La Formazione imprigionata

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Università degli Studi di Firenze Facoltà di Scienze della Formazione Corso di Laurea in Scienze dell’Educazione La formazione imprigionata: bisogni, diritti e contraddizioni nel sistema carcere Relatore: Prof. Nedo Baracani Correlatore: Prof. Andrea Mannucci Candidato: Andrea Ciardelli Anno Accademico 2006-2007

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"La formazione imprigionata: bisogni, diritti e contraddizioni nel sistema carcere."Tesi di Laurea in Scienze dell'Educazione, indirizzo Esperti nei Processi Formativi.Discussa il 20 febbraio 2008Votazione finale 110/lode

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Università degli Studi di FirenzeFacoltà di Scienze della Formazione

Corso di Laurea in Scienze dell’Educazione

La formazione imprigionata:bisogni, diritti e contraddizioni nel

sistema carcere

Relatore:Prof. Nedo Baracani

Correlatore:Prof. Andrea Mannucci

Candidato:Andrea Ciardelli

Anno Accademico 2006-2007

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A mio padre

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Indice

Prefazione...............................................................................................7

Capitolo 1 - Il trattamento penitenziario nelle

norme e nella teoria..................................15

1.1 Un cenno storico....................................................................15

1.1.1 Dal supplizio all’assoggettamento................................15

1.1.2 Le teorie della pena.......................................................25

1.2 Il trattamento nelle norme.....................................................33

1.2.1 L’Ordinamento Penitenziario........................................33

1.2.2 Le misure alternative alla detenzione............................37

1.3 Gli attori................................................................................40

1.4 I processi del trattamento......................................................42

Capitolo 2 - La realtà penitenziaria.............................57

2.1 La popolazione carceraria.....................................................60

2.2 I reati......................................................................................80

Capitolo 3 - Devianza, controllo ed esclusione sociale

...................................................................103

3.1 L’identità sociale.................................................................103

3.2 L’altro sotto controllo..........................................................125

3.3 L’altro escluso.....................................................................128

3.4 L’allarme sociale.................................................................132

Capitolo 4 - Carcere e contesto quotidiano.

Tensione e incontro.................................141

4.1 Il contesto dell’osservazione.....................................149

4.2 La metodologia dell’osservazione.............................160

3

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Indice

4.3 Lavoro sociale e coercizione legale..........................163

4.4 Coercizione e formazione. Il “trattamento” nei diversi

contesti......................................................................169

4.5 Quadri di ordinaria coercizione.................................184

4.6 Il terzo (in)comodo: il volontariato...........................190

Conclusioni.........................................................................................195

Bibliografia.........................................................................................207

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Prefazione

Questo lavoro rappresenta il risultato di una serie di esperienze

maturate nell’arco di circa dieci anni, da quando, cioè, rappresento la

figura paterna in una Casa Famiglia appartenente alla Comunità Papa

Giovanni XXIII di Don Oreste Benzi. Questo, concretamente, significa

condivisione diretta della propria vita con coloro che possiamo definire,

anche in senso laico, gli ultimi, soprattutto attraverso il loro inserimento

all’interno della famiglia di cui entrano a far parte integrante, alcuni per

un breve periodo, altri per sempre, generando nuove esperienze

emozionali e relazionali in un ambiente informale ed autentico.

Una delle regole principali che ci siamo dati fin dall’inizio è quella

di considerare la persona accolta non tanto dall’etichetta che si porta

appresso – la patologia, il reato commesso, il problema che ne origina il

disagio ecc. – quanto, piuttosto, il considerarla soltanto una persona.

D'altronde penso sia fuorviante definire qualcuno anche soltanto

genericamente persona a disagio: quando accogliamo qualcuno viene

spesso da dubitare su chi sia più a disagio, se l’accolto oppure chi

accoglie, visto che per entrambi esiste la fatica e, appunto, il disagio dato

dalla non conoscenza reciproca e, quindi, dalla paura dell’altro ignoto”

oltre che dal dover ricostituire il campo (il nuovo sistema) che si è creato

con l’ingresso del nuovo soggetto, il ché rappresenta sempre una rottura

degli equilibri preesistenti.

Quello di valutare la persona accolta in famiglia attraverso

l’etichetta che lo accompagna è un errore che si rischia di commettere

con estrema facilità. Adolescente, iperattivo, disturbato, psicotico,

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Prefazione

borderline, sieropositivo, clandestino, sono soltanto alcune di queste

etichette, e nemmeno le più stigmatizzanti. Quando, però, si parla di un

detenuto (che resta tale anche se in misura alternativa, almeno come

stigma), ex-detenuto – o, meno ipocritamente carcerato – ecco che

l’etichetta diviene una vera e propria lettera scarlatta sulla fronte di una

persona che, ad una più accurata osservazione, non è altro che un

soggetto appartenente ad una o più delle categorie sopra elencate e per il

quale non si è attivata alcuna azione di prevenzione in tempo utile.

Credo che il carcere rappresenti, ormai da tempo, non solo in Italia

e per una parte cospicua della sua popolazione, una sorta di punto

d’accumulazione di tutto ciò che si sarebbe potuto fare e non si è fatto, il

luogo di destinazione di molti tra coloro che hanno gridato aiuto e non

abbiamo ascoltato, il luogo in cui si spengono le energie di quelle donne

e quegli uomini che, spinti ai margini della rete sociale, da nodi quali

avrebbero dovuto essere, si sono trovati ad essere soltanto dei terminali

senza possibilità di recupero; è il fondo del Maelström in cui ha

maggiore probabilità di cadere chi ha minori energie, espressione delle

risorse individuali e sociali personali, rispetto a chi appartiene a gruppi

sociali più forti.

Queste sono alcune delle considerazioni che mi hanno portato, col

tempo, ad avvicinarmi in modo particolare al mondo del carcere e delle

persone che con esso hanno, o hanno avuto, a che fare.

Particolarmente importante è stata, per questo, l’esperienza fatta

all’interno di una cooperativa sociale per il reinserimento di persone ex-

detenute, anch’essa parte della Comunità Papa Giovanni XXIII, con sede

in provincia di Massa-Carrara. Si può dire si sia trattato di

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Prefazione

un’osservazione partecipante poiché l’accesso alle attività è stato non in

qualità di operatore o, comunque, di membro della Comunità con

funzioni educative, come ci si poteva attendere vista l’attività della Casa

Famiglia che gestisco, quanto piuttosto dalla parte opposta, quella della

persona accolta, di colui che deve sottostare alle regole ed ai tempi

dettati dai responsabili della struttura e dai servizi territoriali preposti.

Dopo una certa iniziale diffidenza, peraltro più che naturale, sono

stato accettato nel gruppo dei ragazzi della struttura come uno di loro.

Questo mi ha messo sicuramente in una posizione di privilegio rispetto a

chi, invece, era associato ad un ruolo che, benché con tutte le attenzioni

all’aspetto informale e familiare dell’accoglienza, stabiliva a priori

un’asimmetria tale da rendere impossibile una compenetrazione

completa tra i due mondi.

L’ostacolo principale verso la costruzione di un rapporto di fiducia

il più possibile ampio e incondizionato era rappresentato, come ovvio,

dal timore che la mia presenza non fosse altro che un’infiltrazione a

scopo di controllo. Dopo alcune situazioni conflittuali in cui il progetto è

stato a rischio di insuccesso, si è creato un discreto rapporto di fiducia

che, con alcuni ragazzi, prosegue tutt’oggi.

Per inciso forse vale la pena di rilevare che, malgrado tutte le

migliori intenzioni, la mia presenza di estraneo, seppur inserito ed

accettato nel gruppo, modificava sicuramente di un epsilon

sufficientemente piccolo le interazioni e l’ambiente in cui portavo avanti

l’osservazione. Questo è uno dei punti critici che, come sappiamo dai

tempi di Heisenberg, si accompagnano all’osservazione partecipante.

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Prefazione

Si sono aperti nuovi orizzonti, come appare evidente, sul mondo

delle persone provenienti dal carcere e, come manifestazione secondaria

ma non per questo meno importante, si è illuminato il mondo della

comunità visto con gli occhi di chi è di là dall’asse di simmetria

educativo.

Come risultato dell’osservazione, più che l’aver ottenuto risposte,

sono aumentate le domande e i dubbi su che cosa realmente fosse il

carcere e, più in generale, il sistema penale.

L’esperienza accumulata in anni di condivisione diretta con le

persone provenienti dal carcere è stata molto importante ed ha un valore

in sé molto grande. Tuttavia, mi sono reso conto che mi ha esposto al

rischio di limitare la mia visione del mondo carcerario al fuori, a quella

fase, vale a dire, in cui il detenuto diventa ex-detenuto. Ho avuto modo

di osservare molto da vicino cosa vuol dire vivere da ex-detenuti o in

misura alternativa, ma questo limita lo sguardo soltanto al dopo, al già

fatto, quando, in altre parole, l’etichetta è già stata affibbiata e l’identità

carceraria si è già formata.

Com’è possibile che un individuo, uomo o donna, esca dal carcere

così destrutturato? Che cosa accade, dentro quelle mura, per far sì che in

una persona si possa creare un’identità tale che divenga difficile evitare

la recidivazione del reato? Quali sono, nella realtà, i processi normativi

ma, soprattutto, professionali che accompagnano un detenuto nella

carriera detentiva?

Nel tentativo di dare risposta a questi ulteriori quesiti è nata l’idea

di svolgere il tirocinio universitario proprio all’interno del mondo

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Page 9: La Formazione imprigionata

Prefazione

carcere, opportunità che si è concretizzata con la disponibilità della Casa

Circondariale “Don Bosco” di Pisa.

Se nel caso della cooperativa, per potermi integrare al meglio nel

gruppo, ho dovuto mettere tra parentesi il ruolo di educatore fino allora

ricoperto, a maggior ragione per potermi inserire nel mondo (meglio

sarebbe dire nei mondi) interno al carcere ho scelto un livello di umiltà e

di rispettoso silenzio ancora maggiore. Dovevo entrare in punta di piedi,

come uno studente qualsiasi.

Le esperienze precedenti erano servite a farmi capire che da quel

mondo avevo moltissimo da imparare e quasi nulla da insegnare. Questo

è stato l’atteggiamento che mi ha consentito di raggiungere un notevole

livello di integrazione con il sistema del carcere pisano che ha reso

profonda in misura superiore alle attese l’intera osservazione.

Durante il periodo di tirocinio ho potuto svolgere, infatti, mansioni

tipiche dell’educatore penitenziario: colloqui coi detenuti: in sezione, in

ufficio oppure informali favoriti dalla particolare collocazione dell’area

educativa all’interno di quella detentiva tipica del carcere pisano;

colloqui di primo ingresso: compito delicatissimo che di per sé è indice

del rapporto di fiducia instaurato con gli operatori ed è stato un notevole

strumento per approfondire alcuni elementi legati alla detenzione;

redazione di relazioni di sintesi: se i colloqui hanno rappresentato

l’acquisizione di conoscenze sul lato umano dei processi e delle relazioni

interne al penitenziario, quest’attività ha mostrato il lato burocratico del

penitenziario; partecipazione ai G.O.T. (Gruppi di Osservazione e

Trattamento): riunioni multiprofessionali di verifica dei progetti

educativi noti, soprattutto, perché è da qui che scaturiscono eventuali

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Prefazione

proposte di benefici e misure alternative alla detenzione: partecipazione

a Consigli di Disciplina: crocevia tra le prospettive della sicurezza e del

reinserimento, offrono uno spaccato della vita quotidiana e del

linguaggio del carcere; partecipazione alle riunioni intra-area: utili per

osservare le dinamiche e i conflitti tipici di un ambiente soltanto

apparentemente statico ma, in realtà, estremamente turbolento e

stressante.

Inoltre, di particolare importanza si è rivelata la partecipazione al

progetto Help to Help ed a riunioni interne sui casi a rischio suicidario

ed auto-eteroaggressivo.

La sensazione è che la prevalenza dei fini organizzativi sui moventi

personali, della personalità organizzativa su quella individuale, qualifichi

il carcere come organismo troppo spesso autoreferenziale e che perda

sovente di vista l’obbiettivo che dovrebbe porre al centro dell’intervento

la persona detenuta.

Se a questo aggiungiamo il sovraccarico di lavoro dovuto alla

carcerazione della miseria, in atto da anni sull’onda del principio della

tolleranza zero, importato in Italia dalla New York di Rudolph Giuliani

ed esteso dal 2001 ai poveri tra i poveri, i migranti dai paesi a forte

pressione migratoria — reale origine del sovraffollamento delle strutture

carcerarie, rappresentando da soli circa il 75% degli ingressi in una Casa

Circondariale come quella di Pisa — credo venga da porsi seri

interrogativi sui reali significati e le ragioni dell’esistenza stessa di

un’istituzione totale come il carcere e sulle scelte diverse che – pur con i

legittimi dubbi riguardanti la maturità culturale della società attuale –

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Prefazione

possono essere proposte, quesiti ai quali proveremo a dare risposta nelle

pagine che seguono.

Ringraziamenti

Molte sono le persone che hanno creduto in me e nella possibilità

che io potessi raggiungere questo obbiettivo, per me molto importante.

Sento di dovere a tutte queste persone un sentito ringraziamento. In

particolare, a: mia madre e a mia sorella Veronica; all’amico fraterno

Cosimo Rizzo: senza le sue continue spinte, talvolta anche fisiche,

queste pagine non sarebbero mai state scritte; al prof. Roberto Tartarelli,

Direttore del Dipartimento di Ingegneria Chimica dell’Università di Pisa,

che mi ha concesso di essere ospite nel Dipartimento stesso per tutto il

periodo dei miei studi; al prof. Roberto Mauri per la simpatia e il

supporto morale dimostratimi; al dott. Saverio Migliori, tutor

universitario per il mio tirocinio e amico caro; al dott. Vittorio Cerri,

Direttore della Casa Circondariale “Don Bosco” di Pisa, che ha permesso

che questo tirocinio avesse luogo presso la Casa stessa; agli amici dello

staff dell’area pedagogica del “Don Bosco”, per la loro paziente

collaborazione: a Liberata (tutor interna al penitenziario e paziente mia

guida nel tirocinio), a Orlando, a Piera, ad Alessandra, a Loredana, a

Valentina e Luigi; a Jenny e Giuseppe, agenti dell’area tecnica del

carcere pisano; al dott. Salvatore Rigione del Provveditorato Regionale

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Page 12: La Formazione imprigionata

Prefazione

Toscano per l’Amministrazione Penitenziaria; a tutti gli amici di vecchia

data, come Sergio e Maria Pia, Giulia, Alessandra e Massimo, Roberto e

Gabriella, Alessandro e il Beppe; Don Oreste Benzi, l’uomo che più di

tutti mi ha mostrato come un mondo migliore sia possibile; a Norina e a

tutti i fratelli della Comunità Papa Giovanni XXIII, che mi hanno

sostenuto, spronato e “strigliato” in questi anni di studio.

Infine, un grazie profondo a mia moglie Rosaria, che ha avuto la

pazienza di sopportare per tutto questo periodo le mie frequenti

lamentazioni, degne di Giobbe, ed ai miei figli, Valentina, Alice, Biagio,

Titti, Maurizio, Margherita, Walter e Jonathan, ai quali, per poter

soddisfare agli impegni di studio, ho dovuto togliere parte di quel tempo

che i babbi dedicano, amorevolmente, ai figli.

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Page 13: La Formazione imprigionata

Capitolo Primo

Il trattamento penitenziario

nelle norme e nella teoria

1.1 Un cenno storico

1.1.1 Dal supplizio all’assoggettamento

La storia degli esseri umani è un affresco multicolore eternamente

incompiuto in cui ogni episodio, la vita di ogni singolo individuo, anche

il più sconosciuto e banale, costituisce un’ulteriore pennellata. Possiamo

scegliere di limitare il nostro sguardo al singolo segno universalizzando,

a partire da esso, ciò che presumiamo sia l’intero dipinto, oppure

possiamo tentare di aprire lo sguardo oltre il tratto unitario e cercare di

capire come sia finito in quel preciso punto ed in quel preciso momento

dell’intero processo storico.

I sistemi sociali come quello scolastico, sanitario, di welfare, quello

politico, soprattutto nell’accezione democratico-rappresentativa, sono

continuamente sottoposti a tensioni. Questo accade poiché tutti i sistemi

sono caratterizzati da equilibrio instabile che sviluppa tensioni che ogni

sistema trasmette ad altri. Il sistema politico non fa eccezione. Una delle

possibili qualificazioni delle tensioni caratteristiche del sistema politico è

quella connessa con il controllo del mutamento, spesso rappresentata

come riformatrice. Non c’è giorno che nei notiziari e nei giornali non si

parli di qualche riforma in atto o comunque in discussione. Tutto questo,

benché messo in luce per fini purtroppo spesso sospetti di strumentalità

volta allo scopo di diffondere nella società la sensazione che sia

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Page 14: La Formazione imprigionata

Capitolo Primo

possibile mantenere il controllo e “governare” la storia da parte ora

dell’uno ora dell’altro esponente o partito politico, di fatto precede

l’uomo e le sue leggi che non possono altro che adeguarsi al mutare dei

rapporti e delle relazioni, delle visioni del mondo e dei paradigmi verso i

quali si orienta il sistema culturale.

Il sistema penitenziario, al pari degli altri sopra menzionati, segue il

medesimo modello. Punire non sempre ha significato incarcerare1, ma

all’identificazione tra pena e carcere si è arrivati attraverso un processo

di costruzione che parte dalla pratica del supplizio, per lo più pubblico,

tipico di quella società che Foucault ama definire classica, l’ancien

régime. 2 Dalla lettura dell’inizio del famoso testo del filosofo francese e

che abbiamo riportato in nota, il lettore dei nostri tempi, anche il più

giustizialista, non può che inorridire di fronte alla brutalità delle

punizioni cui rischiava di venir sottoposto chi subiva una condanna per

un grave reato. Tuttavia, per il numeroso pubblico che, come ad uno

straordinario carnevale, assisteva all’evento, esso faceva parte dei rituali

sociali cui partecipava in modo forse non molto difforme da ciò che

1.Michel Foucault, Sorvegliare e punire. Nascita della prigione, Torino, Einaudi, 1976. Orig.: Surveiller et punir. Naissance de la prison, Paris, Gallimard, 1975. Siamo di fronte ad una vera e propria tecnologia disciplinare volta alla conservazione ed allo sviluppo del potere sovrano. È possibile, secondo l’autore, “cercare di studiare la metamorfosi dei metodi punitivi, partendo da una tecnologia politica del corpo, dove potrebbe leggersi una comune storia dei rapporti di potere e delle relazioni d’oggetto” (p.27).2 Ecco un chiaro, anche se truce, esempio di cosa ciò volesse dire a metà del secolo XVIII: “Damiens era stato condannato, era il 2 marzo 1757, a «fare confessione pubblica davanti alla porta principale della Chiesa di Parigi», dove doveva essere «condotto e posto dentro una carretta a due ruote, nudo, in camicia, tenendo una torcia di cera ardente del peso di due libbre»; poi «nella detta carretta, alla piazza di Grève, e su un patibolo che ivi sarà innalzato, tenagliato alle mammelle, braccia, cosce e grasso delle gambe, la mano destra tenente in essa il coltello con cui ha commesso il detto parricidio bruciata con fuoco di zolfo e sui posti dove sarà tanagliato, sarà gettato piombo fuso, olio bollente, pece bollente, cera e zolfo fusi insieme e in seguito il suo corpo tirato e smembrto da quattro cavalli e le sue membra e il suo corpo consumati dal fuoco, ridotti in cenere e le sue ceneri gettate al vento”. (Pièces originales et procédure du procès fait a Robert-François Damiens, 1757, tomo III, cit. in Michel Foucault, Sorvegliare e punire, cit.., p.5)

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Page 15: La Formazione imprigionata

Capitolo Primo

succede oggi ad una partita di calcio, ad una corrida o, in un passato più

lontano, nel Colosseo.

La gente richiedeva lo spettacolo dell’orrido ed il sovrano lo

accontentava di buon grado, considerando anche che questo

rappresentava un modo per riaffermare la sua grandezza ed il suo potere

messi in discussione dall’azione del reo. Questa tecnologia della

rappresentazione svolgeva altresì l’importante funzione, nei confronti

degli spettatori, di deterrente, indennizzo e lezione in vista del vero

ordine della società stessa che ne veniva così coinvolta per intero al di là

della volontà arbitraria del sovrano.

Successivamente i mutamenti all’interno della società hanno portato

al sempre più frequente verificarsi di episodi in cui il condannato, prima

sbeffeggiato e dileggiato dagli spettatori, veniva difeso e perfino talvolta

liberato dalla folla configurando un’inversione, imprevista dai redattori

delle norme penali dell’epoca, della pena che spesso ricadeva su coloro

che l’avrebbero dovuta infliggere. Il supplizio pubblico non incuteva più

il timore che il sovrano sperava, ma, anzi, rischiava di essere occasione

di sovversione e ribellione.

Si comincia, quindi, ad allontanare il popolo dai luoghi delle

esecuzioni cui fa seguito successivamente una serie di trasformazioni

delle procedure che spostano il condannato dalla pubblica piazza al

chiuso di cortili ben protetti. Potremmo essere tentati di attribuire la

cessazione del rituale del supplizio pubblico all’accendersi di un nuovo

senso di compassione e umanità del legislatore del XVIII secolo ma, ad

un’osservazione più profonda, sembra emergere la possibilità che questo

mutamento di orientamento penale sia dovuto, piuttosto, alla necessità

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Page 16: La Formazione imprigionata

Capitolo Primo

politica di salvaguardare il potere centrale dagli effetti dell’ambiguità di

questi rituali che avevano, oltre tutto, ormai perso gran parte della

funzione deterrente lasciando scoperta la sola anima vendicativa della

pena. Il filosofo francese fa notare come quello della conferma del potere

sovrano non sia, comunque, l’unico motivo che spinse verso

l’addolcimento delle pene.

È un periodo, la metà del XVIII secolo, denso di mutamenti sociali,

prima che economici o politici. Siamo in un’epoca contrassegnata da una

costante atmosfera riformistica, perfino rivoluzionaria, che segnerà in

maniera determinante i secoli a venire. Il sovrano vede diminuire il suo

peso sulla società e, di converso, la società ne acquisisce rispetto al

potere centrale, o perlomeno, in virtù di una diminuita pressione, può

liberare alcune istanze di diritto fino allora represse. Se non siamo

ancora all’equità delle punizioni, almeno la direzione presa pare essere

quella di una nuova economia del potere di castigare non più promanato

dal sovrano, o dai suoi privilegiati, ma assumesse toni di continuità

distributiva del potere pubblico.3

La principale fonte teorica di questo mutato atteggiamento fu

senz’altro la teoria del contratto sociale4 a partire dalla quale a venir

considerato violato da un crimine non è più il sovrano quanto, piuttosto,

3 Gli obbiettivi primari della nuova strategia per l’esercizio del potere di castigare sono: “fare della punizione e della repressione degli illegalismi una funzione regolare, suscettibile di estendersi a tutta la società; non punire meno, ma punire meglio; punire con una severità forse attenuata, ma per punire con maggior universalità e necessità; inserire nel corpo sociale, in profondità, il potere di punire”. (Foucault, Sorvegliare e punire, cit, p.89.)4 Jean Jacques Rousseau, Il contratto sociale, Milano, Rizzoli, 2005. Orig.: Contrat Social, 1762.. “Ciascuno di noi mette in comune la sua persona e tutto il suo potere sotto la suprema direzione della volontà generale, e noi, costituiti in corpo, riceviamo ogni membro quale parte indivisibile del tutto ” (p. 67). […] “istantaneamente, al posto della persona singola di ciascun contraente, quest’atto di associazione produce un corpo morale e collettivo composto da tanti membri quanti sono i voti dell’assemblea, il quale riceve da questo stesso atto la sua unità, il suo io comune, la sua vita e la sua volontà” (p. 68).

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Page 17: La Formazione imprigionata

Capitolo Primo

la società intesa come insieme di individui uniti da una serie di norme e

regole che ricordano una vera e propria stipula contrattuale. Il crimine

equivale, quindi, alla rottura del contratto.

L’obbiettivo primario era una società ordinata per ottenere la quale

erano necessari da un lato una precisa tecnologia disciplinare e, dall’altro

lato, una maggiore clemenza che puntasse, anziché all’annientamento del

criminale, vero e proprio deviante ante litteram, piuttosto alla sua

correzione e restituzione alla comunità come fonte di produttività. Gli

intellettuali umanisti, titolari della discussione sulla riforma, ebbero così

a portare la centralità della punizione fuori dal circuito della volontà del

sovrano verso la manutenzione dell’ordine della società e, cosa assai

significativa, spostarono l’attenzione dal corpo del criminale, da punire

quindi principalmente fisicamente, alla sua anima, da emendare e

ripulire.

La pena, dunque, si diversifica nelle funzioni. Abbiamo una

funzione deterrente, tipica della manifestazione pubblica del supplizio,

simile negli obbiettivi all’odierna prevenzione generale, mirante a

mostrare in pubblico gli effetti di eventuali comportamenti criminosi;

una funzione riparativa, non nel senso odierno di riparazione del danno

inferto, quanto piuttosto nel senso di ricostruzione della rottura del

contratto sociale; infine, una funzione meramente retributiva tramite la

quale viene inflitta una punizione, che, comunque, ha anch’essa

connotati correzionali miranti ad evitare il ripetersi futuro da parte

dell’individuo di simili comportamenti. Nasce, così, la prigione

moderna.

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Page 18: La Formazione imprigionata

Capitolo Primo

Tra i pensatori illuministi che maggiormente hanno avuto influenza

nella mutazione della concezione delle punizioni non possiamo non

ricordare Cesare Beccaria5. Siamo nella seconda metà del XVIII secolo, i

princìpi illuministici tendono a pervadere qualunque campo del pensiero

e della società e il sistema giuridico non può non esserne coinvolto. Uno

dei fondamenti di questo approccio consiste nell’affermare la necessità

di una protezione sociale, intesa come scopo della pena, e che, per poter

svolgere concretamente tale funzione, la sanzione debba essere utilizzata

soltanto in casi di effettiva ed estrema necessità. Inoltre, altro principio

basilare è la definizione chiara e disponibile a tutti della proporzione tra i

delitti e le pene che ne conseguono. La conoscenza del rapporto tra

delitto commesso e pena subita deve fornire alla società la

consapevolezza di ciò che è lecito e ciò che tale non è. Il contratto

sociale viene quindi sottoposto alla firma dei cittadini che, in quanto

consapevoli, vengono riconosciuti maggiormente portatori di diritti

reciproci. Resta il fatto che la sanzione penale, per conservare l’efficacia

preventiva, doveva necessariamente definirsi in termini di gradualità

rispetto alla gravità del reato commesso, gravità misurata non più

esclusivamente su scala morale ma su norme sociali.6

L’introduzione di criteri con pretese di razionalità nella definizione

delle proporzioni tra delitti e pene ha portato successivamente

all’astrazione del sistema giuridico dal contesto politico-sociale e il suo

irrigidimento su posizioni che, proprio perché ritenute scientifiche,

apparivano date e immutabili. Gli obbiettivi restavano l’ordine e la

sicurezza sociale, gli strumenti la coercizione e la disciplina ferrea del

5 Cesare Beccaria, Dei delitti e delle pene, Milano, Feltrinelli, 1991, ed. orig. 17646 Cfr. Carlo Federico Grosso, “Le grandi correnti del pensiero penalistico italiano tra Ottocento e Novecento”, in Storia d’Italia. La criminalità, Annali 12, Torino, Einaudi, 1997.

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Capitolo Primo

carcere; i risultati furono però la negazione dei diritti e delle garanzie dei

detenuti e l’instaurazione di un clima repressivo all’interno degli istituti

penali. Forse non è secondario osservare come il carcere non sia l’unico

istituto basato su di un modello segregativo-correzionale. Gli ospedali, le

scuole, le fabbriche, le caserme, i conventi sono alcuni degli esempi di

istituzioni in cui tramite una precisa tecnologia disciplinare si punta alla

regolazione della vita di un individuo intesto come anima di cui

impossessarsi e su cui intervenire efficacemente. Si parla infatti di

istituzioni totali.

In epoca illuministica, ci ricorda ancora Foucault, l’intervento sulle

“anime” usava come strumento principale il lavoro. Non un lavoro

qualunque, esso doveva avere carattere pubblico, il detenuto lavoratore

doveva essere visto da tutti. Il criminale veniva inviato a lavorare sulle

strade e le piazze. Soltanto così si pensava potessero integrarsi tutte le

funzioni moralizzatrici che i riformisti avevano attribuito alla pena. Le

prigioni, inoltre, avevano costi di manutenzione notevoli per cui i

detenuti erano tenuti a lavorare per rifondere le spese per loro sostenute

dal carcere. Un carcere aveva tra i maggiori costi da sostenere quello

della manutenzione di un adeguato sistema di controllo e sorveglianza

che assicurasse l’attuazione della tecnologia della disciplina. Perché

possa dirsi efficace, la sorveglianza deve essere continua, ma per poter

essere tale il numero dei sorveglianti dovrebbe essere enorme. Una

soluzione pare essere quella di modificare le strutture fisiche degli istituti

penali secondo le intuizioni del filosofo Jeremy Bentham che, nel 1791,

culminarono nell’idea del “Panopticon”.

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Page 20: La Formazione imprigionata

Capitolo Primo

Foucault, nel testo che già abbiamo preso abbondantemente in

esame, fornisce una lucida analisi di quello che, comunque, si è rivelato

un modello realizzato interamente soltanto in pochi casi mentre, quando

effettivamente è stato utilizzato, la maggior parte delle carceri lo ha

attuato soltanto in maniera parziale o con sostanziali modifiche.7 Il

principio sottostante il dispositivo panottico, ad un’osservazione più

approfondita, torna ad essere ancora il mantenimento di una forma di

potere, soltanto che, questa volta, ciò avviene non più tramite la forza

fisica imposta su un corpo, quanto piuttosto per mezzo di una sottile

tecnologia del controllo che fa sì che il detenuto sia tenuto in una

costante consapevolezza di essere controllato a vista. Il vantaggio

principale del panottismo consiste nell’instillare questa convinzione

senza che tale controllo visivo sia effettivamente continuo; il detenuto

deve essere convinto di essere visto ma non deve poter verificare che

qualcuno lo stia controllando. Il potere deve essere visibile ma non

verificabile.8

Siamo, quindi, di fronte ad un addolcimento delle punizioni, ma

siamo parallelamente all’assoggettamento di corpi che perciò devono

essere resi necessariamente “docili”. Questo obbiettivo è il sogno

politico della borghesia dei Lumi, di irregimentare la società, soprattutto,

7 “Alla periferia una costruzione ad anello; al centro una torre tagliata da larghe finestre che si aprono verso la faccia interna dell’anello; la costruzione periferica è divisa in celle che occupano ciascuna tutto lo spessore della costruzione; esse hanno due finestre, una verso l’interno, corrispondente alla finestra della torre; l’altra, verso l’interno, permette alla luce di attraversare la cella da parte a parte. Basta allora mettere un sorvegliante nella torre centrale, ed in ogni cella rinchiudere un pazzo, un ammalato, un condannato, un operaio o uno scolaro. Per effetto del controluce, si possono cogliere dalla torre, stagliantisi esattamente, le piccole silhouettes prigioniere nelle celle della periferia. Tante gabbie, altrettanti piccoli teatri, in cui ogni attore è solo, perfettamente individualizzato e costantemente visibile. Il dispositivo panoptico predispone unità spaziali che permettono di vedere senza interruzione e di riconoscere immediatamente. […] La visibilità è una trappola”. (Michel Foucault, Sorvegliare e punire, cit., pag. 218)8 Jeremy Bentham, Panopticon, in Works, ed. Bowring, tomo IV, cit. in Michel Foucault, Sorvegliare e punire, cit., p.219

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Page 21: La Formazione imprigionata

Capitolo Primo

diremmo oggi, nell’area della marginalità, in un costrutto modellabile di

dominio su di essa. Il retaggio giusnaturalistico prevale nella privazione

della libertà intesa come somministrazione di sofferenza e di

sospensione dei diritti personali e relazionali, pur se orientati, almeno in

teoria, al cambiamento dell’individuo9, cambiamento che avrebbe dovuto

basarsi sull’ammissione delle proprie responsabilità e la modifica dei

propri comportamenti.10

Per poter costruire e mantenere questa società disciplinare si

devono realizzare almeno quattro condizioni o requisiti:

1. adoperarsi per una ripartizione spaziale degli individui

2. mantenere il totale controllo delle attività individuali

3. costituire e pianificare esercizi di complessità crescente

4. spostare o collocare i singoli con precisione per ottenere un

apparato efficace.11

Ciò che è avvenuto, come si può osservare, è una mutazione del

concetto stesso di disciplina. Mutuato dal gergo militare, col termine

disciplina si intendeva, nell’età classica, tutto l’insieme delle pratiche

volte a neutralizzare i pericoli, sia di crimini, sia di diserzioni; adesso,

nell’età moderna, la società borghese ne orienta il significato verso

direzioni più positive: è uno strumento per accrescere le capacità e

9 Cfr. Gaetano De Leo, Psicologia della responsabilità, Roma-Bari, Laterza, 199610 Cfr. Di Gennaro, Breda, La Greca, Ordinamento penitenziario e misure alternative alla detenzione, Milano, Giuffré, 199711 “La disciplina fabbrica, partendo dai corpi che essa controlla, quatto tipi di individualità, o piuttosto una individualità che è costituita da quattro caratteri: essa è cellulare (attraverso il gioco della ripartizione spaziale), è organica (attraverso la codificazione delle attività), è genetica (attraverso il cumulo del tempo), è combinatoria (attraverso la composizione delle forze). E per far questo mette in opera quattro grandi tecniche: costruisce dei quadri, prescrive delle manovre, impone degli esercizi, e infine, per assicurare la combinazione delle forze, organizza delle «tattiche»”. (Foucault, Sorvegliare e punire, cit., p.183)

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Page 22: La Formazione imprigionata

Capitolo Primo

l’efficienza di soldati, lavoratori, scolari ecc., insomma un salto di

efficienza dell’intero ordine sociale.

In precedenza abbiamo visto come l’umanizzazione delle pene

fosse soltanto apparentemente animata da spirito compassionevole ed

egualitario mentre, una volta passata ad un filtro più stretto essa appariva

come uno strumento di conferma del potere12. Così come in quel caso,

anche nell’analisi della genesi della società disciplinare, soprattutto ad

opera di Michel Foucault, le norme e gli standard, vera ossessione della

società borghese, lungi dall’essere strumento di parificazione sociale e

clausole di un contratto democratico come apparirebbero se ci si

fermasse alla loro formale omogeneità, non sono che ulteriori strumenti

12 Non soltanto gli atti di sanzionare, condannare ed infliggere sofferenze sono da mettere in relazione al potere, anche il perdono, in particolare la Grazia, possono essere strumenti nelle mani del sovrano per rimarcare la sua supremazia. Esiste una splendida pagina di Elias Canetti, scritta con il suo caratteristico stile per immagini, per dare colore e profondità all’argomento. Scrive: “[…] Il potente non perdona mai veramente. Egli registra con precisione ogni atto ostile e lo tiene in serbo, fingendo d’averlo dimenticato: potrà servirgli per barattarlo con una completa sottomissione. Le azioni magnanime dei potenti hanno sempre questo scopo: essi ambiscono sottomettere tutto ciò che si oppone loro, a tal punto da pagare spesso un prezzo esageratamente alto per quella sottomissione.”“Il debole – continua Canetti –, cui il potente sembra enormemente forte, non si accorge di quanto sia importante per il potente stesso la completa sottomissione di tutti. Egli può valutare un accrescimento di potere solo in base al suo peso effettivo e non riesce ad afferrare quanto conti per il sovrano in maestà la genuflsessione dell’ultimo, dimenticato, miserabile suddito. L’interesse del Dio biblico per ogni uomo, la tenacia e la cura con cui il Dio non dimentica alcun’anima, può essere di alto esempio per tutti i potenti. Il Dio, inoltre, ha istituito un complesso traffico di indulgenze: chi gli si sottomette, riacquista la sua grazia. Egli però, dopo, osserva attentamente il comportamento dello schiavo, e nella sua onniscienza scopre facilmente se quegli torna a ingannarlo.”“È fuor di dubbio – insiste il premio Nobel per la letteratura – che molti divieti hanno l’unica funzione di sorreggere il potere di coloro che possono punirne e perdonare le trasgressioni. La grazia è un atto di potere eccezionalmente alto e concentrato proprio perché presuppone la condanna; se non è stata pronunciata una condanna, non può aver luogo alcun atto di grazia. La grazia implica anche un’elezione. Di regola, non si grazia più di un determinato, limitato, numero di condannati. Il punitore si guarda bene dall’essere troppo mite: anche quando fa mostra che la durezza dell’esecuzione contrasti con la sua intima natura, egli si dice costretto a fondare il suo comportamento sulla sacra necessità della punizione. Egli però lascia sempre aperta la via alla grazia, sia che la conceda egli stesso in determinati, singoli casi, sia che raccomandi di concederla alla superiore istanza cui può essere affidato il giudizio.Il potere si manifesta al culmine della sua crescita là dove la grazia giunge all’ultimo momento. Quando l’uccisione che è stata decretata sta per essere compiuta, sotto la forca o dinanzi al plotone d’esecuzione, la grazia giunge come una nuova vita. Il potere ha un limite giacché non gli è possibile restituire alla vita chi è stato davvero ucciso: ma con l’atto di grazia che giunge dopo lungo temporeggiare, il potente sembra spesso aver quasi superato quel limite.” Elias Canetti, Massa e potere, Milano, Adelphi,1981, p.360

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Page 23: La Formazione imprigionata

Capitolo Primo

di classificazione, gerarchizzazione e di distribuzione dei ranghi sociali

che evidenzia e cristallizza le differenze tra una classe sociale e l’altra

consentendo alle classi dominanti di conservare, anzi, di rafforzare, il

potere sugli uomini appartenenti alle classi sociali più deboli.

1.1.2 Le teorie della pena

In modo evidentemente contraddittorio, per i giuristi, con il termine

pena si deve intendere contemporaneamente sia sofferenza inflitta, che

riabilitazione. Sebbene delle funzioni attribuite alla pena13 l’unica

espressamente ricordata nella Costituzione sia quella rieducativa, non ci

pare tuttavia che questa sia tra le funzioni che, nel concreto, siano assolte

con maggiore intensità e frequenza. Anzi, nella maggior parte dei casi

essa sembrerebbe completamente disattesa.

Una delle ragioni sta probabilmente nei significati che, nel corso del

tempo e del susseguirsi degli atti legislativi in materia giudiziaria, via via

hanno assunto la funzioni retributiva e riabilitativa della pena. A seconda

dell’orientamento ideologico e politico del momento anche il

bilanciamento tra gli scopi che avrebbero dovuto assolvere le sanzioni ha 13 È consolidato attribuire alla sanzione penale almeno tre funzioni principali:

1. la funzione retributiva, o afflittiva, che consiste nella sofferenza attribuita al condannato come retribuzione per il male commesso;

2. la funzione riparativa che, con la risoluzione adottata dall’Economic and Social Council (ECOSOC) nella sessione 2000, nel definire i Principi base sull’uso dei programmi di giustizia riparativa in ambito penale (Risoluzione 2000/14) afferma al punto 3 che per “giustizia riparativa va inteso quel procedimento nel quale la vittima e il reo, e se appropriato, ogni altro individuo o membro e della comunità lesi da un reato partecipano insieme attivamente alla risoluzione delle questioni sorte dall’illecito penale, generalmente con l’aiuto di un facilitatore…”. Si tratta pertanto di un modello di giustizia che coinvolge nella ricerca di soluzioni agli effetti del conflitto generato dal fatto delittuoso, oltre al reo anche la vittima e la comunità, al fine di promuovere la riparazione del danno, la riconciliazione fra le parti e il rafforzamento del senso di sicurezza collettivo. (Cfr. Ministero della Giustizia – Commissione di Studio “Mediazione Penale e Giustizia Riparativa”, Giustizia riparativa e mediazione penale. Linee di indirizzo sull’applicazione nell’ambito dell’esecuzione penale di condannati adulti, Marzo 2005);

3. la funzione rieducativa, o di emenda, che, almeno in teoria, dovrebbe mirare alla riabilitazione del condannato per cercare di reinserirlo nella vita sociale.

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Page 24: La Formazione imprigionata

Capitolo Primo

subito modifiche. Al giorno d’oggi si sommano molteplici approcci

teorici, alcuni maggiormente sbilanciati verso la quota retributiva, altri

verso la parte riabilitativa.

Il filosofo Seneca, nel De Ira, scrive: Nam, ut Plato ait, nemo

prudens punit quia peccatum est, sed ne peccetur, revocari enim

praetererita non possunt, futura prohibentur14. Questa massima

racchiude in sé i fondamenti di due importanti filoni teorici sulle

modalità dell’esecuzione penale. I fautori della funzione retributiva come

orientamento principale considerano preminente la punizione per il fatto

commesso, il quia peccatum est, mentre i riabilitazionisti mirano

maggiormente alla prevenzione di fatti criminosi futuri, ne peccetur.

Prevale, nei retributivisti, il fattore morale della pena che deve

servire prima di tutto a ristabilire l’ordine, naturale prima che sociale,

violato dall’azione criminale. Il paradigma retribuzionista, come molte

teorie meccanicistiche e deterministiche, pare sgretolarsi inesorabilmente

di fronte alla complessità dell’essere umano. Innanzitutto non si parla di

una astratta riduzione di molte libertà di un individuo ma, in concreto, di

una serie di afflizioni rivolte a persone che non hanno commesso alcun

reato, come i familiari del condannato costretti loro malgrado a far fronte

a disagi, talvolta oltremodo insormontabili, derivanti dalla detenzione del

loro caro, di prescrizioni penali generaliste che non prendono in

considerazione il fatto che il peso effettivo di una data condanna può

gravare in modo diverso a seconda delle caratteristiche personali

dell’individuo, come l’età, il grado di salute, le risorse economiche,

personali e sociali ecc. Ciò non vale soltanto per la parte della pena da

14 Lucio Anneo Seneca, Dialogorum libri – I dialoghi. Volume 1: De Ira – L’ira, Milano, Mursia, 1993. [Così infatti dice Platone: «Nessun uomo prudente infligge una punizione perché c’è una colpa, ma perché non si commetta colpa: il passato non si può revocare, il futuro lo si previene»].

