La Giugno 1967, la guerra-lampo di Israeledownload.repubblica.it/pdf/domenica/2007/27052007.pdftanto...

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cultura Il judo di Klein, l’arte della flessibilità RENATA PISU il reportage Giugno 1967, la guerra-lampo di Israele SANDRO VIOLA l’immagine L’uomo che smise di fotografare ADRIANO SOFRI e AMBRA SOMASCHINI la lettura Le stanze dell’amore e degli specchi JONATHAN SAFRAN FOER spettacoli Violoncello, musica in corpo di donna LEONETTA BENTIVOGLIO e MSTISLAV ROSTROPOVIC le tendenze Futuro creativo per l’ufficio del travet AURELIO MAGISTÀ e MICHELE SERRA GIAMPAOLO VISETTI I l grande dibattito sul futuro dei monumenti all’Armata rossa, in corso dall’Estonia ai Balcani, lo conferma: l’Eu- ropa postcomunista non riesce ancora a uscire dalla sua resa dei conti con la Storia. E c’è una tentazione enorme di utilizzare le sensibilità psicologiche formate dalla Sto- ria per scopi politici. In una vita politica segnata dalla tentazione del populismo la Storia fornisce sempre buone ra- gioni, o piuttosto buoni pretesti, per mobilitare l’immaginario collettivo. Dal momento storico del 1989, la svolta senza violenza, la di- struzione di monumenti simbolici dell’èra comunista ha anche avuto il suo ruolo politico. A Varsavia il caso fu la piazza che pri- ma della Seconda guerra mondiale si chiamava piazza della Ban- ca. E poi fu intitolata a Feliks Dzerzhinskij, fondatore della Ceka, precursore del Kgb. La distruzione del monumento a Dzerzhin- skij fu un momento di liberazione. Anche per la psicologia col- lettiva: liberazione da un’epoca della Storia. Questo problema si è poi posto in modo diverso in altri paesi. Per le Repubbliche Baltiche l’Armata sovietica fu lo strumento dell’annessione di paesi sovrani all’Urss, e poi il guardiano. Per l’Ungheria fu la forza che distrusse lo Stato ungherese alleato della Germania nazista, poi schiacciò la rivoluzione del 1956. Il caso della Polonia è diverso. La Polonia fu liberata dall’Ar- mata sovietica, ma insieme alle forze armate polacche. (segue nelle pagine successive) BRONISLAW GEREMEK Statue DOMENICA 27 MAGGIO 2007 D omenica La di Repubblica FOTO © ABBAS /MAGNUM PHOTOS Dal Baltico ai Balcani cadono gli ultimi simboli del dominio sovietico Viaggio nella guerra dei monumenti VARSAVIA U na sola stella rossa ancora brilla sulla lunga notte della Polonia: quella della birra Heineken. L’Urss, però, sem- bra andare di gran moda. Gastronomie e ristoranti scoppiano di caviale, vodka, blinì, borsch e spezzatino alla Strogonov. I venditori ambulanti fanno affari d’oro con le medaglie e le onorificenze del Pcus, con le matrioske-Stalin e grazie ai colbacchi di pelliccia, purché marchiati in fronte con falce e martello. I cremlini made in China, ricoperti di paillettes, sono il pezzo forte delle vetrine di souvenir. Altro che secolare russofobia polacca: più che lungo il Krakowskie przedmiescie di Varsavia, sembra di bighellonare per il vec- chio Arbat di Mosca. Ma non è per il kitsch di questa folcloristica pac- cottiglia slava, che i gemelli Kaczynski vedono sovietici e comunisti dappertutto. Il nemico di presidente e premier, oggi, sono i monumen- ti ai caduti dell’Armata rossa, i cimiteri militari della Seconda guerra mondiale, i nomi delle vie dedicate a funzionari o collaboratori del re- gime. A diciassette anni dal crollo del Muro di Berlino, il potere dei so- sia ha deciso di chiudere i conti con la Storia: fondare la “Quarta repub- blica” impone «lustracja» e «decomunistizzazione». A stoppare l’ennesima autodenuncia di massa, intimata ai settecen- tomila che potrebbero essere indistintamente intrappolati nei vecchi elenchi dei servizi segreti, ci ha pensato la Corte costituzionale. Ai sim- boli provvederà invece la maggioranza di destra. (segue nelle pagine successive) Repubblica Nazionale

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cultura

Il judo di Klein, l’arte della flessibilitàRENATA PISU

il reportage

Giugno 1967, la guerra-lampo di IsraeleSANDRO VIOLA

l’immagine

L’uomo che smise di fotografareADRIANO SOFRI e AMBRA SOMASCHINI

la lettura

Le stanze dell’amore e degli specchiJONATHAN SAFRAN FOER

spettacoli

Violoncello, musica in corpo di donnaLEONETTA BENTIVOGLIO e MSTISLAV ROSTROPOVIC

le tendenze

Futuro creativo per l’ufficio del travet AURELIO MAGISTÀ e MICHELE SERRA

GIAMPAOLO VISETTI

Il grande dibattito sul futuro dei monumenti all’Armatarossa, in corso dall’Estonia ai Balcani, lo conferma: l’Eu-ropa postcomunista non riesce ancora a uscire dalla suaresa dei conti con la Storia. E c’è una tentazione enormedi utilizzare le sensibilità psicologiche formate dalla Sto-ria per scopi politici. In una vita politica segnata dalla

tentazione del populismo la Storia fornisce sempre buone ra-gioni, o piuttosto buoni pretesti, per mobilitare l’immaginariocollettivo.

Dal momento storico del 1989, la svolta senza violenza, la di-struzione di monumenti simbolici dell’èra comunista ha ancheavuto il suo ruolo politico. A Varsavia il caso fu la piazza che pri-ma della Seconda guerra mondiale si chiamava piazza della Ban-ca. E poi fu intitolata a Feliks Dzerzhinskij, fondatore della Ceka,precursore del Kgb. La distruzione del monumento a Dzerzhin-skij fu un momento di liberazione. Anche per la psicologia col-lettiva: liberazione da un’epoca della Storia.

Questo problema si è poi posto in modo diverso in altri paesi.Per le Repubbliche Baltiche l’Armata sovietica fu lo strumentodell’annessione di paesi sovrani all’Urss, e poi il guardiano. Perl’Ungheria fu la forza che distrusse lo Stato ungherese alleatodella Germania nazista, poi schiacciò la rivoluzione del 1956.

Il caso della Polonia è diverso. La Polonia fu liberata dall’Ar-mata sovietica, ma insieme alle forze armate polacche.

(segue nelle pagine successive)

BRONISLAW GEREMEK

Statue

DOMENICA 27 MAGGIO 2007

DomenicaLa

di Repubblica

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Dal Baltico ai Balcanicadono gli ultimi simbolidel dominio sovieticoViaggio nella guerradei monumenti

VARSAVIA

Una sola stella rossa ancora brilla sulla lunga notte dellaPolonia: quella della birra Heineken. L’Urss, però, sem-bra andare di gran moda. Gastronomie e ristorantiscoppiano di caviale, vodka, blinì, borsch e spezzatino

alla Strogonov. I venditori ambulanti fanno affari d’oro con le medagliee le onorificenze del Pcus, con le matrioske-Stalin e grazie ai colbacchidi pelliccia, purché marchiati in fronte con falce e martello. I cremlinimade in China, ricoperti di paillettes, sono il pezzo forte delle vetrine disouvenir. Altro che secolare russofobia polacca: più che lungo ilKrakowskie przedmiescie di Varsavia, sembra di bighellonare per il vec-chio Arbat di Mosca. Ma non è per il kitsch di questa folcloristica pac-cottiglia slava, che i gemelli Kaczynski vedono sovietici e comunistidappertutto. Il nemico di presidente e premier, oggi, sono i monumen-ti ai caduti dell’Armata rossa, i cimiteri militari della Seconda guerramondiale, i nomi delle vie dedicate a funzionari o collaboratori del re-gime. A diciassette anni dal crollo del Muro di Berlino, il potere dei so-sia ha deciso di chiudere i conti con la Storia: fondare la “Quarta repub-blica” impone «lustracja» e «decomunistizzazione».

A stoppare l’ennesima autodenuncia di massa, intimata ai settecen-tomila che potrebbero essere indistintamente intrappolati nei vecchielenchi dei servizi segreti, ci ha pensato la Corte costituzionale. Ai sim-boli provvederà invece la maggioranza di destra.

(segue nelle pagine successive)

Repubblica Nazionale

(segue dalla copertina)

Due leggi chiedono al Par-lamento il via a rimozioni,eliminazioni e sostituzio-ni. Dopo l’Estonia, anchela Polonia scoperchia ilvaso nero del passato per

sfidare la Russia di Putin, o per toglierel’onore ai compatrioti che hanno getta-to la giovinezza contro l’ultimo imperodell’Europa. Assieme a Gomulka e al ge-nerale Jaruzelski, nel tritacarne politicodell’Istituto della memoria nazionale fi-niscono Walesa e Mazowiecki, Michnike Geremek, Kapuscinski e la Szymbor-ska, o i cardinali di Wojtyla. La colpa?Non aver trascinato la nazione nellaguerra civile. Il problema è che, dopo il1989, solo la memoria delle vittime è ri-masta dell’Urss. I marmi di Lenin e diMarx, le gigantesche statue del realismosocialista, languono nello sperduto pa-lazzo Radziwill, a Kozluwka, oltre Lubli-no. Gli unici due bronzi di Stalin, o quel-li di Dzierzynski e di Koniew, sono anda-ti distrutti: ufficialmente perché cavi. Ilpiccolo museo Lenin, a Varsavia, è chiu-so dal 1991. Tonnellate di soli nascenti,stelle, falci, martelli, manifesti di propa-ganda e orgogliosi operai in calcestruz-zo giacciono nascosti in fabbriche e mi-niere dismesse della Slesia. Vagando traCracovia e Danzica sembra che non siarimasto alcun simbolo da distruggere,per superare la paura di una dittaturasconfitta. Una morbosa inquisizioneanticomunista e antisovietica, promos-sa con metodi comunisti e sovietici, lot-ta invece per riesumare gli spettri dell’i-deologia e del regime.

Cosa succede al popolo coraggiosoche il mondo ammira per l’insurrezionenel ghetto di Varsavia, o che ringraziaper la lezione di Solidarnosc, per l’ulti-ma spallata all’Urss, o per la rivoluzionedi Giovanni Paolo II? Annega davvero, ilsuo tragico Novecento, nell’ossessionefreudiana di due gemelli decisi ad auto-proclamarsi postumi eroi unici dell’in-dipendenza? «Europa e Russia», dice ilpolitologo Bartolomiey Sinkiewicz, «li-mitano l’analisi alla lotta per il potere in-terno, combattuta con dossier e com-plotti da Kgb. I sedicenti democraticituonano contro la paranoia della me-moria e invocano l’oblìo. Ad est si com-pie invece un processo molto piùprofondo. I popoli soggiogati dall’Unio-ne sovietica consumano il distacco defi-nitivo da Mosca. Misurano lo spazio del-la conquistata sovranità nazionale ri-correndo a gesti simbolici laceranti eforse pure ingiusti. Il dramma è che sologli Stati Uniti, ancora una volta, sonoprotagonisti di questo passaggio».

Da Tallin a Varsavia, da Budapest aKiev e a Tbilisi, la guerra delle statue in-tanto dilaga e si raffina. Sovietico, qui, èsinonimo di socialismo. Abbattuti daquasi vent’anni i suoi simboli politici, dacancellare non rimangono che mito edideali. Per questo è l’ora dei monumentiall’Armata rossa e dei cimiteri di guerra.

«Nell’incubo energetico», dice l’exambasciatore polacco a Mosca, Stani-slaw Ciosek, «per non irritare il Cremli-no l’Occidente finge di ignorare che, nel-l’Europa centro-orientale, il 1945 non èsolo l’anno della liberazione dalla Ger-mania nazista. Segna l’occupazione del-l’Unione Sovietica di Stalin». Un’equa-zione sottile, nell’anticipata campagnaelettorale dei Kaczynski, che squassa leviscere dello scontento popolare: chinon combatte la Russia, assolvel’Urss; chi accetta il ricordo delle vit-time sovietiche, riabilita i carneficidella patria.

«L’obiettivo strategico», diceJerczy Pomianowski, direttore dellarivista Nowaja Polsza, «è esterno:sancire un nuovo assetto geopoliti-co. L’ex Patto di Varsavia è nel mer-cato Ue, ma sta con gli Usa nella se-conda guerra fredda. Il fine tattico è in-vece interno: schiacciare la sinistra po-lacca sull’impresentabile eredità post-comunista, dipingerla quale complicedel Cremlino, fino a farla naufragare sul-la pietà verso la Seconda guerra mondia-le». Putin celebra il 60 della “guerra pa-triottica” spiegando all’Europa che nonpuò prescindere dalla leadership di unasuperpotenza militare? Bene: i Kaczyn-ski rimuovono i monumenti all’Armatarossa. Putin archivia il crimine di Katyn,dove gli ufficiali sovietici fucilarono 22mila soldati polacchi e ne deportarono inSiberia 200 mila? Bene: i Kaczynski mi-nacciano di smantellare i cimiteri dei 600mila soldati sovietici morti in Polonia.

no è: «Saresti contento di abitare in viaHitler?». In realtà nessun toponimo ri-corda più nemmeno Marx, per non par-lare di Stalin, Lenin, Krusciov, oDzierzynski. Otto strade, in Polonia, re-stano dedicate all’Armata rossa. Ma nelmirino ci sono Stephan Okrzeya, rivolu-zionario del 1905, Ludwik Warynski,fondatore del Partito proletario nel1880, Karol Swierczewski, generale del-la Seconda armata polacca nella guerradi Spagna, Wladislaw Broniewski, poetarivoluzionario che celebrò Stalin primadi finire in un gulag. Per vergogna, o perburocratica pigrizia, la gente non vuolecambiare. E sommerge di lettere i gior-nali per due casi limite. La revoca dellamisera pensione agli ultimi tre reduci,ultranovantenni, della guerra di Spa-gna. L’abbattimento dell’organo di Wla-dislaw Hasior, sulla vetta del monte Be-skidy, che suona con il vento «per la glo-ria dei compagni sovietici».

«Alla sinistra europea», dice il capo-gruppo del Pis, Kuchcinski, «piace demo-nizzare la nostra voglia di verità. Però nonspiega a chi sono dedicati alcuni monu-menti che vogliamo rimuovere. Gli “eroi-ci funzionari dell’Ufficio di sicurezza mor-ti nella lotta contro le bande fasciste”, co-me recitano le iscrizioni, sono gli agenti se-greti sovietici che uccisero i partigiani po-lacchi insorti per l’indipendenza, primacontro i nazisti, poi contro i comunisti».

In un Paese apatico e spaventato, vero efalso si confondono in una grigia impreve-dibilità. Cosa accadrà quando inizierannoa cadere i monumenti all’Armata rossa?C’è qualcuno disposto a morire, tra i 45 mi-la russi che vivono in Polonia, per difende-

re la memoria dell’Urss? «La maggioran-za», dice l’analista filo-russo Piotr Mitzner,«odia l’Unione Sovietica. Distinguiamoperò Stalin dai giovani a cui fu ordinato diandare in guerra. Basterebbe aggiungereai monumenti iscrizioni che chiariscanocontesto e realtà storica. Se al Cremlinonon regnasse Putin, se la Polonia non fos-se vittima della sindrome Kaczynski, ba-sterebbe una targa da Mosca: “Perdono”.Firmato: “I russi”. Invece i monumenti sa-ranno abbattuti e la Russia, per la primavolta, ritirerà l’ambasciatore da uno Statodella Ue».

Perché il problema è questo violentocambio del vento. Nel 1990, a Cracovia, furimosso dai bastioni il grande monumentoall’Armata rossa, che aveva liberato Au-schwitz. Nessuno fiatò. Putin invece, aSamara, ha appena spiegato che «larussofobia di queste nuove nazionidell’Est» ostacola il dialogo conti-nentale con Mosca. L’8 giugno poi, aVarsavia atterrerà Bush, reduce daPraga. L’attesa mediatica ricorda lafebbre per l’arrivo di un sovrano. Ne-gli ultimi trent’anni le relazioniCremlino-Casa Bianca non sonomai state tanto tese, l’Europa tan-to fragile. Polonia, Repubblicaceca e Paesi baltici sono inuovi, euroscettici avam-posti orientali degli Usa nel-l’Unione europea. «Dietro lu-stracja, guerra di nomi emonumenti», dice l’expresidente AleksandrKwasniewski, «Var-savia e Bruxelles sigiocano il ruolo nei

28 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 27MAGGIO 2007

la copertinaSimboli cancellati

Monumenti all’Armata rossa, ossari di soldati sovietici,perfino le pensioni degli ultimi tre reduci della Guerradi Spagna. Sotto i colpi della Polonia dei gemelli Kaczynskistanno cadendo a Varsavia le ultime memorie dell’UrssUn processo doloroso e controverso che si alimentadella seconda guerra fredda scoppiata tra Putin e Bush

GIAMPAOLO VISETTI

La battaglia delle statuePutin fa pagare il sostegno di Varsavia al-le “rivoluzioni a colori” in Georgia,Ucraina e Bielorussia, deviando sullamalleabile Germania i tubi dell’energia ebloccando l’importazione della carne?Bene: i Kaczynski offrono a Bush una ba-se anti-missile per il loro scudo spaziale.Neo-imperialismo contro neo-naziona-lismo. «Il difficile», dice l’ex ministro de-gli Esteri Stephan Meller, «è stato trovar-ne ancora, di simboli comunisti da ab-battere in faccia al Cremlino».

I polacchi nemmeno ci pensavano, dipoter essere contaminati da qualche«residua scoria sovietica». «Invece», di-ce il ministro alla Cultura, KazimierzUjazdowski, «ci teniamo il Palazzo dellascienza eretto da Stalin a Varsavia, 26 sa-crari militari, 23 monumenti all’Armatarossa, 28 statue socialiste, 8 fregi prole-tari e 15 strade intitolate ai comunisti».Ciò che aveva valore artistico è finito nelMuseo del socialismo a Kozluwka. Ilgrattacielo staliniano, dopo 17 anni dipolemiche, da due mesi è sotto la tuteladei beni architettonici. Il resto sono cip-pi affondati in campi e villaggi, qualcheobelisco e una manciata di lapidi in ce-mento armato.

Due piatti forti, però, a Varsavia resta-no: il monumento all’Armata rossa inpiazza Wilenski, nel quartiere Praga; l’os-sario sovietico di Ochota, nel parco Pola-Mokotowski. Per la gente della capitale, ilprimo è semplicemente il “monumentoai quattro dormienti”. Immobili soldatipolacchi, con il capo reclinato, veglianoai piedi di vigorosi combattenti sovietici.L’iscrizione dice: «Gloria agli eroi dell’Ar-mata sovietica, che hanno dato la vita perla libertà e l’indipendenza della Polonia.Questo monumento fu eretto dai cittadi-ni di Varsavia». «Una menzogna», dice illeader della destra Marek Kuchcinski.«L’opera fu imposta da Stalin e l’Armatarossa non combatté per la nostra indi-pendenza. Proprio oltre la Vistola, nel1944, attese che i tedeschi sterminasseroi 200 mila insorti della capitale».

Nel cimitero di Ochota giaccono inve-ce i corpi di 21.468 ragazzi dell’Urss,quasi tutti sepolti in fosse comuni. La gi-gantesca colonna di granito ricorda «isoldati sovietici caduti per liberare la Po-lonia dall’occupazione tedesca negli an-ni 1944 e 1945». Qualcuno, con la verni-ce nera, nella notte ha oscenamente ag-giunto: «Fagiani impallinati». Solo l’o-belisco è nel mirino del governo. «È co-me se sul Piave italiano», dicono all’Isti-tuto per gli studi dell’Europa orientale,«un monumento eretto da Vienna cele-brasse i soldati austriaci, o se nel centrodi Parigi si onorasse il regime di Vichy».Entro l’anno, prevede il presidente delConsiglio per i luoghi della memoria,Andrzej Przewoznik, la demolizione dei“quattro dormienti” e della stele diOchota sarà così eseguita. Le spoglie deisoldati sovietici sparse nei 26 ossari sa-ranno raccolte in 3 cimiteri. Al resto do-vranno pensare prefetti e autorità locali.«Ma se qualche comune rifiuterà l’ab-battimento», dice lo storico Jerczy Red-lich, «potrà intervenire lo Stato».

