La giustizia costituzionale e la giurisdizione · La Corte costituzionale può essere investita di...

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Istituzioni di Diritto Pubblico AO 2013-1014- Prof.ssa Silvia Niccolai 295 La giustizia costituzionale e la giurisdizione In questo capitolo ci soffermiamo sulla giustizia costituzionale e sulla giurisdizione. Le studiamo insieme, perché la presenza di una Costituzione superiore alla legge e rigida, assistita da un giudice apposito, la Corte costituzionale, ha inciso profondamente anche sul ruolo della giustizia ordinaria. SEZIONE I – LA GIUSTIZIA COSTITUZIONALE 1. La Costituzione come atto normativo. La nostra Costituzione, come le altre adottate nella sua epoca, è considerata e funziona come un vero e proprio atto normativo, cioè come un documento destinato ad avere un valore giuridico, a creare diritto, principi e regole di comportamento. Precisamente, la nostra Costituzione è considerata un atto normativo superiore alla legge. Ciò si traduce in due conseguenze: 1. La Costituzione non può essere modificata da una legge ordinaria, ma può essere modificata solo da una legge approvata con un procedimento più lungo, più difficile e più partecipato di quello sufficiente ad approvare una legge ordinaria. che prende il nome di procedimento di revisione costituzionale ed è descritto nell’art. 138 della Costituzione. 2. Le leggi che contrastano con la Costituzione non sono in grado di modificarla o abrogarla, ma sono portatrici, per questo motivo, di un vizio, che può determinarne l’annullamento, vizio che può essere pronunciato dalla Corte costituzionale, un organo e istituito appositamente per svolgere la funzione del controllo di costituzionalità sulle leggi . Il controllo di costituzionalità delle leggi e degli atti aventi forza di legge è istituito e disciplinato dall’art. 134 della Costituzione. 2. Il procedimento di revisione della Costituzione. Un procedimento aggravato rispetto al procedimento ordinario di approvazione della legge. Una legge che modifica il testo costituzionale richiede numerosi aggravamenti procedurali, cioè il suo iter di approvazione (procedimento) è pieno di ostacoli che lo rendono più difficile (aggravato) rispetto a quello sufficiente ad approvare una legge ordinaria. L’intenzione che questi aggravamenti perseguono è che la costituzione sia protetta da modifiche avventate, non sufficientemente riflettute e, soprattutto, non sufficientemente condivise. Si vuole con ciò garantire che la costituzione resti patrimonio di tutti e non diventi lo strumento politico di chi è al governo (come è la legge ordinaria). Il procedimento per l’approvazione delle leggi costituzionali e di revisione costituzionale è descritto nell’art. 138: Le leggi di revisione della Costituzione e le altre leggi costituzionali sono adottate da ciascuna Camera con due successive deliberazioni ad intervallo non minore di tre mesi e sono approvate a maggioranza assoluta dei componenti di ciascuna Camera nella seconda deliberazione.

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La giustizia costituzionale e la giurisdizione

In questo capitolo ci soffermiamo sulla giustizia costituzionale e sulla giurisdizione. Le studiamo insieme,

perché la presenza di una Costituzione superiore alla legge e rigida, assistita da un giudice apposito, la Corte

costituzionale, ha inciso profondamente anche sul ruolo della giustizia ordinaria.

SEZIONE I – LA GIUSTIZIA COSTITUZIONALE

1. La Costituzione come atto normativo.

La nostra Costituzione, come le altre adottate nella sua epoca, è considerata e funziona come un vero e

proprio atto normativo, cioè come un documento destinato ad avere un valore giuridico, a creare diritto,

principi e regole di comportamento. Precisamente, la nostra Costituzione è considerata un atto normativo

superiore alla legge. Ciò si traduce in due conseguenze:

1. La Costituzione non può essere modificata da una legge ordinaria, ma può essere modificata solo da una legge approvata con un procedimento più lungo, più difficile e più partecipato di quello sufficiente ad approvare una legge ordinaria. che prende il nome di procedimento di revisione costituzionale ed è descritto nell’art. 138 della Costituzione.

2. Le leggi che contrastano con la Costituzione non sono in grado di modificarla o abrogarla, ma sono portatrici, per questo motivo, di un vizio, che può determinarne l’annullamento, vizio che può essere pronunciato dalla Corte costituzionale, un organo e istituito appositamente per svolgere la funzione del controllo di costituzionalità sulle leggi . Il controllo di costituzionalità delle leggi e degli atti aventi forza di legge è istituito e disciplinato dall’art. 134 della Costituzione.

2. Il procedimento di revisione della Costituzione. Un procedimento aggravato rispetto al

procedimento ordinario di approvazione della legge.

Una legge che modifica il testo costituzionale richiede numerosi aggravamenti procedurali, cioè il suo iter di

approvazione (procedimento) è pieno di ostacoli che lo rendono più difficile (aggravato) rispetto a quello

sufficiente ad approvare una legge ordinaria. L’intenzione che questi aggravamenti perseguono è che la

costituzione sia protetta da modifiche avventate, non sufficientemente riflettute e, soprattutto, non

sufficientemente condivise. Si vuole con ciò garantire che la costituzione resti patrimonio di tutti e non

diventi lo strumento politico di chi è al governo (come è la legge ordinaria).

Il procedimento per l’approvazione delle leggi costituzionali e di revisione costituzionale è descritto nell’art.

138:

Le leggi di revisione della Costituzione e le altre leggi costituzionali sono adottate da ciascuna Camera con

due successive deliberazioni ad intervallo non minore di tre mesi e sono approvate a maggioranza assoluta

dei componenti di ciascuna Camera nella seconda deliberazione.

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Le leggi stesse sono sottoposte a referendum quando, entro i tre mesi dalla loro pubblicazione, ne facciano

domanda un quinto dei membri di una Camera, o cinquecentomila elettori o cinque Consigli regionali. La

legge sottoposta a referendum non è promulgata, se non è approvata dalla maggioranza dei voti validi.

Non si fa luogo a referendum se la legge è stata approvata nella seconda deliberazione a maggioranza dei

due terzi dei suoi componenti.

Questa disposizione va letta nel modo seguente:

mentre per approvare una legge ordinaria è sufficiente che la Camera e il Senato votino lo stesso

testo una sola volta, il testo di una legge di revisione deve essere votato da ciascuna camera 2

volte.Tra ciascuna delle due deliberazioni delle due Camere devono intercorrere non meno di tre

mesi. Per esempio: oggi il senato approva, per la prima volta, il progetto di legge di revisione

costituzionale nello stesso testo in cui una settimana fa lo aveva approvato la Camera. Abbiamo la

prima deliberazione sullo stesso testo. Non prima di tre mesi da oggi il Senato, e di tre mesi e una

settimana da oggi la Camera, dovranno votare di nuovo su quel testo. Se lo riapproveranno uguale

avremo la seconda deliberazione (aggravamento della doppia approvazione a intervallo di

tre mesi).

Nella seconda deliberazione è necessario che sia raggiunta la maggioranza dei due terzi

(aggravamento della maggioranza qualificata).

Se la maggioranza dei due terzi viene raggiunta, la legge è approvata, può essere promulgata ed

entrare in vigore. Se viene raggiunta solo la maggioranza assoluta, invece, la legge non può essere

promulgata ed entrare in vigore. Essa viene pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale ed inizia a decorrere

un termine di tre mesi entro il quale un quinto dei membri di ciascuna camera, cinquecentomila

elettori o cinque consigli regionali possono richiedere che essa sia sottoposta a referendum. Se il

referendum non viene chiesto, la legge entra in vigore allo scadere dei tre mesi. Se il referendum

viene chiesto, lo si farà, e se il corpo elettorale dirà a maggioranza “sì, vogliamo questa legge” essa

entrerà in vigore, se dirà “no, non la vogliamo” essa non entrerà in vigore (aggravamento della

sottoposizione a referendum). Il referendum ‘confermativo’ delle leggi costituzionali e di

revisione costituzionale non richiede, per la sua validità, la partecipazione alle votazioni di almeno la

metà del corpo elettorale.

Gli aggravamenti che caratterizzano questo procedimento rispetto a quello legislativo ordinario configurano

il procedimento di revisione costituzionale e di approvazione delle leggi costituzionali come uno i cui

ingredienti sono il tempo, inteso come requisito di ponderazione (la doppia deliberazione, l’intervallo non

minore di tre mesi) e il consenso (la necessità della maggioranza dei due terzi o, in mancanza, almeno di

quella assoluta e della possibilità per il corpo elettorale di pronunciarsi direttamente).

Con lo stesso procedimento necessario per l’approvazione di leggi di revisione della costituzione possono

essere approvate le leggi costituzionali. Le leggi costituzionali sono leggi che hanno lo stesso valore, la stessa

importanza della costituzione: si aggiungono ad essa. Gli statuti delle regioni speciali, per esempio, sono leggi

costituzionali.

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3. I limiti alla revisione costituzionale

Non tutta la Costituzione può essere modificata. L’art. 139 dice “la forma repubblicana non può essere

oggetto di revisione costituzionale”.

La lettera di questa disposizione significa che non si può approvare, neanche col procedimento aggravato di

revisione, una legge che reintroduca la monarchia. Questa disposizione viene peraltro interpretata nel senso

che tutti i principi fondamentali che danno una identità alla nostra esperienza repubblicana (es. la libertà

personale, il pluralismo religioso) sono nella loro essenza immodificabili. Il nucleo di valore che identifica

l’essenza della nostra esperienza costituzionale è intangibile.

3. Il tema della revisione costituzionale nel concreto dell’esperienza repubblicana

(rinvio)

Leggi costituzionali e di revisione costituzionale sono state di tempo in tempo approvate nel nostro paese

intervenendo su singoli aspetti della Costituzione (es.: modifica dell’art. 111, in tema di giusto processo;

dell’art. 68, sulle immunità dei parlamentari) o anche su intere parti (nel 2001 è stato modificato l’intero

‘Titolo V’ relativo alle funzioni delle Regioni). Un problema che si pone in modo ritornante dalla metà degli

anni ’80 riguarda la parte della Costituzione che delinea la forma di governo. Come vedremo parlando

dell’evoluzione diacronica, cioè nel corso del tempo, della forma di governo, il modello parlamentare fondato

su un sistema elettorale proporzionale e incentrato su governi di coalizione (formati da più partiti) che

caratterizzò tutto il primo periodo della storia repubblicana, entra in crisi alla fine degli anni 1970. A partire

da quel momento, le forze politiche hanno variamente avanzato l’esigenza di modificare le norme

costituzionali sulla forma di governo, nel senso di un rafforzamento dell’esecutivo, e della riduzione

dell’influenza che il parlamento esprime sulla sua entrata e durata in carica. Questi processi di riforma, che

non hanno sinora avuto mai esito, si sono sempre portati dietro una caratteristica molto particolare, e cioè

quella di essere sempre stati impostati mediante procedimenti in deroga alle procedure ordinarie di

revisione della Costituzione, stabilite nell’art. 138, e, in particolare, come procedimenti che puntano

sulla previa istituzione di organismi specializzati, ‘dedicati’ allo studio delle riforme da

sottoporre poi all’approvazione del parlamento e quindi all’eventuale referendum. Anche il Governo

Letta (salito in carica successivamente alle elezioni del 2013), nel darsi un programma di ‘riforme

costituzionali’ ha previsto per queste ultime un procedimento in deroga a quello stabilito dall’art. 138 (in

questo caso la deroga comprende anche il sistema di votazione delle eventuali leggi di revisione, per le quali

basterà la maggioranza assoluta ma sarà automaticamente previsto lo svolgimento del referendum). Sulle

ragioni di questo andamento tipicamente ‘derogatorio’ della Costituzione, per cui la riforma di una delle parti

più importanti della Costituzione (la forma di governo) apparentemente non può avvenire seguendo il

modello che la Costituzione ha introdotto, rifletteremo più avanti, nella parte finale del nostro corso.