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Page 25: La Formazione imprigionata

Capitolo Primo

scontare all’interno delle mura di un carcere, cosa che appare più

evidente, ma anche qualora la pena si svolga in una misura alternativa. Si

pensi, per esempio, al caso di un giovane extracomunitario e di un ricco

imprenditore, ad entrambi i quali vengano accettate le istanze di

detenzione domiciliare. Quest’ultimo potrà scontare la misura all’interno

della propria villa con piscina e vari comfort, oltre magari ad esercitare

liberamente la propria professione da casa; molto probabilmente, invece,

il migrante con domicilio precario e lavoro saltuario, artigianale, magari

pure in nero, rischia di trovarsi paradossalmente in una situazione ancora

peggiore che permanere nel carcere dove, per lo meno, vitto e alloggio

sono garantiti. Si badi che quest’esempio rappresenta un’estremizzazione

del problema soltanto per quanto riguarda il caso del ricco imprenditore

mentre è molto probabile imbattersi in persone con scarse risorse sia

individuali che sociali, condizioni queste spesso irrinunciabili per

l’ottenimento di un livello minimo di diritti e benefici15

Chi invece preferisce dare maggior credito alla seconda parte della

massima di Seneca e, quindi, guardare con più decisione al futuro del

“peccatore” ed al suo reinserimento nella società si rifà sovente ai

principi della prevenzione speciale, che ha lo scopo di impedire ad un

soggetto di delinquere normalmente, e prevenzione generale, orientata

verso il potere deterrente sull’intera società della pena inflitta ad un

individuo.16 Le teorie che si rifanno al principio della prevenzione

speciale hanno, al loro interno, un’ulteriore divisione a seconda degli

15 Cfr. Luigi Berzano, La pena del non lavoro, Milano, Franco Angeli, 1994.16 Così scriveva in proposito il Beccaria: “[…] il fine delle pene non è di tormentare ed affliggere un essere sensibile, né disfare un delitto già commesso […] il fine dunque non è altro che d’impedire il reo dal far nuovi danni ai suoi cittadini e di rimuovere gli altri dal farne uguali. Quelle pene dunque e quel metodo d’infliggerle deve essere prescelto che, serbata la proporzione, farà un’impressione più efficace e durevole sugli animi degli uomini e la meno tormentata sul corpo del reo (Beccaria, Dei delitti e delle pene, cit., p.31)

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Page 26: La Formazione imprigionata

Capitolo Primo

scopi attribuiti alla punizione. Siamo di fronte a due visioni della finalità

penale, una, cosiddetta positiva, assegna alla pena funzioni di

modificazione del comportamento del detenuto e mira ad obbiettivi

futuri; l’altra, negativa, più pessimisticamente della precedente, intende

la carcerazione come uno strumento per neutralizzare il soggetto.

Entrambe queste finalità sono racchiuse nelle teorie che si rifanno alla

prevenzione speciale. Una prima visione, di tipo moralistico, si basa

sulle scritture sacre e, quindi, sulla concezione espiatoria della punizione

in vista del reinserimento nella società.

Un’altra teoria trae origine dalla visione positivistica che vede il

delinquente come geneticamente o socio-culturalmente inferiore per

distaccarsene, soprattutto laddove si suppone la totale incorreggibilità

del reo e quindi socialmente pericoloso per natura. Al centro della

questione, i sostenitori della Nuova Difesa Sociale, collocavano la

responsabilità sociale che poteva essere recuperata mediante un

intervento che, per molti aspetti, precorreva più di altri quello che ai

nostri giorni chiamiamo trattamento. Si parla, infatti, della necessità di

rimuovere le cause che hanno portato a compiere il reato. Questa

operazione usava strumenti come un trattamento individualizzato, alcune

misure alternative alla pena detentiva e l’osservazione scientifica della

personalità. Quest’ultima doveva consistere in controlli medici e

psichiatrici, nonché in accertamenti sociologici, il tutto finalizzato ad

una prognosi a partire dalla quale veniva eventualmente decisa

l’applicazione della misura alternativa17.

Accanto agli orientamenti moralistico e scientifico troviamo, infine,

le teorie special-preventive della differenziazione personalizzata secondo

17 Cfr. Marc Ancel, La nuova difesa sociale, Milano, Giuffré, 1966

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Page 27: La Formazione imprigionata

Capitolo Primo

cui il reo deve essere condannato ad una pena che rispecchi le sue

caratteristiche personali ma che, comunque, non perda di vista ma, anzi,

integri il più possibile le finalità di risocializzazione, intimidazione e

neutralizzazione del condannato.

Tutte queste teorie, pur evidenziando le rispettive differenze, hanno

un punto comune, una sorta di minimo comun denominatore,

rappresentato dalla medesima prospettiva riguardo al reato visto non

tanto come scelta individuale libera ed autodeterminata, quanto,

piuttosto, come sintomo di una malattia della sfera morale, sociale o

naturale. Il carcere non può che essere visto come l’istituzione preposta

alla cura che, differentemente da ciò che avviene laddove di cura si parla

più propriamente, cioè l’ospedale, ciò su cui agisce la “terapia” non è la

fisicità ma la personalità dell’individuo. Che si sia orientati alla sua

neutralizzazione o alla sua trasformazione ciò che emerge è la natura

manipolatoria che la pena deve mantenere viva in se stessa. La sanzione

non riesce ancora a uscire dalla rigida e ripetitiva conformazione, di

stampo feudale, che la assimila ad un percorso unidirezionale il cui

punto di partenza è sempre il sovrano, chiunque egli sia, dotato di potere

discrezionale sui subordinati destinati, loro malgrado, a subire tale

potere. L’uomo non è più un corpo su cui mandare in scena la

rappresentazione del dolore, egli è un’anima bacata da modificare, una

vita da porre “sulla retta via”. Ma chi stabilisce quale sia la “retta via”?

Le sacre scritture, il contratto sociale o l’utile? Oppure qualcos’altro?

Inoltre, le finalità di risocializzazione, intimidazione e neutralizzazione

si rivelano puramente teoriche e si scontrano con alcuni dati di fatto

come l’alto tasso di recidività, la dimostrata azione criminogena della

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Page 28: La Formazione imprigionata

Capitolo Primo

detenzione e, soprattutto, la dignità dell’uomo che, anche se criminale,

non può essere mai considerato inferiore al punto da doversi vedere

attribuiti bisogni rieducativi e pratiche risocializzanti standardizzate ma

deve, invece, aver riconosciuto il diritto alla propria autodeterminazione

e, soprattutto se soggetto marginale, di liberare le proprie capacità di

sviluppo.

Le teorie della prevenzione generale seguono lo stesso canovaccio.

Si sposta il fulcro della leva dall’individuo alla società ma il risultato

cambia ben poco: chi esercita la forza è sempre chi detiene il potere. Le

dottrine general-preventive di tipo positivo mirano all’integrazione

sociale, ad un’integrazione, comunque, ad alto tasso di conformismo ed

assimilazione18 che ha principalmente un effetto sedativo sull’allarme

sociale, generato specialmente da alcuni crimini, e una riaffermazione

della solidarietà sociale19.

La visione negativa dell’approccio della prevenzione generale porta

a considerare che la pena debba avere il compito di fornire un esempio e,

di conseguenza, viene lasciato in evidenza il valore deterrente della

minaccia della pena. Questa lettura della punizione lascia molti dubbi

sull’eticità di una punizione che utilizzi, di fatto, il singolo individuo per

fini di manutenzione sociale. Ne consegue la legittimità della condanna

di un innocente se l’effetto ottenuto è la pace sociale, il prevalere della

ragion di Stato. Vengono subito a mente vari esempi che hanno segnato

la parte più buia della nostra Repubblica negli ultimi decenni.

18 Esse, infatti, “assegnano alle pene funzioni di integrazione sociale tramite il generale rafforzamento della fedeltà allo Stato nonché la promozione del conformismo delle condotte” (Luigi Ferrajoli, Diritto e ragione. Teoria del garantismo penale, Bari, Laterza, 1989, p. 263)19 Emile Durkheim, Due leggi dell’evoluzione penale, in Emilio Santoro (a cura di), Carcere e società liberale, Torino, Giappichelli, 1997.

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Page 29: La Formazione imprigionata

Capitolo Primo

Il tema della rassicurazione dell’opinione pubblica, come possiamo

vedere quotidianamente, è oggi molto sentito e viene da chiedersi fino a

che punto sia la criminalità a portare il sistema politico a dover

rassicurare la società o, piuttosto, non sia lo stesso sistema politico ad

allargare il fronte dell’illegalismo popolare su cui costruire sia l’allarme

sociale che le soluzioni legislative che gratifichino l’elettorato.

L’ordinamento di epoca fascista partiva dall’assunto che la pena

dovesse avere il duplice carattere di pura retribuzione e difesa sociale

mentre la Corte Costituzionale, ha orientato la giurisprudenza

penitenziaria in senso sempre più rieducativo20 e risocializzante della

pena partendo dal fatto che difesa sociale e prevenzione, soprattutto

visto il carattere chiuso dell’istituzione carceraria che può rendere non

facilmente controllabile ciò che realmente avviene al suo interno, fanno

correre “il rischio di strumentalizzare l'individuo per fini generali di

20 Cfr., Alessandro Margara, “Il destino del carcere” in Ordine e Disordine, volume a cura della Fondazione Michelucci, 2007, pp.17-49: «Si parte dalla sentenza costituzionale n. 204/74, nella quale si legge: “Con l’art. 27, comma 3, Cost.,” “il fine ultimo e risolutivo della pena stessa, quello, cioè, di tendere al recupero sociale del condannato”, “ha assunto un peso ed un valore più incisivo di quello che non avesse in origine; rappresenta, in sostanza, un peculiare aspetto del trattamento penale e il suo ambito di applicazione presuppone un obbligo tassativo per il legislatore di tenere non solo presenti le finalità rieducative della pena, ma anche di predisporre tutti i mezzi idonei a realizzarle e le forme atte a garantirle. Sulla base del precetto costituzionale sorge, di conseguenza, il diritto per il condannato a che, verificandosi le condizioni poste dalla norma di diritto sostanziale, il protrarsi della realizzazione della pretesa punitiva venga riesaminato al fine di accertare se in effetti la quantità di pena espiata abbia o meno assolto positivamente al suo fine rieducativo e tale diritto deve trovare nella legge una valida e ragionevole garanzia giurisdizionale”.»«In questa sentenza troviamo l’affermazione di un principio, costruito come diritto soggettivo del condannato a vedere riesaminare, durante la esecuzione della pena, nei tempi e modi stabiliti dalla legge ordinaria, se la parte di pena espiata abbia già assolto positivamente o meno al suo fine rieducativi: se è così, la esecuzione deve proseguire in misura alternativa alla detenzione, ovvero, nel caso deciso dalla Corte Costituzionale, in liberazione condizionale (allora, prima dell’entrata in vigore dell’Ordinamento penitenziario, unica misura alternativa). Si noti che la individuazione di tale diritto soggettivo è centrale nella sentenza, perché, dal riconoscimento di tale posizione giuridica del soggetto, deriva la affermazione della competenza a decidere del giudice ordinario in materia di liberazione condizionale e la dichiarata incostituzionalità della competenza del ministro della giustizia, prevista dalla normativa allora vigente. Nella sentenza costituzionale si costruisce, in modo esplicito, il rapporto esecutivo penale come quello in cui lo Stato afferma la sua pretesa punitiva e il condannato ha però il diritto soggettivo che si è descritto, nato, come la sentenza chiarisce, dall’ “obbligo tassativo, per il legislatore, di tenere non solo presenti le finalità rieducative della pena, ma anche di predisporre tutti i mezzi idonei a realizzarle e le forme atte a garantirle”.»

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Page 30: La Formazione imprigionata

Capitolo Primo

politica criminale (prevenzione generale) o di privilegiare la

soddisfazione di bisogni collettivi di stabilità e sicurezza (difesa

sociale), sacrificando il singolo attraverso l'esemplarità della sanzione.

È per questo che, in uno Stato evoluto, la finalità rieducativa non può

essere ritenuta estranea alla legittimazione e alla funzione stesse della

pena "21. Il carattere di istituzione totale22, autoritaria e chiusa verso

l’esterno, del carcere rischia di fungere da impedimento alla trasparenza

e il controllo da parte dell’opinione pubblica sulle attività svolte

all’interno. L’aspetto pubblico è confinato, per lo più, alla fase

preliminare l’incarcerazione, all’accusa, all’allarme sociale generato dal

reato, sia individuale che come effetto, almeno presunto,

dell’appartenenza, a determinate classi o categorie sociali23, con la

sempre disponibile grancassa della maggior parte dei mezzi di

comunicazione di massa.

Fin qui abbiamo preso in esame le teorie cosiddette

giustificazioniste, quelle teorie, cioè, che in definitiva giustificano la

21 Sentenza Corte Costituzionale n.313 del 26 giugno 199022 Erving Goffman,.Asylums. Le istituzioni totali: i meccanismi dell’esclusione e della violenza , Torino, Einaudi, 2003. Orig. Asylums. Essays on the social situation of mental patients and other inmates, Random House, 1961. L’autore definisce così le istituzioni totali: “Nella nostra società occidentale ci sono tipi diversi di istituzioni, alcune delle quali agiscono con un potere inglobante – seppur discontinuo – più penetrante di altre. Questo carattere inglobante o totale è simbolizzato nell’impedimento dello scambio sociale e all’uscita verso il mondo esterno, spesso concretamente fondato nelle stesse strutture fisiche dell’istituzione: porte chiuse, alte mura, filo spinato, rocce, corsi d’acqua, foreste o brughiere. Questo tipo di istituzioni il lo chiamo «istituzioni totali»”(p.34). Secondo Goffman le istituzioni totali, compreso il carcere, sono luoghi dove troviamo integrate in un unico luogo caratteristiche riscontrabili singolarmente in altre istituzioni:

1. attività che normalmente l’uomo svolge in luoghi diversi, con compagni diversi sotto diverse autorità o senza alcuno schema razionale di carattere globale, come dormire, divertirsi e lavorare, vengono praticate nello stesso luogo e sotto la stessa, unica autorità;

2. queste attività quotidiane si svolgono a stretto contatto con un enorme gruppo di persone (gli internati) trattati allo stesso modo ed obbligati a fare le stesse cose;

3. le medesime attività sono programmate rigidamente tramite un sistema di regole formali imposte dall’alto la cui esecuzione è controllata da addetti speciali (lo staff)

4. il tutto è finalizzato al raggiungimento degli scopi ufficiali che la stessa istituzione si prefigge23 Secondo alcuni studiosi, l’appartenenza ad alcune categorie, in particolare i migranti, costituirebbe elemento sufficiente a determinarne la propensione a delinquere. (Cfr. Marzio Barbagli, Immigrazione e criminalità in Italia, Bologna, Il Mulino, 1998)

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Page 31: La Formazione imprigionata

Capitolo Primo

pena pur se con i dovuti distinguo fondati sulle diverse prospettive da cui

esse vengono analizzate.

1.2 Il trattamento nelle norme

1.2.1 L’Ordinamento Penitenziario

Il 30 Agosto del 1955 l’ONU emanava la risoluzione “Regole

minime standard per il trattamento dei detenuti24” apportando la novità

del personale specialistico per il trattamento rieducativo, anche se

prudentemente viene auspicato “laddove possibile” ed “in numero

sufficiente”.25 Si tratta per l’appunto di regole minime sulle quali

ciascuno Stato avrebbe dovuto poi costruire la propria legislazione in

materia penitenziaria.

Per ciò che riguarda il nostro Paese la funzione rieducativa della

pena era stata riaffermata nella legislazione con la Costituzione della

Repubblica Italiana26. Per attuare i dettami della Costituzione e delle

Nazioni Unite, come quasi sempre è accaduto in tema di giustizia, a fare

da pilota per gli esperimenti di riforma giudiziaria è stato il sistema

penale minorile. Soltanto un anno dopo la Risoluzione ONU, infatti,

nascono, con la Legge n.888 del 25 Luglio 1956, nuove figure giuridiche

come l’Istituto di Osservazione, l’Ufficio di Servizio Sociale e l’Istituto

Medico-Psico-Pedagogico. Di fatto, seppur nel solo settore minorile,

fanno l’ingresso nel sistema carcerario italiano l’educatore, lo psicologo

e l’assistente sociale. A onor del vero qualcosa si è sperimentato anche

nel settore degli adulti, anche se soltanto dei più giovani, con l’Istituto di

24 Per il testo integrale (in inglese) vedi: http://www.ohchr.org/english/law/treatmentprisoners.htm25 Ivi, Art.4926 In particolare all’Art.27 c.3 Cost.: Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato

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Page 32: La Formazione imprigionata

Capitolo Primo

Osservazione di Rebibbia, al quale si è affiancato nel 1959 il primo

Istituto di Trattamento, a Milano il Centro di Osservazione (nel 1960) e

l’Istituto di Trattamento (1963) e a Napoli Poggioreale l’istituto

sperimentale nel 1969.

A metà degli anni ‘70 arriva finalmente la riforma

dell’Ordinamento Penitenziario con la Legge del 26 Luglio 1975 n.354

concernente “Norme sull’Ordinamento Penitenziario e sulla esecuzione

delle misure preventive e limitative della libertà personale” e con il DPR

del 29 Aprile 1976 n.431 che approva il “Regolamento di esecuzione”

della legge e che determina i significati dell’osservazione e del

trattamento nonché le competenze degli operatori e, importante novità, la

previsione delle figure di esperti specialisti in psichiatria, criminologia,

pedagogia e servizio sociale. La Legge 354/75, che d’ora in poi per

comodità definiremo semplicemente O.P., Ordinamento Penitenziario,

stabilisce fin dai primi commi quale siano gli intenti ufficiali che ne

hanno dato origine.

All’art. 1 O.P. si legge, infatti: “Il trattamento penitenziario deve

essere conforme ad umanità e deve assicurare il rispetto della dignità

della persona. Il trattamento è improntato ad assoluta imparzialità,

senza discriminazioni in ordine a nazionalità, razza e condizioni

economiche e sociali, a opinioni politiche e a credenze religiose. […]

Nei confronti dei condannati e degli internati deve essere attuato un

trattamento rieducativo che tenda, anche attraverso i contatti con

l’ambiente esterno, al reinserimento sociale degli stessi. Il trattamento è

attuato secondo un criterio di individualizzazione in rapporto alle

specifiche condizioni dei soggetti.”

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Page 33: La Formazione imprigionata

Capitolo Primo

Più avanti, il dispositivo entra nello specifico indicando, al Capo

III, le modalità secondo cui il trattamento deve essere realizzato. In

particolare l’Art.13 riguarda la cosiddetta individualizzazione del

trattamento. Se pensiamo al dettato costituzionale, nella parte in cui fa

riferimento alla tendenza al recupero sociale della persona detenuta,

difficilmente ci potrebbe venire in mente che questa si possa realizzare in

modo collettivo prescindendo dai bisogni, dalle prerogative e

propensioni individuali. Ed infatti in questo articolo si rende esplicita la

necessità, per il trattamento penitenziario, di “rispondere ai particolari

bisogni della personalità di ciascun soggetto” la ricerca dei quali si

dovrebbe attuare mediante “l’osservazione scientifica della personalità

per rilevare le carenze fisiopsichiche e le altre cause del disadattamento

sociale […] compiuta all’inizio dell’esecuzione [penale] e proseguita nel

corso di essa”.27 Al termine dell’osservazione “sono formulate

indicazioni in merito al trattamento rieducativo da effettuare ed è

compilato il relativo programma, che è integrato o modificato secondo

le esigenze che si prospettano nel corso dell’esecuzione”. Molto

interessante è l’ultimo comma nel quale si dice testualmente che “deve

essere favorita la collaborazione dei condannati e degli internati alle

27 Per comprendere in cosa dovrebbe consistere la scientificità dell’osservazione della personalità, è forse utile fare un passo indietro fino agli inizi degli anni ’60. Siamo negli anni in cui si sperimentano i primi istituti di osservazione, Rebibbia in primis, e si coltiva l’illusione che la risoluzione dei problemi dei detenuti passi unicamente attraverso la rilevazione e la classificazione scientifica delle loro anomalie biopsichiche. La scientificità dell’operazione viene assicurata dall’integrazione degli interventi di professionisti specializzati: psicologi, psichiatri, medici internisti, elettroencefalografisti, educatori e assistenti sociali. È su queste basi “scientifiche” che si basa, nel giugno del 1960, l’allora ministro Gonella, quando coordina un gruppo di magistrati della Direzione Generale degli Istituti di Prevenzione e Pena nell’elaborazione di un progetto di legge sul carcere che opera nel chiuso di un comitato di studio ben lontano dall’assemblea parlamentare, particolare tra l’altro di cui alcuni studiosi hanno annotato l’autocentrismo e la preoccupante mancanza di controllo democratico (Cfr. Guido Neppi Modona, Appunti per una storia parlamentare della riforma penitenziaria, in La questione criminale, 1976, n.2-3).

33

Page 34: La Formazione imprigionata

Capitolo Primo

attività di osservazione e di trattamento” che sottolinea il carattere non

coercitivo dell’osservazione e del trattamento.

Ora, se andiamo oltre nella lettura dell’Ordinamento Penitenziario,

all’art.15 scopriamo che, secondo il legislatore, “il trattamento del

condannato e dell’internato è svolto avvalendosi principalmente

dell’istruzione, del lavoro, della religione, delle attività culturali,

ricreative e sportive e agevolando opportuni contatti con il mondo

esterno ed i rapporti con la famiglia.” Inoltre: “Ai fini del trattamento

rieducativo, salvo casi di impossibilità, al condannato e all’internato è

assicurato il lavoro. Gli imputati sono ammessi, a loro richiesta, a

partecipare ad attività educative, culturali e ricreative e, salvo

giustificati motivi o contrarie disposizioni dell’autorità giudiziaria, a

svolgere attività lavorativa o di formazione professionale, possibilmente

di loro scelta e, comunque, in condizioni adeguate alla loro posizione

giuridica.” Sia dal dettato costituzionale che dai primi commi

dell’Ordinamento Penitenziario parrebbe che al centro dell’attenzione sia

messo il soggetto detenuto verso il quale l’amministrazione penitenziaria

e, in senso più esteso, l’intero meccanismo giudiziario, si debba attivare

ai fini di una ricostruzione dell’integrazione sociale ma, proseguendo

nella lettura, emergono dal sottosuolo elementi che nella realtà

quotidiana del carcere sono effettivamente i principali riferimenti

dell’intero processo trattamentale e, in definitiva, la ragione d’essere del

carcere stesso.

34

Page 35: La Formazione imprigionata

Capitolo Primo

1.2.2 Le misure alternative alla detenzione

Rispetto al disegno di legge Gonella del giugno 1960, verso la metà

degli anni ’70, si assiste ad un mutamento del paradigma alla base della

concezione della punizione e della riabilitazione del condannato. Siamo

nel novembre 1973, quando il ministro Zagari può affermare: “[…]

bisogna considerare il carcere non più come una realtà separata [ma

come] una delle tante formazioni sociali in cui vivono quei cittadini che,

se pure hanno violato la legge penale, non devono per questo sentirsi

definitivamente esclusi dal contesto sociale” e “bisogna spezzare in

modo irreversibile quella spirale di incomunicabilità che aveva

caratterizzato in passato i rapporti tra il carcere e il mondo esterno”28.

È su queste basi che poggia l’inserimento dell’affidamento in prova ai

servizi sociali tra le misure alternative alla detenzione, pene che possono

essere scontate fuori dal carcere, previste nell’ordinamento penitenziario

in discussione nelle aule parlamentari e che, almeno in teoria, collocano

il carcere tra le sanzioni penali da usare in casi estremi e laddove venga

esclusa la pericolosità sociale del soggetto. A proposito della variabile

pericolosità sociale giova forse ricordare che la sussistenza o meno di

tale connotazione doveva comunque essere vagliata tramite un periodo di

osservazione da trascorrere all’interno dell’istituto di pena, presupposto

in seguito progressivamente abbandonato rendendo oggi le misure

alternative accessibili anche senza entrare in carcere.

La riforma del ’75 sembra, quindi, maggiormente orientata verso

una prospettiva che mira alle fonti dei fenomeni di criminalità, le basi

28 Atti parlamentari, Senato della Repubblica Italiana, VI Legislatura, Commissione Giustizia, seduta del 7 novembre 1973. È difficile poter pensare che, parlando di incomunicabilità tra carcere e mondo esterno, il ministro non avesse in mente anche il comitato di studio del disegno di legge Gonella del 1960.

35

Page 36: La Formazione imprigionata

Capitolo Primo

sociali, economiche e culturali, rispetto alla prevalente visione repressiva

del mondo della devianza che caratterizzava i precedenti sistemi

legislativi. Cresce la sensazione, nell’opinione pubblica, che la

responsabilità individuale da sola non basti a motivare le azioni del reo

ma sia presente un quid di collettivo, all’interno di esse, di cui la società

in qualche modo debba farsi carico. Una manifestazione di questo

mutato atteggiamento è l’introduzione, all’interno dell’osservazione del

detenuto, degli aspetti socio-culturali e relazionali che si vanno ad

aggiungere alle componenti bio-psicologiche del soggetto.

Uno dei frutti tangibili di questo viraggio di mentalità è

l’introduzione dello strumento delle misure alternative alla detenzione

che sono:

1 L’affidamento in prova al servizio sociale29, concesso, in

assenza di pericolosità sociale e rischio di recidiva, a coloro

che abbiano un residuo di pena non superiore a tre anni.

Consiste nella possibilità, pur con l’obbligo di seguire

particolari prescrizioni, di scontare la pena fuori dall’Istituto.

Nel caso di persone dipendenti da sostanze (droga e alcool) è

possibile, qualora lo vogliano, espiare la pena in comunità

terapeutica30.

29 Art.47 O.P. come modificato dall’art.2 della Legge del 27 maggio 1998 n.165, Legge Simeone-Saraceni30 Art.94 D.P.R. 309/90, Testo unico in materia di stupefacenti, che va a sostituire l’Art.47-bis dell’Ordinamento Penitenziario che riguardava l’affidamento in prova in casi particolari.Lo stesso decreto sugli stupefacenti, all’Art.90, prevede la misura della sospensione della pena detentiva per coloro che, tossicodipendenti al momento del reato, abbiano già in corso un programma terapeutico o lo abbiano positivamente concluso. Da notare che, nei due casi qui sopra descritti, per poter usufruire del beneficio la pena detentiva, inflitta o residua, non deve essere superiore a quattro anni, uno in più rispetto a persone non tossicodipendenti.

36

Page 37: La Formazione imprigionata

Capitolo Primo

2 La detenzione domiciliare31 dà, anch’essa, la possibilità al

condannato di eseguire o proseguire la pena detentiva al di

fuori delle mura del carcere in un’abitazione privata o in una

clinica/comunità. Questa misura segue più di altre principi di

natura umanitaria riservandone l’applicazione a persone in

particolari condizioni di disagio: donne incinte, anziani,

giovani, disabili ecc.

3 La semilibertà32 non è una vera e propria misura alternativa,

dato che la persona condannata non perde lo status di detenuto

dovendo passare comunque la notte in istituto, ma la si può

considerare l’anticamera di misure più ampie e uno dei

principali strumenti del graduale reinserimento nella società. Di

solito essa è concedibile a patto di aver scontato almeno la

metà della pena. Fanno eccezione persone che abbiano

commesso reati a particolarmente elevato tasso di pericolosità

sociale33 per cui è previsto che debbano aver scontato almeno i

due terzi della pena, i condannati all’ergastolo che devono

avere, invece, scontato almeno venti anni. Infine, elemento di

particolare rilievo per le implicazioni che interessano più

specificamente questo lavoro, coloro cui non sono riconosciuti

i presupposti per la concessione dell’affidamento in prova ai

servizi sociali possono usufruire della semilibertà anche prima

dell’espiazione di metà della pena.

31 Art.47-ter O.P. introdotto dalla Legge 663 del 10 ottobre 1986, Legge Gozzini, e rivisto dalla già citata Legge Simeone-Saraceni del ’98 che ha ampliato le possibilità di usufruire del beneficio.32 Regolamentata dall’art.48 O.P. e delineata nei requisiti di ammissione con il successivo art.5033 Indicati nello stesso Ordinamento Penitenziario all’art.4-bis c.1

37

Page 38: La Formazione imprigionata

Capitolo Primo

4 La liberazione anticipata34 o, nel linguaggio carcerario

informale, i «giorni», è a tutti gli effetti il premio, sotto forma

di riduzione della pena pari a quarantacinque giorni ogni sei

mesi di detenzione effettivamente scontata, che viene elargito a

coloro che diano “prova di partecipazione all’opera di

rieducazione”, così recita l’articolo di legge, non incorrendo

mai in sanzioni disciplinari nel periodo di detenzione e

partecipando alle attività trattamentali.

5 Il lavoro esterno35 non è tecnicamente una misura alternativa

alla detenzione quanto piuttosto un beneficio concesso dal

direttore del carcere che, collocando presso datori di lavoro

esterni all’istituto la persona detenuta, si assume totalmente le

responsabilità della decisione e di tutto ciò che da essa possa

eventualmente conseguire. Questo rende questa misura

teoricamente forse la tappa più significativa del percorso

retributivo-trattamentale del detenuto, in pratica scarsamente

utilizzata e lasciata alla professionalità e al coraggio del singolo

direttore penitenziario che è comprensibile preferisca lasciare

un detenuto dentro piuttosto che rischiare personalmente

perfino il proprio posto di lavoro.

1.3 Gli attori

L’osservazione della personalità del detenuto e dell’internato è

maggiormente delineata nel Regolamento di Esecuzione

dell’Ordinamento Penitenziario36 che, all’Art.27 amplia il raggio

34 Art.54 OP35 Art.21 OP e art.48 RE36 D.P.R. n.431 del 29 Aprile 1976 e successive modifiche

38

Page 39: La Formazione imprigionata

Capitolo Primo

dell’analisi dei bisogni del soggetto portando l’attenzione, oltre che sugli

aspetti “fisio-psichici” di lombrosiana memoria, anche sulla sfera

affettivo-relazionale37.

Il successivo art.29 indica coloro che sono preposti alla redazione

del documento di sintesi sul trattamento individualizzato riunendoli nel

“Gruppo di Osservazione e Trattamento (GOT)” che deve essere

composto dal “personale e dagli esperti che hanno svolto le attività di

osservazione”.

Uno dei motivi che hanno spinto il legislatore a spostare il

Magistrato fuori dal carcere vero e proprio sta, con tutta probabilità,

nella filosofia che lo ha spinto ad elaborare l’intera legge di riforma. Il

tentativo era quello di spostare il baricentro della pena dalla funzione

retributiva, giuridico-centrica per natura, verso prospettive

maggiormente inclini a considerare il detenuto come un uomo da

sostenere e condurre verso una completa riabilitazione sociale.

Probabilmente, si è pensato, il fatto di lasciare il trattamento

maggiormente in mano alle nuove figure introdotte proprio dalla riforma,

l’educatore e l’assistente sociale dell’area esterna, avrebbe dato una

spallata decisiva alla mentalità securitaria allora, come oggi, tuttavia,

preminente. Nella realtà molte di queste buone intenzioni sono rimaste

sulla carta non completate da un’adeguata e coerente distribuzione delle

competenze e delle mansioni delle nuove figure professionali. In ipotesi

37 Ivi, Art.27 c. 1 e 2: “[…]l’osservazione scientifica della personalità è diretta all’accertamento dei bisogni di ciascun soggetto connessi alle eventuali carenze fisio-psichiche, affettive, educative e sociali che sono state di pregiudizio all’instaurazione di una normale vita di relazione. Ai fini dell’osservazione si provvede all’acquisizione dei dati giudiziari e penitenziari, biologici, psicologici e sociali e alla loro valutazione con riferimento al modo in cui il soggetto ha vissuto le sue esperienze e alla sua attuale disponibilità ad usufruire degli interventi di trattamentoAll’inizio dell’esecuzione, l’osservazione è specificamente rivolta, con la collaborazione del condannato e dell’internato, a desumere elementi per la formulazione del programma individualizzato di trattamento, il quale è compilato nel termine di nove mesi..”

39

Page 40: La Formazione imprigionata

Capitolo Primo

potremmo supporre che ciò sia avvenuto in conseguenza della notevole

compressione cui la legge, al suo stadio embrionale, fu sottoposta in sede

di dibattito parlamentare e, come del resto si può osservare con

qualunque disegno di legge, ciò che ne è emerso è un qualcosa che vede

molto diluiti al suo interno i princìpi base che guidarono i suoi ideatori.

Per adesso ci limitiamo alla descrizione dei fenomeni legati al

trattamento mentre ci riserviamo il successivo capitolo per approfondire

le ragioni delle contraddizioni che, comunque, già a livello intuitivo

emergono in gran quantità.

È l’art.80 OP ad indicare gli operatori professionali preposti al

trattamento penitenziario. Così recita, al comma 1: “Presso gli istituti di

prevenzione e di pena per adulti, oltre al personale previsto dalle leggi

vigenti, operano gli educatori per adulti e gli assistenti sociali

dipendenti dai centri di servizio sociale previsti dall’articolo 72”

1.4 I processi del trattamento

Il trattamento è un processo che, nella teoria, deve iniziare al

momento esatto in cui un soggetto raggiunge lo status di condannato,

quindi a seguito della sentenza definitiva. Nella pratica, questo non

avviene oppure, nel migliore dei casi, si risolve nella mera sottoscrizione

del patto trattamentale senza tuttavia che da esso derivi direttamente

l’azione formativa.

A seconda dell’orientamento teorico o della particolare sensibilità

che caratterizza chi affronta l’argomento si possono incontrare, per

indicare lo sia lo scopo che i mezzi del trattamento penitenziario, i

termini rieducazione, riabilitazione oppure risocializzazione. Nessuno di

40

Page 41: La Formazione imprigionata

Capitolo Primo

questi concetti, preso a sé, ci pare possa rappresentare da solo

l’obbiettivo che, solo teoricamente, ribadiamo, la sanzione penale si

pone quando esce dalla funzione retributiva ed affronta l’uomo nel suo

essere complesso. Rieducazione, riabilitazione e risocializzazione ci

paiono essere, più che fonti di costruzione di capacità e competenze

personali di un essere umano destinato a vivere in un contesto sociale,

gli effetti di una progressiva ma solida integrazione col mondo che lo

circonda e nel quale, al pari di chi non ha mai avuto la ventura di

“toccare” il carcere, è destinato a vivere. L’uomo e la donna che

usciranno dal carcere dovranno, quindi, essere capaci di pensare ed agire

non soltanto allo scopo di evitare di ritornare nel circuito penale ma

anche di mettere a disposizione della società che li circonda e di se stessi

le proprie competenze, i propri pensieri e la propria soggettività.

I concetti di rieducazione, riabilitazione e risocializzazione, perché

si concretizzino in azioni formative hanno, sia pure con qualche

sfumatura, un fondo autoritario che tende a limitare, se non ad escludere

in toto, la partecipazione dell’individuo al processo formativo. C’è

sempre qualcuno al di sopra del detenuto che formula la diagnosi e

stabilisce la terapia alla quale egli, come un “paziente”, dovrà

uniformarsi se vorrà guarire. Alcune circolari interne al DAP mirano allo

scopo di favorire la partecipazione del detenuto al “programma di

trattamento”, sia all’atto della redazione del progetto che durante il suo

svolgimento, ma l’enorme asimmetria generata dal formidabile potere

che l’istituzione carcere, in tutte le sue espressioni, compresa quella

educativa, pare non perdere occasione di rimarcare non può che portare

41

Page 42: La Formazione imprigionata

Capitolo Primo

il soggetto ad adeguarsi alle indicazioni ed alle prescrizioni che i gruppi

di osservazione e trattamento stabiliscono per lui.

Per indicare gli effetti cui il trattamento dovrebbe tendere saremmo

tentati di utilizzare il termine inclusività, intendendo con questo indicare

il punto di confluenza degli obbiettivi del trattamento comunque inteso,

rieducativo, riabilitativo, risocializzativo ecc., ottenibile tramite lo

sviluppo delle potenzialità individuali in un contesto di

compartecipazione alle norme sociali. Quindi, non soltanto

interiorizzazione delle norme sociali, utile se non altro ad impedirne il

ritorno in carcere, ma, piuttosto, rimozione delle cause di devianza e, più

nello specifico, di azioni criminose, cause che possiamo ipotizzare,

semplificando al massimo e riservandoci di approfondire il tema nelle

pagine che seguiranno, si racchiudano nel concetto di inclusione sociale.

Anche la finalità inclusiva presenta, tuttavia, numerose problematicità

che la rendono insufficiente, per alcuni versi, addirittura fuorviante, per

altri. Non si scosta, infatti, dalla tendenza autoritaria che, come abbiamo

visto, vale per altre definizioni di cui abbiamo parlato poco sopra. Quali

siano i modelli di società cui far tendere l’individuo non è dato sapere

con certezza e, più che altro, senza il rischio di configurare un

appiattimento dei modelli di società che, estremizzando, sta alla base di

molti regimi totalitari del passato ma anche del presente. Per queste

ragioni, per indicare il processo formativo da attuare in carcere, pur nella

consapevolezza dei molti aspetti critici che esso rappresenta, alcuni dei

quali tenterò di evidenziare nel prosieguo del presente lavoro, userò il

termine usato nell’ordinamento penitenziario attuale: il trattamento.

42

Page 43: La Formazione imprigionata

Capitolo Primo

Trattamento, quindi, come processo e come percorso che una

persona intraprende a partire dal suo ingresso in carcere o meglio, come

vedremo, dal momento in cui viene condannato. Per dare un abbozzo di

idea su come questo percorso si snodi attraverso gli spazi e i tempi della

carcerazione proponiamo la seguente metafora grafica:

43

Misure alternative

Tra

ttam

ento

Percorso formativo (trattamento)

Condanna

Fine pena

Sistema penale Sistema sociale

Detenzione Libertà

Libertà

Figura 1 - Metafora grafica del trattamento come percorso formativo ideale nel contesto penale

Page 44: La Formazione imprigionata

Capitolo Primo

Abbiamo definito la figura una metafora grafica in quanto ci deve

fornire soltanto uno spunto di immaginazione su cosa si intenda per

trattamento penitenziario e come si sviluppi nella teoria e, come

vedremo, nella pratica.

In questo modello ideale, le esigenze di sicurezza dovrebbero avere

un andamento simmetrico, partendo dal massimo per arrivare ad un

minimo in prossimità del fine pena e potendo registrare delle

“accelerazioni” nei momenti di passaggio (ai permessi prima, alla

semilibertà poi e all’affidamento in prova). Allo sviluppo massimo del

trattamento dovrebbe corrispondere una minima esigenza di custodia.

Supponiamo che il percorso formativo ideale abbia la forma

descritta in figura partendo dalla considerazione che il processo

formativo si possa suddividere in più fasi principali:

I fase: l’adattamento alla condizione detenuta. È la fase iniziale,

quella della conoscenza reciproca tra operatori e detenuto,

dove è lecito supporre che l’andamento della curva sia al

livello più basso.

II fase: l’assimilazione massima. Ormai l’individuo si è adattato

alla situazione e il piano individualizzato di trattamento

può fornire risultati ottimizzati e di maggiore efficienza ed

efficacia. L’andamento della curva si ipotizza più ripido

della precedente fase.

III fase: Ormai siamo in vista dell’uscita e il grosso del lavoro è

stato fatto. Il detenuto comincia a saggiare l’uscita dal

carcere tramite i benefici.

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Page 45: La Formazione imprigionata

Capitolo Primo

IV fase: Le misure alternative prima, la libertà dopo fanno sì che la

curva tenda a conformarsi all’andamento dello sviluppo

personale di ciascun individuo adulto libero.

Questa, come sarà meglio specificato in seguito, è una

rappresentazione grafica dell’idealtipo di trattamento penitenziario – per

questo l’abbiamo definita metafora grafica – che, nell’ipotesi della teoria

emendativa si dovrebbe realizzare all’interno della sanzione penale. In

realtà, molte sono le ipotesi che fanno da sfondo a questo modello e che

ne rendono, come avremo modo di osservare, concretamente

improbabile la realizzazione.

Potremmo essere tentati di definire la curva, che qui abbiamo

denominato percorso formativo (trattamento), una funzione, visto la

forma che abbiamo dato all’oggetto grafico. In realtà, senza peraltro

avanzare pretese di scientificità dell’operazione, potremmo forse dire che

se di funzione si tratta, allora il trattamento dipende da alcuni fattori, tra i

quali ricordiamo:

1) i meccanismi giuridici, in particolare quelli legati alle

misure alternative alla detenzione e i cosiddetti giorni,

la liberazione anticipata da scalare nella misura di

novanta giorni all’anno in caso di buona condotta;

2) i progetti formativi. Pensiamo ai percorsi pedagogici,

alla scuola, all’università, al lavoro e alla formazione

ecc.;

3) la vita quotidiana in carcere.

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Page 46: La Formazione imprigionata

Capitolo Primo

Saremmo tentati di dare ai tre fattori enunciati un ordine mettendo

al primo posto i progetti formativi e i meccanismi giuridici. In realtà

queste due condizioni non sono possibili se non si sia realizzato, prima

di tutto, un ambiente quotidiano che consenta il raggiungimento dei

minimi base per poter fare formazione e per attuare l’istituto delle misure

alternative.

Occorre quindi che il sistema garantisca alle persone detenute una

vita quotidiana conforme all’ordinamento, cioè che le docce debbano

funzionare, non debba esservi sovraffollamento, i locali siano puliti, non

vi si verifichino atti di violenza, sia presente personale qualificato in

ambito trattamentale, sia presente ed attivo il servizio sanitario, sia data

la possibilità alla persona detenuta di iscriversi ad una scuola compresa

l’università ecc.. Questo, se da un lato è l’elemento strutturale sottostante

alla formazione in carcere, dall’altro esso è la formazione. Infatti, la

Costituzione ci indica che la persona condannata deve essere rispettata

come persona e il fatto che la struttura penitenziaria si configuri anche

come istituzione educativa per adulti dipende dalle sue condizioni

strutturali.

In realtà, per il clima ancora oggi preponderante nelle nostre carceri

accade che, per esempio, ci si iscriva a scuola perché convinti che ciò

faciliti la concessione del lavoro interno o, comunque, venga considerato

dalla struttura come un elemento di valutazione positiva che possa

portare vantaggi in termini di concessione di benefici premiali.

All’interno della nostra metafora grafica, pur non essendo

rappresentata fisicamente, la quotidianità, il milieu penitenziario, va

considerata come la conditio sine qua non affinché si possa realizzare un

46

Page 47: La Formazione imprigionata

Capitolo Primo

percorso trattamentale positivo, e se proprio volessimo renderla in forma

grafica essa non potrebbe che essere una linea costante poiché la qualità

della vita quotidiana in carcere deve essere garantita fin dall’inizio della

pena e per tutta la sua durata.

Per capire il perché di questo basti pensare alla rottura nella vita di

una persona che ha commesso un reato pesante. La sua condizione avrà

bisogno, in qualche modo, di essere ricostruita e ciò non è possibile in un

ambiente quotidiano carcerario farcito di afflittività inutile che, tra

l’altro, sia detto en passant, per il momento – riprenderemo l’argomento

in seguito –, si pensa di estendere alle misure alternative, con il

passaggio del controllo delle stesse misure nelle mani del Corpo di

Polizia Penitenziaria.

