativo di no­tevole interesse (pp. 45-88), da cui si evincono varie ragioni della ‘diversità’ tra il liberismo postunitario, entrato parzial­mente in crisi già a metà degli anni settanta ma perdente su tutta la linea solo nella metà de­

gli anni ottanta (tariffa del 1887), e quello di periodo gio- littiano, pur nella comunanza di alcuni parametri teorici mu­tuati da maîtres à penser sul ti­po di Ferrara, di Pantaleoni, di Pareto.

Secondo Silvia Inghirami i partigiani della Lega non sareb­bero stati incapaci di compren­dere la natura dei problemi eco­nomici connessi col processo di industrializzazione del paese: li avrebbero invece compresi, giu­dicandone inaccettabile i costi, dal momento che con l’opzione protezionista lo Stato “si faceva garante di interessi privati, di­spensatore di privilegi a gruppi economici organizzati” (p. 10), “strumento delle clientele e di minoranze parassitane”. In al­ternativa essi avrebbero inteso “proseguire e completare la battaglia di fine secolo per la li­bertà politica”, trovando con­vergenti su questo terreno radi­cali, democratici e socialisti, concordemente impegnati nella “difesa dei diritti delle masse consumatrici, delle maggioran­ze popolari contro gli abusi del­le classi privilegiate” (p. 11; cfr. pp. 89-164). Sul piano concre­tamente attuativo la Lega non conseguì apprezzabili risultati, ma col suo “progetto di rinno­vamento democratico” trasmise i valori della tradizione liberista alle “generazioni successive” (p. 13).

Tutto ciò è sostenuto con pas­sione e con efficacia espositiva, rimovendo però un quesito cen­trale, a suo tempo già lucida­mente posto da Gerschenkron, e non solo da lui: se cioè il modello di sviluppo liberista fosse applicabile al contesto ita­liano, in che modo e con quale

coerenza, soprattutto tenendo conto dell’ancora complessiva arretratezza economica del pae­se, della carenza di capitali, del­la povertà del mercato ecc., os­sia di quegli elementi che dove­vano essere in qualche modo forzati, e che lo furono, sia pu­re in ritardo, con il concorso anche dei cosiddetti “fattori so­stitutivi”, onde consentire all’I­talia di riuscire a collocarsi tra le aree industrializzate dell’Eu­ropa.

Paolo Pecorari

Michele Lungonelli, La Ma­gona d ’Italia. Impresa, lavoro e tecnologie in un secolo di side­rurgia toscana (1865-1975), Bo­logna, Il Mulino, 1991, pp. 197, lire 20.000 (Fondazione Assi).

Aggiungendosi alla sempre più nutrita schiera di storie d’impresa patrocinate negli ul­timi anni dalla Fondazione As­si, lo studio di Michele Lungo­nelli — inserendosi in una tra­dizione storiografica concentra­tasi principalmente sulla nascita e lo sviluppo della siderurgia pubblica, e sul percorso im­prenditoriale di alcuni grandi commis d ’Etat quali Agostino Rocca e Oscar Sinigaglia — tro­va una sua originale collocazio­ne ricostruendo le vicende di una delle maggiori e più antiche imprese siderurgiche private, appunto la Magona d’Italia, fondata a Piombino nel 1865. L’asse portante della ricerca è senz’altro rappresentato dal­l’attenzione costantemente pre­stata alla dimensione tecnologi­ca, ai processi di innovazione e alla dipendenza dell’impresa

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580 Rassegna bibliografica

piombinese dall’estero (prima dalla Gran Bretagna e successi­vamente dagli Stati Uniti) nel campo della laminazione degli acciai e dei processi di stagnatu- ra. Pur attenendosi senza diva­gazioni ai canoni interpretativi e stilistici tipici della business history, è tuttavia merito del­l’autore non aver rinunciato a tracciare un quadro, sintetico ma efficace, dell’ambiente so­ciale, culturale e politico nel quale matura e si sviluppa l’e­sperienza imprenditoriale della Magona. Degne di nota risulta­no a tale proposito le pagine iniziali dedicate a tratteggiare il profilo delle comunità d’affari straniere operanti nella Tosca­na dell’Ottocento, dalle quali prenderà avvio, oltre all’impre­sa siderurgica piombinese, l’av­ventura mineraria della Monte- catini. Analogamente, pur indi­viduando sin dalla vigilia della prima guerra mondiale una spiccata tendenza dell’azienda (a fronte di una compagine pro­prietaria composita e priva di forti azionisti di riferimento) al­la conduzione manageriale, sot­to la guida di due figure dal profilo prevalentemente tecnico quali Emanuele Trigona e Artu­ro Piccioli, allo stesso tempo Lungonelli non tralascia di ri­marcare il ruolo determinante da questi svolto nell’afferma­zione del fascismo piombinese, con una parabola politica ana­loga, sia pure in chiave minore, a quella dell’astro nascente del­la Montecatini, Guido Donega- ni. Significativa sotto questo aspetto appare la carriera poli­tica di Trigona, deputato dal 1925 e poi senatore, sottosegre­tario alle Corporazioni negli anni 1929-1932, presidente de­

gli industriali toscani nonché, dal 1933, presidente dell’Alfa Romeo su incarico dellTri. Di­mensione politica e dimensione imprenditoriale dell’attività di Trigona trovano il loro coeren­te punto di giunzione nella in­tensa partecipazione alla politi­ca consortile del settore dell’ac­ciaio (del 1928 è la nascita del Consorzio produttori di banda stagnata) e nella crescente isti­tuzionalizzazione, corporativa e non, delle decisioni di investi­mento e di specializzazione pro­duttiva; da questo punto di vi­sta, di grande interesse si sareb­be rivelata l’analisi del ruolo svolto dalla Magona nelle lun­ghe lotte degli anni trenta tra ‘pubblici’ e privati sul ciclo in­tegrale e sul piano autarchico, aspetto che viceversa l’autore tralascia inspiegabilmente di af­frontare.

Più esaurienti risultano i ca­pitoli relativi al secondo dopo­guerra. Qui, rispetto alla rinno­vata opzione strategica pubbli­ca del ciclo integrale e alla tra­sformazione internazionale del settore legate alla nascita della Ceca nel 1951, l’autore sottoli­nea le forti difficoltà incontrate dal nuovo gruppo dirigente — guidato da Gaetano Casoni, fi­gura di rilievo legata ai gruppi elettrici Sade e Selt-Valdarno, e da Piero Ridolfi, proveniente dalla Vetrocoke di Porto Mar- ghera dopo esser passato attra­verso l’Uva e la Fiat — ad ade­guarsi al mutato scenario (tra­sformazioni tecnologiche, com­petizione stato-privati, progres­siva apertura al mercato inter­nazionale), anche in seguito ai contrasti con la Siac Corniglia- no per la fornitura di laminati e alla penalizzazione della Mago­

na da parte delle scelte ministe­riali volte all’armonizzazione della produzione siderurgica italiana con i programmi euro­pei. Solo in seguito al rinnova­mento degli impianti finanziato coi fondi Imi-Erp e all’abban­dono della produzione diretta di acciaio, la crisi dell’azienda — culminata nei licenziamenti del 1953-1956 — troverà alla fi­ne degli anni cinquanta un pun­to di svolta, anche grazie alla riapertura del canale politico rappresentato dalla intensa azione di lobbyng esercitata dal deputato democristiano Giu­seppe Vedovato. In questa nuo­va fase, il rinnovamento del gruppo dirigente in base a con­notati manageriali assai più spiccati, l’ammodernamento produttivo sulla base di tecno­logia americana, la diversifica­zione del prodotto e una situa­zione del mercato internaziona­le favorevole con domanda in espansione, conducono ad una fase di rilancio “ingegneristico- produttiva”, mentre dal punto di vista delle funzioni aziendali (amministrativa, finanziaria, commerciale) i progressi si con­fermano lenti e diseguali. Il problema delle “due velocità” di sviluppo dell’azienda si ri­proporrà infatti anche nella successiva gestione Fazzi-Gar- latti, che pure attraverso la de­cisa specializzazione della Ma­gona riuscirà ad elaborare una strategia congiunturale in grado di resistere alla forte crisi del settore siderurgico negli anni settanta. La ricostruzione delle vicende dell’azienda si inter­rompe con l’acquisizione della Magona da parte del gruppo Lucchini.

Stefano Battilossi

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Rassegna bibliografica 581

Arnaldo Cherubini, Benefi­cenza e solidarietà. Assistenza pubblica e mutualismo operaio 1860-1900, Milano, Angeli, 1991, pp. 398, lire 40.000.

Arnaldo Cherubini aggiunge un nuovo importante tassello alla storia dell’assistenza pub­blica in Italia alla fine dell’Ot­tocento. Sono noti i suoi nume­rosi studi sui metodi assisten­ziali, sul mutuo soccorso, sulla previdenza sociale e sul rappor­to tra medicina e lotte popolari; non stupisce, quindi, la scelta di approfondire gli aspetti stori­co-giuridici dell’intervento legi­slativo in materia di beneficen­za nella fase cruciale della sua trasformazione da “semplice ti­tolo al soccorso” a diritto rico­nosciuto. L’autore parte dalla ricostruzione dei provvedimenti legislativi del 1859 che prevede­vano la costituzione, presso ogni comune, di una Congrega­zione di carità, quale ufficio pubblico di beneficenza eletto con voto popolare e deputato all’amministrazione del patri­monio delle opere pie e si inol­tra nell’esame del controllo sta­tale di esse. A fianco e in paral­lelo alla progressiva conquista, da parte dello Stato, di un set­tore strategico della cosiddetta amministrazione sociale, e im­portante veicolo di formazione del consenso politico dei ceti più deboli della società, l’auto­re colloca l’associazionismo mutualistico cattolico e operaio negli anni compresi tra il 1860 e il 1900.

L’analisi squisitamente poli­tica delle vicende che accompa­gnarono l’affermazione della legge 3 agosto 1862, n. 753, re­lativa al controllo e alla tutela

delle istituzioni assistenziali, consente di cogliere quanto fos­se “indulgente” e cauto, nella fase immediatamente postuni­taria, l’atteggiamento della De­stra nei confronti di un settore a cui si concedeva la più com­pleta autonomia amministrati­va. Diverso impatto sulle forze politiche ebbe la pubblicazione nel 1880 dei volumi della più grande inchiesta sulle opere pie dell’età liberale,mirata a verifi­care l’entità del patrimonio de­gli istituti di beneficenza e la correttezza delle gestioni ammi­nistrative e contabili. L’impo­nente ricchezza costituita dal settore assistenziale veniva di­stribuita — secondo quanto emergeva dalla ricerca — da istituzioni caritative che si con­notavano come “enti economi­ci” su cui lo Stato non esercita­va un controllo adeguato. Que­ste, inoltre, venivano gestite da personaggi politicamente rile­vanti nelle amministrazioni lo­cali e in grado, quindi, di con­dizionare ampi settori dell’elet­torato attivo, sensibile — come acutamente sottolinea Cherubi­ni — alla funzione di stretto controllo sociale che le istitu­zioni assistenziali potevano esercitare su quelle sacche della popolazione considerate margi­nali e dunque potenzialmente criminali.

L’ampio dibattito dottrinale di indirizzo giuspubblicistico che affrontò — soprattutto ad opera di Vittorio Emanuele Or­lando — la delicata questione del carattere pubblico che con­notava gli organi della benefi­cenza in ragione dello scopo perseguito e quindi dell’attività svolta, segnò il passaggio della questione “caritativa” dall’an­

gusto campo dell’ordine pub­blico a quello di una moderna assistenza sociale. In tale conte­sto l’autore colloca e ricostrui­sce con efficacia le tappe e gli esiti giuridici e politici della ri­forma crispina delle “istituzioni pubbliche di beneficenza” del 1890, che si poneva come obiet­tivo la semplificazione e la deli­mitazione dei costi dell’ammi­nistrazione delle opere pie; la responsabilizzazione degli am­ministratori; l’applicazione di un più rigido controllo statale; la regolamentazione normativa del domicilio di soccorso; la trasformazione dei fini delle opere pie. La crescita del mu­tualismo operaio, le cui radici sono ricercate dall’autore nel­l’associazionismo milanese e piemontese dell’ultimo decen­nio preunitario, viene ricostrui­ta dettagliatamente tanto nel suo percorso politico volto al riconoscimento giuridico delle nuove organizzazioni, quanto nell’affermazione progressiva dei principi fondamentali della legislazione sociale moderna. Di grande interesse risulta la ri­flessione di Cherubini sul con­fronto che le forze politiche più profondamente legate alla cul­tura popolare e operaia, i catto­lici e i socialisti, furono costret­te ad effettuare con il fenome­no associazionistico e previden­ziale che andò connotandosi, nel tempo, per i suoi caratteri ora squisitamente politici, ora sindacali.

Maria Letizia D’Autilia

Diego Robotti e Bianca Gera, Il tempo della solidarietà. Le 69 società operaie che fondarono la Camera del lavoro di Torino,

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582 Rassegna bibliografica

Milano, Feltrinelli, 1991, pp. 288, lire 25.000.

Sulla scorta di un’ampia mes­se di materiali, dati statistici e informazioni storiche (attinti al patrimonio documentario che sulla galassia del mutualismo è conservato presso l’Archivio di Stato di Torino, l’Archivio sto­rico della Città di Torino, l’Isti­tuto Gramsci, e diverse raccolte e biblioteche pubbliche e priva­te del capoluogo piemontese), gli autori rendono la situazione economico-sociale e il clima po­litico in cui il mondo operaio torinese decide tra il 1890 e 1891 di fondare la Camera del lavoro. Restano tuttavia in om­bra nella ricerca le figure dei promotori e dirigenti delle asso­ciazioni mutualistiche, mentre non si dà conto del dibattito che si svolge nel consiglio co­munale di Torino sul costituen­do organismo e che registra nel febbraio 1891 gli interventi de­gli esponenti della società poli­tica e dell’intellighenzia cittadi­na, in primis Edmondo De Amicis.

È però opportuno collegare, come fanno gli autori, la nasci­ta e lo sviluppo della Camera del lavoro al moto di elevazione morale e materiale dei lavorato­ri e dei ceti popolari coadiuvati dalle società di mutuo soccorso che negli anni successivi all’U­nità vanno sorgendo in molte città della penisola come prima elementare forma di organizza­zione operaia moderna. Nel 1862 si contano in Italia 443 so­cietà (con 111.608 soci effettivi, di cui 10.198 femmine e 202 fanciulli), di cui 133 in Piemon­te, 47 in provincia di Torino e 14 nel capoluogo. La pratica

del mutuo soccorso contribui­sce a unificare il mondo del la­voro e accresce il peso specifico e l’incidenza dei lavoratori co­me classe in un universo domi­nato dalla borghesia capitalisti­ca. Tale pratica, ha osservato Nello Rosselli nel suo classico saggio su Mazzini e Bakunin (Dodici anni di movimento ope­raio in Italia. 1860-1872, a cura di Leo Valiani, Torino, Einau­di, 1967, pp. 49-50), “se pur di necessità ristretta entro i limiti del sussidio ai soci bisognosi (sola eccezione la cassa di resi­stenza fra i tipografi)”, si dimo­stra efficace: “primo addestra­mento degli operai alla discipli­na dell’organizzazione, [la pra­tica del mutuo soccorso] fece germogliare in essi l’idea che la classe lavoratrice ha interessi suoi propri, che possono essere contemperati, ma sono certo di­stinti dagli interessi delle altre classi sociali”.

L’avvio della ricerca di Diego Robotti e Bianca Gera è stato il riconoscimento di un “legame, finora scarsamente valorizzato, tra il preesistente associazioni­smo operaio e la nascente Ca­mera del lavoro di Torino” (p. 5). Di qui gli autori procedono per ricostruire l’apporto delle 69 società di mutuo soccorso che partecipano alla creazione di un organismo unitario che sia espressione degli interessi di tutti i lavoratori torinesi. Ro­botti e Gera sintetizzano in al­trettante schede monografiche la fisionomia e l’attività delle 69 società, fornendo “accanto ai dati storico-istituzionali, [...] notizie sulla vita associativa, sui dibattiti, sull’evoluzione politi­ca interna e, soprattutto, sulle concrete iniziative che [...] dan­

no la misura delle reali tenden­ze di un sodalizio” (p. 93). La Camera del lavoro di Torino in­cide poi con la sua attività sul­l’evoluzione interna dell’asso­ciazionismo e induce “molti so­dalizi a mettere all’ordine del giorno delle loro assemblee te­mi che erano di fatto politici” (pp. 6-7) favorendo, grazie al­l’esistenza di una struttura aperta a tutti, la crescita della volontà di partecipazione.

Con i volumi II tempo della solidarietà e II tempo del riposo la Camera del lavoro torinese ha voluto commemorare il cen­tenario della propria fondazio­ne, alla quale prese parte la Cooperativa di consumo e di mutua assistenza Borgo Po e Decoratori, coordinatrice del gruppo di ricerca nel 1990- 1991.

Giancarlo Bergami

Renata Allio, Bianca Gera, Giorgina Levi, Renato Mon- teleone, Gianni Oliva, Il tem­po del riposo. Squarci di vita sociale del proletariato torinese di fine secolo, Milano, Feltri­nelli, 1991, pp. 117, lire 20.000

I saggi riuniti nel volume col- lettaneo rivisitano le consuetu­dini, i bisogni e i diversi aspetti del tempo del riposo — scarso invero, e non garantito a tutti né retribuito — degli operai del capoluogo subalpino all’alba della seconda rivoluzione indu­striale. Si tratta di aperçus se­riamente documentati su una condizione di esistenza oppres­sa dalla fatica e dalla povertà. Particolarmente tormentata e falcidiata dalla pellagra e dalle malattie legate alla denutrizione

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era la popolazione delle campa­gne non solo piemontesi. In Piemonte anzi i casi di pellagra aumentarono “con lo sviluppo capitalistico dell’agricoltura, quando alla piccola proprietà contadina, che garantiva condi­zioni meno peggiori di vita, succedette la grande affittanza e al massaro subentrò il brac­ciante salariato” (cfr. il saggio di Giorgina Levi, L ’alimenta­zione dei lavoratori in Piemon­te nell’ultimo ventennio del se­colo X IX , p. 27).

Il problema della denutrizio­ne, trascurato per decenni dai governanti, diverrà molla e mo­tivo dibattuto di crescita cultu­rale e organizzativa dei lavora­tori, che con l’appoggio di per­sonalità (tecnici, avvocati, giu­risti, scienziati, medici, igieni­sti, artisti e intellettuali) della borghesia progressista promuo- veranno “istituzioni da loro controllate quali le società di produzione e di credito, le can­tine e le latterie sociali, le stesse casse rurali di prestito, lottando contemporaneamente contro l’evasione scolastica che nelle zone rurali raggiungeva il 70 per cento” (p. 29).

Nuto Revelli e altri ricercato­ri hanno ragguagliato che nella parca e austera cucina dell’Alta Langa “nel secolo scorso le ca­stagne e la polenta erano la ba­se dell’alimentazione. Il pane non compariva mai a tavola. Non si seminava grano, perciò non si mangiava pane” (p. 30). Così Edmondo De Amicis, nel­la Carrozza di tutti (1899), era colpito dal disagio dei cocchieri che consumavano durante il la­voro sul predellino della carroz­za il pranzo consistente in una minestra fredda di riso e fagioli

consegnata loro dai familiari al capolinea. La fame di Giors, il conducente protagonista della Carrozza di tutti, era stimolata dalla “vista delle trattorie appa­recchiate all’aria aperta [...] Ah! esclamava addocchiandole di passata, con che gusto mi ci metterei a sedere!”. Agli spunti deamicisiani sono accostabili analoghe notazioni del roman­ziere piemontese coevo Luigi Pietracqua.

Ricco di risvolti sociologici e psicologici è il rapporto — af­frontato da Gianni Oliva (Sport e classi popolari a Torino negli ultimi decenni del X IX secolo) — tra gli avvenimenti sportivi e le classi popolari del tempo, be­ne avvertendo con Stefano Ja- comuzzi che “lo sport non in­fluenza le abitudini e le scelte del tempo libero, per altro mol­to scarso e precario”. Si è lon­tani dal coinvolgimento di mas­sa negli spettacoli calcistici o ci­clistici che sarà proprio dei pe­riodi successivi, sebbene Oliva opportunamente rilevi che sullo scorcio dell’Ottocento “nelle aree urbane del Nord si delinea­no i tratti di quella che sarà una costante del rapporto classi po- polari-sport: la fruizione passi­va, l’osservazione esterna sosti­tuita alla pratica” (p. 63).

Variegato risulta il quadro, tratteggiato nei saggi di Renato Allio (Tra libri e giornali. Let­ture operaie di fine Ottocento) e Bianca Gera {“Buon senso e buon cuore”: un titolo di libro, un progetto educativo delle bi­blioteche delle società operaie), delle letture dei lavoratori alfa­betizzati e dei libri offerti in prestito dalle biblioteche delle associazioni operaie. Una fun­zione importante in questo con­

testo spetta alle scuole profes­sionali e a quelle società di mu­tuo soccorso che istituirono an­che una biblioteca e “propagan­darono incessantemente l’accul­turazione presentandola come fattore di promozione e riscatto sociale e come elemento prima­rio di civiltà” (R. Allio, Tra li­bri e giornali, cit., p. 78). La cultura operaia, che a taluni os­servatori appare sfuggente ed è certo poliedrica e problematica, riceve nei saggi di questo volu­me attenzione partecipe e con­torni meglio definiti.