Nello stesso tempo saranno cambiatii nomi delle strade. Lo slogan del gover-

23i monumenti

polacchiall’Armata rossa

minacciatidi rimozione

prossimi equilibri globali. Il dramma è chei Kaczynski, per blandire un quarto dei vec-chi elettori esclusi dalla crescita, indicanoin un riscritto passato sovietico il colpevoledella frustrazione. E vendono il Paese alloscontro tra Russia e Usa».

La tendenza a creare capri espiatori ead abbattere simboli è un espedientedella società per sopravvivere alla disin-tegrazione. «Ma la Polonia», dice l’ex mi-nistro degli Esteri Wladyslaw Cimo-szewicz, «è stanca di ridere tra le lacri-me». Come giovedì sera. La tivù ha mo-strato l’attempata fidanzata del premier.Deputata della destra, ha dichiarato chesogna Jaroslaw Kaczynski anche a occhiaperti. Nell’osteria sulla piazza del mer-

cato vecchio, russi e po-lacchi hanno rovescia-

to le birre. Insieme.

Un caso limitesta nell’annuncioche verràabbattutoil singolareorganodi WladislawHasior,strumentoche suonacol ventosulla vettadel Beskidy“per la gloriadei compagnisovietici”

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Repubblica Nazionale

(segue dalla copertina)

Troppo spesso l’Europa occidentale dimentica chei combattenti polacchi contro l’Asse — i soldati alfronte con gli angloamericani agli ordini del ge-

nerale Anders, ma anche le unità polacche dell’Armatarossa, i partigiani dei due campi, liberalconservatori ecomunisti — furono più numerosi dei combattenti del-la libertà francesi agli ordini di de Gaulle. Dall’Africa aMontecassino, dalle squadriglie polacche della RoyalAir Force ai reggimenti di piloti, ufficiali e soldati polac-chi nell’Aviazione sovietica e nell’Armata rossa, quellapolacca fu una delle partecipazioni più grandi alla lottaantinazista. C’erano anche molti polacchi nell’Armatarossa ricordata dai monumenti su cui oggi si discute.

Non si può dimenticare che la Polonia deve stima e ri-spetto ai cimiteri dei soldati sovietici caduti in terra po-lacca combattendo contro i nazisti. Il caso dei monu-menti all’Armata sovietica dell’Estonia è diverso: è sta-to anche un piano di destabilizzazione russo, pur fon-dato in parte sui problemi delle forti minoranze russe.In Polonia sentimenti antirussi vengono sfruttati peruna mobilitazione politica. In Parlamento si parla di re-visionismo storico. Si arriva a situazioni indegne. Vo-gliono cambiare il nome della strada intitolata a LudwikWarynski, fondatore del primo partito socialista polac-co, eroe nella lotta per l’indipendenza dei polacchi con-tro l’occupazione zarista. Solo perché divenne, postu-mo, un tema della propaganda del partito comunistapolacco, a Varsavia volevano togliere il nome di questoeroe nazionale a piazze e strade.

Io spero che gli sviluppi di questi giorni, la conver-genza di molte forze democratiche, ferme-ranno questo processo. Ma se c’è unacampagna condotta a livello centraledallo Stato, diventa un problema inter-nazionale. Con la Russia e con altripaesi. Non abbiamo bisogno di una si-mile lotta con l’obiettivo sbagliato.

Definire una filosofia generale èauspicabile solo senza voler suscitarel’odio, senza cercare regolamenti diconti, senza far male al prossimo. Il ri-spetto e la memoria dei morti è parte diqueste esigenze. Ma bisogna com-prendere che nelle RepubblicheBaltiche è diverso. In India nonc’è culto di monumenti checelebrino l’epoca colonialebritannica.

Il revisionismo storicotenta l’Europa del Centro-Est, dopo essere nato in Eu-

ropa occidentale con il tardivo dibattito sulla collabo-razione francese con l’occupante nazista, e con lo Hi-storikerstreit suscitato da Ernst Nolte in Germania. Il re-visionismo storico inquieta.

Dalla Germania guidata da Angela Merkel, pure, ci ar-rivano importanti segnali di rassicurazione: comeguardare al passato pensando al futuro europeo. Eropresente quando la Cancelliera ha commemorato unodei massimi eroi della Resistenza antinazista tedesca,Helmut von Moltke. Angela Merkel ha evocato allora isuoi sentimenti di tedesca dell’est, e io parlavo dei mieisentimenti di polacco verso quegli eroi della nazione te-desca contro Hitler.

Così dovremmo cercare una memoria comune del-l’Europa, perché le esperienze si incontrino. Non dob-biamo utilizzare la Storia come strumento di ricerca diconflitti. I ricordi possono essere dolorosi, ma la veritàpuò riavvicinare. L’alternativa è utilizzare la Storia perdistruggere le riconciliazioni e creare odio in nome dimire politiche a corto raggio. Giocare col fuoco dellamemoria storica rischia di avere pesanti conseguenzesulle giovani generazioni. Dobbiamo dare loro l’idea diun’Europa che cerca di riconciliarsi e sa preservare lamemoria. Per non dimenticare. Né oblio né odio susci-tato dal ricordo.

La Russia, in questo senso, ha diritto al rispetto per ilsuo contributo alla Seconda guerra mondiale. Per mi-lioni di famiglie russe sono ferite ancora aperte. Ma nondobbiamo permettere alla Russia di utilizzare questisentimenti per mobilitare l’opinione pubblica interna-zionale contro piccoli paesi come l’Estonia. L’Unioneeuropea deve trovare una posizione comune. La Ue èuna voce autorevole, proprio perché esige da ogni suo

nuovo membro l’adesione a severi valori costi-tutivi dei diritti umani.

L’Europa dovrebbe ricordarsi di esserefondata sulla riconciliazione di popoli che

furono nemici. Non dobbiamo risuscita-re i conflitti, ma preservare la via della ri-

conciliazione. Dobbiamo fare in mo-do che lo scontro sui monumentinon diventi veicolo di una cam-

pagna politica, ma sia invece re-golato con calma. Lasciamo de-

cidere alle autorità comunali elocali. E cerchiamo di capire

che nelle Repubbliche Balti-che vogliono distruggere i

segni del regime di occu-pazione.

(testo raccoltoda Andrea

Tarquini)

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 29DOMENICA 27MAGGIO 2007

Ma l’Europa si fondasui popoli riconciliati

POLONIA 2007Busti conservati nel Museodel socialismo a Kozluwka

GIOCHIBambinisu una statuaabbattutadi Stalinin un parcodi Mosca

BRONISLAW GEREMEK

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ROMANIA 1995Una statua di Lenin abbattuta

di notte vicino a Bucarest

LITUANIA 1991Un monumento di Lenin viene

caricato su un camion a Vilnius

RUSSIA 1991Il particolare di una statua

di Stalin tirata giù dal piedistallo

POLONIA 2007Varsavia, un dettagliodel monumento all’Armata rossa

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Repubblica Nazionale

La guerra-lampoche Israele vinsee non seppe finireSANDRO VIOLA

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Il 5 giugno di quarant’anni fa, alle 7,15 del mattino,dopo settimane di minacciosi preparativi bellicida parte dell’Egitto e degli altri vicini Paesi arabi,i generali israeliani sferrarono per primi l’attaccoIn sei giorni trionfarono su tutti i fronti. Quel successonon fu la premessa per giungere a un accordo di pace

Svolte storicheIl reportage30 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 27MAGGIO 2007

Repubblica Nazionale

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 31DOMENICA 27MAGGIO 2007

GERUSALEMME

La mattina del 5 giugno 1967, ancora in pi-giama, guardavo da un balcone dell’Hil-ton il fluire del Nilo, il lento passaggio diqualche feluca, e all’orizzonte le Piramidi.

Dovevano essere più o meno le nove. Ero giunto al Cai-ro la sera prima, via Cipro, da Israele, sapendo che laguerra poi detta dei Sei giorni era ormai imminente.Ma non sapevo che fosse già iniziata e perciò indugia-vo ad ammirare la magnifica vista che si coglieva allo-ra (oggi non più, a causa d’una plumbea, lugubre mu-raglia di grattacieli sorta sull’altra riva del fiume) daipiani alti del Nile Hilton.

Poi, d’un tratto, gli altoparlanti dell’albergo inti-marono agli ospiti di scendere al più presto nei sot-terranei. Fu facile capire che si trattava d’un allarmeaereo, il segno che le ostilità erano cominciate.

Nel sotterraneo dove discesi poco dopo, c’eranouna quindicina di giornalisti stranieri, un gruppo dituristi comprensibilmente impauriti e un gran nu-mero di impiegati e inservienti dell’albergo. Alcuni dicostoro avevano dei transistor da cui ascoltavano lenotizie di Radio Cairo, e ogni tanto li vedevamo scop-piare in grida di giubilo, abbracciare i colleghi vicini,applaudire. Poi si volgevano tripudianti verso di noi eannunciavano in inglese: «Abbiamo abbattuto cin-quanta aerei israeliani». Ancora una decina di minu-ti ed ecco nuovi abbracci e applausi: «Gli aerei abbat-tuti sono ottanta, stiamo bombardando Tel Aviv». Es’andò avanti così sin verso le undici (l’ultimo an-nuncio, seguito da una frenetica ovazione, fu che leforze aeree israeliane avevano finito d’esistere),quando suonò la sirena del cessato allarme.

Non ero il solo, tuttavia, quella mattina del 5 giu-gno, ad essere mal informato: a scoprire, quando do-po le undici varcai la porta dell’Agence France Pres-se, che non l’aviazione d’Israele, bensì quella egizia-na, era ormai quasi completamente distrutta. Nellemie stesse condizioni era rimasto sino a quell’ora an-che il presidente egiziano Gamal Abdel Nasser, il lea-der della “Nazione araba”.

Il raìs sapeva beninteso che i combattimenti eranoiniziati, ma nessuno aveva osato dirgli quel che eraaccaduto. E fu solo nella tarda mattinata, quando sitrasferì dalla sua residenza allo Stato maggiore, che ilcapo delle Forze armate Maresciallo Abd al-HakimAmer e gli altri generali trovarono il coraggio d’infor-marlo che l’ottanta per cento degli aerei egiziani erastato distrutto al suolo. Il che significava che l’eserci-to, ormai impegnato nel Sinai in vaste e furibondebattaglie di carri armati contro le forze d’Israele, nonaveva più copertura aerea. Nasser era un militare, unuomo intelligente, e in più covava da tempo cupi pre-sentimenti. Non tardò quindi a capire che il destinodella guerra, con i Mirage israeliani che a quell’orastavano facendo il tiro a segno sulle sue divisioni co-razzate, era ormai segnato.

Finito l’allarme aereo, sul Cairo era subito ridiscesal’abituale, amabile letargia che ne costituiva a queltempo il carattere. Faceva molto caldo. Poggiato il mo-schetto a terra, i soldati di guardia agli edifici pubblicistavano accovacciati nei ritagli d’ombra. Davanti aicaffè sedevano placidi i fumatori di narghile. Dai muricominciavano a scollarsi i manifesti in cui si vedevanosoldati egiziani prendere a calci nel didietro ebrei colnaso adunco, la barba caprina e la palandrana scura.

Com’era diversa l’atmosfera da quella di Tel Aviv,dove avevo vissuto sino a due giorni prima l’ultimoscorcio dell’Ha-hamtama, che in ebraico vuol dire l’at-tesa. L’ordine e l’efficienza, ma anche la tensione emo-tiva e qua e là lo scoramento, con cui gli israeliani (inspecie quelli scampati all’Olocausto, che nel ‘67 costi-tuivano ancora una grossa parte della popolazione)s’erano avvicinati alla guerra. L’Ha-hamtama duravadal 15 maggio, da quando Gamal Abdel Nasser avevadispiegato l’esercito egiziano nel Sinai, chiesto il ritirodelle truppe Onu da Sharm el-Sheikh e quindi inter-rotto, con la chiusura dello stretto di Tiran, l’accessodelle navi israeliane al golfo di Akaba. Da quel giorno,mentre le radio del Cairo e di Amman, di Algeri e Bag-dad e soprattutto la radio di Damasco invocavano convoci sempre più isteriche una rapida e totale distruzio-ne dell’«entità sionista-imperialista», il conflitto traIsraele e i Paesi arabi confinanti si fece — anche a cau-sa d’una strana lentezza, o addirittura inerzia, delle di-plomazie — ogni giorno più probabile.

Oggi sappiamo che i vertici dell’esercito e dell’a-viazione israeliani erano più che certi di poter scon-figgere le forze di Nasser nel Sinai, e anche, se fosseroentrate in guerra, la Siria e la Giordania. Tuttavia l’in-sieme della macchina propagandistica tendeva a raf-figurare Israele come lasciato solo nel pericolo, mi-nacciato d’annientamento, invece che pronto — co-me in realtà era — a sbaragliare gli eserciti nemici.Quei toni gravi, privi di qualsiasi esaltazione guerre-sca, delle radio e della tv israeliane erano stati adotta-ti per unire e mobilitare la popolazione in vista delconflitto e allo stesso tempo diffondere all’esterno l’i-dea che lo Stato ebraico stesse per subire, non aven-dolo cercato, l’attacco degli eserciti arabi.

La verità era però un’altra. Nelle riunioni del go-verno con lo Stato maggiore, infatti, di fronte alle esi-tazioni del primo ministro Levi Eshkol, i generali scal-pitavano impazienti. «Le forze arabe», sosteneva ilcomandante del fronte centrale, Uzi Narkiss, «sonobolle di sapone: una puntura di spillo, e scoppieran-no». Anche il capo di Stato maggiore Itzhak Rabin, chepure si comportava in modo meno irruento dei suoicolleghi, insisteva nella richiesta di poter attaccare ilprima possibile. Ma Eshkol, appoggiato da più d’unametà dei ministri, resisteva.

Succeduto due anni prima al grande Ben Gurion, dipiccola statura e con un basco nero calzato perenne-mente sulla testa, più un tecnocrate che un leader poli-tico, il primo ministro non era popolare. Durante la lot-ta per la creazione dello Stato sionista non aveva rico-perto incarichi di comando nell’Hagana, né aveva com-piuto spettacolari azioni terroristiche come MenahemBegin o Itzhak Shamir. Era un tipico rappresentante deipolitici venuti dalla diaspora, cauti e responsabili, che icomandanti militari nati in Israele, i sabra, chiamavanocon tono metà affettuoso metà insofferente “gli ebrei”.

Eshkol non voleva la guerra, soprattutto perché netemeva le conseguenze nei futuri rapporti con i Paesiarabi. E infatti fu lui a pronunciare la sera del 28 maggio,incalzato dalle insistenze dei militari, la frase più saggiae lungimirante di quella vigilia del conflitto: «Che cosavolete, che Israele viva per sempre con la spada sguai-nata?». La frase esasperò uno dei generali più giovani,Ariel Sharon. A riunione terminata, Sharon avvicinò in-fatti Rabin e propose, in pratica, un putsch. «C’è una so-la soluzione», disse, «chiudiamo il governo a chiave nel-la stanza accanto, lanciamo l’attacco, e quando le ope-razioni militari saranno ormai in corso, rimettiamoEshkol al suo posto». Rabin finse di non sentire.

Se l’esercito non nutriva alcun dubbio sull’esito dellaguerra (lo Stato maggiore conosceva la posizione di ogniaereo egiziano, il nome, il grado e persino la voce del suopilota), altro, come ho detto, era lo stato d’animo nellamaggioranza degli israeliani. Israele trepidava. Nei ci-miteri erano pronte migliaia di fosse per seppellirvi imorti in battaglia. Mentre al Cairo era diverso, perché ilbellicoso, trionfalistico frastuono della propagandaaveva fatto credere in una facile e rapida vittoria.

Lungo i primi mesi del ‘67 le radio arabe avevano at-taccato ogni giorno Nasser. Lo accusavano di codar-dia verso Israele, di nascondersi «sotto le sottane del-l’Onu» (delle truppe Onu, cioè, che dal ‘56 presidia-vano da Sharm el-Sheikh lo stretto di Tiran sul MarRosso), di non voler guidare la lotta per la liberazionedella Palestina. Questa insensata corsa delle capitaliarabe verso la guerra aveva motivazioni prevalente-mente interne. Le cattive condizioni economiche, latensione sociale, il susseguirsi dei colpi di Stato in Si-ria e in Iraq spingevano infatti quei regimi a dirottaresu Israele l’animosità delle folle. Sinché anche Nas-ser, che avrebbe voluto a tutti costi evitare la guerra,venne travolto dalla marea dell’isteria nazionalista.

Fece entrare nel Sinai 130.000 uomini, 900 carri ar-mati e 1.200 pezzi d’artiglieria, intimò il ritiro delle trup-pe Onu da Sharm el-Sheikh e da Gaza, pronunciò di-scorsi incendiari. Le masse arabe tornarono ad osan-narlo. Ma Nasser non era più lo stesso uomo del ‘56,quando era riuscito a trasformare la sconfitta del suoesercito da parte della coalizione Francia-Gran Breta-gna-Israele in una specie di vittoria politica. Negli ulti-mi anni s’era appesantito, soffriva d’un forte diabete ed’insonnia e governava su un Egitto ormai alla fame peri fallimenti della gestione socialistoide dell’economia.

I suoi preparativi di guerra erano sostanzialmenteun bluff col quale contava di restaurare l’egemoniaegiziana sul mondo arabo, ma senza giungere alloscontro. Sino all’ultima ora sperò quindi in una me-diazione internazionale che potesse fermare la deri-va verso la guerra. Moshe Dayan, l’uomo che lo portòalla disfatta nel ‘56 e nel ‘67, avrebbe infatti scritto an-ni dopo: «L’escalation della propaganda in tutto ilmondo arabo non gli lasciava altra scelta che quelladi cavalcare l’onda anti-israeliana, nella speranza dipoterla controllare e domare». Anche Rabin lo ammi-se: «L’ingresso egiziano nel Sinai era un’azione es-senzialmente dimostrativa».

Se al Cairo la certezza della vittoria era resa indubi-tabile dal tambureggiare della propaganda e dalle en-tusiastiche manifestazioni organizzate dall’Unionesocialista araba, il partito unico, altra era la realtà sulfronte di guerra. L’arrivo dell’esercito egiziano avevareso il Sinai molto simile ad un alveare impazzito. L’af-fluire di decine di migliaia di soldati a bordo di carri be-stiame, spesso senza uniformi né armi né razioni ali-mentari — e soprattutto senza ordini precisi di dislo-cazione — aveva provocato ingorghi colossali sullepoche strade praticabili della penisola. Le colonne co-razzate e la fanteria non riuscivano quindi a raggiun-gere le postazioni prestabilite. «Decine di unità», midice Michael Oren, lo storico israeliano che ha scrittoil libro più completo e attendibile su quelle fatali set-timane (La guerra dei Sei giorni, Mondadori), «eranoin preda allo sfinimento per i continui trasferimentiavanti e indietro nel deserto». Un quinto dei carri ar-mati, un quarto dei pezzi d’artiglieria e un terzo degli

aerei, non essendo operativi, costituivano un ulterio-re e dannoso ingombro. Il sistema delle comunicazio-ni non funzionava, la burocrazia militare (residuo del-la tradizione ottomana) rendeva lentissimo il contat-to tra lo Stato maggiore e le unità al fronte.

Mentre Gamal Abdel Nasser cercava ancora, dispe-ratamente, d’uscire dalla trappola in cui l’avevanocacciato i siriani, Israele si decise alla guerra. Inaugu-rando quella che in Israele è ancor oggi la preminen-za della visione e delle esigenze militari sulle opportu-nità politiche, Rabin e gli altri generali strapparono aLevi Eshkol l’autorizzazione ad attaccare. Il primogiugno venne formato un governo di coalizione delquale faceva parte per la prima volta un partito di de-stra (l’Herut di Menahem Begin), con Moshe Dayanalla Difesa. E nella notte tra il 3 e il 4 l’attacco fu fissatoper le 7, 15 del 5.

Come si svolse la guerra, è più o meno noto. Il primogiorno, dopo aver spazzato via l’aviazione egiziana, leforze terrestri d’Israele sfondarono in più punti le li-nee nemiche sia a Gaza sia nel Sinai. E verso mezzo-giorno, poiché l’artiglieria di re Hussein aveva inizia-to a bombardare Tel Aviv e la Gerusalemme ebraica,ebbero inizio le operazioni contro gli aeroporti e le li-nee di difesa giordani. Il secondo giorno le avanguar-die di Rabin erano già vicine al Canale di Suez e la bat-taglia di Gerusalemme volgeva ormai a favore d’Israe-le. A quel punto l’alto comando egiziano dette l’ordi-ne di ritirata alle forze del Sinai.