Un indicatore di come la quotidianità non sia garantita fin

dall’inizio dal sistema penale è l’alto numero di atti autolesionistici,

tentati suicidi e suicidi – in gergo carcerario eventi critici – che si

verificano negli istituti di pena:

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Page 48: La Formazione imprigionata

Capitolo Primo

Italiani Stranieri TotaleAtti di autolesionismo 2.052 2.224 4.276

6,13% 13.48% 8,56%

Tentati suicidi 413 227 640

1,23% 1.38% 1,28%

Suicidi 41 9 50

0,12% 0.05% 0,10%

Decessi per cause naturali 70 11 81

0,21% 0.07% 0,16%

Totale eventi critici 2.576 2.471 5.047

4,98% 4.78% 9,75%

Tabella 1 – Atti di autolesionismo e decessi negli istituti di pena italiani per detenuti italiani e stranieri – anno 2006*

(ns. elaborazione su dati DAP)

Imputati Condannati Internati TotaleAtti di autolesionismo 1.835 2.383 58 4.276

8,42% 8,88% 4,43% 8,56%

Tentati suicidi 279 339 22 640

1,28% 1,26% 1,68% 1,28%

Suicidi 23 21 6 50

0,11% 0,08% 0,46% 0,10%

Decessi per cause naturali 21 49 11 81

0,10% 0,18% 0,84% 0,16%

Totale eventi critici 2.158 2.792 97 5.047

4,17% 5,40% 0,19% 9,75%

Tabella 2 - Atti di autolesionismo e decessi negli istituti di pena italiani per posizione giuridica – anno 2006*

(ns. elaborazione su dati DAP)

Un carcere che si presenti in modo tale da comportare una così alta

percentuale di gesti inconsulti, che si verificano soprattutto nei

primissimi momenti della reclusione, sembrerebbe di per sé rendere vana

ogni ipotesi di trattamento.

In altri paesi, per esempio in Olanda, si è pensato di limitare gli

ingressi ad un numero massimo di detenuti lasciando gli altri agli arresti * I tassi sono calcolati rispetto alla popolazione detenuta mediamente presente nell'anno 2006 (51.748)

* Come nella precedente tabella i tassi sono calcolati rispetto alla popolazione detenuta mediamente presente nell'anno 2006 (51.748)

48

Page 49: La Formazione imprigionata

Capitolo Primo

domiciliari, in una sorta di lista di attesa che, da un lato evita il

sovraffollamento, con palese beneficio per chi in galera c’è già, dall’altro

evita il duro impatto col carcere, con i rischi che abbiamo appena visto, a

coloro che non hanno commesso reati di gravità tale da dover essere

messi immediatamente in sicurezza.

Nel nostro paese qualcosa si sta muovendo nell’intento di porre un

limite allo stillicidio di suicidi e atti di autolesionismo nei nuovi giunti e,

nel giugno del 2007, il Dipartimento per l’Amministrazione

Penitenziaria ha prodotto una circolare dal titolo “I detenuti provenienti

dalla libertà: regole di accoglienza. Linee di indirizzo”38. Nella circolare

si delinea un protocollo operativo per l’accoglienza dei nuovi giunti

centrato soprattutto sugli aspetti medici, ma una parte interessante è

dedicata alla “creazione della sezione di accoglienza e di attenzione”

nella quale si legge, testualmente:

“In ciascun Istituto viene individuata un'apposita struttura

separata dalle normali sezioni, composta da camere di due - tre posti,

con maggiore comfort rispetto a quelle comuni. Il numero delle stanze

potrà variare a seconda della capienza degli Istituti Penitenziari e le

medesime dovranno trovarsi, se possibile, in prossimità dell'infermeria

o del centro clinico, laddove presente.”

“Tutti i detenuti fruiscono di tale servizio di accoglienza. Questo,

in particolare, è rivolto:

• alle persone alla prima esperienza detentiva;

• a giovani che, compiuta la maggiore età, transitano dagli

istituti minorili al circuito penitenziario degli adulti;38 Dipartimento Amministrazione Penitenziaria, Direzione Generale Detenuti e Trattamento, lettera circolare n° 0181045-2007 del 6 giugno 2007, reperibile sul sito Internet del Ministero della Giustizia: www.giustizia.it

49

Page 50: La Formazione imprigionata

Capitolo Primo

• a coloro che affrontano una detenzione a lunga distanza di

tempo da una precedente esperienza di restrizione.

“Si ribadisce ulteriormente come la ratio di tale sistemazione si

fondi su una doppia esigenza: da un lato, effettuare un filtro di carattere

sanitario, rapido ma accurato, dall'altro, fornire un'informazione

dettagliata dei servizi offerti dal carcere.”

“Nel corso delle procedure di filtro, laddove necessario - si

ribadisce - verranno intrapresi i contatti con gli specialisti e gli

operatori maggiormente idonei ad affrontare le problematiche di natura

psichica e/o fisica riscontrate.”

“La collocazione nella sezione di accoglienza non può protrarsi

oltre un certo termine (una settimana), altrimenti risulterebbe palese

l'impossibilità del detenuto ad essere ammesso a vita in comune ed alla

fruizione delle offerte trattamentali, così come previsto dall'art. 15 O.P.

Laddove necessario, per particolari esigenze sanitarie, ci si attiverà

fornendo la dovuta assistenza agli organi giudiziari competenti, affinché

essi siano posti nella condizione di adottare altri più idonei strumenti

(richiesta di custodia cautelare in luogo di cura ai sensi dell'art. 286

c.p.p. ovvero richiesta di un periodo di osservazione ai sensi dell'art.

112 del D.P.R. n. 230 del 2000).”

“La sezione di accoglienza permette di concentrare gli impegni

dello staff multiprofessionale, costituito da operatori stabilmente

impiegati nel servizio e da operatori di altri servizi chiamati in causa

all'occorrenza.

“L'infermiere svolge il ruolo di trait d'union tra le figure che

operano nello staff multiprofessionale ed il restante personale in

50

Page 51: La Formazione imprigionata

Capitolo Primo

servizio in Istituto, raccogliendo le informazioni provenienti dalle

sezioni sullo stato psichico dei detenuti.”

Filtro sanitario e informazione dettagliata, quindi, come scopo

ufficiale assicurato da strumenti fisici, le stanze confortevoli, e

professionali, lo staff multiprofessionale, per addolcire l’impatto con la

detenzione. Peccato che, come da anni tutti coloro che si occupano a

vario titolo di carcere vanno lamentandosi, il tutto si scontri con le

pesantissime carenze strutturali (mancanza di docce, locali per la vita

comune, palestre, cronico sovraffollamento ecc.) e professionali (scarso

numero di professionisti in campo educativo, psicologico e medico).

Quindi, i due livelli di trattamento, la vita quotidiana e la

formazione, devono essere tenuti entrambi presenti e va ribadito con

forza che non ha senso pensare a un trattamento orientato alla

ricostruzione della condizione di libertà se non si garantiscono le

condizioni minime di vita culturalmente definite all’interno di un

sistema.

Abbiamo definito culturalmente cosa significhi oggi per noi italiani

la retribuzione del lavoro, per esempio, così come dice la Costituzione39,

concepita come un insieme di risorse che permetta ad una persona una

vita dignitosa laddove, nella nostra cultura, per vita dignitosa

intendiamo, per esempio, poter avere un’abitazione, potersi garantire

l’alimentazione, l’istruzione per i propri figli, avere luce, gas e telefono

in casa ecc. Al punto che chi lavora ma non riesce a far fronte a queste

esigenze si sente, in qualche misura, ferito nella propria dignità di

persona. Che la dignità di persona sia definita culturalmente ce lo dice

39 Art. 36 c.1 Cost: “Il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un'esistenza libera e dignitosa”.

51

Page 52: La Formazione imprigionata

Capitolo Primo

anche l’immigrato per cui le condizioni culturalmente accettabili per una

vita dignitosa sono talvolta molto diverse dalle nostre.

Esiste una cultura diffusa per cui un trattamento che violi la vita

quotidiana sia comunque utile a piegare la persona (attraverso la

neutralizzazione, l’incapacitazione ecc.). Sia chiaro, questo è un

elemento diffuso della cultura generale, non soltanto del carcere. È lo

stesso elemento che sosteneva la legittimità del picchiare la moglie, per

esempio. Nel carcere vi sono fattori aggiuntivi che lo rendono

particolare, tra questi, probabilmente, c’è una condizione di paura più o

meno latente nei confronti dei detenuti dovuta, almeno in parte al fatto

che sono ancora in servizio le persone che hanno vissuto le rivolte come

quella di Porto Azzurro. La vita in sezione è intrisa di elementi che

rappresentano sempre una minaccia, e questa è una cosa che corrode,

non c’è il rapporto che c’è tra medico o infermiere da un lato e paziente

dall’altro, lì c’è un rapporto molto diverso. Neutralizzare e incapacitare

rende possibile al carcere di funzionare con ordine; ma questa, se

osserviamo con attenzione, non è una condizione specifica del carcere, è

una condizione di tutti i sistemi ed è un meccanismo molto diffuso che

nel carcere si trova potenziato dalla struttura.

Se vogliamo che il trattamento sia veramente efficace occorre che si

realizzino, quindi, le condizioni di vita quotidiana tali da consentire un

percorso effettivamente utile alla persona detenuta, ma per ottenere

questo bisogna, a nostro giudizio, puntare ad una modifica radicale della

cultura sottostante al sistema, nello stesso modo in cui si sono modificate

le culture in altri sistemi: oggi non è più culturalmente ammesso

picchiare la moglie.

52

Page 53: La Formazione imprigionata

Capitolo Primo

Non sarà un’operazione facile – siamo abituati ai servizi pubblici

che non funzionano, agli ospedali sovraffollati al punto da collocare i

pazienti sulle barelle nei corridoi e siamo anche abituati ad un carcere

discarica sociale sovraffollata – e occorrerà molto tempo, ma crediamo

non esistano molte altre possibili strade.

In questo capitolo abbiamo, quindi, centrato l’attenzione

sull’ambito del dover essere riguardo al sistema penale, con le sue teorie,

la storia, le norme. Tuttavia, come d’altronde per altri sistemi sociali,

anche per il carcerario si osserva facilmente la discrepanza tra ciò che

dovrebbe essere e ciò che, invece, esso è nella realtà.

Inoltre, con la pena detentiva siamo di fronte in tutta evidenza ad un

processo formativo tra i più complessi che si possano immaginare, per di

più in un contesto straordinario ed estremo come la coercizione.

Probabilmente i fattori che orientano questo processo sono infiniti.

Tenteremo in seguito di analizzarne alcuni mettendoli in relazione con

l’ipotesi appena fatta di un progetto formativo ideale procedendo così ad

osservarne gli scostamenti, le eventuali incongruenze e contraddizioni.

53

Page 54: La Formazione imprigionata

Capitolo Secondo

La realtà penitenziaria

Fin qui abbiamo delineato, seppur in forma sintetica, quello che,

nelle norme, dovrebbe essere il carcere e, più estesamente, il sistema

carcerario. Nel presente capitolo tenteremo di far emergere quello che,

nella realtà quotidiana, soprattutto nella società attuale, complessa e

incerta, il carcere rappresenta con tutte le contraddizioni ed i paradossi

che esso evidenzia.40

Nell’immaginario comune, la prigione si propone come una tappa

necessaria e ineluttabile, una vera e propria minaccia, per coloro che

commettono crimini o reati, scelgono di deviare dal tracciato fissato

dalle norme giuridiche che, almeno nella nostra cultura, la società ha

costruito per scopi autoconservativi. In effetti così è, almeno dal punto di

vista della reazione istintiva immediata ad un crimine.

È forse opportuno precisare che si debba chiaramente distinguere

tra reato e crimine. Emettere un assegno scoperto è un reato, ma non ci

sentiremmo di definirlo un crimine. Tuttavia ci sono dei criminali che

emettono assegni a vuoto. Come ha detto Nils Christie "«Crimine» è

solo uno dei modi possibili di classificare atti deplorevoli. Alcune

ricerche riportano casi di maltrattamenti fisici su infermieri da parte

degli anziani di cui si occupano, molti dei nostri figli talvolta hanno

40 Per capire il mondo carcere nella sua realtà un riferimento fondamentale è: S. Anastasia – P. Gonnella (a cura di), Inchiesta sulle carceri italiane, Roma, Carocci, 2002

54

Page 55: La Formazione imprigionata

Capitolo Secondo

rubato qualche soldo dai nostri portafogli, ma nessuno si sognerebbe di

definire crimini queste azioni e criminali chi le compie”41

Nel linguaggio del senso comune, il termine criminale viene usato,

oltre che per designare persone che hanno commesso dei crimini

acclarati, giudicati e condannati, anche come appellativo indirizzato a

persone che non compiono dei reati semplicemente perché non ci sono

norme che ne facciano divieto. Basti pensare alle violenze in famiglia,

per le quali le norme prevedevano reati come eccesso dei mezzi di

correzione o, nel caso delle donne, le violenze sessuali su di loro non

venivano (e molto spesso) punite. Si trattava di comportamenti criminali

(così molti li avrebbero definiti) per i quali le norme non sancivano il

loro essere reato. Insomma, la distinzione tra crimine e reato è

importante, dal momento che il crimine ha sì una valenza giuridica, ma

ne ha una altrettanto forte sul piano morale, laddove il termine reato è di

tipo squisitamente giuridico e si riferisce a comportamenti non sempre

censurabili. Un affamato che ruba degli alimenti commette un reato

(anche se il giudice potrebbe sentenziare la non sussistenza del reato

stesso), ma non si tratta certamente di un crimine. Che le norme abbiano

una funzione autoconservativa dell’ordine sociale è assolutamente

dimostrabile, ma lo è allo stesso tempo la circostanza che le norme sono

nelle mani principalmente di gruppi sociali favoriti (un tempo si diceva

che le leggi si interpretano per gli amici e si applicano ai nemici).

Dalla lettura della storia della pena, cui abbiamo fatto appena un

cenno, si osserva come vi sia stata un’evoluzione in più fasi. Una prima

fase, primaria, in cui ha prevalso l’istinto vendicativo ed in cui l’uomo

41 Nils Christie, A suitable amount of crime. Una modica quantità di crimine, intervista curata da Maurizio Giambalvo e pubblicata sulla rivista Segno, n.256, Giugno 2004 e, in forma ridotta, su Il Manifesto del 3 Marzo 2004

55

Page 56: La Formazione imprigionata

Capitolo Secondo

era considerato semplicemente un corpo, la nuda vita, su cui scaricare la

rivalsa del sovrano; poi, il modificarsi della concezione dell’uomo ha

portato ad un graduale affioramento, prima, ed un’affermazione, poi,

della sua soggettività, unicità e irripetibilità che, tuttavia, lo pongono al

centro dell’attenzione soltanto nominalmente, non ancora nei fatti.

Lo schema del trattamento in funzione della pena, illustrato in

precedenza, ci porterebbe a pensare che il carcere risolva, in qualche

modo, il problema dell’istinto di vendetta di fronte al crimine e, al

contempo, si prenda cura del reo confortandoci anche sull’aspetto morale

e umano della punizione.

L’anima più dura dell’opinione pubblica, quella in cui prevalgono i

residui dell’istinto vendicativo, pensa il carcere come una sequenza di

questo tipo: reato, processo, condanna, carcere e restituzione alla società

di un individuo marchiato, reso inferiore dal discredito e perciò

bisognoso di controllo e limitazioni. L’anima più morbida, potremmo

dire più evoluta, ritiene, invece, che la sequenza sia: reato, processo,

condanna, carcere e, mediante adeguato trattamento, restituzione alla

società in un individuo nuovo, letteralmente lavato nell’anima di tutte le

storture che lo hanno portato a delinquere, magari utilizzando anche le

misure alternative alla detenzione. Entrambe queste visioni della penalità

presentano differenze soltanto nella parte finale del percorso penale: il

carcere pare essere sempre necessario e presente nella vita delle nostre

comunità.

Ma chi sono le persone che popolano le galere? Quali sono i motivi

che portano una persona ad incontrare il sistema penale?

56

Page 57: La Formazione imprigionata

Capitolo Secondo

Chi sono e quali sono i ruoli dei vari operatori che in esse lavorano?

Quali e quante sono le risorse disponibili per ottemperare alle

disposizioni in tema di trattamento penitenziario?

Queste riteniamo siano alcune delle domande le cui risposte sono

indispensabili per delineare il livello dell’effettività del sistema

carcerario e, soprattutto, della reale applicazione, in questo sistema, dei

principi costituzionali di umanità delle pene e tendenza alla

rieducazione. In sostanza, il dettato costituzionale, nella parte in cui,

seppur timidamente, orienta la pena verso obbiettivi di umanità e

rieducazione, è stato attuato nei fatti, oppure e in quale misura è stato

disatteso o misinterpretato?

2.1 La popolazione carceraria

Lo scopo di questo lavoro è centrato sull’analisi del trattamento

penitenziario, quindi sui processi formativi da attuare dentro il carcere, a

pena detentiva avviata, quindi il gruppo di interesse è principalmente

composto da coloro che effettivamente vengono in contatto con la

struttura, gli operatori e i processi della prigione. Tuttavia, essi

rappresentano soltanto una parte della cosiddetta area della penalità,

quell’area, cioè, che comprende sia coloro per i quali la pena sia

esecutiva, sia quelle persone che hanno subìto una condanna ma, per

diverse ragioni, non sono effettivamente in carcere42.

Prima dell’indulto, l’area della penalità risulta così composta:

61.000 persone detenute

42 Una chiara definizione dell’area della penalità è la seguente: “il complesso della presenza contemporanea di condanne penali in esecuzione o da eseguire: più precisamente, di quelle condanne che si esprimono con la pena detentiva, anche se tale pena può essere eseguita in misura alternativa”. (Regione Toscana – Fondazione Michelucci, Rapporto sugli istituti penitenziari 2006, coord. Alessandro Margara)

57

Page 58: La Formazione imprigionata

Capitolo Secondo

50.000 in misura alternativa

70.000 in regime di sospensione dell’esecuzione penale e quindi in

bilico tra la misura alternativa e il carcere.

I soggetti, quindi, che si trovano all’interno dell’area della penalità

superano abbondantemente quota 180.000.

Questa enorme cifra risulta ancora più significativa se osservata in

senso diacronico: nel 1990, quindi soltanto sedici anni fa, quest’area era

rappresentata da meno di quarantamila soggetti, di cui circa trentamila

detenuti e poco più di seimila in misura alternativa. In questo breve arco

di tempo paiono essere entrate nella rete penale più del quintuplo delle

persone. Il tutto, si badi bene, in assenza di un aumento del numero dei

reati tale da giustificare questo vero e proprio boom penitenziario.43

Torniamo entro i limiti che ci siamo prefissati, quindi all’area della

prisonizzazione, di coloro che sono detenuti in carcere. I dati ministeriali

sulla composizione della popolazione detenuta sono molto significativi.44

Totale presenti Stranieri Tossicodipendenti59.523 19.836 16.135

Tabella 3- Detenuti stranieri e tossicodipendenti(Fonte: DAP. Dati riferiti al 31 dicembre 2005)

43 Cfr. Regione Toscana – Fondazione Michelucci, Rapporto sugli istituti penitenziari 2006, coord. Alessandro Margara. Va ricordato che nel 1990 c’era stato un provvedimento di clemenza e che quindi quell’anno registra un abbassamento della quota di detenuti.44 I dati sulla popolazione detenuta, salvo diversa indicazione, provengono dal Ministero della Giustizia, Dipartimento per l’Amministrazione Penitenziaria e fanno riferimento alla rilevazione di fine anno 2005. Questa scelta si giustifica con una maggiore stabilità, rispetto agli anni precedenti, dovuta essenzialmente al varo dell’indulto che, nel corso del 2006, ha sì ridotto la quota dei detenuti presenti in carcere ma, non essendo stato seguito da sostanziali modifiche strutturali, soprattutto riguardo alcune leggi che, nel corso degli anni, hanno contribuito al colossale incremento della prisonizzazione, nei fatti crediamo di poter affermare con una certa tranquillità che i suoi effetti siano soltanto temporanei e destinati a scomparire entro breve.

58

Page 59: La Formazione imprigionata

Capitolo Secondo

In percentuale troviamo che la quota di detenuti stranieri presente

nelle nostre carceri è pari a circa il 33% del totale, mentre quella che

riguarda i tossicodipendenti risulta del 27%45.

Immigrati, tossicodipendenti, alcooldipendenti, senza fissa dimora,

zingari e psichiatrici compongono circa i due terzi dell’intera

popolazione detenuta nel nostro paese46

Nonostante si osservi la tendenza ad usare il carcere come luogo di

omologazione sociale, il sistema penitenziario necessariamente opera al

suo interno tante sezionature quante sono le categorie in cui riesce a

distinguere gli esseri umani. Così, oltre alla succitata suddivisione di

stampo socio-sanitario, un’ulteriore classificazione è data in base alla

posizione giuridica, ovvero allo status di imputato o condannato del

soggetto.

Le implicazioni della posizione giuridica sulle possibilità di

trattamento penitenziario non mancano. L’Ordinamento Penitenziario,

all’art.15, recita: “Il trattamento del condannato e dell’internato è svolto

avvalendosi principalmente dell’istruzione, del lavoro, della religione,

delle attività culturali, ricreative e sportive e agevolando opportuni

contatti con il mondo esterno ed i rapporti con la famiglia. Ai fini del

45 “Una ulteriore area del disagio sociale di vario genere può arrivare all’8-10%, ma anche superarlo largamente: in essa sono compresi i dipendenti dall’alcool, i soggetti con problemi psichiatrici, i “senza fissa dimora”. Un esempio: nel carcere di Sollicciano, su una media di circa 1000 detenuti, sono all’attenzione degli psichiatri 200 persone. Una ricerca nazionale stima nel 15% dei detenuti quelli che presentano problemi di disagio psichico”.(Rapporto sugli istituti penitenziari – 2006, cit.)46 È l’area che Alessandro Margara definisce della Detenzione sociale: “[l’area] comprendente in buona parte tossicodipendenti, alcooldipendenti, immigrati, persone che presentano problemi psichici o di abbandono sociale: un’area, questa, che interessa circa i due terzi dei reclusi, cioè la netta maggioranza. Per quest’area, il carcere rappresenta spesso una non-risposta e allo stesso dovrebbero essere preferiti interventi sociali, sia in prevenzione, così da impedire il conflitto con la norma penale, sia nella stessa risposta penale, che più utilmente potrebbe attuarsi con programmi di recupero in alternativa alla detenzione.” (Alessandro Margara, Relazione sulla proposta di legge denominata: “Nuovo ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle pene e delle altre misure privative o limitative della libertà” che intende sostituire la L.26/7/1975, n.354, Ottobre 2005)

59

Page 60: La Formazione imprigionata

Capitolo Secondo

trattamento rieducativo, salvo casi di impossibilità, al condannato e

all’internato è assicurato il lavoro. Gli imputati sono ammessi, a loro

richiesta, a partecipare ad attività educative, culturali e ricreative e,

salvo giustificati motivi o contrarie disposizioni dell’autorità

giudiziaria, a svolgere attività lavorativa o di formazione professionale,

possibilmente di loro scelta e, comunque, in condizioni adeguate alla

loro posizione giuridica”. Come si può vedere, il trattamento vero e

proprio, comunque lo si voglia intendere, secondo il legislatore deve

attivarsi al momento della condanna definitiva mentre, prima o in

assenza di quest’ultima, la partecipazione alle attività presenti nel

carcere è demandata alla volontà dell’individuo e, ovviamente,

all’autorizzazione degli organi di controllo.

Al di là della norma, il trattamento penitenziario, per le

caratteristiche che ad esso il legislatore attribuisce, difficilmente si può

attuare per gli imputati per diverse cause, tra le quali possiamo

segnalare:

a. l’impossibilità di procedere per obbiettivi su scala temporale

poiché è ignota, per questi soggetti, la scadenza della

detenzione e la scarcerazione potrebbe avvenire in qualunque

momento;

b. la difficile apertura di un rapporto interpersonale costruttivo tra

operatori e detenuto, base, come abbiamo appena accennato, di

qualsiasi progetto formativo;

c. la tendenza generalizzata di concedere minore libertà, leggasi

maggior tempo di apertura delle celle, ai detenuti dei reparti

giudiziari per ragioni di “sicurezza”;

60

Page 61: La Formazione imprigionata

Capitolo Secondo

d. l’inaccessibilità al lavoro interno da parte dei suddetti ristretti.

Se osserviamo i grafici sotto riportati risulta evidente che questo

fenomeno riguarda una grossa fetta delle persone presenti all’interno

delle carceri. Addirittura, dopo il recente indulto, più della metà dei

ristretti non ha avviato un progetto trattamentale né interno al carcere,

né, tantomeno, in coordinazione con l’area esterna ad esso. Se, da un

lato, i detenuti definitivi possono usufruire di un impianto trattamentale

che, pur con le incongruenze e le contraddizioni cui abbiamo fatto

appena un cenno, purtuttavia esiste, dall’altro lato per la maggior parte

delle persone presenti nelle strutture carcerarie vige un grande

paradosso: ancora la nostra Costituzione dà risalto alla presunzione di

innocenza fino alla condanna definitiva, se ne deduce che non si debba

applicare alcuna afflizione e sofferenza, secondo una delle accezioni

della pena, ad alcuno che non sia dimostrato essere colpevole di reati

punibili con la detenzione. Ma non sembra essere così. Se è vero che le

carceri sono piene di imputati e che il trattamento, sia intramurario che,

diciamo così, socio-familiare, non può essere attivato se non per i

definitivi parrebbe configurarsi addirittura una violazione del dettato

Costituzionale, nonché dei principi più elementari, cosa del resto che ha

messo il carcere sotto i riflettori del Comitato per la Prevenzione della

Tortura dell’Unione Europea: non c’è forse peggiore tortura dell’essere

obbligati a non fare nulla.

61

Page 62: La Formazione imprigionata

Capitolo Secondo

Posizione giuridica

Al 31 luglio 2006(prima dell’indulto)

Al 30 settembre 2006(dopo l’indulto)

Valori assoluti percentuali Valori assoluti percentuali

Imputati 21.330 35,13 21.008 54,81

Condannati 38.134 62,81 15.950 41,62

Internati 1.246 2,05 1.368 3,57

Totale 60.710 100,00 38.326 100,00Tabella 4 - Detenuti presenti per posizione giuridica prima e dopo l'indulto

(Ns. elaborazione su dati DAP)

Grafico 1 – Detenuti presenti per posizione giuridica prima e dopo l'indulto(Ns. elaborazione su dati DAP)

Dalla tabella e dai grafici si può facilmente osservare come, in

senso assoluto, il numero dei detenuti che ancora non hanno ottenuto lo

status di definitivo e per cui non è ancora possibile attivare un progetto di

trattamento era molto elevato prima dell’indulto e, ad oggi, risulta

ulteriormente aumentato. Questo vuol dire che, in termini relativi, il

trattamento è utilizzabile da una quantità di detenuti inferiore alla metà

del totale, mentre, di converso, per più della metà della popolazione

detenuta il carcere parrebbe non offrire alcuno strumento formativo utile

ad un reinserimento sociale efficace.

Tutte le iniziative che l’istituzione carceraria pone in essere anche

ad uso dei soggetti non definitivi sembrerebbero assumere, così,

nient’altro che una funzione palliativa, un passatempo con cui riempire il

tempo vuoto della detenzione.

62

35%

63%

2%

54%42%

4%

Imputati

Condannati

Internati

Dopo l’indultoPrima dell’indulto

Page 63: La Formazione imprigionata

Capitolo Secondo

Va comunque sempre ricordata la grande variabilità da situazione a

situazione. Nella tabella appena riportata vi è certamente una quota di

imputati che accede ad attività culturali, di istruzione, di legami

familiari, tutti elementi compresi nel trattamento.

A questo proposito vale forse la pena di spendere due righe sul

significato della custodia cautelare in carcere dal punto di vista di chi la

subisce. In una Casa Circondariale le situazioni peggiori, dal punto di

vista umano, si vivono all’interno delle sezioni e dei reparti giudiziari,

quelle cioè dove sono collocate le migliaia di persone di varie nazionalità

che non hanno subìto una condanna definitiva. Anzi, molti di loro, come

abbiamo visto dai dati riportati sopra, non sono stati ancora neppure

giudicati. È una marea di esseri umani, uomini e donne, spesso ragazzi

poco più che maggiorenni, alcuni dei quali addirittura saranno

riconosciuti innocenti, assolti e successivamente liberati47. Ma intanto

sono stati settimane, mesi e, in alcuni casi, anni, rinchiusi in celle senza

mai uscire, visto che in alcune carceri sembra invalsa l’idea che, dato che

non si sa chi possa annidarsi all’interno di reparti così variegati, allora è

meglio tenere le celle chiuse tutto il giorno. Insomma, nonostante la

Costituzione proclami la presunzione di innocenza fino alla condanna

definitiva, sembra di trovarsi di fronte ad una condanna, di fatto, al nulla

sia nello spazio che nel tempo.

47 A titolo esemplificativo possiamo osservare che, come risulta dai dati ISTAT relativi al 2004, a fronte di un totale di 82.275 persone entrate in carcere nell’arco dell’anno in questione, ben 70.728 varcavano la soglia del penitenziario senza ancora una condanna definitiva e, di questi, 10.703 (circa uno su sette) venivano successivamente rimessi il libertà con una delle seguenti motivazioni: decorrenza dei termini, revoca o sospensione della custodia cautelare; mancata convalida e revoca di fermo e arresto; proscioglimento.

63

Page 64: La Formazione imprigionata

Capitolo Secondo

Tabella 5 - Detenuti imputati presenti al 31 dicembre 2004 negli istituti di prevenzione e pena per adulti per periodo di custodia cautelare trascorso dalla data di arresto

(ns. elaborazione su dati D.A.P.)

64

posizione giuridica

Custodia cautelareFino a 3

mesiDa 3 a 6

mesiDa 6 a 12

mesiDa 12 a 18

mesiOltre 18

mesiTotale

in attesa primo giudizio

5.057 2.334 2.423 685 1.042 11.541

appellanti e ricorrenti

2.353 2.086 1.332 947 1.777 8.495

Totale imputati

7.410 4.420 3.755 1.632 2.819 20.036

27%

25%16%

11%

21%

44%

20%

21%

6%

9%

In attesa di primo giudizio Appellanti e ricorrenti

37%

22%

19%

8%

14%

Fino a 3 mesi

Da 3 a 6 mesi

Da 6 a 12 mesi

Da 12 a 18 mesi

Oltre 18 mesi

Totale imputati

Grafico 2 - Detenuti imputati presenti al 31 dicembre 2004 negli istituti di prevenzione e pena per adulti per periodo di custodia cautelare trascorso dalla data di arresto

(ns. elaborazione su dati D.A.P.)

Page 65: La Formazione imprigionata

Capitolo Secondo

Dai grafici uno dei dati che maggiormente risaltano è il 36% delle

persone che, almeno nell’anno preso in questione, hanno superato i sei

mesi di reclusione pur senza aver avuto alcun giudizio penale. Di questi,

ben il 15% è in carcere da più di un anno.

Oltre alle attività trattamentali, la norma prevede che, per i ristretti,

le istituzioni debbano prendersi cura anche della famiglia, in funzione

della verifica delle possibilità e delle modalità di rientro nel proprio

ambiente. Per far questo esiste un apposito settore dell’amministrazione

penitenziaria che fa capo all’Ufficio per l’Esecuzione Penale Esterna, già

denominato Centro Servizi Sociali Adulti. Gli scopi dell’UEPE si

possono riassumere con la gestione dei rapporti tra detenuto ed esterno,

in particolare i familiari, da operare, all’interno del carcere, tramite

colloqui personali con i soggetti e, all’esterno, per mezzo di indagini

socio-familiari. L’organizzazione dell’UEPE prevede che esso si attivi

soltanto per i detenuti condannati mentre, come abbiamo visto, questi

rappresentano soltanto una parte del totale dei ristretti e neppure la più

disagiata. Quindi, per la marea di persone che affollano le nostre prigioni

pur senza aver subito condanne definitive, il trattamento, nella parte in

cui prevede l’agevolazione dei rapporti con la famiglia e la comunità

esterna, spesso e volentieri neppure comincia.

Non cambia molto per quanto riguarda il trattamento interno

all’istituto. Per la verità un trattamento valido per tutti esiste ed è quello

applicato dagli anziani, da coloro cioè che hanno acquisito e consolidato

l’identità deviante, nei confronti dei più giovani, soprattutto se si pensa

che quelli al di sotto dei 34 anni, quando cioè l’identità non è ancora del

tutto definita, rappresentano il 45% del totale48. Per ridurre i danni da

48 Fonte DAP al 31/12/2005

65

Page 66: La Formazione imprigionata

Capitolo Secondo

carcerizzazione, soprattutto nei confronti dei soggetti giovani, pur se

imputati, è compito dell’area pedagogica fornire supporto e sostegno

mediante attività culturali, ricreative e sportive, ma se non fosse per la

presenza determinante di volontari non sarebbe possibile la

progettazione di alcuna attività.49

I numeri relativi alle presenze in carcere sono significativi di uno

stato attuale ma nulla ci dicono sulle dinamiche che hanno portato

all’affollamento delle nostre prigioni di cui molto si è parlato in

occasione dell’indulto. Secondo i dati del Ministero della Giustizia, al 31

luglio 2006, cioè prima dell’indulto, a fronte di una capienza

regolamentare dei 207 istituti di prevenzione e pena attivi in Italia

prevista in 43.213 individui, ne erano effettivamente presenti ben 60.710.

In termini relativi, questo significa che erano detenute ben 17.497

persone in più, pari al quaranta percento, rispetto al massimo strutturale

previsto. La soluzione scelta dall’attuale governo di centro-sinistra, è

stata, come abbiamo detto, un indulto che prevede lo sconto di tre anni

sulla pena residua con l’esclusione di alcuni reati per i quali esso non si

può applicare. Giova ricordare, per correttezza, che durante il suo

discorso al Parlamento Italiano del 14 novembre 2002, Giovanni Paolo

II, quando richiese una riduzione della pena per i detenuti non pericolosi

come risorsa per ridurre il sovraffollamento delle carceri e come gesto di

clemenza, ricevette una vera e propria standing ovation da entrambi i lati

dell’emiciclo, anche da coloro, quindi, che più avanti si sono opposti,

seppur in modo assai vario, a tale provvedimento.

49 Il quadro delle presenze del volontariato nelle carceri italiane nel 2004, anno dell’ultima rilevazione della Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia, vede un totale di 7.792 operatori di cui 6.611 entrati con l’art.17 e 1.181 con l’art.78, con una media di circa nove detenuti per volontario.

66

Page 67: La Formazione imprigionata

Capitolo Secondo

Altre soluzioni, soprattutto evocate dal precedente governo di

centro-destra ed in particolare dall’allora Ministro della Giustizia

Castelli, andavano in senso opposto, e cioè in direzione securitaria con

un sostanzioso aumento delle carceri e delle capacità di reclusione.

A nostro giudizio entrambi i provvedimenti hanno avuto come

obbiettivo principale quello prettamente politico, mentre poco o nulla si

è fatto e pensato per rimuovere le cause che portano le persone in carcere

e, di conseguenza, all’affollamento degli istituti penali in Italia e non

solo. Se osserviamo, infatti, l’incremento della carcerazione è collegato

alla definizione di norme che puniscono col carcere reati che potrebbero

prevedere sbocchi sanzionatori diversi. Un esempio tra tanti riguarda il

fenomeno delle migrazioni globali da paesi ad alto flusso migratorio. Se

viene definita come reato penale la migrazione non autorizzata è chiaro

che l’indice di prisonizzazione subisce un’impennata fino a rendere

necessari provvedimenti come l’indulto: non potremmo mai avere

carceri a sufficienza per applicare per intero la norma. Altro esempio è

dato dalla tossicodipendenza, anch’essa, come abbiamo visto dai dati

dello stesso DAP, fortemente punita col carcere. Anche coloro che sono

detenuti per problemi legati alla tossicodipendenza hanno seguito la

stessa sorte dei colleghi stranieri vedendosi applicato un indulto che, non

ci stancheremo di ripetere nel corso del presente lavoro, ha avuto un

forte sapore demagogico. Una considerazione tra le tante possibili è che

il provvedimento dell’indulto, andando ad interessare chi avesse un

residuo di pena fino a tre anni, poteva essere tranquillamente evitato

semplicemente applicando la legge già esistente sulle misure alternative

alla detenzione: chi è uscito con l’indulto, perché non era già fuori in

67

Page 68: La Formazione imprigionata

Capitolo Secondo

misura alternativa? In prima battuta verrebbe da suggerire che ciò

dipenda in gran parte dalla frequente mancanza di alcuni requisiti base

per l’ottenimento dei benefici, pensiamo soprattutto a coloro che, in gran

parte stranieri, non posseggono domicilio ufficiale, elemento che

l’indulto ha elegantemente consentito di bypassare sbattendo

letteralmente per le strade del paese una torma di disgraziati senza

dimora e senza progetti concreti di vita.50

Da anni si parla di modificare in senso depenalizzatorio il Codice

Penale, cosa che non rimuoverebbe le cause né della tossicodipendenza,

né della migrazione forzata, ma probabilmente darebbe maggiori

responsabilità alla società verso coloro che altrimenti, con il solo uso

dello strumento penitenziario, andrebbero incontro ad una

marginalizzazione quasi sempre difficile da recuperare. Riprenderemo

più oltre questi temi.

Ricorriamo nuovamente ai dati ufficiali del DAP. Un semplice

calcolo matematico ci porta ad osservare che, a fronte di una

media/carcere prevista nella capienza regolamentare di circa 209 ristretti,

le presenze effettive, prima dell’indulto, portano tale media a 293. Se

scegliessimo, come nell’idea dell’ex ministro Castelli, di costruire un

numero sufficiente di carceri che riportasse la media dei detenuti alla

soglia regolamentare, dovremmo avviare ben 84 cantieri. Ottantaquattro

nuove carceri avrebbero bisogno, poi, di un adeguato numero di addetti

alle varie aree che lo compongono. Focalizzandoci sull’area preferita

dalla parte politica di appartenenza dell’ex-ministro, quella della

50 Per un approfondimento sui problemi legati al trattamento rivolto a detenuti provenienti da paesi ad elevato flusso migratorio cfr. anche Fabio Berti – Fausto Malevoli (a cura di), Carcere e detenuti stranieri. Percorsi trattamentali e reinserimento, Milano, Franco Angeli, 2004. Più in generale, sulla condizione di esclusione cui certe categorie di detenuti sono particolarmente soggette: Helen Alford, Alberto Lo Presti, Il carcere degli esclusi, Milano, San Paolo, 2005

68

Page 69: La Formazione imprigionata

Capitolo Secondo

sicurezza, vediamo che avremmo dovuto aumentare il personale di

polizia penitenziaria dagli attuali 42.267 all’assurdo numero, perlomeno

in uno Stato che non sia di polizia, di quasi 60.000 addetti, cifra che

rappresenta, inoltre, un rapporto uno a uno tra agenti penitenziari e

detenuti.

Lasciamo le osservazioni sui costi economici che quest’operazione

comporterebbe agli addetti ai lavori che, comunque, si intuisce avrebbero

sicuramente molto da rilevare sulla reale praticabilità di una scelta

politica esclusivamente securitario-carceraria ed ad altissimo tasso

demagogico.

Non molto differente si presenta la strategia politica che, tramite

l’indulto, è stata avanzata dai politici attualmente al governo. Dando

un’occhiata allo sviluppo delle presenze, disaggregate per italiani e

stranieri, a partire dal 1991 si nota subito quanto l’incremento della

popolazione carceraria sia strettamente correlato all’incremento

dell’incarcerazione dell’area del disagio che, da poco più di un decennio,

è ben rappresentata dalle persone provenienti da paesi a forte pressione

migratoria.51

Le serie storiche ufficiali, fornite dal Ministero della Giustizia, si

presentano come segue:

51 Molti sono gli autori che sostengono la deriva in senso poliziesco e penale cui la nostra società è sottoposta dai vari livelli di potere. Tra questi, uno dei maggiormente convincenti con le sue vivaci argomentazioni è sicuramente Wacquant: Loïc Wacquant, Parola d’ordine: tolleranza zero. La trasformazione dello stato penale nella società neoliberale, Milano, Feltrinelli, 2000. Lo stesso autore prosegue il discorso e rincara la dose con il successivo Simbiosi mortale. Neoliberalismo e politica penale, Verona, Ombre Corte, 2002.

69

Page 70: La Formazione imprigionata

Capitolo Secondo

Data di rilevazione

Totale detenuti presenti

Italiani Stranieri % stranieri sul totale presenti

31-12-1976 29.973 29.973 --- ---

31-12-1977 32.337 32.337 --- ---

31-12-1978 26.424 26.424 --- ---

31-12-1979 28.606 28.606 --- ---

31-12-1980 31.765 31.765 --- ---

31-12-1981 29.506 29.506 --- ---

31-12-1982 35.043 35.043 --- ---

31-12-1983 40.225 40.225 --- ---

31-12-1984 42.795 42.795 --- ---

31-12-1985 41.536 41.536 --- ---

31-12-1986 33.609 33.609 --- ---

31-12-1987 31.773 31.773 --- ---

31-12-1988 31.382 31.382 --- ---

31-12-1989 30.680 30.680 --- ---

31-12-1990 26.150 26.150 --- ---

31-12-1991 35.469 30.104 5.365 15,1%

31-12-1992 47.316 40.079 7.237 15,3%

31-12-1993 50.348 42.456 7.892 15,7%

31-12-1994 51.165 42.684 8.481 16,6%

31-12-1995 46.908 38.574 8.334 17,8%

31-12-1996 47.709 38.336 9.373 19,6%

31-12-1997 48.495 37.670 10.825 22,3%

31-12-1998 47.811 35.838 11.973 25,0%

31-12-1999 51.814 37.757 14.057 27,1%

31-12-2000 53.165 37.583 15.582 29,3%

31-12-2001 55.275 38.981 16.294 29,5%

31-12-2002 55.670 38.882 16.788 30,2%

31-12-2003 54.237 37.230 17.007 31,4%

31-12-2004 56.068 38.249 17.819 31,8%

31-12-2005 59.523 39.687 19.836 33,3%Tabella 6 – Detenuti presenti suddivisi per italiani e stranieri

Serie storica 1976-2005(Ns. elaborazione su dati ISTAT e DAP)

70

Page 71: La Formazione imprigionata

Capitolo Secondo

Graficamente:

Serie storica detenuti presenti suddivisi per ital iani e stranieri

0

10

20

30

40

50

60

701

97

6

19

77

19

78

19

79

19

80

19

81

19

82

19

83

19

84

19

85

19

86

19

87

19

88

19

89

19

90

19

91

19

92

19

93

19

94

19

95

19

96

19

97

19

98

19

99

20

00

20

01

20

02

20

03

20

04

20

05

anno di ri levazione

det

enu

ti p

rese

nti

(m

igli

aia

)

Stranieri

Italiani

Grafico 3 – Detenuti presenti suddivisi per italiani e stranieriSerie storica 1976-2005

(Ns. elaborazione su dati ISTAT e DAP)

Come si vede dalla tabella e dal grafico, spicca la tendenza al

rapido aumento del numero dei migranti reclusi che, nell’anno 2005,

superano il 33% dei detenuti presenti.

Se esaminiamo, invece, gli ingressi dalla libertà, cioè il flusso in

entrata nel serbatoio umano rappresentato dal carcere, i dati relativi al

periodo in cui figurano soggetti stranieri, quindi a partire dall’anno 1991,

appaiono ancora più significativi.