Giancarlo Bergami

Giovanni P irodda, Sardegna, Brescia, La Scuola, 1992, pp. 204, lire 25.000.

L’opera di Giovanni Pirodda fa parte di una collana di lette­ratura delle regioni d’Italia. Le­gati tra loro da un disegno idea­le unitario teso a dimostrare l’e­sistenza, nella letteratura italia­na, di realtà locali e regionali fortemente differenziate ma an­che di momenti culturali molto intensi di dialogo e di scambio, i volumi possiedono tutti una loro piena autonomia. Ognuno di essi, infatti, contiene un’in­troduzione storico-letteraria di ampio respiro, con riferimenti puntuali al contesto socio-cul­turale ed un’antologia di testi significativi introdotti e com­mentati, oltre ad un’eccellente guida bibliografica. Ad ispirare l’operazione editoriale è la con­vinzione che i paradigmi inter­pretativi tradizionali ed in pri­mo luogo quello storiografico unitario ed accentrato, siano di­venuti insufficienti a dar conto

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di un panorama letterario come quello italiano geograficamente articolato. Senza dimenticare che le più recenti acquisizioni teoriche sottolineano la necessi­tà di porre in relazione il fatto letterario con i movimenti di pensiero ed i circuiti culturali, nelle loro differenti connotazio­ni locali e nel loro interagire con le dinamiche socio-antro­pologiche.

Ma veniamo al volume cura­to da Pirodda. A guidarne l’im­postazione è innanzitutto l’esi­genza di sfatare alcune immagi­ni ed alcuni luoghi comuni, molto diffusi quando si parla di cultura e di letteratura in Sarde­gna. Il riferimento è soprattutto ad una certa visione dell’isola come di una terra profonda­mente arretrata e per ciò stesso del tutto ai margini delle scuole e dei movimenti culturali più importanti a livello nazionale ed europeo; molto vicina a que­sta un’immagine monolitica e mitica della cultura sarda, for­temente improntata all’affer­mazione della propria identità etno-storica. Ne discende, quando si debba operare una selezione della produzione arti­stica, il privilegiamento delle voci rimaste esenti da contami­nazioni ‘esterne’ ed il discono­scimento di egemonie culturali e di aree di influenza estranee alla tradizione antropologica e culturale isolana. A giudizio dell’autore, invece, assumere un’ottica pluricentrica e pluri­lingue è indispensabile quando si vogliano ricostruire le vicen­de letterarie di un’isola come la Sardegna che nei secoli ha subi­to l’alternarsi di differenti do­minazioni straniere, oltre che di persistenti egemonie culturali e linguistiche. Se in epoca spa­

gnola, per esempio, si arriva a scrivere, oltre che in catalano e castigliano, in sardo, in italia­no, in latino e in greco, non ci sarà ragione di stupirsi se tal­volta è lo stesso autore ad uti­lizzare lingue diverse. Queste considerazioni, oltre a restituir­ci l’immagine di una Sardegna per nulla refrattaria alle in­fluenze culturali, ci presentano un quadro assai ricco e variega­to degli stessi produttori: lette­rati ed artisti di rilevanza inter­nazionale, dalla vasta ed enci­clopedica cultura, in grado di utilizzare differenti registri lin­guistici e di passare attraverso stili e generi letterari differenti.

Che di un unico centro non si possa parlare neppure per ciò che riguarda la Sardegna al suo interno è ormai acquisizione in­discussa. Forti differenze infat­ti sussistono tra le diverse zone interne e fra gli stessi centri ur­bani. Questa frammentazione del quadro culturale, lungi dal significare marginalità o arre­tratezza, denota 1’esistenza nel panorama letterario di elementi fortemente eclettici e del conti­nuo interagire di influssi forma­li di scuola e di produzioni ori­ginali autoctone. Esistono inol­tre vere e proprie forme di spe­cializzazione artistica, partico­larmente evidenti quando si tratta di produzione letteraria in lingua sarda: basti pensare, per esempio, alla distinzione tra la poesia e la prosa che impie­gano varietà dialettali differen­ti, la poesia il lugodorese e la prosa, anche quella teatrale, il campidanese. L’antologia di Pirodda dedica un ampio spa­zio a questo filone della produ­zione letteraria in sardo, so­prattutto a partire dal Settecen­

to, quando acquista notevole ri­levanza per la sua grande diffu­sione sociale e per i legami assai stretti che si stabiliscono tra il produttore ed i fruitori, tra l’artista ed il suo pubblico. La “sardità” di questi artisti, oltre che nell’impiego della lingua sarda in tutte le sue varietà dia­lettali, si esprime attraverso so­luzioni narrative e poetiche di grande impatto emotivo e so­ciale. I componimenti letterari offrono un quadro desolante di miseria delle campagne sarde, ma spesso particolari coloriture poetiche o sottolineature umo­ristiche riflettono fermenti di li­bertà o istanze autonomistiche che trovano in altre sedi la loro più compiuta espressione.

Per concludere, con questo lavoro Pirodda offre una vasta ed approfondita ricostruzione storico-cronologica della pro­duzione letteraria in Sardegna, dedica particolare attenzione all’analisi delle condizioni stori­co-culturali da cui ‘emerge’ il prodotto artistico e non esclude tutte quelle espressioni culturali un tempo considerate extralet­terarie, come la letteratura se­micolta o i prodotti dell’arte verbale orale e tradizionale. In quest’ottica trovano ampio spa­zio quegli autori, non necessa­riamente letterati ma scrittori di politica, di sociologia e di an­tropologia, che in questo secon­do dopoguerra, in Sardegna, sono stati i protagonisti di un ampio ed approfondito dibatti­to sulle tematiche autonomisti- che, sul ruolo degli intellettuali e sulla funzione della cultura. Quando negli anni sessanta si apre una stagione di grandi ten­sioni ideali e progettuali riguar­do al futuro dell’isola, anche gli

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intellettuali sardi ricercano e ri­vendicano un impegno in prima linea per la rinascita materiale e culturale del popolo sardo. Da questa temperie autonomistica, caratterizzata anche da una for­te trasversalità dell’impegno po­litico, risultano certamente in­fluenzati scrittori come Giusep­pe Dessi, Salvatore Cambosu, Giuseppe Fiori, Francesco Ma- sala e Maria Giacobbe, la cui produzione non può essere ana­lizzata a prescindere da questo clima. La loro ricerca, infatti, è duplice: da un lato promuovere la conoscenza documentata del­la realtà sarda con un’ottica tut­ta daH’interno, dall’altro ricer­care soluzioni narrative che si ispirino ai modelli nazionali.

Un’analisi puntuale ed ag­giornata delle scelte linguistiche e stilistiche di alcuni scrittori sardi del Novecento è l’oggetto dell’ultimo libro di Cristina La- vinio, Narrare un’isola (Roma, Bulzoni, 1991). L’autrice si in­terroga sulle ragioni di un desti­no che accomuna gli scrittori sardi di questo secolo, quello di costruire il proprio mondo nar­rativo sui luoghi, sulla storia, sui miti e sulla lingua della pro­pria terra d’origine. In realtà si è trattato sempre di un processo più complesso di andata e ritor­no: il progressivo allontana­mento da una realtà locale vis­suta come provinciale ed angu­sta verso universi linguistici e letterari di più ampio respiro; il ritorno al proprio mondo, nel tentativo di conoscerlo, di do­cumentarlo, di raccontarlo in forma sublimata ma partecipe. In quest’ottica il rapporto dello scrittore sardo con la propria lingua diventa emblematico di una situazione complessa ed

ambigua, che l’autrice cerca di cogliere attraverso l’analisi del tessuto linguistico dei testi di al­cuni grandi narratori sardi del Novecento: Grazia Deledda, Giuseppe Dessi, Salvatore Satta ed alcuni altri. Ne emerge un panorama assai variegato di so­luzioni individuali, che hanno in comune un continuo lavorio sui testi dal punto di vista lin­guistico e l’impiego a fini narra­tivi di dialettalismi o di forme di italiano regionale derivanti dal mondo dell’oralità. Un lavoro d’avanguardia questo di Lavi- nio che, unitamente al testo cu­rato da Pirodda, ci restituisce l’immagine di una letteratura regionale non più intesa come minore o marginale, ma in rap­porto di complementarietà con la letteratura italiana.

Luisa Maria Plaisant

Simona Lunadei, Testaccio: un quartiere popolare. Le donne, gli uomini e lo spazio della peri­feria romana, Milano, Angeli, 1992, pp. 149, lire 26.000.

Roma come Milano città eu­ropea: l’amministrazione muni­cipale capitolina sperimenta, negli anni del giolittismo, mo­delli avanzati di governo della città e di organizzazione sociale laica dei ceti popolari per molti versi analoghi, suppure nella circoscritta area del quartiere, a quelli del capoluogo lombardo e delle grandi metropoli europee. È questo il messaggio che si co­glie leggendo il saggio di Simo­na Lunadei sul quartiere Testac- cio di Roma.

La ricerca, che prende spunto dall’indagine condotta da Do­menico Orano nel 1910 su que­

sto particolare territorio desti­nato a diventare area produttiva della città e nello stesso tempo spazio residenziale, costituisce un interessante esperimento sto­riografico di ricostruzione del- l’indentità collettiva degli abi­tanti di un quartiere, i quali rie­scono a conseguire la propria integrazione alla città soltanto in quanto comunità urbana consapevole dei propri luoghi e dei propri spazi di vita. Lo stu­dio, in tal senso svela aspetti inediti e particolarmente signifi­cativi del processo di moderniz­zazione che attraversò la capita­le negli anni compresi tra la fine del secolo scorso e la grande guerra soprattutto per la capaci­tà progettuale espressa, secondo linee già sperimentate nelle più importanti metropoli europee, dai cittadini, dagli amministra­tori, dagli ingegneri e da alcuni filantropi di formazione laica.

Le vicende amministrative e politiche dell’Istituto romano per le case popolari nell’età gio- littiana — l’ente economico, di­retto dal socialista Ivanoe Bo- nomi, che affidò agli ingegneri Magni prima e Pirani e Bellucci poi la realizzazione dei progetti per la costruzione dei fabbricati nel quartiere Testaccio — si col­locano nel contesto di una nuo­va cultura delTamministrazione della città, intesa finalmente co­me luogo di produzione e di consumo, ma anche come sede di socializzazione e di formazio­ne di una cultura urbana e urba­nistica al tempo stesso. Gli abi­tanti del quartiere, riuniti in co­mitati, inoltre, iniziarono ad “affermare — osserva l’autrice — il valore della continuità tra case, strade e piazze, tra luoghi deputati all’esperienza di vita privata e quelli deputati ad un

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ambito di relazioni allargate. Il quartiere è inteso come uno spa­zio composito, in cui le case so­no solo un elemento della co­struzione urbanistica, impor­tante, ma non sufficiente a sod­disfare i desideri di incontro e di relazioni”.

Laddove i ceti dirigenti laici e socialisti della giunta capitolina guidata da Nathan nel primo de­cennio del secolo, difatti, si im­pegnavano ad applicare i nuovi strumenti amministrativi che in alcune città del Nord come Mi­lano avevano consentito una ra­pida modernizzazione del tessu­to economico e sociale delle aree urbane, gli abitanti di Testaccio, dal canto loro, svilupparono ben presto la coscienza di essere soggetti titolari di diritti che sol­tanto le istituzioni pubbliche avrebbero potuto riconoscere e assecondare. Elementi di media­zione fondamentali, in questo graduale processo di integrazio­ne dei “testaccini” nella “città amministrativa” e nello Stato, furono alcuni personaggi come Orano che — in linea con una tradizione laica illuminata che interpretava il socialismo uma­nitario e il riformismo sociale come strumenti di “rieducazio­ne” e di riscatto dei ceti popolari in vista di un loro inserimento nella società civile — ebbero la capacità di orientare e sostenere la costituzione di organismi as­sociativi di base quali furono i numerosi comitati popolari di Testaccio. Protagonisti partico­larmente combattivi e sempre più consapevoli dei loro diritti, gli abitanti del quartiere si fece­ro promotori già nel 1905 di un “Comitato per il miglioramento economico e morale di Testac­cio”, che raccolse, fin dalla co­stituzione, le adesioni di tutte le

organizzazioni laiche della zona quali le associazioni di mestiere, le cooperative, le leghe operaie, le società di mutuo soccorso, i circoli, le associazioni politiche e le numerose associazioni di as­sistenza create, fino a quel mo­mento, da Orano. Alle iniziati­ve laiche si affiancò, in aperta concorrenza con esse, l’impe­gno dei padri salesiani nei setto­ri dell’educazione dei bambini e dell’organizzazione del lavoro femminile.

L’attenta ricostruzione della vita delle donne e degli uomini di Testaccio, provenienti per la gran parte dalla campagna ro­mana e dalle regioni più depres­se d’Italia, consente, infine, di comprendere di quale natura fossero le difficoltà incontrate da Orano nella realizzazione dell’ampio progetto di trasfor­mazione dei “testaccini” da gruppo socialmente “pericolo­so” e indistinto a cittadini con­sapevoli anche del loro ruolo di elettori. Il filantropo romano, tuttavia, pur perseguendo l’in­tegrazione dei ceti popolari sul­la base di quei modelli e com­portamenti di vita borghese che dominavano la cultura delle classi dirigenti italiane, non di­menticò mai di trovarsi, al di là di qualsiasi progetto culturale — come sottolinea in più occa­sioni l’autrice — di fronte a sog­getti sociali dotati di una identi­tà propria e di bisogni materiali ed esistenziali irrinunciabili.

Maria Letizia D’Autilia

Italia fascista

Marco Innocenti, L ’Italia del 1943. Come eravamo nell’anno

in cui crollò il fascismo, Mila­no, Mursia, 1993, pp. 208, lire28.000.

Con questo libro su “un an­no in cui succede di tutto” (so­no le parole che aprono l’intro­duzione), Marco Innocenti ri­prende la formula già sperimen­tata ne L ’Italia del 1940. Co­rn ’eravamo nel primo anno del­la guerra di Mussolini (Milano, Mursia, 1990): quella di una ri- costruzione cronachistica che alterna pubblico e privato, grande politica e vita quotidia­na, spaccati di avvenimenti ge­nerali e quadri di costume. Il racconto si innerva sui nessi e gli scambi tra i due territori. E se nel 1940 questo gioco di specchi rimandava una immagi­ne complessiva di separazione, talora di contrapposizione, tra il roboante bellicismo del regi­me ed una società civile rilut­tante ad abbandonare la routi­ne delle consuetudini piccolo borghesi, nel 1943 le due realtà tendono ad intrecciarsi ed a confondersi. Grande e piccola storia battono cammini paralle­li. Al rapido e drammatico tra­monto del regime corrispondo­no lo scoramento e la rabbia della popolazione per l’inaspri­mento delle condizioni di vita, la mancanza di sicurezza e pro­tezione, l’impotenza di fronte al disastro militare. Ciò che al­l’inizio della guerra era diviso, ora si ricongiunge: il crollo del­la dittatura prende corpo in un contesto di crisi nazionale, di cui la precarietà dell’esistenza collettiva ed individuale è solo un segnale, anche se il più facile da cogliere.

Per le ragioni ora dette i due libri — i due anni — vanno letti

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come segmenti di un unico per­corso, dentro al quale la diver­sità del 1943 rispetto al 1940 esige dall’autore un impegno più complesso, tale per cui la formula collaudata nel prece­dente volume mostra maggior­mente i propri limiti. La scrittu­ra si mantiene disinvolta e ricca di umori (anche se non di rado appesantita da eccessivi com­piacimenti bozzettistici), ma l’accumulo dei dettagli resta ben al di qua dell’ambizione, che pure affiora, di suggerire una compiuta ‘idea’ dell’Italia del 1943. C’è, per così dire, il catalogo delle situazioni, ma l’affollamento stesso dei parti­colari ostacola l’organizzazione della materia, condiziona nega­tivamente la dislocazione dei fe­nomeni in una prospettiva che ne renda palese la diversa rile­vanza. Perciò i fattori che con­corrono a delineare il quadro della patologia di guerra stenta­no a collegarsi tra loro e ad ac­quistare una adeguata capacità esplicativa. E il discorso rischia di incagliarsi nell’aneddoto, di allineare — sono gli spunti più semplici da sceneggiare — gli oggetti della cultura materiale indotti dalla guerra, e di confi­nare sullo sfondo, o ignorare, i riflessi della mutazione in corso su aspetti quali i ruoli femmini­li, le manifestazioni della reli­giosità, gli occhi con cui si guarda al denaro.

Non sono riserve improprie rispetto agli intenti divulgativi del volume. Esse nascono anche dal riconoscimento (già formu­lato in occasione del volume sul 1940: M. Legnani, La difficile scoperta del fronte interno’, “Italia contemporanea”, 1990, pp. 559-563) che il lavoro di In­

nocenti presenta una propria utilità (ed è per certi versi acco­stabile alle ricostruzioni di Gian Franco Venè) e che potrebbe trarre ulteriori vantaggi da un più diretto contatto con la sto­riografia. Sorprende, ad esem­pio, che tra i 91 titoli compresi nella “bibliografia essenziale” che chiude il volume, non sia nemmeno citata la biografia mussoliniana di De Felice, men­tre sono massicciamente richia­mate le opere di Bertoldi e Montanelli, Petacco e Spinosa e Biagi, quasi a suggerire la con­vinzione che il campo della di­vulgazione si sia ormai costrui­to uno spazio autosufficiente e possa comportarsi in modo del tutto autarchico.

Massimo Legnani

Fabrizio Ciano, Quando il nonno fece fucilare papà, a cu­ra di Dino Cimagalli, Milano, Mondadori, 1991, pp. 184, lire 29.000;Fabio P ittorru, Ciano, i gior­ni contati, Milano, Leonardo, 1991, pp. 766, lire 40.000.

A quasi mezzo secolo da quel processo di Verona che il Croce avrebbe giustamente definito “un delitto sopra un altro delit­to, e cioè un orrore”, sono stati pubblicati questi due nuovi libri sull’argomento. Diciamo subito che quello di Fabrizio Ciano poco o nulla di nuovo porta ri­spetto a quanto già si sapeva. Alla vicenda connessa al pro­cesso e alla fucilazione di Ga­leazzo Ciano sono dedicate sol­tanto una quarantina di pagine; il resto riguarda una biografia dell’autore che ha senz’altro il suo interesse ma che poco ha da

spartire col titolo drammatico. Nella narrazione l’autore cerca di assumere un tono equanime, alieno da condanne. Un quadro di carattere shakespeariano è quello della colazione del 19 settembre a Monaco che viene definita “colazione delle ultime illusioni, degli arrivederci, che nel cuore degli adulti erano già addii”; in quell’occasione si in­contravano per l’ultima volta Ciano e Mussolini, che “seduti uno accanto all’altro, parlava­no tra di loro con lunghe pau­se”. Alla fine “i Ciano e i Mus­solini si salutarono: baci, ab­bracci, mezzi sorrisi”. Al centro è la figura di Edda Ciano-Mus­solini alla quale i figli avevano dato, per la sua energia, il so­prannome di “Aquilaccia”.

Diverso è invece il taglio del libro di Fabio Pittorru che nar­ra minuziosamente, romanzan­doli, gli avvenimenti intercorsi tra i prodromi della riunione del Gran consiglio del fascismo del 24-25 luglio 1943 e la fucila­zione di Ciano e degli altri con­dannati I’l l gennaio 1944. An­che se la figura di Ciano, assie­me a quella della moglie Edda, sovrasta la narrazione, questa finisce col diventare pratica- mente una storia d’Italia che ha senz’altro una sua validità. Ruotano attorno alle vicende anche gli altri personaggi prota­gonisti di quei mesi drammati­ci: Mussolini (che l’autore sem­bra considerare, più che un protagonista principale, un uo­mo trascinato dagli avvenimen­ti), la moglie Rachele, la miste­riosa Frau Beetz, Grandi, Bot­tai, Farinacci, Vittorio Ema­nuele III, Badoglio, Pavolini, Buffarini Guidi, Pisenti, Trin- gali Casanova (e non Casanuo­

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va), Carboni, il giudice istruttore del processo Cersosimo e altri. A scapito della narrazione sono al­cune volgarità (come quelle con­cernenti i rapporti amorosi tra Eisenhower e la sua segretaria­autista Kay Summersby e Pavo- lini e l’attrice Doris Durante) che avrebbero potuto essere senz’al­tro evitate.