Il terzo giorno gli israeliani entrarono nella Gerusa-lemme araba e liquidarono le ultime sacche di resi-stenza egiziane nel Sinai. Il quarto giorno l’esercito diNasser era in rotta, i giordani e i siriani avevano smes-so di sparare e la guerra era in pratica finita. Durò tut-tavia ancora due giorni, perché Dayan (contro il pare-re di Eshkol e senza preoccuparsi degli appelli dell’O-nu ad un cessate-il-fuoco) decise d’attaccare e con-quistare la alture siriane del Golan.

Per l’Egitto e per Nasser il conflitto s’era dunque con-cluso già tra il 7 e l’8 giugno. Le radio del Cairo non tra-smettevano più bollettini vittoriosi, ma soltanto can-zoni patriottiche, marce militari e preghiere. Poi, lamattina del 9, si diffuse la notizia che nel pomeriggioNasser avrebbe parlato alla nazione. E quel discorso,ciò che accadde subito dopo che il raìs ebbe finito diparlare, dettero a noi giornalisti che avevamo seguitola guerra dal Cairo ciondolando tra la piscina dell’Hil-ton e i bar del Semiramis e dello Shepheard, senza ve-dere l’ombra d’un combattimento, la possibilità di co-gliere le storiche proporzioni della disfatta araba e iltremendo trauma psicologico che n’era seguito.

Erano le 18,30 quando nel Palazzo della televisionedov’era stata allestita una sala stampa per i giornalististranieri, il volto di Nasser apparve su un teleschermopolveroso. Il raìs dimostrava dieci anni di più: le oc-chiaie peste, gli occhi velati di lacrime, il capo quasi re-clino sul petto. La battaglia era perduta, disse con vo-ce debole, e lui se ne assumeva l’intera responsabilità.Aveva di conseguenza rassegnato le dimissioni, la-sciando la presidenza a Zaharia Moheddin.

Cinque minuti dopo, non più di cinque minuti, ve-demmo dalle finestre una folla immensa invadere ilLungo Nilo su cui s’affacciava il Palazzo della televi-sione. Decine di migliaia di persone (che presto sa-rebbero diventate centinaia di migliaia) correvanosenza meta, gridando, piangendo, scongiurandoNasser di non abbandonare il suo popolo. Alcuni, uo-mini e donne, s’abbattevano sull’asfalto sconvolti daisinghiozzi, altri facevano il gesto di strapparsi i capel-li, altri ancora cadevano, subito calpestati dalla folla.Piangevano i soldati a guardia del palazzo, i tassisti, ibattellieri delle feluche attraccate e i venditori di gel-somini che a quell’ora, come di consueto, erano so-praggiunti inconsapevoli sulla Corniche. Scendeva lasera e dalla folla disperata si levava una specie di rug-gito, un rombo impressionante. Un paio d’ore dopoNasser ritirò le dimissioni.

Ma Israele aveva vinto. Le sue truppe controllavanoadesso un’enorme territorio che andava dal Canale diSuez al Giordano, dal Monte Hermon a Sharm el-Sheikh: 100.000 chilometri quadrati, tre volte e mezzole dimensioni che il Paese aveva avuto alla sua nasci-ta. Così, in soli sei giorni, tutto era cambiato nel Vici-no Oriente: frontiere, status delle popolazioni, econo-mia. La fase della debolezza sionista s’era conclusa edera iniziata l’epoca della potenza militare israeliana.

Una vittoria tanto trionfale avrebbe potuto aprire lastrada agli accordi necessari per giungere ad una paci-fica convivenza tra israeliani ed arabi? C’è chi ne è con-vinto. L’ex ministro degli Esteri d’Israele Shlomo Ben-Ami, per esempio, che nel suo libro Palestina — La sto-ria incompiuta, edito da Corbaccio, scrive: «Un’orgia diebbrezza politica e trionfalismo militare accecò i leaderisraeliani. Essi fallirono così il compito di trasformare lavittoria tattica dell’esercito in una grande vittoria stra-tegica per Israele, che avrebbe potuto fare della guerradei Sei giorni non solo l’ultima battaglia del conflittoarabo — israeliano, ma addirittura la premessa d’un ac-cordo di pace». Non andò così. Ed è per questo che aquarant’anni di distanza constatiamo quasi ogni gior-no che la guerra del ‘67 non è ancora conclusa.

5 GIUGNONelle prime oreIsraeledistruggel’aviazioneegizianaPoi i suoi tankavanzanonel Sinaie sfondano

6 GIUGNOBattaglia perGerusalemmecon i giordaniNel Sinaile avanguardieisraelianegiungono alCanale, Nasserordina la ritirata

7 GIUGNOI soldatiisraelianientrano nellaGerusalemmearaba,compresala Città VecchiaNel Sinai ultimicombattimenti

8 GIUGNOLa ritirataegizianasi è ormaitrasformatain una rottaGiordanie siriani hannodi fatto cessatodi combattere

9 GIUGNOIsraeleproseguel’offensivaper strapparealla Siriale alturedel Golanche dominanoil suo territorio

10 GIUGNO Terminanole operazioninel Golan. Israelecontrolla Sinai,Gaza, Golan,Gerusalemmee tutti i territoria ovestdel Giordano

Repubblica Nazionale

la memoriaMoto leggendarie

Cinquant’anni fa la casa di Mandello lasciava le corsee cominciava un’altalenante avventura per difenderela sua quota di mercato da aggressioni giapponesie scelte infelici. Ma l’anima del guzzista, un “easy rider”addolcito dalle strade nostrane, è rimasta intatta.E oraun libro Mondadori ne celebra passioni e nostalgie

CORRADO SANNUCCIgratitudine di chiunque segga al coman-do dei vetusti capannoni di Mandello(molti avvicendamenti negli ultimi anni:dopo la crisi Aprilia, ora l’azienda è sal-damente nelle mani del gruppo Piaggio),perché è stata l’anima guzzista a non farmorire una storia, una fabbrica, dei po-sti di lavoro, a tenere a galla un marchiomentre affondavano le inglesi, la Nor-ton, le Sunbeam, le Ajs, e le altre italiane,la Benelli, la Gilera. A far sopravvivere laGuzzi sono stati i ricordi personali, le no-stalgie di altri tempi in pista, anche alcu-ni luoghi comuni tramandati e indistrut-tibili, come l’impossibilità per un Alce eun Falcone di rompersi, convinzio-ne dalla quale il guzzistanon recede anchedi fronte ap a n -

ne evidenti. La Piaggio ha capito presto la natura

quasi irrazionale dell’amore per la Guz-zi e si è abbandonata a una sorta di irra-zionalismo aziendale, rinunciando alprogetto di portare la fabbrica in una se-de più accessibile per la fornitura deipezzi e per la spedizione delle moto as-semblate. La Guzzi è rimasta così, unicafabbrica al mondo a vivere nel museo deipropri capannoni che poi ospitano an-che il museo delle proprie moto, un Lou-vre dell’arte meccanica lungo i cui corri-doi, fino agli ultimi mesi, l’ingegner To-d a r o

spiegava incessantemente le qualitàmeccaniche di prodigi come l’Otto Ci-lindri, ma anche le astrusità come il mu-lo meccanico, uno strambo mezzo cin-golato che sembrava pensato (negli an-ni Sessanta) per la guerra d’Albania del1940.

Chi si è seduto su una Guzzi (avanti odietro, l’Alce aveva il manubrio ancheper il passeggero sul sedile posteriorerialzato) sa dove nasce il suo innamora-mento, dalla pulsazione del minimo, unbattito ventricolare lento e profondo, untum tum pausato, ipnotico, che negli al-tri generava l’ansia che il motore si spe-

gnesse, evento che il guzzista alvolante sapeva del

tutto remoto.Oppure

si è incapricciato del volano esterno inacciaio stampato, chiamato affettuosa-mente l’affettatrice, un elemento delsuccesso della moto, stabilizzata daquella ruota che sembrava uscita da unascultura di Duchamp, una delle soluzio-ni primigenie, insieme al cilindro oriz-zontale e alla rotazione contromano del-l’albero motore.

L’anima guzzista ha sempre sentitosotto di sé, rassicurante e audace, la mas-sa di metallo che gli ingegneri avevanoconcepito così bassa che la moto sem-brava potesse stare in piedi da sola, e leisostenere lui, un seggiolone costituitodal biciclindrico inventato dall’ingegnerCarcano negli anni Sessanta per una 500automobilistica e poi finito sul V7, con isuoi cilindri impercettibilmente asim-metrici, una sorta di affascinante strabi-smo. Fu il capolavoro di Carcano, del

quale i piloti ricordavano le ossessioni,in primis per la leggerezza (il suo

motto era anche: «Ciò che nonc’è non si può rompere», il che

a volte lo spingeva a nonmettere cose indispensa-

bili). Carcano che ag-giunse al suo palma-

res di scienziato an-che l’intuizione del-la diversa disposi-zione dei remi nel“quattro con” chevinse alle Olimpia-di di Melbournedel ‘56 (un remo daun lato, due di se-

guito dall’altro e poil’ultimo dall’altro la-

to): disposizione cheaumentava la stabilità e

la penetrazione della bar-ca nell’acqua, un dato empi-

rico e certo ma scientificamen-te mai dimostrato.

L’anima guzzista sa che se vuolepuò andare a Mandello e conoscere l’o-peraio che gli ha assemblato la moto,mentre sono i robot a mettere insieme ifrigoriferi, le lavatrici e le moto giappo-nesi: in più è fiera dei nomi ornitologicidelle sue moto, l’Albatros, il Dondolino,la Lodoletta, il Condor, adesso i richiamial vento e al Manzoni, la Breva e la Griso.In quanto salvatrice di un’industria na-zionale è irritata perché nelle città alcu-ne polizie municipali usano le Bmw o leHonda, forse è vero che sogna un mon-do di cinquant’anni fa, quando fare unamoto era arte e artigianato (lo si vede dal-l’adorazione retrò per la catena di mon-taggio) e i piloti, come Omobono Tennial Tourist Trophy del ‘37, si dovevano fer-mare ai bordi della strada e cambiarsi dasoli una candela. Ed è fiera comunquedella propria ostinazione, la stessa cheportò a infinite rotture le moto sui circui-ti dei mondiali degli anni Cinquanta,compresa la Otto Cilindri (per una cilin-drata di 500cc) che è la regina del museodi Mandello con la sua carenatura verdi-na, ipotesi meccanica mai più tentata almondo, ma che in realtà non riusciva afunzionare e che non portò a nessun suc-cesso, se non a disegnare splendidi qua-dri sui pantografi degli ingegneri.

Ora la classe operaia è in estinzionenumerica, i medici condotti prendono ilSuv, Sordi e la Koscina non ci sono più, lastessa Guzzi tenta strade nuove, ac-chiappare qualche giovane strappando-lo ai giapponesi con i modelli come laBreva, meno seduta, senza la pulsazionedel minimo, senza il baricentro a livellodello zoccolo del marciapiede. Dagli an-ni in cui si è tenuta a galla con il poco cheaveva, fondamentalmente il California ederivati, l’anima guzzista si è dipinta co-me un easy rider più soft, più gentile (ilguzzista si copre e si veste, a differenzadell’harleyista che teorizza il petto e lemani nude sempre), se non altro perchéha conosciuto anni di buio e solitudinemalamente sanati dai restauri dei Falco-ne rosso fiammanti.

Il guzzista è un motociclista che ades-so è come il tifoso di una squadra glorio-sa, il Genoa o il Napoli, ma che deve fareancora un lungo cammino per tornare adominare le strade infestate dalla Ducati(è un’ossessione? Un poco sì). La storiadella Guzzi adesso è quella di un matri-monio che si cerca di salvare a tutti i costi,l’azienda inseguendo il suo consorte (lemigliaia con l’anima guzzista) con nuovimodelli, i guzzisti che sperano di rivede-re il Falcone del 2010, l’azienda che cercadi far crescere l’azienda e maturare il con-sorte nostalgico, l’anima guzzista che ciprova ma non è sicura di riuscirci. Unastoria di innamorati che non si voglionoperdere, una storia italiana, appunto.

Guzzi, storia d’amore italiana

Cinquant’anni fa, alla finedel ‘57, dopo sette titolimondiali vinti la MotoGuzzi lasciava le corse e ilguzzista che il lunedì com-pra il giornale risale sul suo

California e si chiede perché non possafesteggiare come fa la Ducati, trionfantesui circuiti del mondo, perché l’aquilache è sui serbatoi sia atterrata propriomentre l’azienda vendeva, le sue motovincevano (e si rompevano), e universa-le era la sua fama. Quel giorno del ritiro laGuzzi aveva cominciato a morire, senzaaccorgersene, perché le paure e le diffi-coltà di quel momento erano sorelle del-l’incapacità o dell’impossibilità, da lì apochi anni, di capire il nuovo mercato ecome sarebbe cambiata la società e chisarebbero stati i nuovi motociclisti.

Eppure c’era stato un periodo in cuila Guzzi aveva “vestito” gli italianiognuno secondo le sue necessitàe le sue possibilità, il Guzzino65 per gli operai, il Gallettoper i parroci e i postini, l’Ai-rone 250 per i medici con-dotti, il Falcone per la Po-lizia, come quello sulquale Alberto Sordi gi-rava i Castelli Romanisoccorrendo Sylva Ko-scina in panne, in un’I-talia ancora severa-mente divisa in classima alla quale la Guzziforniva strumenti ade-guati ad ognuno, con unaperfetta aderenza tra ilmezzo e il suo scopo, il filan-te Falcone per gli inseguimen-ti e il paragambe del Galletto perpoggiare la borsa delle lettere.

Per reagire alla ricorrenza luttuosadel cinquantennio il guzzista può già es-sere orgoglioso di quel matrimonio per-fetto di società e mezzi che è stato il par-to geniale di un gruppo di uomini connome e cognome (Carlo Guzzi il fonda-tore, poi Giulio Cesare Carcano, Umber-to Todaro, Carlo Agostini, Duilio Agosti-ni, Vanni Bettega, Piero Pomi, meccani-ci, ingegneri e collaudatori: qualcuno sai nomi dei meccanici Honda?) i qualiavevano guidato la Guzzi dal pionieratofino ai tempi moderni, regalando all’Ita-lia la gloria di una tecnologia inventatada pochi chiodi e bulloni e l’incoscienzadi andare a sfidare il mondo partendo dauna piccola fabbrica dalla forma bislun-ga, stretta tra la ferrovia e il monte,schiacciata verso il lago di Como, cosìlontana da tutto, specialmente negli an-ni Venti, ma anche adesso fuori dallegrandi migrazioni, che i suoi operai sonosempre stati gente del posto, che spessodopo il turno in officina andava sul lagoa fare del canottaggio.

Ma non è questa “storia italiana”, co-me è scritto adesso sui serbatoi della Sto-ne o della Breva, a rendere orgoglioso ilguzzista. Lui ricorda bene come queglistessi uomini furono protagonisti di er-rori e scelte sbagliate, sì che alla fine quellegame tra una moto e una società era vi-vo paradossalmente solo in Californiacon la polizia americana e, in Italia, conil V7, forse la più bella di sempre, per queipochi che se la potevano permettere nel‘68 (costava 725mila lire), come Pino Pa-scali, che ci si ammazzò in un sottoviadietro Villa Borghese, mentre gli altri co-munque provavano il brivido dei freni abacchetta che non frenavano. Il guzzistasa che se al 57 di viale Parodi a Mandellosul Lario ancora qualcuno risponde alcampanello è anche merito suo, dellasua passione cieca (nel senso che per an-ni non ha potuto vedere niente, dal mo-mento che quasi niente usciva dalla fab-brica), della sua nostalgia, dei suoi ricor-di, del fascino del rosso splendente delFalcone. Un insieme di sentimenti chehanno coperto anni di fallimenti di ideee progetti, hanno attutito il rombo dellegiapponesi che intanto invadevano gliincroci, hanno abbellito la bruttezza ol’inanità di alcuni modelli che la dispera-zione industriale dei padroni variabilimandava comunque per strada.

È l’anima guzzista, come poi si sareb-be chiamata, cresciuta tra un Elefanten-treffe e internet, che ha salvato la Guzzianche quando quell’anima non avevaun sellino da mettere sotto il sedere, eche ora un libro celebra (Moto Guzzi-Quando le moto hanno un’anima, a cu-ra di Goffredo Puccetti, Oscar BestsellerMondadori, 576 pagine, 20 euro, in li-breria dal 5 giugno): l’indiscussa e gene-rosa passione alla quale deve andare la

32 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 27MAGGIO 2007

C’era un tempo in cui il marchio dell’aquila “vestiva”ciascuno secondo necessità: il Guzzino 65 agli operai,il Galletto a parroci e postini, il Falcone ai poliziotti...

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FALCONE SPORT, 1952Fu l’ultima evoluzione del monocilindrico originaledi Carlo Guzzi. Il Falcone, cilindrata 500 cc, rimasein circolazione sulle strade italiane per un ventennio

MGS-01CORSAÈ la più arrabbiata versione del classico bicilindricoa V, “firma” lasciata dall’ingegner Carcanosui modelli Guzzi. Moto da corsa, non immatricolabile

OTTO CILINDRI 1955-1957Capolavoro dell’ingegner Giulio Cesare Carcano,il motore otto cilindri era nascosto sotto la filantecarenatura di questa moto da gara dell’epoca d’oro

CALIFORNIA, 1971Oltre trentacinque anni fa usciva il primo esemplaredella fortunata bicilindrica prodotta a Mondello,qui nella recente riedizione del modello “Vintage”

La mia vittoria più bella con la Guzzi è stata nel ‘56, al Tourist Trophy(e quest’anno sono cento anni della gara), con la 250. In Australiaero ispettore per il distributore delle Norton, le moto inglesi, ed ero

venuto in Europa proprio per correre con la Norton. Nel ‘53 avevo venti-sette anni, la Guzzi mi chiese in prestito, io venni giù, non conoscevo chedue parole, “freddo e caldo”, che avevo visto sui rubinetti del bagno. Ar-rivai a Mandello in un caos di traffico, Coppi aveva appena vinto il mon-diale di ciclismo in Svizzera. La Norton pagava poco, si tratteneva metàdei premi, quando poi li lasciai definitivamente si arrabbiarono tremen-damente con me, «fottuto straniero delle colonie» mi dissero. Alla Guzzidovevo obbedire a ordini di scuderia. Al primo Gran premio, a Monza, lamoto mia e di Anderson non partirono, vinse Lorenzetti. Doveva semprevincere Lorenzetti: anche a Imola nel ‘54 ero in testa, rallenta, mi disse-ro, per far passare l’italiano.

Quella mattina all’Isola di Man il tempo era terribile, pioveva, la par-tenza fu ritardata di un’ora e poi di un’altra ora. Sul monte c’era la neb-bia. Era un circuito che passava per i paesi sfiorando muri, alberi, mar-ciapiede, lungo quasi sessanta chilometri da ripetere sette volte. Unacorsa durissima, che durava tre ore e non quarantacinque minuti comela MotoGp adesso; con una caduta, poi, si crepava. Il grande rivale eraJohn Surtees, sulla MV Agusta, che era partito prima di me. Io avevo ilgrande serbatoio pieno di benzina e la mia tattica era di non fare la sostaper il rifornimento. Questo innervosì Surtees, che si rendeva conto di nonriuscire a staccarmi a sufficienza, e gli costò caro: si fermò per riempire ilserbatoio ma aveva così fretta che mise poca benzina. Quando passam-mo all’ultimo giro io ero già in vantaggio di un paio di secondi, poi lui do-vette fermarsi perché era a secco. Io continuavo a tirare, non l’avevo vi-sto ai bordi della strada, e quando a una quindicina di chilometri dall’ar-rivo, a una stazione di segnalazioni dove era il papà di Lomas, un altro fa-moso pilota della Guzzi, mi segnalarono di rallentare, io non gli diedi ret-ta, troppe volte avevo perso per segnalazioni sbagliate. Fermo Surtees, ilsecondo arrivò a cinque minuti, fu una soddisfazione incredibile.

Lasciai la Guzzi quando cominciai a essere stufo dell’abitudine dei di-rigenti di dare sempre la colpa ai piloti. Vivo in Italia da cinquant’anni,l’ho molto amata, ma adesso a straziarmi il cuore è la Ducati di Casey Sto-ner, australiano come me, di origine irlandese come me.