4. Il controllo di costituzionalità sulle leggi e gli atti aventi forza di legge

La circostanza che la Costituzione non possa essere modificata da una legge ordinaria ha come conseguenza

che le leggi ordinarie non possono, al tempo stesso, contrastare con la Costituzione ed essere valide. La legge

contrastante con la costituzione è invalida, e questo ne rende possibile l’annullamento, che può essere

pronunciato da un organo apposito, unico per tutto il territorio nazionale, la Corte costituzionale,

composta da 15 giudici che durano ciascuno in carica 9 anni, e che ha sede a Roma nel Palazzo della antica

Consulta papale (e che perciò è talvolta chiamata “La Consulta”).

Si noti la differenza tra INVALIDITA’ ed EFFICACIA. La legge invalida (cioè viziata) è peraltro efficace (produce i suoi

effetti) sino a che non venga annullata.

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La Corte costituzionale può essere investita di un problema di costituzionalità di una legge o di un atto

equiparato alla legge in vari modi, che danno vita ad altrettanti diversi tipi di processi di costituzionalità.

Tra questi, noi ci soffermeremo di più sul giudizio in via incidentale, che è quello in cui la Corte ‘dialoga’ più

da vicino coi giudici (che le sottopongono le questioni di costituzionalità e sono i primi destinatari delle sue

sentenze) e che perciò è stato il più importante nel rapporto tra giustizia costituzionale e giurisdizione

ordinaria.

5. Il giudizio in via incidentale

Il giudizio in via incidentale si instaura davanti alla Corte costituzionale secondo questo procedimento: tutte

le volte che un giudice (civile, penale, amministrativo; di merito, di legittimità), nel corso di un processo (e in

uno qualunque dei suoi gradi), abbia il dubbio, non evidentemente privo di senso, che una legge o una

disposizione di legge che egli deve applicare per risolvere la controversia sottoposta al suo esame, contrasti

con la costituzione, non può né applicare né disapplicare la legge della cui costituzionalità dubiti; deve

sospendere (interrompere) il processo e rivolgere alla Corte costituzionale la domanda se quella

disposizione non sia effettivamente incostituzionale.

Il dubbio può essere anche prospettato al giudice da una delle parti del processo, mediante una ‘eccezione di

costituzionalità’ con la quale l’avvocato di parte fa notare (eccepisce) che la legge che dovrebbe essere

applicata al caso ha un vizio di costituzionalità.

Il giudice non è tenuto ad accogliere questa eccezione di parte; se non ritiene di farla propria, può respingerla

con ordinanza motivata il cui effetto è che la stessa questione non può essere riproposta in quello stesso

stadio o grado del processo (ma potrebbe essere riproposta nel grado successivo).

L’atto col quale il giudice interrompe il processo e rimette (trasmette) la questione di costituzionalità alla

Corte costituzionale si chiama ordinanza di rimessione. La domanda, contenuta nell’ordinanza di

rimessione, se una disposizione non sia effettivamente incostituzionale è la questione di legittimità

costituzionale di quella disposizione. La questione deve essere presentata argomentando, da un lato, la

non manifesta infondatezza del dubbio (cioè si dovrà dimostrare che il dubbio ha una qualche

consistenza), e la rilevanza della questione, vale a dire si dovrà dimostrare che la soluzione del problema

di costituzionalità è rilevante per il processo nel quale la questione è sorta perché esso non può essere deciso

senza quella disposizione, della cui costituzionalità si dubita.

Mentre sospende il processo davanti al giudice “remittente” (il giudice che ha rimesso la questione alla Corte;

che viene talvolta detto anche giudice “a quo”, ovvero “dal quale” viene la questione), l’ordinanza di

rimessione apre il processo davanti alla Corte, funziona cioè da atto di promuovimento del processo di

costituzionalità, cioè da atto che, appunto, promuove, ovverosia apre il processo di costituzionalità, dà ad

esso inizio.

La Corte esamina preliminarmente l’ammissibilità dell’ordinanza di rimessione. Cioè verifica se il giudice

ha fatto bene l’ordinanza di rimessione, ha argomentato correttamente e compiutamente la non manifesta

infondatezza e la rilevanza; se la questione riguarda effettivamente una legge o un atto avente forza di legge;

se non c’è già stata una dichiarazione di incostituzionalità su quella stessa disposizione, e altri profili

analoghi che rendono la questione inammissibile. Se uno di questi profili ricorre, la Corte, con ordinanza, la

dichiara inammissibile e restituisce gli atti al giudice a quo (la questione potrà essere riproposta solo in uno

stadio successivo del processo, o da altri giudici). Se invece l’ordinanza di rimessione supera l’esame

preliminare di ammissibilità la corte “conosce nel merito”, cioè passa a studiare e a decidere il problema di

costituzionalità.

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Il processo davanti alla Corte non prevede la costituzione di parti, ad eccezione di una. Le “parti” del processo

a quo (i due che litigano nella causa da cui il problema si origina) o il giudice remittente non compaiono

davanti alla Corte a spiegare ulteriormente le loro ragioni: basta la ordinanza di rimessione. Le parti possono

solo, inviare memorie, per illustrare la questione dal loro punto di vista, che saranno rappresentate da

avvocati del libero foro. Se vuole, può invece costituirsi come parte il Governo, in rappresentanza dello Stato.

Di solito il governo si costituisce se vuole difendere la legge impugnata, la legge oggetto della questione. Esso

è rappresentato nel processo dall’avvocatura dello stato è quell’organo statale che difende lo stato nei

processi di cui sia parte. Siccome il governo può costituirsi, ma anche non, e il processo va avanti lo stesso si

dice che il processo incidentale è un processo “a parti eventuali”: se la parte che si può costituire, il

governo, si costituisce, bene, altrimenti la sua mancata costituzione non influisce sulla prosecuzione del

processo.

La Corte assegna a uno dei suoi membri il compito di studiare l’ordinanza, di farsi una idea approfondita e

completa del problema. Questo giudice (giudice relatore) espone poi agli altri il suo punto di vista. Poi il

collegio (l’insieme dei giudici) discute e alla fine decide.

La decisione della Corte è una sentenza di incostituzionalità se la Corte stabilisce che la legge è

effettivamente incostituzionale. Le sentenze o dichiarazioni di incostituzionalità si chiamano anche sentenze

di accoglimento perché con esse la Corte accoglie, fa proprio, il dubbio del giudice. L’effetto della sentenza

di accoglimento è l’annullamento della legge o della disposizione impugnata.

La legge annullata per incostituzionalità non potrà più essere applicata a nessun caso a partire dal giorno

successivo al deposito nella cancelleria della Corte della sentenza che dichiara l’ incostituzionalità (il

‘deposito’ è il momento in cui il testo della decisione, e in particolare la sua motivazione, vengono resi

pubblici, e può avvenire a qualche giorno di distanza dal momento il cui la Corte ha deliberato la sentenza).

Inoltre, la legge dichiarata incostituzionale non potrà più essere applicata ai casi che erano sorti prima

del deposito della dichiarazione di incostituzionalità e che a quella data sono ancora aperti,

pendenti, sub judice, il primo dei quali è il giudizio sospeso davanti al giudice a quo.

Si dice perciò che l’annullamento ha un effetto parzialmente retroattivo: esso si applica a tutti i casi

a cui la legge annullata avrebbe dovuto applicarsi in futuro, e a tutti quelli a cui era già stata applicata nel

passato, purché questi non siano stati decisi con sentenza passata in giudicato o altrimenti prescritti o

decaduti. Soltanto quando la Corte annulla una legge penale, l’annullamento ha effetto pienamente

retroattivo e cioè travolge anche le sentenze passate in giudicato che avessero dato applicazione a quella legge

condannando qualcuno.

Facciamo un esempio: una ipotetica dichiarazione di incostituzionalità di una norma della legge sulla patente

a punti, pubblicata il 18 dicembre 2011, comporta che quella norma non potrà più essere applicata a nessuno

a partire dal 18 dicembre 2006 e che essa non potrà essere applicata nemmeno in alcun processo, che alla

data del 18 dicembre 2006 sia in corso, nel quale sia in questione l’applicazione di quella legge. Dunque se

io avevo fatto ricorso e ho un processo aperto, la dichiarazione di incostituzionalità vale anche per me; se non

avevo fatto ricorso, non mi cambia nulla, se avevo fatto ricorso ma esso è già stato deciso con sentenza

passata in giudicato, cioè definitiva, non mi cambia niente lo stesso. Nota bene: un processo è aperto sia

quando si sta svolgendo il dibattimento, ma anche nel caso che sia già uscita per esempio la sentenza di

primo grado ma non siano ancora scaduti i termini per impugnarla. Se i termini sono scaduti la sentenza è

passata in giudicato e il rapporto che quella sentenza decide non viene toccato dalla dichiarazione di

incostituzionalità.

Dunque, in presenza di una dichiarazione di incostituzionalità, tutti i giudici, a partire dal giudice a quo, che

dovevano applicare la legge che è stata colpita dalla decisione di incostituzionalità, devono risolvere il

processo senza quella disposizione, che è stata per l’appunto annullata.

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La Corte peraltro può anche respingere la questione sollevata dal giudice a quo. In questi casi farà una

sentenza di rigetto, o di infondatezza (con cui rigetta, respinge la questione, dice che è infondata). La

sentenza di rigetto lascia le cose come stavano; la legge non è incostituzionale. Si tenga presente che: una

sentenza di rigetto non dice che la legge è costituzionale, è conforme a costituzione. Dice che

essa non è incostituzionale, non lo è nei termini prospettati dal giudice a quo, non lo è ora

come ora. La dichiarazione di rigetto non esclude che una questione su quella stessa legge possa essere

ripresentata e possa essere accolta: se ciò accade, significherà che in questo nuovo caso il giudice ha trovato

argomentazioni più convincenti, che qualcosa è cambiato.

Quando il processo costituzionale si chiude con una sentenza di rigetto il giudice a quo riprenderà il suo

processo e dovrà deciderlo tenendo conto che quella disposizione è sempre vigente.

6. Caratteri del giudizio in via incidentale

Il nostro processo di costituzionalità ha i seguenti caratteri: è accentrato, concreto e successivo.

E’ accentrato, nel senso che solo un solo organo – la corte costituzionale – può pronunciare

l’incostituzionalità di una legge.

Al modello accentrato di giustizia costituzionale si contrappone il modello “diffuso”. Un modello diffuso è

quello adottato negli Usa. In quel contesto, ciascun giudice può disapplicare la legge che ritenga

incostituzionale. Vale a dire che può non applicare quella legge per decidere il processo, ma la legge resta in

vigore. Quando, per via di impugnazione, si arriva alla Corte suprema, quest’ultima potrà decidere a sua volta

se quella legge era incostituzionale o no. La decisione della corte suprema annulla la legge e vale per tutti.

Bisogna comunque notare che la Corte suprema degli Stati Uniti svolge allo stesso tempo le funzioni di una

corte di cassazione (giudice supremo di impugnazione) e di corte costituzionale. Nel nostro ordinamento le

due funzioni sono assegnate a organi diversi, la corte di cassazione, che è un organo del potere

giurisdizionale, e la corte costituzionale, che del potere giurisdizionale non fa parte.

Per precisare il carattere ‘accentrato’ del nostro sistema di controllo di costituzionalità delle leggi occorre

ricordare che esso, presenta anche elementi di diffusione, nel senso che, se annullare una legge per

incostituzionalità è potere della sola Corte costituzionale, valutare invece se una legge presenta o meno un

dubbio di costituzionalità è compito del giudice, di tutti i giudici, che dunque compiono apprezzamenti

relativi alla costituzionalità di una legge, sia pure non sino al punto di poterla annullare o disapplicare.