Per Ciano e per gli altri membri del Gran consiglio che avevano votato per l’ordine del giorno Grandi la sentenza era già preparata in anticipo. “An­dremo fino in fondo senza guardare in faccia a nessuno anche se fosse il nostro migliore amico” — urlava il segretario del neo Partito fascista repub­blicano all’assemblea di Verona del 14 novembre 1943 — “Non colpire i traditori del Gran con­siglio significherebbe concedere l’impunità a tutti i traditori del fascismo. Per uomini come Ga­leazzo Ciano la sola soluzione possibile è la morte.” Del resto uno dei giudici, il generale della Milizia Montagna, rivelerà al­cuni anni dopo: “Recatomi a Verona per prendere visione del fascicolo del processo ho avuto uno scambio di idee con gli altri giudici e col presidente del tri­bunale e mi sono formato la convinzione che tutto era ormai deciso e che tutto il processo si faccia solo per dare veste di le­galità ad una sentenza già stabi­lita”. Con precisione è narrata anche la tragica sarabanda delle domande di grazia che i cinque condannati (Ciano, De Bono, Pareschi, Gottardi e Marinel­li) avevano firmato, domande di grazia che, attraverso il mini­stro degli Interni Buffarini Gui­di, e il ministro della Giusti­zia Pesenti, giungevano dopo

un lungo viaggio all’ispettore della V zona della Guardia na­zionale repubblicana Vianini che, si dice per ordine del suo superiore diretto Ricci, ne fir­mava il rigetto. E questo avve­niva senza che, per volontà di Pavolini, del prefetto di Verona Piero Cosmin e del capo della polizia Tamburini, il destinata- rio Mussolini ne fosse ufficial­mente informato. Qui l’autore non avanza neppure il sospetto che tutto si sia risolto in una macabra messa in scena, nella quale l’apparente fuga dalle re­sponsabilità nascondeva in real­tà qualcosa di peggio. È infatti alquanto incredibile che, du­rante la notte fatale, Mussolini non abbia mai chiesto se i con­dannati avevano presentato do­manda di grazia, che Pavolini e compagni abbiano rifiutato di inoltrare le domande stesse, senza la certezza di essere ap­provati dall’alto e che nessuno tra coloro che, come Pesenti, si dicevano e probabilmente era­no contrari sia alle condanne a morte sia al rigetto delle do­mande di grazia, non abbia av­vertito Mussolini, magari per interposta persona, di quanto bolliva in pentola.

Con il colpo di grazia sparato a Ciano e agli altri condannati dal locale comandante della Guardia repubblicana Furlotti si concludeva il dramma. Che il processo e l’esecuzione abbiano avuto il carattere di un vero e proprio assassinio legalizzato è un fatto che non può essere messo in dubbio; questo natu­ralmente senza coprire le re­sponsabilità dei fucilati di Ve­rona, per alcuni di essi molto pesanti (Ciano era infatti stato l’ispiratore dell’intervento del­

l’Italia nella guerra civile spa­gnola e dell’aggressione contro la Grecia e De Bono e Marinelli erano coinvolti nel delitto Mat­teotti). Tutti o quasi tutti, se non fossero caduti sotto il piombo dei camerati, avrebbe­ro dovuto rendere conto del lo­ro operato davanti ai tribunali antifascisti. Un episodio sinto­matico è quello riportato nel­l’ultima pagina del libro di Pit- torru. Gottardi, il più ingenuo e forse il più onesto dei cinque, moriva al grido di: “Viva il Du­ce!”. Riportando il fatto i gior­nali repubblichini non si rende­vano conto dell’aberrazione in­sita nella condanna a morte di colui che, al momento del tra­passo, rivolgeva l’ultimo pen­siero all’uomo che egli avrebbe tradito e che era certamente il maggiore responsabile della sua esecuzione.

Franco Pedone

Angelo M ichele Imbriani, Gli italiani e il Duce. Il mito e l ’im­magine di Mussolini negli ulti­mi anni del fascismo (1938- 1943), Napoli, Liguori, 1992, pp. 223, lire 25.000.

Già autore di un saggio sul costituirsi del mito di Mussolini (Il mito di Mussolini tra propa­ganda e culto di massa. Le ori­gini 1923-1926, “Prospettive Settanta”, 1988, pp. 492-512), Angelo Michele Imbriani ne de­linea ora la parabola terminale, da Monaco al 25 luglio 1943. L’indagine riesce quanto mai opportuna, sia perché affronta con piglio di discorso sistemati­co un tema più volte affiorante, ma quasi solo per accenni, nella letteratura sulla guerra fascista,

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sia in quanto tenta un approc­cio criticamente sorvegliato a quelle carte di polizia che un uso ormai largamente invalso tende a recepire come ‘fonte universale’ e specchio fedele delle opinioni degli italiani (ri­mando in proposito alle osser­vazioni svolte in sede di recen­sione di Simona Colarizi, L ’o­pinione degli italiani sotto il re­gime 1929-1943, Roma-Bari, Laterza, 1991, “Italia contem­poranea”, 1991, pp. 519-523).

Lo schema espositivo di Im- briani assume come principale filo conduttore l’intreccio tra gli interventi pubblici di Musso­lini, le chiavi interpretative che di essi propongono gli apparati propagandistici del regime, le reazioni del paese così come so­no colte e trasmesse dagli infor­matori dell’Ovra, dalle questu­re, dalle strutture periferiche del Pnf. Non si tratta tuttavia del paese nella sua totalità, ma, precisa l’autore, di quella parte di opinione “definibile come afascista [...] composta da gruppi sociali diversi, ma so­prattutto dai ceti piccolo e me­dio borghesi, [che] per indole, mentalità, abitudine, valori, in­clinava senz’altro al moderati­smo” (p. 15). Ne sortisce un re­soconto nettamente scandito su due tempi: nel primo, che dal 1938 si prolunga sino al 1941, spicca l’immagine di Mussolini politico abile e saggiamente cal­colatore (e in quanto tale pro­tettore affidabile della sorte de­gli italiani); nel secondo, dal­l’inverno 1941-1942 alla cadu­ta, la prospettiva progressiva­mente si rovescia, prende corpo l’antimito, Mussolini appare sempre più come diretto ed esclusivo responsabile non solo

della sconfitta delle armi, ma anche, e prima ancora, delle sofferenze del fronte interno per aver abbandonato, dando mano libera a incapaci e profit­tatori, la popolazione a se stes­sa. Altrettanto fideistico era stato il consenso iniziale — sot­tolinea Imbriani, accreditando la tesi di un non irrilevante ap­poggio all’atto dell’intervento— altrettanto acritico è il suc­cessivo rifiuto. In entrambi i casi — anche questa considera­zione è una costante del volume— l’immaginario collettivo pre­varica la percezione del perso­naggio reale, come dimostre­rebbe (il libro fa largo spazio ai due episodi) il diffondersi di voci allarmate sulla salute del dittatore nell’estate 1939 (rifles­so dell’angosciato oscillare tra pace e guerra) e nell’autunno del 1942 (a fronte del prolunga­to silenzio pubblico del duce e dell’aggravarsi delle condizioni di vita per effetto dei bombar­damenti e delle restrizioni ali­mentari).

Il passaggio dal mito all’anti- mito non è tuttavia un fenome­no che investa sincronicamente le diverse realtà del paese. Le sue manifestazioni — tutta la seconda parte del saggio proce­de su questa falsariga — regi­strano forti variazioni di inten­sità, culminano tra i ceti medio alti delle grandi città del Nord, sbiadiscono sin quasi all’assen­za nelle zone rurali e periferiche (più in generale, nelle regioni meridionali), dove il mito di Mussolini sopravvive a ridosso del crollo del regime. Si tratta di spunti utili, che meritano di essere ripresi nel più ampio di­scorso su come la società italia­na vive le ragioni e le espressio­

ni della guerra. Ma sono anche spunti che contraddicono la scelta di privilegiare l’analisi di quell’area definita afascista, presidiata da ceti piccolo e me­dio borghesi ‘naturalmente’ in­clini al moderatismo. Le linee di demarcazione che le fonti propongono, e che Imbriani in definitiva recepisce, tendono piuttosto ad individuare ambiti (sommariamente: città-campa­gna, Nord-Sud) la cui caratte­rizzazione complessiva condi­ziona fortemente le singole fi­gure sociali operanti in ciascu­no di essi. Il riferimento com­plessivo ai ceti piccolo e medio borghesi rischia perciò di costi­tuire solo uno stereotipo socio­logico e la loro qualificazione in senso afascista e moderato più una affermazione apriori­stica che il risultato dei segnali accumulati dai documenti (sui quali pesano anche assenze par­ticolarmente significative sotto il profilo politico, quali le rea­zioni alla campagna di Russia).

Massimo Legnani

Gigliola Fioravanti (a cura di), Mostra della rivoluzione fa ­scista. Inventario, Roma, Mini­stero per i Beni Culturali e Am­bientali, 1990, pp. 360, sip.

Dalla Presentazione di Mario Serio: “[Risulta] che l’archivio della Mostra della rivoluzione fascista è tra i fondi meno con­sultati e che solo la raccolta di bandiere del movimento ope­raio, che insieme ad altri ogget­ti fa parte dello stesso archivio, ha costituito oggetto di catalo­gazione nell’ambito della mo­stra ‘Un’altra Italia nelle ban­diere dei lavoratori’ [...] La cir­

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costanza può addirittura susci­tare sorpresa se si confronta con la ricchezza del fondo e con la varietà degli oggetti che lo stesso include, che suggeriscono una molteplicità di direzioni di ricerca, certamente non limitate ai temi della mostra-esposizione quali risultano dalla guida sto­rica, pubblicata nel 1933, a cu­ra di Dino Alfieri e Luigi Fred­di, ma riconducibili all’attività della mostra come istituto cul­turale, che si proponeva di di­ventare l’archivio storico del fa­scismo”. Uno stupore, quello di Serio, che è anche il nostro, vi­sta la vasta congerie di studi e libri e libelli e articoli sulla cul­tura del “tra-le-due-guerre”.

Prima di passare alla utilissi­ma Introduzione di oltre settan­ta pagine, nella quale la curatri­ce spiega non solo i criteri che l’hanno guidata nella cataloga­zione di questa imponente mole di documenti, ma anche, con una sintesi stringente, la ‘storia’ della Mostra della rivoluzione, è opportuno scorrere il somma­rio. Il volume si compone di cinque parti, più un’appendice e tre utilissimi indici analitici (dei nomi di persona, dei mate­riali a stampa, dei fondi archi­vistici consultati). La prima parte comprende la corrispon­denza tra chi sovrintendeva alla mostra e le varie federazioni fa­sciste provinciali, in tutto sedici buste contenenti i carteggi am­ministrativi. La seconda parte, quella più corposa, costituisce il vero archivio storico della mo­stra, composto da altre settan- tuno buste. Delle ulteriori sot- tovoci, vanno ricordate: “Carte del Partito nazionale fascista”, con le adesioni ai fasci di com­battimento, i carteggi con i fa­

sci di tutta Italia (in ordine al­fabetico per località, da Abbia- tegrasso, Milano, fino a Zoagli, Genova), nonché una serie di altri documenti con situazioni particolari a La Spezia, nella Campania e così via; e “Carte di diversa provenienza”, con elenchi e documentazione pro­venienti da periodici come “Il comunista”, oppure dalla So­cietà tipografica L’Epoca, o da fondi e archivi privati. La ter­za parte comprende i materiali per l’allestimento della III edi­zione della Mostra della rivolu­zione, nel 1942, ed è composta da nove buste. La quarta, inti­tolata “Esposizione”, compren­de documenti di vario genere (carteggi, fotografie, opuscoli e giornali) dall’intervento nella prima guerra mondiale fino al 1944; vi sono poi appendici (buste 102-103) relative al 1895. In tutto, altre settantasette bu­ste. L’ultima riguarda gli appa­rati fotografici delle tre edizio­ni della mostra (1932, 1937 e 1942). Infine, le appendici comprendono carteggi ammini­strativi e percorsi della prima edizione, ma soprattutto (cito dalla Fioravanti, p. 73), “una sommaria ricostruzione di quello che sarebbe dovuto dive­nire [...] uno dei [...] fonda- mentali strumenti del Centro studi del fascismo, annesso alla mostra, la biblioteca di consul­tazione [...]. Sono stati, infatti, ricostruiti gli elenchi del mate­riale bibliografico raccolto, at­traverso doni, acquisti e presti­ti, per la costituzione di un pri­mo ma cospicuo nucleo biblio­grafico dell’istituto. Grazie al­la microfilmatura dei registri d’accesso, sia quelli degli acqui­sti che quelli delle donazioni,

della Biblioteca di storia moder­na e contemporanea e della Bi­blioteca nazionale centrale di Roma, è stato possibile riporta­re i titoli — non verificati — e i numeri di inventario. Il materia­le si presenta così in ordine alfa­betico e diviso per biblioteche, per ciascuna delle quali vengono segnalate le diverse provenienze (Mostra della rivoluzione fasci­sta e collezione Pennati)”.

Come è noto, la Mostra della rivoluzione doveva svolgersi in un primo tempo a Milano, sotto l’egida dell’Istituto fascista di cultura. Motivi di valutazione politica (vedi alle pp. 15-23 del- l'Introduzione una silloge degli scambi epistolari tra Alfieri, Freddi e i vertici del partito) la fecero spostare a Roma, dove si aprì nel 1932. Tra le numerose informazioni raccolte, signifi­cative quelle relative agli inviti alle varie federazioni perché mandassero materiali, ai quali (p. 32) non tutte le città rispose­ro con lo stesso zelo. La mostra avrebbe dovuto chiudere il 21 aprile (natale di Roma) dell’an­no successivo; già tuttavia nel 1932, vista l’enorme mole di materiali pervenuti, “cominciò a prendere corpo all’interno del gruppo organizzativo il proget­to di costituire attorno all’ini­ziativa un’istituzione perma­nente al fine di realizzare, con il nucleo della mostra del decen­nale, un ‘Archivio storico del fascismo’. Si trattava di un pri­mo abbozzo del futuro Centro studi [...] La struttura perma­nente, se inevitabilmente avreb­be condotto ad una sorta di Museo storico del fascismo, nel­le intenzioni doveva considerar­si un istituto ‘in cammino’ come la rivoluzione fascista, sempre

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aperta e quindi sempre amplia­bile” (p. 36).

Servendo per altre manifesta­zioni il Palazzo delle esposizio­ni di Roma, la mostra venne chiusa il 28 ottobre 1934, e i materiali trasferiti alla Galleria nazionale d’arte moderna, a Villa Giulia. In occasione del bimillenario di Augusto (1937) si aprì la seconda edizione della mostra, in un tono più sobrio. Un anno dopo essa chiuse, e si fece contemporaneamente luce l’idea di renderla permanente (p. 40). Nel 1942 si svolse la ter­za edizione per celebrare il ven­tennale: in tale occasione “la mostra doveva diventare [...] un elemento permanente della più ampia struttura del Centro studi del fascismo”.

Sileno Salvagnini

/ Quaderni del “Cardello”, Collana di studi romagnoli del­l’Ente “Casa di Oriani”, nn. 1- 3, Ravenna, Longo Editore, 1990-1992, pp. 171; 138; 235, lire 25.000; 25.000; 30.000.

Istituito nell’aprile 1927 a Ravenna col precipuo obiettivo di costituire un museo-bibliote­ca che valorizzasse il lascito ideale di Alfredo Oriani (1852- 1909), celebrato quale lungimi­rante precursore del fascismo, nel 1945 l’Ente “Casa di Oria- ni” venne mantenuto in vita dal Cln ed oggi costituisce un im­prescindibile fondo documenta­rio per lo studio dell’intellettua­le nazionalista e di taluni aspet­ti della vita culturale del re­gime.

Nel primo numero dei “Qua­derni” Ennio Dirani ripercorre le vicende dell’ente, affidato da

Mussolini (curatore dell’Opera omnia di Oriani, edita in trenta volumi da Cappelli tra il 1923 ed il 1933) al figlio dello scritto­re, Ugo, coadiuvato da un nu­golo di consiglieri prescelti sul­la base delle aderenze politi­che. Dirani studia la mitizzazio­ne di Oriani nel solco della poli­tica culturale fascista, con gli orpelli retorici e le ricorrenze celebrative (culminate nel 1934 con la proclamazione dell’ “an­no orianesco”), oltre ad analiz­zare le posizioni assunte dai più noti intellettuali coinvolti nelle manifestazioni di regime, da Gioacchino Volpe a Mario Mis- siroli. La fortuna postuma di Oriani scemò a partire dal 25 luglio 1943. Ugo Oriani diede prova di lungimiranza rifiutan­do di aderire alla Rsi, per tra­ghettare la memoria paterna verso più sicure sponde. Nel dopoguerra la dimensione cele­brativa lasciò il passo alla criti­ca storica, anche se non manca­rono tentativi di ribaltare i ca­noni interpretativi del venten­nio: stavolta in Oriani si ravvi­serà l’antesignano della demo­crazia. Il saggio spiega poi le principali tappe della rinascita dell’Ente “Casa di Oriani” e in­forma sulle sue più recenti atti­vità, con particolare attenzione alla ricca dotazione della biblio­teca di storia contemporanea.

Il secondo ed il terzo numero dei “Quaderni”, abbandonato il taglio monografico, alterna­no studi su particolari aspetti dell’arte di Oriani con saggi storici sullo scrittore faentino. Tra i lavori di maggiore rigore critico segnaliamo un’impegna­tiva rassegna di Ennio Dirani su I cento anni della “Lotta politi­ca in Italia” di Oriani (1892-

1992), storia politica e culturale dell’opera forse più originale di Oriani: un libro di volta in vol­ta sottovalutato, esaltato, stru­mentalizzato, rimosso e risco­perto.

Sul terzo numero dei “Qua­derni” figura la riproduzione fotostatica del manoscritto inti­tolato Monografia relativa alla “Società di Mutuo Soccorso fra Operai ed Operaie” di Traver- sara di Bagnacavallo. Il lungo documento — oltre centotrenta pagine — non è che la detta­gliata relazione stesa nel 1891 dal segretario del sodalizio sui primi tredici anni di vita del­l’associazione. Con tutti i limiti dei lavori redatti per occasioni celebrative (generalmente la partecipazione degli enti mu­tualistici ad esposizioni nazio­nali): sovrabbondanza dell’ele­mento quantitativo a scapito dell’analisi sociale e politica. Meglio sarebbe stato far seguire alla pur diligente monografia uno studio sulla società ope­raia, sui caratteri della sua fun­zione aggregativa e sulla natura dei rapporti intrattenuti con il tessuto associazionistico raven­nate.

Mimmo Franzinelli

Giuseppe Galzerano (a cura di), Il Tribunale speciale fasci­sta, Salerno, Galzerano, 1992, pp. 95, lire 10.000.

Titolo inaugurale della colla­na “Atti e memorie di popolo”, edita da Galzerano nell’intento di ripresentare “una letteratura dimenticata, mai tradotta e sgradita, e per proporre testi che sarebbe stato difficile solo pensare in circolazione”, il vo­

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lumetto — attribuito a Gaetano Salvemini e stampato su carta sottile in un formato minusco­lo, onde facilitarne lo smercio clandestino — contiene la ri­stampa dell’opuscolo II Tribu­nale speciale - 1 processi di Ro­ma, pubblicato originariamente a Parigi nel 1932 dalle edizioni di Giustizia e Libertà. Il lavoro risulta strettamente legato alle esigenze del momento politico ed a finalità di opposizione mi­litante al regime, ovvero alla fa­se della dura repressione giudi­ziaria di ogni forma di opposi­zione, con procedure qui conte­state per la loro sostanza di ille­gittimità e di arbitrio. Una doz­zina di processi ad anarchici, comunisti, socialisti e democra­tici sono passati al setaccio con indubbia competenza giuridica per cogliere la metodica viola­zione dei diritti della difesa e la supina disponibilità del Tribu­nale speciale ad emanare sen­tenze gradite al potere mussoli- niano. Con poche eccezioni (i processi Schirru e Zamboni), protagonisti delle odissee giudi­ziarie furono agitatori politici i cui nomi sono oggi caduti nel­l’oblio. Anche per questo sa­rebbe stato opportuno premet­tere alla ristampa un inquadra­mento sulle questioni trattate nell’opuscolo edito oramai da sessantanni e qualche cenno biografico.

Alcune pagine introduttive di Giuseppe Galzerano ed una te­stimonianza di Paolo Vittorelli affrontano nei tratti generali la repressione antifascista e l’azio­ne politico-propagandistica dei fuoriusciti. La principale pecca dell’operazione editoriale consi­ste nel non avere riprodotto fo- tostaticamente l’opuscolo del

1932, che nella nuova composi­zione tipografica ha perduto compattezza e tipicità; anche l’impaginazione risulta eccessi­vamente dispersiva.

Mimmo Franzinelli

Roberto Gentili, Guerra aerea sull’Etiopia 1935-1939, Firenze, Edizioni aeronautiche italiane, 1992, pp. 222, lire 39.000.