“Quando vinsi all’Isola di Man”I ricordi di un pilota delle ultime competizioni

KEN KAVANAGH

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 33DOMENICA 27MAGGIO 2007

Repubblica Nazionale

EnzoSellerio (d’ora in poi En-zo: per economia, e per ami-cizia) è editore di libri di fo-tografia e altre arti e dise-gnatore di copertine, fa deigran colpi al mercato delle

pulci, ama gli scherzi, i motti di spirito ei giochi di parole, che rivelano un genioinfantile, scrive lettere umoristiche aigiornali, e a volte sarcastiche, è un uomodi formato, bello come un Majakovskijdai capelli tempestosi. [...]

Ho amiche e amici fotografi. Maquando ho fatto davvero amicizia conlui, Enzo non era un fotografo, era unoche ha smesso di fare il fotografo. Que-sto me lo rendeva già caro e interessan-te: amo le persone che hanno smessoqualcosa, specialmente se sono maschi.Noi maschi non la smettiamo mai. Maspecialmente raro è uno che smetta difare una cosa che sa fare bene, anzi unacosa in cui eccelle. Ne provo una vera in-vidia, perché non c’è una cosa che sap-pia fare davvero bene, e temo che se cene fosse una — suonare il violino, tuffar-mi ad angelo — non smetterei mai di far-la, appena avessi qualcuna a guardarmi.Invece Enzo, quando non era ancora di-ventato uno che ha smesso di fare il fo-tografo, aveva tanta gente a guardarlo.

Però le fotografie durano, anzi sonoforse l’opera umana che guadagna di piùdalla durata. [...] Non avevo pensato ab-bastanza a come funziona la memoriacon le fotografie. (Funzionare, non biso-gnerebbe dirlo, se non per i motori ascoppio: e invece adesso si dice per tutto,due si sono lasciati perché non funziona-va, uno invade l’Iraq per vedere se fun-ziona). La mia memoria funziona cosìcosì. Ogni giorno dimentico qualchenuova cosa, la trama di un libro, la prota-gonista di un film, un motivo musicale:me ne accorgo, perché succede di voler-si ricordare dei libri, dei film e soprattut-to delle canzoni. Invece è raro che si cer-chi di ricordare una fotografia, no? Unquadro sì, chissà perché. Forse perché lefotografie servono proprio per ricordare— «Facciamoci una foto-ricordo» — edunque non si bada a ricordare le foto-grafie. Quando ho saputo di dover scrive-

sul fianco e le calzette bianche, cheguarda senza curiosità, e certo senza in-vidia, il gioco della fucilazione dei coe-tanei maschi. A ricordarsi solo il prosce-nio, c’è il fucilato, con le mani alzate, giàstorto dall’attesa della fine, e il plotoneche prende più o meno disciplinata-mente la mira (ma non ci sono fucili, so-lo revolver), uno pronto a dare l’ordinedel fuoco, un altro di spalle e ben vestitoche forse è un obiettore di coscienza.Così isolata, è come una Crocefissionesenza Maria e Maddalena, senza solda-ti romani, senza pubblico. Messo a fuo-co il fondo, ecco quelle bambine che siannoiano, se ne stanno composte sul lo-ro gradino, e guardano con distacco.Tutta un’altra storia. Le bambine di-stanti fanno da contrappunto ai bambi-ni militanti, allora come adesso.

Olivia ed Elvira me le ricordavo bene,le gambe di Elvira sono infatti commo-venti. Ha le scarpe scollate col cinturinoe il tacco basso che vanno di moda oggi,il titolo è lussuoso: «Mia figlia Olivia sor-presa dalla madre mentre cerca di salireabusivamente nello studio del padre.Palermo 1967». Olivia guarda in su, van-tandosi della bravata. Il pavimento è dimattonelle quadrate a due colori.

La donna sul balcone, Linguaglossa1963, l’ho ricordata più o meno bene.Non abbastanza lo scorcio stretto dalquale si affacciano balcone e donna, sullargo cielo bianco vuoto che le spirali diferro battuto vogliono agganciare, e so-miglia a una polena, ma di poppa: nonper aprire il mare, ma per salutare chi re-sta, con quel sorriso un po’ timido. Ba-sterebbe aver fatto questa sola fotogra-fia per smettere, e vivere altri cent’annicon la gente che si leva il cappello al tuopassaggio.

L’uomo e l’asino non vanno a imbar-carsi sulla portaerei, naturalmente,bensì, come recita l’evangelico titolo:«L’oste conduce il suo asinello a vederela portaerei Independence, Palermo1960». Che lui sia l’oste si ricava forse dalgrembiule. A metà, fra la portaerei e l’a-sinello, ci sono uomini che camminanosul lungomare e non si fermano a guar-dare l’Independence. Sembra che nonc’entrino. Sembra che l’appuntamentofosse tra quei due, la portaerei e il soma-

ro. Una didascalia più prosaica accostala portaerei alla fonda con le contempo-ranee elezioni politiche: associazioneormai evaporata. Resta quello scontro,o quell’incontro, di civiltà, magro asi-nello nero e madornale portaerei grigia.Uno dei due era in via di estinzione.

I maschi in conversazione profana aGela 1967 attorno allo stentato oleandroerano come li ricordavo: ancora piùstrani, perché tengono tutti e cinqueuna mano sui rami dell’alberello, comeper un giuramento, non so, la Societàdell’Oleandro.

La bambina che offre il gelato, lei nonla ricordavo bene quanto merita, maavevo ragione a ricordarla come la prin-cipessa più elegante del mondo. Questaè una fotografia meravigliosa. Si chiama«Offerta di un cono gelato. Cefalù 1958».Se ce l’avete davanti, come spero, vi stu-pirete ancora una volta dell’ampiezzadel campo abbracciato dall’inquadra-tura, questa volta verticale. Come neiquadri rinascimentali, ci sono i protago-nisti in primo piano, e la fuga prospetti-ca, che qui è un viale di Cefalù, con ibambini che giocano, le persone checamminano o chiacchierano, le case coibalconi, e una collina a chiudere il fon-do. Ma qui la scena è così nitidamentetagliata in due metà, che si ha voglia di ri-tagliare — Enzo mi perdoni — la metàinferiore, per lasciare soli la bambina el’uomo (da un’altra didascalia appren-do che è suo padre), toglierli al loro 1958e alla pur nobile Cefalù, e fermarli suldissestato asfalto delle divinità perpe-tue, il re sul suo trono inverso, e la prin-cipessa cui è riservato il futuro. Che oraè? Forse il tardo pomeriggio, quando si èsmesso il lavoro, o il primo pomeriggio,quando si fa una pausa. L’uomo sta se-duto nella strada, sulla sua sedia alla ro-vescia, perché vuole appoggiare le brac-cia allo schienale, e perché è così pesan-te che il fondo della sedia non lo conter-rebbe. Ha camicia e pantaloni macchia-ti e strappati, e anche la pelle dei pol-pacci e delle mani è slabbrata. Ha la

cintura sotto la pancia, la barba trascu-rata, una coppola calcata fino agli occhi.

Ha la testa inclinata da un lato, con unatenerezza — o forse gli fa male il collo.L’uomo non ha collo, la bambina ce l’ha

re qualcosa per Enzo, mi sono chiesto sericordassi le sue fotografie, e quali. Uno ingalera, qualunque cosa scriva, deve an-dare a memoria. Qualcuna me la ricor-davo nitidamente, o quasi — dirò conquali sviste. Ricordavo le seguenti.

Il plotone di esecuzione dei bambiniche fucilano per gioco un bambino con-tro un muro della Kalsa.

La piccola Olivia ed Elvira accanto auna scala interna, Elvira ha i capelli sulviso e gambe così snelle che se ne è com-mossi e impensieriti.

La donna sul balcone come una pole-na che sporge un seno di ferro battuto.

Un uomo e un asinello che vanno aimbarcarsi su una portaerei.

Un gruppo di maschi in conversazio-ne attorno a uno stentato oleandro inuna piazza siciliana.

Una bambina scalza, la creatura piùelegante del mondo, che porge un conogelato a un uomo seduto in mezzo a unastrada di paese. [...]

Una famiglia di emigranti che parto-no dalla stazione di Palermo per Torinocon un bambino sdraiato su una valigialegata con lo spago. [...]

Danilo Dolci ammalato in un letto po-vero con attorno degli amici famosi, nonricordo chi.

Contavo le fotografie che mi sembra-va di ricordare, quando la posta celeremi ha portato un bel volume di anni fache raccoglieva le fotografie di Enzo. Al-lora ho ritrovato quelle foto, e ho fatto iconti con la mia memoria. Intanto hoscoperto, con una certa delusione, diaver ricordato il primo piano delle foto-grafie, a scapito dello sfondo e dei detta-gli: il contrario di quello che mi succedecon i dipinti. Per esempio, la fotografiadella fucilazione per gioco dei bambinialla Kalsa, così bella, e mi risparmierò didire così attuale. (Era del 1960: il dopo-guerra. A riguardarla ora, è una fotogra-fia dell’anteguerra). A riguardarla ora,mi sorprendo della sua vastità: non socome si possa abbracciare in una foto uncampo così ampio e così esatto. Fra gliepisodi del secondo piano c’è il grup-petto di donne anziane e uomo davantia un portone, e soprattutto, sulla portachiusa della chiesa, le quattro bambine,tre sedute, una in piedi con una mano

ADRIANO SOFRI

l’immagineRetrospettive

34 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 27MAGGIO 2007

L’uomo che smise di fotografare

Repubblica Nazionale

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 35DOMENICA 27MAGGIO 2007

svelto come quello di un’anfora. Labambina gli viene incontro quasi dan-zando, attenta che il gelato non si sciol-ga, con una gonnella come una corollaaperta, le gambette leggere. La grazia ela pesantezza. La grazia figlia della pe-santezza. Qui la memoria mi ha fatto ilpiù singolare sgambetto, perché ho ri-cordato la bambina scalza, e invece haun paio di zoccoletti di legno con un bre-ve tacco. [...]

Gli emigranti partono dalla stazionedi Palermo 1960 (chi non ricorda questafotografia?) non alla volta di Torino, eraancora presto, ma di Milano. E quellodei tre bambini che dorme, o fa finta didormire, o fa finta di essere morto, nonè sdraiato su una valigia, ma su uno sca-tolone di cartone legato con lo spago, econ una serie di buchi sui fianchi, comequelli disegnati da Saint-Exupéry al Pic-colo Principe, per far respirare la sua pe-cora dentro la scatola. [...]

Infine, Danilo Dolci 1957 in un lettoaltrettanto e più povero — riconoscere-te quella coperta d’ordinanza, quellecoperte che non scaldano ma pesano, sesiete abbastanza anziani, oppure se sie-te giovani ma detenuti — durante un di-giuno nel cortile Cascino di Palermo. Lepersone attorno sono Nino Sorgi, Igna-zio Buttitta e Carlo Levi, strano raduno,senza parole, come se ciascuno pen-sasse a una cosa sua, e tuttiaspettassero qualcosa —che poi, si sa, non èvenuta. [...]

«Partoper un non luogo molto lontano, l’aldilà». Enzo Sellerio met-

te ordine nell’archivio, prepara il baule dei ricordi. La mostra Fer-mo Immagine, curata da lui stesso, apre il 2 giugno a Palazzo

Branciforte di Palermo, prosegue nell’ex Convento del Ritiro di Siracusafino al 2 settembre, e poi al Mnaf, Museo Nazionale Alinari della Fotogra-fia di Firenze, fino al 18 novembre. Stesso titolo per il libro che esce in con-temporanea (Alinari, 192 pagine, 50 euro).

Una storia chiusa in valigia per l’aldilà? Perché tanto pessimismo?«Realismo invece. Avvicinandosi alla fine i fotografi si trovano con un

mucchio di negativi, in alcuni casi sono milioni, come le uova dei pesci. Aconti fatti i miei sono circa centomila».

Cosa si aspetta da questa mostra?«Vorrei scrollarmi di dosso l’etichetta di neorealista connessa a un ser-

vizio del ‘55 nel Borgo di Dio, il centro fondato a Partinico da Danilo Dol-ci per combattere la mafia. Certo, Rossellini, De Sica, Chaplin mi hannoinfluenzato più di qualsiasi altro fotografo, ma poi ho fatto altre esperien-ze».

La fotografia è un’arte?«No. È un gioco serio come la musica. In molte lingue, il francese, l’in-

glese, il russo, il tedesco gli strumenti non si suonano, si giocano... Più cheall’arte la accosterei alla letteratura».

Ma cos’è esattamente?«Lo avevo scritto nel mio unico libro di dieci parole pubblicato da Pul-

cinoelefante: “Nella fotografia in certi stati di grazia scatta una sorta di te-lemetro interiore che fa coincidere quello che si vede con quello che si sa”».

“Il gioco serio di far coinciderequel che vedo con quel che so”

Una mostra e un libro per rivederegli scatti più belli di Enzo SellerioE per penetrare in questi frammenti di vita presi per mano dal racconto,in equilibrio tra sguardo e memoria

IN LIBRERIALe foto di EnzoSellerio che illustranoqueste paginesono tratte dal libroFermo Immagine,pubblicato da Alinari,in libreria dal 2 giugnoL’articolo di AdrianoSofri è una sintesidella prefazioneallo stesso libro

AMBRA SOMASCHINI

Repubblica Nazionale

Il grande pittore francese degli anni Cinquantaera anche un formidabile judoka e scrisseun manuale, che ora viene pubblicato in Italia,

per insegnare la “via della cedevolezza”: la capacità di nonannientare l’avversario ma di assorbirlo nella propria energia,così come sulle sue tele non faceva combattere due colori diversi

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Che paese in fibrillazione era il Giappone verso la fine dell’Otto-cento, quando per sopravvivere cominciò la sua veloce corsa allamodernizzazione. Tutto doveva essere nuovo, moderno, basta con leantiche usanze feudali, abolita la casta dei samurai ai quali un editto del-l’Imperatore Meiji proibì di portare le due sacrosante spade; così i pove-ri ex guerrieri si videro costretti a diventare imprenditori, funzionari, im-

piegati, e a vestirsi con capi di abbigliamento occidentale, magari soltanto una bom-betta, o un paio di pantaloni con sopra il kimono.

I bimbi nelle scuole cantavano la canzone della Palla della Civiltà, dovevano contare ognirimbalzo nominando oggetti utili come la macchina a vapore, i lampioni a gas, le scarpe dicuoio, per mettersi bene in mente cosa era nuovo e bello, mentre l’Imperatore scriveva ver-si tipo «Oh, come vorrei rendere questo paese secondo a nessuno».

Ma che fare delle antiche arti marziali nelle quali eccellevano i samurai? Metterle decisa-mente al bando non era possibile ma il nuovo spirito dei tempi ne decretò l’inutilità in quan-to era opinione comune che fossero antiquate, vecchie tecniche di combattimento indegnedi un paese al passo con i tempi che si era dotato di un esercito moderno affidandosi a istrut-tori prussiani. E di moderne, anzi modernissime armi da fuoco. Ginnastica, corsa, baseball,tennis, queste sì che erano attività fisiche da praticare, i giapponesi dovevano diventare tut-ti degli sportivi, non degli anacronistici guerrieri. Così le arti marziali e prima fra tutte il jujit-su, la Tecnica della Cedevolezza che mira alla sconfitta dell’avversario basandosi sul princi-pio che il flessibile vince sul duro e che si combatte senza armi, subì il più totale discredito:chi la esercitava ormai combatteva per soldi, si esibiva nei circhi, il samurai era diventa-to un saltimbanco però feroce, violento, odioso.

Tuttavia la febbre della modernità coinvolse presto anche le arti marziali. Iljudo, infatti, è un prodotto della modernità, ideato agli inizi del Novecento dalMaestro Jigoro Kano, nato nel 1860. il quale intuì che il jujitsu era un patrimo-nio da salvare ma le sue finalità andavano riviste. Scrive Il Maestro: «Io studia-vo il jujitsu perché capivo che era il mezzo più efficace per l’educazione del cor-po e dello spirito e per questo ebbi l’idea di diffonderlo ovunque. Ma era necessa-rio migliorarlo e trasformarlo perché lo stile antico non era immaginato per l’educa-zione fisica o morale, lo scopo era solo quello di lottare per vincere. Così ho preso le co-se più interessanti dalle varie scuole di jujitsu e vi ho aggiunto delle mie personali in-venzioni arrivando a fondare un nuovo metodo per la cultura fisica e mentale che hochiamato Ju Do, la Via della Cedevolezza. In effetti io non insegno soltanto la tecnica,cioè lo jitsu, ma il Do (in cinese il Dao), cioè la Via, ed è sulla Via che voglio insistere. Hoevitato il termine jujitsu anche perché esistevano scuole che praticavano tecniche diestrema violenza e in molte palestre gli allievi anziani picchiavano i giovani».

La figura di Jigoro Kano si inserisce alla perfezione nel fervore di idee e di proposte inno-vatrici del Giappone a cavallo tra Ottocento e Novecento. Quando giunse a Tokyo dalla pro-vincia per proseguire gli studi era un ragazzo gracile, costretto a subire le angherie dei com-pagni e per difendersi, appena entrato nel 1877 all’Università di Tokyo, cominciò a studiareil jujitsu allenandosi con tanto fervore che, si racconta, era sempre pieno di lividi al punto

LezioneJudodi

MIKU-DAKIUno degli avversari prende lo slancioper proiettare l’altro all’esternocon un movimento di anche comenel tai. Tecnica poco diffusa

KAMIZAIl saluto al pubblico va effettuatodai due avversari, uno di fronte all’altro,ruotando sul tatami di un quarto di giroe unendo i talloni

SEOI-NAGEI Seoi Nage (proiezioni sopra la spalla)sono tra le tecniche più eseguitenelle competizioni e incontrano grande favoretra i praticanti in Occidente

UKI-OTOSHILa tecnica detta della proiezione fluttuantefa parte del gruppo delle Te-wazache interessano mani e spalleSi mette in atto sia a destra che a sinistra

KATA-GURUMAÈ una tecnica che predilige l’uso delle manie delle braccia (Te-waza). Il maestro Jigoro Kanola ideò prendendo spuntoda una antica tecnica del Ju-jitsu

Yves Klein, l’artedi essere flessibile

RENATA PISU

Repubblica Nazionale

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 37DOMENICA 27MAGGIO 2007

che i suoi insegnanti lo avevano soprannominato “unguento” per tanto che ne usava per co-spargersi tutto. Conobbe dei grandi maestri che continuavano a insegnare la loro disciplinaanche se ormai discreditata e, nel 1882, aprì una sua palestra che chiamò Kodokan, cioè «luo-go per studiare la Via», elaborando la prima sintesi delle varie scuole di jujitsu. Il suo nuovostile si fondava sul miglior uso dell’energia allo scopo di «migliorare se stessi e contribuire al-la prosperità del mondo intero». Un’esagerazione? Per Jigoro Kano no, secondo lui il judoavrebbe potuto essere utile per risolvere i problemi dell’umanità in generale in quanto, so-steneva, l’esatta comprensione di cosa sia l’energia e del suo migliore impiego comporta ilraggiungimento di una comprensione totale di ciò che ci circonda che permette di interagi-re e di collaborare per un miglioramento globale. E il judoka, cioè chi segue la Via del Ju, inqualunque situazione diventa un catalizzatore positivo.

Yves Klein, pittore e judoka, conosceva questa teoria del Maestro fondatore della disci-plina alla quale si è dedicato? Secondo alcuni critici è come se la Via della Cedevolezza scor-ra nel suo percorso artistico portandolo a non voler far combattere due colori sulla stessa te-la perché uno dei due sarà annientato, mentre il vero judoka non an-nienta l’altro, lo ingloba nella sua energia.

Tuttavia, nella teoria e nella pratica di questa nuova disciplina deri-vante da una assai più antica — cinese alle origini — abbondano le in-terpretazioni e le applicazioni più varie e contrastanti. Il judo può ave-re davvero influenzato il monocromatismo di Klein? O la visione delmondo di Vladimir Putin, altro noto judoka? Molto difficile dirlo an-che perché difficile è definire cosa sia il judo. Secondo il Maestro BunjiKoizumi «il judo ha la natura dell’acqua: l’acqua scorre per raggiun-gere un livello equilibrato. Non ha forma propria ma quella del reci-piente che la contiene. È indomabile e penetra ovunque. È perma-nente ed eterna come lo spazio e il tempo. Invisibile allo stato di vapo-re, solidificata in ghiacciaio ha la durezza della roccia».

Il paragone è affascinante, pura poesia, comunque il judo, frut-to della modernizzazione del Giappone, ha subito varie vicende,è stato usato in vari modi, ha servito sotto diverse bandiere, spes-so è diventato “di parte” e questo nonostante la visione interna-zionalista e pacifista del suo fondatore, in accordo con quella di DeCoubertin e della fiamma olimpica.