Inoltre, sin dagli inizi della sua giurisprudenza la Corte costituzionale ha stabilito che i giudici, prima di

sottoporle una questione di costituzionalità, devono verificare se la legge non sia suscettibile di una

interpretazione costituzionalmente conforme, cioè di essere interpretata in modo armonico con la

Costituzione, e anche questo porta tutti i giudici a fare valutazioni relativi alla costituzionalità di una legge.

Il nostro sistema di controllo di costituzionalità, inoltre, è’ concreto, nel senso che le questioni di

costituzionalità devono sorgere durante la vita di una legge, nella sua applicazione a casi concreti, cioè nei

processi. Per questo il processo è anche successivo: esso ha luogo solo dopo (successivamente) all’entrata in

vigore della legge. In Francia invece, sino ad una riforma entrata in vigore due anni fa, il processo di

costituzionalità era tipicamente solo astratto e preventivo. La legge veniva esaminata dal loro organo di

giustizia costituzionale (Conseil constitutionnel) dopo la approvazione da parte dell’assemblea legislativa e

prima dell’entrata in vigore; la sua costituzionalità veniva valutata confrontando la legge per quel che dispone

con la costituzione, e non potendosi tener conto delle visuali, dei problemi e delle esigenze che sorgono nella

applicazione a casi concreti.

Il carattere concreto del controllo di costituzionalità delle leggi è un chiaro riconoscimento del fatto che la

legge, e la Costituzione, il diritto, vivono nella storia e sono sempre in mutamento. Una legge può rimanere in

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vigore molti anni senza che alcun dubbio di costituzionalità si ponga; e poi venire indubbiata di

costituzionalità e anche annullata, perché nel tempo cambiano non le parole della legge o della Costituzione,

ma il modo in cui le si interpreta e il modo in cui si valutano le situazioni cui esse si riferiscono. Le norme

che permettono nel nostro sistema solo alle persone eterosessuali di sposarsi sono in vigore da anni anni e

anni; solo due anni fa per la prima volta si è posto il problema se esse non siano incostituzionali, perché

discriminatorie nei confronti degli omosessuali. La Corte ha allora rigettato la questione: ma il solo fatto che

essa si sia posta segnala un mutamenti nei valori diffusi e nel senso comune, che sono quel tipo di mutamenti

dei quali vive l’esperienza del controllo di costituzionalità delle leggi, e il diritto in generale.

7. Quadro riassuntivo dei diversi giudizi davanti alla Corte costituzionale

E’ bene tener presente che la Corte costituzionale può essere adita (= adire una Corte significa aprire un

processo davanti ad essa) in diversi modi.

In altri termini, i giudizi davanti alla Corte costituzionale sono diversi e possiamo raggrupparli così:

Giudizi di legittimità costituzionale

Giudizio in via incidentale

Giudizio in via principale

Giudizi per conflitto di attribuzione Conflitto tra poteri dello stato

Conflitto tra Stato e Regione

Giudizio di ammissibilità del referendum

abrogativo

Giudizio sulle accuse al Capo dello Stato

8.Giudizi di legittimità costituzionale delle leggi e degli atti aventi forza di legge

Sono giudizi che hanno ad oggetto: leggi e atti aventi forza di legge dello stato e delle regioni, ovvero: leggi

ordinarie statali, leggi regionali, decreti legge e decreti delegati statali (questo insieme di atti sono detti anche

atti primari).

Questi giudizi servono a rispondere a questa domanda: è questa legge o atto avente forza di legge (una sua

disposizione, comma, norma ecc.) contrastante con la costituzione?

Possono condurre, in caso affermativo, all’annullamento dell’atto impugnato.

Questi giudizi sono due:

giudizio in via incidentale che abbiamo descritto poco sopra;

giudizio in via principale (o giudizio sulle leggi dello stato e delle regioni). Questo giudizio è fondato sul fatto che nel nostro sistema lo stato e le regioni possono entrambi emanare leggi, secondo criteri di ripartizione di competenza fissati in costituzione (art. 117 ss.). Quando lo stato (o la regione) ritiene che una regione (o lo stato) ha violato le sue competenze può impugnare la legge davanti alla Corte costituzionale.

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Nel giudizio in via incidentale si può denunciare una legge per qualunque contrasto con la costituzione, mentre nel giudizio in via principale solo per violazione della sfera di competenza legislativa assegnata dalla costituzione alla regione o allo stato. Il giudizio in via incidentale si chiama così perché sorge come un “incidente” nel corso di un processo; quello

in via principale si chiama così perché sorge da un ricorso fatto appositamente, direttamente, esclusivamente

per denunciare la legge statale o regionale considerata viziata. Conduce all’annullamento dell’atto normativo

primario ritenuto adottato in violazione delle competenze legislative statali o regionali.

9.Giudizi per conflitti di attribuzione

Ogni “potere dello stato” (governo, parlamento, potere giudiziario, capo dello stato…. ) ha una propria “sfera

di competenza” stabilita dalla Costituzione; lo stesso vale per Regioni e Stato. Le regioni, oltre alle

competenze legislative, hanno infatti competenze amministrative in varie materie (istruzione, sanità,

trasporti…) e lo stato ne ha altre.

Il giudizio per conflitto di attribuzioni ha ad oggetto: atti o comportamenti espressivi delle competenze

diverse da quelle legislative dei poteri dello stato, dello stato e delle regioni.

Risponde alla domanda: è questo atto o comportamento di questo potere o dello stato o della regione

invasivo di una competenza altrui?

Può condurre all’annullamento dell’atto che sia eventualmente all’origine del conflitto.

I giudizi per conflitto di attribuzione sono due:

Conflitto di attribuzioni tra i poteri dello Stato: un potere dello stato ne denuncia un altro lamentando che quello ha esorbitato da, o male esercitato, la sua sfera di competenza. Esempio: un giudice ricorre contro il di autorizzazione a procedere nei confronti di un parlamentare, ritenendo quella delibera lesiva della sfera di attribuzioni del potere giudiziario.

Conflitto di attribuzioni tra Stato e Regioni: lo stato ritiene che una regione ha esorbitato dalle sue competenze, con una delibera giuntale, un atto amministrativo e simili; oppure: una regione si ritiene lesa, nella proprie competenze amministrative, da un atto, amministrativo o giurisdizionale, dello Stato.

Il giudizio per conflitto sorge su ricorso: il potere o l’ente che si ritiene leso solleva una azione davanti alla

Corte. Se ha alla sua base un atto, il conflitto può portare all’annullamento di esso.

10. Giudizio di ammissibilità del referendum abrogativo

Risponde alla domanda: ha o meno questo referendum abrogativo, che i promotori del referendum

propongono, ad oggetto una legge che la costituzione sottrae a referendum?

Questo giudizio viene condotto alla stregua dell’art. 75 Cost., che enumera le leggi sottratte a referendum, e

degli ulteriori limiti al referendum che, come abbiamo visto in un precedente capitolo, la Corte ha dedotto da

questa disposizione.

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11.Giudizio sulle accuse al Capo dello Stato

Risponde alla domanda: è il capo dello stato colpevole o meno di alto tradimento o attentato alla

Costituzione?

L’alto tradimento e l’attentato alla Costituzione sono “reati propri” del capo dello stato, cioè reati che solo il

capo dello stato, in considerazione delle sue funzioni, può compiere. Consistono “nell’abuso delle suoi poteri

o violazione dei suoi doveri al fine di far venir meno la sovranità nazionale o di alterare radicalmente il

sistema costituzionale” (Caretti De Siervo, Istituzioni di Diritto pubblico, p. 202).

La Corte, che in questi casi opera come giudice penale, decide, con sentenza irrevocabile, in una

composizione integrata da un certo numero di giudici “laici” (non stabili membri della corte) sorteggiati da

un elenco di ‘saggi’ eletti ogni legislatura dal parlamento in seduta comune.

SEZIONE II – ORDINAMENTO DELLA GIUSTIZIA

La funzione giurisdizionale consiste nella decisione di controversie, con un atto chiamato sentenza.

La giurisdizione è considerata e regolamentata, dalla nostra Costituzione, come una funzione dello Stato -

esercitata da pubblici funzionari selezionati per concorso, che compongono la magistratura, e il cui stato

giuridico (svolgimento della carriera, ecc.) e i cui compiti sono fissati dalla legge - rivolta alla applicazione del

diritto a casi concreti. Sappiamo però che la giurisdizione, non nasce certamente con lo Stato, anzi è vecchia

come l’uomo, del quale esprime i conflitti, i contrasti, il bisogno di affermare interessi e punti di vista che

sono i compagni incessanti della vita dell’essere umano sulla terra. La giurisdizione, insomma, è una

espressione della ricerca della giustizia.

La configurazione della giurisdizione come funzione di un corpo burocratico dello stato (la magistratura), che

è ancora oggi dominante, ma non esclusiva (poiché vi sono numerosi tipi di controversie la cui decisione è

affidata a magistrati non professionali, i giudici di pace; o per le quali è possibile cercare una mediazione in

alternativa al processo), è ‘storica’. Vale a dire, non è naturalmente necessaria, ma deriva dalle caratteristiche

dello Stato in senso moderno: nel corso dei nostri studi abbiamo visto come proprio nel rapporto tra il potere

sovrano e la giurisdizione si sia giocata una partita centrale, e di importanza pari a quella dell’abbattimento

degli status, ai fini della definizione della ‘sovranità’ statale. La concezione burocratica della giurisdizione fu

rafforzata nel periodo liberale dalle concezioni ‘positiviste e statualiste’ per cui il giudice doveva limitarsi ad

applicare la legge, considerata indiscutibile e sempre capace di regolare tutti i casi della vita.

Le visioni ‘posititiviste’ e ‘statualiste’ per cui la legge è l’atto supremo e indiscutibile del potere pubblico sono

state dichiaratamente abbandonate o messe profondamente in discussione dalla presenza delle Costituzioni

scritte i cui principi e valori condizionano la validità della legge. Il fatto che il giudice sia interprete sia della

legge che della Costituzione (perché al giudice è rimessa la valutazione sul se sollevare una questione di

costituzionalità della legge), che egli possa interrogarsi sulla validità della legge, ha messo profondamente in

discussione la tenuta della configurazione ‘burocratica’ del giudice, che si sente sempre di più non o non solo

‘funzionario dello stato’, ma anche espressione della comunità e dei suoi valori, in dialettica col potere (e ad

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esso subordinato). La giurisdizione è insomma uno dei poteri dello stato più profondamente incisi e

modificati nel passaggio dallo stato liberale alla democrazia costituzionale.

Noi ci avvicineremo ad alcuni aspetti di questi problemi dopo avere preso dimestichezza con la struttura e

l’organizzazione della giurisdizione.

1. Principi fondamentali in materia di giurisdizione

A) Il contraddittorio

La funzione giurisdizionale si realizza mediante il processo. Il processo è retto dalla regola del

contraddittorio. Il processo tende ad accertare se un fatto è accaduto o meno e a definirne le conseguenze, e lo

fa mediante la ricerca di prove, l’acquisizione di testimonianze, l’eventuale ricorso a perizie o pareri di esperti

che vengono portati davanti al giudice dalle parti del processo, rappresentate dai loro avvocati.

Il contraddittorio, che informa il processo, significa che il processo è come una discussione in cui una

parte fa una affermazione e deve provarla e l’altra parte fa una contro-affermazione e deve provarla; il

processo è un disciplinamento dei discorsi. Sono ammesse solo le affermazioni e le prove rilevanti e tali

sono solo le affermazioni, le prove che hanno a che vedere col fatto controverso; a ogni affermazione deve

essere data una base, una prova; se una parte fa una affermazione, l’altra parte, che intende contestarla, deve

contestare quella affermazione, non tirare in ballo cose generiche o solo vagamente riferibili ad essa, o

elementi che non c’entrano niente. Ciascuna parte deve essere in condizione di conoscere i fatti e gli altri

elementi con cui l’altra intende provare i propri argomenti, onde poterli contestare.