Il taglio del volume richiede due discorsi distinti, il primo di riconoscimenti, il secondo di critiche. Innanzi tutto, questa è la prima ricostruzione in asso­luto, pregevole per ricchezza di dati e chiarezza espositiva, del ruolo svolto dall’aeronautica italiana nella conquista dell’im­pero fascista d’Etiopia dal 1935 allo scoppio della guerra mon­diale, che segnò la fine delle operazioni “coloniali” italiane, mutando radicalmente la situa­zione strategica, i compiti del­l’aeronautica e i rapporti di for­za. Ciò non significa che gli studi precedenti, in particolare di Vincenzo Lioy e del sotto- scritto centrati sulla guerra “uf­ficiale” 1935-1936, perdano va­lidità; ma si deve riconoscere a Roberto Gentili sia una rico­struzione assai più dettagliata delle operazioni aeree, sia il proseguimento della ricerca ne­gli anni della dura repressione della resistenza abissina, fino al 1939. Sulla base di un lungo e meticoloso lavoro nell’archivio dell’Ufficio storico dell’aero­nautica, l’autore illustra gli in­terventi dell’aviazione italiana quasi giorno per giorno, con ricchezza di cifre e di indicazio­ni critiche sulla sua gestione e il suo impiego. In secondo luogo

va rilevata l’onestà dell’autore, che, pur confermando i suoi sentimenti di lealtà e ammira­zione verso l’aeronautica e gli aviatori italiani, ha saputo trar­re dalla documentazione la con­vinzione che “la realtà storica della conquista dellTmpero è quella di una conquista sangui­naria, che la stupida crudeltà dei capi, primo fra essi Musso­lini, ha reso esattamente uguale a quella dell’Ovest americano o ai conflitti in Vietnam o nel­l’Afghanistan” (p. 4). In parti­colare l’autore documenta il largo ricorso ai bombardamenti chimici, dandone un elenco giorno per giorno con bersagli e quantitativi, aggiornato fino al 1939; ma fornisce anche molti dettagli sull’efficacia dei bom­bardamenti con esplosivi tradi­zionali. Particolare cura è poi dedicata alla ricostruzione del numero e del tipo degli appa­recchi impiegati, alle perdite, all’organizzazione dei reparti e ai problemi di vertice, risolti in sostanza con la subordinazione dell’aeronautica alle esigenze dell’esercito. Molto ricco e bene annotato il materiale fotogra­fico.

Questo bel lavoro presenta però un difetto di fondo: la ri­nuncia a qualsiasi indicazione sulle fonti. Gentili si limita a ci­tare il fondo Aoi dell’archivio dell’Ufficio storico dell’aero­nautica (161 buste) e un fondo dell’Archivio centrale dello sta­to e a fornire un elenco di titoli di volumi e articoli. Nessuna descrizione dei fondi consultati e dei loro limiti, nessun cenno allo stato delle ricerche né alle opere pur largamente utilizzate, nessuna citazione a sostegno delle osservazioni di carattere

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generale sulla guerra, neppure l’indicazione che la massa dei dati forniti proviene dai “diari storici” dei comandi aeronauti­ci (eppure bisognerebbe distin­guere tra i “diari” dei reparti di volo, attendibili anche quando compilati con molto ritardo, e quelli dei comandi superiori, più sensibili alle esigenze politi­che, come dimostra la minore franchezza nei riguardi dei bombardamenti a iprite). Una scelta francamente incompren­sibile, non certo dovuta a pigri­zia o superficialità dell’autore, né al desiderio di nascondere o sfumare gli aspetti più brutali delle operazioni (posso dichia­rare che i dati che sono in grado di controllare sono esatti). In secondo luogo va rilevato che Gentili ha scelto di fare una cronistoria dettagliata e merito­ria delle operazioni aeree più che una loro storia complessi­va; per quanto il volume pre­senti pagine corrette di inqua­dramento generale sulle vicende della guerra, le sue fonti e le sue conclusioni rimangono molto interne. A titolo di esempio, non basta parlare di subordina­zione dell’aeronautica alle esi­genze della guerra terrestre se non si studia la guerra italiana in Etiopia nel suo complesso, dai condizionamenti politici al­la difficoltà dei movimenti in un ambiente così nuovo e diffi­cile. Sembra più corretto parla­re di subordinazione di tutta la campagna a esigenze politiche, prima e dopo la proclamazione dell’impero, cosa in sostanza giusta e accettata dagli stessi comandi aeronautici, le cui pro­teste nei confronti dell’esercito sono da ricondurre a una visio­ne corporativa più che a una

corretta capacità di analisi delle caratteristiche del conflitto e delle possibilità dei loro appa­recchi. E comunque una storia delle operazioni aeree non si può fare senza studiare anche le fonti dell’esercito, anziché limi­tarsi alle autoglorificazioni di Badoglio. Bisogna però tenere conto del ritardo complessivo degli studi militari sulla guerra in Etiopia e del carattere “pio­nieristico” della ricostruzione di Gentili per gli anni successivi alla fine ufficiale delle opera­zioni.

In complesso, un lavoro di grande interesse e utilità, con li­miti che sarebbe ingiusto adde­bitare tutti all’autore, salvo quello imperdonabile della ri­nuncia alla indicazione puntua­le delle fonti della sua così ricca ricostruzione.

Giorgio Rochat

Teresio Gamaccio, L ’industria laniera fra espansionismo e grande crisi. Imprenditori, sin­dacato fascista e operai nel biel- lese (1926-1933), Vercelli, Isti­tuto per la storia della Resisten­za e della società contempora­nea in provincia di Vercelli, 1990, pp. III-228, sip.

Pur concentrando la propria attenzione sul biellese, la ricer­ca di Teresio Gamaccio si sfor­za di collocare le vicende locali nel contesto più generale del­l’intero settore tessile naziona­le, che negli anni tra le due guerre conosce un decisivo arre­tramento dalla posizione di lea­dership, tenuta nell’industria italiana ancora dopo la prima guerra mondiale. L’autore pro­cede su questo terreno secondo

una partizione cronologica che vede prevalere fino al 1926 i problemi della ristrutturazione degli impianti e della ricerca di mercati esteri di sbocco, con­centra negli anni 1926-1933 la drammatica crisi seguita alla deflazione da “quota 90” e alla chiusura delle esportazioni, e sancisce negli anni dell’autar­chia (dopo il contingentamento delle importazioni laniere e l’imposizione dell’uso delle fi­bre artificiali) la definitiva mar- ginalizzazione dei lanieri nella gerarchia del potere industriale nazionale. Adottando i tradi­zionali canoni di un filone sto­riografico ormai consolidato, Gamaccio mostra i passaggi at­traverso i quali matura negli anni a cavallo della crisi l’in­treccio tra scelte imprenditoriali regressive (scarso ammoderna­mento degli impianti e inade­guata razionalizzazione delle aziende) e questioni di politica economica — in particolare le oscillazioni del sostegno statale tra agevolazioni all’esportazio­ne e commesse pubbliche nella prima metà degli anni trenta — e sindacale, con la drastica compressione dei salari e la più incontrollata intensificazione dello sfruttamento operaio.

Lo studio offre tuttavia le considerazioni di maggior inte­resse nelle pagine che, in virtù di un minuzioso lavoro di inda­gine archivistica, scavano più in profondità negli equilibri inter­ni al regime. Emerge allora a tutto tondo la ricchezza e l’a­sprezza dei contrasti che per­corrono il blocco di potere rac­colto intorno al fascismo bielle­se: contrasti tra differenti inte­ressi economici e sociali, tra po­tere economico e potere politi­

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co, e ancora tra istanze centrali e articolazioni periferiche dello stato e delle organizzazioni sin­dacali, fino a superare talora la dimensione strettamente locale per conseguire un rilievo nazio­nale. Basti citare il duro contra­sto tra industriali, da un lato, Pnf e sindacati fascisti dall’al­tro, per l’affermazione della propria egemonia nell’area biel- lese verso la metà degli anni ven­ti; lo scontro tra industriali e grossisti (sostenuti questi ultimi dal regime), alla fine del decen­nio, sulla concentrazione delle strutture per la commercializza­zione dei tessuti e l’adozione dei tessuti-tipo; l’aspra vertenza in­terna alle organizzazioni im­prenditoriali che all’inizio degli anni trenta vede lanieri biellesi, lanieri vicentini e Confindustria confrontarsi senza risparmio di colpi sulla politica di intransi­gente compressione salariale; da ultimo, i duri e ricorrenti conflit­ti di potere tra organizzazioni imprenditoriali e sindacato fasci­sta, prima intorno al nodo del contratto nazionale e alla que­stione dei fiduciari di fabbrica, più tardi per la resistenza oppo­sta dal sindacato fascista biellese all’introduzione della nuova or­ganizzazione del lavoro basata sul doppio telaio, posizione am­bigua che ne avrebbe causato la normalizzazione e la decapita­zione per intervento del centro.

Stefano Battilossi

Vittorio Cappelli, II fascismo in periferia. Il caso della Cala­bria, Roma, Editori Riuniti, 1992, pp. 201, lire 35.000.

Piero Bevilacqua, nella nota introduttiva a questo più che ri­

marchevole lavoro, a proposito degli indirizzi storiografici cui spetta il merito di “aver rotto l’incanto” di un conformismo, egli sottolinea, “ormai ripetiti­vo e privo di sbocchi” — per al­tro, a suo giudizio (e lo sotto­scriveremmo), con una opera­zione di cultura della storiogra­fia e di metodo “rimasta entro il quadro delle tradizioni cui si contrapponeva o di cui intende­va rinnovare, in sostanza, lo stato d ’animo politico” — si di­ce convinto di un fatto: ossia, d’essere stati, tuttavia, i “più tardi approcci regionali a intro­durre nello scenario della sto­riografia nazionale le più consi­stenti novità” sia sotto il profi­lo del metodo e dei temi che delle categorie interpretative. L’appunto di Bevilacqua è cen­trato; e il saggio di Cappelli vie­ne a rafforzarne la perspicuità rompendo, per il caso Calabria, con tutta una prassi di ricerca della storiografia locale negli anni sessanta e settanta la quale si ingegnava di adattare lo sche­ma appunto locale a quello po­litico-ideologico “dominante sulla scena nazionale”; cosicché si avevano strozzature defor­manti, riduzioni di processi es­senziali per cogliere le specificità di taluni sviluppi di ininfluen­te marginalità e, soprattutto, esiti di banale “continuismo” rispetto ad una visione della so­cietà meridionale il cui ceto di­rigente, “eternamente trasfor­mista”, si sarebbe accodato ad un fascismo sbarcato tardi in quelle contrade e mero garante di vecchi assetti di potere, di antichi immobilismi. Cappelli è opportunamente partito (gio­vandosi anche di una prepara­zione lungamente coltivata su

questo terreno) dal criterio del­lo studio dei dati e delle funzio­ni, con procedure e categorie avalutative che gli hanno per­messo di pervenire, usando il caso calabrese come “campione significativo”, ad un modello a nostro avviso assai convincente di indagine basata — per ri­prendere le sue parole — sulla individuazione “di nessi, com­patibilità, scarti, accostamenti e resistenze intorno al rapporto tra centro e periferia” dello Sta­to. Ne sono scaturite risultanze di significativo momento nella rappresentazione della realtà della regione sotto il regime, in primo luogo tali da far piazza pulita degli stereotipi che nega­vano il prodursi laggiù, durante il ventennio, di dinamiche isti­tuzionali, sociali, culturali e di costume. Cappelli, mettendo a frutto una fatica laboriosa di disaggregazione di indicatori economici e demografici, ope­rando analiticamente su corredi statistici e su percorsi mobilita­tivi di presenze individuali e so­ciali (grazie anche al fortunato incontro con l’archivio prefetti­zio cosentino ricco di migliaia di carte sulle amministrazioni podestarili), ha potuto in tal maniera proporci un ritratto delle complessità degli impulsi, esterni ed interni, che presiedet­tero, a datare in parte da spinte affiorate in epoca precedente il fascismo — il primo dopoguer­ra —, a evoluzioni non secon­darie del contesto civile, sociale ed economico calabrese. Ci fu, documenta il saggio, una “mo­dernizzazione autoritaria” del regime che ebbe penetrazione anche nell’area “estrema” della penisola, che introdusse novità sia sotto l’aspetto del dislocarsi

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delle immigrazioni interne sul territorio in relazione agli inter­venti di carattere produttivo e di bonifica agraria, sia sotto quello delle polarizzazioni ur­bane create da tali interventi centralistici, dei mutamenti del personale di governo ammini­strativo e politico e dell’emerge- re di strati di ceto medio, sotto la spinta di disponibilità, già trapelate per l’innanzi, a sosti­tuire il notabilato tradizionale. Nei tentativi di cambiamento, nelle pratiche di gestione del potere da cui furono interessati specialmente i maggiori centri cittadini, un peso rilevante ebbe il ruolo del calabrese Michele Bianchi, quadrumviro della “marcia su Roma” ma con una biografia di sindacalista rivolu­zionario estremista, abile edifi­catore di un sistema egemonico personale nella Calabria delle sue origini, costruito in funzio­ne delle proprie fortune entro il relativamente breve arco di tempo della sua vita (morì, co­me è noto, di tisi nel 1930) in termini di contrattazione anche col potere centrale. Accanto a lui, nella differenza dei ruoli e del rilievo esponenziale, altri personaggi calabresi rivestirono importanza in questo passaggio della regione attraverso l’espe­rienza fascista, da Maurizio Maraviglia ad Agostino Lanzil- lo a Luigi Razza. Ma Bianchi svolse una funzione assoluta- mente di particolare evidenza sulla falsariga delle linee diret­trici nazionali nel rapporto tra centro e periferia, stimolando tanto quelle attese di “novità” che avrebbero gratificato la borghesia locale, quanto tutti gli elementi di spettacolarità sui quali esse poggiavano le loro

suggestioni, talvolta demagogi- camente risolte in scenari “po­pulistici” dalle tecniche del regi­me; comunque sempre raccor­date strettamente al persistere — Cappelli ce ne avvisa con chiarezza — di una impalcatura generale “di forte persistenza dei tradizionali legami clientela- ri, a base familiare e parentale, sia pure mascherati nei travesti- menti ideologici e politici del regime” .

Due pregi vanno specialmen­te ancora segnalati nella ricerca dello studioso cosentino: l’at­tenzione prestata alle biografie di “carriere” dei podestà cala­bresi, dentro l’esame dell’evol- versi del quadro locale sotto le diverse dinamiche apertesi cogli indirizzi del regime, e l’acuta intelligenza con la quale sono stati da lui colti i termini del problema femminile tra “ ‘fem­minismo’ e segregazione”; dove l’autore porta in superficie con fine percezione i fermenti gene­rati, contraddittoriamente, dal­la mobilitazione della donna, specchio di tensioni latenti non tutte soffocate dalla fondamen­tale concezione fascista di anco­rare il “sesso debole” al proprio destino subalterno dettato da una pretesa inferiorità biologi­ca. Proprio queste pagine sulla condizione femminile e sui so­prassalti di autonomia che fece­ro capolino nella strumentaliz­zazione del regime dell’appor­to delle donne, costituiscono uno dei capitoli più interessanti e seducenti di un libro condotto con mano sicura da cui non solo gli studiosi di storia locale pos­sono ricavare parecchi concre­ti spunti di riflessione e di me­todo operativo.

Mario Giovana

“Storia in Lombardia”, 1989, n. 1-2, pp. 520, lire 35.000.

Indice: Alberto De Bernardi, Presentazione; Ivano Granata, Il Partito nazionale fascista a Milano tra “dissidentismo” e “normalizza­zione” (1923-1933)-, Elisa Signori, Il Partito nazionale fascista a Pavia-, Luigi Cavazzoli, Il Partito naziona­le fascista a Mantova-, Ada Ferrari, Il Partito nazionale fascista a Cre­mona: bilancio storiografico e pro­spettive di ricerca-, Alberto De Ber­nardi, Capoferri: un leader sindaca­le nella Milano industriale-, Angelo Bendotti-Giuliana Bertacchi, Gli impiegati delle aziende bergama­sche tra sindacalismo rivoluziona­rio e sindacalismo fascista-, Marco Soresina, Mutue sanitarie e regime corporativo-, Angela Amoroso, Le organizzazioni femminili nelle cam­pagne durante il fascismo-, Gianlui­gi Della Valentina, Enti economici e controllo politico dell’agricoltura-, Piero Bolchini, Giacinto Motta, la Società Edison e il fascismo-, Maria Luisa Betri, Tra politica e cultura: la Scuota di mistica fascista-, Carlo G. Lacaita, Il Politecnico e il fasci­smo-, Gianfranco Petrillo, Il fasci­smo si impadronisce di un ‘istituzio­ne riformista: l ’Umanitaria-, Sergio Onger, Il latte e la retorica: l ’Opera nazionale maternità e infanzia a Brescia (1927-1939); David G. Horn, L ’Ente opere assistenziali: strategie politiche e pratiche di assi­stenza; Simona Colarizi, Gli italiani e il fascismo: l ’opinione pubblica in Lombardia dal 1930 al 1934.

Una pubblicazione importan­te, questo fascicolo di “Storia in Lombardia”, che ha raccolto gli interventi più significativi proposti durante il convegno “Il partito nazionale fascista, le organizzazioni di massa e la so­cietà in Lombardia”, svoltosi nel 1988 ed organizzato dall’I­stituto lombardo per la storia del movimento di liberazione in Lombardia. Una pubblicazione

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che propone come filone meto­dologico unificante la ridiscus­sione delle più classiche inter­pretazioni del fascismo come fe­nomeno totalizzante, in grado di plasmare ogni settore della società e di regolare ogni dina­mica sociale in un quadro gene­rale economico di sostanziale immobilità. Si tratta di un’in­terpretazione che appare col passare del tempo e l’approfon­dirsi degli studi sempre più schematica e semplificatoria, specialmente per un tipo di real­tà industrializzata e in continua evoluzione come quella lombar­da, destinata infatti a vivere un rapporto molto sfaccettato, ar­ticolato e se si vuole contraddit­torio con il regime. Ed è proprio per questa ragione che nella pubblicazione si è dedicata par­ticolare attenzione al partito, agli enti locali e agli altri organi­smi di massa, in quanto diretta- mente coinvolti e anche spesso protagonisti di questa dialettica tutt’altro che scontata. Da qui anche la conferma che probabil­mente non esiste un unico punto di riferimento certo e stabile a svariate e multiformi situazioni particolari, tesi suffragata dal­l’analisi dei tanti casi locali e delle tante conflittualità indivi­duabili nel ventennio sia a livel­lo politico ed istituzionale sia a quello sociale e produttivo. Di conseguenza si è dunque prefe­rito studiare i vari processi di fascistizzazione nelle diverse province lombarde, sofferman­dosi in modo particolare sui de­licati rapporti tra industria e agricoltura e tra città e campa­gna. Il tutto in un quadro di pe­netrazione incompleta e parzia­le del regime, che non è riuscito a mutare le linee portanti dello

sviluppo della società lombar­da. E questo fatto porta anche al conseguente ed inevitabile ri­dimensionamento del peso e del­l’influenza dei ‘capi storici’ e dei personaggi di spicco del fasci­smo regionale. Per spiegare il perché di tale particolarità si è rivelato prezioso lo studio del­l’attività dei sindacati del parti­to, che ha permesso di verificare le capacità di controllo sociale, la dialettica di consenso e dis­senso dei diversi ceti sociali al regime e la penetrazione dei pro­cessi di nazionalizzazione delle masse. Significative, poi, le di­verse relazioni sui rapporti tra potere economico e regime che, illustrando anche le modalità del cosiddetto dirigismo fasci­sta, fanno capire quanto siano stati contraddittori i processi di fascistizzazione delle varie com­ponenti della società lombarda, sostanzialmente non toccate nei loro elementi di fondo, cioè in quel modello industriale che le ha permesso di avere un ruolo di spicco nell’economia nazionale. Valido, infine, anche il contri­buto delle ricerche sugli enti as­sistenziali, ricreativi e culturali, che hanno permesso di valutare il peso dei processi di moderniz­zazione in atto durante gli anni trenta sulle varie strutture pub­bliche.

Diego Minonzio

Antifascismo e resistenza

Giancarlo Bergami, Il Gram­sci di Togliatti e l ’altro, Firenze, Le Monnier, 1991, pp. 146, lire25.000.

Stimolante studio monografi­co sui rapporti di Antonio

Gramsci con i comunisti sovieti­ci ed italiani, dall’estate 1922 al­l’arresto ed alle sofferte medita­zioni carcerarie, con osservazio­ni sulle sovrapposizioni politi­che che tanta parte ebbero nelle vicende editoriali delle sue ope­re. Sullo sfondo delle lotte di corrente tra trotzkisti e stalinia­ni, Giancarlo Bergami si sforza di enucleare — dagli scritti me­no conosciuti e dalle dichiara­zioni di vecchi militanti — un’immagine alternativa rispet­to a quella consacrata dalla vul­gata togliattiana.

Travolte dall’imponente evo­luzione storica le ragioni del­l’imbalsamazione di Gramsci nel sarcofago dell’ortodossia partitica, vengono riproposte e reinterpretate testimonianze ap­parentemente “minori”, dalle quali trae forma una personali­tà assai più ricca e multiforme di quella dogmaticamente cano­nizzata da un cinquantennio di raffigurazioni tendenti a stabili­re una lineare ed obbligata di­scendenza Gramsci-Togliatti (poi estesa al binomio Longo- Berlinguer), secondo Bergami frutto di deliberati intenti stru­mentali e non sorretta da effet­tive affinità intellettuali e poli­tiche.

Ad eccezione del primo capi­tolo (sin qui inedito), le diverse parti di questo studio erano ap­parse nelle pagine della “Nuova Antologia” . L’ ‘altro’ Gramsci è quello delineato dai ricordi di Alfondo Leonetti e recuperato da Cesare Bermani in una ricer­ca orale condotta tra i compa­gni di lotta e di prigionia del di­rigente politico sardo: Gramsci raccontato, edito dall’Istituto De Martino nel 1987 e puntual­mente rivisitato nella sezione in­

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troduttiva di questo lavoro, at­tenta ai motivi biografici finora rimasti in ombra in quanto non collimanti con le ragioni dell’o­leografia.