Ma torniamo agli inizi del Judo Kodokan. Il Maestro Jigoro Kano ha da poco fondato la suascuola, tuttavia le tradizionali scuole di jujitsu, già in crisi per le mutate condizioni sociali delGiappone, si impegnano a ostacolarne la crescita e l’affidabilità impegnando quasi quoti-dianamente gli allievi di Kano in vere e proprie sfide pubbliche. Un giorno però, nel lugliodel 1886, la Prefettura di Polizia di Tokyo, dovendo dare l’appalto a una scuola di difesa e at-tacco senza armi per l’addestramento delle reclute, indice una gara alla quale partecipanola nuova scuola di judo appena costituita e la scuola di jujitsu più famosa e ancora non “di-sonorata”, quella del Maestro Fukuda. Ebbene, vince la scuola di judo, anche se all’epoca Ji-goro Kano venne accusato di aver truccato le carte, cioè di aver dato posto nella sua squadraa campioni di jujitsu soltanto nominalmente convertiti alla sua nuova scuola. Inutile entra-re in polemiche datate: la vittoria della scuola di judo sancisce la vittoria del “moderno”, se-

condo lo spirito del tempo, anche se all’epoca non c’era punteggio per determinare il vinci-tore, bisognava dimostrare di essere il più forte costringendo l’avversario alla resa o in con-dizione di non nuocere e i limiti di tempo erano a discrezione dell’arbitro.

Comunque, poco dopo, Jigoro Kano diventa consulente del Ministero per l’Educazione(secondo alcune fonti, per un breve periodo, ministro), si impegna a diffondere il judo nellapratica della società giapponese e si dà da fare, compiendo numerosi viaggi all’estero, perl’inserimento del “suo” judo nelle Olimpiadi perché, sostiene, lo sport olimpico è un mododi praticare lo sport che va al di là del vincere o del perdere e, nella scia di De Coubertin, sitratta di «uno stato mentale, può essere applicato nelle più diverse situazioni, è caratteriz-zato dalla cultura dell’impegno e dell’euritmia». Entrambi si pongono come personaggi del-la modernità, traditi neri loro ideali dalla post-modernità in cui oggi viviamo.

Il Maestro Kano muore nel 1938, di ritorno dal Cairo dove era stato inviato come rappre-sentante del Governo giapponese al Dodicesimo convegno internazionale del Comitatoolimpico internazionale, nel quale si decise che Tokyo sarebbe stata la prossima città ospi-

te dei Giochi olimpici. Scoppiò invece la Seconda guerra mondiale,che per il Giappone era già cominciata con l’invasione della Cina nel1937. E poi Pearl Harbor e infine Hiroshima, la disfatta, il paese che ave-va fortemente voluto la modernità era il primo a entrare nella post-modernità. Ma Jirogo Kano non poteva averne consapevolezza enemmeno ebbe rammarico per il fatto che, non appena in Giapponevi fu la mobilitazione per la guerra, quella che per i giapponesi e per gliamericani fu, nell’ambito della Seconda guerra mondiale, principal-mente la Guerra dell’Oceano Pacifico, il Ministero nipponico per il Be-nessere e la Salute organizzò una sezione di arti marziali e lo judo ven-ne insegnato come tecnica di combattimento a mani nude nelle scuo-le, materia obbligatoria per i maschi dalle elementari all’università. Iljudo aveva smarrito il Do, la Via aveva deviato nei campi di battaglia.

Quando gli americani vittoriosi occuparono il Giappone, per de-creto dello shogun Mac Arthur vennero messe al bando tutte le artimarziali, judo compreso, quel judo che aveva smarrito la Via, crea-tura di un idealista in bilico tra l’esigenza della modernizzazione e laconservazione di uno spirito nazionale, di un’antica saggezza del

corpo e dello spirito. Durante l’occupazione americana furono distrutti filmati sulla sto-ria del “moderno” judo e di tutte le arti marziali del Giappone feudale, diventate tutte artidi morte del nazionalismo giapponese. Soltanto nel 1950 lo judo potrà di nuovo essere pra-ticato in Giappone ma come sport, non più come proposta educativa globale, cioè comeideologia. Presto si diffonde in tutto il mondo, nel 1956 si svolgono i primi campionatimondiali di judo, nel 1964, alle Olimpiadi di Tokyo che segnano la rinascita del Giapponee la sua adesione alla comunità internazionale, con tutti i suoi valori e disvalori, è ammes-so come sport olimpico. Il judo ha vinto, ma quante traversie, quante modificazioni di sen-so e di scopo ha subito, incapsulato, autorizzato a promuovere l’intesa e l’armonia globa-le, oppure a nuocere nelle contrastanti interpretazioni che sono state date alla Via dellaCedevolezza, via dolce, morbida, gentile, oppure arma letale. Proprio come l’acqua allaquale uno dei maestri di judo di richiama per spiegare l’inspiegabile.

IL LIBRO

Si intitola I fondamenti del judo. È un manuale, appenariscoperto in Francia e inedito in Italia, scritto da uno dei piùgrandi artisti del Novecento, Yves Klein. Nato a Nizzanel 1928, Klein diventa famoso giovanissimo e dà scandaloInventa giornali di un giorno, realizza gigantesche telemonocrome e dipinge con corpi nudi immersi in quel colore,il "Blue Klein", che avrebbe brevettato alla fine degli anniCinquanta. L'amore e la pratica del judo scorrono parallelialla sua arte, nell'insegnamento a Madrid, nel vagheggiatoviaggio a cavallo in Giappone e nei due anni trascorsia Tokyo a perfezionarsi nei kata, le fasi fondamentaliAttraverso il judo, Klein scopre che il corpoè uno spazio e che il movimento, dopo infinite osservazionie ripetizioni, diviene "gesto automatico" che è alla basedell'arte come di ogni altra attività umana. Il libro da cui sonotratte tutte le figure di queste pagine è pubblicato da IsbnEdizioni (228 pagine, 17 euro) e uscirà il 5 giugno

SUMI-GAESHIInserita nella classe Yonkyo,uno dei cinque gruppi del Go-Kyo, la tecnicaviene richiesta al judoka dai maestri a partiredalla cintura blu

UKI-OTOSHICome per tutti i Nage-No-Kata

anche l’Uki-Otoshi consistenel tentativo di rompere la posizione

d’equilibrio dell’avversario

TOMOE-NAGEDetta anche proiezione a cerchio. La tecnicaè derivata dall’antico Ju-jitsu ed è diffusain particolare tra gli atleti dei pesi medi e leggeri in gara e in allenamento

SHIKORO-GAESHIRovesciamento con pressionealle spalle. Nell’esecuzionedella tecnica si sfrutta l’energiadell’avversario a proprio vantaggio

OKURI-ASHI-BARAISi può tradurre “spazzata al malleolo esterno”ed è una delle tecniche di maggiorsuccesso a partiredalla posizione laterale

Il principioIl Judo non è soltanto uno sport. Io lo consideroun principio di vita, un’arte e una scienza (...)

Dovrebbe essere libero da qualsiasi influenza esteriore,politica, nazionalista, razziale, economica (...)Tutto ciò che lo riguarda non dovrebbe tendere

che a un solo scopo: il bene dell'umanitàJIGORO KANO (1860-1938), fondatore del judo

Repubblica Nazionale

la letturaWonder boys

Un medico e una donna malata. Un dialogo oniricoche intreccia i ricordi e le speranze infrante di due vitePoi, una domanda, una sola. È il racconto del geniale scrittoreamericano che la rivista “Granta” ha classificato tra i piùimportanti del nuovo secolo. Insieme ad altri venti giovaniche minimum fax pubblica in anteprima mondiale

Le stanze dei corpi e degli specchi

Nella stanza del suo futuro, lei vede il fia-to che le esce di bocca. Facesse un po’ più caldo, le Polaroidche tappezzano le pareti potrebberosvilupparsi.Mette il pollice su una delle foto, come

se strofinasse una tomba. Il calore fa apparire gli oc-chi castani di una bambina. Sono i suoi occhi, ma co-me potrà essere bambina nel futuro? Strofinando an-cora rivela altro — piccole mani azzurre — mentre ilfreddo fa svanire di nuovo gli occhi nella sostanzachimica.

Il medico le ha detto di dormire. Lei invece rivisitapensieri della sua infanzia, come se le venissero allamente per la prima volta. Sono così opachi, i pensie-ri, tanto velati dalle sostanze chimiche, che sembraimpossibile che li pensi per la seconda volta.

Strofina. Riguarda dentro gli occhi della bambina.Sente sua madre dirle di vestirsi più pesante, altri-menti nel suo futuro rischia un raffreddore, o peggio.

Il suo cuore è custodito in una stanza con un costo-sissimo sistema di sicurezza.

Quando ha dato la combinazione al suo medico,lui è rimasto incredulo di fronte a tanta banalità.

«Chiunque la conosca potrebbe indovinarla», hadetto, mentre scriveva sulla sua cartella clinica.

Lei gli ha risposto: «È ovvia solo quando uno la sa».E in ogni caso, si tratta solo del primo livello di ac-

cesso. Ci sono il pavimento che non si può toccare, lamatrice dei laser, i cani a cui non danno da mangiareda giorni. Quando ha gli occhi arrossati e franti, nean-che lei supera l’esame della retina.

Il suo medico passa l’unghia del pollice nei solchidel muro.

La testa di lui si riempie di voci. Sente un amicod’infanzia che lo sfida a toccare un fornello rovente,a leccare un tubo gelato, un paziente che lo imploradi non farlo soffrire. Si vergogna del suo senso di po-tere. Sente guaire un cane, delle mele battere l’unacontro l’altra, una chiave entrare in una serratura.

Ora la testa gli si riempie della voce di sua moglie.È giovane, è una ragazzina, ancora non si sono maivisti. Sta sussurrando fra sé. E come fa, lui, a ricono-scere una voce che non ha mai sentito?

L’unghia del pollice segue il solco fino a quandonon incontra la risata di un uomo. Il padre di lei?

L’unghia scivola indietro, torna nel sussurro di lei.Nel solco di un uomo adulto che geme.In un sospiro.Poi i solchi si sovrappongono per non più di tre

centimetri, e si livellano con il muro: silenzio.Lui è circondato dai rumori della sua vita incisi nel-

la cera.Deve essere buio. Le luci scalderebbero i muri, e le

risate e i gemiti si confonderebbero. I sussurri rimar-rebbero appesi ai fili di se stessi e poi troverebbero lapace contro il pavimento.

La stanza del corpo di lei è uguale al corpo, per for-ma e dimensioni.

Ha trascorso gran parte della vita senza accorger-si di starci dentro. Bei tempi quelli, quando era inmissione in paesi dove nessuno la conosceva, e da cuiinviava notizie sul numero altissimo di vittime e sul-la propria incolumità. Ma ci sono stati altri momen-ti — perlopiù a New York, perlopiù alle feste monda-ne — in cui non c’era niente che non fosse il suo cor-po. Nella strettezza del suo essere si sentiva clau-strofobica. Nella larghezza del suo essere si sentivaimpacciata. La forma e le dimensioni del suo corponon corrispondevano alla sua forma e alle sue di-mensioni.

Ora tutto è diverso. Ora lei è ritta sulla soglia dellastanza del suo corpo, nel vano della porta. Guarda illetto come attraverso un obiettivo. Quante personesono morte lì? Le lenzuola vengono sempre cambia-te, ma i materassi serbano ricordi. Sta guardando ilsuo corpo, che non corrisponde bene alle improntelasciate dagli altri corpi, non corrisponde bene al-l’impronta del suo corpo. Non ha mai desiderato es-sere una moglie o una madre, ed è felice di non es-serlo diventata. È felice di non avere mai possedutouna polizza sulla vita, e neanche un calendario. Mavorrebbe che qualcuno con il suo nome rispondessea molte domande personali.

La coscienza di lui è una stanza piena di specchi asenso unico.

Dovunque lui si volti vede se stesso. E tutti, fuori,possono vederlo. Non sa chi lo stia guardando, am-messo che qualcuno lo guardi. Ma sospetta che lei lostia guardando.

Stasera lui tornerà a casa. Troverà i suoi bambiniche giocano in soggiorno, dentro una grande scato-la di cartone. Sua moglie prenderà una caraffa dal fri-gorifero nuovo e farà dei commenti su quanto tienefreddo. Lui leggerà dieci pagine di un romanzo, oguarderà venti minuti di una sitcom, oppure penseràai suoi pazienti.

«Ti ricordi», comincerà sua moglie, e lui non sen-tirà il resto.

«Certo», dirà, seccato che lei abbia ricominciato. Èsempre la stessa cosa, sta sempre a rivangare, usan-do i momenti migliori come accuse.

«Dovremmo provare a tornarci, qualche volta»,gli dirà lei.

«Senz’altro», le dirà lui sapendo, come sa, che non

c’è verso che tornino in quel posto.«A proposito, quei calzoni ti vanno troppo larghi».«Ha telefonato l’idraulico».«La sorella di Ray sta morendo».«Siamo invasi dall’edera».«Ho letto sul giornale una cosa interessante».«Sono spuntati un paio di germogli».

I muri sembrano neri ma non lo sono, sono bian-chi.

I muri bianchi sono coperti da scritte nere; il reso-conto di tutto quello che gli è successo finora.

La sua vita non è ordinata secondo nessun crite-rio evidente. Parte dellasua prima ora è vicino alpavimento, e parte vicinoal soffitto. Il momento incui ha perso la verginità stascritto attorno alla presadella luce. Svita la lampa-dina. I capi dei filamentirotti sembrano desiderosidi riunirsi. Le sole cose cheriesce a trovare sono quel-le che non va a cercare.

In uno degli angoli, al-l’altezza degli occhi, c’è uncane in mezzo alla strada.E scritte sul muro, comeun cupo presagio, le gomme di un’auto che scrivo-no le loro scuse sull’asfalto.

Lui è un ragazzino, guarda il cane che tenta di lec-carsi ferite che non riesce a raggiungere. I guaiti delcane si imprimono nella sua memoria come un ditonella glassa. Fa un passo verso il cane, ma la stanzadel suo corpo si sgretola. Consuma la cena e va a let-to e al mattino non è un nuovo giorno, ma lo stessogiorno.

Ha cercato di cancellare il cane dalla sua vita. Maogni gomma si disfa. Perciò ha comprato della verni-

ce bianca. Ma sotto traspaiono sempre le lettere ne-re, benché aggiunga con il pennello strati su strati. Hacercato di modificare le parole, ma la punta della ma-tita continua a spezzarsi.

Ci sono stanze dove lei non è mai entrata.È perché la sua vita è grande, e lei non ne ha una

pianta. Nessuno conosce la sua vita meglio di lei, maciò non significa che lei conosca la propria vita. Haviaggiato per migliaia di chilometri, e usato chilo-metri di pellicola: in Zaire e in Russia, in Bolivia e inMalesia. Non è intervenuta — ha fotografato dellemorti che forse avrebbe potuto evitare, o almeno

rendere meno lente — epoi ha usato parole come«dovere».

A volte sente rumoriprovenire da altre stanze:delle risa da sotto il pavi-mento, una serie di colpicontro il lato opposto del-la parete, singhiozzi dasopra il soffitto, altre risa-te da una stanza lontana,il soffitto che perde: un’u-mida macchia scura.

«A cosa sta pensan-do?», le chiede il medico,tenendo due dita sul pol-

so di lei e gli occhi al proprio orologio.«Come?»«Sono solo curioso. Lo so come si sente, ma che

pensa?»Non ha capito che lei stava pensando in una for-

ma di scusa.Lei dice: «No, non lo sa come mi sento».«Certo che non lo so».«Mi perdoni. Mi sento solo frustrata».«Non c’è da scusarsi. È meglio che si sfoghi su di

me».

Lei ha fotografato una donna gravida stuprata dauna banda di ribelli. L’indomani mattina sul giorna-le, a metà della sezione di apertura, c’era una foto del-la donna che tendeva la mano verso l’obiettivo.

Ci sono stanze dove lui non è mai entrato. Perché lui usa soltanto le porte. Non ha mai scava-

to una galleria, non è mai salito lungo un condotto,non ha mai staccato un candelabro da un muro perinfilarsi nel varco. Non ha mai aperto una finestra.

«Sto pensando alla Giordania», dice lei.«A cosa in particolare?»«Alla sua bellezza. Stavo proprio pensando a quan-

to mi è piaciuta. Mi piace ripensarci adesso ancor dipiù di quanto mi sia piaciuto starci».

«Io non ci sono mai stato», dice lui. «Ho sempreavuto l’intenzione».

«Non è mai troppo tardi».«Mai dire mai».Lei ride e gli domanda se la aiuterebbe a morire.

La stanza della mezza età di lui è umida, molle co-me pane e color della malta.

Gli occhi di lei sono custoditi in una stanza rivesti-ta di garza inzuppata del Darjeeling di sua madre, in-fuso nella teiera di porcellana della bisnonna.

La stanza del passato di lui è continuamente rive-stita di nuovo.

Lui non sa perché. La carta da parati non si staccamai, non sbiadisce, non fa bolle. Ma ogni volta chetorna nella stanza — le scelte che non possono veni-re cancellate o ritinte — trova qualcosa di diverso. Èsconcertante, perché non è mai come se la ricorda-va. Perciò lì dentro non riesce mai a sentirsi a proprioagio, non si può mai fidare.

«Sposiamoci», dice trent’anni prima a sua mo-glie. Sono all’ombra di un albero, nel frutteto die-tro la casa di campagna dei genitori di lei. La musi-ca che viene dallo studio del padre fa battere le me-

JONATHAN SAFRAN FOER

38 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 27MAGGIO 2007

Non ha mai desideratoessere una moglie

o una madreÈ felice di non avere

mai possedutouna polizza sulla vita

Repubblica Nazionale

le l’una contro l’altra.Oppure, «Sposami», gli dice lei al centro di un pon-

te. Sotto, passa una barca con il fondo di vetro, da cuii turisti fotografano i pesci. Fra poche ore il lago ri-fletterà stelle morte da migliaia di anni.

Oppure sono a letto, incollati alle lenzuola, salma-stri, respirano con la bocca. Lo dicono contempora-neamente.

O non lo ha detto nessuno dei due. Non hanno maiavuto l’idea di sposarsi, tantomeno ne hanno parla-to. Ma trent’anni dopo si ritrovano sposati.

Una frazione di millimetro alla volta, la carta da pa-rati sta cominciando a invadere la stanza. La portanon si apre più del tutto. Le assi del pavimento si so-no perse come sabbia sotto la marea che perenne-mente si avvicina.

«Mi spiace», dice alla sua paziente. «È...»«Lo so», interviene lei. «So tutto quello che sta per

dire. Lo so. Ma pensavo che magari l’avrebbe fattocomunque».

«Mi perdoni».«Non deve scusarsi. Ho fatto male io, a chiederlo».«Forse non stiamo facendo abbastanza per alle-

viarle il dolore».Lei ride e dice: «Cambiamo argomento».Lui avvicina la sedia al letto e parlano d’altro, di tut-

to quello che non è il dolore di lei, cioè di niente, per-ché se il dolore non fosse tutto non sarebbe dolore,ma fastidio. Le cose di cui parlano sono solo diversifiltri per il suo dolore, come la proiezione di un filmattraverso un acquario o una finestra di vetro colora-to.

Lui le parla del lato inferiore del suo letto a castelloal college, dove qualcuno aveva inciso: STO DOR-MENDO.

Lei gli dice che per anni ha usato una scrivania pre-sa di seconda mano al mercatino con i cassetti chiu-si a chiave.

Lui le dice che quando era bambino la sua famigliamangiava sotto un lucernario, ma soltanto facendo

colazione di buon’ora e cenando tardi, perché altri-menti il sole scaldava troppo le posate e non si riu-scivano a toccare.

Lei gli parla dell’unico rullino che non ha mai svi-luppato.

Lui dice: «Una volta abbiamo traslocato dall’altraparte della strada, proprio dirimpetto. Stavamo tra-sportando gli scatoloni, e mio padre mi ha detto:“Traslocare dirimpetto è più dura che trasferirsi al-l’altro capo del mondo, perché si dà per scontato chelo facciamo da noi”».

«Ma perché traslocavate dirimpetto?»«La casa era migliore».«Più grande?»«No», risponde lui.

«Praticamente identica.Solo, mio padre voleva tra-slocare. La novità nascon-deva la somiglianza. Eraun’altra casa, e questo larendeva migliore».

Lei si volta a guardare lafinestra.

«Abbiamo un bel rap-porto. Io e lei. Non crede?»

Lui ride. «È vero».Lei allunga la mano ver-

so il polso di lui e dice:«Non posso farlo da sola».