La regola del contraddittorio esprime grandi valenze etiche. La prima è quella che abbiamo appena visto:

se si discute di un problema, del torto e della ragione, non si deve parlare a vanvera: occorre portare

argomenti rilevanti, attinenti, fare repliche e confutazioni congrue, dunque ascoltare quello che dice

l’avversario, perché se non lo si ascolta non si può trovare una buona replica. Il contraddittorio esprime la

norma etica di rispettare l’altro, di parlare e ascoltare seriamente. La seconda grande valenza etica del

contraddittorio è riassunta dal divieto di prendere qualunque decisione ‘inaudita altera pars’, cioè

senza aver sentito l’altra parte. Se Tizio dice di avere diritto che Caio gli restituisce dei soldi, benissimo,

ma prima occorre sentire cosa dice Caio, come Caio la vede, come le cose stanno secondo Caio. Il

contraddittorio esprime una posizione di apertura verso la possibilità che una cosa, che apparentemente è in

un modo, sia invece in un altro; e la profonda convinzione che soltanto attraverso il dialogo e il

confronto si possa arrivare a una ragionevole certezza su come quella cosa è, su come quel certo fatto è

accaduto, su quali sono stati i comportamenti di uno o di un altro, le loro responsabilità, ecc. In altre parole, il

processo, informato sul contraddittorio, esprime la profonda coscienza del fatto che nessuno possiede la

verità, e questa è una consapevolezza importante, profondamente anti-autoritaria, ed è una premessa

necessaria alla convivenza civile, al rispetto degli altri, e di sé.

E’ bene ricordare la differenza tra processo civile e processo penale. Nel processo civile si accerta la

responsabilità ‘civile’ (per inadempimento contrattuale o per danno ingiusto provocato in modo doloso o

colposo ad altri). Nel processo penale si accerta la responsabilità ‘penale’, che è quella conseguente al

compimento di reati, i quali sono tipizzati nelle leggi penali.

La sentenza civile condanna al risarcimento del danno, che viene calcolato in relazione al tipo e alla qualità

della lesione che qualcuno ha provato ai diritti di un altro. La sentenza penale all’esecuzione della sanzione,

detentiva o pecuniaria, che collegata al reato il cui compimento è stato accertato e la cui entità, tra un minimo

e un massimo, è fissata dalla legge penale in relazione alla gravità che l’ordinamento assegna al

comportamento di volta in volta qualificato come reato.

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L’apparato preposto alla giustizia civile e penale è la magistratura ordinaria, ed è questa che noi

studiamo in questo capitolo.

Esistono numerosi altri tipi di processi (amministrativo, tributario, contabile), cui sono preposte magistrature

caratterizzate da norme organizzative, garanzie di indipendenza, modalità di funzionamento differenziate da

quelle che concernono la magistratura ‘ordinaria.

Il contraddittorio, che informa il processo, specialmente quello penale, è una espressione di eguaglianza: le

parti sono pari, hanno la stessa capacità e legittimazione a contribuire alla ricerca della verità. Il giudice, a sua

volta, ha il ruolo di garantire che le parti possano svolgere i loro argomenti, di garantire il rispetto della ‘parità

delle armi’ tra loro, e non dovrebbe disporre del potere di dirigere il processo verso un fine pre-definito, o di

influenzarne gli esiti. La sua neutralità e imparzialità sta proprio a garantire che nel processo, tramite il

contraddittorio, si possa formare una immagine della verità nascente dal processo (e non corrispondente a

una verità precostituita).

Certo, vi sono stati storicamente tipi di processo molto poco, o per nulla, improntati al contraddittorio, alla

parità delle parti e del giudice. L’Inquisizione che torturava le persone per estorcere una confessione seguiva

un modello di processo che era tutto il contrario del contraddittorio. Gettare qualcuno nella Bastiglia dopo

essersi limitati a leggergli le accuse non rispetta il contraddittorio. Tutte le volte che la legge disciplina il

processo conferendo a una parte, per esempio alla pubblica accusa, poteri maggiori dell’altra parte (per

esempio assegnando al pubblico ministero il il diritto di conoscere con anticipo le risultanze delle indagini di

polizia, e non facendole conoscere alla difesa), come accadeva nel processo penale italiano ancora negli anni

’970, ci si allontana dai principi del contraddittorio. Si diceva allora che avevamo un processo penale

‘inquisitorio’, e la parola dice da sola che il processo era più un macchinario di indagini contro qualcuno,

contro l’imputato, che non la ricerca ad armi pari della verità. Il processo penale italiano è stato riorganizzato

agli inizi degli anni 1980 intorno ai principi “accusatori”, parola che descrive un processo improntato alla

parità tra accusa e difesa.

“Esiste una connessione tra i sistemi processuali e le forme di regime politico. La tendenza propria dei

governi dispotici di accentrare il potere in poche mani e di mantenere assai alto il principio di autorità, porta

a considerare le perturbazioni dell’ordine pubblico e le violazioni del diritto, di qualunque genere esse siano,

quali offese apportate ai detentori del potere. Il sentimento di sospetto, onde allora i governanti sono

dominati, induce a riguardare l’imputato come un colpevole, a conferire al giudice poteri inconciliabili con

l’imparzialità del suo ufficio e col suo compito giudicante, come anche ad escludere il contraddittorio, a

ridurre i diritti della difesa, a mantenere segreti non solo gli atti istruttori ma anche il dibattimento. E’ così

che i governi dispotici tendono per la loro psicologica natura verso il sistema inquisitorio. Si capisce che un

ordine di idee di sentimenti del tutto opposto debba produrre nei governi liberi la tendenza verso l’opposto

sistema” (V. Miceli, Diritto costituzionale, 2 ed., Società Editrice Libraria, Milano, 1913,, p. 936-937)

Dopo una riforma costituzionale del 1999, i principi del contraddittorio sono stati anche inseriti nel testo della

Costituzione: essi fanno saldamente parte della nostra concezione costituzionale della giurisdizione. Secondo

l’art. 111 della Costituzione

La giurisdizione si attua mediante il giusto processo regolato dalla legge.

Ogni processo si svolge nel contraddittorio tra le parti, in condizioni di parità, davanti a un

giudice terzo ed imparziale. La legge ne assicura la ragionevole durata. (art. 111 Cost.)

B) Sentenze e ordinanze. L’obbligo di motivazione di tutti i provvedimenti giurisdizionali

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L’atto che conclude un processo si chiama sentenza. Si chiama invece ordinanza ogni atto interno al

processo, ovverosia adottato dal giudice ai fini dello svolgimento del processo, per compiere atti necessari alla

sua prosecuzione o al suo completamento (ordinanza con cui si dispone una perizia su richiesta di parte; con

cui si dispone la comparizione di testimoni; è una ordinanza anche l’atto con cui il giudice, che dubiti della

costituzionalità della legge che deve applicare per risolvere il processo, lo sospende mentre invia la questione

di costituzionalità alla Corte costituzionale; del pari, il giudice che, nel corso del processo, abbia bisogno di

conoscere, ai fini della soluzione della controversia, l’esatta interpretazione di norme di diritto dell’Unione

europea, deve sospendere, con ordinanza, il processo, e sottoporre la questione alla Corte di Giustizia).

Tutti i provvedimenti giurisdizionali (sentenze e ordinanze) devono essere motivati (art. 111 comma 6). La

motivazione è essenziale per riscontrare le ragioni su cui sono fondati, ed eventualmente contestarli tramite

una impugnazione.

La struttura normale di una sentenza prevede:

- una parte in fatto, in cui viene restituita la vicenda controversa, per come la si è ricostruita nel

processo;

- una parte motiva, o motivazione, in cui si espongono le ragioni su cui è fondato il

- dispositivo, cioè ciò che la sentenza dispone, il modo in cui essa risolve il conflitto di interessi

considerato (Caio deve pagare a Tizio tanto; Mevio deve scontare tot giorni e mesi di reclusione, ecc.),

in cui si individua la o le norme a cui il fatto è ritenuto corrispondere.

C) Impugnazioni e gradi di giurisdizione

Ogni sentenza può essere impugnata per ottenerne una revisione. Si può impugnare per motivi di fatto (si

contesta che le cose siano andate davvero come la sentenza ritiene, affermando di disporre di nuovi elementi

di prova, o che le prove non sono state ben valutate) o per motivi di diritto (si contesta la correttezza della

scelta della norma che il giudice ha applicato al caso, l’esattezza della qualificazione che il giudice ha dato al

fatto). Ogni fatto controverso può dunque, normalmente, conoscere due gradi di giudizio, il primo e quello in

impugnazione. E’ generalmente possibile operare un terzo ricorso in impugnazione, ma soltanto per motivi di

diritto, davanti alla Corte di Cassazione. In questo giudizio non si discuterà più del fatto, non si porteranno

nuove prove, ma si discuterà solo della corretta qualificazione di quel fatto secondo il nostro diritto.

I giudici che conoscono in fatto e in diritto sono detti giudici di merito. Essi sono distribuiti nel territorio

nazionale, che è articolato in numerosi distretti giudiziari. Ogni distretto giudiziario è composto dai vari

organi giudiziari contemplati dall’ordinamento (Tribunale Corte d’Assise Corte d’Appello). Le cause si

distribuiscono:

a) per territorio (per esempio, a seconda del luogo in cui si trova la cosa della cui proprietà si discute, o dove

il fatto è stato commesso);

b) per tipo e valore (cause civili di piccolo valore vanno a un certo organo giudiziario, di grande valore, a un

altro; lo stesso per reati gravi e meno gravi).

La Corte di Cassazione è un giudice che conosce solo il diritto, e un giudice così configurato si chiama giudice

di legittimità. Essa è unica per tutto il territorio nazionale (per curiosità storica, ricordo che nel Regno

d’Italia invece esistevano cinque Corti di Cassazione, a Torino, Napoli, Firenze, Palermo e, ultima nata, dopo

la presa di Porta Pia, a Roma; avere una propria Corte di Cassazione era un onore che venne lasciato alle

antiche capitali pre-unitarie).

La funzione della Corte di Cassazione è detta ‘nomofilattica’, cioè è quella di indicare la retta interpretazione

del diritto, evitando la difformità delle interpretazioni dei giudici di merito.

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Quando una sentenza viene impugnata in Cassazione, essa può essere confermata, oppure cassata. Se cassa la

sentenza di merito, la Corte di cassazione enuncia quella che doveva essere la retta interpretazione del caso, e

rinvia il processo a un giudice di natura analoga e dello stesso luogo di quello da cui proviene la sentenza

impugnata, ma in composizione diversa, che dovrà ri-decidere il fatto rispettando il ‘punto di diritto’

enunciato dalla Cassazione.

D) Sentenze definitive e non definitive. Giudicato

La sentenza suscettibile di impugnazione si dice ‘non definitiva’. Una sentenza non più suscettibile di

impugnazione si dice ‘definitiva’ o ‘passata in giudicato’.

La legge definisce il termine entro il quale una sentenza può essere impugnata.

Una sentenza diventa definitiva:

a) se il termine per l’impugnazione è decorso, e non è stata presentata alcuna impugnazione (così può passare

in giudicato anche una sentenza di primo grado).

b) se tutte le possibili impugnazioni sono state esperite. Se si è raggiunto un giudizio di Cassazione conforme,

passa in giudicato la sentenza di merito impugnata davanti alla Cassazione, e che la Cassazione ha

confermato; se la Cassazione ha riformato (cassato) la sentenza di merito davanti ad essa impugnata, e ha

rinviato il processo al giudice per la decisione sulla base del punto di diritto che la Cassazione ha enunciato,

passa in giudicato la sentenza del giudice del rinvio.

Il ‘giudicato’ è la condizione per cui la cosa giudicata non è più rivedibile, non può più essere fatta oggetto di

un processo. Il giudicato ha forza di legge per le parti del processo. Né una legge né un atto del Governo

possono modificare il giudicato (e questa è una espressione del principio di divisione dei poteri).