I rimanenti punti studiati da Bergami coincidono con la di­retta partecipazione di Gramsci alla vita del Comintern, con l’attività terzinternazionalista di Togliatti (basata, secondo l’autore, sull’infedeltà alle tesi gramsciane e sfociata — tra compromessi ed opportunismi — nell’appiattimento sulla stra­tegia staliniana) e con la dram­matica rottura, consumatasi durante la reclusione, tra Gramsci ed i centri direttivi del Partito comunista d’Italia.

Le vicende editoriali delle opere di Gramsci risulterebbero immancabilmente segnate dalle conseguenze dell’originaria in­fedeltà di Togliatti al suo com­pagno di partito: espunto ogni riferimento men che ortodosso, esse dovevano risultare funzio­nali alle ragioni politiche del “nuovo principe”.

In aperta polemica con il to- gliattismo, Bergami recupera le interpretazioni gramsciane ela­borate negli scorsi decenni negli ambienti della cosiddetta oppo­sizione comunista, rivalutando aspetti biografici ed intellettuali dell’animatore dell’ “Ordine Nuovo”. Lo studioso rischia però di offrire a sua volta un’immagine deformata di Pai­miro Togliatti, dipinto con le fattezze di un genio malefico che intrattenne con l’eredità di Gramsci un rapporto puramen­te e cinicamente strumentale. Se è scontato che taluni intellettua­li citati da Bergami (da Vittorio Strada a Lucio Colletti) siano indotti dalla “sindrome dell’ex”

a caricare sulle spalle di Ercoli quanto di moralmente riprove­vole si possa concepire, meno comprensibili risultano certi ec­cessi polemici in un giovane stu­dioso che non è costretto ad espiare lontane militanze comu­niste, di quando cioè il Pei ave­va per segretario un personag­gio del quale qui si evocano “complicità e correità con riso­luzioni e atti di fondata valenza penale o criminale”.

Mimmo Franzinelli

P aolo Corsini e Gianfranco P orta, Avversi al regime. Una famiglia comunista negli anni del fascismo, Roma, Editori Riuniti, 1992, pp. XXI-374, lire40.000.

La cronaca familiare dell’o­peraio Luigi Abbiati e della sua compagna Antonia Oscar, en­trambi giovani socialisti poi aderenti al Pcd’I, perseguitati con i loro figli negli anni del re­gime fascista, fuori e dentro il carcere e al confino, fino alla morte di lui nella resistenza, è ripercorsa dagli autori sullo sfondo di peripezie e passaggi drammatici della storia coeva e senza cedere alla retorica della politica, alle deformazioni dei giudizi ideologici, o ai vincoli soggettivi dell’autobiografia. Certo l’impegno civile e militan­te degli Abbiati rappresenta uno spaccato significativo dell’atti­vità dell’antifascismo più con­sapevole, mentre la loro espe­rienza, riguardata nella quoti­dianità della vita familiare, so­ciale e lavorativa, getta luce sul mondo circostante, ovvero sulla zona opposta e contermine co­stituita dall’Italia dichiarata­

mente fascista e da quella parte del paese che accettava il fasci­smo pur non condividendone l’ideologia estremistica sopraf­fattrice.

La vicenda degli Abbiati po­ne l’esigenza di ritessere la tra­ma di una storia continua della società italiana negli anni del fa­scismo. Occorre in altri termini liberarsi dagli schemi di uno storicismo più o meno assoluto, come da una predominante ideologizzazione dei fenomeni e soggetti storici, per recuperare una dimensione non separata dei campi di studio del fascismo e dell’antifascismo, entrambi meglio comprensibili e valutabi­li in riferimento alla più genera­le storia della società italiana negli anni del regime e alla sog­gettività concreta degli individui “più che alla rete cospirativa, all’impianto organizzativo, al partito come entità quasi disin­carnata e astratta” (p. XIV).

Pare maturo il momento di superare la dicotomia tra le sto­rie dell’antifascismo e del fasci­smo: un superamento utile non solo dal punto di vista del rin­novamento metodologico-erme- neutico proprio della storiogra­fia, ma pure sotto il profilo di una corretta analisi delle ten­denze e dei movimenti di lunga durata che preparano e rendono possibili i mutamenti politici e le trasformazioni sociali. A un approccio di questo tipo l’inda­gine di Paolo Corsini e Gian­franco Porta contribuisce con apprezzabili risultati e si segnala con quella di numerosi ricerca­tori che operano sul terreno del­le fonti orali, della biografia, della microstoria o della storia materiale nella sua specifica ac­cezione.

Giancarlo Bergami

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Alessandra Baldini-Paolo P alma, Gli antifascisti italiani in America (1942-1944). La “Legione ” nel carteggio di Pac- ciardi con Borgese, Salvemini, Sforza e Sturzo, Firenze, Le Monnier, 1990, pp. XVII-376, lire 40.000.

Il merito principale di questo libro va attribuito alla tenacia dei due curatori che, dopo esse­re riusciti a mettere mano su un carteggio che neppure lo stesso Pacciardi sapeva di avere in ca­sa (essendo ancora imballato così come era stato portato dal­la moglie rientrata in Italia do­po di lui), lo hanno integrato attraverso il lavoro di ricerca negli archivi italiani e stranieri. Questa e altre informazioni ap­prendiamo dalla prefazione di Renzo De Felice, che giusta­mente sottolinea l’importanza che questo ritrovamento ha per una concreta rivisitazione del­l’antifascismo di matrice libera­le e democratica, finora trascu­rato dagli storici. Non ci sentia­mo però di condividere le affer­mazioni di De Felice, quando egli attribuisce questa lacuna all’“egemonia culturale cattoli­ca e comunista” e quando parla di “ostracismi” messi in atto contro Randolfo Pacciardi e al­tre personalità. Per quanto ri­guarda la prima affermazione non è colpa di alcuna egemonia se alcune correnti politiche so­no state più attive di altre nel valorizzare l’apporto dato dagli antifascisti a esse aderenti. E quanto alla figura di Pacciardi (al centro dell’intero carteggio), non ci risulta che vi sia stato al­cun boicottaggio, a meno che non si dia questo significato al­le critiche alla sua azione di mi­

nistro della Difesa (1948-1953), quando egli condusse, tra l’al­tro, un’azione repressiva e di­scriminatoria nei confronti de­gli aderenti ai partiti di sinistra, in particolare dipendenti del suo ministero, parecchi dei qua­li subirono il licenziamento per motivi esclusivamente politici.

Il carteggio è preceduto da una breve testimonianza dello stesso Pacciardi, che illustra brevemente il contesto del car­teggio, e da un lungo saggio storico su La legione impossibi­le, opera dei curatori. Appren­diamo così i particolari della lunga lotta antifascista condot­ta da Pacciardi: dopo l’esilio divenne leader del Partito re- pubblicano a Parigi e coman­dante della legione Garibaldi in Spagna. Nel 1940 nella Francia invasa dai tedeschi è ancora in fuga, nel corso della diaspora generale, verso Bordeaux, Mar­siglia e Algeri. Da quest’ultima città riesce a imbarcarsi per Cu­ba, da dove passerà negli Stati Uniti.

Quando Pacciardi arriva a New York, il paese è appena entrato in guerra. Mentre le po­tenze del tripartito sono all’of­fensiva, Pacciardi comincia ad adoperarsi per raggruppare tut­te le forze antifasciste in un movimento che abbia lo scopo di appoggiare gli alleati. “Se Hitler vince — dichiara — l’Ita­lia diventerà uno stato vassallo e non alleato dei tedeschi”. Tra gli esuli antifascisti italiani l’i­dea (rimasta allo stadio di pro­getto) della costituzione di una legione, che operi sul piano mi­litare, era di vecchia data. La sua formazione avrebbe avuto il grande significato politico di dimostrare come non esistesse

identità tra popolo italiano e fascismo. Vi era stato il tentati­vo fatto a Parigi nel settembre 1939; vi era stato il piano di Emilio Lussu di organizzare, dopo l’entrata in guerra dell’I­talia, un movimento partigiano in Sardegna, con l’aiuto britan­nico, allo scopo di promuovere un’insurrezione antitedesca e costituire quindi un governo provvisorio nell’isola liberata. Vi era stata infine la proposta, nel febbraio 1941, di Carlo Sforza e Alberto Tarchiani alla Mazzini Society, associazione antifascista fondata nel 1939 a Nothampton (Massachusetts) da Gaetano Salvemini e da al­tri. Negli Stati Uniti Pacciardi era atteso come l’elemento più accreditato per mettere in atto tale progetto. Dopo un collo­quio col colonnello William Donovan, direttore dell’ufficio di New York del Coordination of Information (Coi) — che concede l’autorizzazione, con la pregiudiziale che la costituen­da legione sia indipendente da qualsiasi partito politico e non impegni politicamente il gover­no degli Stati Uniti “sia in for­ma esplicita che implicita” — Pacciardi si mette subito all’o­pera. Ed è a questo punto che inizia il carteggio.

Pacciardi vede nella costitu­zione della legione “il solo fatto che dimostrerebbe l’esistenza di un’Italia antifascista, la sola speranza di essere trattati me­glio sul tavolo della pace, il so­lo tentativo serio per incorag­giare dal di fuori la strenua re­sistenza degli italiani di dentro e di affrettare la disgregazione politica e militare del regime” (lettera a Salvemini del 6 mag­gio 1942). Al contrario dei diri-

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genti della Mazzini Society (in primo piano Alberto Tarchiani e Lionello Venturi), egli è con­trario a qualsiasi discriminazio­ne nei confronti dei comunisti, mettendo in luce l’anacronismo della posizione dei suoi avversa­ri nel momento in cui in tutta l’Europa prevale l’unità d’azio­ne tra le forze antifasciste. Da questo deriva la sua rottura con l’associazione. La questione è messa nuovamente a fuoco in una lettera inviata a Sforza il 4 gennaio 1943: “Lei ha troppa finezza intellettuale — egli scri­ve con riferimento ai comunisti — per non capire che si tratta di un movimento internazionale entrato nella storia e che non si può né ignorarlo, né assumere posizioni reazionarie di nega­zione totale”. Viva contrarietà manifesta Pacciardi anche ver­so la proposta, che per un mo­mento sembra prendere corpo, della costituzione di una legione austriaca al comando di Otto di Asburgo. L’azione di Pacciardi per realizzare il suo progetto in­contra numerose difficoltà. Le masse italo-americane sono an­cora prevalentemente filofasci­ste e filofascista è il quotidiano di lingua italiana “Il Progresso italo-americano”. Lo sbarco anglo-americano in Africa occi­dentale del novembre 1942 sem­bra suscitare nuove speranze. Ma si tratta di illusioni di breve durata. “Il Dipartimento di Stato — scrive Pacciardi a Stur- zo il 29 luglio 1943 — ha impe­dito che io andassi in Africa per formare una Legione. La ragio­ne è evidente: non vogliono im­pegni con nessuno.” La caduta del fascismo e l’armistizio mu­tano profondamente la situa­zione politica. In un comizio te­

nuto alla Carnegie Hall di New York Pacciardi lancia un duro atto di accusa agli anglo-ameri­cani. Diffidente si dimostra an­che verso Sforza che, per rien­trare in Italia, ha promesso di non intralciare il re e Badoglio.

Anche Pacciardi vorrebbe tornare in Italia, ma senza su­bire alcun condizionamento politico. A questo punto sorge un contrasto tra il Dipartimen­to di Stato, che ritiene che la presenza del leader repubblica­no in Italia possa essere utile per contenere la preminenza britannica nella definizione dell’assetto post-bellico, e il Comando alleato, il quale co­munica (2 febbraio 1944) che “il governo italiano non gradi­sce il ritorno del colonnello Randolfo Pacciardi”. Superate le ultime difficoltà, Pacciardi può rientrare in Italia soltanto il 7 giugno e anche la speranza di poter organizzare un gruppo di volontari da paracadutare al Nord in appoggio alle unità partigiane svanisce ben presto. Gli Alleati gli preferiscono il generale Raffaele Cadorna.

Richiamandoci a quanto det­to in principio non si può che giudicare lodevole l’opera dei due curatori. Ci sia permesso soltanto un piccolo appunto. Per la maggiore comprensione della materia sarebbe stata uti­le qualche ulteriore annotazio­ne. A p. 192, per esempio, do­ve si scrive di un articolo invia­to da Tagliacozzo “sul caso Bergamini, Einaudi, Croce e meglio su questo scandalo” o a p. 230 dove si accenna, senza nessun altro riferimento, a un attacco di Salvemini a Croce e Einaudi.

Franco Pedone

G iorgio P etracchi, “Intelli­gence” americana e partigiani sulla Linea gotica, Foggia, Ba- stogi, 1991, lire 20.000

Sulla Linea gotica (la Grìint- stellung del sistema difensivo dell’esercito germanico, che si estendeva da Pesaro alla costa tirrenica a Nord di Pisa) si combattè un capitolo rilevante della guerra in Italia nella fase cruciale dell’inverno 1944-1945.

Come è noto, tra le forze in­glesi e quelle americane nel cor­so della campagna d’Italia e so­prattutto nella fase che coincise con lo stanziamento del fronte sulla gotica si manifestarono al­cune non secondarie divergenze di ordine strategico complessi­vo: privilegiare definitivamente— nella visione statunitense — le operazioni sul secondo fron­te, assegnando al teatro italiano un ruolo secondario o prevede­re, secondo un progetto più ca­ro a Churchill ed ai britannici— uno sfondamento della goti­ca che consentisse alle forze al­leate di sbaragliare fascisti e te­deschi nell’Italia del Nord, ma anche di puntare verso l’Au­stria, Vienna, Lubiana e il Cen­tro Europa per “arrestare” di fatto il dilagare dell’Armata rossa nei Balcani e nell’Europa centrale ove l’impero britanni­co mirava a ricostituire consi­stenti interessi nella fase po­stbellica.

Dentro tale quadro strategico di ordine generale, e dentro quello più definito dell’anda­mento delle operazioni sul fron­te italiano, divenuto ormai “se­condario” nelle prospettive strategiche alleate una volta ab­bandonato il progetto di un at­tacco decisivo sulla gotica, si

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collocano i documenti (in buo­na parte inediti) raccolti e pub­blicati da Petracchi. Il lavoro dell’autore, prezioso per quan­to attiene l’individuazione e la segnalazione dei fondi docu­mentari conservati presso i Na­tional Archives di Washing­ton, risulta tuttavia piuttosto sbrigativo per quanto si riferi­sce invece all’analisi dei conte­nuti dei documenti stessi.

Il reale contributo di novità consiste quindi nelle fonti se­gnalate e messe a disposizione dei lettori: una serie di docu­menti prodotti con regolare pe­riodicità, che coprono un arco cronologico che va dal settem­bre 1944 al maggio 1945, dalla fase cioè nella quale le avan­guardie della Quinta armata raggiunsero la linea dell’appen- nino tosco-emiliano ed entraro­no quindi in contatto con le formazioni partigiane che ope­ravano in tutta l’area, fino alla fine delle operazioni militari in Italia. Le relazioni (i W eekly Partisan R ep o rts) prodotte dal Servizio informazioni della Quinta armata assumono per­tanto un interesse specifico. As­similabili nella periodicità e se­rialità ai rapporti di polizia (per esempio, per stare al caso italia­no, sia pure nella “trincea” op­posta, ai “Notiziari” della Guardia nazionale repubblica­na) prodotti dai più svariati enti ed organismi sui diversi fronti nel corso del conflitto, tali ma­teriali costituiscono la testimo­nianza di come gli alleati, nella fattispecie gli americani, giudi­cassero la situazione militare ed ancor più specificamente di co­me essi valutassero la funzione e il ruolo politico e strategico delle forze partigiane attestate

al di là del crinale appenninico nell’Italia occupata dai tedeschi e soggetta alla Rsi, nonché dei problemi politici di rapporto con le forze antifasciste che si prospettavano per l’Italia del dopoguerra.

Gianni Sciola

Chiara Saonara (a cura di), L e m ission i alleate e la resisten­za nel Veneto. L a rete d i P ie tro F erraro d e ll’O ss, “Annali” del­l’Istituto veneto per la storia della resistenza, Anni 9-10, 1988-1989, pp. 360, lire 44.000.

Nonostante i numerosi studi sulla resistenza, ancora oggi non si conosce molto sulle mis­sioni militari alleate operanti presso le unità partigiane. Al di là di qualche storia romanzata, poco è trapelato sul vero ruolo svolto da queste unità specializ­zate strettamente legate ai vari servizi di sicurezza degli alleati. Gli archivi hanno adottato una politica severamente restrittiva nell’accesso agli incartamenti, gran parte dei quali, in ogni ca­so, veniva normalmente distrut­ta per non fornire notizie in ca­so di cattura.

Sono proprio queste caratte­ristiche generali che consento­no di apprezzare la pubblica­zione di una parte delle car­te dell’avvocato Pietro Ferra­ro, relative alla documentazione quasi completa della vita opera­tiva di una missione dell’Offi­ce of Strategie Service (OSS), operante in Veneto dal luglio 1944 sino alla fine delle osti­lità.

Nota in codice con il nome di Margot-Hollis, la missione Fer­raro aveva svolto un buon lavo­

ro, operando a fianco della Bri­gata ferrovieri Matteotti, e sfruttando al meglio la vasta re­te di conoscenze dell’avvocato veneziano, i legami con Nenni e gli ambienti militari, e il capil­lare lavoro svolto dagli antifa­scisti, in una regione come il Veneto, di grande importanza per i tedeschi che, attraverso il Brennero, potevano mantenere i collegamenti con l’Italia.

Al di là della possibilità di se­guire nei dettagli il funziona­mento di una missione militare alleata, la serie completa dei messaggi ricevuti e inviati da Margot-Hollis è una miniera di informazioni sulla dinamica dei movimenti finanziari connessi alla lotta partigiana, sul sistema di rifornimenti mediante avio­lancio e sul complesso lavoro di verifica e controllo connesso al­l’impiego dei bombardieri da parte alleata, alla scelta degli obiettivi e alla valutazione dei danni inflitti all’apparato mili­tare tedesco.

Da segnalare anche la presen­za di un certo numero di di­spacci sulla situazione in Friuli (divisione Osoppo) e a Trieste, specialmente in merito alle vi­cende della ‘corsa’ tra neoze­landesi e forze di Tito per giun­gere primi nella città, con alcu­ni dati sulla proposta dei cetnici di schierarsi a difesa della città giuliana dall’attacco parti­giano.

Si tratta di accenni scarni, re­datti nel linguaggio sintetico ti­pico di questo genere di comu­nicazioni, che sono però utili a delineare un quadro complessi­vo della lotta partigiana, vista con gli occhi di chi si è trovato ad agire nel punto di congiun­zione tra alleati e resistenza,

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dove affluivano informazioni e da dove partivano i rapporti, mentre si sviluppava una lotta complessa, in un ambiente pie­no di insidie, come è dimostra­to anche dalle numerose perdite registrate dalle missioni.

Di particolare rilievo anche la ricostruzione del quadro com­pleto delle missioni militari operanti nel Veneto. Consul­tando le varie fonti disponibili e incrociando pazientemente i da­ti ottenuti, l’autore ha potuto individuare le quasi cinquanta missioni (inglesi, americane, francesi e italiane) presenti nel­l’area veneta, raccogliendo poi per ciascuna i dati essenziali ac­compagnati dal necessario sup­porto bibliografico. Nell’im­possibilità di pubblicare l’intero fondo con la stessa completezza dei dispacci radio, è stata forni­ta una sintesi significativa del materiale disponibile, che offre (come osserva Angelo Ventura nella sua introduzione) una pre­ziosa testimonianza “dell’attivi­tà e del m o d u s op era n d i di una missione militare in collega­mento con la resistenza” pur non riuscendo comunque a dis­sipare completamente il “velo di riservatezza” che “rende an­cor oggi non ben decifrabili la genesi della missione e i suoi ri­svolti politici”.

A completamento del lavoro, tre indici diversi (dei nomi di persona, di quelli di enti, for­mazioni, missioni, radio, campi di lancio e infine di nomi geo­grafici) permettono di indivi­duare subito gli argomenti che interessano.

Antonio Sema

Ivan Tognarini (a cura di), G uerra d i sterm in io e resisten­

za . L a p ro v in c ia d i A re zzo (1943-1944), Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 1990, pp. 422, lire 55.000.

Se l’obiettivo che si propone un libro di ricerca storica è quello di portare nuovi elementi e di affrontare campi inesplora­ti, possiamo senz’altro dire che, con la pubblicazione di quest’o­pera, il fine è stato pienamente raggiunto. Essa infatti, supe­rando anche i limiti indicati dal titolo, contiene, oltre ad alcuni studi di carattere generale, an­che contributi riguardanti la si­tuazione della provincia prima dell’8 settembre.

Il volume raccoglie una parte delle relazioni presentate al con­vegno internazionale di studi su “Seconda guerra mondiale e sterminio di massa. Stragi e rap­presaglie nella lotta di liberazio­ne” (24-28 settembre 1987), pro­mosso dall’amministrazione provinciale di Arezzo. Non so­no compresi alcuni interventi che hanno seguito una diversa strada per giungere alla pubbli­cazione e altri che comparirono in una nuova pubblicazione, an- ch’essa promossa dall’ammini- strazione provinciale.