Come finirà? La porta un giorno non si sposteràpiù? O la marea rifluirà? Porterà con sé la spiaggia?

Lei credeva che la stanza dei suoi cari fosse piena dispioncini.

Ma sono buchi di chiodi. Dove un tempo erano ap-pesi quadri. Non si ricorda più che aspetto abbianoquelle facce. Prova a evocarle — a strofinarne i ricor-di come altrettante Polaroid — ma non tornano. Enon strofina neanche troppo forte. A quanto pare,nella sua vita gli amici non hanno contato molto.

Questa conclusione non è cinica, e neanche ar-rabbiata.

«Lei ha fatto testamento?», gli ha chiesto un pome-riggio, mentre lui controllava alcuni monitor. Perqualche attimo lui non ha risposto, poi ha alzato losguardo.

«Scusi?»Lei ha detto: «Non importa».Lui ha detto: «Quando è nato mio figlio abbiamo

messo qualcosa per iscritto. Niente di lacrimevole,solo a chi tocca questo e quello. A dire il vero, una fac-cenda molto noiosa».

Il muro è fragile, i buchi sono grandi. Lei vede nel-la stanza del suo dolore fi-sico, attraverso il varco do-ve un tempo era appesauna foto della prima ami-ca che abbia avuto.

«Io ho una nipote», lei hadetto. «Lascerò tutto a lei».

«Come si chiama?»«Si chiama... Oddio,

adesso mi sfugge. Glielodico fra un attimo, d’ac-cordo?»

«D’accordo».La luce brilla da un

gruppo di buchi vicini:una costellazione.

Non c’era un punto, sul muro, dove stesse bene lafoto dei suoi

genitori.«Mi può dire qualcosa della sua vita?», gli chiede lei,

girandosi su un fianco.«Cosa, della mia vita?»«Qualunque cosa le vada di dirmi».«Magari un’altra volta».«Ha mille cose da fare».«Sì, e non ho niente da dire».«Mi parli. Dica solo qualcosa. Lo so che deve anda-

re. Parli soltanto un secondo, e poi se ne va».«È leiquella che è stata in Giordania. Leidovrebbe

raccontare. Al confronto le mie storie sarebbero tan-to noiose. Ma va bene. Dunque, che le devo dire? Nonavevo mai pensato di fare il medico. Glielo assicuro.Quando ero più giovane — all’università, intendo —volevo diventare musicista. Però non mi piacevaesercitarmi. Credo non fosse tanto la musica che miinteressava, quanto il fatto... non so, è la prima voltache ne parlo... non trovo le parole giuste. L’essere unmusicista? Capisce la differenza? Volevo essere unoche aveva fatto, più che uno che faceva. Uno ha sem-pre tante idee sulle cose che vorrebbe aver fatto.Mentre non so se pensavo abbastanza al farle. Sta be-ne?»

Un altro buco — dove un tempo era appesa la fotodi un fidanzato senza troppa importanza — è abba-stanza grande per farci passare il braccio. Lei ci infilala spalla, poi la metà superiore del corpo. E cade nel-la sua vita di sogno.

La libido di lui è rivestita di cashmere, jeans, vellu-to a coste e seta.

Quando era adolescente, erano nude. A vent’anni,indossavano brandelli di vestiti. Poi i calzerotti eniente altro, poi mutande col buco, poi calze consmagliature, poi biancheria intima. Poi gonne, poivestiti. Ora strati su strati.

C’è stato un tempo in cui per levare la camicia allamoglie gliela strappava. Ora accarezza i bottoni.Quando ha iniziato a preferire le donne vestite a quel-le nude?

Sua moglie gli ha chiesto se è omosessuale. La ri-sposta era no, e lui ha risposto no. Sapeva che volevafargli perdere le staffe, ma non le ha dato la soddisfa-zione.

«E non ho neppure l’amante, se era quella la pros-sima domanda».

«Non era quella».Quando si è ritirato negli scatoloni dei nuovi elet-

trodomestici? Quando ha cominciato a dormire nelmaterasso? C’erano sempre state così tante superfi-ci, tanti pavimenti, soffitti e pareti?

«La mia prossima domanda sarebbe stata: “Per-ché, nella tua sola vita, sei sposato con me?”»

Lui vuole essere in intima confidenza con la suapaziente, ma non averci rapporti sessuali. Vuole ve-stirla; vuole vestire tutti i suoi pazienti: le donne, gliuomini, i bambini, i vecchi. Vuole prendere i canimorti dalle strade e seppellirli con una coperta intor-no. Prima di entrare in una stanza si strofina le manifino a farle arrossare. Vuole avvolgere il mondo intanti strati.

«Credo che lei abbia voltato pagina», le dice. «Chesia sulla via della guarigione».

Ciascuno dei polmoni di lei è custodito nella pro-pria stanza, con pareti di specchi.

Le pareti si appannano ogni volta che espira, e ognivolta che inspira si ripuliscono.

Il suo ultimo respiro non le è sembrato un ultimorespiro. Se qualcuno le avesse chiesto, lì per lì, quan-ti respiri le restavano, avrebbe risposto migliaia. Op-pure avrebbe riso. O cercato di ridere.

Il suo ultimo colloquio con il medico è stato que-sto: «Mi sto abituando alla dieta di qui».

«Oh, no».«Sembra una bella giornata. Vada a fare un giretto».«Non ho tempo. Non ho mai tempo. Forse se lei

stesse meglio e tornasse a casa...»«Esca, e mi dica com’è».«Domani le dirò come è stato stasera».«In definitiva», ha detto lei, con il tono che le man-

cava sotto le parole come la terra sotto un condan-nato.

«In definitiva cosa?»«Niente».«Che cosa?»Lei ha sorriso e ha detto: «Stavo per diventare me-

lodrammatica».Lui è andato a visitare gli altri pazienti.Lei ha espirato. Nel vapore che appannava la pa-

rete stavano scritte delle parole.Lei ha inspirato.

La stanza dell’incidente di lui è rivestita di tele-schermi.

Il nuovo paziente non ha visto arrivare l’automo-bile, ma adesso può vederla da ogni angolazione, alralenti e a velocità normale, in avanti e a ritroso, dalbasso e dall’alto, in primo piano e da lontano. Può ve-dere sotto la propria pelle, le costole che si spezzano,i reni, la cavità toracica che si riempie di fluido. Vedeil vetro fra i capelli del conducente, l’anello nella sca-tola nel cassetto di cortesia, la musica che gira intor-no all’antenna.

E non solo l’incidente. Gli schermi riproduconotutto quello che non ha mai visto: la sua espressionela prima volta in cui ha fatto l’amore, quello che suc-cedeva mentre dormiva sul divano di suo fratello, lagente che leggeva attorno alla piscina mentre lui trat-teneva il fiato, l’altro lato della porta d’ingresso dellasua casa da bambino, le stelle a mezzogiorno, i fili deltelefono a mezzanotte, le lettere nelle buste maiaperte, le lettere mai scritte nelle penne.

Il medico entra nella stanza, guarda la cartella esorride.

«Siamo pronti per guarire?»Traduzione di Massimo Bocchiola

(© Jonathan Safran Foer all rights reserved)

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 39DOMENICA 27MAGGIO 2007

C’è stato un tempoin cui per levare

la camiciaalla moglie gliela

strappavaOra accarezza i bottoni

IL LIBRO

Esce con il titolo italiano United Stories of America l’antologia della prestigiosa rivistaGranta che raccoglie il meglio degli scrittori americani sotto i 35 anni. Nella primaraccolta, uscita nel ’96, erano presenti autori che poi sarebbero diventati fenomeniletterari come Jonathan Franzen e Jeffrey Eugenides. La nuova edizione, curatadal direttore di Granta Ian Jack e da scrittori come A.M. Homes, è pubblicatada minimum fax (350 pagine, 16 euro, in libreria dal 31 maggio)Il racconto di Jonathan Safran Foer, autore di Ogni cosa è illuminata,pubblicato in queste pagine è uno delle ventuno storie contenute nel libro

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Repubblica Nazionale

“Ci ho messo anni a domarlo, sedurlo”,dice il lettone Mischa Maiskydel suo Montagnana del 1720. Ma tutti

i violoncellisti hanno un rapporto privilegiatocon lo strumento “più imparentato con la voceumana” e adorato da Bach. Così il festivaldi Manchester lo ha recentemente celebrato...

40 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 27MAGGIO 2007

no Gianandrea Noseda. Perché il violoncello? Perché è il più

immaginifico tra gli strumenti, «il piùimparentato con la voce umana», so-stiene Maisky. Il più struggente nel suo-no sospiroso, ricamatore di un tessutosonoro tanto più denso e brunito rispet-to al violino (il violoncello, ha detto qual-cuno, sta al violino come il cioccolatoamaro sta a quello al latte). Sensuale an-che a vista, sfoggia un gioco attraente dicurve nel corpo ligneo, riletto con estroda Man Ray, che col suo Violon d’Ingres(1924) ritrasse nuda, di schiena, l’am-maliante donna-violoncello. E in veritàla sagoma dello strumento pare del tut-to femminile: «Per questo mi piace ab-bracciarlo», confessa Ralph Kirshbaum,fondatore e direttore del Cello Festival,il quale possiede un Montagnana del1729, che di tanto in tanto va a far «cura-re» da un sapientissimo liutaio di NewYork. «Quando avevo sei anni», ram-menta, «ebbi un precoce colpo di fulmi-ne per il violoncello. Mi resi conto che te-nerlo tra le braccia dà una soddisfazionesorprendente: ne percepisci con imme-diatezza la vibrazione, il riverbero delsuono ti investe fisicamente».

È uno strumento così “umano” chepuò arrivare a scrivere di se stesso, come

per la vita con felicità reciproca». Chio-ma fluente e tratti aguzzi e selvaggi, Mai-sky è stato uno tra gli ospiti di rilievo delCello Festival di Manchester, folto radu-no internazionale di devoti al violoncel-lo: esperti, dilettanti, studenti, artisti af-fermati e spettatori maniaci, di quelliche sanno fanati-camente tutto sulloro oggetto deldesiderio. Orga-nizzato per la no-na volta dall’86, ilfestival è un tribu-to gigantesco alpiù evocativo e si-nuoso degli stru-menti ad arco, na-to in Italia verso lametà del Cinque-cento.

Adorato da Ba-ch (lo testimonia ilmiracolo delle seiSuites per violon-cello solo), esaltato da Beethoven eBrahms, fu amatissimo dai grandi delNovecento, da Prokofiev a Shostakovi-ch e a Britten, autori di pezzi scritti ap-positamente per un interprete leggen-dario come Rostropovic, morto a ot-

la

delVoceVioloncello

tant’anni qualche settimana fa. Il suofantasma aleggiava onnipresente alfestival di Manchester, sollecitato daomaggi, dediche, ricordi, poster, pre-sentazioni di libri (è fresca di stampa,edita da Faber and Faber, l’affasci-nante biografia della sua ex allievaElizabeth Wilson: Mstislav Rostropo-vic-Cellist, Teacher, Legend, 380 pagi-ne, 25 sterline). Stand pieni dei suoidischi occupavano il salone d’ingres-so del Royal Northern College of Mu-sic, la prestigiosa università nelle cuisale scorreva il ricco programma diconcerti e seminari, tenuti da violon-cellisti mitici come Yo-Yo Ma, Mi-scha Maisky e Natalia Gutman. Il tut-to accolto da un pubblico entusiastae molto musicale, educato dallaqualità dell’offerta di cui può vantar-si questa città britannica, gremita digiovani (è in proporzione la più po-polata di studenti universitari in Eu-ropa) e sede di due tra le migliori for-mazioni sinfoniche inglesi: la Man-chester Hallé, che nel suo periodod’oro fu guidata da Sir John Barbi-rolli, uno tra i massimi campioni delpodio del secolo scorso, e la BbcPhilharmonic, oggi diretta dal gio-vane e lanciatissimo maestro italia-

Musicain corpodi donna

MANCHESTER

Ogni violoncello ha un’ani-ma e racconta la sua sto-ria. Può dare conto, tantoper cominciare, dell’abi-

lità del liutaio al quale deve la sua gene-si: nei casi più pregiati la fabbricazionerisale a Stradivari e Montagnana, talen-ti ineguagliabili, appartenenti a secolidistanti. Ma un violoncello può dircitanto di più: se è stato amato, accudito eben suonato. Può incapricciarsi di uninterprete o detestarne un altro. Può ri-bellarsi al padrone o offrirgli doni fanta-stici. Narra il violoncellista lèttone Mi-scha Maisky, allievo di Rostropovic e diPiatigorsky, come dire i due vertici delgenio russo nell’arte di suonare il vio-loncello: «Ciascuno di noi coltiva unrapporto indefinibile e profondo col suostrumento, basato sulla conquista diuna speciale sintonia. Io suono un Mon-tagnana del 1720, magnifico e riottoso.Ci ho messo anni a domarlo, ammansir-lo, sedurlo». La relazione, nel tempo, hapassato varie fasi: «Quando lo conobbim’invaghii, seguì un fidanzamento conpassaggi tormentati e ora siamo sposati

792,5i millimetri

della lunghezzadel fondo

468i millimetri

della larghezzamassima

216i millimetri

della lunghezzadella testa

Yo Yo Ma Amato dai fan come una vera star,spazia dal classico al folk al tango

LEONETTA BENTIVOGLIO

MEDICEOImmaginidi fronte, retroe latoe particolaridel violoncello“Mediceo”di AntonioStradivaridel 1690al qualesi riferisconole misurea sinistra

Qui accanto,modelloin cartaper la cordiera

Repubblica Nazionale

Sentire le note prima di suonareecco il segreto dei grandi interpreti

CI SONO due cose del mio organismo di cui pos-so vantarmi: buone mani e buona memoria. Ri-cordo tutti i violoncellisti dei concorsi ai quali hopreso parte, a partire dagli anni in cui studiavo alConservatorio di Mosca. Nel 1944 vinsi il primopremio in un concorso studentesco per la mi-gliore esecuzione di musica contemporanea. Unanno dopo, quando avevo diciott’anni, vinsi unconcorso aperto a tutta l’Unione Sovietica. Nel‘47 partecipai al mio primo concorso internazio-nale a Budapest, e nel ‘50 suonai al concorso HansWihan, a Praga: in entrambi i casi vinsi il primopremio ex aequo con Daniel Shafran.

In quel periodo le varie scuole di vio-loncellisti erano incredibilmente di-verse tra di loro, e io ero in grado di ca-pire di quale nazionalità fosse unvioloncellista solo guardandolosuonare: senza conoscere il suo no-me, potevo dire se era tedesco, fran-cese o russo. I violoncellisti di scuola

francese, ad esempio, usava-no un puntale molto corto etenevano lo strumento in posi-zione quasi verticale, come un con-trabbasso. Poi il grande violoncellistaTortelier rivoluzionò tutto, inven-tando il puntale che porta il suo no-me: lungo e curvo, consente di te-nere il violoncello in posizione piùalta e piatta, più simile alla posi-zione orizzontale del violino. An-ch’io adottai il puntale Tortelier,perché questa posizione più altafaceva diffondere meglio il suo-no, dato che le “effe” sul davan-ti dello strumento non erano

più orientate verso il pavimento, ma in direzionedella sala.

All’epoca i concorsi internazionali erano mol-to importanti, essendo l’unica opportunità, per ivioloncellisti dei vari paesi, di incontrarsi e con-frontarsi. Dopo la caduta del comunismo, il crol-lo del Muro di Berlino e l’eliminazione delle bar-riere politiche, le differenze tra le scuole nazio-nali, nel nostro mondo, sono quasi scomparse.Oggi il livello generale si è alzato notevolmente: cisono migliaia di brillanti giovani violoncellistiche possiedono una tecnica ineccepibile, ma

mancano quasi sempre di personalità. Latecnica è solo uno strumento che con-

sente di esprimersi, e se un violoncel-lista è troppo impegnato a cercare laperfezione tecnica non riuscirà a tra-smettere la cosa più importante,cioè il sentimento della musica.

Per farlo è necessario leggere conattenzione lo spartito, ascoltare tutto

il pezzo nel proprio orecchio interno eusare l’immaginazione per cercare il

suono adatto al sentimento della musica. Igiovani musicisti devono sforzarsi di fare questolavoro “silenzioso” prima di ogni altra cosa, an-cor prima di toccare lo strumento. Limitarsi asuonare in modo pulito e a gran velocità, o usareun suono molto bello come uno scopo in sé, è unatentazione che distoglie dalla comprensione del-l’essenza della musica. Ogni giovane musicistadovrebbe capire tutto questo. Solo così potrà faremergere la sua personalità individuale, coglierelo spirito del compositore e comunicare il senti-mento di un’opera, ricreandola come se la com-ponesse lui stesso, in quel momento, sulla scena.

(testo raccolto da Elizabeth Wilson)

I più antichie preziosi, operadei liutai italianidel 1600 e 1700,raggiungonovaloriastronomici

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 41DOMENICA 27MAGGIO 2007

gnana del 1720: lo stesso anno in cui Ba-ch scrisse le Suites per violoncello! M’in-curiosì la coincidenza. Non voleva ven-dere il suo tesoro, preferiva darlo a unbravo musicista. Andai a trovarlo: avevanovantaquattro anni ed era semipara-lizzato. Suonai per lui, che pianse dicen-domi: ora posso morire contento. Me locedette al trenta per cento del suo valo-re, che corrisponde a vari milioni di eu-ro. Lo acquistò per me la American IsraelCultural Foundation».

Spiega l’eccellente Gemma Rosefield,inglese, venticinque anni, vincitrice2007 dell’ambitissimo premio PierreFournier: «Cominciai a studiarlo a noveanni e ne rimasi subito incantata, irreti-ta. Da piccola, con mia madre, avevoascoltato molta opera lirica, e riconobbinel magico suono del violoncello le vocidelle cantanti più ispirate. Ora ho unAlessandro Galliano del 1704, che hauna bella storia: era di Giorgio IV d’In-ghilterra, il quale lo ricevette dal re diSpagna. È diventato il mio partner. Inaereo noi violoncellisti dobbiamo sem-pre comprare un secondo biglietto:gran vantaggio, nei viaggi lunghi, avereaccanto un compagno silenzioso. Que-sti sono strumenti di valore astronomi-co, nessuno se li può permettere. Il pro-

accade nel romanzo di Wolf Wondrat-schek Mara-Autobiografia di un violon-cello (Ponte alle Grazie, 203 pagine, 13euro), in cui un violoncello del 1711,opera di Stradivari, narra con grazia lesue vicissitudini attraverso i secoli e ilsuo cangiante rapporto coi padroni. Os-serva il divo Yo-Yo Ma, americano natoa Parigi da genitori cinesi, ispiratore eprotagonista di una splendida serie dipiccoli film sulle sei Suites di Bach, affi-dati a sei registi diversi, che ha contri-buito alla sua fama planetaria: «Un pia-nista ha il corpo distante dal suo stru-mento, un violinista offre al violino la so-la guancia. Il violoncellista gli si conse-gna per intero, tenendolo con braccia egambe: è una prova di forza, ogni lievitàdel movimento è illusoria».

«Il violoncello è femmina», incalzaconvinto Mischa Maisky. «Nella mia lin-gua, il russo, è di genere femminile,mentre in tedesco e in inglese diventamaschile, come in italiano: ma non mipare giusto». E racconta come venne inpossesso del suo prezioso strumento:«Nel novembre del 1973, quando avevolasciato la Russia da un anno, debuttaialla Carnegie Hall di New York. A fineconcerto arrivò uno spettatore, confi-dandomi che suo zio aveva un Monta-

prietario del mio è un uomo d’affari, fi-gura come sponsor e segue ogni mioconcerto».

Anche lo strumento del solista italianoEnrico Dindo, ospite di successo del Cel-lo Festival di Manchester, è “finanziato”dall’esterno: «Suono un Pietro GiacomoRogeri del 1717, di proprietà della Fon-dazione Pro Canale». Ne parla come fos-se una persona: «È un individuo, col suospirito e le sue memorie. Difficile pensa-re in questo modo a un pezzo di legno,ma succede. Mio cognato, che fa il mate-matico, è inorridito dall’idea. Perché gliparli così?, domanda stupefatto. Non acaso, all’interno dello strumento, c’è lacosiddetta “anima”, che trasmette le vi-brazioni della tavola armonica al fondo».Dice che sono tanti gli ostacoli iniziali al-l’approccio: «Ci vogliono almeno unpaio d’anni di studio per ottenere unaqualità di suono accettabile. Inoltre èduro l’apprendimento dell’articolazio-ne delle note. A differenza di quanto ac-cade per esempio nella chitarra, nel vio-loncello non esistono tasti: c’è un’unicatastiera nera, senza suddivisioni. Biso-gna imparare a collegare il movimentodel dito all’ascolto dell’altezza del suo-no, e ci vogliono pazienza e costanza. Mapoi, che felicità impagabile».