L’irrivedibilità del giudicato subisce solo alcune limitatissime eccezioni fissate dalla legge. Tra queste si può

includere la grazia.

E) Ordinamento giudiziario

Ordinamento giudiziario è l’insieme delle norme che disciplinano lo status dei magistrati civili e penali

(modalità di selezione, carriera, norme disciplinari, ecc.).

L’ordinamento giudiziario è riservato alla legge (vale a dire è sottratto all’Esecutivo e ai suoi atti normativi).

Le norme sull’ordinamento giudiziario e su ogni magistratura sono stabilite con legge (art.

108 Cost.).

F) Magistrati giudicanti e requirenti

I magistrati possono svolgere due tipi di funzioni: giudicanti e requirenti. I magistrati giudicanti sono

quelli che sovrintendono allo svolgimento del processo e redigono la sentenza; i magistrati requirenti

(pubblici ministeri, o Procuratori della Repubblica) hanno invece la funzione di rappresentare gli interessi

dello Stato nel processo: essi sono la cd. ‘parte pubblica’.

La principale funzione del pubblico ministero è il sollevamento dell’azione penale.

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Mentre nel processo civile, trattandosi di interessi privati, il sollevamento di un processo è rimesso

all’iniziativa della parte, il processo penale è ‘a istanza pubblica’1: la notizia del compimento di un reato fa

scattare lo svolgimento delle indagini e il sollevamento dell’azione penale, da parte appunto del pubblico

ministero, che rappresenta l’interesse dello Stato alla repressione dei reati (vale a dire al mantenimento

dell’ordine). Il pubblico ministero, peraltro, ha un ruolo anche nei processi civili, dove rappresenta alcuni

interessi fatti propri dall’ordinamento (es., nel diritto di famiglia, rappresenta gli interessi dei minori).

E’ sbagliato riferire la definizione di ‘giudice’ al pubblico ministero, perché il pubblico ministero

non giudica (semmai accusa, e porta l’accusato davanti al giudice).

D’altro canto, secondo il nostro ordinamento giudiziario, la carriera di pubblici ministeri e giudici è identica,

si entra in magistratura con uno stesso concorso, dopo il quale si può decidere di fare il pm o il giudicante, e

nella sua carriera un magistrato può passare dall’uno all’altro ruolo.

2. Le garanzie di autonomia e indipendenza dell’ordine giudiziario

La magistratura costituisce un ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere (art. 104 Cost.)

A)L’autonomia dell’ordine giudiziario

La magistratura è definita in Costituzione come un ordine, non un potere, secondo una dizione che era già

presente nello Statuto albertino e del cui senso discuteremo più avanti. A differenza che nello Statuto

albertino, però, la magistratura è dotata dalla Costituzione di particolari garanzie di indipendenza che

riguardano il singolo magistrato e l’intero ordine, e che sono orientate soprattutto nei confronti del il potere

esecutivo, del Governo.

La magistratura come corpo burocratico è composta da funzionari scelti per concorso sulla base di precise

competenze tecniche. L’amministrazione della giurisdizione è riservata ad un organo speciale, che si chiama

Consiglio Superiore della Magistratura e ha sede a Roma.

Per amministrazione della giurisdizione si intendono tutte le operazioni che riguardano la carriera dei

magistrati, dallo svolgimento del concorso agli avanzamenti di carriera, ai trasferimenti, ai procedimenti

disciplinari. Un tempo, queste funzioni spettavano al potere esecutivo, e rappresentavano uno strumento

molto forte di condizionamento della magistratura da parte del Governo, e come tali venivano coscientemente

utilizzate. Per evitare gli abusi di un tempo, le funzioni di amministrazione della giurisdizione sono dunque

state attribuite a un organo costituzionale apposito, indipendente rispetto all’Esecutivo.

Spettano al Consiglio Superiore della Magistratura, secondo le norme sull’ordinamento giudiziario, le

assunzioni, le assegnazioni, i trasferimenti e i provvedimenti disciplinari nei riguardi dei magistrati (art.

105 Cost.).

1 Solo per alcuni reati, perché considerati di minore importanza, o perché legati alla sfera intima e privata e tali

pertanto che solo la vittima può valutare se renderne pubblica l’esistenza attraverso il processo (così, un tempo, era per il delitto di violenza sessuale), si procede penalmente ‘ a querela’, cioè se la parte offesa ne fa richiesta. Anche in questi casi, una volta presentata la querela, l’azione penale nel processo è svolta dal pubblico ministero.

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Per sottolineare l’importanza del Consiglio Superiore della Magistratura la Costituzione ha stabilito che esso

sia presieduto dal Capo dello Stato (anche se normalmente le funzioni di presidenza sono svolte da un Vice

Presidente, nominato tra i membri del Consiglio). Sono membri di diritto del Csm il primo presidente e il

procuratore generale presso la Corte di Cassazione. Gli altri membri del CSM sono elettivi, in parte eletti dal

Parlamento in seduta comune (membri cd laici, cioè non magistrati; deve comunque trattarsi di persone che,

pur scelte attraverso un canale politico, hanno competenza in materia giuridica) e gli altri eletti dalla

magistratura (membri togati). La Costituzione non fissa il sistema di elezione né numero dei membri, che

sono definiti dalla legge, ma definisce le proporzioni tra membri laici e ‘togati’, assegnando la preminenza a

questi ultimi (i ‘togati’ sono i 2/3).

Il fatto che le funzioni di amministrazione della giurisdizione siano riservate a un organo distinto dal potere

esecutivo costituisce la autonomia della magistratura, cioè il suo potere di auto-organizzarsi (all’interno e

sulla base delle leggi che la regolano).

Le competenze del Governo, e per esso del Ministro di Grazia e Giustizia, in ordine alla magistratura si

limitano alla possibilità di promuovere l’azione disciplinare nei confronti di singoli magistrati (che sarà poi di

competenza del CSM esaminare e decidere); il Ministero è inoltre competente sui servizi della giustizia

(per esempio, i cancellieri e altri dipendenti pubblici che lavorano nei tribunali; la gestione delle carceri).

Qualora il Governo intenda procedere a una riforma dell’ordinamento giudiziario, e dunque avviare una legge

in tal senso, è il Ministro della Giustizia che studia e propone questo provvedimento.

Ferme le competenze del Consiglio Superiore della Magistratura, spettano al Ministro di Grazia e Giustizia

l’organizzazione e il funzionamento dei servizi relativi alla giustizia (art. 110 Cost.)

B) Le garanzie di indipendenza dei singoli magistrati

Le garanzie di indipendenza dei singoli magistrati sono date, oltre che dal solenne principio di ‘soggezione

alla sola legge’, dalla inamovibilità, e dal fatto che ‘i magistrati si distinguono tra loro solo per diversità di

funzioni’ (art. 107 comma 1 e 3).

L’inamovibilità consiste nel fatto che il trasferimento di un magistrato (cambiamento di funzioni o di sede)

può essere deciso solo dal Consiglio superiore della magistratura, con decisione “adottata o per i motivi e con

le garanzie di difesa stabilite nell’ordinamento giudiziario, o con il consenso” dell’interessato.

Tradizionale strumento punitivo e di controllo sui magistrati, trasferimenti e tramutamenti (cambiamenti di

sede e di funzioni) non solo sono stati tolti al Governo e assegnati al Csm, ma sono assistiti dalle garanzie di

un vero e processo, che permettono al magistrato (che non vi consenta) di difendersi e di opporsi.

Il principio secondo cui i magistrati si distinguono tra loro solo per diversità di funzioni esprime

l’abbandono della struttura gerarchica che ha, sino alla Costituzione, sempre caratterizzato la struttura della

magistratura in Italia e che faceva sì che i giudici più anziani e di grado più alto potessero condizionare la

carriera dei più giovani, essendo i giudici più anziani e di grado più alto quelli che esprimevano i giudizi di

merito sull’operato dei giovani; sicché il magistrato giovane e con vedute non gradite ai magistrati anziani

aveva poche speranze di carriera, mentre venivano premiati i più ortodossi e conformisti. Tutto questo

andava, come si comprende facilmente, a danno dell’indipendenza dei singoli magistrati, che, nel giudicare,

potevano essere portati a tener conto del tipo di decisione che sarebbe piaciuta ai giudici di grado superiore,

se speravano in un avanzamento o in una sede migliore.

C) In particolare: l’indipendenza del pubblico ministero

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Il principio secondo cui i magistrati si differenziano solo per diversità di funzioni ha anche il significato di

ribadire che è magistrato anche il pubblico ministero, il quale invece in precedenza era organizzato e

funzionava come un organo del potere esecutivo, cosa che condizionava enormemente l’esercizio dell’azione

penale, che il pubblico ministero sollevava o non sollevava secondo il ‘gradimento’ del Governo.

Pur non arrivando a dire che il pubblico ministero (che è pur sempre ‘parte pubblica’ nel processo) ha le

stesse garanzie di indipendenza del magistrato giudicante, la Costituzione afferma, con norma che fu di

portata rivoluzionaria rispetto alla nostra tradizione, che “il pubblico ministero gode delle garanzie stabilite

nei suoi riguardi dalle norme sull’ordinamento giudiziario”.

La sottolineatura dell’indipendenza del PM dal Governo, che viene dalla Costituzione, è un tratto che è stato

molto approfondito nell’esperienza repubblicana, e costituisce una differenza rilevantissima rispetto

all’esperienza statutaria e poi fascista, che concepiva il pubblico ministero come un braccio del potere

esecutivo.

Altra norma importantissima ai fini dell’indipendenza del PM (e in genere della funzione giurisdizionale) è

quella che sancisce l’obbligatorietà dell’esercizio dell’azione penale. Viene in tal modo ripudiata la

possibilità ( cardinale nel Regno d’Italia, per non dire nel Fascismo) che l’azione penale possa essere

esercitata secondo valutazioni inerenti l’opportunità o meno di sollevarla in considerazione del tipo di reato,

della persona imputata, e via discorrendo.

Il pubblico ministero ha l’obbligo di esercitare l’azione penale (art. 112)

D) Altre norme sulla giurisdizione

Oltre che nella parte dedicata all’organizzazione del potere giudiziario, che si trova nella seconda parte della

Costituzione, quella dedicata alla organizzazione della Repubblica, la Costituzione detta norme importanti

sulla giurisdizione nella sua prima parte, che è quella dedicata ai diritti e alle libertà.

Tra queste vanno qui specialmente ricordate:

o il principio secondo cui tutti possono agire in giudizio per la tutela dei propri diritti e interessi

legittimi e quello secondo cui la difesa è diritto inviolabile in ogni stato e grado del procedimento (art.

24);

o il principio di irretroattività della legge penale (nessuno può essere punito se non in forza di una

legge entrata in vigore prima del fatto commesso: art. 25 comma 2);

o il principio di presunzione di innocenza (l’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna

definitiva, art. 27 comma 1);

o il ripudio di pene degradanti e il divieto di pena di morte (le pene non possono consistere in

trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato; non è

ammessa la pena di morte: art- 27).

Un altro principio molto importante è quello del giudice naturale.

Nessuno può essere distolto dal giudice naturale precostituito per legge (art. 25 comma 1).

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Il principio vuole che in nessun caso qualcuno possa essere giudicato da un organo giudiziario creato ad hoc o

scelto tra quelli esistenti in considerazione delle persona dell’imputato o del delitto di cui è accusato. Esso si

realizza

a) Mediante le norme sulla giurisdizione che distribuiscono tra i giudici esistenti nel territorio e tra i

diversi gradi di giurisdizione la competenza sulle diverse materie;

b) Mediante il ‘tabellario giudiziale’ che su base annua, mensile e settimanale stabilisce in anticipo, per

ogni ufficio di ogni distretto, quali magistrati-persone fisiche faranno parte dei diversi organi

giudicanti.