Le relazioni si possono divi­dere in tre gruppi: quelle di ca­rattere generale; quelle riguar­danti la metodologia della ricer­ca; quelle concernenti in modo specifico la provincia di Arez­zo. Nella prefazione Ivan To­gnarini, esaminando il fenome­no delle stragi e delle rappresa­glie, giunge alla conclusione che difficilmente esse possono esse­re interpretate (e tanto meno giustificate) come “risposta im­mediata, quasi istintiva e irra­zionale, agli attacchi ed alle at­

tività dei partigiani”, rivelando­si invece come “l’estrema con­seguenza dell’applicazione di direttive precise e come esecu­zione di piani preordinati da applicarsi laddove venivano lo­calizzati focolai di resistenza, laddove, in un modo o in un al­tro, i partigiani rivelavano la loro presenza o facevano senti­re la loro iniziativa”. Dopo la liberazione della città, il Comi­tato di liberazione locale venne diffidato dal comando alleato dal raccogliere prove e testimo­nianze relative alle violenze dei nazifascisti, essendo lo stesso Comitato considerato come un’“agenzia privata” suscettibi­le di commettere gravi ingiusti­zie. Fu questo uno dei motivi, e certamente tra i più rilevanti, dell’enorme ritardo nella docu­mentazione di alcuni fatti legati alla guerra di liberazione. La relazione di Enzo Collotti, ( L ‘occupazione tedesca in Ita lia negli anni 1943-1945) dimostra come, pur nel quadro della po­litica di Mussolini, oscillante sempre tra “la rivendicazione di uno spazio minimale ed i gesti della più passiva subordinazio­ne” all’occupazione dell’Italia, non sia stata risparmiata “nes­suna delle caratteristiche delle finalità di assoggettamento po­litico e di sfruttamento econo­mico che presiedettero alla poli­tica di occupazione del resto dell’Europa”. Lutz Klinkham- mer (Le con cezion i della guerra p artig ian o nei qu a d ri a lti della W ehrm acht) fornisce un ele­mento finora sconosciuto che dimostra la pressione esercitata dal terrore nazista anche all’in­terno: quello della fucilazione, anche per trasgressioni minime, di 50.000 soldati dell’armata te­

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desca promulgata dai tribunali di guerra. Dalla relazione di Teodoro Sala (T rieste: la risiera d i S. S abba tra s to r ia e p o litica ) apprendiamo tra l’altro alcuni aspetti della contraddittoria po­litica messa in atto dai tedeschi nella Venezia Giulia, politica che, mentre nelle regioni annes­se al Reich era caratterizzata da un’azione di violenta denazio­nalizzazione, nelle province ri- vieresche assumeva, in funzione antitaliana, il ruolo di rivendi­care i diritti dei croati e degli sloveni.

Al secondo gruppo apparten­gono le relazioni di Gian Pietro Brunetta, L o sguardo p e rd u to , di Gianfranco Casadio, I s e r v iz i cin em atografic i d e l W ar O ffice n e ll’aretino (luglio -settem bre 1944); di Nicola Labanca, D alla fo to g ra fia d i guerra alle f o t o ­grafie d e l tem p o d i guerra. N o ­te a m argine d i una ricerca, che riguardano la metodologia del­la documentazione cinemato­grafica e iconografica. Quella di Casadio, in particolare, trat­ta dei criteri di addestramento dei cam eram en dell’Unità cine­matografica dell’esercito bri­tannico (Afpu), che avevano, tra le varie istruzioni, anche quella di non fare mai apparire il sangue dei soldati britannici per non allarmare le famiglie; tale direttiva non includeva pe­rò i soldati coloniali, quelli ne­mici e i civili massacrati dai na­zifascisti. La relazione è corre­data da schede relative ai docu­menti girati da questi cam era­m en in provincia di Arezzo; al­la relazione di Labanca si riferi­scono invece alcune fotografie molto utili per ricostruire la storia dei bombardamenti stra­tegici. Fanno parte di questo

gruppo anche le relazioni di Augusto Antoniella (F o n ti p e r la s to ria d a l fa sc ism o a l d o p o ­guerra con serva te n e ll’A rch iv io d i S ta to d i A r e z z o ”), d i M ario G. R o ss i (L a resistenza n e ll’are­tino: f o n t i d ocu m en tarie e p r o ­b lem i s to ric i) e di Enzo Gradas­si (/ can ti pa rtig ia n i com e d o cu ­m en to . M a teria li e d analisi dei can ti pa rtig ia n i n e ll’aretino). Nella relazione di Rosa Maria Di Donfrancesco e Piero Ricci ( “E la G erm ania — lo S ta to — co n tin u a ”: e ffe tt i d i sen so in a vvis i p u b b lic ita r i d e l 1944) vie­ne fatta un’analisi semiotica di 18 annunci pubblicati dal quoti­diano “La Nazione” dal feb­braio al maggio 1944.

L’ultima parte del volume, sulla provincia di Arezzo, com­prende le relazioni di Giovanni Verni (A p p u n ti p e r una sto ria della resistenza n e ll’aretin o), di Ivo Biagianti (A n tifa sc ism o , resistenza e stra g i n e ll’aretino), di Giorgio Sacchetti (R en icci: un cam po d i concen tram en to p e r s la v i e anarchici) e di Anto­nio M. Lombardo, Un caso d i trasgressione sociale. L a borsa nera in p ro v in c ia d i A re zzo (1939-1947). Quella di Verni, dopo un rapido compendio sul­la storia del movimento ope­raio e democratico nell’aretino, dalle origini allo scoppio della seconda guerra mondiale, deli­nea le caratteristiche della resi­stenza nella provincia, condi­zionata dalla prevalenza della corrente cattolica, sia nel Co­mitato provinciale di concen­trazione antifascista sorto in periodo badogliano, sia nel Co­mitato provinciale di liberazio­ne (succeduto al primo) che promosse il “Raggruppamento Bande Monte Amiata”. Questa

situazione, dovuta anche alle difficoltà che incontravano nel­la zona i partiti socialista e co­munista, fece sì che nelle for­mazioni partigiane si affermas­se la mentalità della guerriglia “sull’uscio di casa”. Per cui l’incontro coi partigiani fioren­tini provenienti dal monte Gio­vi, in prevalenza di orientamen­to comunista, avrebbe messo allo scoperto le due diverse con­cezioni: mentre i primi “opera­vano secondo criteri tattici e strategici ancorati a una visione politica e militare a scala regio­nale, o quanto meno interpro­vinciale”, i secondi “erano in­vece fortemente motivati alla lotta dalle esigenze della difesa delle zone in cui operavano, al­le quali erano strettamente lega­ti da vincoli di parentela, amici­zie, interessi economici”. I par­tigiani aretini diedero comun­que il loro attivo contributo, particolarmente nelle sanguino­se battaglie a cavallo della libe­razione del capoluogo, batta­glie destinate a frustrare il pia­no tedesco di protrarre la resi­stenza sugli Appennini per ave­re il tempo di completare i lavo­ri di fortificazione della linea gotica.

Nello studio di Sacchetti so­no contenute alcune testimo­nianze sullo spirito di resistenza degli internati di Rennici. La popolazione del campo di con­centramento era composta da anarchici, ai quali le autorità badogliane, dopo anni e anni di galera fascista, non avevano sa­puto offrire niente di meglio del campo di concentramento, e da partigiani slavi, tra i quali era­no anche centinaia di minoren­ni. Tra le prime iniziative del Comitato antifascista vi fu quella di porre in salvo questi

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internati evasi nel marasma suc­cessivo all’8 settembre. E, fatto questo assai significativo, sia dal punto di vista umano che da quello politico, questi slavi per la prima volta sentirono “proferire in italiano frasi di comprensione e di solidarietà”.

Il volume è completato da al­cuni documenti inglesi, tedeschi e italiani tra i quali i periodici rapporti delle autorità fasciste sul progredire dell’attività del movimento di liberazione e una relazione del generale Taddeo Orlando sull’eccidio di Castel- nuovo dei Sabbioni (4 luglio), con la proposta dei provvedi­menti da attuare a favore della popolazione della zona, strema­ta dalla strage, dalle distruzioni e dall’indigenza.

Franco Pedone

Daniele Borioli, Roberto Botta, I g io rn i della m o n ta ­gna: o tto saggi su i pa rtig ia n i della P in an -C ich ero , Alessan­dria, Edizioni WR, 1990, pp. 223, lire 19.000 (Istituto per la storia della resistenza e della so­cietà contemporanea in provin­cia di Alessandria).

Giovanni Serbandini, B ini, già addetto stampa della VI Zo­na ligure, richiama i due con­cetti fondamentali dell’unità e del rigore morale che animava i partigiani della due divisioni operanti sull’appennino ligure­alessandrino, la Cichero e la Pi­nan-Cichero, garibaldine “nella scelta di campo ma socialmen­te composite e ideologicamen­te ispirate a uno spiccato sen­so dell’unità ciellenistica” (p. 64). Di tali divisioni gli auto­ri (ricercatori presso l’Istituto

per la storia della resistenza e della società contemporanea in provincia di Alessandria) rico­struiscono l’attività, la com­plessa fisionomia ideologica e la composizione sociale dei combattenti. Il libro — che consta di saggi dovuti rispetti­vamente a Daniele Borioli (II, V, VI, Vili) e a Roberto Botta (I, III, IV, VII) — rappresenta una tappa in un ampio lavoro dedicato alla storia della Pinan- Cichero, studiata nei suoi aspetti di vita quotidiana nei di­staccamenti, di “esperienza ar­mata come momento di forma­zione culturale e morale”.

È sottolineata quindi l’inci­denza dell’origine familiare an­tifascista nelle scelte ideali e pratiche dei giovani partigiani liguri. Non mancano in questo contesto situazioni eccezionali come quella di Umberto Laza- gna, poi capo di stato maggiore della VI Zona, e del figlio Gio­vanni Battista, vicecomandante della Pinan-Cichero. L’antifa­scismo di famiglia fortemente strutturato in senso ideologico stimola il giovane Giovanni Battista, studente dell’ateneo genovese, ad “ampliare le pro­prie conoscenze politiche sino all’approdo comunista e al defi­nitivo distacco dall’antifasci­smo del padre. La tradizione politica familiare è, dunque, uno stimolo accanto ad altri, li condizionerà ma verrà da essi inesorabilmente messo in di­scussione e superato” (p. 75).

Gli autori ripercorrono tempi e luoghi della maturazione della coscienza dei partigiani della Pinan-Cichero, illuminando le motivazioni della scelta antifa­scista e resistenziale. Un antifa­scismo che “si ricollega al senti­

mento di ribellione dei giovani, e lo rende, in ultima analisi, possibile e concreto” (p. 83). Borioli e Botta sollevano l’in­terrogativo se abbia ancora sen­so proporre una sto ria socia le della resistenza che trovi nell’e­sperienza partigiana “il proprio centro narrativo e, allo stesso tempo, non perda di vista i no­di fondamentali della storia del­la società italiana”. Sebbene non sia data una risposta globa­le organica, capace di costituire un modo nuovo e pluridiscipli- nare di affrontare la storia della resistenza, sia pure dall’angolo visuale di un’area geografica li­mitata e di un’esperienza certo notevole come quella della Pi­nan-Cichero, gli autori fanno compiere a tale indagine un passo avanti nella direzione che alcuni saggi recenti avevano la­sciato intravedere.

Respingendo gli schematismi e i condizionamenti di una sto­ria a tesi che spesso si sovrap­pone, fino a stravolgerle nei lo­ro contenuti, alle volontà, esi­genze e aspirazioni reali, si rie­sce a capire meglio la dinamica e a impostare correttamente il problema aperto di una precisa e circostanziata definizione sto­rica dei venti mesi partigiani. Su questo terreno è possibile ri­leggere la guerra di liberazione come un’opportunità importan­te di crescita delle culture, “di confronto tra le mentalità, di contatto tra i ceti sociali, di ri­formulazione dei ruoli” (p. 12).

Si rivelano le voci e gli itine­rari di testimoni e protagonisti cui gli autori danno spazio of­frendo un aperçu eloquente del­lo stato della coscienza del pae­se a una svolta decisiva del suo cammino. Ne risulta un viluppo

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problematico che la percezione del nemico da parte dei parti­giani acutizza e complica al­quanto, mentre si delinea una sorta di “dialettica fondante, comune a molti aspetti della vi­cenda resistenziale, instauratasi tra vertici e base partigiana nel­lo svolgersi concreto dell’ambi­zioso progetto di educazione politica dei giovani ribelli”. Di qui gli autori colgono e indi­viduano il senso della resisten­za, che fu, “per taluni dei suoi protagonisti, anche e soprat­tutto occasione di emancipa­zione politica e di riscatto ci­vile; e che segnò, per le giova­ni generazioni di allora, l’an­sia assoluta di differenziarsi da un universo di valori negativi” (P- 98).

L’esame dell’organo ufficiale dapprima della terza divisione Cichero e poi dell’intera VI Zo­na operativa ligure, “Il Parti­giano”, rende conto dei mo­menti in cui si connota quello che è una sorta di progetto di educazione civica del partigiano che “quasi sempre giunge in montagna sprovvisto di qualsi­voglia cultura” (p. 99). Emer­gono linee di intervento e obiet­tivi che furono propri non del solo movimento ligure di libera­zione e su cui il comando Bri- ganta garibaldina Oreste insi­steva nella “Direttiva per il ser­vizio stampa e propaganda”, avvertendo commissari e addet­ti stampa dei vari distaccamenti a non cadere “in settarismi di qualsiasi genere o in personali­smi”, ma a valorizzare l’ispira­zione unitaria del “movimento popolare partigiano al quale è affidata la salvezza della Pa­tria”. L’immagine del nemico che ne discende è costruita “sul­

la base di riscontri oggettivi, ma anche sull’adeguamento a considerazioni di opportunità e di tattica”; laddove gli scarsi e scarni cenni ’’circa la genesi sto­rico-politica del regime, che af­fiorano qua e là nei testi desti­nati all’informazione e all’istru­zione dei combattenti, fluttua­vano sempre su un piano piut­tosto vago” (p. 100).

Attraverso l’uso e l’intreccio di fonti diverse (testimonianze orali, documenti d’archivio pubblici e privati, elaborazioni statistiche computerizzate sui ruolini partigiani, riletture della memorialistica), Borioli e Botta forniscono in conclusione un sondaggio attento a un signifi­cativo microcosmo resistenziale senza perdere di vista i nodi della storia italiana contempo­ranea. Ripercorrere la vicenda dei partigiani, e dell’area di fiancheggiamento attivo, di so­lidarietà e collaborazione con la lotta di liberazione, comporta per gli autori “indagare le radi­ci culturali ed etiche di buona parte del ceto dirigente politico, sindacale, culturale, economico dei primi decenni dell’Italia re­pubblicana”. In tale connessio­ne con il dopo essi a ragione ve­dono “una delle questioni capa­ci di restituire prepotentemente vitalità a una rinnovata storio­grafia resistenziale” (p. 12).

L’affermazione dei diritti di libertà, di giustizia e di demo­crazia allora posti, consentono così di riconoscere gli appunta­menti mancanti con una seria riforma dal basso dell’ordina­mento civile e statale in Italia, individuando i problemi rinvia­ti dalle classi dirigenti al gover­no nel dopoliberazione e fino ai nostri anni.

Giancarlo Bergami

Vanna M ignoli, La resistenza mantovana 1943-1945, Manto­va, Istituto provinciale per la storia del movimento di libera­zione nel mantovano, 1990, pp. 207, sip.

Gilberto Cavicchioli e Rinal­do Salvadori giustamente scri­vevano che “un periodo, i venti mesi della resistenza [mantova­na], trattato finora a livello emotivo piuttosto che scientifi­co, trova finalmente con questo lavoro una propria dignità di periodo storico”. Questo giudi­zio è fatto proprio da Gaetano Grassi nella prefazione alla pre­sente edizione che sottolinea anche come il volume sia “inse­rito nel discorso sulla proble­matica resistenziale, per ciò che concerne tanto l’esplorazione delle fonti finora utilizzate e il necessario confronto con le nuove fonti ancora quasi tutte da scoprire, quanto il taglio da­to e da dare alla trattazione dei ‘venti mesi’ con tutti i quesiti interpretativi che essa com­porta” .

Stampato per la prima volta nel 1981 in un’edizione curata dal Comune di Mantova, il vo­lume trova ora meritatamente collocazione nella collana del­l’Istituto provinciale. Anche se forse sarebbe stato preferibile che, al posto della ristampa anastatica, si fosse proceduto alla stesura di una nuova edi­zione suscettibile di acquisire nuovi elementi eventualmente emersi nel frattempo, il rilievo nulla toglie al valore dell’opera basata su di una documentazio­ne molto vasta, raccolta, oltre che a Mantova, anche a Mila­no, a Parma, a Roma e a Mo­dena.

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Già il primo mese dell’occu­pazione tedesca fu contrasse­gnato da alcuni episodi di vio­lenza. Il compito di organizza­zione e di proselitismo degli an­tifascisti fu comunque facilitato dall’indignazione provocata dal triste spettacolo delle migliaia di soldati italiani che, catturati dai tedeschi, venivano fatti so­stare in attesa della deportazio­ne nei tre campi esistenti alle porte della città. E si deve alla collaborazione della popolazio­ne locale se più di trecentocin- quanta ebrei mantovani potero­no sfuggire alla cattura. Anche se il fascismo si andava riorga­nizzando sotto la veste repub­blicana, la situazione non era certamente rassicurante se uno squadrista scriveva al giornale “La Voce di Mantova” lamen­tando 1’esistenza di “un po’ di infezione badogliana” e la pre­senza, nella piazza centrale del­la città, di “gruppi di persone che sparlano del regime passa­to, presente e futuro, insultano i nuovi iscritti al Pfr, criticano i provvedimenti del nuovo gover­no, regolano l’andamento della guerra puntando sulla sicura vittoria dei nemici dell’Asse”.

Quanto all’atteggiamento del clero, argomento al quale Mi­gnoli riserva un esame accura­to, esso non fu uniforme. Men­tre don Primo Mazzolari la sera dell’8 settembre esortava i tede­schi a ripassare le Alpi se non volevano essere ricacciati dalla rivolta degli italiani, il vescovo di Mantova Menna, da sempre ammiratore del fascismo e di Mussolini, invitava la popola­zione a “osservare le disposizio­ni che vengono emanate dalle autorità” e a trattare “con ri­spetto” le truppe tedesche.

Nonostante la conformazio­ne del territorio mantovano prevalentemente pianeggiante non offrisse un ambiente parti­colarmente favorevole alla guerriglia, cominciarono anche a costituirsi gruppi armati. Do­po la liberazione di Roma, in particolare, l’attività dei parti­giani assunse nuovo vigore.

Molto spazio dedica il libro alle giornate dell’insurrezione precedute, tra gennaio e mar­zo, da un periodo alquanto cri­tico nel corso del quale nume­rosi furono gli arresti. In pre­cedenza, però, un duro colpo era stato inflitto ai nazifascisti il 19 e il 20 dicembre 1944 du­rante la battaglia di Gonzaga, un audace attacco condotto dalle forze garibaldine che ave­vano portato alla liberazione di cinquanta patrioti e alla con­quista di una grande quantità di armi. L’autrice segue con precisione le giornate insurre­zionali nelle diverse località. I combattimenti per la liberazio­ne della provincia iniziati il 23 aprile si protrassero per una settimana. Il capoluogo, occu­pato la sera del 23, fu la prima città alla sinistra del Po a esse­re liberata.

Secondo il censimento fatto il 1° maggio 1945, risultavano inquadrati in provincia di Mantova 4.496 partigiani, sud­divisi tra le Brigate Garibaldi, Matteotti, Fiamme Verdi e au­tonome. Una di queste ultime era intitolata a Ivanoe Bonomi.

Completa il volume l’elenco dei caduti mantovani nella resi­stenza, che, come avverte una nota, non può essere conside­rato definitivo per le lacune nella documentazione disponi­bile.

Franco Pedone

Giulivo Ricci (a cura di), I l C o m ita to d i L ib era zio n e N a z io ­nale d i P o n trem o li, Pontremo- li, 1991, pp. 205, sip (Centro aullese di ricerche e di studi lu- nigianesi — Istituto storico del­la resistenza apuana — Ammi­nistrazione comunale di Pon­tremoli).