71

Page 72: La Formazione imprigionata

Capitolo Secondo

Data di rilevazione

Totale ingressi Ingressi Italiani Ingressi Stranieri % stranieri sul totale ingressi

1991 75.786 62.644 13.142 17%

1992 93.328 77.609 15.719 17%

1993 98.119 77.396 20.723 21%

1994 98.245 73.530 24.715 25%

1995 88.415 64.692 23.723 27%

1996 87.649 62.997 24.652 28%

1997 88.305 61.329 26.976 31%

1998 87.134 58.403 28.731 33%

1999 87.862 58.501 29.361 33%

2000 81.397 52.776 28.621 35%

2001 78.649 50.535 28.114 36%

2002 81.185 51.035 30.150 37%

2003 81.790 49.938 31.852 39%

2004 82.275 50.026 32.249 39%

2005 89.887 49.281 40.606 45%

2006 90.714 47.426 43.288 48%

Tabella 7 – Ingressi dalla libertà negli istituti penitenziari italiani suddivisi per italiani e stranieri

Serie storica 1991-2006(Ns. elaborazione su dati DAP)

Graficamente, l’andamento degli ingressi nel tempo si presenta

quindi così:

Ingressi dalla libertà suddivisi per italiani e stranieri

0

20

40

60

80

100

120

199

1

1992

199

3

1994

1995

199

6

199

7

1998

199

9

200

0

200

1

200

2

200

3

200

4

200

5

2006

anno di rilevaz ione

dete

nuti

en

trat

i (m

iglia

ia)

Ingressi Stranieri

Ingressi Italiani

Grafico 4 - – Ingressi dalla libertà negli istituti penitenziari italiani suddivisi per italiani e stranieri

Serie storica 1991-2006(Ns. elaborazione su dati DAP)

72

Page 73: La Formazione imprigionata

Capitolo Secondo

Da questo grafico operiamo un ulteriore approfondimento andando

ad estrarre, sempre graficamente, l’incidenza dei detenuti stranieri in

rapporto al totale dei soggetti entrati in carcere dal 1991 ad oggi:

Andamento de l rapporto italiani/stranieri tra gl i ingressi dalla libertà

0%

20%

40%

60%

80%

100%

1991

1992

1993

1994

1995

1996

199

7

1998

1999

2000

2001

200

2

2003

2004

200

5

2006

anno di rilevazione

perc

entu

ale

ingressi italiani

ingressi stranieri

Grafico 5 – Andamento grafico del rapporto italiani/stranieri tra gli ingressi dalla libertà dal 1991al 2006

(Ns. elaborazione su dati DAP)

Questo vero e proprio boom della prisonizzazione dei soggetti

migranti può essere letto da almeno due punti di vista. Il primo, che,

almeno nel nostro paese, ha come principale sostenitore il sociologo

Marzio Barbagli52, si attesta sulla propensione a delinquere dei soggetti

migranti. Il secondo punto di vista, che, seppur con i debiti distinguo,

ritengo più vicino alla realtà, si può riassumere, per quanto riguarda gli

studiosi italiani, nelle tesi di Alessandro Dal Lago53 in cui afferma

l’esistenza di un’azione mirata alla criminalizzazione dei migranti, da

parte sia delle istituzioni che del controllo sociale informale, migranti

che non fanno altro che andare a riempire il vuoto lasciato dai marginali

52 Barbagli, Immigrazione e criminalità in Italia, cit.53 Alessandro Dal Lago, Non-persone. L’esclusione dei migranti in una società globale, Milano, Feltrinelli, 2005

73

Page 74: La Formazione imprigionata

Capitolo Secondo

italiani nelle nicchie del microcrimine come lo spaccio, il piccolo furto

ecc., oltre, ovviamente, soprattutto per mezzo delle leggi anti-

clandestino, ad assurgere a livello di crimine, in quanto tale punibile con

il carcere, il solo fatto di soggiornare nel nostro paese senza averne

l’autorizzazione.

Durante l’esperienza nel carcere di Pisa abbiamo avuto modo di

constatare di persona l’entità del fenomeno. Ogni mattina, nella Casa

Circondariale Don Bosco, come in ogni altro carcere italiano, viene

stampato a cura dell’ufficio matricola l’elenco dei detenuti entrati ed

usciti nel giorno precedente. Questo documento, chiamato in gergo

“giornaliera”, è fondamentale per mettere in moto tutti i meccanismi che

si attivano attorno ad un individuo che entra in contatto con il carcere. In

particolare serve agli educatori per programmare i colloqui di primo

ingresso, per i detenuti entrati, e per aggiornare i fascicoli personali, nel

caso dei detenuti usciti. A fianco del nome del detenuto, sulla giornaliera

sono riportati altri dati, come l’origine geografica, la cittadinanza e,

soprattutto, il reato per cui la persona si trova ristretta, oltre alla

posizione giuridica che lo contraddistingue. Per evidenti ragioni di

riservatezza non possiamo approfondire i contenuti delle giornaliere che

abbiamo avuto modo di analizzare, tuttavia credo di poter almeno

confermare i dati sopra riportati riguardo agli ingressi dei detenuti

stranieri rispetto agli italiani. Essendo una Casa Circondariale, è normale

vi sia un flusso maggiore di persone sia in entrata che in uscita rispetto,

ad esempio, ad una Casa di Reclusione54. Le giornaliere che abbiamo

54 All’interno dei 207 istituti penali in Italia si opera la seguente distinzione:a. Istituti di Custodia Preventiva (162 istituti)

• Case Mandamentali: hanno sede, di norma, nelle piccole città ed assicurano, su disposizione del Tribunale ordinario, la custodia degli imputati e dei fermati o arrestati dalle forze dell’ordine.

74

Page 75: La Formazione imprigionata

Capitolo Secondo

analizzato riguardano un periodo che comprende i tre mesi circa in cui si

è svolta l’attività formativa interna all’istituto, in cui se ne sono potute

visionare circa un centinaio, ed un certo numero di quelle conservate

nell’archivio dell’area educativa risalenti a periodi precedenti, per un

totale di circa duecento documenti.

Ebbene, dall’analisi sommaria dei flussi reali d’ingresso nel carcere

di Pisa si è potuto osservare che effettivamente, circa il settantacinque

percento degli individui entrati in carcere erano originari di paesi esteri,

la quasi totalità provenienti da paesi a forte pressione migratoria, e, di

questi, almeno la metà si presentavano alle porte del carcere con la sola

imputazione di clandestinità, la violazione della legge Bossi-Fini.

Un’ulteriore conferma di questo ci viene fornita direttamente dal

Ministero che, in un rapporto sulla situazione penitenziaria prima e dopo

l’indulto, quantifica così questo processo relativamente agli ultimi due

anni:

• Case Circondariali: hanno sede nei capoluoghi di circondario e si occupano, almeno teoricamente, su disposizione di ogni autorità giudiziaria, della custodia degli imputati, fermati o arrestati dalle forze dell’ordine.

b. Istituti per l’Esecuzione delle Pene (37 istituti):• Case di Reclusione: sono gli istituti penitenziari nei quali vengono collocati coloro

che sono stati condannati definitivamente alla pena della reclusione.c. Istituti per l’Esecuzione delle Misure di Sicurezza (8 istituti):

• Colonie Agricole: vi vengono internati coloro ai quali è assegnato il lavoro agricolo come prescrizione interna alla misura di sicurezza

• Case di Lavoro: come le colonie agricole ma, a differenza da queste ultime, destinate principalmente ad attività di tipo artigianale o industriale.

• Case di Cura e Custodia: sono popolate da internati per i quali il trattamento prescritto debba consistere principalmente in tecniche psichiatriche

• Ospedali Psichiatrici Giudiziari, meglio conosciuti con l’acronimo OPG: sono quelli istituti che, non molto tempo fa, erano denominati “Manicomi Giudiziari”. Al loro interno vivono gli internati che l’autorità giudiziaria ha precedentemente dichiarato seminfermi o infermi totali di mente.

Questa serie di suddivisioni non è rigida e stagna ma si accompagna ad una serie di sovrapposizioni come, per esempio, quella che vede le case circondariali non soltanto deputate alla collocazione di soggetti imputati ma anch’esse, come le case di reclusione, sedi di sezioni riservate a coloro che devono scontare la pena in via definitiva. Questo è il caso della Casa Circondariale “Don Bosco” di Pisa in cui abbiamo svolto l’esperienza di tirocinio che riporto in più punti nel presente lavoro.

75

Page 76: La Formazione imprigionata

Capitolo Secondo

INGRESSI IN ISTITUTO DI SO GGETTI PRO VENIENTI DALLA LIBERTA' con ascritti reati di cui al Testo Unico sull'immigrazione

2.469

9.80011.116

0

2000

4000

6000

8000

10000

12000

gen.04-set.04 gen.05-set.05 gen.06-set.06

periodo di ri levaz ione

ingr

essi

per

T.U

imm

igra

zion

e

Grafico 6 – Ingressi in istituto di soggetti provenienti dalla libertà con ascritti reati di cui al T.U. sull’immigrazione

(Fonte: Rapporto DAP, Popolazione detenuta. Confronto situazione prima e dopo l’indulto , Settembre 2006)

Si potrà obbiettare che vi sia una notevole discrepanza tra il dato

ministeriale ufficiale che quantifica la proporzione di stranieri rispetto ai

detenuti italiani nel 48% del flusso in ingresso e il numero molto più

elevato da noi direttamente osservato nel carcere di Pisa. A

giustificazione di questa apparente differenza bisogna effettuare una

operazione di filtraggio dei dati che, per la fonte ufficiale, risulta essere

una media sul totale degli ingressi, indipendentemente dal tipo di istituto

cui si fa riferimento, mentre, nel caso della nostra osservazione, il

riferimento è evidentemente al solo istituto di Pisa che, essendo Casa

Circondariale, è destinato ad essere sede principale dei flussi sia in

entrata che in uscita. Per meglio illustrare ciò che intendiamo, facciamo

nuovamente ricorso ai numeri.

76

Page 77: La Formazione imprigionata

Capitolo Secondo

Tipo Istituto Totale detenutirapporto posizione

giuridica

CASE DI RECLUSIONE

Condannati 8.466 91%

Imputati 793 9%

Totale 9.259

CASE CIRCONDARIALI

Condannati 29.622 59%

Imputati 20.980 41%

Totale 50.602

ISTITUTI PER LE MISURE DI SICUREZZA

Condannati 1.356 97%

Imputati 47 3%

Totale 1.403

Totale generale 61.264

Tabella 8 – Detenuti presenti per tipo di istituto e posizione giuridicasituazione al 30 giugno 2006

(Ns. elaborazione su dati DAP)

Come si vede dalla tabella qui sopra, la casa circondariale è il

luogo, nell’universo carcerario, dove i flussi sono maggiormente

turbolenti e più immediatamente esposti alle variazioni delle strategie

penali, una delle quali è quella che qualifica gli immigrati come

criminali, ma potremmo aggiungervi i tossicodipendenti, gli zingari ed

altri che hanno come caratteristica principale quella di essere persone in

situazione di disagio psico-sociale o semplicemente esclusi dai circuiti

della cosiddetta normalità: il lavoro, il reddito e, di conseguenza, i

consumi.

2.2 I reati

È il momento di andare ad osservare quella che è la conditio sine

qua non della detenzione di un individuo, cioè l’aver commesso un

reato, l’aver subìto una condanna e, di conseguenza, lo scontarla in un

penitenziario. Crediamo che il fenomeno vada studiato su tre livelli:

1. esiste una reale corrispondenza tra il commettere un reato ed il

subirne le conseguenze legali, come sostenuto dai fautori del

77

Page 78: La Formazione imprigionata

Capitolo Secondo

valore preventivo del carcere, e dalla mitologia legata alla

“certezza della pena”?

2. La durata delle pene inflitte è compatibile con la necessaria

tendenza alla rieducazione evocata dalla Costituzione, oppure è

indice di qualcosa che sembrerebbe paragonare il carcere ad un

parcheggio, o meglio ad un deposito, di materiale di scarto, mentre

potrebbe, tale periodo di detenzione, essere tranquillamente

sostituito da più consone ed economiche soluzioni alternative alla

detenzione?

3. I reati che conducono alla galera, in che misura rispecchiano la

reale pericolosità dei soggetti coinvolti per cui si pone necessaria

la loro esclusione dal circuito sociale e la messa in sicurezza

all’interno delle mura penali?

Nell’anno 2004 vi sono stati 2.968.594 delitti denunciati55 di cui

ben 2.397.118 di autori ignoti, pari cioè all’81%. Del 19% rimanente, di

coloro, quindi, che sono stati identificati, ne sono stati condannati

239.391, circa quattro su dieci. Di questi ultimi, quelli condannati alla

reclusione, sempre nello stesso anno 2004, risultano essere, però,

156.718, per una percentuale del 27% sugli autori identificati e del 65%

sul totale dei condannati. Quindi, in definitiva, risulta che i condannati a

pena detentiva, rispetto al numero totale dei delitti denunciati, superano

di poco il 5%. Detto in altri termini, risulterebbe che su cento delitti

denunciati di cui l’autorità giudiziaria ha avviato procedimenti penali,

ben 95 non danno seguito a condanne alla reclusione.

55 Dati ISTAT. Per delitti denunciati si fa riferimento ai delitti denunciati per i quali l'Autorità giudiziaria ha iniziato l'azione penale.

78

Page 79: La Formazione imprigionata

Capitolo Secondo

Di primo acchito verrebbe da ipotizzare che questa bassa

percentuale di condannati sia colma di detenuti pericolosi per cui il

carcere sia l’unica misura applicabile. Vediamo in dettaglio la situazione

dell’anno 200456:

56 In tabella abbiamo riportato i dati aggregati per tipo di delitto. Più approfonditamente l’elencazione statistica si suddivide in secondo questa nomenclatura:

• Reati contro la personao Contro la vitao Contro l’incolumità e la libertà individualeo Ingiurie e diffamazioni

• Contro la famiglia, la moralità ecc.o Contro la famigliao Contro la moralità pubblica e il buon costumeo Contro il sentimento per gli animalio Interruzione della gravidanza

• Contro il patrimonioo Furtoo Rapinao Estorsioneo Sequestro di personao Danni a cose, animali, terreni ecc.o Truffa ed altre frodi

• Contro l’economia e la fede pubblicao Contro l’economia pubblica, l’industria e il commercioo Contro l’incolumità pubblica (in cui è compresa la produzione e lo spaccio di

stupefacenti)o Contro la fede pubblica

• Contro lo Stato, le altre istituzioni sociali e l’ordine pubblicoo Contro la personalità dello Statoo Contro la pubblica amministrazione (che comprende anche il delitto di violenza e

resistenza)o Contro l’amministrazione della giustiziao Contro il sentimento religiosoo Contro l’ordine pubblico (in cui è compreso il reato di associazione di stampo

mafioso)• Altri delitti

o Tutti i delitti non compresi nei precedenti elencati

79

Page 80: La Formazione imprigionata

Capitolo Secondo

TIPO DI DELITTOdelitti denunciati

persone condannate

perc. Condannati su

denunciatiIn totaleDi autori

ignoti

Contro la persona 306.680 138.640 (45%) 35.879 (21%)

Contro la famiglia, la moralità pubblica, il buon costume ed il sentimento per gli animali 18.180 1.679 (9%) 6.196 (38%)

Contro il patrimonio 2.180.151 2.005.193 (92%) 83.421 (48%)

Contro l'economia e la fede pubblica 235.095 147.161 (63%) 44.532 (51%)

Contro lo Stato, le altre istituzioni sociali e l'ordine pubblico 74.610 12.328 (17%) 28.245 (45%)

Altri delitti 153.878 92.117 (60%) 41.118 (67%)

TOTALE 2.968.59

4 2.397.118 (81%) 239.391 (42%)Di cui condannati a reclusione: 156.718 (27%)

Tabella 9 – Delitti denunciati per i quali l’autorità giudiziaria ha iniziato l’azione penale e persone effettivamente condannate

anno 2004(Ns. elaborazione su dati ISTAT)

Sulla base di questi dati sembra crollare miseramente tutta la

mitologia collegata alla prevenzione generale che sarebbe attivata dalla

minaccia della punizione del carcere. Prendiamo, per esempio, il dato

numericamente più consistente, quello che riguarda i delitti contro il

patrimonio. Soltanto otto su cento hanno un autore e di questi otto

soltanto la metà portano alla condanna di un responsabile. Se ci poniamo

dalla parte di chi, per bisogno o per “diletto”, scelga la strada del furto o

della rapina, quel quattro percento di probabilità che la cosa finisca male

non pare proprio possa rappresentare il più valido dei deterrenti. Inoltre,

su 239.391 soggetti condannati nel 2004, ben 146.988 hanno subìto una

pena entro i tre anni di reclusione, il ché equivale al 94% del totale.

Giova ricordare che l’Ordinamento Penitenziario attuale prevede la

possibilità che una persona possa usufruire di misure alternative alla

detenzione per il periodo di pena residuo. L’art.47 OP stabilisce, per

esempio, in tre anni il limite di pena residua tale che il detenuto possa

proporre istanza di affidamento in prova ai servizi sociali, e quindi finire

80

Page 81: La Formazione imprigionata

Capitolo Secondo

di scontare la pena in luoghi diversi dal carcere e nel rispetto di

specifiche prescrizioni.57

Quanti siano, numericamente, coloro che, almeno in teoria

potrebbero aver diritto ad usufruire di misure alternative e, quindi, di

uscire dal carcere, è riportato nella tabella sottostante.

Pena residua CondannatiFino a 1 anno 11.313Da 1 a 2 anni 7.266Da 2 a 3 anni 5.369Da 3 a 4 anni 3.690Da 4 a 5 anni 2.245Da 5 a 6 anni 1.404Da 6 a 7 anni 1.080Da 7 a 8 anni 790Da 8 a 9 anni 578Da 9 a 10 anni 436Da 10 a 20 anni 2.303Oltre 20 anni 486

Ergastolo 1.233Totale 38.193

Tabella 10 – Condannati definitivi per durata della pena residuaSituazione al 30 giugno 2006

(Ns. elaborazione su dati DAP)

57 L’affidamento in prova ai servizi sociali è la prima misura alternativa che si incontra nell’Ordinamento Penitenziario, all’art.47. Esso può essere concesso se la pena detentiva o parte residua di essa non sia superiore ai tre anni. Una volta ottenuto l’affidamento ai servizi sociali, il condannato sconta la pena fuori dal carcere. A loro volta i servizi sociali collocano il soggetto presso un’azienda, una cooperativa o altro luogo dove egli svolge un lavoro che, di norma, è proposto dallo stesso condannato. L’affidato, è sostanzialmente una persona libera che deve soltanto seguire degli obblighi o prescrizioni, come, per esempio, il rientro a casa ad orari prefissati, il divieto di allontanarsi dalla provincia ecc. Al controllo delle prescrizioni è preposto l’UEPE di competenza.

81

Page 82: La Formazione imprigionata

Capitolo Secondo

Condannati per durata della pena residuaSituazione al 30 giugno 2006

62%

19%

14%

5%

Fino a 3 anni

Da 3 a 6 anni

Da 6 a 20 anni

O ltre 20 anni

Grafico 7 – Condannati per durata della pena residuaSituazione al 30 giugno 2006

(Ns. elaborazione su dati DAP)

La cosa interessante è osservare come la politica, di fronte al

sovraffollamento delle carceri ed alla situazione giuridica che abbiamo

fin qui analizzato, abbia preferito percorrere la strada di un indulto

generalizzato e spersonalizzato piuttosto che rendere maggiormente

efficaci le norme che già esistono e che, contrariamente a quanto ritenuto

valido da una parte dell’opinione pubblica, pur spinta, se vogliamo, da

un certo atteggiamento generale assunto dai mezzi di comunicazione,

non sono applicate nella misura auspicata dai Padri Costituenti e dagli

illuminati legislatori della riforma del ’75 e seguenti. In sostanza, quel

sessantadue percento di detenuti con pena residua rientrante nel minimo

richiesto per le misure alternative, che ci faceva ancora dentro, il 30

giugno 2006? Possibile che fossero tutti personaggi di una tale

pericolosità per cui l’unica risposta possibile avesse luogo nel

rinchiuderli e sottoporli alla privazione delle proprie libertà? Alcuni

82

Page 83: La Formazione imprigionata

Capitolo Secondo

studiosi58 mettono in relazione le situazioni preesistenti la detenzione di

un individuo, in particolare le risorse sociali ed individuali, intendendo

con le prime la famiglia, gli amici, il lavoro ecc., e con le seconde le

proprie capacità culturali, intellettive, relazionali, e le competenze

specifiche raggiunte con lo studio e la formazione. Vi sono soggetti in

cui coesistono buone risorse sia dell’uno che dell’altro tipo che

difficilmente si incontrano in carcere se non per alcuni reati molto

particolari – i cosiddetti delitti dei “colletti bianchi” – e numericamente

poco significativi.

Una grossa fetta dei ristretti in carcere è formata dalla zona grigia

che vede persone dotate di risorse sociali ma con scarse capacità

individuali o viceversa. Costoro, comunque, hanno pur sempre un

margine di manovra che consente di orientare la propria detenzione nel

senso del maggiore diritto possibile. Per ottenere i benefici, comprese le

misure alternative di cui parlavamo poc’anzi, si possono attivare le

relazioni costruite fuori dal carcere oppure le proprie competenze

individuali, con la speranza di vedere i propri propositi soddisfatti.

Esiste, tuttavia, una quarta categoria, all’interno della quale

troviamo persone prive di risorse sociali e, al contempo, scarsamente

dotate di capacità individuali. Sono coloro che – come abbiamo potuto

constatare de visu durante l’esperienza al “Don Bosco” – hanno

difficoltà di comunicazione, per differenze linguistiche o “culturali”, per

cui diventa difficile attivare le già scarse risorse che l’istituzione mette a

loro disposizione; giungono in carcere già pressoché prive di diritti, o

quanto meno incapaci di esercitarli, quali la cittadinanza ed i diritti ad

essa connessi, come quello alla salute, alla formazione, per esempio, e,

58 Cfr. in particolare Luigi Berzano – Franco Prina, Sociologia della devianza, Roma, Carocci, 1995.

83

Page 84: La Formazione imprigionata

Capitolo Secondo

soprattutto, con la coscienza di “non aver diritto ai diritti”; l’estrema

burocratizzazione del sistema carcerario, per la maggior parte di costoro

assolutamente incomprensibile, non aiuta certamente a dissipare la nube

nella quale vengono immersi. Il risultato più frequente, a meno di

piuttosto rari “miracoli”, è la trasformazione di questi individui in

materiale di scarto da immagazzinare per la durata decisa dal giudice.

Le eccezioni, si potrà obbiettare, ci sono. È vero, ma riguardano per

lo più detenuti in condizioni particolari, per esempio i tossicodipendenti,

e sono per la maggior parte lasciate alla sensibilità dei direttori e del

personale, soprattutto dell’area educativa, che, talvolta per puro caso,

vengono a conoscenza del singolo caso e se ne fanno carico.59

Il Magistrato di Sorveglianza decide per lo più in base alle carte,

alle relazioni che gli vengono inviate dai vari uffici dell’amministrazione

penitenziaria e non potrebbe essere altrimenti, se osserviamo, anche in

questo caso, l’enorme numero di istanze che gli vengono inoltrate

quotidianamente, la rigidità delle norme da seguire e la straordinaria

responsabilità del ruolo. Purtroppo il risultato va a scapito del detenuto

che spesso e volentieri ottiene risposta con un considerevole ritardo. Nel

caso di Pisa si è potuto constatare che tale ritardo si misurava nell’ordine

dei mesi, fino a sei-sette, durante i quali la persona detenuta subiva 59 […] “La normativa vigente e gli stessi magistrati di sorveglianza tenuti alla sua applicazione fanno riferimento a criteri prognostici

- regolare comportamento- possibilità di inserimento lavorativo- sostegno e disponibilità del contesto familiare

che finiscono col discriminare i diversi soggetti proprio sul piano sociale premiando il conformismo e le risorse sociali già attivate. Il che vuol dire dare un vantaggio non necessariamente meritato ai soggetti maggiormente acculturati, o fortunati, o, peggio, più saldamente ancorati alle organizzazioni criminali. E vuol dire, per converso, penalizzare la minore adattabilità agli schemi comportamentali codificati ed i portatori di un disagio spesso più grave e profondo: i tossicodipendenti, i nomadi, gli immigrati, i malati di aids, vere e proprie nuove aree di marginalità all’interno del carcere.” (Gianni Del Rio, Patrizia Ciardiello, “La questione del ruolo tra cultura correzionalista e nuova penologia”, in Patrizia Ciardiello [a cura di], Quale Pena, Milano, Unicopli, 2004, pag. 58, corsivo nostro)

84

Page 85: La Formazione imprigionata

Capitolo Secondo

l’attesa della decisione come una delle molte meta-pene che

l’amministrazione penitenziaria elargisce con grande generosità ai suoi

utenti.

Le istanze di permesso premio o di affidamento in prova ai servizi

sociali pervengono al Magistrato di Sorveglianza accompagnate dalla

documentazione relativa all’osservazione sul detenuto.

In alcuni casi60 avviene che un’istanza venga approvata. Ciò si dà

in base alle notizie pervenute al Magistrato risalenti, al massimo, al

periodo in cui l’istanza è stata inoltrata. Se la misura viene concessa

significa banalmente che viene accertato che il detenuto aveva maturato

il diritto al beneficio al momento della redazione dell’istanza e della

documentazione di sintesi. La discrepanza esistente tra il momento in cui

il soggetto raggiunge i requisiti necessari alla misura e il giorno in cui il

beneficio diviene usufruibile presenta oggettivamente alcune

problematicità che, qualora tale differenziale temporale si limitasse ad

alcuni giorni, potrebbe essere annoverato nella categoria dei tempi

ancora “umani”, ma, se il provvedimento viene assunto, come purtroppo

avviene sovente, con un ritardo che può raggiungere in alcuni l’ordine

dei mesi61, può sorgere il dubbio che esista una indebita ed arbitraria

sospensione dell’esercizio dei più semplici diritti di una persona.

Ovviamente nessun detenuto, che risulti, ha mai avuto da obbiettare

60 Nell’anno 2004 si sono sommate 27.358 istanze di affidamento in prova ai servizi sociali di cui ne sono state approvate la metà circa, 13.452. Mentre, per quanto concerne i permessi premio, sempre nello stesso anno ne sono stati richiesti 48.853 e concessi 22.982, anche in questo caso più o meno il cinquanta percento. (Fonte ISTAT)61 Personalmente abbiamo avuto modo di constatare, durante l’esperienza di tirocinio nel carcere di Pisa, come alcune istanze di concessione di benefici venissero accettate e rese operative anche dopo ben sette mesi dalla loro proposizione. Un caso tra molti è quello di una ragazza di origine nigeriana, arrestata per violazione della legge immigrazione, alla quale l’avvocato consigliò di rinunciare a proporre l’istanza di detenzione domiciliare in quanto la risposta del giudice sarebbe presumibilmente giunta oltre la durata della permanenza in carcere.

85

Page 86: La Formazione imprigionata

Capitolo Secondo

contentandosi della concessione della misura richiesta, seppur con

notevole ritardo, avendo come unico obbiettivo quello di lasciarsi al più

presto alle spalle tutta l’amministrazione penitenziaria, giudice

compreso.

Appare interessante notare come, durante la sperimentazione di

Rebibbia, il gruppo di osservazione fosse rappresentato da tutte le figure

che avevano a che fare col detenuto, tra cui anche gli insegnanti, e la

discussione finale fosse presieduta da un giudice che, pur non facendo

parte dell’istituto, si coordinava con la direzione del carcere per le

attività di osservazione. Se fosse ancora attiva ai giorni nostri, quella

configurazione, avrebbe potuto rappresentare un accorciamento del

diagramma di flusso che, partendo dall’acquisizione dei requisiti

necessari da parte delle aree competenti sull’osservazione, porta infine

alla decisione da parte del Magistrato che, invece, rischia di dover

effettuare le sue scelte basandosi perlopiù su documenti standardizzati e

spersonalizzati talvolta messi insieme alla meglio ed in fretta e furia

dagli educatori penitenziari.

Non è tanto la professionalità degli operatori ad essere messa in

dubbio quanto, ancora una volta, le condizioni in cui essi si trovano ad

operare. Se confrontiamo i dati sugli ingressi annuali con il numero degli

operatori penitenziari preposti al trattamento abbiamo conferma

numerica della preponderanza dell’aspetto securitario retributivo sulla

riabilitazione ma soprattutto che il trattamento penitenziario non sia

attuabile nella pratica. Gli educatori che operano all’interno delle

strutture carcerarie sono cinquecentotrenta a fronte di un flusso annuale

di quasi novantamila ingressi, tra imputati e condannati con una media di

86

Page 87: La Formazione imprigionata

Capitolo Secondo

sessantamila, prima dell’indulto, e quarantamila soggetti presenti ogni

giorno62.

Gli agenti di polizia penitenziaria, invece, ammontano a circa

quarantaduemila unità, compresi i reparti cinofili e a cavallo63. Il sistema

penitenziario francese, molto simile al nostro, vede 55.000 detenuti

mediamente presenti a fronte di 2.000 educatori, in numero quindi

quattro volte superiore ai nostri 500, e soltanto 26.000 agenti di polizia

penitenziaria, la metà circa dei nostri. Nonostante questo i sindacati della

polizia penitenziaria nostrana sono sempre sul piede di guerra

lamentando carenze di organico e carichi di lavoro, secondo loro,

assolutamente insostenibili anche in ragione del forte assenteismo,

mediamente ammontante al 30% circa, con punte che superano il 40%64,

che domina tra i loro assistiti.

Per capire da dove tragga origine la doglianza della polizia

penitenziaria e se essa abbia consistenza nella realtà dei numeri,

ricorriamo nuovamente ai dati ufficiali:

62 Quest’ultimo dato, come vedremo, è destinato a tornare sui livelli pre-indulto ed a superarli a meno di improbabili drastici smantellamenti delle leggi Bossi-Fini sull’immigrazione e Fini-Giovanardi sulle tossicodipendenze.63 La spesa spesa prevista e finanziata per l’anno 2007 riguardo questi due reparti ammonta a ben 300.000 Euro circa. È, inoltre, all’esame dell’Ufficio Legislativo del Ministero della Giustizia la costituzione della Fanfara a Cavallo del Corpo di Polizia Penitenziaria. Temiamo che questo indispensabile reparto possa distogliere ulteriore personale, e risorse finanziarie.64 Fonte DAP.

87

Page 88: La Formazione imprigionata

Capitolo Secondo

Numero di detenuti

Personale di custodia

Rapporto detenuti/personale di

custodia 1 Azerbajan 18.259 183 99,8

2 Ukraine 1.934.489 23.912 80,9

3 UK: Scotland 68.885 3.221 21,4

4 The former Yugoslav Republic of Macedonia 1.747 250 7,0

5 Poland 79.344 13.410 5,9

6 Moldova 10.383 1.756 5,9

7 Bulgaria 10.935 1.966 5,6

8 Hungary 16.410 3.061 5,4

9 Romania 40.085 7.963 5,0

10 Lithuania 7.827 1.918 4,1

11 Spain: Catalonia 7.922 1.970 4,0

12 Latvia 7.731 2.030 3,8

13 Estonia 4.565 1.232 3,7

14 Spain: Rest of Spain 51.302 13.886 3,7

15 Turkey 71.148 20.004 3,6

16 Bh. Rep. Srpska 977 302 3,2

17 Armenia 2.727 881 3,1

18 Slovak Republic 9.504 3.109 3,1

19 Germany 79.676 28.194 2,8

20 Netherlands 20.075 7.528 2,7

21 France 56.271 21.109 2,7

22 Luxembourg 548 216 2,5

23 BH. Federazion BH 1.247 494 2,5

24 Slovenia 1.126 451 2,5

25 UK: England and Wales 74.488 30.633 2,4

26 Finland 3.446 1.562 2,2

27 Croatia 2.846 1.298 2,2

28 Switzerland 6.021 2.964 2,0

29 Iceland 115 63 1,8

30 Cryprus 546 306 1,8

31 Liechtenstein 7 4 1,8

32 Sweden 7.332 4.725 1,6

33 Denmark 3.762 2.487 1,5

34 ITALY 56.090 40.130 1,4

35 UK: Northern Ireland 1.295 1.171 1,1

Norway 2.975 --- ---

San Marino --- --- ---

Tabella 11 – Rapporto tra detenuti presenti e personale di custodia nei paesi del Consiglio d’EuropaSituazione al 1 settembre 2004

(Ns. elaborazione su dati COE)65

65 Consiglio d’Europa, SPACE I, Council of Europe Annual Penal Statistics, Survey 2004, a cura di Marcelo F. Aebi, Università di Losanna e Università Autonoma di Barcellona, Strasburgo, 7 novembre 2005

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Page 89: La Formazione imprigionata

Capitolo Secondo

Il dato che risalta in particolar modo è la posizione dell’Italia che,

seguendo l’ordine di carico di lavoro per ogni addetto alla custodia-

sorveglianza, si ritrova al 34° posto che diventa l’ultimo se accorpiamo il

dato dell’Irlanda del Nord con il resto del Regno unito. Quindi, dalla

lettura di questi dati, peraltro forniti al Consiglio d’Europa dal nostro

Ministero della Giustizia e, per questo, senz’altro ufficiali e veritieri,

potremmo formulare alcune ipotesi:

1. Siamo in presenza di un enorme, quanto ingiustificato,

esubero di personale di Polizia Penitenziaria

2. I dati riportati sono pre-indulto. Se osassimo rapportarli alle

presenze negli istituti di pena italiani a seguito del

provvedimento del luglio 2006 il rateo di supervisione – il

rapporto tra detenuti e agenti – sarebbe notevolmente

inferiore.

3. In Italia l’organizzazione del lavoro nel comparto sicurezza

del sistema penitenziario è particolarmente inefficiente ed in

palese contraddizione rispetto agli obbiettivi di efficacia ed

efficienza tipici di un’organizzazione moderna. Nonostante

ciò, si osserva, da parte sia dei sindacati che della politica

penitenziaria, il paradossale lamento della carenza di

personale di custodia come motivo di inefficienza

dell’intero sistema.

4. Il sistema penitenziario, nella principale accezione

custodiale, ha svolto egregiamente la funzione di

assorbimento della domanda di lavoro, soprattutto nelle

89

Page 90: La Formazione imprigionata

Capitolo Secondo

zone dove il fenomeno del voto di scambio è storicamente

più radicato.

Queste, ed altre che ad esse possono aggiungersi con un po’ di

fantasia, sono tutte ipotesi piuttosto suggestive ma non è certo che

racchiudano la vera ragione dell’enormità delle cifre sopra riportate.

In Toscana, nel 2004, la situazione si presentava così:

Istituto penitenziarioForza

amministrata

DistacchiForza

Operante66Assenze

vario titolo% assenti

su F.O.In sede

Fuori sede

CR Arezzo 69 4 3 70 24 34%CCF Empoli 38 2 9 31 14 45%CC Firenze "Mario Gozzini" 54 3 8 49 21 43%CC Firenze "Sollicciano" 610 15 92 533 67 13%CC Grosseto 32 1 1 32 10 31%CR Isola di Gorgona 143 5 17 131 28 21%CC Livorno 257 10 22 245 97 40%CC Lucca 102 2 3 101 32 32%CR Massa 129 22 5 146 43 29%CC Massa Marittima 54 2 9 47 14 30%OPG Montelupo Fiorentino 83 2 3 82 22 27%CC Pisa 221 7 20 208 83 40%CC Pistoia 65 6 11 60 19 32%CR Porto Azzurro 201 7 31 177 83 47%CC Prato 282 7 26 263 88 33%CR S.Gimignano 182 1 10 173 73 42%CC Siena 44 2 4 42 13 31%CR Volterra 94 0 9 85 36 42%

Totali 2.660 98 283 2.475 767 31%

Tabella 12 - La polizia penitenziaria negli istituti di pena toscani per forza amministrata, forza operante e assenze in valore assoluto e percentuale sul totale operante.

(ns. elaborazione su dati PRAP riferiti al 27 settembre 2004)

66 Per forza operante si intende quella realmente utilizzabile per i servizi giornalieri. Pertanto dalla forza amministrata viene defalcato il personale distaccato in uscita ed aggiunto il personale distaccato in entrata (nel nostro caso 2.660-283+98=2.475).

90

Page 91: La Formazione imprigionata

Capitolo Secondo

Istituto penitenziarioForza

OperanteDetenuti presenti

Detenuti/F.O.

CR Arezzo 70 105 1,5CCF Empoli 31 13 0,4CC Firenze "Mario Gozzini" 49 35 0,7CC Firenze "Sollicciano" 533 954 1,8CC Grosseto 32 13 0,4CR Isola di Gorgona 131 35 0,3CC Livorno 245 365 1,5CC Lucca 101 146 1,4CR Massa 146 190 1,3CC Massa Marittima 47 20 0,4OPG Montelupo Fiorentino 82 125 1,5CC Pisa 208 314 1,5CC Pistoia 60 137 2,3CR Porto Azzurro 177 265 1,5CC Prato 263 586 2,2CR S.Gimignano 173 287 1,7CC Siena 42 58 1,4CR Volterra 85 170 2,0

Totali 2.475 3.818 1,5

Tabella 13 - Confronto tra Polizia Penitenziaria e detenuti presenti(ns. elaborazione su dati PRAP riferiti al 27 settembre 2004)

Dalle tabelle qui sopra si potrebbe confermare il dato pubblicato dal

Consiglio d’Europa sul carico di lavoro del personale di custodia e,

aggiungiamo, qualora volessimo includere anche i numeri delle assenze

verrebbe da constatare che queste ultime non possano arrecare grandi

difficoltà di gestione dell’apparato della sicurezza in carcere, o almeno

non in maniera significativa. Altrimenti in paesi come la Francia o la

Germania, con un rapporto detenuti/agenti pressoché doppio del nostro,

si rischierebbe la rivolta delle forze di polizia penitenziaria.

Successivamente all’indulto, la situazione si presenta così:

91

Page 92: La Formazione imprigionata

Capitolo Secondo

Regione Detenuti presenti

(31/12/2006)

Personale di Polizia Penitenziaria (23/1/2007)

Detenuti/Personale di Pol. Penit.

Piemonte 2.738 3.230 0,85 Valle d' aosta 126 163 0,77 Lombardia 6.453 4.887 1,32 Trentino 226 240 0,94 Veneto 1.768 1.691 1,05 Friuli v. Giulia 457 556 0,82 Liguria 833 1.088 0,77 Emilia romagna 2.945 2.124 1,39

Totale NORD 15.546 13.979 1,11 Toscana 2.864 2.696 1,06 Marche 622 718 0,87 Umbria 665 848 0,78 Lazio 3.900 5.136 0,76

Totale CENTRO 8.051 9.398 0,86 Abruzzo 1.062 1.393 0,76 Molise 207 356 0,58 Campania 5.312 4.975 1,07 Basilicata 298 495 0,60 Calabria 1.465 1.830 0,80 Puglia 2.165 2.815 0,77 Sicilia 3.789 5.102 0,74 Sardegna 1.110 1.322 0,84

Totale SUD e ISOLE 15.408 18.288 0,84

Totale Italia 39.005 41.665 0,94

Tabella 14 - Confronto tra personale di Polizia Penitenziaria e detenuti presenti, dopo l’indulto, suddivisi per regione

(ns. elaborazione su dati DAP)

Nonostante le cifre mostrino l’eccessiva presenza con, tra l’altro

una certa differenza tra Nord, Centro e Sud del Paese, delle forze di

sorveglianza all’interno delle carceri italiane questo è stato il commento

della Segreteria Generale del Sindacato Autonomo di Polizia

Penitenziaria (Sappe), il più rappresentativo della Polizia Penitenziaria

con oltre 12mila iscritti, circa gli effetti dell’approvazione dell’indulto:

“A nemmeno un mese dall’approvazione della legge sull’indulto, sono

più di 20mila i detenuti usciti fino ad oggi dalle carceri del Paese per

effetto dell’indulto. […] Ciò ha comportato naturalmente un parziale

92

Page 93: La Formazione imprigionata

Capitolo Secondo

alleggerimento delle drammatiche condizioni di lavoro del Personale di

Polizia Penitenziaria, considerato che il sovraffollamento dei

penitenziari ricade principalmente proprio sui poliziotti penitenziari,

che sono impiegati nelle sezioni detentive 24 ore su 24, 365 giorni

all’anno, con notevole stress psico-fisico ormai in una irreversibile

inferiorità numerica rispetto ai detenuti presenti67. Ora è necessario che

Governo e Parlamento si diano da fare per interventi strutturali al

sistema penitenziario nazionale. È ora opportuno che per non vanificare

in pochi mesi questo atto di clemenza Governo e Parlamento prendano

con urgenza provvedimenti concreti di potenziamento dell’area penale

esterna, che tengano in carcere chi veramente deve starci ed

incrementando quindi gli organici di Polizia Penitenziaria cui affidare i

compiti di controllo sull’esecuzione penale68; un maggior ricorso alle

misure alternative alla detenzione non legato ad automatismi ma a un

concetto davvero premiale; una legge sugli extracomunitari che

permetta espulsioni più facili piuttosto che la detenzione in Italia (a

livello nazionale sono il 30% - circa 20mila - i detenuti stranieri,

percentuale che si raddoppia negli Istituti del Nord Italia). È davvero

necessario ripensare il carcere. Bisogna adottare con urgenza rimedi di

fondo al sistema penitenziario, come chiesto anche dal Capo dello Stato

Giorgio Napolitano.”

67 E i detenuti? Non sono forse loro le principali vittime del sovraffollamento, visto che spesso e volentieri si trovano, loro sì, a dover condividere 24 ore su 24 nove metri quadri di cella con altri due o tre compagni oltretutto che non si sono neppure scelti? Riguardo l’irreversibile inferiorità numerica rispetto ai detenuti parrebbe espliciti la visione della sorveglianza come un campo di battaglia dove l’inferiorità numerica può effettivamente essere determinante per rimediare una sconfitta. Solo che il carcere non è un campo di battaglia.68 Ma, se da un lato si chiede la riduzione del numero dei detenuti lasciando in carcere chi veramente deve starci, perché chiedere nuove assunzioni quando basterebbe destinare altrove il personale (già in esubero, come abbiamo abbondantemente osservato) attualmente destinato all’esecuzione interna?

93

Page 94: La Formazione imprigionata

Capitolo Secondo

“All’approvazione dell’indulto dunque devono seguire interventi

strutturali sull’esecuzione della pena, che garantiscano la giusta

sanzione a chi commette reati soprattutto a tutela delle vittime della

criminalità e che rendano la pena uno strumento efficace per ripagare

la società del reato commesso. Oggi chi sconta la pena in carcere non

ha nulla da fare: è forse il caso di ripensare all’introduzione del lavoro

obbligatorio per i detenuti, con un 50% della retribuzione destinato a

chi lavora e l’altro 50% in un Fondo dello Stato da destinare alle

vittime della criminalità. Altrimenti qual’è l’aspetto sanzionatorio ed

afflittivo della pena? "69.