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SEZIONE III – GIURISDIZIONE E COSTITUZIONE

1. Dallo stato ‘legicentrico’ alla democrazia costituzionale

L’idea che la legge dello Stato è la principale fonte del diritto, superiore ad ogni altra si è dunque prestata a

sviluppi diversi. Essa si è associata a concezioni volontariste (la legge strumento della volontà del Sovrano, del

popolo, del Capo) volontà che vuole e può imporre alla convivenza regole corrispondenti ai propri interessi. A

concezioni storiciste: la legge strumento della coscienza sociale, della nazione, che non può introdurre

cambiamenti nello status quo, conveniente alle classi dominanti, che la renderebbero “arbitraria”. In

entrambi i casi, quella concezione si è sempre associata all’affermazione di una necessità imprescindibile: che

la legge sia fedelmente applicata da un corpo di funzionari addestrati a non contraddirla, e meglio se (come

accadeva in Italia nel Regno e nel Fascismo), selezionati, promossi e controllati dal Governo e dalle

magistrature superiori in funzione del loro conformismo.

L’Europa che ha conosciuto il nazismo e il fascismo si è trovata a rimpiangere, e parecchio, la friabilità, la

fragilità a cui la riduzione del diritto a legge ha esposto quei valori di dignità, di uguaglianza, di libertà, che le

leggi, in quanto espressione del potere politico, possono facilmente offendere e minacciare, e senza i quali una

società può avere molte leggi, ma non ha un Diritto.

Con la redazione della Costituzione si è voluto sancire in un testo che la legge non può modificare (se non in

certe ipotesi e a certe condizioni) i valori della convivenza che non vorremmo mai fossero abbandonati,

pretermessi o violati.

Quando si dice che la Costituzione contiene l’indicazione di diritti, libertà e garanzie fondamentali per la

nostra convivenza civile non si deve intendere che la Costituzione contiene norme che risolvono una volta per

tutte le questioni inerenti le libertà e i diritti, e che richiedono soltanto di essere applicate per quello che

dicono. Al contrario, le norme costituzionali hanno spesso carattere di norme di ‘principio”: hanno un

contenuto ampio, spesso descritto attraverso termini ricchi, evocativi ed imprecisi. In questo modo, esse

comunicano associazioni di idee ed evocano immagini ma non sempre descrivono precise fattispecie. Proprio

perciò, esse “eccedono” i contenuti che di volta in volta sono fissati in disposizioni specifiche e aprono uno

spazio in cui è possibile che nuovi valori emergano e nuovi interessi siano tutelati.

Pensiamo alla immagine dello “svolgimento della personalità”, che troviamo nell’art. 2:

La Repubblica riconosce i diritti inviolabili della persona come singolo e nelle formazioni sociali in cui si

svolge la sua personalità.

Questo testo mette in rilievo sicuramente due cose: che tanto i singoli che le formazioni sociali sono molto

importanti, e che le formazioni sociali in cui i singoli vivono devono essere improntante al rispetto della

personalità dei singoli. E’ una immagine che rivoluziona le concezioni tradizionali di formazioni sociali come

la famiglia, la scuola, il luogo di lavoro, l’esercito, il carcere e che, mettendo al centro una idea di ‘sviluppo

della personalità’ è in grado di offrire riconoscimento e a tante cose diverse che, a seconda dei tempi e dei

luoghi, possono essere associate all’idea di personalità e di libertà; cose che nessuna norma può enunciare in

un elenco esaustivo, perché… perché si tratta di contenuti sempre in cambiamento: i “valori della convivenza”

sono sempre in trasformazione. Per esempio, i costituenti, o la maggior parte di loro, probabilmente non lo

pensavano, ma oggi noi non fatichiamo a pensare che l’idea di “libero svolgimento della personalità” protegga

l’orientamento sessuale. La costituzione non contiene una norma a protezione della libertà di scegliere il

proprio orientamento sessuale, ma l’art. 2, col suo riferimento al libero svolgimento della personalità offre

una base per argomentarne il riconoscimento.

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Proprio perché la Costituzione è ricca di norme di principio, che riconoscono potenzialmente il valore di

situazioni diverse e tra loro confliggenti, la sua ampiezza di contenuti di valore impegna al bilanciamento

di interessi diversi. Nel 1978, la legge ha riconosciuto l’aborto come una operazione che può essere compiuta

legittimamente entro i 3 mesi di gravidanza. L’argomento col quale la legge fu giustificata fu il diritto alla

salute della madre, perché, quando l’aborto era vietato, esso veniva praticato clandestinamente in modi che

rischiavano di essere dannosi per la donna. D’altra parte, anche il concepito ha il suo diritto alla vita: di qui il

limite dei primi 3 mesi, che intende proteggere ‘la vita nascente’. E un medico cattolico, può essere costretto a

praticare un aborto, che per lui è in ogni caso un omicidio? La legge riconosce ai medici e al personale

sanitario l’obiezione di coscienza.

2. La funzione delle norme costituzionali di principio

La presenza di norme costituzionali di principio che riconoscono diritti e libertà non ‘risolve’ i conflitti che

intorno ai diritti e alle libertà possono sorgere: conflitti che nascono dalla richiesta che un diritto sia

riconosciuto, o che nascono per effetto del riconoscimento di un diritto, che può allora ledere un altro

interesse costituzionale. Tutto al contrario che dare i problemi per risolti, la presenza della Costituzione

promuove l’idea che i conflitti, i punti di vista diversi, la diversità di interessi e di valore siano una

ricchezza per una società, e una garanzia di libertà, perché è attraverso di essi che possono via via emergere

modi di vita e di pensare nuovi, che posizioni un tempo minoritarie o condannate possono venire accettate e

consolidarsi, che interessi prima negati o svalorizzati possano trovare espansione.

Le vie attraverso le quali dai conflitti tra interessi e punti di vista diversi si sviluppa il diritto in una

democrazia costituzionale sono molteplici. Una è sicuramente la via dell’interpretazione giudiziaria. Infatti,

come e più delle singole disposizioni che garantiscono singoli diritti o regolano determinate fattispecie, i

principi sono il grande appiglio delle argomentazioni su cui si può fondare la domanda di

giustizia che dà vita a una concreta controversia. Queste argomentazioni se riescono ad essere

persuasive cambiano a poco a poco, arricchendolo e trasformandolo, il diritto.

Ci si può in altri termini richiamare a un principio fondamentale in un processo quando si vede leso un

interesse che non è tutelato da una specifica disposizione ma è riconducibile a uno dei nostri principi

fondamentali, e in questo caso è il diritto (l’esperienza giuridica che si fa nei tribunali, nelle arringhe, nelle

memorie, nelle sentenze) a trasformare il diritto di contenuti nuovi.

Anche la discussione politica può essere un modo di dare accenti nuovi ai principi costituzionali. Si può

per esempio richiamare a un principio fondamentale il gruppo di deputati che presenta un progetto di legge

per introdurre una nuova legge che garantisce certi diritti a certi soggetti… e in questo caso sarà la legge a

trasformare il diritto con contenuti nuovi.

Il testo costituzionale non protegge un elenco ossificato di diritti; non alza uno steccato a difendere valori

determinati, che sappiamo con certezza quali, che sono puntualmente definiti. Al contrario, la Costituzione,

con le sue norme di principio, identifica una serie di valori molto ampi e spesso indeterminati, così

permettendo che contenuti sempre nuovi siano immessi nella nostra convivenza, e rimettendo all’opinione

pubblica, alla discussione politica, al giudizio giurisprudenziale di accertarli e comporli. La funzione della

Costituzione è in altri termini quella di tenere aperto lo spazio nel quale identificare i valori della nostra

convivenza. Così nel testo vive un discorso che, anziché aspirare a contenere tutti i possibili casi della vita e

regolarli dall’altro (come ci si aspettava dalle leggi nell’ottocento statalista) è aperto alle evoluzioni e

trasformazioni, poroso ai percorsi della vita sociale e della storia.

L’introduzione della giustizia costituzionale, cioè di una Corte specializzata (la Corte costituzionale, che non fa

parte dell’ordinamento giudiziario) e dotata del potere di annullare le leggi contrarie a Costituzione, ha

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significato così il riaprirsi della dialettica tra legge e diritto che nel corso dell’Ottocento e nella prima metà del

Novecento si era spenta ed era stata negata nel nostro Paese.

E questo, non solo perché la legge viene confrontata con la Costituzione, ma perché, a questo scopo, sia la

Corte costituzionale che i giudici ordinari hanno cominciato a sviluppare modi di ragionare propri, che

non sono dettati cioè dalle leggi e nemmeno dalla Costituzione, in cui centrali sono antichi principi del diritto,

come quello per cui la legge non deve essere irragionevole, contraddittoria, rispetto al fatto che regola, perché

in tal modo è arbitrio e non legge. In questo modo di ragionare, che si chiama principio di

ragionevolezza, risuona molto dell’antica ‘autonomia di giudizio’ della giurisdizione rispetto al ‘voluto’

della legge, ai comandi del potere.

3.La ragionevolezza

Il principio di ragionevolezza rappresenta un modo caratteristico in cui la Corte costituzionale conduce il sindacato di costituzionalità sulle leggi, che contiene tutto un approccio alla legge e alla sua validità, il quale ha profondamente influenzato anche il modo di ragionare dei giudici ordinari. Il principio nasce dall’art. 3 comma 1 della Costituzione, che esprime in questi termini il principio di eguaglianza formale (uguaglianza davanti alla legge):

“Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono uguali davanti alla legge. Non è ammessa distinzione alcuna per motivi di sesso, razza, lingua, religione, opinioni politiche, condizioni personali e sociali”.

Questo testo è stato interpretato nel senso che il principio di eguaglianza formale non vieta al legislatore di fare distinzioni. Spesso anzi è proprio la Costituzione che impone di farle, per esempio per tutelare quelle categorie svantaggiate che essa protegge espressamente (es., incoraggiare il diritto allo studio dei capaci e meritevoli privi di mezzi con borse di studio ad essi riservati è una differenza di trattamento non solo ammissibile, ma costituzionalmente opportuna). Dunque il principio di eguaglianza formale non vieta tutte le distinzioni, ma solo quelle irragionevoli, che non hanno una ragione d’essere nelle caratteristiche della situazione regolata, o nelle finalità costituzionali. Il principio di ragionevolezza è dunque la traduzione pratica del principio di eguaglianza formale, il quale opera in pratica anche realizzando differenze di trattamento ragionevoli.

Il principio di ragionevolezza non viene utilizzato solo per apprezzare se una differenza di trattamento è ragionevole o meno, ma anche per apprezzare se il trattamento che a una certa categoria, a certi soggetti, a certe situazioni è stato riservato dalla legge è congruo, opportuno, proporzionato rispetto alle esigenze di quelle categorie, soggetti o situazioni, per come esse sono configurabili in base alla Costituzione.

Una scelta che appare ragionevole oggi, può non apparire tale domani: la ragionevolezza è un canone storico, sensibile, cioè, al mutare degli orientamenti di valore, dei modi di pensare, vale a dire delle mentalità e degli stili di vita, che incidono sul modo in cui un certo tema è percepito, sulle interpretazioni stesse della Costituzione, e che possono fare sentire discriminatori comportamenti e atti un tempo considerati normali. Anche scelte che provengono da altri ordinamenti, o dagli ordinamenti sovranazionali cui il nostro è collegato, cooperano a fare evolvere il senso di ciò che è ragionevole o non lo è.