Il volume, pur contenendo solo una parte, tra quelle rin­tracciate, degli atti inediti del Cln di Pontremoli, è un rilevan­te contributo non solo alla rico­struzione della storia di Pontre­moli nell’immediato secondo dopoguerra sino alle elezioni del 1946, ma anche a quella del­la Lunigiana interna, che fu contrassegnata da una condi­zione abnorme sia per quanto riguardava i Cln e il movimento partigiano che per la mancanza di un’unitaria direzione politica e di un unico comando militare operativo (cfr. Giovanni Verni, L a resistenza in T oscana, “Ri­cerche Storiche”, 1987, n. 1). Anche i documenti raccolti nel­la seconda parte del libro sono inediti e chiariscono sia le deli­berazioni del Cln che il com­portamento dei suoi componen­ti, rappresentanti, ovviamente, tutte le forze politiche locali. Questa pubblicazione viene inoltre ad assumere maggior va­lore se ricordiamo, come fa Giulivo Ricci nell’introduzione, che fino agli anni sessanta veni­vano dati per dispersi i verbali del Cln di tutti i comuni della Lunigiana. Solo nel 1974 furo­no ritrovati in una cantina sei deliberazioni del periodo clan­destino del Cln di Aulla che, in­sieme al Cln di Pontremoli, fu­rono gli unici ai quali il Cpln di Apuania delegò la rappresen­

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tanza per l’area dell’alta Luni- giana qualificandoli come “Sot­tocomitato provinciale”. Nel 1975 Giulivo Ricci pubblicò sei verbali del Cln pontremolese, anteriori al 25 aprile e prove­nienti da fonti private, insieme ad altri due verbali: uno del Cln di Bagnone e l’altro di Filattiera (Avvento del fascismo. Resi­stenza e lotta di Liberazione in Val di Magra, Parma, 1975). Solo oggi, però, Ricci è in grado di ricostruire la nascita dei di­versi Cln locali. Le tardive co­stituzioni in alcuni centri evi­denziano la carente iniziativa politica degli antifascisti luni- gianesi, che venne però com­pensata dalla posizione strategi­ca e dal ruolo viario della Luni- giana; essa infatti, “interposta come un cuneo tra Liguria ed Emilia”, fu ritenuta oltremodo idonea all’attività della guerri­glia. Poco dopo l’8 settembre1943 per iniziativa degli antifa­scisti di Sarzana, in contatto con il Cpln di La Spezia, si for­marono i primi nuclei di resi­stenza in territorio lunigianese che tra la fine del 1943 e il gen­naio 1944 si spostarono nel co­mune di Tresana e, successiva­mente, nel parmense, con l’ec­cezione del gruppo comandato da Bruno Callo. Nel febbraio1944 un altro gruppo di parti­giani sconfinò dal versante set­tentrionale dell’Appennino to­sco-emiliano, nell’alto pontre­molese e quindi nello Zerasco, accogliendo via via elementi lo­cali e formando il battaglione Picelli. In sostanza gran parte della Lunigiana divenne in bre­ve tempo zona di influenza del Cpln di La Spezia e delle forma­zioni combattenti spezzine che contavano nelle proprie file nu­

merosi lunigianesi. Questo di­mostra, secondo il curatore, da un lato l’insufficienza delle for­ze “indigene” lunigianesi e, dal­l’altro, l’inadeguatezza dell’a­zione del Cpln apuano ad allar­gare la propria influenza alla Lunigiana. Infatti, sul terreno militare, soltanto la Valle del- l’Aulella rimase legata al Co­mando unico apuano, “peraltro costituitosi soltanto nel gennaio del 1945 con la Divisione Apua­na, mentre prima del dicembre 1944 la Divisione garibaldina Lunense, che traeva in qualche modo legittimazione dal Cpln apuano, si riteneva la deposita­ria del comando militare di zo­na, anche se non potè consegui­re una vera aggregazione né nel­la ‘Muccini’ sarzanese, né dei ‘Patrioti’ Apuani”. Nella pri­mavera del 1944 era nata anche la brigata Garibaldi 37 bis la quale, in base alla documenta­zione superstite e alle testimo­nianze, non risulta avere avuto collegamenti con il Cpln apua­no, mentre dalle fonti emerge un legame con il Cln sarzanese e con quello provinciale spezzino. Sebbene questi verbali, pochi quelli del periodo clandestino e più numerosi quelli del post-li- berazione, evidenzino, per esempio, che il peso della De fu prevalente nel primo periodo e perse rilievo nel secondo, du­rante il quale aumentarono i contrasti tra i rappresentanti dei vari partiti, consentono tutta­via, per dirlo con le parole del curatore, “di formulare ipotesi di lavoro [...] attraverso il quale intraprendere un’elaborazione che, giovandosi anche di altri fondi, serva a quell’auspicata ricostruzione” della storia della lotta di liberazione e del secon­

do dopoguerra di Pontremoli e della Lunigiana.

Nicla Capitini Maccabruni

Giovanni Cuccù , I vo e le stel­le. Un partigiano sardo in Jugo­slavia, Cagliari, Cuec, 1991, pp. 254, lire 28.000 (Istituto sardo per la storia della resistenza e dell’autonomia).

Un libro di memorialistica quello di Giovanni Cuccù, che percorre per tappe rapide gli an­ni dell’infanzia in un paesino dell’entroterra sardo, della fan­ciullezza a scuola e nei pascoli ad accudire il misero gregge di famiglia e che focalizza in modo via via più dettagliato l’espe­rienza del servizio militare, del carcere (per insubordinazione), quindi l’invio in Jugoslavia e la successiva scelta di disertare e di passare alle formazioni partigia- ne slave. L’aspetto più interes­sante del volume risiede certa­mente nella descrizione minuta della politica di occupazione dei territori sloveni e croati ove ven­gono stanziati i battaglioni cui è assegnato lo stesso Cuccù, e nel­l’analisi dell’azione militare e politica svolta dai partigiani con­tro le forze nazifasciste oltre che dei rapporti tra i combattenti an­tifascisti e le popolazioni civili delle zone che divengono teatro delle principali operazioni.

La scelta di campo per “Ivo” (questo il nome di battaglia con il quale viene conosciuto dai compagni anche nei difficili an­ni di lotta politica condotta nel dopoguerra in patria) è netta, non consente spazio alcuno a mediazioni né a giudizi più sfu­mati: da un lato i soldati che

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sopportano in prima linea i pe­ricoli e le insidie della guerra, dall’altro, nelle retrovie, gli uf­ficiali imboscati e i gerarchi del­la Milizia; quindi, dopo la scelta di abbandonare la divisa e di schierarsi con la resistenza, da un lato i partigiani e le popola­zioni dei villaggi che garantisco­no la rete delle protezioni e degli approvvigionamenti, dall’altro tedeschi e fascisti e il variegato spettro delle forze collaborazio- niste.

C etn ici, belo g ra d isti (vero e proprio esercito di “guardie bianche” anticomuniste al servi­zio degli agrari) e d o m o b ra n i (“difensori della patria” che combatterono accanto alle mili­zie nazionaliste croate degli ustascio di Ante Pavelic) costi­tuiscono una presenza di cui Cuccù non indaga provenienza politica e ragion d’essere e che liquida attraverso una netta condanna, assimilandoli all’u­nica odiosa categoria dei colla­borazionisti. Una serie di forze che la resistenza riuscirà a spaz­zare via ma non certo ad elimi­nare in modo definitivo, come le convulse vicende della Jugo­slavia negli ultimi anni stanno drammaticamente a dimostrare.

Il lettore che si accosterà alle pagine di “Ivo” vi troverà la straordinaria freschezza (e, ov­viamente, anche le ingenuità espressive e le cadute di tono) del narratore popolare, l’atten­zione ai particolari apparente­mente minuti, la marcata sotto- lineatura della rilevanza degli elementi naturali (i boschi, i campi, il cibo, ecc.) nella deter­minazione delle scelte indivi­duali e collettive.

Una ulteriore conclusiva con­siderazione va spesa in tal senso

riguardo al titolo stesso del volu­me: le “stelle” cui “Ivo” si riferi­sce sono quelle delle nottate pas­sate in solitudine sul Supramon- te ad occhi aperti a rimirare la volta stellata, ma sono anche quelle dei cieli di Slovenia e di Croazia dei lunghi turni di guar­dia come soldato del regio eser­cito e successivamente come combattente partigiano nelle formazioni comuniste. Un lega­me che, una volta individuato, consente ad Ivo di superare il trauma del distacco dall’isola e dal paese natio, un legame che diviene tanto più solido quando il soldato pastore scopre che i “nemici” che egli è mandato a combattere sono contadini co­me la sua stessa gente, quando ritrova, al di là delle barriere che dovrebbero impedire ogni possi­bilità di comunicazione, i ritmi ed i modelli di vita della società rurale al quale è legata la sua formazione e la sua stessa visio­ne del mondo.

Gianni Sciola

Strumenti

“Bollettino d’archivio dell’Uf­ficio storico della Marina mili­tare”, settembre 1992, pp. 305, sip.

Torniamo a segnalare agli studiosi questo benemerito Bol­lettino, che riunisce studi in lar­ga parte originali sulla marina militare italiana alla presenta­zione analitica di fondi impor­tanti dell’archivio del suo Uffi­cio storico. In particolare que­sto fascicolo comprende la sesta parte di un ottimo lavoro di Fulvio Cardoni, I l p ro b le m a ae­ron avale ita liano, che ripercor­

re i rapporti tra marina ed aero­nautica tra le due guerre mon­diali con una sicura conoscenza dei non molti studi disponibili e un grosso apporto archivistico. Vale la pena di riportarne le conclusioni, non nuove, ma ben documentate: questi rapporti “furono qualificati da una co­stante ricerca di accordo tra le due parti; il prezzo pagato per il raggiungimento di esso fu la tacitazione di ogni effettiva esi­genza di funzionalità dell’appa­rato aeronavale” (p. 52). “In definitiva, l’accordo tra le due armi veniva mantenuto al prez­zo dell’inefficienza della mac­china militare e per salvaguar­dare interessi affatto particola­ri” (p. 40). Interessi che l’auto­re indica da parte dell’aeronau­tica “nel continuo timore di es­sere ridimensionata o soppres­sa” in virtù della “mancanza di un peso politico corrispondente all’esaltazione propagandistica che di essa faceva il regime” (p. 50) e nel conservatorismo domi­nante nella marina, ancora le­gata alla sopravalutazione delle grandi corazzate. Merita una segnalazione pure il contributo di Mariano Gabriele, L a R egia M arina alla riconqu ista d i P a ­lerm o (se ttem bre 1866), che do­cumenta con minuzia la parte della flotta nella repressione dell’insurrezione palermitana: un tema che dimostra la libertà con cui anche gli ambienti mili­tari affrontano oggi le pagine più amare delle vicende dell’u­nificazione nazionale. Sorvolia­mo su altri contributi pur inte­ressanti e segnaliamo gli inven­tari analitici dei fondi dell’Uffi­cio storico della Marina milita­re sul reggimento San Marco 1935-1946 (a cura di Giovanna

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Lentini) e sul Comando supre­mo, in realtà l’Ufficio opera­zioni e piani di guerra 1940- 1943 (a cura di Maria Rosaria Mainini): due momenti di una preziosa attività di riordino e apertura di un archivio di gran­de interesse e, fino a poco tem­po fa, inadeguata valorizzazio­ne. Il Bollettino, come le altre pubblicazioni dell’Ufficio stori­co della Marina militare, deve essere richiesto in via R. Romei 5, Roma.

Giorgio Rochat

Alessandro Assirelli, Un se ­co lo d i M anuali H o ep li 1875- 1971, Milano, Hoepli, 1992, pp. 297, lire 12.000.

Attiva da oltre 120 anni, la casa editrice Hoepli è nota al gran pubblico soprattutto per la feconda collana dei manuali che ha raggiunto le considere­voli cifre di 1.791 titob, 4.000 edizioni e un totale di pagine superiore al milione e mezzo. Prosegue a tutt’oggi la fortuna editoriale della prestigiosa col­lezione, non essendo cessate le nuove edizioni o le ristampe. L’ultimo titolo, il C odice della strada , apparve nel 1971, ma il vero e proprio b o o m è da col­locare nel periodo compreso fra il 1875, data di pubblicazio- ne del M anuale d e l tin to re del chimico svizzero Roberto Lepe- tit, ed il 1939, alle soglie di quel secondo conflitto mondia­le così disastroso per l’assetto organizzativo della Hoepli che, tra le mille complicazioni, di­mostrò la tenacia necessaria a proseguire l’attività e negli anni della ripresa si indirizzò a nuo­ve imprese come quell ’E nciclo­

p e d ia (1955-1968) alla cui ste­sura furono chiamati ben 800 collaboratori. Le premesse di tutto questo si devono far risa­lire al 1861, anno in cui il quat­tordicenne Ulrico Hoepli (1847-1935) fu assunto dalla li­breria Schabelitz di Zurigo per svolgere le modeste funzioni di apprendista commesso. Pochi anni più tardi il giovane Hoepli si sentì in grado di iniziare il suo “giro del mondo librario” che lo portò a Lipsia, Bresla- via, Vienna, Il Cairo, Trieste e, ultima, Milano, dove ebbe oc­casione di rilevare la libreria di Teodoro Laengner (1870) e, già nel 1871, dimostrando notevole spirito di iniziativa, diventò editore del regio Istituto lom­bardo di scienze e lettere. La serietà del suo lavoro gli valse in seguito numerose altre colla­borazioni: l’Istituto idrografico di Genova, la Casa Reale, l’Ac­cademia dei Lincei di Roma, l’Osservatorio astronomico di Brera. Nel 1875 prende avvio l’impresa dei manuali e, per imprimere slancio a questa ini­ziativa, l’editore si affida ad una serie di traduzioni dalla collana inglese “Science Pri­mers”, nota per il buon livello di divulgazione scientifica. Vengono presentati al pubblico italiano i testi di Michael Fo­ster, Archibald Geikie, Joseph Hooker e Norman Joseph Lockyer. Fra gli studiosi italia­ni prescelti figurano l’antropo­logo Giovanni Canestrini, tra­duttore di Darwin, il matemati­co Salvatore Pincherle, il filo­logo e orientalista Angelo De Gubernatis, il sociologo Enrico Morselli, Cesare Lombroso, fondatore della scienza crimi- nologica, e l’ingegnere e uomo

politico Giuseppe Colombo. Una parola in più va spesa per quest’ultimo, considerato uno dei protagonisti del processo di industrializzazione dell’Italia del Nord nella seconda metà dell’Ottocento. Il suo M anuale d e ll’ingegnere, dato alle stampe nel 1877, cioè pochi anni dopo l’istituzione del Politecnico di Milano, era un agile compen­dio di 260 pagine, ma ebbe su­bito, e continua ad avere, una fortuna singolare. Si è giunti nel 1990 all’82a edizione: due grossi tomi di 4.500 pagine complessive, un indice analitico di 15.000 voci ed un elenco di 163 specialisti della materia. Un lungo e operoso percorso dal manualetto al testo poliva­lente per ogni settore dell’inge­gneria.

I pratici tascabili, grazie al­l’intuito e alla competenza di Ulrico Hoepli, bene si inseri­scono nella fase di transizione che vede l’Italia prodursi in un forte sviluppo industriale dopo anni contraddistinti da difficol­tà economiche e arretratezze sociali. Non a caso nel vivo di tale processo, siamo nel 1897, la collana arriva al massimo numero annuo di titoli, ben 59. La fisionomia prevalentemente scientifica del catalogo Hoepli non impedisce comunque che si accolgano numerosi contributi dell’area umanistica. Si è detto innanzi dell’orientalista De Gu­bernatis cui appartengono L e t­tera tura indiana (1883), M ito ­logia com p a ra ta (1880) e, in collaborazione con Robert Cu- st, L a lingua d e ll’A fr ic a (1885) che si inserisce in quel filone di dizionari, grammatiche e saggi dedicati alle lingue del conti­nente africano cui mirava la politica espansionistica italia­

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na. Riscontriamo infatti: P ic ­co lo d iz io n a rio eritreo (1895) di Alessandro Allori, D izio n a rio e g ram m atica galla -ita liano e ita ­liano-galla (1892) di Ettore Vi­terbo e Cesare Garibaldi, M a ­nuale tigrè-ita liano (1894) di Manfredo Camperio, E lem en ti d i so m a lo (1912) di Enrico Car- coforo. Pur non potendo com­petere, per numero di edizioni, con le due grandi aree delle scienze pure e applicate, vengo­no curate anche le discipline le­gate alle arti, alle lettere, alle scienze sociali, alla storia e alla filosofia. Vi sono poi le opere generali che tanta utilità rive­stono per qualsiasi tipo di ri­cerca. I bibliotecari ben cono­scono i manuali bibliografici e biblioteconomici di Giuseppe Ottino, Giuseppe Fumagalli e Julius Petzholdt oppure il R e­p e r to r io b io g ra fico universale (1907) di Gottardo Garollo. Gli archivisti, i paleografi, i culto­ri di storia hanno fatto spes­so ricorso agli insostituibili C ron olog ia , cron ografia e ca­lendario p e rp e tu o (1906, 2a ed. 1930) e L exicon abbrevia tu - rarum (1899, 2a ed. 1912, 3a ed. 1929) di Adriano Cappelli. Un’intensa produzione con­traddistingue la cosiddetta “se­rie pratica” di cui vanno a be­neficiare le categorie degli arti­giani, degli operai, dei com­mercianti, dei coltivatori o dei semplici autodidatti. Un’Italia finalmente operosa si serve del M an u ale d e l liqu o ris ta (1899) di Antonio Rossi, del P ro n tu a ­rio p e r la cu batu ra d e i legnam i ( la ed. 1886, 28a ed. 1969) di Giuseppe Belluomini, del L ib ro d e ll’ag rico lto re (1923) di Artu­ro Bruttini oppure del M anuale d i co rr ispon den za com m ercia le

russa (1920) di Ivan Reeckstin. Continuare a scorrere le pagi­ne di questo catalogo risulta lettura tutt’altro che arida e noiosa. Vi si indovina il muta­re di usi, consuetudini, svaghi e passatempi di una popolazio­ne che, al tramonto dell’Otto­cento, richiede, ad esempio, i manuali per il gioco degli scac­chi o per la tecnica fotografi­ca, chiaro segno di un miglio­ramento del tenore di vita del paese. Una maggior frequenza nelle attività sportive è an- ch’essa riflesso di nuove con­quiste sociali. Si praticano in prevalenza l’atletica, il nuoto e la ginnastica, ma anche il cicli­smo, il pugilato, l’alpinismo e il tennis. Assai tempestiva, a proposito, la traduzione italia­na di L a w n Tennis di Wilfred Baddeley. L’edizione londinese del 1895 è resa in italiano per i manuali Hoepli nel 1898, due anni prima della disputa del primo torneo di coppa Davis. Si è di fronte insomma ad un vero e proprio p a n o p tico n pe­dagogico, secondo la definizio­ne di Laura Barile (E lite e d i­vu lgazione n e ll’ed ito ria italiana d a ll’un ità a l fa sc ism o , Bolo­gna, Clueb, 1991). L’articolato catalogo, pazientemente rico­struito da Alessandro Assirelli, contiene una P refa zio n e di Giovanni Spadolini, u n ’In tro ­d u zio n e dello stesso Assirelli, un saggio di Tullio De Mauro (// caso H o ep li) e un utile ap­parato di indici e analisi stati­stiche curato da Giancarlo Lunghi per una più netta com­prensione della fisionomia e del valore di questa “enciclo­pedia perennemente viva di scienze lettere ed arti”.

Paolo Maggiolo

“Ragionamenti sui fatti e le im­magini della storia”, a. I, 1991.

Il primo numero di “Ragio­namenti storia” — per esteso “Ragionamenti sui fatti e le im­magini della storia” — esce co­me omaggio ai lettori dell’ “A- vanti!” e alle biblioteche nel febbraio 1991. Roberto Averar- di e Ruggero Pulletti sono ri­spettivamente il direttore re­sponsabile e il condirettore. La copertina del mensile presenta su fondo nero tre immagini: un manifesto della Spd di fine Ot­tocento; una foto di Willy Brandt alla porta di Brandebur- go; la statua della libertà new­yorkese. Nell’editoriale il diret­tore illustra il fine della rivista: “Chi ha paura di fare i conti con la storia? Forse in tanti, più di quanti non si dica. Ma i conti con la storia bisogna farli, oltre la propaganda di partito, oltre l’effimero quotidiano. [...] Riproporsi il passato di­venta dunque un’esperienza per capire il presente e preparare il futuro. [...] Cosicché di fronte al susseguirsi di avvenimenti che stanno cambiando il mon­do, anziché vederli come una storia che viene mostrata, og­getto di sorpresa e di curiosità, vi sia qualche motivo in più di coinvolgimento emotivo e di ri­flessione” (p. 3).

Questa “storia rimeditata” (E d ito ria le , n. 3, p. 3) punta sulle vicende del Novecento e specificatamente sulle rotture traumatiche per il movimento operaio. Nella prima annata già prevalente è la scelta degli arti­coli, più che storicamente pro­grammata, politicamente utile. I temi principali sono la storia del Psi, la formazione del grup­

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po dirigente del Pei, le biogra­fie di vecchi e nuovi socialde­mocratici (ma c’è pure Gobet­ti), le tragedie dei totalitarismi, il crollo dell’Urss, i rapporti tra rivoluzione e terrore, Togliatti “che sapeva” e Gramsci rifor­mista.

Categoria rilevante della rivi­sta è la storia politica. “Ragio­namenti” insegue — così dice — il filo di un socialismo libe­rale come chance perduta di una battaglia campale delle idee. “Insomma, in altre paro­le, centrale diventa il problema di rinnovare profondamente la metodologia degli studi nella direzione di una ricostruzione dei fatti storici innanzitutto di questo secolo, che ponga al centro gli elementi problematici e conflittuali, che mostri la lot­ta incessante fra differenti con­cezioni del mondo e della vita che caratterizza l’evolversi della civiltà occidentale (come ha scritto anche “Rinascita”) ” (R. Averardi, E ditoria le , n. 2, p. 3).