"Adesso auspichiamo che Governo e Parlamento assumano i

provvedimenti di competenza a cominciare dalla riassunzione in servizio

dei circa 530 agenti di polizia penitenziaria ausiliari, licenziati a fine

2005 e dall’individuazione di provvedimenti legislativi che potenzino

maggiormente l’area penale esterna".70

In un secondo round, sempre la segreteria del Sappe emana una

nota nella quale si afferma: “Una nuova politica della pena, necessaria

e indifferibile deve prevedere un «ripensamento» organico del carcere e

dell’istituzione penitenziaria, e un maggiore ricorso alle misure

alternative alla detenzione e l’adozione di procedure di controllo

mediante strumenti elettronici o altri dispositivi tecnici (come il

braccialetto elettronico) che hanno finora fornito in molti Paesi europei

una prova indubbiamente positiva71. E se la pena evolve verso soluzioni

69 Quindi sembrerebbe auspicarsi un sistema penitenziario esecutore materiale delle pulsioni di rivalsa e vendetta da parte della vittime della criminalità nei confronti di chi tali crimini commette e dove la polizia penitenziaria abbia funzioni di garante della regolarità e rigidità della pena inflitta anche mediante il ritorno all’uso dei lavori forzati.70 Comunicato pubblicato dall’agenzia di stampa APCOM del 29 agosto 2006. 71 Tranne proprio in Italia: introdotto nel 2001 (Decreto legge n. 341/2000, convertito in legge il 17 gennaio 2001), è miseramente fallito nel 2003 ancora in fase sperimentale. Inoltre, viste le polemiche

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Page 95: La Formazione imprigionata

Capitolo Secondo

diverse da quella detentiva, anche la polizia penitenziaria dovrà

spostare le sue competenze al di là delle mura del carcere,

parallelamente all’affermarsi del suo ruolo quale quello di vera e

propria polizia dell’esecuzione penale. Il controllo sulle pene eseguite

all’esterno e sull’adozione del braccialetto elettronico, oltre che

qualificare il ruolo della polizia penitenziaria, potrà avere quale

conseguenza il recupero di efficacia dei controlli sulle misure

alternative alla detenzione72. Efficienza delle misure esterne e garanzia

della funzione di recupero fuori dal carcere potranno far sì che cresca

la considerazione della pubblica opinione su queste misure, che nella

considerazione pubblica, non vengono attualmente riconosciute come

vere e proprie pene"73

Sembrerebbero proclami dal forte sapore demagogico e strumentale

confermato dalla continua e pressante richiesta di ampliamento di

organico presentata dalle compagini sindacali del corpo di polizia

penitenziaria nel nostro paese.

Tornando ai problemi veri del carcere, un altro problema è

rappresentato dallo stesso principio insito nelle norme sulle misure

alternative che, se apparentemente si presentano come un premio alla

buona condotta intramuraria con al centro il detenuto, in realtà da un lato

forniscono un formidabile strumento di controllo interno alle strutture

detentive mentre dall’altro occultano all’osservazione degli operatori

e le battaglie tuttora in atto contro questo dispositivo nei paesi dove è utilizzato, ci pare che sia lungi dal dare di sé prova di indubbia positività.72 A quale scopo controllare una misura che dà, pur con le normali eccezioni e difetti, prova di efficacia pur senza polizia penitenziaria e/o dispositivi elettronici di controllo? Se l’intento fosse quello di evitare la reiterazione dei reati l’innovazione andrebbe a riguardare le migliaia di persone attualmente in misura alternativa alla detenzione quando coloro che ne subiscono la revoca per recidiva sarebbero soltanto lo 0,14% (7 recidivi nel primo semestre del 2007 su un totale di 7.304 soggetti in misura alternativa) (Fonte: dati DAP)73 Comunicato stampa del SAPPE pubblicato da “Redattore Sociale” il 6 dicembre 2007.

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Page 96: La Formazione imprigionata

Capitolo Secondo

parte della personalità del soggetto che tenderà a mostrare di sé soltanto

ciò che, in modo strumentale, può concorrere alla migliore relazione di

sintesi possibile. Non sorprende, quindi, come l’introduzione di norme

che premiano la buona condotta intramuraria segni anche la fine delle

rivolte carcerarie. Questo apre a nuove problematicità piuttosto spinose

riguardo al significato di rieducazione, all’axiologia di riferimento per il

piano rieducativo, al monitoraggio e agli indicatori necessari per la

verifica del progetto prima, durante e dopo la sua realizzazione.

Componente essenziale del concetto stesso di trattamento è il

campo di valori da scegliere nella proposta rieducativa e che non

possono essere formulati dallo Stato che, dovendo muoversi in una

cornice pluralistica, deve necessariamente perseguire la neutralità più

assoluta negli interventi pedagogici74. Nella realtà, invece, è proprio ciò

che avviene allorquando la classe politica predominante, nell’ottica di

realizzare la propria strategia, mette in campo i propri valori allo scopo

di confermare od accrescere il proprio potere.75

Come confermato da numerosi studiosi76, stiamo vivendo da alcuni

anni, nei paesi occidentali, un periodo di notevole incremento della

carcerazione soprattutto nelle fasce sociali più deboli ed emarginate. La

popolazione detenuta è cresciuta di numero ed ha modificato la propria

composizione con, come logica conseguenza, una pesante influenza sia

sulla gestione degli istituti che sulla funzione che ad essi è assegnata, il

trattamento in primis. Abbiamo visto che, secondo la legge, il

trattamento va inteso come elemento qualificante la prevalenza della

74 Cfr. Renato Breda, L’educatore per adulti nel sistema penitenziario, in F. Saverio Fortuna (a cura di), Operatori penitenziari e legge di riforma, Milano, Franco Angeli, 1985.75 Cfr. Foucault, Sorvegliare e punire ,cit..76 Cfr. Lucia Re, Carcere e globalizzazione. Il boom penitenziario negli Stati Uniti e in Europa, Roma-Bari, Laterza, 2006.

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Page 97: La Formazione imprigionata

Capitolo Secondo

funzione riabilitativa su quella retributiva in vista della risocializzazione

e del reinserimento del detenuto nella società. Tuttavia si percepisce in

maniera evidente la permanenza come residuo storico della visione

medico-terapeutica della pena.

Nell’osservazione della personalità, punto cardine per la diagnosi e

successivamente la stesura del piano trattamentale, prevale il modello

biopsichico, tendente a focalizzare l’attenzione degli operatori

esclusivamente sui fattori mentali che hanno condotto alla commissione

del reato, su quello biografico, molto meno rassicurante e forse proprio

per questo messo in secondo ordine, che vorrebbe che al centro

dell’osservazione vi fosse la storia del soggetto, comprese le cause che lo

hanno condotto a commettere l’azione criminale. Il modello medico

correzionale in definitiva può mettere in forse l’incolumità psico-fisica

del detenuto andando in conflitto con la prima parte dell’art.27 Cost

(diritto all’umanità del trattamento). Nella realtà la salvaguardia della

personalità individuale è messa a grave rischio dalla carcerazione nel

momento stesso in cui essa ha luogo.

La legge prevede che il trattamento si debba svolgere tramite

l’istruzione, il lavoro, della religione, delle attività culturali, ricreative e

sportive e agevolando opportuni contatti con il mondo esterno ed i

rapporti con la famiglia.77

È fin troppo chiaro che una delle cause dell’inadeguatezza

dell’attuale sistema sanzionatorio sia proprio nella rigidità

dell’esecuzione penale di fronte all’imprevedibilità, alla vastità infinita

della fenomenologia umana, per certi versi misteriosa ed oscura.

77 L.354/75, Art.15 c.1.

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Page 98: La Formazione imprigionata

Capitolo Secondo

Qui, come un paradosso, si innesta il concetto di

individualizzazione del trattamento. Individualizzazione significa

profonda conoscenza reciproca, allo stesso modo in cui un padre non può

usare con tutti i figli lo stesso identico tono educativo ma dovrà, bensì,

adeguarlo ad ognuno di essi in base ad una serie infinita di parametri tra

cui spiccano la personalità del soggetto, il contesto spaziale (dove), il

contesto temporale (quando), la cognizione del periodo dello sviluppo

del figlio, le sue propensioni, caratteristiche individuali, capacità di

adattamento ecc.. Non vogliamo qui proporre un nuovo metodo

paternalistico nel trattamento dei detenuti, ma soltanto ricordare che, allo

stesso modo in cui noi trattiamo i nostri figli come persone, così

un’amministrazione della giustizia dovrebbe fare con coloro che, oltre

tutto molto spesso appartengono alle classi più deboli della società.

Una prima contraddizione è rappresentata dalla scelta del legislatore

di effettuare l’osservazione “in vitro”, nel carcere, in un contesto avulso

dall’ambiente in cui il soggetto era cresciuto e nel quale si sono

verosimilmente sviluppate le cause del comportamento, tagliando così di

netto dalla valutazione l’incidenza che l’influenza ambientale d’origine

aveva nei diversi periodi dell’esistenza, in particolar modo nell’infanzia.

Solo l’assistente sociale, e con grandi limiti dovuti principalmente

alla cronica scarsità delle risorse disponibili, prende in considerazione, o

meglio dovrebbe prendere in considerazione, ciò che concerne i luoghi e

i tempi in cui il soggetto si è sviluppato, le relazioni che ha intessuto, il

territorio col quale ha interagito, in quella che viene comunemente

chiamata “indagine socio-familiare”. In realtà il limitato organico a

disposizione dell’UEPE, unitamente al sovrabbondante numero di

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Page 99: La Formazione imprigionata

Capitolo Secondo

“utenti” in carico nonché, dato non indifferente, alla strutturale rigidità

normativa nella quale si muovono gli operatori, fa sì che nella prassi

quotidiana spesso e volentieri il lavoro si riduca ad una sommaria

valutazione dei documenti e delle relazioni già esistenti e, se va bene, ad

un solo breve colloquio col detenuto. A proposito del colloquio è

interessante osservare il numero di “domandine” di richiesta di incontro

con l’assistente sociale dell’UEPE inevase. Durante la mia esperienza

nel carcere di Pisa abbiamo potuto constatare che tali richieste si erano

accumulate in gran quantità e le meno recenti risalivano addirittura ad un

anno prima con l’alta probabilità che appartenessero a detenuti ormai

usciti dall’istituto.78

78 Sulle domandine dei detenuti e su ciò che rappresentano dell’intera fenomenologia carceraria, una vera pena nella pena, fondamentale è il testo di Pietro Buffa, I territori della pena, Torino, Gruppo Abele, 2007.

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Page 100: La Formazione imprigionata

Capitolo Terzo

Devianza, controllo ed esclusione sociale

3.1 L’identità sociale

“Se gli uomini definiscono reali le situazioni esse saranno reali

nelle loro conseguenze”. Questo è il cosiddetto “teorema di Thomas”,

enunciato nel 1928 dal sociologo statunitense William I. Thomas. Non è

un caso che questa asserzione sia stata elaborata dallo studioso pochi

anni dopo aver scritto, insieme al sociologo polacco Florian Znaniecki,

un’opera classica della disciplina: The Polish Peasant in Europe and

America (1918-20)79, uno studio empirico sulla condizione degli

immigrati polacchi negli USA. Come si può notare, l’impostazione del

problema dell’inclusione, soprattutto riguardo l’integrazione

interculturale, ha radici molto più antiche di quanto generalmente si

creda. Il teorema di Thomas è alla base di gran parte della sociologia

americana di questo secolo, che si è sempre più orientata verso le

capacità dei singoli e dei gruppi di creare/ricreare la realtà sociale per

mezzo dei propri “atteggiamenti” (un altro concetto che deve molto a

Thomas e Znaniecki).

Alcuni autori hanno sistematizzato questo orientamento con il

concetto di “definizione della situazione”, secondo cui ogni significato è

costruito socialmente e non esistono (a grandissime linee) concetti dati

che non possano essere ridefiniti da singoli o gruppi con un processo di

79 trad.it. William I. Thomas – Florian Znaniecki, Il contadino polacco in Europa e in America, Milano, Edizioni di Comunità, 1968

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Page 101: La Formazione imprigionata

Capitolo Terzo

interpretazione. George Herbert Mead80 mette chiaramente in luce come

il Sé sia costituito da una componente esogena di origine sociale, il Me,

e da un’altra componente, endogena, rappresentata dall’Io. Il Sé di un

soggetto si struttura, all’interno di un contesto sociale in cui esiste

interazione fra il soggetto e gli altri, sulla base di meccanismi di

retroazione forniti dai segnali di riconoscimento o di rifiuto che gli altri

gli indirizzano.81

Mead considera, nel processo di elaborazione della identità, il

contributo dato dall’ambito culturale e sociale all’interno del quale il

soggetto è cresciuto e che gli ha fornito quei modelli di identificazione,

sulla base dei quali egli ha costruito una propria linea di condotta e di

pensiero, ma, nello stesso tempo, non trascura i fattori soggettivi, unici e

irripetibili, che rappresentano la base delle differenze individuali che si

osservano nella realtà. Questa, secondo Mead, è la ragione della

distinzione del Sé in due aspetti ben differenziati fra loro: l’Io che

raffigura il Sé come soggetto, e il Me, che rappresenta il Sé come

oggetto.82

Il Sé rappresenterebbe, quindi, il risultato di una tensione dialettica

fra le due polarità, esogena ed endogena, dove l’Io incarna i fattori

diversificanti e costruttivi del Sé — l’approccio innovativo che ogni

80 Georg Herbert Mead, Mente, Sé e Società, Giunti Barbera, Firenze, 1972, orig.: Mind Self and Society, Chicago, The Univ. of Chicago Press, 1934 . Scrive l’autore a p. 203: “Non conosco altri modi in cui l’intelligenza o la mente potrebbero sorgere o essere sorte se non attraverso l’interiorizzazione da parte dell’individuo dei processi sociali dell’esperienza e del comportamento”81 “Il fatto che tutti i Sé siano formati nei termini o attraverso i termini del processo sociale e siano dei riflessi individuali di esso - o piuttosto di quel modello di comportamento organizzato che il processo sociale rivela che gli individui assumono nelle loro rispettive strutture - non è minimamente incompatibile con il fatto che ciascun Sé individuale ha la sua propria peculiare individualità, il suo proprio modello irripetibile” (G.H.Mead, Mente, Sé e Società, cit., p. 211)82 “L’Io è la risposta dell’organismo agli atteggiamenti degli altri che un individuo assume. Gli atteggiamenti degli altri costituiscono il Me organizzato ed allora un individuo reagisce ad esso come un «Io» [...]. L’Io ed il Me [vanno considerati] come elementi costitutivi del S” (G.H.Mead, Mente, Sé e Società, cit., p. 189).

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Page 102: La Formazione imprigionata

Capitolo Terzo

soggetto può adottare di fronte a qualsiasi problema posto dalla vita

sociale —, il Me, invece, riflette le informazioni retroattive che

emergono nei rapporti interpersonali. Quella sorta di conversazione fra

Io e Me costituisce lo spazio di sviluppo del Sé83. Il Sé quindi avrebbe

per Mead il significato di un processo, i cui protagonisti sarebbero

l’individuo e la società, all’interno del quale entrano in gioco fattori

soggettivi ed elementi appartenenti al mondo sociale, la rappresentazione

dell’altro ed il sistema di relazioni.

L’ipotesi che ne consegue suggerisce l’idea di un uomo che vive in

società non solo come individuo tra individui ma come soggetto capace

di autoriflessione che si costituisce nell’interazione con gli altri

attraverso il linguaggio, ossia attraverso la comunicazione di simboli

significativi. All’interno dell’interazione con gli altri ognuno sviluppa la

propria peculiare individualità con l’assunzione di ruoli sociali e con la

capacità di rappresentarsi come centro di elaborazione autonoma dei

significati delle esperienze di relazione. L’identità si manifesterebbe,

quindi, nell’equilibrio tra due facce apparentemente opposte, l’io ed il

noi. Equilibrio dinamico che, a seconda del prevalere dell’uno sull’altro

aspetto, arriva a connotare i diversi stadi di sviluppo dell’habitus sociale.

A tal proposito giova forse ricordare la prospettiva evidenziata da

Elias84 secondo cui il bilanciamento tra le due forme dell’identità muta

83 Interessante è la distinzione che Mead opera tra l’Io creativo e il Me conformista. "Noi parliamo di una persona come di un individuo convenzionale; le sue idee sono esattamente le stesse di quelle dei suoi vicini; in queste circostanze egli non è niente più che un Me, i suoi sono soltanto degli adattamenti superficiali che hanno luogo, come sosteniamo, inconsciamente. In contrapposizione, esiste il soggetto che ha una personalità ben definita, che replica all’atteggiamento organizzato in un modo significativamente differente. In questo soggetto è l’Io la fase più importante dell’esperienza. Queste due fasi, costantemente manifestantisi, sono le fasi più importanti del Sé” (G.H.Mead, Mente, Sé e Società, cit., p. 210).84.“Non esiste un’identità-Io senza un’identità-Noi; mutano soltanto le accentuazioni nell’equilibrio Io-Noi, il modello del rapporto Io-Noi” (Norbert Elias, La società degli individui, Bologna, Il Mulino, 1990, pagg. 177-271)

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Page 103: La Formazione imprigionata

Capitolo Terzo

nel tempo segnando il transitare tra i periodi storici in cui l’identità-Noi

ha prevalso sull’identità-Io e viceversa85. Per, esempio, nota Elias, dalla

fine del Medioevo, con la riscoperta dell’individuo, l’ago della bilancia

comincia a pendere verso l’Io. La necessaria compensazione questo

sbilanciamento avviene con la cessione del ruolo di identità-Noi agli

Stati, passando per “Lo Stato sono io” di Luigi XIV e la più matura

identità nazionale nata dalla rivoluzione francese. Oggi, osserva il

sociologo tedesco, nell’era della globalizzazione, questa identificazione

collettiva è venuta meno e ciò costituisce il principio della crisi attuale86

e la nascita, vale la pena di aggiungere, della società complessa,

numerosa nelle parti e nelle differenze interne al sistema sociale e ricca

nelle relazioni fra queste stesse parti che tuttavia appaiono disarticolate e

dissociate.

Una posizione abbastanza radicale, in merito ai rapporti a volte

contraddittori che contraddistinguono il rapporto dialettico fra le due

componenti del Sé, è quella di Garfinkel87 e della scuola

etnometodologica da lui fondata negli anni ’60, secondo cui

caratteristiche dell’azione sociale sono l’indicalità e la riflessività.

Con il termine indicalità gli etnometologi intendono significare che

ogni spiegazione indica molto di più di quanto essa esprime

letteralmente, la sua comprensione è problematica e il suo senso non può

85 “La Repubblica romana dell’antichità è un classico esempio di uno stadio di sviluppo in cui l’appartenenza alla famiglia, alla stirpe o allo Stato, ossia l’identità-Noi del singolo aveva un peso superiore a quello di oggi nell’equilibrio Io-Noi”. (Elias, La società degli individui, cit., p. 179)86 “Una delle tante singolarità della situazione attuale è il fatto che anche su questo piano l’immagine-Noi, l’identità-Noi della maggioranza degli uomini arranca faticosamente dietro la realtà del livello effettivo di integrazione; l’immagine-Noi resta assai lontana rispetto alla realtà delle interdipendenze globali e dunque anche della possibile distruzione dello spazio vitale comune ad opera di singoli gruppi umani”. (Elias, La società degli individui, cit., pp. 259-260)87 Harold Garfinkel, Che cos'è l'etnometodologia, in: Pier Paolo Giglioli, Alessandro Dal Lago, Etnometodologia, Bologna, Il Mulino, 1983

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Page 104: La Formazione imprigionata

Capitolo Terzo

essere definito pienamente avulso dai particolari contestuali della

situazione in cui esso viene dato. Il concetto di riflessività, invece

implica l’inesistenza di una realtà sociale oggettiva, reificata, separata

dal modo di osservarla. Secondo gli etnometodologi, le due cose, la

società e il modo di osservarla e descriverla, sono connesse. Esso si

riferisce all'idea che un'affermazione è riferibile solo a sé stessa e non fa

riferimento a nessuna realtà diversa da sé stessa. Non esistono, cioè, una

realtà oggettiva e modi di osservarla per descriverla, ma ogni

osservazione costituisce la realtà stessa.88 Secondo questo approccio, i

membri di un gruppo etnico, nell’agire conferiscono senso alla loro

azione, lo spiegano, ed il senso del loro agire è l’azione stessa. Inoltre,

indicalità e riflessività, essendo elementi costitutivi delle

rappresentazioni del mondo che ognuno determina e del linguaggio usato

per determinarlo, collaborano alla costruzione della situazione che si

descrive. In altre parole, ad una modifica del contesto segue una diversa

interpretazione della realtà e questo è reso possibile grazie a continue

negoziazioni di criteri e presupposti presenti nel contesto stesso.

La realtà che circonda un individuo viene, quindi, messa in luce

mediante costrutti schematici che si basano necessariamente

88 Quella proposta da Garfinkel è una particolare elaborazione del postulato dell’interpretazione soggettiva nelle scienze sociali la cui origine si può situare nell’affermazione di Alfred Schütz che asserisce: “io non posso comprendere un oggetto culturale senza riferirmi all'attività umana che lo ha prodotto”. (Alfred Schütz, Le chercheur et le quotidien, Paris, Méridiens Klincksieck, 1987, pag.15). Interessante è anche il concetto di «straniero» così come espresso dallo stesso autore in un saggio del 1944 dove egli afferma che straniero è colui al quale – nel momento in cui accede a una comunità che gli è estranea e decide di stabilirvisi per un certo tempo – non è più concesso di pensare come al solito, cioè di condividere istintivamente ciò che secondo i membri di quella comunità rappresenta l’ordine normale delle cose, ciò che in un certo contesto può esser dato per scontato: “ la scoperta che le cose nel suo nuovo ambiente appaiono molto diverse da come egli si aspettava che fossero quand’era in patria costituisce generalmente il primo trauma che subisce la fiducia dello straniero nella validità del suo pensare come al solito”. (Alfred Schütz, Lo straniero: saggio di psicologia sociale, in Simonetta Tabboni (a cura di), Vicinanza e lontananza. Modelli e figure dello straniero come categoria sociologica, Milano, Franco Angeli, 1990, p. 135)

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Page 105: La Formazione imprigionata

Capitolo Terzo

sull’esperienza vissuta del singolo soggetto. Sono tipizzazioni89, nel

linguaggio degli etnometodologi, che se da un lato rendono interpretabile

la realtà sociale, dall’altro rischiano di irrigidirla e di renderne illeggibile

lo stesso processo di costruzione. Questo approccio, di chiara

derivazione fenomenologica, porta a concludere che i rapporti

intersoggettivi che avvengono tra i singoli individui e gli altri agiscono

in funzione del bagaglio di esperienze — l’erlebnis di Husserl —

posseduto da ognuno che fa sì che si dia rilievo a particolari aspetti

dell'agire e se ne trascurino altri. Uno degli effetti di questo modo di

relazionarsi è che l’altro viene percepito semplificato, ricondotto cioè a

schemi tipici, nella misura in cui egli è più o meno anonimo90. Maggiore

è la distanza dal soggetto più le sue azioni vengono standardizzate, o,

come direbbe Schütz, tipizzate, con il rischio conseguente di percepire

89 Secondo Schütz i rapporti intersoggettivi che uniscono i singoli individui agli altri avvengono grazie ad un bagaglio di esperienze che ognuno possiede e che permette di dare rilevanza a certi aspetti dell'agire trascurandone altri. (Cfr. Alfred Schütz, Il problema della rilevanza, Torino, Rosenberg & Sellier, 1975. Orig.: Reflections on the Problem of Relevance, Yale University Press, 1970). 90 Uno degli esempi più densi dell’incontro tra noi e gli altri è rappresentato dalla colonizzazione e dalla conseguente scoperta di popolazioni fino allora sconosciute. Todorov affronta il problema partendo dalle spedizioni di Colombo: “Il paradosso della colonizzazione sta nel fatto che essa viene compiuta in nome di una presunta superiorità di valori. E' possibile, in compenso, stabilire un criterio etico in base al quale esprimere un giudizio sulla forma delle influenze: l'essenziale, direi, consiste nel sapere se esse sono imposte o proposte. La cristianizzazione, come l'esportazione di qualsiasi ideologia o tecnica, è condannabile non appena è imposta, con le armi o in altro modo. Esistono aspetti di una civiltà che si possono definire superiori o inferiori; ma ciò non significa che essi possano essere imposti agli altri. Più ancora: imporre agli altri la propria volontà sottintende che ad essi non viene riconosciuta la nostra stessa umanità (e proprio ciò rappresenta un indice di inferiorità culturale)” (Tzvetan Todorov, La conquista dell’America. Il problema dell’altro, Torino, Einaudi, 1992, p.217-218. Orig.: La conquête de l’Amérique. La question de l’autre, 1982). Più oltre, nell’analisi del pensiero di Las Casas, afferma che “La scoperta dell’«io» attraverso i «loro» che vi abitano è accompagnata dall’affermazione, ben più allarmante, della scomparsa dell’«io» nel «noi», tipica dei regimi totalitari. L’esilio è fecondo se si appartiene contemporaneamente a due culture, senza identificarsi con nessuna di esse; ma se l’intera società è una società di esiliati, il dialogo delle culture cessa. […] La storia esemplare della conquista dell’America ci insegna che la civiltà occidentale ha vinto, fra l’altro, grazie alla sua superiorità nella comunicazione umana; ma ci isegna anche che questa superiorità si è affermata a spese della comunicazione col mondo” . (Ibid. p.304-305)

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Page 106: La Formazione imprigionata

Capitolo Terzo

soltanto l’azione commessa dall’individuo e non l’individuo stesso,

soprattutto le sue motivazioni.91

Pregiudizio, etichettamento, stereotipizzazione dell’altro si

identificano, quindi, con i suoi comportamenti che, quando si scontrano

con gli schemi consolidati all’interno di un gruppo prendono la loro

forma a partire da qualcosa che somiglia molto ad un fenomeno

collettivo di dissonanza cognitiva.92 Interpretare e rappresentare la realtà

sociale è un processo che necessita di regole che ci permettono, se

seguite, di mantenere il controllo del nostro mondo. Esse appaiono, più

che norme imposte autoritariamente, regolarità di rappresentazione della

realtà, tipizzazioni, appunto, che vanno a costituire quei sistemi

simbolici, normativi e culturali che, presenti all’interno della società,

definiscono a loro volta i campi di significato all’interno dei quali gli

91 “La nostra relazione con il mondo sociale si basa sul presupposto che nonostante tutte le variazioni individuali gli stessi oggeetti siano esperiti dai nostri simili sostanzialmente nello stesso modo in cui li sperimentiamo noi, e viceversa, e anche sul presupposto ch i nostri e il loro schemi di interpretazione mostrino la stessa struttura tipica di rilevanze. Se questa fiducia nella sostanziale identità dell’esperienza intersoggettiva del mondo si infrange, è distutta la stessa possibilità di stabilire una comunicazione con i nostri simili” (Alfred Schütz, Don Chisciotte e il problema della realtà, Roma, Armando, 2002, p.36. Orig.: Don Quixote and the Problem of Reality, 1955).92 La teoria della “dissonanza cognitiva” sviluppata da Leon Festinger suggerisce che di fronte all’apprendimento di nuovi saperi, in contrasto con quelli già posseduti, gli esseri umani tendono ad opporre resistenza.. Tale teoria si basa sull’osservazione che gli esseri umani manifestano una “tensione verso la coerenza” che li porta a cercare di mantenere coerenza (o consonanza) tra i propri atteggiamenti, le proprie opinioni e il proprio comportamento. Quando un individuo si trova davanti ad una situazione o conoscenza in contrasto con i suoi comportamenti od opinioni, si crea “dissonanza”. I principi della teoria della “dissonanza cognitiva” sono così riassumibili:- L’esistenza della dissonanza, provocando un disagio psicologico spingerà l’individuo a tentare di ridurlo per ottenere la consonanza.- Quando la dissonanza è presente, l’individuo, oltre a cercare di ridurla, eviterà attivamente situazioni e conoscenze che aumenterebbe probabilmente la dissonanza.Imparare qualcosa di nuovo significa sempre confrontarsi con il dubbio, mettere in discussione le proprie certezze e rischiare l’insorgere di uno stato di “dissonanza”. Se questo provoca un’ansia eccessiva, può essere di ostacolo all’apprendimento e, in certi momenti, potrebbe generare addirittura fenomeni di rifiuto verso l’apprendimento, proprio come lo stress eccessivo negli incontri interculturali può portare a cercare di terminare l’interazione il più presto possibile. È anche a causa di queste dinamiche che parallelamente alla crescente esigenza di formazioni per adulti si è sviluppata la figura professionale del coacher con il compito di sostenere e aiutare l’adulto in formazione a passare da una credenza all’altra senza mettere in discussione se stessa e vivere momenti di crisi a livello affettivo- identitario. (Cfr. Leon Festinger, Teoria della dissonanza cognitiva, Milano, Franco Angeli, 1997. Orig.: A theory of cognitive dissonance, Stanford University Press, 1957)

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Page 107: La Formazione imprigionata

Capitolo Terzo

uomini si devono muovere per mantenere l’appartenenza alla stessa

società93. La struttura sociale sembra esercitare, quindi, una decisiva

influenza sul comportamento degli individui che ad essa appartengono.

Parrebbero di questo avviso alcuni autori che affrontano lo studio

della società raffigurandola come un insieme di strutture tra loro

interdipendenti. Ognuna di queste strutture svolgerebbe una funzione

determinata sia al mantenimento del sistema sociale, sia alla sua

riproduzione. Siamo nel pieno del paradigma funzionalista tra i cui

principali precursori troviamo Emile Durkheim che pone alla base della

sua metodologia la separazione tra la causa efficiente di un fenomeno

sociale e la funzione che esso assolve. Lo stesso crimine avrebbe dunque

una funzione sociale e non sarebbe soltanto una patologia della società

ma agirebbe in modo da cooperare nella conservazione dell’ordine

sociale94.

La vita collettiva priva di manifestazioni di uscita dai

comportamenti normali, cioè di comportamenti devianti, sarebbe quindi

inconcepibile. Anzi, la devianza svolgerebbe funzioni positive volte al

rafforzamento della struttura normativa nell'insieme delle credenze e dei

sentimenti comuni alla media dei membri di una società che lo stesso

sociologo francese definisce coscienza collettiva. È la teoria

dell’interazionismo simbolico, di cui abbiamo dato accenno qui sopra, a

fornire i riferimenti per la comprensione della devianza come

93 Semplificando possiamo dire che l’uomo è l’insieme dei significati attribuiti di volta in volta agli eventi relativi alla propria storia nella società in cui vive. Sull’argomento, molto interessante è il testo di Jerome Bruner, La ricerca del significato, Torino, Bollati Boringhieri, 199294 “Classificare il reato tra i fenomeni della sociologia normale non significa soltanto dire che esso è un fenomeno inevitabile benché increscioso, dovuto all’incorreggibile cattiveria degli uomini, ma significa anche affermare che esso è un fattore della salute pubblica, una parte integrante di ogni società sana”. (Émile Durkheim, Le regole del metodo sociologico. Sociologia e filosofia (1895), Milano, Edizioni di Comunità, 2001, p. 23)

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Page 108: La Formazione imprigionata

Capitolo Terzo

comportamento che nasce necessariamente dai processi di

comunicazione simbolica tra individui all’interno di una determinata

situazione o contesto nel quale essi si trovano. La devianza non è un

concetto assoluto, invariante, ma, al contrario, è fortemente radicato al

contesto sociale e storico all’interno del quale si situa. È una questione di

percezione reciproca del comportamento e delle norme all’interno delle

quali le azioni individuali o collettive si muovono.

La relatività dei confini della normalità può, tuttavia, dar luogo

anche a misinterpretazioni nel meccanismo di interazione reciproca e,

quindi, al pregiudizio e, come vedremo, ai processi di stigmatizzazione e

di etichettamento. La società tende necessariamente al mantenimento

dell’unione reciproca e quindi di se stessa, perseguendo la staticità

conformistica e osteggiando gli atteggiamenti e i comportamenti che da

essa fuoriescono. Per far ciò adotta le contromisure alla devianza sotto la

forma del controllo sociale. Quello dato dalla devianza e dal conseguente

controllo su di essa è un processo bipolare che è insito nella natura

sociale dell’essere umano ed è stato largamente studiato.

La devianza è un processo che contribuisce attivamente a

mantenere l’unione reciproca tra le persone normali, concordi nella

condanna dell’azione deviante o criminale e chi tale azione ha commesso

e ben contente di trovare conferma della propria realtà comunitaria come

giusta e dotata di senso. Questo parrebbe confermare uno degli assunti di

fondo di tutto questo lavoro per cui la pena sarebbe privata della sua

funzione riabilitatrice ed avrebbe come scopo primario quello di

riconfermare l’autorità morale della società.95

95 “Contrariamente alle idee correnti, il criminale non appare più come un essere radicalmente non-socievole, una specie di elemento parassita, di corpo estraneo e non assimilabile introdotto in seno alla società; egli è invece un agente regolare della vita sociale. Il reato, da parte sua, non deve più

108

Page 109: La Formazione imprigionata

Capitolo Terzo

La tipizzazione dei comportamenti degli individui all’interno della

società cui appartengono è funzione, quindi, delle norme e delle regole

come pure dei campi di significato, forniti dalla storia personale o

collettiva di un determinato gruppo, che ad esse vengono attribuiti in uno

specifico contesto o situazione. Quando, in una società, le regole ed i

sistemi di controllo votati alla loro applicazione e la realtà vissuta,

soprattutto all’interno alcuni gruppi o classi sociali, entrano in

dissonanza cognitiva si verifica quel fenomeno si rottura delle regole che

Durkheim definisce anomia.

Sul concetto di anomia si fonda uno dei più importanti quadri di

riferimento della teoria sociologica della devianza, quello costruito da

Robert K. Merton in un saggio del 193896 in cui attribuisce la maggior

frequenza nell’insorgenza di comportamenti devianti alla percezione

contraddittoria delle norme di una determinata struttura sociale. Sarebbe

la stessa struttura sociale, per il sociologo americano, a fornire la spinta

verso la devianza quando le mete culturalmente condivise — per

esempio la ricchezza e il successo ma anche una certa visione della

sicurezza sociale — ed i mezzi istituzionali socialmente accettati per la

loro conquista subiscono una dissociazione. Se rapportiamo la teoria di

Merton al nostro tempo possiamo osservare come alcuni obbiettivi che

vengono proposti alla società siano straordinariamente sovrastimati e

come, di converso, non siano forniti adeguati strumenti istituzionali utili

al perseguimento degli scopi condivisi. L’individuo, teso al

venir concepito come un male che è impossibile contenere in limiti troppo angusti; ma quando accade che esso scenda sensibilmente al di sotto del suo livello ordinario, questo fatto non deve essere per noi un motivo di soddisfazione, perché questo apparente progresso è certamente contemporaneo e solidale a qualche turbamento sociale”. (Durkheim, Le regole del metodo sociologico, cit., p. 77). 96 Robert King Merton, Teoria e struttura sociale, Bologna , Il Mulino, 2000. Orig.: “Social Structure and Anomia” in American Sociological Review, III, 5, 1938

109

Page 110: La Formazione imprigionata

Capitolo Terzo

raggiungimento della sua meta socialmente condivisa, risolverebbe,

quindi, questa distonia andando alla ricerca di procedure per lui più

efficaci tecnicamente indipendentemente dalla loro legittimità

culturale.97 La struttura sociale stessa, insistendo su particolari mete, non

ugualmente raggiungibili da tutti gli individui o strati sociali, secondo

Merton, contribuisce a produrre anomia e, quindi, devianza che, per

Merton è un fenomeno che si sviluppa nel rapporto fra struttura sociale e

struttura culturale.98

Il sociologo americano prende ad esempio il sistema socio-

economico del suo paese ed individua nella ricchezza uno degli

obbiettivi più largamente perseguiti dalla società americana. Tuttavia, il

sistema della stratificazione evidenzia che gli strati inferiori della

società, pur accettando anch’essi il mito della ricchezza si trovano nel

palese svantaggio, rispetto agli strati superiori, di essere privi, di fatto,

delle possibilità reali a loro disposizione per agire istituzionalmente sia

per arricchirsi che per criticare la struttura sociale e politica che li

colloca in tale posizione. L’incompatibilità reciproca di queste

condizioni, secondo il pensiero del sociologo americano, produrrebbe

devianza oppure, in alternativa, la rinuncia, l’abbandono del gioco

definito dalla struttura socio-culturale in termini di esasperata

competitività e, quindi, l’emarginazione e l’esclusione.99

97 “Via via che questo processo di attenuazione continua la società diventa instabile; e si sviluppa ciò che Durkheim ha chiamato «anomia» (o mancanza di norme)”. (Robert K. Merton, Teoria e struttura sociale, cit.)98 “La struttura sociale si comporta di volta in volta come una barriera o una porta aperta nei confronti della realizzazione dei mandati culturali: quando la struttura culturale e la struttura sociale non sono integrate e la prima richiede dei comportamenti che la seconda impedisce, ne consegue una tensione che porta alla violazione delle norme o all’assenza di norme” . (Robert K. Merton, Teoria e struttura sociale, cit.).99 I rinunciatari cui Merton si riferisce sono coloro che abbandonano gli obbiettivi e non accettano i mezzi istituzionali previsti per raggiungerli sono: “gli psicotici, i visionari, i paria, i reietti, i mendicanti, i vagabondi, i girovaghi, gli ubriaconi cronici e i drogati”. (Robert K. Merton, Teoria e

110

Page 111: La Formazione imprigionata

Capitolo Terzo

Una particolare applicazione della prospettiva di Merton è

rappresentata dalle osservazioni sulle subculture giovanili devianti

presentate da Albert Cohen100 e dalla sua ipotesi che la devianza e la

delinquenza giovanili siano comportamenti tipici degli strati sociali

inferiori e ciò sia conseguenza proprio della discrepanza tra valori e

norme che crea problemi di integrazione laddove, per esempio nella

scuola, bambini delle classi inferiori si trovino a confrontarsi con

bambini appartenenti alla classe media, di fatto estranei alla loro realtà

quotidiana ma verosimilmente più vicini alla realtà degli insegnanti.

Questi ultimi rappresentano il prolungamento delle norme nella vita

scolastica dei bambini ma portano con sé i propri valori culturali.101

La definizione di disadattato in riferimento ad un ragazzo che adotti

comportamenti devianti non nasce dal nulla. Il problema è stabilire quali

siano gli standard cui egli debba adattarsi e da chi essi debbano essere

forniti. Solitamente la produzione delle norme e dei valori standard

avviene ad opera delle classi sociali medio-alte, per cui l’unica risposta,

in senso mertoniano, possibile da parte di chi appartiene agli strati più

disagiati della società consiste nel comportamento deviante se non

delinquente.

struttura sociale, cit.). In questa analisi bisogna ovviamente tenere conto del contesto storico e socio-culturale in cui opera lo studioso americano ma, per osservare come sia strettamente attuale, è sufficiente operare alcune semplici sostituzioni terminologiche senza, per questo, modificarne i significati.100 Albert J. Cohen , Ragazzi delinquenti, Milano, Feltrinelli, 1974. Orig.: Delinquent Boys. The Culture of the Gang, New York, Free Press, 1955101 Siamo quindi in presenza di “un sistema di qualificazione sociale in cui i giovani di livelli sociali diversi possono essere e sono posti direttamente a confronto in base allo stesso complesso di criteri basati sull'acquisività. Differenze sistematiche in questa capacità generale di successo, connesse con la classe di appartenenza, relegheranno sul fondo della piramide sociale i giovani appartenenti alle classi sociali più svantaggiate, non direttamente a causa della loro posizione di classe in quanto tale, ma perché a causa degli handicap connessi con la classe che agiscono da remora per loro, essi mancano delle qualifiche personali richieste. In breve, dove le opportunità di successo sono connesse con la classe, si produrrà lo scontento sociale nella misura in cui il sistema di qualificazione è democratico”. (Cohen, Ragazzi delinquenti, cit., pp. 86-88)

111

Page 112: La Formazione imprigionata

Capitolo Terzo

Il rispetto della proprietà ed il senso del lavoro come mezzo di

convivenza sociale e di raggiungimento dei propri obbiettivi sono valori

che appartengono a chi possiede proprietà ed ha un lavoro ed a chi cresce

e vive in un ambiente sociale e familiare dove è normale pensare in

prospettiva. Chi non ha niente, od ha appena a sufficienza per

sopravvivere, chi è abituato a vivere in un mondo in cui il lavoro è

soltanto una parola sganciata dall’esperienza può non riuscire mai a

condividere obbiettivi a lungo termine con coloro che appartengono alla

classe dominante. Questo milieu, secondo Cohen può contribuire

largamente alla devianza ed alla delinquenza nelle subculture giovanili

ma non ne è condizione sufficiente.

I giovani appartenenti alle classi subalterne hanno possibilità di

scegliere tra più opportunità. Cohen individua tre principali opzioni

disponibili e, con un’operazione che richiama il lavoro di Merton,

sintetizza altrettante tipologie di soluzione adattiva.102

Prima risposta: i college boys, orientati verso lo schema tradizionale

usato dai coetanei della Middle Class, si conformano ai valori dominanti

e considerano la scuola ed il successo scolastico come strumento di

successo in generale. Sono i conformisti.

Seconda risposta: i corner boys sono coloro che sperimentano il

fallimento del proprio percorso scolastico e si adattano ad un lavoro con

scarsi stimoli in un atteggiamento che non è ancora conflitto ma,

piuttosto, rinuncia.

102 In realtà le definizioni che seguono sono state coniate nel 1943 da William Foote White e descritte nel resoconto della sua osservazione partecipante, durata diversi anni, in uno slum di immigrati italiani di Boston, anch’esso da lui stesso denominato Cornerville. (William Foote White, Little Italy. Uno slum italo-Americano, Bari, Laterza, 1968. Orig: Street Corner Society. The Social Structure of an Italian Slum, Chicago, The University of Chicago Press, 1943).

112

Page 113: La Formazione imprigionata

Capitolo Terzo

Terza risposta: i delinquent boys. Sono coloro che rifiutano gli

standard della classe media ma vanno in cerca, soprattutto mediante

l’unione reciproca in bande, di stimoli per il proprio processo di

autostima e di legittimazione sociale. Per la teoria della subcultura,

norme ed individuo che viola la legge sembrano essere corpi

reciprocamente autonomi ed indipendenti.