Un esempio classico che si può fare per farsi un’idea della storicità del criterio di ragionevolezza è quello delle due sentenze che, a distanza di pochi anni l’una dall’altra, hanno riguardato il tema dell’adulterio femminile in Italia. Secondo il codice penale Rocco (1933), l’adulterio femminile costituiva reato; a questo corrispondeva l’attenuante “per causa di onore” dei delitti compiuti da un uomo nei confronti della moglie adultera o del di lei amante. Nel 1961 fu sollevata davanti alla Corte costituzionale questione di legittimità della norma sull’adulterio femminile, che appariva lesiva del principio di eguaglianza, del divieto di distinzioni per sesso, e del principio secondo cui “il matrimonio è orientato alla eguaglianza morale e giuridica dei coniugi, con i limiti stabiliti dalla legge a garanzia dell’unità familiare” (art. 29 comma 2). La Corte però rigettò la questione, sostenendo che non era irragionevole la previsione per cui l’adulterio femminile è reato, in quanto “l’offesa che l’adulterio femminile porta alla unità familiare è ben più grave di quella portata dall’adulterio maschile e pertanto non è irragionevole che il legislatore disciplini in modo diverso le due situazioni, tra loro diverse”. Il presupposto di questo discorso è l’ancestrale principio ‘mater semper certa pater numquam”: in altri termini, potendo dall’adulterio femminile nascere figli, che avrebbero assunto, in quanto nati in costanza di matrimonio, lo status di figli legittimi pur non essendolo, solo l’adulterio femminile, e non quello maschile, porta minaccia all’unità

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familiare (rischiando di introdurre nella famiglia legittima figli altrui). Ciò che permetteva alla Corte di seguire un ragionamento siffatto, era che nella società ancora dominavano orientamenti molto conservatori sul piano delle condotte sessuali, ancora patriarcali nella concezione della famiglia. Nel 1969, la stessa questione fu riproposta, e questa volta la Corte dichiarò la norma sull’adulterio femminile illegittima in quanto inequivocabilmente contrastante con la piena dignità sociale delle donne.

Per spiegarsi un cambiamento di giurisprudenza di questa portata, non si può non pensare a che cosa è accaduto negli anni che separano le due decisioni: il ’68, il femminismo, una società in evoluzione il cui cambiamento era segnalato anche dalla cultura, dalla letteratura, dal cinema, dove un film come “Divorzio all’Italiana” aveva ridicolizzato i comportamenti sessuali arcaici degli italiani. La valutazione su ciò che è ragionevole e cosa non lo è, ci dimostrano queste sentenze, è fortemente porosa al mutamento delle culture e dei modi di pensare.

La ragionevolezza, dunque, ci mette di fronte alla socialità del diritto nel senso che esiste un nesso tra ciò che la società, mediamente, considera ‘giusto’ e ciò che il diritto permette, favorisce, tutela, “riconosce”. Stabilire se siamo o non siamo di fronte a una differenza di trattamento ragionevole o meno, a una scelta legislativa ragionevole o meno, impegna a confrontarci da una parte col piano costituzionale e normativo, nazionale e sovranazionale, e dall’altra parte con le mentalità, le culture e i punti di vista che nella società si fanno valere.

4.Un esempio di giudizio di ragionevolezza: il diritto dei disabili alle ore di sostegno

In una recente sentenza della nostra Costituzionale, emessa nel 2010, è stata affrontata una questione di

legittimità costituzionale avente ad oggetto le ore di sostegno per gli studenti disabili. Le ore di sostegno sono

previste nel nostro ordinamento da una legge del 1992 come necessarie alla integrazione scolastica del

disabile, a sua volta ritenuta un dovere della Repubblica volto a garantire l’inserimento sociale della persona

disabile, nello spirito dell’art. 3 secondo comma Cost. (la Repubblica rimuove gli ostacoli che impediscono il

pieno sviluppo della persona umana), delle norme costituzionali sul diritto all’educazione delle persone

disabili (art. 38) e, in una, del diritto alla salute (art. 32)

Secondo la legge finanziaria del 2007, le scuole di ogni ordine e grado, nel caso che i docenti di ruolo non

fossero sufficienti per assegnare agli studenti disabili le ore di sostegno necessarie, non avrebbero più potuto,

come la legge sino a quel momento consentiva, assumere supplenti con un contratto temporaneo. Esse

avrebbero dovuto ripartire tra gli studenti disabili le ore disponibili in misura uguale per tutti e potendo solo,

semmai, aumentare le ore di sostegno ricorrendo a quelle che altri insegnanti nella Provincia avessero libere

(per tali intendendosi, nel monte orario settimanale del docente, le ore normalmente utilizzate per supplenze

o ricevimento dei genitori o per lo svolgimento di servizi interni alla scuola). In sostanza, se nella scuola vi

sono due studenti disabili, e 12 ore di sostegno disponibili, si daranno 6 ore per uno, anche se uno è un

disabile grave e l’altro meno. Se nella scuola vi sono due studenti disabili, ma nessun insegnante che può fare

il sostegno, si deve cercare se nella Provincia vi sono insegnanti di sostegno con ore disponibili. Se vi sono 6

inseganti, ciascuno con una ora disponibile, si possono assegnare 3 ore di sostegno a ciascuno, svolte da

docenti diversi. Se non c’è alcuna ora disponibile, nessun sostegno. Se nella provincia vi sono 33 ore

disponibili, e nella scuola vi è un solo disabile, si può anche dare tutta la copertura oraria di 33 ore (orario

scolastico completo) a quello studente disabile, ricorrendo a 33 insegnanti diversi.

Il giudice remittente, che giudicava in un processo sorto dal ricorso dei genitori di un bambino disabile contro

la scuola che gli aveva assegnato un numero di ore di sostegno inferiori a quelle di cui, secondo certificazione

medica, aveva bisogno, osservò che eliminare la possibilità di assumere insegnanti di sostegno a contratto

offendeva il diritto alla salute del disabile, perché nella salute, intesa come benessere psico-fisico della

persona, rientra anche l’inserimento scolastico.

L’avvocatura dello stato, che difende il Governo nei giudizi di costituzionalità, aveva sostenuto che non c’era

invece alcun problema. Anzi, grazie alla possibilità di vedere se vi erano ore disponibili nella provincia, il

diritto del disabile alle ore di sostegno era perfettamente garantito. Ciò sottaceva che: a) col nuovo sistema

non si garantiva più a nessun disabile la piena copertura delle ore di sostegno secondo il suo bisogno; b) che

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anche nel caso che si garantisse la piena copertura, avere un insegnante di sostegno per tutto l’anno dedicato

a un singolo studente disabile, o averne 3, 10, o 33 che cambiano ogni ora, non è, ai fini dell’effettivo

inserimento e sviluppo dello studente disabile, certamente la stessa cosa.

L’avvocatura dello Stato disse anche che il diritto all’istruzione del disabile non c’entra niente con la salute, la

scuola non è altro che un pubblico servizio che viene erogato alle condizioni decise dallo Stato.

La Corte costituzionale ha dichiarato l’incostituzionalità della norma denunciata, così argomentando:

primo, i disabili non costituiscono un gruppo omogeneo, ma sono tante persone con tanti bisogni diversi. La

legge, stabilendo che tutti devono avere lo stesso numero di ore di sostegno, è irragionevole, e pertanto

incostituzionale.

Secondo: la nostra costituzione riconosce il diritto alla salute delle persone disabili, e numerose leggi, alcune

adottate in esecuzione di trattati internazionali, dicono chiaramente che la socializzazione scolastica è un

elemento fondamentale per la salute della persona disabile, principio che la stessa Corte costituzionale aveva

già affermato in altre sentenze. La legge nuova contraddice con la Costituzione e con tutte quelle che fino a

questo momento ne hanno inverato e sviluppato i contenuti. Anche per questo è irragionevole, e pertanto è

incostituzionale.

E’ una sentenza in cui opera piuttosto chiaramente la dinamica tra diritto e legge, e dove il ruolo del diritto è

giocato da: un modo di ragionare, di porsi rispetto ai problemi (che non deve essere arbitrario, falso, abusivo,

ma ragionevole) e un insieme di precetti e di regole consolidati nell’ordinamento e che rappresentano scelte

precise di valore in una direzione chiara (l’istruzione non è un servizio pubblico di cui lo stato decide prezzo e

quantità, ma un diritto fondamentale, per i disabili e per tutti).

Certo, anche la legge che è stata dichiarata incostituzionale portava un suo modo di ragionare: una concezione

calcolante, quantitativa (le ore di sostegno costano tot, e non si può spendere più di tanto) e aziendalista dei

servizi pubblici (non più risorse che la Repubblica offre per lo sviluppo della vita civile, ma costi che vanno

evitati).

E’ una concezione dove, sul bilancio dello Stato, il sostegno ai disabili va nelle uscite; mentre nella concezione

fatta propria dalla Costituzione, il sostegno ai disabili va nelle voci in attivo del bilancio della Repubblica, cioè

della convivenza sociale. In questa sentenza, il diritto difeso dalla Corte costituzionale, e a cospetto del quale è

stata giudicata la legge, è quello in cui trova espressione questo tipo di cultura (e non l’altra).

5. Trasformazioni della giurisdizione derivanti dalla presenza della Costituzione

La presenza della Costituzione e delle sue norme di principio, la presenza del giudizio di costituzionalità

ispirato dalla ‘ragionevolezza’ hanno inciso fortemente sul ruolo e le caratteristiche della magistratura

ordinaria in un modo assai più decisivo e importante che non le norme che, in Costituzione, delineano, della

magistratura, l’organizzazione e le funzioni.

Questo, per effetto di almeno tre grandi elementi, che abbiamo visto sin qui e che ora riassumiamo:

1) Il processo di costituzionalità, che può condurre all’annullamento di una legge per contrarietà a

Costituzione, nasce dai comuni processi civili e penali ( e amministrativi e di altre giurisdizioni). La

regola infatti è che quando un giudice, nel corso di un processo, dubita (di sua iniziativa o su istanza

di parte) della costituzionalità di una legge che è rilevante nel processo perché per risolverlo deve

applicarla, e questo dubbio ha un minimo di consistenza, il giudice non può né applicare né

disapplicare la legge ma deve rimettere la questione alla Corte. Il nostro giudizio di costituzionalità,

pur nascendo come ‘accentrato’, è diventato perciò in sostanza un sindacato diffuso: sono dunque i

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giudici i primi ‘sorveglianti’ della corrispondenza della legge a Costituzione, e si comprende che

questo ruolo abbia risvegliato in essi una attenzione critica al modo in cui le leggi sono formulate, ai

fini cui tendono, agli interessi che proteggono, che prima era ad essi vietata;

2) La Corte costituzionale, nella sua giurisprudenza, ha insegnato e raccomandato ai giudici la cd.

interpretazione costituzionalmente conforme: prima di sollevare una questione, i giudici

devono vedere se è possibile interpretare la legge in un modo che la metta in armonia con la

Costituzione; questo significa che la lettera della legge perde importanza al cospetto dello ‘spirito’

della Costituzione;

3) Nel giudicare le leggi, la Corte costituzionale ha adottato quel modo caratteristico di ragionare, di

impostare i problemi, che si chiama ragionevolezza, e di cui abbiamo visto un esempio nella

sentenza sulle ore di sostegno citata nel riquadro. L’incostituzionalità della legge spesso discende dal

fatto che essa dispone in modo irragionevole, vale a dire senza tenere in adeguata considerazione la

natura della cosa su cui dispone, o in modo contraddittorio, o sproporzionato, incongruo. Con il

canone della ragionevolezza, rivive l’idea che il diritto sia anche un modo di ragionare, di impostare i

problemi, innervato dalla capacità di tenere conto delle caratteristiche della questione su cui si

interviene, che ha le sue radici nella logica aristotelica del probabile e del ragionevole: non si può dire

se una legge è giusta o sbagliata, ma si può verificare se essa si rapporta in un modo congruo ai suoi

obiettivi. Il canone della ragionevolezza, utilizzato dalla Corte costituzionale, si è diffuso anche nei

modi di interpretare dei giudici ordinari.

La magistratura italiana si è fortemente interrogata intorno alle implicazioni che per il suo ruolo aveva

l’esistenza della Costituzione. Verso la fine degli anni ’60, iniziarono a sorgere numerose manifestazioni,

congressi, incontri di studio, pubblicazione di riviste e di libri, con i quali si prendeva coscienza del fatto che

in una democrazia costituzionale il ruolo del giudice non è più quello del meccanico esecutore della legge.