MSTISLAV ROSTROPOVIC

PROVE D’AUTORESchema e modello per la f destra del violoncellodella “forma B” di Antonio Stradivari. Nel tondo sopra a destra,Mstislav Rostropovic. Si ringraziano il museo civico e il museo stradivariano di Cremona

MODELLOQui accanto,modello in cartonedel manicoper il violoncellodella “forma B”di StradivariTutte le illustrazionidi questa paginasono trattedal volumedi Charles BeareAntonio Stradivari.L’Esposizionedi Cremonadel 1987,Londra 1994

Mischa MaiskyL’unico ad avere avuto per maestrii grandi russi Piatigorsky e Rostropovic

Natalia Gutman “È l’onestà nell’arte”, diceva di leiil grande pianista Sviatoslav Richter

Enrico Dindo“Il mio Rogeri è un pezzo di legno ma ha uno spirito e una memoria”

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L’eredità di Martin Heidegger

Adamo, Eva e la filosofia

Fascismo ed ermeneutica

Fondamentalismo e religioni

L’uomo nell’età della tecnica

La politica è ancora un valore?

La maschera della persona

L’ateismo della ragione e le ragioni della fede

MicroMega /Almanacco di filosofia

Repubblica Nazionale

Gigantedi New YorkDetta anchemostruosa

per le sue grandidimensioni,ha un colore biancoceruleo striato di violetto e la tipicaforma “a borsetta”Poiché il saporeè delicato e la consistenzacompatta,le si addiconocotture lievi,come il carpaccioscottato

Violetta di NapoliForma allungata,a mo’ di clava, e gusto decisoper la melanzanadiffusatra Campania e SiciliaLe dimensionivariano da medie a grandi,il colore è violettoscuro, lucidoTra le oblungheesistono anchele varietà nanee bianche

42 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 27MAGGIO 2007

i saporiVerdure di stagione

«Iddu mi porse un pezzetto di pane e mi disse “Canapè”, e io ci risposi “Canapè sta minchia! Voglio il timballo di me-

lanzane io!!”». Dallo schermo del Padrino II, la rabbia del boss Frankie Pentangeli è una rivendicazione di appar-tenenza mediata dalla gola: il diritto al sicilianissimo timballo di melanzane.Sono questi i primi giorni di raccolta di una verdura popolare e raffinata come pochissime altre. Difficile trovareortaggio più versatile e controverso, amatissimo da bambini-adulti-vecchi e pochissimo da medici e nutrizioni-sti, ingrediente straordinario per menù frettolosi e ricette complesse, economico quanto basta a comprarne in

quantità ma anche oggetto del desiderio nelle produzioni di nicchia.Importata nel tardo Medioevo dalle aree più calde di Cina e India, dopo secoli di sospetti e fraintendimenti l’abbiamo adot-

tata e tradotta in mille ricette, a cominciare dal Sud (per motivi di affinità climatica). Non a caso, dei tre milioni di quintali pro-dotti ogni anno, quasi un terzo arriva dalla Sicilia.

La cuciniamo in tutti i modi, felici che il valore nutritivo non eccelso — pochi grassi, proteine, glicidi, vitamine, sali mine-rali — sia pari allo scarso impatto calorico. Da qui a farne una delle verdure “mai più senza” dei regimi alimentari, il passo èstato brevissimo. Così docile da risultare gradevole nelle ricette più penalizzanti — alla griglia, spadellata nell’antiaderente,al vapore e insaporita (si fa per dire) con salsa di soia, erbe, germogli — ma addirittura sontuosa nelle ricette barocche chehanno fatto il giro del mondo.

Nata per ingannarci. A differenza di tanta ortofrutta che al primo sguardo ci dice tutto o quasi di sé, la melanzana è co-munque di bell’aspetto: la buccia lucida e liscia, la consistenza compatta, i colori netti, al momento della scelta ci sembranopiù che sufficienti. E invece bisognerebbe imparare che il picciolo attaccato e di un bel verde intenso testimonia freschezza,mentre una protuberanza alla base è segno di polpa soda e con pochi semi. In più, nell’annoso imbarazzo tra tonde e lunghe,le prime sono perfette per impanature e grigliate, quelle allungate per dadolate e ripiene.

Non avevano tutti i torti i botanici medievali che la battezzarono Solanum Melongena. Perché la mala insana era resa taleda un ingrediente, la solanina, che ancora oggi fa storcere il naso agli specialisti di intolleranze e allergie. La melanzana, infat-ti, è una Solanacea — come pomodoro, peperone e patata, ma anche tabacco, belladonna e stramonio — famiglia di piantecontenenti piccole quantità di vari alcaloidi tossici, solanina in primis. Tra gli effetti descritti, spiccano la poca digeribilità e ilmal assorbimento di calcio (che la saggezza culinaria “tampona” da secoli con l’abbinamento ai latticini, dalla mozzarella del-la parmigiana al latte del purè). In più, la somiglianza con i funghi le rende meravigliose impanate, fritte, al funghetto, ripiene.Tutte preparazioni perfettamente antitetiche ai cardini della dietologia. Così, malgrado alcuni piccoli accorgimenti — aspor-tazione delle parti verdi, spurgatura, cottura — riducano al minimo la tossicità, nei casi di affaticamento digestivo il consiglioarriva puntuale come un orologio svizzero: abolire per qualche settimana il consumo di solanacee, a partire dalla melanzana.

Nel caso siate stati colpiti dal divieto, consideratelo un esercizio di pazienza gastronomica. Soffrirete meno pensando alpasticcio di melanzane con salsa al cioccolato inventato da Ernesto Iaccarino, sulle orme di uno dei dolci più originali e in-credibili della costiera amalfitana, da gustare a fine terapia. Un tuffo nel mare magico sotto il promontorio di Sant’Agata ri-scatterà le calorie in eccesso.

La moussakaLa moussaka è una ricetta-bandiera della cucina greca che si assaporatiepida o fredda. Si presenta come una “scatola” di melanzanerealizzata con le bucce – tagliate sottili e sbollentate – a mo’ di involucroAll’interno, si alternano strati di melanzane fritte e un ripieno fattocon besciamella, polpa di melanzane, soffritto di cipolla, agnellocotto con cipolla e brodo (non troppo a lungo), prezzemolo, uovoe concentrato di pomodoro. Dopo una breve pre-cotturaa bagnomaria, la pirofila viene infornata per un’ora

Le dark ladiesdell’orto

Melanzane

Molto amato dai golosi, pochissimo da medici e nutrizionistiÈ difficile trovare un ortaggio più versatile e controversoa cominciare dall’origine del suo nome: “mala insana”.Colpadi un ingrediente, la solanina, che può dare problemi di digestioneMa che non può far dimenticare la bontà di ricette, tradizionalio nuove, come la parmigiana o il pasticcio con salsa al cioccolato

LICIA GRANELLO

16 le calorie presentiin 100gr. di melanzana

135 le varietà di melanzanenella banca dei semi

377 le tonnellate prodotte in Italia

mila

Repubblica Nazionale

Tonda di FirenzeLa violetta pallida è di forma globosa,tondeggianteLa polpa è tenerama compatta, il gusto dolce, pocoacido, i semi radi,

la buccia violachiaro. Le fetterotonde e carnose sono

ideali da friggereimpanate o da cuoceresulla griglia

Rossa di RotondaNome botanico:solanum

aethiopicum,ma è più conosciuta come merlingiana

a pummadora

Piccolae tondeggiante,ha colore arancio

intenso e gustoleggermentepiccante

Si conservanzertata, ovverolegata a grappoliPresidio Slow Food

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 43DOMENICA 27MAGGIO 2007

itinerariBruno Soleri,approdatodue settimanefa alle cucinedel “Finger’s”di Milano, è cuocotalentuoso

ed errante, sospesotra Mediterraneo e OrienteTra i suoi piatti più riusciti,la piovra arrostitacon fave e melanzanee il piccolo napoleonedi parmigiana

Intorno alla piccola,preziosa “capitale”orticola del Parconazionaledel Pollino – quasi200.000 ettaridi verde protetto,il più grande d’Italia– la biodiversità

regna sovrana. A partire dalla rossa melanzanaafricana, perfetta per torte e conserve

DOVE DORMIREAL VECCHIO MULINOVia Vittorio Emanuele 47Tel. 0973-667193Camera doppia da 60 euro, colazione inclusa

DOVE MANGIAREDA PEPPECorso Garibaldi 13Tel. 0973-661251Chiuso lunedì, menù da 25 euro

DOVE COMPRAREPRODOTTI TIPICI FLAVIA DE MARCOCorso Garibaldi 1Tel. 0973-667831

Rotonda (Pz)Da un pranzofra artisti qui è natala sontuosa pastaalla Norma, creatain onore dell’opera di Vincenzo BelliniProtagonistala melanzana,affettata e fritta,

a sovrastare gli spaghetti con ricotta salatainfornata, pomodoro e basilico

DOVE DORMIREELIOS ROOMSVia Manzoni 81Tel. 095-317446Camera doppia da 80 euro, colazione inclusa

DOVE MANGIAREIL SALE ART CAFÈVia Santa Filomena 10Tel. 095-316888Chiuso a pranzo e martedì, menù da 30 euro

DOVE COMPRAREBIO ALIMENTARI CRISTALDIVia Pacini 66Tel. 095-2501826

CataniaAntica tradizioneche abbraccia cittàe provincia finoa Maiori,la mulegnana c'a'

ciucculata vantacento segretissimericette custoditedalle famiglie

Fritta una o più volte, asciugata o morbida, cosìla melanzana diventa prelibato dolce barocco

DOVE DORMIREVILLA AVENIAVia Tasso 83Tel. 089-252281Camera doppia da 90 euro, colazione inclusa

DOVE MANGIARELA SPAGNOLAVia Porto 96Tel. 089-227759Chiuso lunedì, menù da 35 euro

DOVE COMPRAREO SOLE BIOSan Marzano sul SarnoTel. 081-5186682

Salerno

Melanzana è una di quelle parole che si definiscono “connotative” perché contengono in sé ungiudizio sull’oggetto rappresentato. L’etimologia non lascia spazio a equivoci: “melanzana” èla trasposizione italiana del latino mala insana, frutto insano, pericoloso per la salute. La pa-

rola nacque sul finire del Medioevo per qualificare negativamente il frutto che oggi tanto ci appassio-na; per catalogarlo fra le cose da evitare. «Pomo sdegnoso» la chiama Bartolomeo Scappi, il cuoco piùrappresentativo dell’Italia rinascimentale.

Ma perché questo “sdegno”? Per un pregiudizio, sembrerebbe, di natura sociale: la melanzana en-trò rapidamente a far parte dei prodotti tipici della cucina povera, e fu perciò disdegnata dalla “buonasocietà”.

Al pari di altre piante orientali, la melanzana fu portata in Europa dagli arabi, che la impiantarononelle regioni che controllavano più direttamente, la Sicilia e la Spagna. Già menzionata nei raccontidel duecentesco Novellino, è rappresentata iconograficamente nei Tacuina sanitatis del Trecento.

La diffidenza nei suoi confronti, durata assai a lungo, appare regolarmente legata a considerazionisul suo uso popolare. «Pianta volgare» la chiama il naturalista Pietro Andrea Mattioli nel 1568, rife-rendo pratiche diffuse tra il volgo: «Mangiansi volgarmente fritte nell’olio con sale e pepe come i fon-ghi». L’anno successivo troviamo una attestazione analoga nella “lettera sulle insalate” del marchi-giano Costanzo Felici, indirizzata al maestro e amico Ulisse Aldrovandi: anch’egli si mostra sospetto-so nei confronti delle melanzane e non condivide l’entusiasmo di quanti le mangiano «avidamente,per il più cotte nelle brage e gradelle […] et anco fritte».

Queste stesse attestazioni dimostrano, peraltro, come il consumo di melanzane fosse già allora (eprobabilmente da secoli) diffuso nelle pratiche quotidiane di cucina. Negli stessi decenni, analoghisospetti gravavano sul pomodoro, il nuovo prodotto di origine americana che — ci informa lo stessoFelici — alcuni «ghiotti et avidi de cose nove» gustavano «al modo della melanzana», fritto nell’olio econdito con sale e pepe.

Nei maggiori ricettari di età moderna, che esprimono la cultura gastronomica delle classi alte, la pre-senza della melanzana è estremamente modesta. La sua controversa immagine, legata a uno “statu-to” di assoluta marginalità sociale e culturale, si conferma e anzi si amplifica, accentuata, a un certopunto, dalla particolare attenzione di cui la melanzana comincia a godere nella cucina ebraica. Nel1631 il trattato di scalcheria di Antonio Frugoli accomuna gli ebrei al popolino, sostenendo che le me-lanzane «non devono essere mangiate se non da gente bassa o da ebrei». La medesima attribuzione èribadita una decina d’anni dopo dall’agronomo bolognese Vincenzo Tanara, che definisce le melan-zane «vivande per campagna… e massime per la famiglia (ovvero la servitù, ndr) siccome per gli he-brei sono costumato cibo».

Questa singolare etichetta la troveremo ancora in pieno Ottocento, nella Scienza in cucina di Pellegri-no Artusi. Ma il buon Artusi ne avrà a quel punto rovesciato il senso, notando che se i petonciani (così eglichiama le melanzane) «erano tenuti a vile come cibo di ebrei», ciò starebbe solo a conferma che «in que-sto, come in altre cose di maggior rilievo, [essi] hanno sempre avuto buon naso più de’ cristiani».

Il “pomo sdegnoso”, cibo plebeoche Artusi portò sulle tavole ricche

MASSIMO MONTANARICaponataTagliate a cubetti,

spadellate e asciugatele melanzane. Cuocete

con peperoni spellati e sfilettati, sedano tagliato

fine e sbollentato, cipollarosolata, più zucchero,

pomodoro, aceto, capperi,acciughe tritate, olive nere,

uva sultanina e pinoli

FunghettoRidotte a tocchetti senza

sbucciarle e marinate nel sale, le melanzane fritte

e asciugate tornanoin padella con un cucchiaiodel loro olio e uno spicchio

d’aglio, base della salsa di pomodoro. Cottura dolce

e breve per conservare la consistenza

ParmigianaDopo la marinatura nel sale,le rondelle di melanzanevanno infarinate, fritte in extravergine e asciugate(o scottate in antiaderentenella versione light)Nella teglia si alternano a salsa di pomodoro,parmigiano e mozzarella di bufala fatta sgrondare

Al cioccolatoBollite in acqua e zucchero,le melanzane raffreddatediventano guscioper il ripieno fatto con la loro polpa, amarettisbriciolati, ricotta, pinoli,uovo, vaniglia e cannellaCotte in forno, si ricopronocon fondente fusoDa gustare fredde

Repubblica Nazionale

le tendenzeVita moderna

Lavorare stanca, ma tra inquinamento acustico, ambientisovraffollati e luci sbagliate stanca ancor di più. Eppurele “fabbriche delle idee” possono migliorare e rendere la vita piùfacile a chi trascorre gran parte della propria giornata davantia un computero seduto alla scrivania. Basta un arredamentoergonomico, qualche tocco di colore e un po’ di progettualità

Si dice che per affrontare le sfide del mer-cato globalizzato il made in Italy devepuntare su creatività e innovazione. E adirlo si fa presto. Ma come realizzarlo? Lacreatività è un valore inafferrabile e alea-torio, difficile da misurare secondo la

classica ricetta dal taylorismo. Ma, nel dilemma, sipuò partire da una considerazione elementare:concentriamo l’attenzione sul posto dove il lavorointellettuale si esprime per otto-dieci ore al giorno:l’ufficio. I dati dicono che le caratteristiche dell’uffi-cio possono migliorare o peggiorare del cinque percento la prestazione del singolo lavoratore e fino al-l’undici per cento quella di un gruppo: a sostenerloè lo studio di un organismo governativo inglese, laCommission for Architecture and the Built Envi-ronment. Proprio sulla base di queste e altre cifre,messe a punto in un documento di studio della so-cietà Diomedea, dopodomani si tiene a Milano ilconvegno “Ufficio fabbrica creativa”, primo di unaserie di eventi promossi da Assufficio e Federlegno-Arredo per approfondire un argomento nel qualesiamo ancora all’età della pietra. E infatti, ai moltidati che ne dimostrano l’importanza corrispondo-no conseguenze pratiche marginali: buon ufficio,nella migliore delle ipotesi, continua a significareedifici firmati da grandi architetti, arredamento er-

gonomico e di design, colori, magari spazi per so-cializzare e rilassarsi, come bar o palestre. Ma le esi-genze specifiche del lavoro intellettuale restano ina-scoltate.

Intanto, un dubbio: l’ufficio creativo, alla fine,quante persone riguarda? Paolo Borsani, presiden-te di Assufficio, offre una chiave per la risposta: «Neldopoguerra l’ufficio era solo il luogo della contabi-lità. Dagli anni Sessanta-Settanta è diventato anchespazio di rappresentanza. Nel ventennio successi-vo lo sviluppo del terziario ne ha fatto uno spaziomolto più grande, pieno di scrivanie, simile a un al-veare. Ora, mentre la delocalizzazione della produ-zione provoca la progressiva deindustrializzazionedell’Occidente, il futuro prefigura un nuovo tipo difabbriche: le fabbriche delle idee». Oggi, secondo lostudioso americano Thomas Davenport, i lavorato-ri di queste nuovefabbriche, i knowled-ge workers, sono negliUsa circa il ventotto percento della forza lavoro.In Europa, oscillano in-torno al venticinque percento. E non si tratta di cal-coli generosi. Secondo fontiche utilizzano altri criteri discelta, le percentuali arrivano fi-no al cinquanta (De Masi), conuna punta del sessanta per cento(Censis). In ogni caso, siamo dinan-zi a numeri rilevanti.

La costruzione di uno spazio orga-nizzato per rispondere ai bisogni di que-sti milioni di persone ha conseguenze si-gnificative. Un esempio è quello dell’oppo-sizione fra open space e uffici isolati. «L’openspace», nota Enrico Cietta, che ha elaborato ildocumento di studio, «viene spesso scelto perpure ragioni di risparmio, senza tenere contodelle esigenze dei mestieri della conoscen-za. La logica produttiva della fabbrica, in-vece, applicata all’ufficio, dovrebbeorientare verso una terza via, che per-metta di alternare lavoro di gruppo ecomunicazione a quiete e concen-trazione individuale».

L’ufficio come casa della creati-vità, quindi, non è solo un’espres-sione suggestiva, ma una possibilità trascurata. «Imiglioramenti avvenuti in trent’anni nelle fabbri-che», osserva Remo Lucchi, imprenditore che coor-dina il progetto Ufficio fabbrica creativa, «hanno fat-to aumentare la produzione di cinquanta volte. Ne-gli uffici, siamo ancora al problema di far entrare piùscrivanie possibile. Eppure, se consideriamo chesull’arco di venticinque anni i costi di un ufficio si di-stribuiscono così: 6,5 per cento per la costruzionedell’immobile, 1,5 per arredamento e manutenzio-ne, 85 per salari — il lavoro intellettuale è particolar-mente costoso —, possiamo concludere che gli im-prenditori pagano molto gente che poi non si preoc-cupano di far lavorare con efficienza».

A tutto questo, occorre aggiungere che un buonufficio rende anche le persone più serene e riduce laconflittualità delle relazioni sociali e sindacali. Far-lo, naturalmente, è un’operazione sofisticata, da co-struire su misura per ogni azienda come un abitosartoriale. Per questo il convegno di Milano radunacompetenze diverse. Affiancando a designer e ar-chitetti come Piero Lissoni e Pierluigi Cerri artisticome Michelangelo Pistoletto o economisti comeIrene Tinagli. Ma è solo il primo passo di un percor-so che si intuisce complicato. Per il momento l’“uf-ficio paradiso” resta al confine tra sogno e progetto.Speriamo che non si riduca a utopia.