Un passo importante nell’approfondimento della questione

dell’interiorizzazione o meno delle norme legittimate socialmente da

parte degli individui è dato dal lavoro di David Matza103 e, come

vedremo in seguito, dalle teorie dell’etichettamento. La società, secondo

Matza, non recide il legame da chi adotta comportamenti devianti ma,

anzi, aumenta la sua pressione su di essi in un meccanismo di vero e

proprio controllo sociale. La devianza non è tanto una discrepanza tra

norme sociali e risorse individuali quanto, piuttosto, deriva dal conflitto

tra il significato attribuito alle azioni devianti da parte dei devianti e il

diverso significato dato agli stessi atti dagli altri membri della società cui

egli appartiene. In sostanza, il deviante è un individuo che vive

all’interno del sistema valoriale legittimato socialmente e ne è

consapevole ma si comporta in modo da violare le stesse norme per un

diverso significato che egli attribuisce ad esse.104 Il soggetto deviante

autolegittima le proprie azioni non mediante la sottoscrizione di un

nuovo ordine normativo dato da una ipotetica sottocultura quanto,

piuttosto, utilizzando strategie di neutralizzazione delle norme morali e

legali della società dominante che egli non smette comunque di

103 David Matza, Come si diventa devianti, Il Mulino, Bologna, 1976. Orig.: Becoming Deviant, Prentice Hall, Englewood Cliffs, New Jersey, 1969.104 “Il processo del divenire devianti ha poco senso, umanamente, se non si comprende l’attività filosofica interiore del soggetto man mano che questi attribuisce significato agli eventi e alle cose che lo circondano”(Matza, Come si diventa devianti, cit., p. 273)

113

Page 114: La Formazione imprigionata

Capitolo Terzo

considerare legittime. Le tecniche di neutralizzazione, che Matza

individua insieme a Gresham Sykes in un articolo del 1957105, sono

cinque: la negazione della responsabilità, la negazione del danno, la

negazione della vittima, la condanna del giudice e il richiamo a lealtà di

ordine superiore. Sono, queste, tecniche che chi ha modo di frequentare

il carcere vede di frequente utilizzate dai detenuti. Non bisogna

trascurare il fatto, tuttavia, che entro certi limiti, in un’accezione che

ricorda seppur vagamente i meccanismi di difesa di freudiana memoria,

queste dinamiche sono in qualche modo “naturali” nell’essere umano e,

qualora raggiungessero in intensità e volume quote socialmente rilevanti,

non possono essere attribuite deterministicamente a soggetti aventi a che

fare col sistema giudiziario.106 Non si tratterebbe, quindi, di un

misconoscimento dei valori sociali dominanti quanto, piuttosto, una

sospensione della fedeltà nei confronti delle stesse norme messa in opera

da individui anche soltanto temporaneamente. Matza lascia aperta la

porta ad un eventuale rientro nella conformità delle norme sociali da

parte di coloro che si pongono alla deriva. La strada della devianza, per

Sykes e Matza, è quindi una libera scelta che l’individuo persegue con il

ricorso alle tecniche di neutralizzazione.

La libera scelta presuppone, però, una forza morale che secondo un

altro autore, Travis Hirschi, gli individui non posseggono107. Secondo

Hirschi gli individui sono naturalmente portati a trasgredire le regole e

ciò che lo studioso della società deve approfondire non è tanto il perché

105 Gresham Sykes e David Matza, “Techniques of Neutralization: A Theory of Delinquency” in American Sociological Review, 22, 1957.106 Come non ricordare, sia detto per inciso, il famoso discorso parlamentare di Bettino Craxi che, il 3 luglio 1992, in pieno clima “Tangentopoli”, giustificò i sovvenzionamenti illeciti ai partiti con un pirandelliano “così fan tutti”107 Travis Hirschi, Causes of Delinquency in Berzano - Prina, Sociologia della devianza, cit., p. 24. Orig.: Causes of Delinquency, Berkeley (California), University of California Press, 1969

114

Page 115: La Formazione imprigionata

Capitolo Terzo

le persone divengano devianti quanto, piuttosto, i motivi che le spingono

a conformarsi alle norme. La chiave del problema è situata nella natura

dei legami sociali che, in caso di loro indebolimento o rottura, possono

aver luogo fenomeni di devianza e di delinquenza. Inoltre la cultura delle

classi inferiori sarebbe una cultura di deprivazioni, soprattutto

relazionali, non una cultura separata.

La teoria del controllo sociale che Hirschi propone si basa quindi

sulla coesistenza dinamica di alcuni elementi che costituirebbero il

legame di ciascun individuo con gli altri. Tali elementi sono:

- l’attaccamento dell’individuo agli altri, soprattutto soggetti

significativi come genitori o insegnanti (concetto che l’autore

preferisce all’idea dell’interiorizzazione delle norme sociali)

- l’impegno nel perseguire la conformità e le linee di azione

convenzionali come lo studio, il lavoro ecc.

- il coinvolgimento personale nelle attività convenzionali come

studio, lavoro e famiglia.

- il credere nelle norme sociali non soltanto prima della devianza

ma anche quando le regole siano violate.

In buona sostanza, un individuo viola una norma perché come

soggetto crede che quel tal comportamento non sia vietato poiché, a

causa dell’indebolimento dei legami sociali, egli perde di vista ciò in cui

la maggior parte delle persone crede.108 È una visione chiaramente

pessimistica della fragile natura dell’uomo che vede come costantemente

bisognoso di freni e controlli per limitarne la tendenza centrifuga.

108 Per Hirschi il delinquente è “una persona relativamente privata degli attaccamenti significativi, delle aspirazioni e delle credenze morali che legano la maggior parte delle persone ad una vita all’interno della legge” (Hirschi, Causes of Delinquency, cit, prefazione, trad. nostra)

115

Page 116: La Formazione imprigionata

Capitolo Terzo

Più recentemente, Hirschi, in un testo redatto assieme al collega

Gottfredson109, introduce l’autocontrollo come ulteriore variabile nella

traiettoria tra l’azione conformistica e quella deviante. L’autocontrollo

nascerebbe e si svilupperebbe durante i primi processi di socializzazione

di ogni individuo. Dal successo o dal fallimento di questi processi di

socializzazione deriverebbe una maggiore o minore capacità personale di

controllo sulle pulsioni egoistiche e, di conseguenza, una maggiore o

minore probabilità di sviluppare una carriera deviante.

Un punto di vista che si eleva sugli altri, anche perché comprende al

suo interno molti aspetti di essi, è quello che afferisce alla cosiddetta

teoria dell’etichettamento (o Labelling Theory). Secondo gli autori che

convergono su questo paradigma teorico la devianza non un’azione

definita come tale oggettivamente (la qualità dell’atto di cui vedremo

parlare Becker), ma è l’effetto che scaturisce dalla reciproca attribuzione

di specifiche qualifiche (etichette) da parte di alcuni che si pongono dal

lato di chi accudisce le norme sociali (gli etichettatori) rispetto ad altri

che, viceversa, tali norme trasgrediscono (gli outsiders). La devianza è,

anche per i Labelling Theorysts, un concetto dipendente dal contesto

sociale: sono i gruppi sociali a definire i termini di cosa sia e che cosa

non sia un azione deviante. L’interesse si sposta, quindi, dall’azione

deviante e da colui che la commette verso le reazioni della società

rispetto a tali azioni ed ai devianti che si concretizzano, in particolar

modo, nei processi di etichettamento.

In questa prospettiva il controllo sociale non è più conseguenza

della devianza ma, al contrario, ne è una delle origini.

109 Michael Gottfredson, Travis Hirschi, A General Theory of Cryme, Stanford University Press, 1990.

116

Page 117: La Formazione imprigionata

Capitolo Terzo

Questo concetto è ben espresso da uno dei fondatori della teoria

dell’etichettamento, Howard S. Becker, che scrive: “I gruppi sociali

creano la devianza istituendo norme la cui infrazione costituisce la

devianza stessa applicando quelle norme a determinate persone e

attribuendo loro l’etichetta di outsiders. Da questo punto di vista, la

devianza non è una qualità dell’atto commesso da una persona, ma

piuttosto una conseguenza dell’applicazione, da parte di altri, di norme

e di sanzioni nei confronti di un «colpevole». Il deviante è una persona

alla quale questa etichetta è stata applicata con successo; un

comportamento deviante è un comportamento che la gente etichetta

come tale”.110

In seguito Edwin M. Lemert111 approfondirà l’argomento

distinguendo tra devianza primaria e devianza secondaria. Per devianza

primaria si intende un comportamento che, seppur riconosciuto come

deviante, non dà adito ad operazioni di censura e, di conseguenza, non

viene intaccato né ridefinito lo status sociale del trasgressore. Tuttavia,

se il comportamento deviante acquisisce particolare evidenza e visibilità,

per la frequenza con cui viene ripetuto, e conseguentemente provoca la

reazione sociale, si trasforma in devianza secondaria.

Il passaggio da un tipo all’altro di devianza è frutto di un processo

graduale che coinvolge anche, e soprattutto, l’autovalutazione del

soggetto autore di tali comportamenti che può giungere ad identificarsi

con le sue stesse azioni e, cosa assai significativa, con le reazioni

110 Howard Samuel Becker, Outsiders. Saggi di sociologia della devianza, Torino, EGA Editore, 1987, p. 28. Orig.: Outsiders. Studies in the Sociology of Deviance, Glencoe, The Free Press, 1963111 Edwin M. Lemert, Devianza, problemi sociali e forme di controllo, Milano, Giuffrè, 1981. Orig.: Human Device, Social Problems and Social Control, Prentice Hall, Englewood Cliffs N.J., 1967

117

Page 118: La Formazione imprigionata

Capitolo Terzo

sanzionatorie e di stigmatizzazione112 da parte della società, adattando

l’insieme dei propri ruoli (il suo Me, come probabilmente direbbe Mead)

alla nuova condizione di soggetto deviante.

Una trasgressione alle norme socialmente condivise non significa,

perciò, necessariamente l’appartenenza alla categoria dei devianti. Ciò

che determina la carriera deviante è la presenza di una reazione della

società sotto forma di disapprovazione, degradazione o esclusione del

trasgressore. A seguito di tale reazione sociale, il trasgressore, non resta

totalmente passivo ma opera a sua volta una reazione mediante ulteriori

comportamenti devianti in una spirale sequenziale che, superati certi

limiti, rischia di divenire irreversibile. È interessante osservare,

comunque, come non vi sia sempre una correlazione diretta e biunivoca

tra comportamento e conseguente stigmatizzazione sociale113. In altre

parole, mentre Becker sostiene che la carriera deviante sia funzione

dell’apprendimento sociale di motivazioni e interessi devianti, Lemert fa

un passo avanti mettendo in luce come possa esistere sproporzione tra la

reazione sociale, e conseguente etichettamento del deviante, e il suo

comportamento effettivo. Una certa quota di devianza putativa o di falsa

imputazione possono dipendere, ai nostri giorni, come in altre parti di

questo lavoro abbiamo sottolineato, da un uso strumentale della devianza

per la conservazione del potere da parte dei gruppi dominanti, ma non

dobbiamo escludere variabili importanti come la carenza di meccanismi

realmente efficaci di verifica e controllo e l’allontanamento dalla reale

112 Lemert definisce la stigmatizzazione come “un processo che conduce a contrassegnare pubblicamente delle persone come moralmente inferiori, mediante etichette negative, marchi, bollature, o informazioni pubblicamente diffuse”. (Lemert,. Devianza, problemi sociali e forme di controllo, cit., p. 91)113 “Lo stesso comportamento può essere un'infrazione delle norme in un certo momento, e non in un altro; può essere un'infrazione se è commesso da una certa persona, ma non se commesso da un'altra; certe norme sono infrante con impunità, e altre no” (Becker, Outsiders, cit, p. 26).

118

Page 119: La Formazione imprigionata

Capitolo Terzo

consistenza dei problemi cui l’opinione pubblica viene sottoposta

soprattutto ad opera dei media114

Uno dei nodi su cui focalizzare l’attenzione nel tentativo di

comprendere i meccanismi della devianza e della delinquenza è, quindi,

l’identità sociale ed i processi con cui essa si costruisce.

Secondo Goffman115 identità sociale e ruolo sono strettamente

collegati. Il sociologo canadese affronta l’analisi mediante

un’interessantissima e molto proficua metafora drammaturgica. Nel

teatro, come nella vita, l’individuo assume contemporaneamente il ruolo

sia dell’attore che del personaggio ed è imprescindibile la presenza – e il

giudizio – del pubblico per attribuire significato sociale all’esistenza

dell’individuo e, quindi, fornire la spinta per la sua identificazione

sociale.116 In tal senso per Goffman, come per Mead, il sé è il frutto di

una costruzione sociale che si genera e si produce nei processi interattivi.

Il ruolo di un individuo, secondo Goffman, si gioca su di una

componente normativa, ciò che tipicamente viene attribuito al ruolo

giocato dalla persona ed infine l’interpretazione che gli altri forniscono

alla rappresentazione del ruolo dell’individuo. Il ruolo interpretato può

variare con la diversa situazione nella quale si trova l’individuo che, di

conseguenza, si può trovare ad interpretare più ruoli anche differenti tra

loro. L’identità sociale di un soggetto nasce da un processo interattivo in

cui le persone valutano gli estranei per approssimazioni successive,

114 Baudrillard, in una sua famosa frase, dice: “la televisione si mangia la realtà”. È sulla realtà proposta dalla televisione che si costruisce l’opinione della maggioranza ed è nella realtà virtuale della televisione accesa continuamente che si annienta il reale del detenuto e nella quale si costruisce la sua second life.115 Cfr. Erving Goffman, La vita quotidiana come rappresentazione, Bologna, Il Mulino, 1969. Orig.: The Presentation of Self in Everyday Life, Anchor Books, Doubleday, 1956.116 “Nella nostra società il personaggio che uno rappresenta e il proprio sé sono in un certo modo identificati e il sé, in quanto personaggio, è in genere visto come qualcosa che alberga nel corpo di colui che lo possiede”. (Goffman, La vita quotidiana come rappresentazione, cit., p. 288).

119

Page 120: La Formazione imprigionata

Capitolo Terzo

attraverso il confronto tra le caratteristiche esteriori dell’individuo e gli

attributi che si suppone debba possedere per appartenere ad un

determinato status, la categoria cui egli pare appartenere. Se i risultati di

questo processo si fermano alle semplici supposizioni il rischio è la

creazione di pregiudizi che nulla hanno a che fare con i fatti. È una sorta

di identità sociale virtuale che contiene stereotipi talvolta mediati da veri

e propri complessi di inferiorità, da sentimenti di paura e di rifiuto che,

possono dar luogo ad azioni di esclusione anche violente.

Un esempio, come vedremo in seguito analizzando il pensiero di

Dal Lago, ci viene fornito dall’immigrato visto come probabile

criminale, destabilizzatore dell’ordine costituito e fruitore in modo

indebito di attenzioni sociali sotto forma di abitazioni, assistenza

sanitaria, servizi socio-educativi. Goffman definisce come stigma

quell’attributo personale, come il colore della pelle, l’omosessualità,

l’appartenenza religiosa, che mette in dubbio, agli occhi degli altri,

l’identità sociale dell’individuo fino a produrre un intenso discredito.117

Lo screditabile può, a questo punto, tentare di coprire la sua vera identità

e, quindi, lo stigma, mirando a controllare le informazioni che possano

far emergere gli elementi dello stigma. È un operazione assai faticosa ma

la prospettiva dello screditamento costituisce una valida ed efficace

motivazione a resistere. Nella malaugurata ipotesi che egli venga

117 “…uno stigma è in realtà un genere particolare di rapporto tra l’attributo e lo stereotipo, ma io non ritengo che si debba continuare a definirlo sempre così, in parte perché ci sono attributi importanti che, quasi a tutti i livelli della nostra società, sono fonte di discredito. Il termine stigma e i suoi sinonimi contengono in sé una doppia prospettiva: l’individuo stigmatizzato presuppone che la propria diversità sia già conosciuta, o a prima vista evidente, oppure presuppone che non sia conosciuta dai presenti né immediatamente percepibile? Nel primo caso si ha a che fare con la sorte dello screditato e nel secondo con quella dello screditabile. Questa è un’importante differenza anche se è probabile che l’individuo stigmatizzato debba subire ambedue le situazioni”. (Erving Goffman, Stigma. L’identità negata, Verona, Ombre Corte, 2003, p. 4. Orig.: Stigma. Notes on The Management of Spoiled Identity, Simon & Schuster, 1963).

120

Page 121: La Formazione imprigionata

Capitolo Terzo

scoperto e, conseguentemente, screditato prende corpo una vera e propria

carriera morale che, partendo dall’interiorizzazione della prospettiva dei

membri della società, porta alla modifica dell’identità personale

dell’individuo che impara a considerarsi come persona in possesso di

uno stigma, con tutto quel che comporta per la sua vita.

Per essere devianti, secondo Goffman, bisogna essere portatori di

uno stigma, avere scarse possibilità di controllo sull’informazione

screditante e vivere in contesti sfavorevoli per la gestione dell’identità

stigmatizzata.

Non esiste etichettato senza etichettatore, ma chi può etichettare se

non chi detiene il potere di controllo? Più avanti vedremo come il

controllo sociale di interi gruppi sia attuato tramite meccanismi di

etichettamento come devianti a partire non dalla condizione oggettiva di

devianza dei comportamenti da essi adottati quanto, piuttosto, dal mutare

delle norme in modo da trasformarli in comportamenti devianti. Il tutto

passando attraverso la manipolazione dell’opinione pubblica mediante

l’uso strumentale dei mezzi di comunicazione e dell’allarme sociale da

questi ultimi sovente propagato

3.1 L’altro sotto controllo

Abbiamo visto come sia possibile ipotizzare uno stretto legame tra

centri di potere e istituzioni punitive. Il fine è la conferma del potere ed i

mezzi per realizzarlo sono la disciplina e il controllo sociale.118

Nel succedersi delle varie epoche storiche si è osservato un

mutamento del bilancio che vede prevalere ora pratiche disciplinari ora il

118 Cfr. David Garland, La cultura del controllo. Crimine e ordine sociale nel mondo contemporaneo, Roma, Il Saggiatore, 2004

121

Page 122: La Formazione imprigionata

Capitolo Terzo

controllo sulla società. Fino alla metà degli anni Settanta il paradigma

sociologico prevalente era nella sostanza disciplinare: si pensava, cioè,

di poter intervenire sulle cause della devianza, convinti che, trattando

con opportune “terapie” i fenomeni ritenuti cause di devianza, si potesse

operarne una seria prevenzione e trasformazione positiva.

Successivamente, in particolare dopo la riforma dell’Ordinamento

Penitenziario del ’75, si osserva il fenomeno della socializzazione della

pena, si moltiplicano, cioè, i luoghi e le forme della pena. Il carcere non

è più centrale ma investe anche il territorio esterno con l’allargamento

alla società delle reti di controllo. Le funzioni del controllo escono

quindi dal carcere e si disperdono in molteplici diramazioni all’interno

della società, riguardando un numero sempre maggiore di persone che ne

sono investite più o meno direttamente.

In epoca postfordista non è più possibile esercitare un dominio

disciplinare sui singoli individui. La società capitalistica non può

autopunirsi con il reprimere la cooperazione sociale di cui ha bisogno per

produrre. Il suo dominio diviene così solo esterno e consiste nella

predisposizione di “apparati di cattura in grado di controllare i flussi di

produttività sociale che attraversano la moltitudine”119. Siamo di fronte

ad un regime dell’eccedenza, degli scarti della produzione, che si

esercita tramite la predisposizione di zone d’attesa, luoghi di

119 Alessandro De Giorgi, Il governo dell’eccedenza. Postfordismo e controllo della moltitudine, Ombre Corte, Verona, 2002, p.32. Secondo l’autore il controllo sociale assume un carattere “attuariale”: esso non è più finalizzato alla produzione di corpi docili e utili alla fabbrica, ma mira all’incapacitazione di intere classi di soggetti considerati in modo aprioristico portatori di rischio sociale. Dello stesso autore, ma più centrato sulla critica alle strategie della cosiddetta “tolleranza zero” messe in atto per primo dall’ex sindaco di New York, Rudolph Giuliani, e usate, come lo stesso testo di De Giorni non manca di sottolineare, in modo mistificatorio dei dati reali sulla diminuzione della criminalità messa in relazione con l’applicazione della rigidità nel controllo e nella repressione delle fasce più marginali, è il precedente saggio Zero tolleranza. Strategie e pratiche della società di controllo, Roma, Derive Approdi, 2000.

122

Page 123: La Formazione imprigionata

Capitolo Terzo

neutralizzazione, nei quali i soggetti non devono essere più “prodotti”

ma semplicemente distrutti.120

Il modello del libero mercato, predominante nella società

postmoderna, è luogo di produzione di rifiuti e di esseri umani di scarto.

I rifiuti della società dei consumi sono persone private dei loro modi e

mezzi di sopravvivenza, gli esuli, i richiedenti asilo, i migranti e rifugiati

contemporanei. La modernità, in quanto progettazione delle forme della

comunità umana, è luogo di scarti umani, quelli che mal si adattano al

modello progettato121.

Lo Stato nazionale è cresciuto sulle macerie degli scarti umani,

allorquando i popoli di uno Stato escludano popoli senza Stato122.

L’identità di uno Stato si costruisce proprio sulla doppia forza esercitata

da opposizione ed esclusione, secondo una coincidenza tra identità di un

popolo e i confini dello Stato nazione, entro cui questo popolo cresce e

sviluppa la propria coesione escludente.

Non può essere evitato il richiamo allo studio di Rusche e

Kirchheimer sulla relazione tra pena e struttura sociale, secondo cui ad

ogni tipo di società, o meglio, ad ogni modello di produzione tipico di

una certa società fa seguito un determinato modello punitivo in un

collegamento diretto con gli specifici modi di produzione.123 Al sistema 120 Il carcere, in primis, come pure i Centri di Permanenza Temporanea sembrano svolgere egregiamente questa funzione inceneritrice nella nostra epoca. Vedi sull’argomento l’interessante testo di F. Rahola, Zone definitivamente temporanee. I luoghi dell’umanità in eccesso, Verona, Ombre Corte, 2003. Sempre sui CPT degno di nota e ricco di testimonianze è il libro di Marco Rovelli, Lager italiani, Milano, RCS Libri, 2006121 “Nella società dei consumatori non c’è posto per consumatori difettosi, incompleti, insoddisfatti. […] I consumatori difettosi potrebbero essere dichiarati criminali in qualsiasi momento e a loro insaputa”. (Zigmunt Bauman, Vite di scarto. Roma-Bari, Laterza, 2005, p.19. Orig.: Wasted Lives. Modernity and its Outcasts. Polity Press, Cambridge, 2004).122 Cfr. Bauman, Vite di scarto, cit, pp. 42-43123 “La pena come tale non esiste; esistono solo concrete forme punitive e specifiche prassi penali. […] La trasformazione dei moduli punitivi non si può spiegare solo sulla base delle trasformazioni nei bisogni della lotta contro il delitto, sebbene questa lotta, certo, vi abbia giocato un suo ruolo. Ogni modo di produzione tende a scoprire delle forme punitive che corrispondono ai propri rapporti

123

Page 124: La Formazione imprigionata

Capitolo Terzo

di produzione e di riordino politico ed economico, che in modi sempre

diversi ha connotato i differenti passaggi della modernità, si è sempre

accompagnato un sistema altrettanto importante di smaltimento dei

rifiuti, materiali ed umani. Un’industria la cui crisi segnala, rende

visibile e definisce come problema da affrontare con qualunque mezzo,

la presenza di masse ingenti di rifiuti umani che, ribadiamo, non sono

rappresentati soltanto da esuli e rifugiati ma vedono al loro interno un

numero sempre maggiore di persone tradite dalla vulnerabilità cui il

sistema socio-economico attuale mette di fronte124. Questi cittadini di

seconda fascia, eccedenti ed inutili per il sistema produttivo che

caratterizza l’odierna società dei consumi, sono scarti superflui da

marginalizzare ed eventualmente da smaltire in via definitiva attraverso

le carceri, i centri di permanenza temporanea, i campi nomadi e i vari

ghetti urbani sempre più assomiglianti – compresa la costruzione di muri

di recinzione – a vere e proprie prigioni dove trovano posto i cittadini

eccedenti che sono già dentro cui si aggiunge la parte più visibile di tutto

il processo di esclusione, i rifiuti umani che vengono da fuori.

3.2 L’altro escluso

di produzione.” (Georg Rusche, Otto Kirchheimer, Pena e struttura sociale, Il Mulino, Bologna, 1978, Cap.1 - Introduzione).124 Un interessante ed approfondito studio sulla vulnerabilità sociale si può trovare in Costanzo Ranci, Le nuove disuguaglianze sociali in Italia, Bologna, Il Mulino, 2002. L’autore definisce, a pag. 13 del testo citato, la nuova vulnerabilità sociale come un “mix di instabilità lavorativa, fragilità familiare e territoriale, incertezza sulle garanzie sociali ed economiche acquisite, difficoltà crescente e fronteggiare le difficoltà derivanti da problemi di tipo abitativo, finanziario, sanitario e relazionale”. Inoltre: “Se la povertà riguarda una popolazione «sovrannumeraria», che non svolge più funzioni sociali ed economiche riconosciute nel nuovo ordine economico, la vulnerabilità riguarda una popolazione che, pur integrata nei principali sistemi di organizzazione della società, sperimenta direttamente su di sé, la propria organizzazione quotidiana e nei propri comportamenti, gli effetti più indesiderabili del nuovo ordine socioeconomico”.

124

Page 125: La Formazione imprigionata

Capitolo Terzo

Il potere politico cerca le conferme di cui ha bisogno anche

attraverso temi come la sicurezza e la paura tautologica degli scarti

umani.125 Uno dei risultati è il passaggio, più o meno silente, dai sistemi

di Welfare State, dismessi e smontati, ad un nuovo modello di Stato

penale che vede centrali le politiche repressive, la cosiddetta tolleranza

zero, soprattutto a carico delle fasce più deboli della popolazione. Si

tratta di una vera e propria operazione di criminalizzazione della miseria

e della marginalità che vede il carcere come il terminale cui destinare

coloro che non possono essere espulsi fisicamente dal territorio

nazionale ma che, di fatto, lo sono dallo spazio sociale senza possibilità

di reinserimento. L’esclusione dei marginali si perpetua, prima ancora

che nello spazio fisico, nello spazio impalpabile ma pervadente che è lo

spazio dei flussi126, o meglio si esclude dallo spazio dei flussi.

Vediamo più in dettaglio come nasce questa tautologia della paura

utilizzando uno dei maggiori teorici sull’argomento, Alessandro Dal

Lago, che, nel suo Non-persone127 traccia uno schema ideale sulla nascita

della strategia dell’allarme sociale. Egli lo fa parlando della

criminalizzazione dei migranti ma, per esteso, i risultati teorici ottenuti

possono essere tranquillamente adattati a chiunque appartenga alle fasce

sociali che hanno, nell’ottica della criminalizzazione della miseria, il

125 “I governi, spogliati di gran parte delle loro capacità e prerogative sovrane dalle forze della globalizzazione che non sono in grado di contrastare – e meno ancora di controllare – non possono far altro che «scegliere con cura» i bersagli che sono ( presumibilmente) in grado di contrastare e contro cui possono sparare le loro salve retoriche, e gonfiare i muscoli sotto gli occhi dei loro sudditi riconoscenti”. (Bauman, Vite di scarto, cit., p. 72)126 “Lo spazio dei flussi è l’organizzazione materiale delle pratiche sociali di condivisione del tempo che operano mediante flussi. Per flussi intendo sequenze di scambio e interazione finalizzate, ripetitive e programmabili tra posizioni fisicamente disgiunte occupate dagli attori sociali nelle strutture economiche, politiche e simboliche della società”. (Manuel Castells, La nascita della società in rete, Milano, Università Bocconi Editore, 2002, p. 408. Orig.: The Rise of the Network Society, Oxford, Blackwell Publishers Ltd, 1996)127 Alessandro Dal Lago, Non-persone, cit..

125

Page 126: La Formazione imprigionata

Capitolo Terzo

carcere come parte del percorso vitale. La cittadinanza stessa si

configura a questo proposito come fattore di esclusione valido per tutti i

marginali che per i migranti emerge maggiormente soprattutto per la

maggiore vulnerabilità e riconoscibilità di questi ultimi come altri. Dal

Lago analizza la condizione degli immigrati e dei meccanismi di

esclusione in Italia mediante le rappresentazioni del discorso politico,

pubblico e mediatico. La retorica dello straniero come nemico che

minaccia il territorio nazionale, dell’invasione criminale, della sub-

umanità degli immigrati si riproduce attraverso meccanismi che l’autore

definisce tautologici. Ciò significa che la semplice enunciazione

dell’allarme dimostra la realtà che esso stesso denuncia.

L’opinione pubblica concentra la propria attenzione sul fenomeno

immigrazione a partire dagli anni Novanta, quando ad una sostanziale

indifferenza subentra un’ostilità simbolica e materiale sempre più decisa,

con atteggiamenti diffusi di repulsione, se non di vera e propria

xenofobia, ai quali hanno contribuito in forma indiretta anche le forze

politiche di centro-sinistra.

Il decreto Dini del novembre 1995128 e la legge Turco-Napolitano

del marzo 1998129 hanno finito per stigmatizzare l’immigrazione come 128 D.L. n.489 del 19 novembre 1995. Conteneva una serie di norme relative alle politiche sociali per gli immigrati, un nuovo provvedimento di sanatoria maggiormente restrittivo rispetto ai precedenti e disciplinava alcuni casi particolari in materia di ingresso e di soggiorno. Esso ha introdotto, inoltre, i flussi d’ingresso per lavoratori stagionali e una nuova regolamentazione delle espulsioni, previste come misure di sicurezza, di prevenzione o a richiesta di parte e di competenza del giudice penale. Il decreto sarà più volte reiterato fino a decadere nell’estate del 1996.129 L. n.286 del 16 ottobre 1998. intesa a regolare la materia in modo unitario “al posto del ricorso a provvedimenti di emergenza o a ripetute sanatorie” (Vincenzo Cesareo, 2005, Dopo l’emergenza, verso l’integrazione, in Fondazione ISMU, 2005), la legge si occupava di numerose questioni escluso il diritto di asilo a cui doveva essere dedicato un apposito provvedimento di legge (mai realizzato, per cui la materia continuava ad essere regolata dalla legge 39/1990). La legge si basa su di una politica di ingressi programmati attraverso il sistema delle quote (che stabilisce un numero fissato di ingressi regolari), e sul ruolo centrale assegnato al contrasto dell’immigrazione clandestina (potenziato attraverso misure più incisive di controllo e coordinamento e attraverso norme sanzionatorie più severe). Per quanto riguarda le espulsioni, sono infatti ridotte le ipotesi di espulsione con intimazione a lasciare il territorio mentre si ha un aumento di quelle che prevedono l’accompagnamento

126

Page 127: La Formazione imprigionata

Capitolo Terzo

problema sociale. La legge del 1998, pur con misure innovative di

parificazione formale tra stranieri regolari e italiani, riconfermava nei

fatti la logica della chiusura con provvedimenti come l’espulsione dei

sospetti o dei soggetti socialmente pericolosi e con l’istituzione di campi

di detenzione per gli stranieri in attesa di espulsione. A fianco di misure

legislative fondamentalmente repressive si sono diffuse manifestazioni

capillari di razzismo: dall’analisi delle cronache emerge un gran numero

di aggressioni e omicidi di stranieri, spesso minimizzati o ignorati nella

loro accezione razzista da parte della stampa. A queste vittime vanno

aggiunti quegli stranieri oggetto di episodi di brutalità da parte delle

forze di pubblica sicurezza. Il carcere è diventato per molti migranti, in

quanto tali, la destinazione inevitabile del loro percorso migratorio,

indipendentemente dal fatto di aver commesso reati o di un’effettiva

pericolosità sociale.

Dal punto di vista legislativo colpisce la distinzione nella legge

Turco-Napolitano tra i diritti fondamentali della persona umana garantiti

a tutti gli stranieri e i diritti civili garantiti solamente agli stranieri

regolari. Espulsioni e campi di permanenza temporanea diventano ambiti

in cui gli stranieri sono sottratti alle garanzie giuridiche ordinarie e

affidati alla discrezione degli organi di polizia. Ma per la legge anche gli

stranieri regolari sono sottratti alle garanzie istituzionali in tema di

privacy, essendo sottoponibili a controlli arbitrari delle forze

dell’ordine130.

immediato alla frontiera. Qualora l’espulsione non sia immediatamente eseguibile viene previsto il trattenimento degli immigrati per un determinato periodo di tempo (massimo trenta giorni) nei centri di permanenza temporanea (CPT), per Dal Lago dei “veri e propri campi di detenzione”. Su questo decreto poggia poi, nel 2001, la cosiddetta “Bossi-Fini”, legge che porta in carcere coloro che sono privi di permesso di soggiorno.130 Vd. Art.6 L.286/98

127

Page 128: La Formazione imprigionata

Capitolo Terzo

Alle forme empiriche di violenza e discriminazione fin qui

esaminate va aggiunta tutta una serie di pratiche politiche e discorsive

che trasformano distinzioni relative in opposizioni ontologiche ed

esclusive. Queste pratiche sono espressione, seguendo Sayad131, del

pensiero di stato: il migrante è, nella sua essenza, un nemico perché

minaccia il fondamento stesso dell’ordine statale, la nazione. Lo stato ha

bisogno dei migranti per escluderli come nemici ed ai nemici sospesi (gli

immigrati regolari) affianca i nemici infiltrati (gli immigrati irregolari,

strategicamente definiti clandestini). La migrazione diventa, sotto tutti

questi aspetti, un formidabile catalizzatore di conflitti materiali e

simbolici, di retoriche nazionali e locali, di campagne comunicative.

Studiare i fenomeni migratori si trasforma nello studio del senso

comune, di ciò che tutti pensano, delle opinioni che, anziché descrivere il

mondo, lo costituiscono proprio per il loro valore performativo e

produttivo.

La discriminazione e la persecuzione degli altri che, nel testo di Dal

Lago sono rappresentati dagli stranieri ma potrebbero tranquillamente,

come abbiamo già sottolineato, essere metafora e campione del deviante

e dei marginali nostrani, viene tradizionalmente attivata mediante

meccanismi di vittimizzazione dell’aggressore e colpevolizzazione delle

vittime. La storia europea è interamente segnata da atteggiamenti di

131 L'emigrazione-immigrazione non può che essere pensata, a parere di Sayad, all'interno del quadro dello stato (nazione), non può essere pensata che come pensiero di stato. Nella autoriflessione dello stato nazionale sulle migrazioni dobbiamo dunque scorgere uno stato che pensa se stesso, i propri limiti e con ciò la propria verità. Questa autoriflessione attraversa tutti noi, “[…] figli di uno stato nazionale, e quindi figli delle categorie nazionali che portiamo in noi stessi e che lo stato ha messo in noi. Noi tutti pensiamo l'immigrazione (cioè gli «altri» da noi, ciò che sono, ma in questo modo, attraverso di loro, ciò che noi siamo quando li pensiamo) come lo stato ci chiede e ci addestra a pensarla, cioè in fin dei conti come la pensa lo stato stesso. Ecco, in sintesi, ciò che può essere il pensiero di stato” (Abdelmalek Sayad, La doppia pena del migrante. Riflessioni sul "pensiero di Stato”¸ in Aut Aut, n. 275, 1996, p. 12)

128

Page 129: La Formazione imprigionata

Capitolo Terzo

questo tipo verso minoranze interne – come non ricordarsi, per esempio,

delle persecuzioni a danno degli eretici, delle streghe ecc. – o esterne, i

cui epitomi sono gli ebrei, gli zingari e gli immigrati clandestini. Se in

passato la paura collettiva si traduceva in forme estreme di razzismo e

xenofobia, oggi rinasce come patologizzazione degli stranieri in quanto

tali132: stereotipi riposti da tempo nella memoria collettiva (lo straniero

come untore, vagabondo, orco, stupratore, ladro di bambini) tornano in

circolo grazie all’amplificazione dei media che, attraverso un’opera di

costruzione simbolica, riproducono gli stereotipi da loro stessi creati.

Osservando la struttura delle notizie si riscontra un canovaccio narrativo

ricorrente con un meccanismo stabile di produzione della paura, di tipo

tautologico.

3.3 L’allarme sociale

Nel processo di costruzione tautologica dell’allarme una posizione

strategica è assunta dal cittadino nella veste di imprenditore morale o

definitore soggettivo della situazione, un ruolo nuovo acquisito a partire

dai primi anni Novanta con gli eventi di “Tangentopoli” e poi

successivamente capitalizzato da movimenti popolari come la Lega

Nord. I comitati di quartiere sono l’espressione più evidente di questo

nuovo attivismo dei cittadini, caratterizzato dal prevalere della

territorialità e dall’abbandono delle tradizionali matrici politiche. La

retorica dell’immigrato come nemico e deviante utilizza due principali

operazioni di senso comune: l’estensione della categoria di criminalità a

comportamenti che criminali non sono – come, per esempio, la

prostituzione e l’assunzione di stupefacenti – e la selettività di tale

132 Dal Lago, Non persone, cit., p.42

129

Page 130: La Formazione imprigionata

Capitolo Terzo

estensione, applicata solo agli stranieri e non genericamente a tutti i

membri della società.

La principale conseguenza culturale di questa tautologia della

paura è la ridefinizione neorazzista degli immigrati: dall’analisi

dell’iconografia quotidiana operata da Dal Lago emerge una

straordinaria coincidenza tra delinquenza ed etnicità, tra la straniera

donna come corpo da offendere e l’uomo straniero come corpo

offensivo, tra gli stranieri e i loro corpi omicidi, ipersessuati, bestiali,

alieni e informi che vanno, a seconda delle metafore, recisi, evacuati,

eliminati. Mentre il razzismo del passato proponeva una divisione

iperbolica tra il bianco e le razze inferiori, quello di oggi assume forme

plurali e non necessariamente vincolate alla mitologia razziale, godendo

per questo di straordinaria libertà di parola e d’immagine.

Nel modello della tautologia della paura, all’uscita di scena dei

cittadini in carne e ossa corrisponde l’acquisizione dell’emergenza

immigrazione all’interno dell’agenda politica. Sicurezza e immigrazione,

una volta diventate preoccupazioni dominanti fra i cittadini, sono ideali

per il mercato politico date le loro caratteristiche. Sono cicliche e

possono essere affrontate con una certa pianificazione, sono

essenzialmente simboliche e possono essere soddisfatte a buon mercato

con risposte simboliche e infine sono ingombranti, poiché occupano la

scena politico-mediale, emarginando altre questioni spinose e

controverse.

Questa retorica della legalità riguarda soprattutto la

microcriminalità poiché i suoi effetti sono i primi a coinvolgere i

cittadini. La presenza di microcriminalità è trasformata in allarme

130

Page 131: La Formazione imprigionata

Capitolo Terzo

permanente e dunque in risorsa politica attraverso tre operazioni: si

rendono retoricamente omogenee criminalità organizzata e piccola

criminalità, si equiparano le devianze al crimine, si trova nello straniero

il personaggio rappresentativo della crescente illegalità. La mobilitazione

contro gli stranieri ha avuto in Italia un carattere consensuale,

unanimistico e “democratico”, accomunando i partiti di destra a quelli di

sinistra.

Il migrante, come secessionista nel mercato ufficiale a causa del suo

lavoro nero, è rappresentato come una minaccia anche da quei partiti che

tradizionalmente si sono schierati in difesa delle classi subalterne. Allo

stesso modo stupiscono la posizioni di molti intellettuali di sinistra che,

attraverso articoli e interventi pubblici, hanno riflettuto sulla devianza

esclusivamente come fenomeno criminale e non come fenomeno sociale.

Nella percezione pubblica degli immigrati un ruolo fondamentale è

rivestito dalle posizioni e dalle teorie diffuse da scienziati e studiosi.

Poco si è riflettuto sul ruolo che il discorso scientifico ha nel formare

l’opinione dei cittadini e politici. La voce degli esperti è amplificata

negli ampi spazi riservati loro da carta stampata e televisione e la

legittimazione del dibattito pubblico dipende in primo luogo dalla

posizione professionale, indipendentemente dall’attendibilità degli

interventi. Tra le retoriche scientifiche più interessanti da decostruire vi

sono quelle morali, in cui si discutono diritti e doveri degli immigrati,

quelle demografiche, in cui si dà conto dell’evoluzione quantitativa dei

fenomeni migratori, e quelle culturali, in cui si discute l’impatto degli

immigrati nella nostra cultura. Nelle retoriche morali all’immigrato va

chiesto di rispettare diritti e doveri del nuovo paese, contrapponendo una

131

Page 132: La Formazione imprigionata

Capitolo Terzo

progressiva tolleranza della nostra cultura in materia morale alla rigidità

etica quando si parla di loro. Agnes Heller133, ad esempio, rappresenta

l’immigrato come ospite (poiché la sfera pubblica viene assimilata a una

casa) e come infante perché non conosce la lingua ed è bisognoso di

educazione. Per evitare conflitti razzisti, attitudine intrinseca alla

condizione umana, è opportuno soppesare attentamente diritti e doveri di

stranieri e nativi. Altri studiosi, come Cavalli Sforza134, pur

abbandonando l’ideologia razziale di matrice biologica, continuano a

parlare di inferiorità culturale.

La retorica demografica vede rappresentare l’immigrazione come

un’ondata inarrestabile che ci sommergerà, poiché un crescente

squilibrio demografico tra Nord e Sud si tradurrà nel conseguente

travaso di popolazione secondo un modello idraulico. Le retoriche

culturali mostrano l’immigrazione come un problema etnico, che

riguarda collettività uniformi, senza considerare che esistono tante

identità plurali quante sono le appartenenze dei soggetti che si

trasformano nel corso della loro esperienza. Queste retoriche presentano

un’irriducibile asimmetria tra noi e loro, noi con diritti naturali, loro con

diritti particolari, noi adulti, loro bambini, noi flessibili e ragionevoli,

loro meccanici e impreparati. Il differenzialismo culturale, nelle diverse

forme dello “scontro fra culture”, del “multiculturalismo ragionevole” e

del “multiculturalismo felice”, è del tutto speculare alle procedure

politico-statali di interiorizzazione e controllo dei migranti. La

trasformazione di un passaporto in marker etnico-culturale è il riflesso di

133 Agnes Heller, Zehn Thesen zum Asylrecht, “Die Zeit”, n.46, 1992, cit. in Dal Lago, Non-persone, cit..134 L. e F. Cavalli Sforza, Chi siamo. La storia della diversità umana, Milano, Mondadori, 1995, cit. in Dal Lago, Non persone, cit..

132

Page 133: La Formazione imprigionata

Capitolo Terzo

un particolarismo culturale incompatibile con i principi

dell’universalismo giuridico-politico.

Per approfondire ulteriormente l’analisi di questo sistema di

interiorizzazione dello straniero, l’autore di Non-persone, prende ad

esempio il caso dell’immigrazione albanese. L’Italia è legata all’Albania

fin dal 1939, quando, sotto il regime fascista, quel paese rappresentava

un’estensione del Regno; poi, dopo il crollo del Muro di Berlino e

l’impegno italiano in prima linea per aiutare i rifugiati politici del

regime, l’intensificarsi degli arrivi di profughi comincia a preoccupare

l’opinione pubblica nostrana e modifica le retoriche solidaristiche in

retoriche dell’invasione. Nell’agosto del 1991 si ha l’episodio dello

stadio di Bari, dove migliaia di profughi vengono concentrati in attesa di

rimpatrio, in una condizione di extraterritorialità giuridica nella quale si

assiste a una forma inedita di spersonalizzazione. Un’incredibile

campagna mediatica sul pericolo albanese porta alla totale indifferenza

nella quale è vissuto il tragico affondamento di una barca e la morte di

novanta passeggeri al largo delle coste italiane nel marzo del 1997.