Ma se andiamo ad osservare il contenuto dei pezzi, l’impian­to complessivo avvicina “Ra­gionamenti” più ad operazioni di attualità ideologico-giornali- stiche che storico-divulgative. Osserviamo il trattamento di­vulgativo confrontando prima due novità degli anni ottanta ri­guardanti l’editoria periodica (oltre all’ingresso della vi- deoimpaginazione): l’attenta ri­cerca di nuovi pubblici definiti e definibili, che a sua volta ri­definisce prodotti e fruitori; la comparsa delle video cassette, che si inseriscono nella tradizio­ne dell’editoria a dispense. A metà del decennio, poi, come parte integrante di un progetto di strutturazione della doman­

da che l’editrice Giunti compie con prodotti similari (“Arte e Dossier”, per esempio), era comparsa “Storia e Dossier”, un tentativo organizzato di di­vulgazione per il pubblico solle­citato alla storia dai media. Questo per dire che la divulga­zione, oltre ad avere bisogno di infinite cautele, ha necessità di una serie di elementi tecnici che, mancando, riducono l’effi­cacia comunicativa: una casa editrice; una buona rete distri­butiva — ma questi sono ele­menti fondanti dell’attività edi­toriale in generale —; un solido staff redazionale, non di gior­nalisti ma di professionisti del trattamento dei testi, scritti e iconici; un progetto grafico­compositivo. Questi elementi sono quasi assenti in “Ragiona­menti”. Se infatti un distributo­re si trova in poco tempo (Mes­saggerie periodici), un editore arriva solo l’anno successivo (Editrice Pantheon) e i due aspetti del trattamento e del progetto grafico latitano (nes­suno firma la responsabilità di quest’ultimo settore). Se la rivi­sta è attenta alle fonti iconogra­fiche e bibliografiche — un pas­so avanti rispetto ad un prodot­to come “Storia illustrata”, alla quale per tanti versi somiglia —, il trattamento delle immagi­ni è ancora illustrativo del testo scritto (salvo i pezzi di Mario Accolti Gii). Al di là degli ap­pelli al rinnovamento metodo- logico-interpretativo, resta lo schema giornalistico. Questo, funzionale certo alla lotta poli­tica, distorce l’approccio alla storia, inquisendo, deconte­stualizzando, smarrendosi negli stereotipi e distribuendo giudizi gratuiti (“il suo rapido volta­

faccia tipicamente arabo”, co­me scrive Venerio Cattarli, nei- V E ditoria le n. 11, p. 19). La ri­vista perciò, nella sua prima an­nata, veicola un certo manichei­smo da guerra fredda, indebo­lendo così le possibilità divulga­tive. Se l’esperimento dura si vedrà il seguito.

Mario Lanzafame

Nicoletta Azzi (a cura di), P er la s to ria della c ittà d i M a n to va . F o n ti b ib liogra fich e (1801- 1945), Milano, Angeli, 1993, pp. 253, lire 32.000.

Il lavoro paziente, meticolo­so e protratto nel tempo che comportano la ricerca, la de­scrizione e la classificazione di documenti a stampa sino a far­ne un repertorio bibliografico, può non essere gratificante per chi lo esegue ma senza dubbio merita un particolare apprezza­mento se non altro perché è de­stinato a facilitare — come op­portunamente osserva Franco Della Peruta nell’agile e quanto mai utile volume B ib lio tech e e archivi. G u ida alla con su lta zio ­ne, Milano, Angeli, 1985, p. 91 — l’impegno intellettuale. È il caso della pubblicazione curata da Nicoletta Azzi che sicura­mente costituirà una “fonte” preziosa e ineludibile per quanti vorranno d’ora in poi cimentar­si in studi per meglio conoscere e far conoscere Mantova.

Realizzata con il contributo dell’Istituto mantovano di sto­ria contemporanea e dell’Istitu­to lombardo per la storia del movimento di liberazione in Italia, essa comprende u n ’In ­tro d u zio n e di Rinaldo Salvado-

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ri — presidente dell’Istituto di Mantova — e le “fonti”, divise in due parti, che raccolgono complessivamente 2.617 indica­zioni bibliografiche di opere sulla storia economica, politica e sociale di Mantova apparse nel periodo compreso tra il 1801 e il 1945. Nella prima so­no riportate le 2.224 pubblica­zioni autonome — con esclusio­ne di quelle di nozze, di partito, sportive e d’arte, degli articoli di giornale non apparsi in se­guito come pubblicazioni a se stanti; le opere di carattere squisitamente letterario, le mappe e le carte geografiche e topografiche, i numeri unici e gli opuscoli pubblicitari — che la curatrice ha individuato pres­so l’Accademia nazionale virgi­liana, l’Archivio di Stato, l’Ar­chivio storico del comune, la Biblioteca comunale, il Gabi­netto di lettura del Circolo cit­tadino, tutti con sede nel capo­luogo virgiliano, e nelle biblio­teche nazionale Braidense e co­munale di Milano. La seconda sezione, affidata alla competen­za di Fabrizio Dolci (si veda dello stesso autore La sezione “pubblicazioni minori” della Biblioteca nazionale centrale di Firenze, “Società e storia”, 1978, n. 1), annovera 393 opu­scoli societari, degli anni com­presi tra il 1870 e il 1900, con­servati appunto nel fondo “Pubblicazioni minori” della Biblioteca nazionale centrale di Firenze e, per il periodo 1870- 1881, anche quelli riportati nel catalogo della Biblioteca Ma- gliabecchiana.

Va dunque ascritto a merito di Azzi l’aver realizzato un ca­talogo che segnala soprattutto agli storici un materiale ampio,

ma spesso ignorato o trascura­to, relativo alle vicende del pe­riodo comprendente l’Ottocen­to e la prima metà del Novecen­to, ancora privo, per Mantova, di bibliografie generali, se si escludono, per il secolo scorso, i saggi bibliografici ancora ine­diti di Carlo D’Arco conservati nel locale Archivio di Stato; la bibliografia a cura di Emilio Faccioli collocata in appendice al III volume di Mantova. Le Lettere (Mantova, 1963); e al­cune bibliografie su tematiche specifiche: Renato Giusti, Re­pertorio bibliografico degli stu­di sul Risorgimento mantova­no, “Bollettino storico manto­vano”, 1956, n. 3; Mario Vaini, Mantova nel Risorgimento. Iti­nerario bibliografico (Mantova, 1976).

Ma il volume curato da Azzi si distingue anche per l’implici­to invito ad intraprendere nuovi percorsi di ricerca o, comun­que, ad approfondire adeguata- mente quelli tradizionali. La ri­cerca storica, in particolare, sembra ormai avviata in dire­zione di una specializzazione sempre più selettiva. Il reperto­rio bibliografico proposto da Azzi, comprensivo di un contri­buto di Dolci, proprio perché pone le basi per una storia poli­tica, amministrativa, economi­ca e sociale di una prestigiosa città nell’arco di un secolo e mezzo, si colloca a pieno titolo in tale ambito nelle vesti di strumento di lavoro privile­giato.

Una chiara testimonianza della capacità di stimolare l’av­vio di una storia della città di Mantova (di cui peraltro si sen­te da tempo la mancanza) che questa bibliografia possiede e,

nel contempo, un esempio em­blematico di utilizzo della stessa proprio per tracciare le tappe dell’evoluzione amministrativa e socio-economica di Mantova negli ultimi due secoli, è offerta dall’Introduzione. In essa Sal- vadori sintetizza opportuna­mente una serie di suoi studi re­centi; il risultato è costituito da un testo molto denso nel quale egli ripercorre in modo proble­matico e, per certi aspetti, sug­gestivo, le vicende del più pic­colo capoluogo padano a parti­re da quando smette i panni di capitale di Stato, che aveva in­dossato per quattro secoli, e si­no al secondo dopoguerra. Se, come la saggezza di un prover­bio suggerisce, “il buon giorno si vede dal mattino”, certamen­te il volume di Azzi fa ben spe­rare che il progetto a più riprese formulato di una “nuova” sto­ria politica, economica e sociale di Mantova si trasformi quanto prima in una pregevole realtà.

Luigi Cavazzoli

Unione stampa periodica ita­liana, Guidò della stampa pe­riodica italiana. IX edizione 1991-1992, Roma, Uspi, 1991, vol. I, pp. 1021, vol. II, pp. 403, lire 70.000.

Errori e lacune sono propri quasi di ogni strumento biblio­grafico, sebbene dal loro nume­ro e dalle loro caratteristiche di­penda, almeno in parte, il valo­re del risultato. Ben consapevo­li di questo sono i curatori della nona edizione — la prima risale al 1969 — della Guida della stampa periodica italiana, che indicano anche alcune ragioni delle imprecisioni e della par­

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zialità delle rilevazioni di que­sto tipo, dalla “pessima tenuta dei registri stampa presso i tri­bunali”, al “sistema adottato dall’Istat per la rilevazione an­nuale della stampa periodica”, all’ “abbandono da parte delle Prefetture di ogni ‘controllo’, sia pure di natura statistica, sul­la stampa”, alla “non attuazio­ne da parte delle regioni di una ‘indagine conoscitiva’ sulla stampa locale che l’Uspi ha ri­petutamente, ma inutilmente propugnato”.

Nonostante le inevitabili la­cune, il repertorio dell’Uspi è di notevole utilità per chiunque voglia avere, per i fini più di­versi, una visione complessiva dei periodici contemporanei. Basti pensare che vengono indi­cate le informazioni principali (titolo, periodicità, nome del direttore, eventuale ente edito­re, indirizzo, inclusione tra le testate lette da “L’eco della stampa”) su circa 14.000 testate (il totale non è indicato, e la ci­fra è una stima approssimativa dei nomi compresi nell’indice che da solo occupa 120 pagine).

Prima di descrivere meglio l’articolazione dei due volumi, vale forse la pena di notare, li­mitandosi al settore delle riviste di storia, un fatto forse signifi­cativo. Ci riferiamo non tanto alla mancanza di alcune note testate a diffusione nazionale (da “Storia urbana” alla “Rivi­sta di storia economica” a “Ri­cerche di storia politica”), ma all’assenza di circa la metà delle riviste pubblicate dagli istituti della resistenza. Considerando l’impegno profuso dalla rete as­sociativa nel suo complesso nel­la produzione di riviste, pur as­sai eterogenee tra loro per im­

postazione, scopi perseguiti e risultati culturali e scientifici, sarebbe forse opportuno chie­dersi se l’esclusione dalla Guida non rappresenti una “spia” del mancato raggiungimento dei ri­sultati che sarebbe lecito atten­dersi da un’attività tanto cen­trale. Particolarmente grave sa­rebbe infatti se la circolazione delle riviste “confezionate” da­gli istituti restasse confinata ai ristretti circuiti rappresentati dai diversi contesti locali o dal­la rete associativa stessa.

Tornando alla pubblicazione dell’Uspi, il primo volume, do­po lo statuto e gli organi statu­tari, riunisce le informazioni in dieci parti: quotidiani (elenco alfabetico e per regione); perio­dici locali e di informazione (elenco per regione) e periodici politici; periodici per i giovani e fumetti; periodici specializzati (suddivisi in 62 categorie); pe­riodici aziendali, sindacali, as­sociativi e di categoria; agenzie di informazione; stampa perio­dica italiana all’estero; Rai-Ra- diotelevisione italiana; pubbli­cità sulla stampa quotidiana e periodica.

L’undicesima e la dodicesima parte vengono pubblicate nel secondo volume. La prima ri­guarda le articolazioni della Presidenza del Consiglio dei ministri (dipartimento per l’In­formazione e l’Editoria) e del ministero per i Beni Culturali e Ambientali le cui attività sono direttamente correlate alla stampa; l’ultima parte riunisce una documentazione riguardan­te la legislazione sulla stampa, la disciplina delle imprese edito­riali, norme e disposizioni fisca­li e postali, l’ordinamento della professione di giornalista, la

Federazione nazionale stampa italiana, le associazioni regio­nali di stampa, le statistiche della stampa periodica, l’accor­do Uspi-edicoland. Il volume, che si chiude con altri indirizzi utili, rappresenta quindi una raccolta di informazioni parti­colarmente ampia e di sicuro interesse.

Paolo Ferrari

Maria Garbari (a cura di), Giornali e giornalisti nel Trenti­no dal Settecento al 1948, Ro­vereto, Poncheri, 1992, pp. 341, lire 45.000.

Si tratta di un volume di sto­ria del giornalismo trentino e contemporaneamente anche di controllo bibliografico per tutta la stampa giornalistica d’infor­mazione della zona, dalle sue origini settecentesche al 1948. È composto infatti da una prima parte di saggi di storia del gior­nalismo trentino firmati da Ma­ria Garbari (che guarda all’ar­gomento con un’ottica concen­trata sulla storia istituzionale nel suo rapporto con la libertà di stampa), da Gianni Faustini (che si dedica alle tipologie giornalistiche) e da Sergio Ben­venuti (che invece si ritaglia il più vasto campo di una storia politica del giornalismo nel Trentino), e da una seconda parte che raccoglie schede bi­bliografiche molto dettagliate di tutti i giornali trentini posse­duti dalle due maggiori biblio­teche della provincia: quella di Trento (depositaria del diritto di stampa) e quella di Rovereto.

I confini tipologici delle pub­blicazioni periodiche comprese in questo catalogo sono riferiti

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alla definizione di giornale (new ­spaper) che viene data dallo stan­dard descrittivo Isbd(S), imper­niata su due caratteristiche: quel­la della frequenza almeno setti­manale e quella contenutistica dell’attenzione a fatti ed argo­menti di interesse corrente e ge­nerale. Ispirata all’Isbd(S) anche una prima parte descrittiva ed identificante delle schede, che viene però integrata da una se­conda parte di note molto detta­gliate registranti, oltre a tutte le variazioni negli elementi basilari della descrizione, anche infor­mazioni di tipo più storico che catalografico, come le sequenze cronologiche dei direttori, dei redattori responsabili, ecc. Mol­to utili al quadro d’insieme an­che le 77 pagine di riproduzioni fotografiche delle testate — o di altre pagine significative — dei periodici a catalogo, che ne illu­strano le caratteristiche tipogra­fiche e formali.

Roberto Antolini

Istituto regionale per la sto­ria DEL MOVIMENTO DI LIBERA­ZIONE nelle Marche, C ata logo della s ta m p a p erio d ica delle b i­b lio tech e d e ll’Is titu to regionale e deg li I s titu ti associa ti, a cura di Silvana Salati, Ancona, Isti­tuto regionale per la storia del movimento di liberazione nelle Marche, 1992, pp. 255, sip.

Si tratta di un catalogo col­lettivo dei periodici posseduti dalle biblioteche degli istituti marchigiani che svolgono sia la funzione di conservazione di materiale storico salvato dalla dispersione (a partire dai fogli delle prime forze politiche e delle leghe d’inizio secolo), sia

quella di documentazione attiva del presente, raccogliendo ma­teriale contemporaneo che non si ferma alla storia politica, ma che si rivolge anche al più vasto spettro della storia sociale, eco­nomica, culturale, della menta­lità, delle donne, ecc. Appron­tando in questo modo quel- l’ampio inventario della stampa periodica corrente intesa come bene culturale, come insostitui­bile fonte per una storia del presente, che spesso oggi ci manca non solo per il più lonta­no passato, ma anche per anni abbastanza vicini.

Catalogo nato dunque con fi­ni pratici di consultazione e di documentazione locale, ma che, data la scelta catalografica operata dalla curatrice Silvana Salati, assume anche elementi di interesse biblioteconomico più generale. Per la descrizione infatti è stato usato lo standard internazionale Isbd (S) messo a punto per favorire lo scambio automatizzato delle informa­zioni ed una leggibilità dei dati che si elevi, come ponte, al di sopra delle lingue e delle tradi­zioni descrittive nazionali. Standard che, se pur tradotto in italiano dall’Iccu (cfr.: Interna­tional Standard Bibliographic Description for Serials. Inter­national Federation of Library Associations and Institutions, Revised ed., ed. italiana a cu­ra dell’Istituto centrale per il catalogo unico delle bibliote­che italiane e per le informazio­ni bibliografiche, Roma, Iccu, 1990), ed adottato ormai da qualche anno anche dalla Bni, pur tuttavia non conosce an­cora nel nostro paese quell’am­pia diffusione che sola potreb­be ovviare, generalizzando la conoscenza degli elementi di

base, ad una certa complicazio­ne nella lettura dei prodotti ca­talografici ad esso ispirati.

Il catalogo marchigiano è uno dei primi confezionati nel nostro paese in conformità alle norme dell’Isbd(S) e per questa operazione dunque la curatrice ha avuto pochi esempi italiani a cui rifarsi. A parte il volume di commento di Rosella Dini, in­fatti (Isbd(S): in trodu zion e ad esercizi, Milano, Editrice bi­bliografica, 1989), sono ancora rari i casi utili per raccogliere una casistica adeguata e suffi­cientemente rigorosa. Tra que­sti vale la pena ricordare alme­no il C ata logo d e i p e r io d ic i del­la b ib lio teca d e l C en tro d i d o ­cu m en tazion e (a cura di Carlo O. Gori, Pistoia, Comune di Pistoia, 1983), l’ottima parte catalografica, anche questa cu­rata da Gori, del volume L e cu lture d e l sessa n to tto : g li anni sessanta, le riviste , il m o vim en ­to di Attilio Mangano (Pistoia, Comune di Pistoia. Centro di documentazione - Brescia, Fon­dazione Luigi Micheletti, 1989) ed il C ata logo d e i p e r io d ic i cor­ren ti della B ib lio teca nazionale universitaria d i T orino (con la collaborazione dell’Istituto di studi sulla ricerca e la docu­mentazione scientifica del Cnr, Torino, Regione Piemonte. As­sessorato alla cultura, 1990).

Roberto Antolini

Elisa Frasson (a cura di), C ata­logo dei p eriod ic i p o ssed u ti dalla A ccadem ia pa tav in a d i scienze lettere e d arti, Padova, Cleup, 1992, pp. 190, lire 20.000.

A chiunque sia capitato di af­frontare anche il più semplice

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614 Rassegna bibliografica

lavoro di ricerca o tesi di laurea non sarà certamente sfuggita l’importanza dei cataloghi di periodici. Tali repertori, se pri- cisi ed aggiornati e, possibil­mente, di facile accesso presso biblioteche e centri di documen­tazione, consentono in tempi brevi l’esatta localizzazione del­la bibliografia periodica di cui si necessita. Purtroppo non tut­te le biblioteche, anche dotate di un patrimonio librario di co­spicuo interesse, sono state fi­nora in grado di allestire il ca­talogo a stampa delle proprie riviste o di aggiornare quello già esistente. A singole lacune possono sopperire alcune recen­ti compilazioni collettive che si stanno dimostrando di grande utilità e pratica consultazione. Ci si riferisce al C ata logo co l­le ttivo nazionale delle p u b b lica ­z io n i p erio d ich e realizzato nel 1990 dall’Istituto di studi sulla ricerca e documentazione scien­tifica, organo del Cnr, al C ata ­logo d e i p e r io d ic i corren ti delle b ib lio tech e lom b a rd e pubblica­to dalla Regione Lombardia fra il 1985 e il 1989, al C ata logo co lle ttivo d e i p e r io d ic i delle b i­b lio tech e p iem o n te s i apparso

nel 1987 a cura della Regione Piemonte. È superfluo sottoli­neare l’importanza di questi censimenti, ma va precisato che si tratta pur sempre di strumen­ti che non possono esaurire l’in­tero panorama bibliotecario na­zionale e talvolta operano pro­grammatiche selezioni nella raccolta dei dati. Per questi motivi si accolgono con favore iniziative come questa dell’Ac­cademia patavina, istituto che comprende una biblioteca spe­cializzata in atti accademici al­trimenti non reperibili presso maggiori organismi della stessa città universitaria. L’ente ha ra­dici profonde. Sorse nel 1599 come Accademia dei Ricovrati e, tra i suoi fondatori, basti ri­cordare il solo nome di Galileo. Presenze illustri in epoche suc­cessive furono Carlo Rezzonico (papa Clemente XIII), Albrecht von Haller, Théodor Momm­sen, Giambattista Morgagni, Ludovico Antonio Muratori, Giuseppe Jappelli, san Grego­rio Barbarigo, Alessandro Manzoni, Vincenzo Monti, Giovanni Pascoli. La secolare istituzione dei Ricovrati fu uni­ta dal Senato veneto nel 1779

alla più recente Accademia di arte agraria. Ebbe così luogo l’Accademia di scienze lettere e arti, ora Patavina. Il particolare carattere del materiale raccolto dall’Accademia patavina è frut­to del regolare scambio fra gli “Atti e memorie”, prodotti in sede, e le pubblicazioni periodi­che di numerosi atenei e società culturali italiane e straniere, corrispondenza che spesso potè proseguire anche in epoche in cui i rispettivi paesi di apparte­nenza escludevano le normali relazioni politico-commerciali. Il C ata logo segue, a otto anni di distanza, un precedente C ata lo ­g o d e i p e r io d ic i (Padova, 1984) considerato una redazione provvisoria. Il nuovo strumento risulta di più facile lettura e de­nota maggiore precisione nella consistenza delle raccolte e nel­l’indicazione di annate lacuno­se. Dei 1.387 titoli elencati, 944 appartengono a riviste cessate, 443 a testate correnti. Un nume­ro cospicuo di richiami e di rin­vìi, ben 619, agevola le ricerche e moltiplica le possibilità di ac­cesso all’informazione.

Paolo Maggiolo