La riforma degli studi universitari nel 1968, che permise l’accesso alle facoltà di giurisprudenza dei diplomati

di tutte le scuole superiori (e non più solo di chi aveva il diploma classico), insieme all’apertura della carriera

alle donne (1963) provocò un cambiamento epocale nella composizione sociale della magistratura: sino ad

allora tutti esponenti delle classi ‘superiori’, i magistrati iniziarono a provenire da ogni classe sociale,

portando con sé diversità di esperienze, di valori e di punti di vista.

Il giudice tornava ad essere, e a sentirsi, parte della società, operatore immerso nella storia, nei conflitti, nei

contrasti di valutazione. Si dichiararono anche le diversità di culture e di preferenze tra i giudici, con la

nascita delle cd correnti, che sono raggruppamenti di magistrati all’interno dell’organismo, che li rappresenta

tutti, che si chiama Associazione nazionale magistrati. Magistratura Democratica raccolse, e raccoglie, i

magistrati che intesero fare proprio il messaggio costituzionale nella sua carica progressista. Altre correnti

rispecchiarono orientamenti più tradizionali. Si tratta di orientamenti circa il modo di fare il giudice, non di

schieramenti politici. Per i giudici progressisti era bene fare uso dell’interpretazione conforme, ricercare i

modi di interpretare le leggi alla luce della Costituzione. I giudici più tradizionalisti temevano che questo

rendesse il giudice troppo ‘creativo’.

Furono anni fondamentali di dibattito e di arricchimento, che non sono andati senza ombre e difficoltà. Le

correnti, nate come associazioni ideali e culturali, si sono piano piano trasformate anche in raggruppamenti

elettorali che, in occasione delle elezioni al CSM, cercano di mandare nel Consiglio i propri esponenti, col

rischio che le decisioni del Csm su carriere, avanzamenti e altro, rispecchino gli interessi dell’una o dell’altra

corrente. Ma sono oggi numerosissimi i magistrati che mentre conservano il valore culturale delle correnti, si

discostano da esse nei momenti elettorali.

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Il fatto che alcuni giudici, negli anni ’60 e ’70 specialmente, qualche volta facessero sentire fin troppo

chiaramente le loro preferenze ideologiche nelle loro decisioni, quando si trattava di difendere lavoratori e

sindacati contro i datori di lavoro, ha finito per creare nell’opinione pubblica l’idea che i magistrati non siano

neutrali, anche perché quegli episodi sono stati spesso ingigantiti ad arte. Il fatto che il Pubblico Ministero,

obbligato a esercitare l’azione penale, spesso non possa non esercitarla contro i politici, locali e nazionali,

causa le prassi spesso scorrette che caratterizzano la gestione della cosa pubblica, ha creato un clima di

sospetto, qualche volta legato anche al fatto che vi sono stati magistrati che hanno lasciato la toga per entrare

in politica, o che vanno troppo spesso in televisione.

Sotto l’infuriare delle polemiche strumentali, non si ricordano né i moltissimi casi in cui la magistratura ha

dato prova di grande equilibrio, contribuendo al consolidamento e allo sviluppo dei valori della convivenza

democratica, e tanto meno quelli in cui essa, ben lungi dall’esprimere contenuti progressisti, si è atteggiata in

modo conservatore, come fu il caso, per fare un esempio, di una in fondo non così remota sentenza emessa

nel 1982 dalla Corte di Cassazione, che ritenne corretto mandare assolto, per avere agito per motivi di

particolare valore morale, un ragazzo che aveva provocato la morte della sorella poiché questa, per sfuggire

alle botte, era scivolata nel bagno e aveva battuto la testa nel bidet, e i motivi di particolare valore erano che il

fratello non voleva che la sorella uscisse la sera per andare a trovare una sua amica: esempio

malinconicissimo che ricordo per dire che il problema non è che ‘i giudici’ sono di sinistra o di destra, il

problema è sempre la loro educazione a esercitare la propria funzione in un modo prudente e moderato. Il

problema è la loro autonomia di giudizio: un giudice sbaglia sempre quando confonde il proprio dovere con

quello di ‘dare voce’ a un uno o a un altro interesse con cui si senta in sintonia, nobile o meno nobile che esso

sia. E questa è una cosa che non si apprende per magia, e nemmeno sui manuali: all’esercizio responsabile

dei suoi doveri/poteri la giurisdizione può essere richiamata da solo una società a sua volta abituata a

comportamenti responsabili, a giudizi moderati, al rispetto degli altri e di sé, abbastanza educata da sapersi

immaginare la complessità e la delicatezza del giudicare, e dunque capace di discutere dei problemi della

giustizia e di appassionarsi ad essi come problemi reali, importanti, interessanti, come problemi di tutti, e

non di ridurli alle colpe, difetti, mancanze o idiosincrasie, o al contrario agli eroismi dei ‘tipi umani’ che fanno

i magistrati. Al suo dovere di autonomia di giudizio la giurisdizione può essere richiamata anche da una

conoscenza profonda della sua propria storia, delle diverse manifestazioni che essa ha avuto nel corso del

tempo e nel mutare delle situazioni.

Una parte delle problematiche che investono oggi la magistratura in Italia discende anche dal disegno

costituzionale, dal fatto che il Costituente, quando si trattò di disegnare la magistratura, memore dei troppi

condizionamenti che essa aveva subito in passato dal Governo, si preoccupò molto della indipendenza del

corpo e dei singoli magistrati, e vide anche nella selezione per concorso una garanzia di questo. E’ vero che la

Costituzione, quando associa l’idea di ‘giustizia’ alla ’giurisdizione’ (“la giustizia è amministrata in nome del

popolo”: art. 101) si apre verso un superamento della dimensione puramente burocratica della magistratura,

ma questa è quella che prevale e, di fatto, la società può trovare difficoltà ad accettare che un semplice

‘burocrate della legge’, perché i magistrati restano funzionari selezionati per concorso, possa prendere

decisioni influenti e caratterizzanti su momenti sensibili della vita pubblica.

La Costituzione riconobbe l’autonomia della magistratura, ma la concepì come fatto organizzativo,

consistente nell’esistenza di un organo che ‘amministra’ la magistratura indipendentemente dall’esecutivo (il

CSM); mentre il nostro tempo sta rimettendo al centro l’autonomia della giurisdizione come attività di

giudizio che non ricava solo dalla legge statale i suoi criteri di giudizio. Dopo due secoli di nazionalizzazione e

codificazione del diritto, che ci hanno abituati all’idea del giudice-funzionario, si fa fatica a misurarsi con

questo fenomeno, in cui pure si racchiudono tra le più importanti e rilevanti caratteristiche del diritto

pubblico contemporaneo.

6.L’autonomia di giudizio del giudice, un problema cruciale delle democrazie contemporanee

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Di certo, i problemi e le sfide legate all’assetto della giurisdizione oggi non possono essere risolti col ritorno al

passato, al giudice ‘bocca della legge’ che piaceva a Vittorio Emanuele Orlando. Non solo nel nostro Paese, la

sensazione diffusa è che la giurisdizione sia ormai divenuta altra cosa rispetto al modello su cui la aveva

stampata lo stato, cioè quella di una funzione pubblica che applica la legge. Molti ormai riconoscono che

quella concezione, che aveva la sua ragion d’essere nel pretendere di poter separare la giurisdizione dallo

sviluppo del diritto, riservando quest’ultima alle decisioni degli organi politici, alla legge, non corrisponde più

all’assetto della giurisdizione del Terzo Millennio.

Oltre al ruolo delle Costituzioni, tra gli elementi che rendono sempre più difficile considerare la giurisdizione

solo una funzione pubblica chiamata all’applicazione del diritto statale, va anche ricordato il contesto di

crescente internazionalizzazione, in cui viviamo, segnalata dalla vigenza nel nostro ordinamento di fonti del

diritto non statuali, e dall’operare di due Corti sopranazionali (la Corte di giustizia delle Comunità europee e

la Corte europea dei diritti dell’uomo), che dialogano coi giudici nazionali, influendo sul loro modo di

ragionare.

Trovandosi al centro di un insieme di nessi che rinviano oltre la legge statale (la Costituzione, il diritto

sovranazionale) la giurisdizione, così, sta tornando ad essere, nel nostro come in tanti altri Paesi, un soggetto

attivo nella ricerca e nella individuazione del diritto applicabile a un caso, come era stato nell’epoca del

diritto comune; non più lo strumento che esegue passivamente e senza discussione la volontà del sovrano

legislatore ma l’ambito nel quale esigenze di libertà, interessi emergenti e conflitti di valutazione trovano la

possibilità di emergere e di contribuire al cambiamento delle regole della convivenza.

Se il giudice contemporaneo non trova più nella legge un mondo conchiuso e autosufficiente, il riferimento

totalizzante dei suoi giudizi e dei suoi criteri di ragionamento, questo significa che sempre più urgente si fa il

problema di consolidare altri criteri, altri riferimenti, dotati di oggettività e condivisione. Se non è più

possibile accontentarsi della ‘soggezione alla legge’ per istituire la neutralità e imparzialità del giudice così

necessarie alla giustizia, occorrono altri criteri che riempiano di contenuto l’indipendenza del magistrato.

Perciò oggi si sottolinea sempre più spesso che il ruolo del giudice richiede consapevolezza, cultura,

moderazione, prudenza; un uso della ragione aperto alle ponderazioni e alle valutazioni, al tempo stesso

disciplinato e rigoroso, di cui si torna a cercare il modello nelle tecniche argomentative della ragione

dialettica: se il giudice è sempre più il controllore del potere, il garante dei diritti, deve saper esibire valori e

modi di ragionamento differenziati, propri, e convincenti. Non sono pochi coloro che, nel dibattito

contemporaneo, tornano a mettere al centro, tra le buone qualità richieste a un magistrato, e alla persona che

esercita funzioni pubbliche in generale, doti etiche di correttezza moralità ed equilibrio, che erano sempre

state al centro della riflessione svolta intorno ai giuristi nell’epoca romana e del diritto comune, e che solo le

illusioni dello stato legicentrico ottocentesco circa la possibilità che il giudice esaurisse il suo compito nell’

“eseguire la legge” avevano permesso di mettere da parte.

“In definitiva, i singoli consociati, da una parte, i poteri, dall’altra, tutti devono cooperare – ciascuno per la

propria parte – alla vita della Comunità. Quando le parti si scontrano, quando gli ambiti delle rispettive

competenze si incrociano, si ostacolano, si urtano, occorre un potere che rimetta ognuno al suo posto. Questo

potere non può situarsi nella sfera di un particolare potere, perché se ne servirebbe per prevalere sugli altri.

Occorre che esso sia potere terzo, sganciato dallo Stato diffuso e di natura professionale: non gestisce interessi,

non persegue fini propri, come l’amministrazione, è indifferente rispetto agli scopi delle parti, è insensibile

rispetto alle finalità perseguite da ogni altro potere. Cruciale, in questo disegno, è la professionalità del giudice,

da intendersi come autonomia di giudizio, fondata su regole e tecniche che costituiscono un patrimonio comune,

una parte importante della tradizione culturale della Comunità, ma nello stesso tempo la professionalità

rappresenta anche un importante meccanismo di controllo dell’attività giurisdizionale da parte dei consociati, e,

quindi, un fondamentale anello di congiunzione tra giudice e Comunità. Evitando la ricorrente tentazione di

costruire, un modello elitario di giudice, portatore di una cultura giuridica chiusa, senza dialogo con le

istituzioni e la dottrina. Ne deriverebbe il grave danno di interrompere ogni forma di comunicazione tra il

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Istituzioni di Diritto Pubblico AO 2013-1014- Prof.ssa Silvia Niccolai

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giudice e la Comunità, e, in definitiva, la delegittimazione del giudice”. (N. Picardi, La giurisdizione all’alba del

Terzo Millennio, Giuffré, Milano, 2007, p. 194).