Questa campagna mediatica ha operato secondo una precisa logica:

costruzione consensuale degli albanesi come minaccia, recita

consensuale di un copione concluso con il culmine dell’affondamento,

deviazione del significato dell’evento. Un aspetto importante della

vicenda, taciuto dalle retoriche ufficiali, sono i grossi interessi coltivati

dagli imprenditori italiani in terra albanese. La minaccia di questi

interessi, in seguito ai disordini politici, ha legittimato interventi più o

meno scoperti di autodifesa armata: ciò ha rivelato ancora una volta la

totale interiorizzazione dell’altro fatta propria consolo dalle politiche

133

Page 134: La Formazione imprigionata

Capitolo Terzo

sull’immigrazione ma anche dal sistema delle relazioni internazionali e

degli interventi all’estero.

È così che gli immigrati irregolari, o clandestini, possono essere

anche definiti come non-persone135, poiché, pur essendo vivi e

conducendo un’esistenza più o meno analoga a quella dei nazionali, sono

passibili di uscire, contro la loro volontà, dalla condizione di persone.

Con il termine persona si intende il singolo in un senso che eccede la sua

natura biologica, come essere sociale. Corpo e persona sono i due aspetti

che le istituzioni totali tendono a controllare136: da una parte si colpisce

l’uomo attraverso la persona – mediante la carcerazione – dall’altra si

colpisce la persona attraverso l’uomo – guerra totale, campi di

concentramento, sterminio organizzato. Nella retorica morale prevalente

nella società occidentale la prima strategia di controllo è legalmente

ammessa mentre la seconda è considerata illegittima, anche se di fatto

queste due modalità si sovrappongono in uno spazio controverso. I

dilemmi morali e politici riguardo a quest’area di sovrapposizione

vengono risolti attraverso uno spostamento implicito di significati che

consentono di parlare dei processi di distruzione delle persone in termini

letteralmente spersonalizzati. La censura linguistica è una delle forme

più comuni di annullamento delle persone: lo straniero è definito di volta

in volta extracomunitario, clandestino, irregolare, secondo ciò che egli

non è rispetto alle nostre categorie. A questa opacità linguistica

corrisponde tutta una serie di pratiche sociali riservate alle non-persone

tra cui l’infantilizzazione e la privazione di diritti.

135 Se riprendiamo il pensiero di Goffman possiamo osservare come questa sia soltanto la punta estrema del processo di costruzione dello stigma. Scrive il sociologo: “Nella nostra mente, viene così declassato da persona completa e a cui siamo comunemente abituati, a persona segnata, screditata” . (Goffman, Stigma, cit, p. 3)136 Cfr. anche Giorgio Agamben, Homo Sacer. Il potere sovrano e la nuda vita, Torino, Einaudi, 1995.

134

Page 135: La Formazione imprigionata

Capitolo Terzo

Il concetto di persona è strettamente legato al diritto nello stato

moderno poiché la persona può esistere socialmente solo in quanto

persona giuridico-politica – nell’accezione di “sistema di diritti e

doveri”, come sostiene Kelsen137, o in quella di “soggetto di un

ordinamento politico”, tesi sostenuta da Schmitt138. Chi è escluso dagli

ordinamenti giuridico-politici nazionali è quindi uomo solo in senso

naturale, non sociale, e non può godere dei diritti della persona. Siamo di

fronte alla costituzione di un doppio regime giuridico per chi incluso e

per chi è escluso, come le norme sull’espulsione e i centri di permanenza

temporanea dimostrano.

A differenza di altri soggetti che pure loro subiscono forme di

esclusione sociale radicale – pensiamo agli homeless ma anche ai

tossicodipendenti – ma restano dotati di diritti civili, gli immigrati

vivono, secondo Dal Lago, nel limbo, ai margini del diritto. Si può

parlare a questo proposito di a-legalismo poiché il diritto si arresta di

fronte agli stranieri, nel senso che li esclude dal proprio ambito. La

necessità sociale della sparizione degli immigrati è superiore quella del

diritto formale, come dimostrano le espulsioni praticate prima

dell’espiazione della pena. Esempio limite di sparizioni socialmente

tollerate è l’affondamento di navi-carretta in acque internazionali,

giuridicamente neutre e per questo non riconosciute.

Siamo di fronte, in maniera del tutto evidente, all’esplosione di

infiniti paradossi globali.

La globalizzazione economica costituisce l’orizzonte delle

trasformazioni sociali e politiche attuali, un orizzonte mobile e incerto.

137 H. Kelsen, La dottrina pura del diritto, Torino, Einaudi, 1975, cit. in Dal Lago, Non persone, cit.138 C. Schmitt, Dottrina della costituzione, Milano, Giuffré, 1984, cit in Dal Lago, Non persone, cit.

135

Page 136: La Formazione imprigionata

Capitolo Terzo

La perdita di sovranità in materia di economia e di politica sociale è un

fenomeno che riguarda non solo i paesi poveri ma anche quelli più

ricchi: gli stati nazionali controllano in misura sempre minore i grandi

apparati di trasmissione e riproduzione della cultura, i sistemi educativi e

le comunicazioni di massa, allo stesso modo in cu hanno dovuto

rinunciare alla sovranità in politica economica e internazionale. Ma se gli

stati nazionali perdono influenza in molti settori, in altri mantengono

forti le loro prerogative: gli apparati di controllo sociale rimangono il

campo di investimento maggiore.

Ad un’apparente unificazione del pianeta corrisponde una ferrea

gerarchizzazione dei mercati, delle economie e delle società periferiche:

così i migranti rappresentano uno dei paradossi più vistosi della

globalizzazione. La circolazione di beni, di merci e di persone che

definisce l’attuale mercato mondializzato è possibile esclusivamente a

senso unico; quando i migranti riescono a filtrare tra le maglie dei paesi

più ricchi, lo fanno solo come forza lavoro priva di diritti sostanziali.

L’unico modo per superare questo paradosso è che i diritti umani non

vengano considerati condizione della cittadinanza o dell’inclusione, ma

diventino l’unica strada per il riconoscimento dei diritti della persona.

136

Page 137: La Formazione imprigionata

Capitolo Quarto

Carcere e contesto quotidiano.

Tensione e incontro.

Nei capitoli precedenti abbiamo discusso del e sul carcere partendo

da punti di vista, in definitiva i più usuali, di volta in volta legali,

giuridici, sociologici, storici ecc.

Tuttavia, come in più punti abbiamo tentato di far emergere, il

carcere è un sistema che esiste soltanto se al suo interno vi sono persone

ciascuna con la sua storia, le sue relazioni, le sue prospettive, emozioni e

sentimenti. È un sistema fluido, che si inserisce in più punti e momenti

nella vita sociale quotidiana, ma è anche una struttura rigida, quasi del

tutto indifferente persino alle variazioni congiunturali politiche.

Esso è, di per sé, socialmente costruito come socialmente costruita è

la privazione del bene vitale della libertà. È al contempo conseguenza

della spesso affermata, storica – sia ben chiaro, almeno per la nostra

cultura - propensione alla vendetta ed al gusto di veder puniti coloro che

trasgrediscono regole comuni o, meglio ancora, appartengono a strati

sociali ostili.

Abbiamo voluto intenzionalmente usare un termine come vendetta

che può apparire senz’altro forte ma è utile per chiarire alcuni aspetti

della reattività immediata della società di fronte a fatti che essa considera

devianti dalle proprie norme. Tuttavia questo termine non può varcare i

limiti della metafora. Non possiamo considerare un fatto naturale né il

sistema sociale né le sue reazioni, come, appunto il senso di vendetta ed

137

Page 138: La Formazione imprigionata

Capitolo Quarto

il gusto della punizione del trasgressore, ammesso che con il termine

naturale si intenda significare insito nella natura umana. Le reazioni

istintive sono collegate a settori ben definiti che possono riguardare la

propria sicurezza personale, la propria difesa, la propria sopravvivenza, e

ciò perché le reazioni difensive appartengono alle caratteristiche dei

sistemi viventi. Potremmo sostenere l’idea che questo particolare sistema

sociale, in quanto sistema naturale, si comporta secondo le modalità di

un sistema naturale e, quindi, ha insite in sé le reazioni di difesa

conseguenti a ciò che è diverso e ostile. Quali siano queste reazioni,

però, non è possibile stabilire con certezza assoluta. Potremmo avere

reazioni di sorpresa, di disapprovazione, di approvazione, di solidarietà e

così via. L’importante è che il sistema reagisce ad una sollecitazione che,

nel nostro specifico caso, assumiamo sia una reazione vendicativa.

Potremmo tentare di annoverare tra le reazioni possibili anche

l’indifferenza ma ciò si renderebbe possibile soltanto a fronte di una

scelta, una reazione voluta, consapevole, altrimenti l’indifferenza

avrebbe come unico significato possibile l’assenza di reazione. Per

esemplificare, oggi non osserviamo più – o quasi – una reazione sociale

provocata dal fatto che due persone vivano insieme senza essere sposati.

La reazione della società, rispetto a certi comportamenti, già negli anni

’50 non era più quella di un secolo fa e oggi il sistema sociale mantiene

tranquillamente il suo equilibrio a fronte di comportamenti molto

differenziati.

Parlare di vendetta, quindi, come unica reazione sociale al mancato

rispetto di regole sociali andrebbe bene se avessimo di fronte un sistema

molto rigido, prevedibile. Quando ci troviamo al cospetto di un sistema

138

Page 139: La Formazione imprigionata

Capitolo Quarto

molto differenziato, con infiniti meccanismi di trattamento delle

diversità, le reazioni passano attraverso vari livelli di mediazione

culturale. Un esempio di cosa significhi mediazione culturale delle

pulsioni è dato dallo storico bisogno di controllare la vendetta così come

Beccaria illustra in tutto il suo famoso “Dei delitti e delle pene” (cit.). La

sua proposta consiste, sostanzialmente, nella razionalizzazione dell’uso

degli strumenti penali che fino ad allora era arbitrario: per uno stesso

reato molteplici e varie erano le pene – più che altro torture e supplizi –

cui si poteva andare incontro. La giustizia ha una sua razionalità, solo

così possiamo controllare la parte belluina di noi stessi. Quindi, la

reazione che abbiamo chiamato vendetta, esiste ma viene ricondotta

entro canali controllabili e più facilmente finalizzabili ad un più esteso

controllo sociale. Potrebbero, comunque, restare aperte questioni spinose

come il dubbio che essa non possa soltanto aver cambiato nome ed

essere ricondotta ad un più istituzionale ed apparentemente meno feroce

dimensione retributiva della pena fermo restando che la forzatura che

abbiamo utilizzato nell’uso del termine vendetta, è dovuta

principalmente all’intenzione di uscire per un attimo dal gergo giuridico

teorico per scendere al livello del vivere quotidiano: ciò che per il

giudice è retributività, per il cittadino è vendetta.

La vendetta è una reazione tra le tante possibili, non certo l’unica. E

neppure la più frequente. Una delle reazioni sociali possibili è, tra l’altro,

l’opposto della vendetta: il perdono.

Su questo tema è recentemente intervenuto il Dalai Lama in un

articolo in cui egli argomenta che il bisogno psicologico delle vittime di

ottenere giustizia non porta necessariamente ad una certa pratica della

139

Page 140: La Formazione imprigionata

Capitolo Quarto

giustizia, ma può portare anche al perdono. Scrive, infatti: “[…] il

perdono ci dà la libertà: perdonare non significa farla passare liscia ai

colpevoli, a coloro che si sono macchiati di qualcosa. Perdonare

significa liberare la vittima. Se si riesce a perdonare, non ci si deve più

preoccupare di chi ha commesso qualcosa di male nei nostri confronti,

di come gliela faremo pagare. Si sarà liberi, liberi da questo pesante

fardello”.139

Un perdono, quindi, visto come liberazione della vittima e

liberazione anche del colpevole. Quest’ultimo liberato dal peso di aver

commesso un’azione dannosa e la vittima affrancata dal peso di dover

cercare la vendetta. È, evidentemente, un approccio buddista, che

appartiene quindi ad un tipo particolare di cultura e di fatto le reazioni

sociali effettive sono strettamente dipendenti dall’impianto culturale

all’interno del quale il fatto avviene. L’omicidio di un cristiano da parte

di un musulmano, come dicono molti, è un atto che fa meritare il

paradiso. In un certo periodo storico-culturale, i cristiani facevano

meritare il paradiso a coloro che bruciavano gli eretici.

Il sistema penale, come tutti i sistemi sociali – scuola, sanità ecc. –

è un sistema artificiale per cui l’uso dell’analogia del sistema sociale

come organismo naturale sembrerebbe fuorviante. Per questa ragione è

da ritenersi preferibile la visione di un sistema sociale come sistema

artificiale, nel senso più proprio di sistema socialmente costruito

nell’ambito spazio-temporale di un ben determinato impianto culturale.

Il particolare sistema sociale, il penale, è un sistema che si dichiara

antidoto alla criminalità ma che in assenza di criminali non avrebbe

ragione di esistere – salvo inventarne di nuovi -; fa di tutto per proporsi

139 “La Repubblica”, mercoledì 26 settembre 2007

140

Page 141: La Formazione imprigionata

Capitolo Quarto

come metodo rieducativo, ma, al contempo, osteggia pressoché

sistematicamente le proposte concrete di attività volte alla riabilitazione

dei detenuti. Quando i nemici non ci sono, il sistema li crea perché di

essi ha bisogno per sopravvivere. È un processo per certi versi

autopoietico140 ma che, al contempo, possiede strette analogie con il

processo identitario che agisce in presenza di una negazione di se stesso.

È la diversità dagli altri con cui ci si confronta che rafforza l’identità. Se

non si ha un diverso su cui costruire la propria identità bisogna

inventarselo.

Queste sono soltanto alcune delle tensioni che prendono vita nel

mondo dell’esecuzione penale.

Alcune tensioni nascono e vivono principalmente all’interno del

carcere, per esempio la sicurezza come opposto della rieducazione

quando queste si riferiscono al trattamento penitenziario nelle

realizzazioni pratiche. Altre si ritrovano nel mondo esterno, nel contesto

quotidiano, e sono più legate a sistemi di credenze ma pur sempre ricche

e complesse: fanno parte di queste, a nostro giudizio, tutte le politiche

che, più o meno esplicitamente, tendono a segregare le fasce più deboli

della popolazione – delle popolazioni, potremmo dire, visti i flussi

migratori degli ultimi anni – ai margini della società “civile” e ordinata,

140 “La caratteristica più peculiare di un sistema autopoietico è che si mantiene con i suoi stessi mezzi e si costituisce come distinto dall’ambiente circostante mediante la sua stessa dinamica, in modo tale che le due cose sono inscindibili”. (Humberto Maturana, Francisco Varela, Autopoiesi e cognizione, Marsilio, Venezia, 1985, p.62.) I due biologi cileni elaborano la teoria dell’autopoiesi in una ricerca dal forte sapore filosofico. Maturana e Varela, osservano che i sistemi viventi sono caratterizzati da relazioni organizzative di tipo autoreferenziale. Caratteristica tipica dei sistemi autopoietici è la loro chiusura organizzativa – la rete delle relazioni interne all’organismo si riferisce solo a se stessa, non all’ambiente – che, tuttavia, non contraddice il concetto di sistema vivente come sistema aperto già elaborata dalla teoria generale dei sistemi di Bertalanffy. La non contraddizione risiederebbe nel fatto che tale apertura riguarderebbe soltanto la parte strutturale dei sistemi e non la loro organizzazione che rimane, invece, autonoma, o meglio, autoreferenziale. Con l’esterno, i sistemi, come gli organismi viventi, scambiano materia, energia, idee, espressioni ecc.. Mentre la loro organizzazione interna rimane circolare dunque chiusa.

141

Page 142: La Formazione imprigionata

Capitolo Quarto

con l’esito di spingere molti di costoro a compiere azioni fuori dai limiti

della legalità salvo, poi, attivare nei loro confronti una solidarietà per lo

più riparatoria o meramente riduttoria del danno.

La maggior probabilità di incontrare contraddizioni, antitesi e,

appunto, tensioni bipolari si trova secondo la nostra esperienza nella

fascia sociale che tocca sia il fuori, la società “per bene”, che il “dentro”,

il carcere. Questo si può osservare da vari punti di vista: sociologico,

andando a pescare nei flussi in entrata ed in uscita dal sistema penale e

nelle fasce che maggiormente rientrano nel rischio carcerario;

pedagogico-formativo, studiando le ragioni per cui uno finisce in carcere

e, soprattutto i sistemi per evitare che ciò avvenga e, qualora sia già

avvenuto, una volta uscito non vi rientri più; giuridico-legale,

osservando gli impianti giuridici che hanno a che fare con le pene e la

loro esecuzione ecc.

Ognuno di questi punti di osservazione copre soltanto parzialmente

ciò che realmente avviene – o non avviene – nella dimensione punitiva

del vivere comunitario.

Ciò che cercheremo di fare in questo capitolo sarà portare il più in

alto possibile il punto di osservazione in modo da coprire quanto più

potrò il raggio di interesse. Questo punto di vista “alto” coincide, per uno

strano paradosso, con quello che intuitivamente parrebbe invece essere il

più basso: il contesto di vita quotidiano.

Come vedremo, ognuno, nel suo contesto quotidiano, ha contatti

più o meno diretti e prolungati col mondo carcere. Giornali e telegiornali

hanno rubriche fisse dedicate alla cronaca giudiziaria, anche se, come

negli ultimi tempi si è potuto verificare sempre maggiormente, spesso

142

Page 143: La Formazione imprigionata

Capitolo Quarto

essa deborda dai propri confini per invadere le pagine politiche, sportive

e di costume. Tuttavia il punto di vista comunemente prevalente, pur

essendo permeato dell’idea di carcere, pare esserlo in maniera

sostanzialmente passiva e superficiale. Il consumatore di notizie subisce

letteralmente ciò che media e politica, per loro tramite, intendono

comunicare nell’ottica di quella strategia della conservazione del potere

di cui abbiamo parlato nei capitoli precedenti.

È l’opinione dell’uomo qualunque, spesso utilizzata per fini

utilitaristici. È bene puntualizzare, per inciso, l’inesistenza di fatto di

questa entità talvolta definita anche col termine di uomo medio ma

indefinibile, puramente astratta, qualora si esca dalla metafora per usarla

come sostanza. In termini statistici più precisi il concetto che

maggiormente si avvicina all’uomo medio è il valore modale, il valore

prevalente in una distribuzione di frequenze. Mentre l’uomo medio

abbiamo detto che è una costruzione astratta, il valore modale esiste

sicuramente nella realtà, nel senso che noi possiamo compiere delle

osservazioni sulla vita sociale che ci permettano di individuare una

variabile prevalente e, quindi, un valore prevalente. Possiamo

successivamente e per convenzione attribuire a questa variabile il nome

di uomo medio. Siamo in presenza di un procedimento logico che

presenta, però, i suoi rischi perché un valore modale che compaia in un

campione non dice di per sé niente di certo sulla rappresentatività reale

del mondo che ci interessa. In una rappresentazione grafica della

distribuzione media all’interno di un campione, la ben nota curva a

campana, possono essere molto più rilevanti dal punto di vista scientifico

143

Page 144: La Formazione imprigionata

Capitolo Quarto

le code, i valori meno frequenti, piuttosto che il suo massimo, la

media141. Questa potrebbe confermare elementi già conosciuti; ma capire

in profondità i fenomeni sociali significa andare a frugare negli elementi

fuori media, in qualche modo anomali ma che talvolta posseggono al

proprio interno forze tali da portare in un certo periodo di tempo a

modifiche dell’intero sistema. Allora, per usare ancora termini statistici,

più che la media, ecco che assume importanza fondamentale, nello

studio dei fenomeni sociali, la deviazione standard.

È la ricerca di ciò che avviene al di là delle statistiche e dei grafici,

sul terreno calpestato dalle persone che vivono il carcere che volgeremo

l’attenzione durante questo capitolo.

Per capire meglio cosa accade in una realtà sociale – come il

carcere, ma non solo - occorre abbassare ulteriormente il livello fino a

giungere al punto di toccare con mano, di condividere la propria vita,

con coloro che di fatto sono all’interno delle correnti cicliche che fanno

aprire e chiudere le porte delle carceri. Intendo precisare che non parlo

soltanto di persone che commettono reati per cui subiscono la

carcerazione ma di tutti coloro che vivono parte della propria esistenza

nel carcere e per il carcere, compresi, quindi, coloro che nel carcere

lavorano e operano a vario titolo.

141 La scientificità degli studi statistici basati sulla distribuzione a campana quando i dati in essa introdotti riguardino aspetti umani, sia psicologici che antropologici o sociologici, sono stati sovente confutati proprio per la difficoltà di attribuire agli stessi dati quella certezza che si trova in altre scienze meno complesse dal punto di vista delle dimensioni e nel numero delle variabili in atto. Per fornire un piccolo ma a nostro giudizio significativo esempio, si ricorda un libro del 1994, dal titolo proprio “The Bell Curve”, La Curva a Campana, in cui un sociologo, Charles Murray, ed uno psicologo, Richard Herrnstein, affermano che la curva di distribuzione del QI dei Neri è spostata nettamente più a sinistra di quella dei Bianchi: i Neri sono meno intelligenti dei Bianchi per quindici punti. Le conclusioni dei due autori sono che tale differenza sarebbe fissata addirittura per eredità. (Richard J. Murray - Charles Herrnstein, The Bell Curve: Intelligence and Class Structure in American Life, Free Press , 1994)

144

Page 145: La Formazione imprigionata

Capitolo Quarto

Scopo preminente di questo capitolo sarà, quindi, riprendere i temi

trattati nelle pagine precedenti ed analizzarne contraddizioni, tensioni e

dicotomie tramite il filtro della nostra osservazione, in gran parte

partecipante, maturata in più di dieci anni di condivisione diretta con

persone a vario titolo appartenenti alla categoria degli esclusi, dei

marginali e degli “ultimi”.

4.1 Il contesto dell’osservazione

Ritengo necessario, prima di approfondire nella sostanza le varie

questioni di nostro interesse, spendere due parole sul tipo di

osservazione da me condotto e sul contesto nella quale essa è avvenuta

nel corso di questi anni.

Prima di tutto il contesto – o, per meglio dire, i contesti.

Da circa dieci anni vivo l’esperienza della Associazione Comunità

Papa Giovanni XXIII di Don Oreste Benzi: nello specifico sono

responsabile di una Casa Famiglia a Livorno. La struttura, come è nello

stile della Comunità, è volta all’accoglienza di persone con una

vastissima tipologia di disagio. Si va dal minore allontanato a vario titolo

dalla famiglia d’origine, alla persona proveniente da situazioni di

schiavitù e prostituzione; dalla donna maltrattata dall’uomo che vive con

lei alle persone – soprattutto bambini – che, in condizioni di grave

disabilità, rischiano di avere come unica possibilità quella di una

collocazione in un istituto. Un’importante specifica di questa mia

esperienza è la condivisione diretta con persone provenienti dal circuito

penale, siano esse in misura alternativa alla detenzione e, quindi, in

qualche modo ancora legate al “mondo carcere”, o siano persone che

145

Page 146: La Formazione imprigionata

Capitolo Quarto

abbiano già scontato il loro debito con la giustizia ma non siano ancora

in grado di inserirsi in modo sufficientemente autonomo nella società.

Le diverse situazioni che abbiamo incontrato ci hanno consentito, di

volta in volta, di variare il punto di vista dal quale osservare i vari

fenomeni, molti dei quali nascosti alla vista esterna.

Ancora, avendo svolto, nell’arco di tre anni, la funzione di

responsabile del servizio minori e affidamento all’interno di una

Comunità, il focus principale dell’osservazione era logicamente quello

dell’interesse del minore allontanato, o a rischio di allontanamento, dalla

famiglia di origine e la ricerca della famiglia affidataria che lo

accogliesse. Dal punto di vista più formale gli attori concorrenti erano i

tribunali per i minorenni, le famiglie d’origine, quelle affidatarie, i

servizi sociali ecc. Quasi mai, tranne in un caso, questo ruolo per così

dire “tecnico”, mi ha portato direttamente a contatto con il circuito

dell’esecuzione penale. Tuttavia, spesso i fenomeni coi quali avevo a che

fare sembravano far parte di una catena, una sorta di ciclo produttivo

che, partendo dal disagio sociale passa per l’abbandono e il disinteresse

istituzionale prima, per il carcere dopo e successivamente di nuovo nel

disagio sociale, reso a questo punto ancor più pesante e coriaceo di

prima, con la differenza che ciò che si sarebbe potuto fare in giovane età

per evitare il disagio, difficilmente appariva attuabile in età più adulta e,

soprattutto, dopo l’intervento pesante del carcere. Una centrifuga messa

in moto dalla marginalità delle persone ma conservata in tale moto dalle

istituzioni, o meglio dall’interazione delle persone con le istituzioni. Uso

l’immagine della centrifuga soltanto come metafora rafforzativa di tutto

il discorso. Infatti, se volessimo utilizzare questo modello in modo più

146

Page 147: La Formazione imprigionata

Capitolo Quarto

scientifico andremmo incontro ad almeno due classi di problemi. La

prima rimanda alla questione centro-periferia: il sistema sociale

ruoterebbe intorno ad un centro. Dal punto di vista dell’analisi, la

contestabilità del modello deriverebbe dal fatto che il sistema sociale non

è rigido e non ha un centro ma, bensì, è un complesso di sistemi ognuno

dei quali ruota intorno al suo centro definito dalla sua funzione nel

rapporto con altri sistemi: l’immagine più appropriata parrebbe piuttosto

quella di una galassia di centrifughe. L’immagine della centrifuga

rimanda ai processi di marginalizzazione di diversi sistemi che tendono

ad escludere, cosicché alla fine, un insieme di marginalità tende ad

essere ricondotto ad un sistema di controllo-neutralizzazione-

incapacitazione.

Quindi è assodato che si tratti di una realtà molto complessa per cui

l’immagine di un sistema sociale come unico corpo è evidentemente un

po’ stretta e confinabile nell’ambito dell’uso convenzionale del termine e

della metafora. Il sistema penale, che è quello che maggiormente

interessa il nostro lavoro, raccoglie ciò che gli altri sistemi, la scuola, il

lavoro, la vita sociale, respingono in un processo che alimenta la

marginalità e, come estrema ratio, il carcere stesso. La metafora della

centrifuga è in risonanza con quella, spesso evocata, del carcere come

discarica sociale.

Il secondo problema riguarda l’energia che muove il sistema. Il

sistema penale appare spinto dall’energia che proviene dalla risposta

della società rispetto ai comportamenti devianti allo stesso modo in cui,

per esempio, il sistema economico è mosso dalla ricerca del guadagno e

del successo. Più precisamente l’energia sembra derivare dalle risorse

147

Page 148: La Formazione imprigionata

Capitolo Quarto

che i diversi poteri mettono in movimento per mantenersi, aumentare il

loro controllo, rispondere ai condizionamenti dell’ambiente. Per esempio

la reazione di paura che sembrerebbe pervadere in maniera perniciosa

tutta la nostra società attuale, almeno secondo gli organi di informazione,

perde assolutamente di consistenza alla luce delle verifiche statistiche

che pongono in confronto l’andamento della sensazione di insicurezza e

paura nella popolazione con quello dei reati che tale paura dovrebbero

cagionare. A fronte di una sostanziale diminuzione della consistenza dei

reati dovremmo aspettarci un corrispondente calo della sensazione di

paura, invece accade qualcosa di diverso142. Una delle ragioni di questo

fenomeno sembrerebbe nuovamente confermare l’esistenza di poteri che

mettono in moto le proprie risorse per aumentare il controllo sulla

società.

Appare così un complesso sistema a sua volta composto da un

insieme di sottosistemi, ciascuno dotato di proprie caratteristiche, simili

a scatole nere143 dotate di un proprio senso, ed in questo ambiente

complesso, da questo caos, può emergere un ordine “determinato dalla

complessità dei sistemi che lo rendono possibile, ma indipendente dal

142 “Chi legga i giornali, guardi la televisione o comunque sia esposto al discorso pubblico relativamente al senso di insicurezza, potrebbe ricavare l’impressione che la paura personale della criminalità sia fortemente cresciuta negli ultimi anni nel nostro Paese. È assai probabile, in effetti, che la quota di cittadini che teme di subire un reato sia cresciuta nel corso degli anni settanta, contemporaneamente alla crescita dei reati. Ma senz’altro in Italia da almeno quattordici anni, tale paura appare stabile, se non addirittura in lieve declino. Dal 1993 l’Istat ha infatti chiesto a un campione rappresentativo di famiglie italiane se considerasse a rischio di criminalità la zona in cui vivevano. Nel 2005 meno del 30% dichiara di considerarla molto o abbastanza a rischio, e la quota corrispondente nel 1993 era di poco superiore al 30%” (Ministero dell’Interno, Rapporto sulla criminalità in Italia – anno 2006, p. 39)143 Secondo Luhmann ciascun sottosistema è una scatola nera nei confronti dell’altro, sistema chiuso e aperto contemporaneamente: chiuso in quanto autoreferenziale, aperto tramite la necessaria osservazione dell’ambiente esterno ad esso da cui assimilare informazioni. (N.Luhmann, Sistemi Sociali, Bologna, Il Mulino, 1984, pag. 212 e sgg.). Sull’autopoiesi cfr. anche Maturana e Varela, Autopoiesi e cognizione, cit.

148

Page 149: La Formazione imprigionata

Capitolo Quarto

fatto che questa complessità possa o meno venire calcolata e

controllata. Questo ordine emergente sarà chiamato sistema sociale”.144

La circolarità delle informazioni tra i vari sistemi è evidente: ciò

che è output per un sistema è input per un altro. Per esempio, i

comportamenti che violano la norme sono output per i sistemi

economico, politico e relazionale ma sono input per il sistema penale. Il

sistema politico è, da questo punto di vista, particolarmente privilegiato

poiché fa dello strumento legislativo la base della comunicazione

intersistemica, cioè con l’ambiente ad esso circostante. Del resto è

intuitivo come ciascun sistema – o sottosistema – persegua il proprio

orientamento di senso mediante l’uso di logiche e linguaggi precisi ad

esso propri. Più degli altri, il sistema penale comunica attraverso il

diritto e il denaro. L’importanza della sua funzione giustifica

l’emanazione continua di leggi e la crescente destinazione di risorse 145

Scegliamo, nonostante i distinguo appena formulati, di mantenere

comunque l’idea di istituzione penale come centrifuga soprattutto per il

forte richiamo che essa comporta sulla realtà di carcere inteso come vera

e propria discarica sociale.

Il carcere, alla luce sia di quanto detto nei capitoli precedenti, sia da

quanto osservato direttamente sul campo, parrebbe consistere più che

nello spauracchio deterrente, come vorrebbero le teorie general-

preventive, in un bacino di neutralizzazione ed incapacitazione nel quale

far confluire chi non è riuscito ad innalzare il proprio livello sociale

almeno di quel tanto che basta per condurre una vita dignitosa e

normale.

144 Luhmann, Sistemi sociali, cit., p.213145 Nelle opere di Luhmann traspare chiaramente, per esempio, che il linguaggio specifico usato dal sistema politico per comunicare con gli altri sistemi è quello del diritto e del denaro.

149

Page 150: La Formazione imprigionata

Capitolo Quarto

Molti dei giovani coi quali ho avuto a che fare svolgendo la mia

attività di responsabile minori per la Comunità appartengono a strati

sociali dove la marginalità è talmente radicata da essere integrata

nell’identità individuale. L’appartenenza ad un gruppo di marginali può

frequentemente portare il singolo soggetto ad individuarsi come tale tout

court.

Alcuni esempi chiarificatori.

Nella città di Livorno, nella fattispecie la zona nord, quella

industriale, esistono alcuni quartieri, Corea, Shangay146, Garibaldi, Le

Sorgenti, ad alta densità di situazioni di disagio, talvolta molto profondo,

economico-sociale-culturale. Come è normale che accada, in vari punti

dei quartieri si riuniscono gruppetti di giovani, perlopiù adolescenti. Alla

nostra domanda sul perché passassero il loro tempo pressoché

esclusivamente in una zona depressa e deprimente come quella, piuttosto

che raggiungere il centro cittadino, distante non più di un chilometro, più

stimolante e colorito, oppure il mare, anch’esso molto vicino, la risposta

unanime è stata molto significativa: “preferiamo stare qui, appartati,

perché ci vergogniamo, non ci sentiamo adeguati ai ragazzi del centro

che ci prenderebbero in giro”. La risposta vera, intrinseca, era quindi:

“noi siamo diversi, inferiori, quindi stiamo qui, ai margini, dove almeno

ci sentiamo all’altezza l’uno dell’altro”.

Si costruisce, così, il senso di appartenenza ad un gruppo sociale, ad

uno strato della società, che possiede già una moltitudine di spigoli

stigmatizzanti ma, cosa su cui credo si debba porre particolare

146 Nella lingua originale, il nome della città cinese si scrive in modo più articolato. Abbiamo riportato la scrittura esattamente come nella toponomastica livornese.

150

Page 151: La Formazione imprigionata

Capitolo Quarto

attenzione, questo è un processo prettamente autopoietico147. È

l’emarginato che costruisce la figura di altro-da-sé socialmente superiore

a partire dalla propria autostigmatizzazione di marginale. Crediamo che

questo processo debba essere tenuto ben in vista quando si parla di

esclusione ed inclusione sociale. Così come è vero che il gruppo in

possesso di un plus sociale tenderà ad escludere l’altro meno dotato di

risorse, sembrerebbe essere altrettanto vero che il gruppo minus, compia

la stessa operazione nei confronti dell’altro. Non sarà una reciprocità

speculare, soprattutto a causa dello sbilancio di potere e risorse a favore

dello strato sociale superiore, ma sempre di reciproca esclusione

crediamo si possa parlare.

Non è un caso che spesso i quartieri cui abbiamo appena accennato

siano definiti ghetti. Non saranno ghetti dove le persone sono murate

all’interno, come una certa filmografia degli orrori della shoah ci ricorda

con una certa – seppur necessaria per la memoria – pedissequità, ma

sovente l’unica differenza è soltanto l’assenza del muro. Quel muro,

però, esiste e si chiama carcere.

Quei ragazzi che adesso si sentono esclusi da quelli del centro

cittadino è probabile che si sentano di appartenere al gruppo degli sfigati,

e tendano a riprodurne i comportamenti: elevato tasso di drop-out

147 Secondo Orefice una peculiare caratteristica di un essere vivente è l’essere una unità autopoietica: “Il vivente, ogni vivente, presenta un’organizzazione autopoietica: è esso stesso che definisce e governa l’insieme dei rapporti tra le sue parti costitutive. Presenta inoltre una struttura autopoietica: esso stesso mantiene le sue parti e i rapporti tra esse in un sistema autoregolamentato. Pertanto, quando s’imbatte nei condizionamenti ambientali, è difendendo il suo processo endogeno di distinzione che trova le risposte adattive di riorganizzazione e ristrutturazione. Nel farlo si comporta come una unità autonoma: è cioè in grado di trovare le soluzioni adeguate ai problemi della sua conservazione, relativamente al suo ciclo di vita e alla sua riproduzione. Il suo farsi ci dice nello stesso tempo chi è e cosa fa, chi sta producendo quella vita e quale vita viene prodotta. Il vivente è dunque tale in quanto produce e riproduce se stesso, modificandosi: questo vuol dire autopoiesi.” Paolo Orefice, I domini conoscitivi. Origine, natura e sviluppo dei saperi nell’Homo sapiens sapiens, Roma, Carocci, 2001, p.23.

151

Page 152: La Formazione imprigionata

Capitolo Quarto

scolastico, relazioni verbali caratterizzate da povertà sia lessicale che di

contenuti, scarsità di risorse sociali utili a migliorare la propria

condizione economico-sociale, scarsità di ottimizzazione nell’utilizzo

delle pur presenti risorse tecnologiche difficilmente, comunque usate,

come accesso ad una quantità virtualmente infinita di informazione:

quasi tutti hanno internet ma essa viene relegata a strumento di

conversazione elettronica o di download più o meno pirata di musica e

film preferendole piuttosto PSP, Game Boy, X-Box, la stessa televisione

– seppur limitatamente a fiction e cartoni animati –, tecnologie, cioè, a

basso tenore informativo ma ad alto contenuto anestetico. Alcune di

queste caratteristiche, si può obbiettare, accomunano entrambi i fronti

della discussione anche se è scarsamente dubitabile che, in presenza di

risorse economiche maggiori, di un substrato culturale virtualmente più

ricco, modelli di riferimento più frequentemente positivi, coloro che

fanno parte della città abbiano qualche possibilità in più.

Vorremmo sottolineare che abbiamo usato, per delineare la

contrapposizione tra i vari strati sociali, i termini di gruppo plus e gruppo

minus, evitandone, almeno per ora, altri maggiormente usati, e forse

scientificamente corretti, per porre maggiore risalto alla caratteristica di

relatività e, come vedremo in seguito, di elasticità e modularità di

entrambe le connotazioni. 148

148 Identità sociale positiva ed identità sociale negativa sono comunque due aspetti del bisogno di differenziazione della specificità psicologica tra gruppi espressa in modo approfondito da Tajfel con la sequenza: categorizzazione sociale – identità sociale – confronto sociale. Scrive l’autore: “Le caratteristiche di un gruppo inteso nel suo complesso (come il suo status, la sua ricchezza o povertà, il colore della pelle o la capacità di raggiungere i propri scopi) acquistano gran parte del loro significato in rapporto alla percezione di differenze rispetto ad altri gruppi e alla connotazione di valore ad essa assegnata. […]Di conseguenza, l’identità sociale di un individuo, concepita come la sua consapevolezza di appartenere a certi gruppi sociali, oltre al rilievo emozionale e di valore collegato alla sua condizione di membro, può essere definita solo attraverso gli effetti della categorizzazione sociale che divide l’ambiente sociale di un individuo nel gruppo cui egli appartiene e in altri gruppi”. (Henri Tajfel, Gruppi umani e categorie sociali, Bologna, Il Mulino, 1995, p.319.

152

Page 153: La Formazione imprigionata

Capitolo Quarto

In sostanza, un gruppo minus ha sempre un gruppo che è a sua volta

minus nei suoi confronti e di cui, per converso, è gruppo plus. E così

pure nel senso inverso.

Nel caso dei ragazzi che si attribuiscono lo status di gruppo minus

rispetto ai plus del centro cittadino essi hanno comportamenti e

caratteristiche da gruppo plus verso coloro che, almeno nella loro

percezione, appartengono ai minus.149

Anche se a prima vista potrebbe apparire un approccio

eccessivamente deterministico crediamo sarebbe possibile stilare una

classificazione di gruppi sociali ordinata secondo il criterio di

riferimento reciproco.

Nel corso di questi anni di attività come responsabile di Casa

Famiglia ho potuto verificare personalmente una sequenzialità

nell’autocollocarsi di ciascun individuo a seconda del gruppo cui egli

ritiene di appartenere. Questo si è reso possibile partendo dalle persone

accolte fisicamente in casa e, quindi, se vogliamo più direttamente

osservabili ma anche maggiormente influenzate dalla presenza

dell’osservatore e, cosa non da poco, dallo squilibrio di potere generato

dai diversi ruoli che, seppur con i dovuti sforzi volti a mitigarne gli

effetti, tendono a porre l’accolto in posizione gerarchicamente inferiore.

Orig.: Human Groups and Social Categories. Studies in Social Psychology, Cambridge, Cambridge University Press, 1981)149 Per un’accurata esposizione della teoria del gruppo di riferimento, per cui ogni gruppo sociale si orienta nel proprio contesto basandosi su gruppi diversi dal proprio, non può mancare la citazione del testo di Merton in cui egli scrive: “[…] Gli uomini si orientano di frequente su gruppi diversi dal loro per decidere come agire e valutare, e sono i problemi che ruotano intorno all’orientamento basato su gruppi di cui non si è membri che costituiscono la preoccupazione distintiva della teoria del gruppo di riferimento”. Robert K.Merton, Teoria e struttura sociale, cit, p.234.

153

Page 154: La Formazione imprigionata

Capitolo Quarto

Tuttavia, lo stile familiare e spontaneo che queste persone trovano,

dà loro la possibilità di far emergere aspetti che altrimenti rischierebbero

di restare chiusi dietro maschere protettive.

La posizione privilegiata dalla quale ho potuto osservare le varie

situazioni che si sono presentate durante quest’esperienza mi ha

consentito di comunicare con mondi e culture di volta in volta differenti

e, soprattutto, incomunicanti tra loro.

Ho fatto poco fa l’esempio del gruppo di adolescenti che si

percepisce e si autodetermina ghettizzato, in opposizione al gruppo di

riferimento dei ragazzi della città, con i quali assume un reciproco

atteggiamento di impermeabilità, ma la stessa impermeabilità reciproca

la possiamo ritrovare tra differenti gruppi etnici – gli albanesi non

possono soffrire i nordafricani; i nordafricani non sopportano i rumeni; i

cinesi non sopportano nessuno; gli zingari sono universalmente sgraditi

– oppure tra gruppi le cui differenze si basano su altri criteri.

Un piccolo ma, a mio giudizio, significativo esempio che

confermerebbe l’esistenza di una certa classificabilità – fittizia, si

intende, in quanto facilmente smontabile mediante argomentazioni

semplici e lineari – degli esseri umani in base al gruppo loro attribuito, è

dato da un’esperienza personale vissuta.

Fin dai primi momenti della nostra presenza come struttura a

Livorno si è mossa una sempre crescente rete di solidarietà e appoggio.

In particolare, proprio di fronte alla casa, vi era un panificio che aveva

preso l’abitudine di donarci il pane invenduto, a fine giornata. Questa

usanza, per così dire, è durata regolarmente per molti mesi fino a

quando, una sera, recandoci come al solito a prendere il pane ci siamo

154

Page 155: La Formazione imprigionata

Capitolo Quarto

trovati di fronte ad un rifiuto, seppur mortificato ed estremamente

dispiaciuto. Alla nostra richiesta di spiegazioni – non capivamo proprio

quale potesse essere il motivo di questo cambiamento di atteggiamento –

la signora che si occupava di consegnarci il pane disse una frase che mi è

rimasta impressa in memoria soprattutto per la ricchezza di contenuti

latenti ma estremamente illuminante: “Non posso più darvi il pane

perché i vicini me lo hanno imposto. Sai, finché accogliete i bambini,

quelli fanno tenerezza e va bene così; anche quando prendete in casa

quelle donne [le ragazze vittime della prostituzione coatta], io non le

metterei mai con i bimbi, non si sa mai che malattie possano portare, ma

voi sapete quello che fate; i carcerati… ma vedo che quelli che avete

preso tutto sommato sono bravi ragazzi; ma gli zingari… quelli proprio

no. Finché fate entrare in casa gli zingari mi hanno detto di non darvi

più il pane.” Ovviamente la cosa finì lì: la signora continua tuttora a

darci il pane, anzi ne siamo divenuti i fornitori per le famiglie povere

della zona, e gli zingari continuano a frequentare pressoché

quotidianamente la nostra casa. A nostro giudizio questo è un chiaro

esempio di messa in sequenza di gruppi di riferimento facendo uso di

criteri derivanti da pregiudizi soggettivi piuttosto che economici e quindi

più misurabili.