AURELIO MAGISTÀ

44 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 27MAGGIO 2007

FEMME FATALEForme morbideche sembrano ripiegarsisu se stesse. Femmeè la nuova poltronadi Carlo Colombo per Arflex

C’è un futuro creativo

nelle stanze dei travet

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SCAFFALI IN MODULOUno sull’altro, componibilie rotanti, i moduli Kaardi Setzu e Shinobu Ito sonoil nuovo concettodi scaffalatura SpHaus

2

SOTTILI RIFLESSIONIMarc Sandler ha ideatoper Serralunga LadyJane, abat-jour con incisioneirregolare che lascia filtrarela luce come un decoro

3

TAVOLO PROTETTIVOTobia, di Emmemobili,è un tavolo dal ripianoche si ripiega creandouno spazio protettoAcciaio e piano in legno

4

SAPERE LEGGEROLibri, cd e riviste semprea portata di manocon Betulla, totem di CaimiBrevetti, da usare comedivisorio. In diversi colori

5 IMPEGNI NOMADIIl computer, il cellulare,i documenti... Le tecnologietrovano spazio nella cartellaIcon: due tasche e chiusura con chiave. Piquadro

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2

6

7

È quanto incide il comfortsulla qualità del lavoro

25%Il calo produttivodovuto ai rumori ambientali

30%Il calo di produttivitàcon temperature disagevoli

30%

FONTE: COMMISSION FOR ARCHITECTURE AN THE BUILT ENVIRONMENT / DIOMEDEA

Repubblica Nazionale

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 45DOMENICA 27MAGGIO 2007

Le fisionomie ritorte dei contadini di una volta, che a quarant’anniparevano già vecchi; oppure l’intera iconografia novecentescadell’operaio affumicato dall’altoforno, o logoro come un ingra-

naggio; o ancora l’immagine ottocentesca dell’impiegatino curvo suisuoi scartafacci male illuminati, scoliotico o tisico; tutto questo ci ri-manda a un concetto di lavoro epico e terribile. E ci consegna, almenoqui in Occidente, a un’idea del lavoro in larga parte rincivilita (anche senon per tutti), frutto delle tecnologie ma anche e soprattutto delle du-rissime e lunghe lotte dei salariati organizzati in sindacato, oggi in-ghiottite dalla rimozione politica (a proposito di cattiva memoria stori-ca…). No, non è un lusso chiedere al lavoro di essere, se non sempre gra-tificante, almeno salubre, almeno confortevole. Come una seconda ca-sa, o forse la prima considerato che molte persone, escluse le ore di son-no, passano molto più tempo sul luogo di lavoro che a casa propria.

Dei miei luoghi di lavoro — quando ancora non scrivevo per mioconto, alla scrivania domestica — ho un ricordo comunque affettuo-so. Diciamo dialetticamente affettuoso. Lavorare in un giornale, neitempi gloriosi della stampa a piombo, consentiva il privilegio di prati-care, nello stesso palazzo, i due luoghi del lavoro più archetipici: l’uffi-cio e la fabbrica. Sorbendosi, di entrambi, l’atmosfera vitale e febbrile,ma anche gli svantaggi e le afflizioni. Ai piani superiori c’erano le reda-zioni, quelle pre-elettroniche, dominate da tonnellate di carta, forestedi macchine per scrivere, gorghi di cicche spente e puzzolenti, rumo-rosi capannelli di redattori litiganti, berci e risate, e il ticchettio osses-sionante delle telescriventi che vomitavano notizie di agenzia. Devoancora a quel tirocinio nel caos più totale la mia capacità di scrivere, an-cora oggi, un articolo in qualunque condizione, anche nel mezzo del

fracasso e del casino, televisioni accese, telefoni chesuonano, figli che strepitano non riescono a infrangerel’antica bolla protettiva che riuscii a fabbricarmi allora.

Sotto c’era la fabbrica, la tipografia, luogo nero d’in-chiostro, rumorosissimo, dominato dai vocioni dialettali

dei tipografi, dallo scroscio continuo delle righe di piombo,dal calore della fusione, e a tarda sera dal rombo sordo delle

enormi rotative che saliva dal seminterrato (e poi il baccano deicamion e dei furgoni in manovra, e il “tump” profondo dei roc-

chetti di carta messi in sede). Nessuno dei due luoghi, tipografia eredazione, erano esemplari per salubrità. Dominava, per esempio,

l’aura malaticcia delle luci al neon, che ho sempre detestato perché misembrano depressive se non patogene. I tipografi avevano malattieprofessionali piuttosto paurose, come il mercurismo, per neutralizza-re il quale avevano diritto a non so quanti litri di latte, pare taumaturgi-co. (O forse, soltanto, il bianco del latte era considerato l’antidoto na-turale al nero del piombo e dell’inchiostro).

Nessuna nostalgia, a parte quella per i miei anni verdi. Racconto que-ste cose solo per dire quanto, in pochi decenni, le mutazioni a volte cla-morose delle tecnologie possono consentirci il lusso, anzi il diritto, dipretendere e ottenere condizioni fisiche di lavoro molto più conforte-voli, silenziose, accoglienti. I giornali sono, da questo punto di vista,uno dei luoghi più radicalmente mutati, e migliorati: l’elettronica, contutti i suoi demeriti, ha il pregio notevolissimo della silenziosità, dellapulizia, degli ingombri infinitamente minori. Alcuni open-space, ma-gari anonimi, magari con quell’aria da stia di lusso per galline privile-giate, sono però tre volte più luminosi e aerati degli ufficetti stipati e ni-cotinosi dei miei primi anni di carriera.

Alcuni imprenditori illuminati (pochi) teorizzano che non solo i la-vori di concetto, ma anche quelli manuali, debbano essere svolti infabbriche gradevoli. Mi colpì molto, pochi anni fa, una visita a Mara-nello, alla Ferrari. Retorica del mito a parte, in quel posto la metal-meccanica ha assunto la leggerezza e l’ordine di un laboratorio ar-tigianale di alto livello, con la catena che passa aerea e silenziosa inmezzo a reparti che paiono studi odontotecnici. Tutto lucido, pu-lito, ordinato, come se l’errore (imperdonabile a quei livelli) fosselegato anche al disordine, e dunque sia proprio il disordine il ne-mico da sfrattare.

Stiamo parlando, ovvio, di nicchie, di situazioni privilegiate.Ma credo proprio che l’idea di umanizzare e razionalizzare lestanze o le fabbriche dove si producono cose e idee, reddito e fu-turo, sia oramai ampiamente uscita dal novero degli sfizi. È piut-tosto un’esigenza, un adattarsi “fisico” del lavoro all’idea più di-gnitosa che abbiamo di noi stessi. Dietro ogni nostro coevo chepuò entrare nel posto di lavoro sentendosi a suo agio, senten-dosi “nel suo”, ci sono i fantasmi dei nostri avi alla catena, o aspezzarsi la schiena sulla terra, o intossicarsi nei cementifici, odannarsi nel troppo freddo o nel troppo caldo. In ogni posto dilavoro, a questo proposito, dovrebbe esserci, come il crocifis-so in chiesa, un’immagine simbolica di chi sputò il sangue esi distrusse la salute per farci vivere, oggi, meno precaria-mente. L’Operaio, il Contadino, il Lavoratore, il Cristo di-menticato che si è sacrificato per noi.

La fuliggine dei povericristi

e l’open space elettronico

MICHELE SERRA

LA COPPIALounge chair con scoccaimbottita in tessuto o in pelle,si accompagna allo sgabello È Catifa 70, di Arper

IL TRASFORMISTAUn oggetto trasformabile,che da tavolo diventascaffale con la semplicerotazione della barracentrale. Newton è di Naos

IL MULTIUSOFerro3 è un tavolinorealizzato in due versionidifferenti nell’altezzae in molti colori. Di spHaus

L’IMBOTTITOCon o senzatavoletta scrittoio,la sedia per ufficioEura di Ares Lineha imbottiturain resinaindeformabile

SETTANTA TRENDYIl classico diventa trendy,vestendosi di colorie materiali ripescati dagli anniSettanta. Si chiama Shinkeed è di Vg New Trend

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SINTESI ALLEGRAStruttura pulita, a treo quattro gambe,per l’appendiabiti Hi!di Diamantini & DomeniconiDisegnato da Pascal Tarabay

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LUCE A BRACCIOLili Marlene è una lampadada tavolo con braccioorientabile con luci ledad alta intensitàÈ firmata Luxit

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PUZZLE O DOMINOPiani sfalsati e perpendicolarisi compongononelle geometrie createper la linea H_O di PoltronaFrau. Rettangolari o tondi

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Repubblica Nazionale

l’incontroMattatori

RODOLFO DI GIAMMARCO

ROMA

«Ha ragione Sga-lambro in quelsuo trattato sul-l’età: si ringiova-

nisce sempre, poi si invecchia di colpo.L’attributo “vecchio” non mi dispiace af-fatto. Mi scoccia la parola “anziano”, misembra un termine ipocrita. Sa, io rom-però le scatole ancora per molto. Mianonna Leonilde è morta a 101 anni, e suamadre aveva vissuto fino a 108». Mette lemani avanti, Giorgio Albertazzi, e accen-na anche, con una certa felpata ironia, aun sintomo di immortalità in cui s’è im-battuto a Milano. «Al Grand Hotel et deMilan, dove è morto Verdi, ci sono suitededicate al cigno di Busseto, alla Callas, aNureyev, a Visconti, a Strehler, a Bene, ece n’è pure una dedicata a me, unico sog-getto vivo di quel Pantheon, una suiteverde cupo e beige con dentro le foto miee sul tappeto c’è la scritta di Rimbaud“Par délicatesse j’ai perdu ma vie”. Io cre-do d’averla come difetto, la délicatesse,se la si intende come disposizione a di-menticare. Ma ho anche un difetto fisico,mi dissero che avevo perso circa quattrocentimetri d’altezza perché il latte di miamadre non era buono e ne devo aver ri-sentito. Che poi, a dirla tutta, il concettosupremo di bellezza per me non è legatoalle persone: io la associo, la bellezza, al-la struttura dei cavalli, e li colleziono incasa, ne ho a centinaia, di terracotta, diferro, cinesi, arabi...».

Quanto all’estetica applicata all’uomoe alla donna, Albertazzi, uno dei nostri at-tori più longevi e operosi, fiorentino,classe 1925, quindi ultraottantenne, af-ferma di non credere (mah...) a un pre-sunto suo fascino, «e se vesto in modo di-verso dagli altri è perché sono architetto,finto trasandato, e se (dicono) sto abba-stanza a posto col corpo è perché cerco dinon uccidermi mangiando e bevendo,avendo ad esempio smesso di prenderewhisky quando tanti anni fa per una

sbornia mi girò la testa in modo assurdo,avendo un buon rapporto con un dieto-logo (il crudo prima del cotto, frutta ametà mattina e a metà pomeriggio, addioal pane...), e niente fumo, niente droga»,ma alla faccia dell’eleganza dei cavalli edel narcisismo personale l’oggetto delsuo culto è stato ed è, pur tenendo contodi vari mutamenti nel tempo, l’anatomiafemminile con annessa «lievitazione delbello». Gli piace una frase, un motto: «Lecosce delle donne sono una prova dell’e-sistenza di Dio. Anche se non è una grancosa per me dire “Dio”, per fortuna o pur-troppo. E questo pensiero mi fa entrare,da debitore, nel mondo delle donne (dicui forse non sono mai stato all’altezza),mi fa prima di tutto rammentare con af-fetto Bianca Toccafondi, che davvero miha amato, che se non ci fosse stato unaborto m’avrebbe dato l’unico figlio del-la mia vita (la paternità io l’ho sempreesclusa, e in uno slancio di confidenzaVittorio Gassman una volta mi sgridò di-cendomi “essere padri è il massimo, lodevi fare”), tanto che quando un giornola lasciai per Anna Proclemer le riconob-bi di mia iniziativa un assegno fisso, co-me se tra noi fosse intercorso un matri-monio. Quello che non scordo è la fisicitàdelle donne. Senza escludere le grandiamicizie femminili, al di fuori dello spet-tacolo. E mi viene subito in mente IdanaPescioli, docente universitaria di Firen-ze, età al di sopra degli ottanta, grandissi-ma insegnante e ora autrice di filastroc-che, o Chinita Menduni, professoressache mi fece leggere Dante, per la qualeebbi un amore platonico, una che m’ac-compagnava a piazzale Michelangelo,mi dava ripetizioni e a casa sua mi facevapassare davanti a un quadro che la ritrae-va nuda. E che dire di Anna che ho risco-perto come epistolarista fantastica conBrancati in Lettere da un matrimonio?Anna forse io l’ho più desiderata cheamata».

Questo Don Giovanni raisonneur am-mette con disincanto uno scarto tra at-taccamento e generosità. «Mi chiedo co-sa sia l’amore. Preferire gli altri a se stes-so? Allora m’è accaduto con Bianca e conPia de’ Tolomei. Nel senso che: a parte ilrapporto solido con Anna; a parte il desi-derio di ciò che non abbiamo collegabileal bello in sé teorizzato da Diotima a So-crate, un tipo di slancio che sentii a suotempo per Elisabetta Pozzi conosciutaancora ragazza allo Stabile di Genovagrazie a Squarzina (“c’è una pazza che gi-ra per il mondo. Provala”) nel Fu MattiaPascal, una che all’inizio non pronuncia-va una vocale giusta ma che fu così ener-gica da meritarsi subito la scrittura, unsodalizio teatrale, e un misto di passionee gelosia; a parte l’incontro con la bellez-za trionfante e sontuosa di MariangelaD’Abbraccio così piena di umorismograffiante; e a parte la storia con FiorellaRubino che adesso è onorevole, io oggisento idealmente di far famiglia con Pia(dormo quasi sempre solo, tranne checon lei), perché la sua Maremma coi suoi

altro libro in cantiere, in parte scritto inproprio e in parte con dichiarazioni rac-colte, tratterà il tema della donna comemusa-emblema-oggetto del desiderio.La minimum fax sta mettendo a punto unvideo sul suo Le memorie di Adriano dal-la Yourcenar, riprese con regia di FeliceCappa, da abbinare a un’intervista. Sonoin ballo ben tre film in cui dovrebbe im-personare figure di uomini molto matu-ri. «Un vecchio generale ex nazista, unselvatico chiuso in se stesso, che non ri-corda la propria giovinezza salvo unosquarcio di girasoli. Un vecchio ex antro-pologo che vive a Milano sul Naviglio, av-vicinato da una studentessa stranierache lo sospetta di conoscere alcuni trac-ciati segreti di una mappa acquatica sot-terranea. Un vecchio che vive solitario suun’isola, un po’ il seguito de Il vecchio e ilmare di Hemingway, un ex lupo che vivenel mito di una donna che ha perduto, al-la ricoperta di un amore (non consuma-bile) con una ragazza».

Anche lui, Albertazzi, artista in quotaalla destra, è additato spesso come un uo-mo dal passato scomodo. E lo sa. «Hoaderito alla Repubblica Sociale perchévenivo fuori da una famiglia che avevavissuto il fascismo, e per me e altri era lascoperta di una via socialista anticlerica-le e contro il re, e sono coscientissimo chesia quelli che si sono schierati come mesia quelli che hanno abbracciato un’i-deologia partigiana volevano altrettantosostenere una posizione di dignità, dimorale e di fermezza, ma poi ad esempioio non ho parteggiato alla fine della guer-ra per il Movimento sociale, così comenon ho sposato una causa progressista edi sinistra. L’identità che man mano m’èvenuta fuori è quella di un anarchico dicentro. Io non ho oggi stima incondizio-nata per le politiche del Paese, m’accor-go che sono un uomo di destra che puòpiacere alla sinistra, allo stesso modo dicome considero amici e dialettici Veltro-ni e Fassino (e anche Rutelli, che ha otte-nuto dagli americani la restituzione a Vil-la Adriana della statua di Sabina, mogliedi Adriano, tanto che il primo giugno faròlì una replica delle Memorie con la regiadi Scaparro). Beh, lo confesso, vorrei po-ter abbracciare una causa. Ma non ci rie-sco. Sto magari coi radicali. Ho inciso unaclip sulla moratoria della pena di morte.Penso che una parte della Resistenzavenga anche, dico anche, dalla reniten-za». E poi però oggi un artista di riferi-mento come lui gravita, anche se con cri-tiche espresse contro l’inerzia o gli erroridel centro-destra, nell’area del berlusco-nismo. «Non sono berlusconiano. Puòsuccedere che quando fa il grande attore,e lo fa, non mi senta di denigrarlo. Ma tracarisma (valori) e immagine (apparenze)so distinguere».

Se ci si sposta sulla deriva religiosa, saessere un laico polemico. «Si fa un granparlare, ed è giusto, di certi studi recentisu Cristo, del libro firmato anche da Cor-rado Augias, e allora mi permetto di ri-cordare quanto si discusse nel 1971 per il

otto-nove cani è la mia casa, perché Piache conosco da ventisei anni è davvero lamia country-woman, con sguardo, pellee fisico di ceppo italo-egiziano-unghere-se, con solido rapporto colto che ci uni-sce. Al punto che, pur diffidando del ma-trimonio, se proprio dovessi fare un col-po di testa lo farei con lei».

Oltre a quelli della sfera personale (unasorta di filosofia estetica), gli orienta-menti anticonformisti di Albertazzi ri-guardano indifferentemente — e non daoggi — la creatività, la politica, la spiri-tualità, le opinioni sociali. Potrebbe rica-varne e scrivere libri di approfondimen-to, anche perché la vena immaginificanon gli manca. Uscirà un libro con 190sue poesie, edito da Mondadori. «Sonomesi che aspettano il montaggio defini-tivo, io sto ancora finendo di selezionare,non convinto di certi miei versi dell’ini-zio. La prima poesia l’ho buttata giù a se-dici anni. Man mano che ci si avvicina ainostri giorni sono assai più ironico». Ma-teriali suoi, e filmati, stanno per far partedi una pubblicazione a cura di Sergio Ba-sile e Andrea di Bari, ex corsisti della Bot-tega dove convissero Gassman e lui. Un

mio testo Pilato sempre. Si fa un gran bac-cano sui Dico, e io sono indignato con leposizioni della Chiesa, convinto che neidiktat ecclesiastici ci siano i germi di tan-ti integralismi che distruggono il mondo.Le avversioni agli omosessuali e all’euta-nasia mi tormentano, le alte gerarchie sivestono con abiti lussuosi e si considera-no padrone dell’intelligenza ignorandola lezione di Cristo. Dio, lo sostengo daateo, nasce dai fulmini e non da sopraffa-zioni ecclesiali».

Si vanta d’essere dissipatore, d’essersifatto rubare idee, di aver inventato cosescomparse nel nulla: «Un film per Zurlinimai fatto, Verso Damasco. Invece fui iostesso a non voler pubblicare Io crimina-le e Il barone von K. E, tranne un bel sag-gio di Veltroni, non ebbi mai l’apprezza-mento che meritavo per il Jekyll televisi-vo degli anni Settanta dove avevo inseri-to la scienza delle molecole staminali».Non si vanta d’essere attore. «No, mi re-puto uno scrittore che va in scena ma nonrecita. Contano i silenzi. Per quanto im-pegnati in percorsi divergenti, solo Car-melo Bene e io abbiamo affrontato que-sto tema. Il vero lavoro, a teatro, non è in-terpretare ma diventare soggetto artisti-co. Susan Sontag avrebbe convenuto. Laparola deve esprimere una bellezza visi-va e musicale, deve colmare un’imperfe-zione, deve essere una macchina deside-rante, e bisogna valorizzare gli spazi checi sono tra le parole. Carmelo agiva arric-chendo, io procedo sottraendo». Si at-terrà a questo nel Moby Dick in cui lo di-rigerà Antonio Latella, con partner, tra glialtri, un giovane da lui super-stimato,Marco Foschi («un’altra “nuova” che mipiace, che ha qualcosa di speciale, è Eleo-nora Danco»). Chissà come affronteràquest’estate, sulla scena della Versilianae di Taormina, un Satyricon di e con Mi-chele Placido («io farò Petronio, lui Tri-malcione»). Si rammarica («senza acre-dine») di non avere un gruppo d’ascoltodi intellettuali che faccia un bilancio cri-tico del suo lavoro. «Mentre Carmelo eRonconi hanno avuto un adeguato ri-scontro. Ma sarà che io sono nato comeun bastardo della tv...».

La parola “vecchio”non mi dispiace,invece “anziano”mi sembra ipocritaSa, io romperòle scatole ancoraper molto: mia nonnaLeonilde è mortaa 101 anni,sua madre a 108

‘‘

‘‘Non si considera un attore,ma “uno scrittore che va in scena”Si lamenta di essere trascuratodall’intellighenzia che lo sminuiscecome “un bastardo della tv”

Ha un rapporto ispidocon la politica chel’ha messo in quotaalla destra, mentre luisi sente “anarchicodi centro”. Comeriportare alla normalitàquesto artista

anticonformista? Meglio parlaredi donne e tracciare così l’autoritrattodi un Don Giovanni raisonneur

46 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 27MAGGIO 2007

Giorgio Albertazzi

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Repubblica Nazionale