Credo che sia così per la maggior parte dei fenomeni in cui agisca il

processo inclusione-esclusione dove il carcere rappresenta lo strato più

esterno della centrifuga sociale.

Quest’ultima affermazione, dura quanto si voglia, nasce

dall’osservazione più diretta del mondo penitenziario, effettuata

nell’arco di quasi un anno di tirocinio svolto all’interno della Casa

155

Page 156: La Formazione imprigionata

Capitolo Quarto

Circondariale Don Bosco di Pisa in quella che si può, credo, definire più

propriamente osservazione partecipante, differenziandola così dalla

condivisione diretta all’interno della casa famiglia o quella meno stretta

della frequentazione degli strati sociali più deboli entrambe osservazioni

più di tipo naturalistico.

4.2 La metodologia dell’osservazione

In termini di ricerca sociale l’osservazione è impostata come un

processo conoscitivo che si basa sull’aver predeterminato che cosa,

come, quando e perché osservare. Nell’accezione più stretta

l’osservazione è un lavoro sistematico che si realizza sulla base di un

progetto legato eventualmente ad un’ipotesi e ad un piano di variabili da

osservare. Nella realtà questo tipo di osservazione parrebbe puramente

ideale perché il ricercatore dovrebbe essere una persona che per un certo

periodo di tempo decida di uscire dal mondo, cosa ovviamente

impossibile. Si tratta quindi di un modello.

Se scegliamo questo modello per studiare un sistema come quello

carcerario dobbiamo tener presenti alcune considerazioni.

Nell’osservazione sistematica ci troveremo, presto o tardi, a dover

contrastare le variabili di disturbo con la necessità di controllarle per

mantenere il più possibile la fedeltà al piano di lavoro iniziale. Non

potremmo mai dire se l’ipotesi è confermata o meno se l’osservazione è

inquinata da elementi spuri. Tuttavia, che questo sia un modello astratto,

che in pratica non esiste, ci parrebbe confermato dal fatto che esso si

basa su un modello cognitivo di tipo positivo, quindi sulla fiducia che

noi siamo in grado di oggettivare la realtà e che la nostra osservazione

156

Page 157: La Formazione imprigionata

Capitolo Quarto

corrisponda a ciò che è effettivamente la realtà. Sul piano della ricerca

sociale quando il ricercatore si avvicina ad un argomento quest’ultimo si

modifica inesorabilmente per effetto del già citato principio di

indeterminazione di Heisenberg. Questo apre la strada all’osservazione

partecipante, perché l’osservazione partecipante è uno studio che non

prevede un piano preciso e dettagliato, sistematico, ma si basa

sull’ingresso del ricercatore nel campo di ricerca come accolto in esso,

quindi ne diventa un partecipante. Attraverso la disposizione del

ricercatore che accetta il condizionamento che il campo di ricerca gli

pone possono venire alla luce modalità di lettura dei fenomeni altamente

interessanti perché si basano su una sensibilità che si sviluppa su un

processo di comunicazione progressiva tra le persone e non soltanto sulla

fredda raccolta di dati su di esse.

Nell’osservazione partecipante decidiamo di osservare dall’interno

della situazione ma non sappiamo dire, all’inizio, che cosa osserveremo

come invece abbiamo stabilito nell’osservazione sistematica.

Uno dei luoghi dove emerge in modo particolare la debolezza

dell’osservazione sistematica è proprio il carcere. Agli educatori viene

chiesto dalla legge di svolgere un’osservazione scientifica (quindi

sistematica) della personalità dei detenuti. Questo, nella realtà, si traduce

in qualche sporadico colloquio finalizzato nella maggior parte dei casi al

disbrigo di pratiche amministrative, nella relazione di sintesi spesso

redatta in modo formalistico, e nell’acquisizione delle informazioni

dall’area della sicurezza e quindi da un’area in possesso di una logica

diversa, talvolta opposta, a quella dell’educatore (cosa che di per sé

157

Page 158: La Formazione imprigionata

Capitolo Quarto

basterebbe a far dubitare della scientificità dell’osservazione) e dall’area

sociale (informazioni socio-familiari).

Questi sono i motivi per cui ho preferito, soprattutto per la parte

relativa al tirocinio nel carcere di Pisa, un’osservazione partecipante ad

uno studio più sistematico e predeterminato.

Ho cercato di attenermi ad un piano di osservazione anche rigoroso,

ma quello è un ambiente in cui le variabili di disturbo sono infinite. Non

solo, se mi fossi presentato per il tirocinio proponendo il lavoro come

un’osservazione sistematica avrei trovato quasi certamente la porta

chiusa. Invece, usando un approccio costruttivistico, una buona dose di

umiltà – sincera, del resto: era la prima volta che entravo in carcere

mentre le persone con cui avrei avuto a che fare vivevano al suo interno

da anni –, ma, soprattutto la piena disponibilità al rapporto umano come

condizione necessaria per ottenere migliori frutti dal lavoro, tutto ciò ha

fatto sì che la mia permanenza nel carcere di Pisa si sia rivelata portatrice

di un grandissima esperienza professionale ma soprattutto umana.

L’intreccio del sistema carcerario nella sua fase esecutiva, il

carcere, con il mondo esterno, soprattutto visto dal lato delle cooperative

sociali della comunità cui appartengo ha portato all’emergere di varie

contraddizioni, dicotomie, tensioni percorrendo le quali credo possiamo

avere un quadro generale più completo riguardo l’intero processo che dal

generico disagio sociale porta all’esclusione attraverso il carcere,

comprese quelle proposte che, almeno nelle intenzioni, sembrerebbero

mirare alla limitazione dell’uso del carcere ma, nella sostanza, come

vedremo, non ottengono grandi risultati.

158

Page 159: La Formazione imprigionata

Capitolo Quarto

4.3 Lavoro sociale e coercizione legale

Inizieremo con una domanda molto precisa: è possibile il lavoro

sociale in un contesto di coercizione legale?

In un suo saggio150 Massimo Pavarini nega che ciò sia possibile per

almeno quattro motivi:

1. Il carcere offre un setting negativo per la formazione e ciò è

dovuto principalmente al fatto che l’operatore d’aiuto si

trova preso tra due fuochi: deve fare contemporaneamente

sia gli interessi dell’istituzione che egli rappresenta, sia

quelli del detenuto verso cui è chiamato ad intervenire;

2. Il rapporto operatore-detenuto è inquinato – o almeno

rischia fortemente di esserlo – dalle funzioni utilitaristiche

messe in moto dal meccanismo che premia le “buone

condotte” con la graduale riconquista della libertà del

detenuto;

3. Se è vero che uno degli obbiettivi dell’educazione di un

soggetto consiste nella riduzione di suoi eventuali deficit e

condizioni di bisogno, è altrettanto vero che non tutti i

detenuti presenti nelle nostre carceri sono tali in

conseguenza di deficit personali ma a causa di processi di

criminalizzazione. Per esempio i detenuti incarcerati per

violazione delle norme sull’immigrazione oppure

tossicodipendenti.

150 Massimo Pavarini, “Dare aiuto nella nuova penologia. Il ruolo degli operatori sociali nelle politiche tecnocratiche di controllo sociale”, in Quale pena, cit., pp. 109 e sgg.. Per l’esattezza Pavarini pone la domanda in questo modo: “Chi professionalmente risponde ad un mandato di aiuto può operare nello spazio sociale della sofferenza legale, cioè in carcere?”.

159

Page 160: La Formazione imprigionata

Capitolo Quarto

4. Infine vi è il paradosso che vede l’educatore carcerario

occuparsi principalmente di ridurre il deficit formativo

causato dalla stessa carcerazione.

A commento di queste considerazioni Alessandro Margara151

asserisce esplicitamente che la contraddizione deriva dal fatto che il

carcere semplicemente non è stato fatto per questo. Secondo l’autore il

dibattito sul sistema penale ha tre protagonisti: l’intelligenza, la retorica

e – riprendendo il sovrano di Foucault – il re. L’intelligenza è quella

della “riflessione scientifica sulla pena e sul carcere”; la retorica traccia

le indicazioni del “dover essere”; il re non è altro che il “sistema penale

organizzato dagli stati”. Margara si schiera apertamente “con questa

retorica, soprattutto perché riesce a difenderci dalla intelligenza” e,

partendo dall’art.27 Cost., comma 3, constata il rifiuto, da parte del

carcere, delle regole in esso contenute: “il dover essere [di queste regole]

è contrastato da quello che il carcere è, dal suo funzionamento,

fisiologico e non patologico, che è quello di chiudere e di escludere

uomini e umanità, come l’analisi dell’intelligenza puntualmente rileva.”

E ancora: “Si devono accettare le dinamiche reali colte non

arbitrariamente dalla intelligenza o credere e impegnarsi nella modifica

di tali dinamiche e della realtà che determinano?” La risposta, secondo

Margara, sta nella scelta del “senso di umanità” inserito nell’articolo

della Costituzione, il senso di umanità come fede nell’uomo:

l’intelligenza potrebbe portarci a credere che esistano situazioni in cui

tutto è impossibile, una critica acuta all’istituzione ci potrebbe portare a

rinunciare, un intervento pesante del potere ci potrebbe impedire di

agire. Un riferimento alle affermazioni di principi come quelli

151 Alessandro Margara, Il destino del carcere, cit.

160

Page 161: La Formazione imprigionata

Capitolo Quarto

costituzionali, che vengono classificati come retorica, apre uno spazio

incerto in cui poter comunque sviluppare un senso di umanità fatto

principalmente di reciprocità.

Nel proseguire il dibattito a distanza, Massimo Pavarini, pur

restando lucidissimo nel suo pessimismo, in un suo recente saggio, prova

a fare un passo oltre consigliandoci di abbandonare i vecchi miti del

trattamento e dell’educazione penitenziaria in quanto incompatibili con

la struttura stessa152. Inoltre egli propone un ammonimento nei confronti

di quell’operatore che, ritenendosi più o meno a ragione scaltro a

sufficienza, tenti in qualche modo aggirare il sistema, ricordandogli che

il sistema è sempre più scaltro di lui e, di fatto, lo può neutralizzare in

qualunque momento puramente e semplicemente.

Pavarini ci invita, dunque, a compiere un salto logico chiedendosi –

e chiedendoci – perché tendiamo a curare persone per le quali non esiste

aspettativa di guarigione. Uno dei motivi consiste nell’elaborazione, da

parte della nostra cultura, della considerazione della cura come un

diritto. Ed è proprio con questo principio, con queste motivazioni,

152 Massimo Pavarini, Carcere e territorio revisited…, in La Nuova Città, ottava serie, 2004-2005. Riportiamo di seguito uno stralcio dell’articolo che riteniamo fondamentale e ricco di spunti di riflessione. Scrive Pavarini: “[…] io credo che bisogna legittimare ogni intervento di riduzione della sofferenza penale non perché utile a fini special-preventivi, ma perché comunque altrimenti utile.Qualche esempio. Forse oggi, dopo un ventennio, cominciamo a sospettare che non esista una terapia (farmacologica, sociale, comunitaria ecc.) scientificamente sicura per uscire dalla tossicodipendenza. Forse, chi esce dalla cultura della droga (perché è certo che se ne esce, nel senso che alcuni – pochi o molti, poco rileva – ne sono usciti), si libera da questa dipendenza, a prescindere o nonostante ogni possibile volenteroso programma di cura. Forse, altrettanto, siamo costretti a pensare di alcune psicosi gravi. E che dire poi delle infermità definite «croniche»? Insomma: se dovessimo legittimare l’azione di soccorso nei confronti dei tossicodipendenti, degli psicotici gravi e degli infermi cronici solo sulla base delle capacità scientificamente dimostrate, di «guarigione» avremmo… fiato corto. Eppure, anche se sempre meno, per la verità, continuiamo a curare i drogati, i folli e i cronici. E lo facciamo perché culturalmente si conviene che tutti costoro, in quanto sofferenti, ne abbiano diritto. C’è insomma un diritto alla cura che non si regge sulle aspettative di guarigione.” L’autore giunge poi alla conclusione che “Fare sempre più a meno del manicomio alla fine non si giustifica perché la psichiatria demanicomizzata abbia più possibilità di guarire la follia di quante ne abbia la psichiatria manicomiale, ma si legittima perché è più rispettosa dei diritti del sofferente.E perché questo argomentare non dovrebbe valere anche per la pena?”

161

Page 162: La Formazione imprigionata

Capitolo Quarto

dovremmo andare ad operare all’interno del carcere. Dobbiamo

occuparci di queste persone anche senza l’aspettativa che questo nostro

impegno porti ad un mutamento della loro condizione, ma soltanto per il

fatto che sono persone. Nel frattempo, va detto, però, si osserva che in

Europa comincia a vacillare anche il diritto di cura. Quindi il rischio è

che si assuma come modello per giustificare un certo intervento ciò che

altrove si sta modificando. Ma questo non è che un esempio della

difficoltà di costruire certezze attorno ai problemi sociali in un mondo

così complesso.

Quindi, per tornare alla domanda iniziale, è possibile il lavoro

sociale in un ambiente di coercizione legale? La risposta non può che

essere negativa anche in considerazione del fatto che non possiamo

affermare, in una situazione di limitazione di libertà come il carcere, che

stiamo operando per dare ad una persona una prospettiva di libertà. Ciò è

falso in principio. Per costruire una prospettiva di libertà occorre

praticare la libertà, farne esperienza da cui apprendere, ma questa

esperienza è limitata dalla permanenza in carcere. Vi sono istituti,

pensiamo al carcere che ha sede sull’isola di Gorgona, al largo di

Livorno, dove il grado di libertà di cui godono i detenuti è relativamente

molto ampio, specialmente in confronto alle venti ore al giorno durante

le quali i detenuti “normali” devono permanere tra le quattro pareti della

propria cella.

Il carcere toglie, tra le varie libertà palesemente riconosciute, anche

quelle aree di vita umana come gli affetti, la varietà del contesto sociale,

la scelta dei propri spazi e dei propri tempi, l’autodeterminazione. Alcuni

di questi aspetti, come abbiamo visto, vengono facilmente sostituiti da

162

Page 163: La Formazione imprigionata

Capitolo Quarto

surrogati taroccati come le relazioni interpersonali raramente basate su

reciprocità e affinità ma quasi esclusivamente funzionali o alla mera

sopravvivenza o a quella mobilità sociale parallela tipica della socialità

carceraria.

Il lavoro sociale, per poter essere davvero considerato tale,

dovrebbe avvenire in una struttura che riproduca, in qualche modo, il

contesto sociale e, quindi, con la possibilità di vivere anche relazioni

soddisfacenti, di non perdere la dimensione degli affetti, cosa possibile

soltanto se non se ne perde la consuetudine. I benefici della legge

Gozzini, per esempio, hanno la finalità di proporre una messa in libertà,

pur graduale, a certe categorie di detenuti. Ma come si può

somministrare questi diversi gradi i libertà se sono vincolati, da un lato,

ai requisiti che definiscono i benefici come veri e propri premi di buona

condotta mentre, dall’altro lato, come si accompagna alla riconquista

della libertà e dell’autonomia un soggetto che non la pratica da tempo,

magari da anni? La libertà non è una cosa che si può raccontare,

insegnare o altro, essa va praticata con tutti i rischi che ciò comporta.

Una soluzione, almeno inizialmente, sarebbe quella di combinare gradi

di libertà sempre maggiore con soluzioni organizzative adeguate, sia

interne che esterne al carcere, il tutto congiuntamente ad una gradualità

della messa in libertà intesa come formazione alla libertà e non soltanto

come premio per l’autocontrollo o la scaltrezza del detenuto. Dando

spazio alla formazione si potrebbe innalzare, se non proprio annullare,

anche il limite di pena entro il quale poter riconoscere il diritto ai

benefici.

163

Page 164: La Formazione imprigionata

Capitolo Quarto

Devono essere, comunque, soluzioni che concorrano a ricostruire

un tessuto di vita, di relazioni dove il detenuto entra in un sistema di

rapporti costanti nel lavoro, nello studio, nel tempo libero ecc. che, cosa

importante, siano frutto di una libera scelta.

Nel carcere attuale non è che la possibilità di scegliere sia

totalmente preclusa, ne è un esempio la libera scelta dello studio. Ci

riferiamo in particolar modo allo studio universitario, diverso dal

frequentare un corso scolastico interno al carcere nel quale il gruppo di

insegnanti non è scelto personalmente dall’allievo ma gli viene

assegnato, per così dire, d’ufficio. La scelta di un gruppo di persone, gli

insegnanti universitari, i tutor ecc., diviene importante ed ha un grosso

valore formativo in sé. Il lavoro sociale va incontro alle scelte dei singoli

detenuti studenti e si dota finalmente di connotati personali. Il connubio

lavoro sociale-coercizione legale sembrerebbe, a questo punto, possibile

in una cornice culturale che fa delle persone il punto di riferimento.

L’orientamento prevalente, tuttavia, non è affatto quello umanitario.

L’esistenza e la funzionalità dei Poli Universitari Penitenziari, tra l’altro

quello da noi osservato direttamente, è costantemente messa alla prova

da correnti oppositive animate soprattutto da ragioni securitarie – quasi

sempre immotivate e paranoiche - e atteggiamenti autoconservativi

dell’intero sistema penitenziario.

Qui, tra l’altro, risiede il punto di convergenza delle tesi di Pavarini,

sulla cura delle persone per cui non è attesa una guarigione, e quelle di

Margara, con l’idea del senso di umanità come via di superamento del

blocco logico dell’intelligenza e della retorica sul carcere e la pena.

164

Page 165: La Formazione imprigionata

Capitolo Quarto

I limiti illustrati da Pavarini riguardano non soltanto il sistema

carcerario ma, anzi, si pongono in tutti i sistemi, come la scuola, il

lavoro, l’ospedaliero ecc., nella misura in cui essi si dotano di

meccanismi di disciplinamento. Non c’è dubbio che siano sistemi diversi

dal carcere, ciononostante posseggono tutti una logica comune: il

disciplinamento ha la stessa cifra dappertutto. Esiste una gradualità di

pressione del disciplinamento, una molteplicità di stumenti con cui tale

disciplinamento funziona ma la logica sottostante è comunque una logica

dell’ordine, della razionalità. L’analisi di Foucault, di cui abbiamo

parlato nel primo capitolo, mostra chiaramente che il processo di

disciplinamento agisce sull’intero sistema e si dota di specifiche

tecnologie.

4.4 Coercizione e formazione. Il “trattamento” nei diversi

contesti

Da qui in avanti, alla luce di quanto detto sulla prospettiva del senso

di umanità, usiamo ancora il termine trattamento ma con un nuovo

significato, più completo. Togliamo dal trattamento i connotati freddi

della cosiddetta scientificità e aggiungiamo tinte meno certe, meno

standardizzate ma più affini alla considerazione dell’oggetto del

trattamento come persona unica e irripetibile, oltre che impossibile da

conoscere completamente, dei cui bisogni ci si faccia carico per un certo

periodo e con determinati scopi e obbiettivi.

Desideriamo proporre un’ulteriore specificazione semantica. Nel

gergo proprio della nostra Associazione, piuttosto che presa in carico,

preferiamo a usare altri termini, poiché questo implica una serie di

165

Page 166: La Formazione imprigionata

Capitolo Quarto

problematicità. La presa in carico è un processo complesso e sempre

problematico, talvolta addirittura sbagliato, che tuttavia viene nominato

regolarmente all’interno delle funzioni dei servizi sociali e talvolta nello

stesso carcere. Un assistente sociale del distretto Nord di Livorno,

quello, per intendersi, che riguarda i quartieri più poveri, ha mediamente

un numero di cittadini presi in carico abbondantemente superiore alle

proprie possibilità fisiche per poter effettivamente essere loro utile. In

più, la presa in carico differisce da persona a persona, richiede la

possibilità/capacità di affrontare e risolvere problemi tra loro diversi:

insomma, è una espressione che evoca qualcosa di impossibile data

l’infinita varietà di bisogni a cui si dovrebbe rispondere. Infine, è una

espressione che evoca più un lavoro che somiglia più a quello del

magazziniere: alla presa in carico dovrebbe corrispondere uno “scarico”,

cosa che puntualmente si osserva nella pratica di taluni servizi sociali e

professioni di aiuto. Lo stesso si può dire degli operatori carcerari,

pensiamo al rapporto tra le ore lavorative degli psicologi in carcere e il

numero dei detenuti presi in carico. Il servizio sociale, il carcere e, più

estesamente, il complesso delle istituzioni sociali non possono, nelle

condizioni strutturali in cui si trovano, prendere in carico alcuno. Per

completare l’esempio e riferirci al sistema che maggiormente interessa

questo lavoro, il carcere non può prendersi in carico le persone

semplicemente perché non è fatto per questo, esso svolge la sua funzione

e ad essa si limita. Basta guardare la sanità penitenziaria, oppure il modo

in cui il carcere gestisce il rapporto con le famiglie, per capire che non è

certamente una struttura assistenziale che può prendersi in carico le

persone. Possiamo osservare, è bene aggiungere, una certa evoluzione

166

Page 167: La Formazione imprigionata

Capitolo Quarto

dell’approccio da parte dei servizi di aiuto verso una maggiore

umanizzazione degli interventi (altro mito, direbbe Pavarini), pensiamo

soprattutto all’area sanitaria, agli ospedali, dove si tende a considerare

l’ammalato come una persona affetta da malattia e quindi bisognoso di

cure che vanno al di là delle pure e semplici terapie mediche. L’ambito

sociale, data la strutturale impossibilità, di cui all’esempio precedente, di

prendersi in carico gli utenti singolarmente da parte degli operatori, si è

attrezzato costituendo sorte di reti formate da sottosistemi funzionali

ognuno ad un settore diverso del bisogno. Questo fatto apre, però,

un’altra questione: presumerebbe che i bisogni di una persona umana

fossero settorializzabili e quindi scindibili in parti finite cui assegnare un

servizio apposito. Come è facile intuire e come peraltro si osserva nella

realtà quotidiana questo è impossibile. È comunque un modo per

intervenire ed è meglio di niente ma dire che così ci si prenda in carico

un individuo parrebbe effettivamente esagerato.

La modalità suddivisoria degli interventi di aiuto tende ad essere

estesa anche a quello che comunemente viene chiamato il “privato

sociale”. Questo è un argomento che personalmente mi tocca da vicino

visto che nel privato sociale sono comprese anche le strutture di

accoglienza e le case famiglia che sono parte integrante della mia

quotidianità.

Nel nostro paese è in atto, ormai da qualche anno, una sorta di

devoluzione sociale che vede ciascuna regione legiferare a modo suo

riguardo alle problematiche socio-assistenziali. Per esempio, la Toscana,

ha un pacchetto normativo in materia che regola in tutto e per tutto le

modalità strutturali e funzionali delle strutture di accoglienza delle

167

Page 168: La Formazione imprigionata

Capitolo Quarto

persone in disagio socio-sanitario secondo uno schema suddiviso per

tipologia di disagio ed età. Non è possibile, secondo la nostra

legislazione regionale, accogliere, e quindi prendersi in carico,

contemporaneamente nella stessa struttura minori ed adulti, disabili e

normodotati, tossicodipendenti e non tossicodipendenti, e così via.

Questo per limitare il discorso alle tipologie di accoglienza. Se

estendiamo l’analisi ai requisiti strutturali che sono richiesti per poter

prendersi in carico le persone si nota che la tendenza parrebbe quella di

rendere tali strutture il più possibile simili a istituti e meno a normali

contesti abitativi. Nella mia esperienza personale di casa famiglia della

Associazione Papa Giovanni ho potuto osservare, invece, come la

mescolanza di più tipi di problematicità svolga la funzione di

amplificatore delle capacità di adattamento e di sviluppo di tutte le

persone coinvolte in una struttura. Più specificamente, per portare alcuni

esempi, una struttura gestita da una famiglia e al cui interno vivano

contemporaneamente disabili, minori e adulti, ex-detenuti ecc. può

offrire a tutte le persone coinvolte una serie di stimoli e di modelli

infinitamente superiore, per esempio, a quello che può fare una struttura

al cui interno si trovino soltanto persone disabili o soltanto

tossicodipendenti o, per sovrammercato, persone che hanno commesso

reati. Le istituzioni non sempre sono state cieche di fronte alla realtà

multidimensionale dell’essere uomo nella società, ne è un esempio la pur

sofferta integrazione scolastica delle persone disabili153, passo importante

verso una maggiore umanizzazione della pena della diversità. Siamo

quindi ad una nuova definizione della presa in carico. Vista l’infinita

153 Legge 5 febbraio 1992, n. 104. Articolo 1, comma a): La Repubblica garantisce il pieno rispetto della dignità umana e i diritti di libertà e di autonomia della persona handicappata e ne promuove la piena integrazione nella famiglia, nella scuola, nel lavoro e nella società;

168

Page 169: La Formazione imprigionata

Capitolo Quarto

complessità che ciascun soggetto porta con sé, il termine che preferiamo

è la condivisione diretta. In fondo, il bambino disabile, i propri compagni

di classe e le insegnanti non possono che operare in un clima di

condivisione diretta reciproca, fatto salvo ovviamente l’uso di strumenti

specifici variabili a seconda della tipologia di disagio. Moltissimi sono,

al riguardo, gli esempi di successi, talvolta clamorosi, ottenuti in ambito

scolastico sia nei confronti dei bambini disabili sia, cosa ancor più

interessante, da parte degli altri alunni coinvolti e delle stesse insegnanti.

Giusto per appunto finale è bene aggiungere che oggi, oltre alla disabilità

fisica o mentale cui il legislatore del 1992 faceva riferimento, si

sommano altri fattori di esclusione cui andrebbe estesa la suddetta legge,

per esempio i cittadini immigrati, soprattutto quelli provenienti da

culture profondamente diverse dalla nostra, e su questo in effetti pare si

stia lavorando.

Un altro ambito in cui si osserva la distonia tra i principi animatori

delle leggi e la diversa realtà quotidiana in cui vengono calate è quello

dell’affidamento dei minori.

Vediamo cosa dice la legge 149 del 28 marzo 2001 in merito:

"Art. 1.

1. Il minore ha diritto di crescere ed essere educato nell'ambito

della propria famiglia.

2. Le condizioni di indigenza dei genitori o del genitore esercente

la potestà genitoriale non possono essere di ostacolo all'esercizio del

diritto del minore alla propria famiglia. A tal fine a favore della

famiglia sono disposti interventi di sostegno e di aiuto.

169

Page 170: La Formazione imprigionata

Capitolo Quarto

3. Lo Stato, le regioni e gli enti locali, nell'ambito delle proprie

competenze, sostengono, con idonei interventi, nel rispetto della loro

autonomia e nei limiti delle risorse finanziarie disponibili, i nuclei

familiari a rischio, al fine di prevenire l'abbandono e di consentire al

minore di essere educato nell'ambito della propria famiglia. Essi

promuovono altresì iniziative di formazione dell'opinione pubblica

sull'affidamento e l'adozione e di sostegno all'attività delle comunità di

tipo familiare, organizzano corsi di preparazione ed aggiornamento

professionale degli operatori sociali nonché incontri di formazione e

preparazione per le famiglie e le persone che intendono avere in

affidamento o in adozione minori. I medesimi enti possono stipulare

convenzioni con enti o associazioni senza fini di lucro che operano nel

campo della tutela dei minori e delle famiglie per la realizzazione delle

attività di cui al presente comma.

4. Quando la famiglia non e' in grado di provvedere alla crescita e

all'eduzione del minore, si applicano gli istituti di cui alla presente

legge.

5. Il diritto del minore a vivere, crescere ed essere educato

nell'ambito di una famiglia e' assicurato senza distinzione di sesso, di

etnia, di età, di lingua, di religione e nel rispetto della identità' culturale

del minore e comunque non in contrasto con i princìpi fondamentali

dell'ordinamento.

Art. 2. –

1. Il minore temporaneamente privo di un ambiente familiare

idoneo, nonostante gli interventi di sostegno e aiuto disposti ai sensi

dell'articolo 1, e' affidato ad una famiglia, preferibilmente con figli

170

Page 171: La Formazione imprigionata

Capitolo Quarto

minori, o ad una persona singola, in grado di assicurargli il

mantenimento, l'educazione, l'istruzione e le relazioni affettive di cui

egli ha bisogno.

2. Ove non sia possibile l'affidamento nei termini di cui al comma

1, e' consentito l'inserimento del minore in una comunità di tipo

familiare o, in mancanza, in un istituto di assistenza pubblico o privato,

che abbia sede preferibilmente nel luogo più vicino a quello in cui

stabilmente risiede il nucleo familiare di provenienza. Per i minori di

età inferiore a sei anni l'inserimento può avvenire solo presso una

comunità di tipo familiare.

3. In caso di necessità e urgenza l'affidamento può essere disposto

anche senza porre in essere gli interventi di cui all'articolo 1, commi 2 e

3.

4. Il ricovero in istituto deve essere superato entro il 31 dicembre

2006 mediante affidamento ad una famiglia e, ove ciò non sia possibile,

mediante inserimento in comunità di tipo familiare caratterizzate da

organizzazione e da rapporti interpersonali analoghi a quelli di una

famiglia.

5. Le regioni, nell'ambito delle proprie competenze e sulla base di

criteri stabiliti dalla Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato,

le regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano, definiscono gli

standard minimi dei servizi e dell'assistenza che devono essere forniti

dalle comunità di tipo familiare e dagli istituti e verificano

periodicamente il rispetto dei medesimi".

Il titolo della legge è abbastanza emblematico: “Del diritto del

minore ad una famiglia”. I principi base sono chiari. Il legislatore ha

171

Page 172: La Formazione imprigionata

Capitolo Quarto

puntato sulla famiglia di sostegno, nel caso dell’affido, o sostitutiva, con

l’adozione, o comunque all’applicazione laddove possibile del modello

familiare come principio su cui poggiare lo sviluppo di minori

provenienti da situazioni disgregate.

Questi bei principi si sono scontrati con la dura realtà

dell’inadeguatezza degli strumenti a disposizione sul territorio. Se

riflettiamo in breve, per poter funzionare in un ambito istituzionale

frammentato e sezionato per funzioni quale è il servizio sociale nel

nostro paese, un singolo affidamento avrebbe bisogno di un assistente

sociale che si occupasse della famiglia d’origine del minore, un

assistente sociale che si facesse carico della formazione e del sostegno

degli affidatari prima, durante e dopo l’affidamento, di un terzo

operatore che si prendesse cura del minore e ne seguisse lo sviluppo

nell’ambito dell’operazione affido, il tutto magari in rete con la scuola e

gli altri ambiti di vita del ragazzo. La realtà è ben diversa. Se va bene

abbiamo un/a assistente sociale solo/a che si occupa

contemporaneamente di dover rispondere alle istanze della famiglia di

origine, spesso ostile anche perché scarsamente preparata e sostenuta nel

momento critico dell’allontanamento – seppur temporaneo – dei propri

figli, per ragioni di mancanza di tempo dello scarso personale addetto;

della famiglia affidataria, sovente abbandonata a se stessa subito dopo il

collocamento della “patata bollente”; infine del minore che rischia di

perdere i punti di riferimento su cui poggiare il proprio sviluppo.

La scarsità di personale e di risorse economiche nei servizi sociali,

oltre al clima di emergenza ed urgenza in cui quasi sempre avvengono

gli allontanamenti e i successivi affidamenti dei minori, portano con

172

Page 173: La Formazione imprigionata

Capitolo Quarto

estrema frequenza ad adottare misure in qualche modo comode e, per

colorire un po’ polemicamente il discorso, di scarico del problema come

il collocamento presso istituti – i vecchi orfanotrofi, per intenderci –. Il

legislatore della legge 149, per la verità, ha pensato anche a questa

evenienza e ha posto addirittura un termine massimo, il 31 dicembre

2006, entro il quale detti istituti avrebbero dovuto chiudere o,

quantomeno, cessare di essere utilizzati come strutture di accoglienza per

minori preferendo ad essi, come abbiamo visto all’art.2 c.4 citato sopra,

l’affidamento ad una famiglia e, ove ciò non sia possibile,

[l’]inserimento in comunità di tipo familiare caratterizzate da

organizzazione e da rapporti interpersonali analoghi a quelli di una

famiglia.

I principi che stanno alla base di questa legge e sono del tutto simili

a quelli che hanno condotto alla chiusura degli istituti per malati di

mente – i manicomi – mediante la Legge 180 del 13 maggio 1978, la

legge Basaglia, conosciuta come la legge che ha chiuso i “manicomi”.

Più studiosi andavano ormai da tempo affermando che

l’istituzionalizzazione di soggetti deboli provocava più danni di quanti

sarebbero stati eventualmente i benefici che essi ne avrebbero potuto

trarre. Goffman, nel già citato Asylums, nel trattare le istituzioni totali

dedica un intero capitolo alle carriere morali degli internati.

È chiaro che vi sono differenze tra soggetti deboli quali possono

essere minori privi di genitori, o allontanati da questi ultimi per

qualsivoglia motivo, e persone che hanno una malattia mentale, ma

l’effetto della chiusura in istituto è per entrambi portatore di effetti che

possono agire pesantemente sullo sviluppo delle proprie potenzialità.

173

Page 174: La Formazione imprigionata

Capitolo Quarto

Primo tra tutti la capacità di muoversi nel contesto quotidiano fatto di

relazioni, incontri, spazi e tempi che devono potersi adattare e riadattare

per l’intero corso della vita. È altresì accertato che lo sviluppo di un

essere umano non si ferma con la maggiore età ma prosegue per l’intero

corso della vita. Ciò che cambia è la responsabilità individuale che

sull’esercizio di tale libertà grava in proporzione allo sviluppo e al

succedersi dei ruoli che nel corso della propria esistenza ognuno è

chiamato a ricoprire.

Aver a che fare con persone la cui libertà sia limitata deve

necessariamente, quindi, portare ad accrescere la coscienza dei

significati della libertà e, di pari passo, delle responsabilità che ne

regolano i limiti in un contesto di vita sociale attiva e partecipata.

Questo, parrebbe evidente, è molto difficile laddove la libertà sia

confinata all’interno di quattro ore giornaliere – quando va bene – da

poter passare fuori dalla propria cella. Se è vero che ognuno cresce in

base alle proprie esperienze, la coscienza della responsabilità nella

libertà si sviluppa necessariamente facendo esperienza di libertà. Questo

principio non è ignoto ai padri legislatori penali ma, anzi, ha scaturito

leggi come la Simeone-Saraceni o la Gozzini ma, come per la legge

sull’affidamento dei minori e sulla legge Basaglia si è scontrata con la

realtà di un sistema rigido sulle proprie posizioni burocratiche, una vera

gabbia d’acciaio.

Molti istituti per minori che avrebbero dovuto essere chiusi a fine

2006 di fatto si sono attrezzati e con qualche piccolo adattamento

cosmetico si sono trasformati in aggregati di comunità di tipo familiare,

più piccole come dimensioni ma identiche nello stile dell’istituto;

174

Page 175: La Formazione imprigionata

Capitolo Quarto

qualche recente tentativo di introdurre l’affidamento familiare anche per

malati di mente – tra l’altro offrendo cospicui rimborsi alle famiglie

disponibili all’accoglienza – non ha avuto gli effetti sperati soprattutto

per la cronica mancanza di fondi e di personale preposto

sufficientemente preparato e motivato; è degli ultimi giorni il tentativo

sempre più pressante di rivedere la legge Gozzini sfruttando i rarissimi

casi di recidiva da parte di soggetti in misura alternativa alla detenzione.

Anche dove si sia fatto qualche passo in più verso la realizzazione

pratica del principio deistituzionalizzante della legge sull’affidamento

dei minori, si tende ad assumere il controllo delle strutture che nella

legge dovrebbero essere caratterizzate da organizzazione e da rapporti

interpersonali analoghi a quelli di una famiglia mediante una

regolamentazione su base regionale molto rigida riguardo i requisiti

strutturali e del personale addetto che dilata l’analogia familiare e

ricostituisce entità sempre più simili a istituti.154

La tendenza attuale sembra confermare anche nell’ambito

dell’affidamento dei minori quello che traspare dal mondo carcerario: un

progressivo raffreddamento del senso di umanità sacrificato alla

crescente professionalizzazione e, di fatto, istituzionalizzazione delle

relazioni umane, a partire proprio da quelle maggiormente critiche e

bisognose di sostegno e calore.

Si apre, dunque, un nuovo problema. L’idea che in un particolare

sistema vengano elaborati criteri di disciplinamento generalistici, da

applicare sempre e dappertutto, va in crisi di fronte alla realtà di

154 I riferimenti normativi della Regione Toscana sono essenzialmente due: la Legge Regionale 24 febbraio 2005 nr.41, Sistema integrato di interventi e servizi per la tutela dei diritti di cittadinanza sociale, e il Piano Integrato Sociale Regionale 2007-2010 approvato dal Consiglio Regionale Toscano il 31 ottobre 2007.

175

Page 176: La Formazione imprigionata

Capitolo Quarto

un’umanità che è tutto fuorché generalizzabile. Le regole di uno dei

sistemi più rigidi in assoluto, che poi è quello che interessa il presente

lavoro, il carcere, vanno in tilt nelle situazioni in cui si fuoriesca dalla

ristretta schematicità che tali regole ha costruito155. Alcuni esempi

chiarificatori: le sezioni a custodia attenuata presenti in alcuni istituti,

per esempio quello da me osservato da vicino, il carcere di Pisa. In

queste sezioni è evidente che continuano a valere, almeno sulla carta, le

stesse norme riservate al resto dei detenuti ma con una differenza: vi è

una maggiore attenzione alla storia ed alla particolarità di ciascun

individuo ivi collocato indipendentemente, si badi bene, dalla pena da

scontare. Non è improbabile trovare, per esempio nel Polo Universitario

Penitenziario di Pisa, detenuti condannati ad una lunga pena per gravi

reati ma che sono sottoposti, in quanto inseriti in quella specifica

sezione, ad una pressione securitaria sensibilmente inferiore rispetto a

quello che le norme generali prevederebbero per tali tipologie di

detenuti. Le sezioni a custodia attenuata dovrebbero essere il frutto di

politiche concrete elaborate dagli istituti sulle condizioni dell’istituto.

Questo non contrasta con l’Ordinamento Penitenziario che lascia, invece,

alcuni spazi di manovra ai direttori degli istituti.

Un altro esempio è dato dal fenomeno della tossicodipendenza che

ha introdotto la pretesa di criteri uniformi, perché vista come fenomeno

generale da affrontare, ma difficilmente attuabili. Nell’istituto a custodia

attenuata di Empoli, riservato a detenute tossicodipendenti, uno dei

criteri base era che la detenuta volesse andare in quella particolare realtà.

155 “L’inflazione di norme e regole può paradossalmente determinare il non rispetto delle stesse, da un lato: ma dall’altro, ancora peggio il fatto che gli operatori penitenziari possano vivere questa specie di cappa di regole minuziose come un rischio perenne, quello di non sapere se sono nel giusto o nello sbagliato.” Così Pietro Buffa, direttore del carcere di “Le Vallette” di Torino in un intervista a Ornella Favero reperibile sul sito internet www.ristretti.it

176

Page 177: La Formazione imprigionata

Capitolo Quarto

Difficilmente, però, una persona, anche se detenuta e tossicodipendente,

può prendere la decisione di recarsi in una struttura di per sé

stigmatizzante: significherebbe autoidentificarsi contemporaneamente

detenute e tossicodipendenti. Questo è precisamente la sintassi logica

che ha portato l’istituto di Empoli a restare vuoto a lungo, almeno finché

non si rendessero meno rigidi i criteri di ingresso oppure non si

allentassero i controlli sull’applicazione di tali norme da parte del

personale preposto.

Per le strutture di accoglienza vale lo stesso discorso. Per ottenere

dalla Regione l’autorizzazione al funzionamento e successivamente

l’accreditamento, condizioni teoricamente basilari per poter esercitare

sul territorio, sono previsti una serie di requisiti tanto restrittivi quanto

variabili da Regione a Regione. La variabilità su scala locale coinvolge,

comunque, non soltanto la base normativa necessaria per il

funzionamento delle strutture ma, soprattutto, la disponibilità delle

istituzioni e delle persone incaricate dalle istituzioni di segnalare ed

eventualmente collocare i vari soggetti nelle medesime strutture a

scavalcare alcune di queste norme per raggiungere un minimo di

obbiettivo. La nostra Casa Famiglia, per esempio, essendo una struttura

adibita ad accoglienze eterogenee dal punto di vista sia del tipo di

disagio (handicap, tossicodipendenza, detenzione, abbandono ecc.) che

dell’età (minori, adulti o anziani), non ha possibilità, con le leggi attuali,

di ottenere la formale autorizzazione al funzionamento. Ciononostante

riceviamo quotidianamente richieste di accoglienza dalle istituzioni

pubbliche e dai servizi sociali che, pur essendo a conoscenza ovviamente

sia delle norme che della tipologia della nostra struttura, riconoscono e

177

Page 178: La Formazione imprigionata

Capitolo Quarto

usano la nostra struttura come risorsa territoriale che risponde a

determinati bisogni sociali. Va detto, ad onor del vero, che questo

dipende molto dai professionisti istituzionali in gioco e che abbiamo

assistito, nel corso degli anni di attività, ad episodi in cui il professionista

sociale istituzionale più timoroso e conservatore delle procedure

burocratiche abbia preferito non offrire alcuna risposta ai bisogni di

taluni soggetti disagiati piuttosto che proporre il nostro sostegno.

I regolamenti generali si scontrano con la molteplicità delle

situazioni e devono gioco forza flettersi se vogliamo conservare

l’obbiettivo primario dell’aiuto alla persona. Nascono, così, i

riconoscimenti e le autorizzazioni provvisorie o, come previsto dalla

legge quadro della Regione Toscana, le sperimentazioni.

Chi fa esperienza quotidiana, per professione, vocazione o

volontariato, di queste dinamiche fa emergere un bisogno crescente di

autonomia e di responsabilità: non affidare alle regole ma alla

responsabilizzazione e alla professionalità. Le regole devono essere

quelle della professionalità.

Anche questo è un fenomeno di sistema analogo, per esempio, a

quanto avviene nel sistema scolastico. Quando, per esempio, si è

introdotta l’autonomia scolastica lo si è fatto perché ci si è resi conto che

esso era un sistema ingestibile, nel senso che è costruito su territori,

scuole e sistemi di relazione molto differenziati e complessi.

Queste situazioni ci insegnano qualcosa di generale. Una società

complessa non si lascia irretire nei regolamenti uguali per tutti ma, anzi,

sopravvive se si diffonde l’idea della responsabilità. Per cui, se una

178

Page 179: La Formazione imprigionata

Capitolo Quarto

persona competente mette in piedi una situazione che rispetta alcuni

criteri generali, il resto deve essere affidato alla sua responsabilità.

Nel caso del carcere il tentativo lo si è fatto quando si è pensato al

regolamento di istituto, che hanno a loro volta le loro controindicazioni:

ci sono direttori che decidono in un modo ed altri che semplicemente,

rifacendosi all’ordinamento tout court, non decidono o decidono il

contrario. Ma se viene redatto un regolamento d’istituto e

successivamente muta la composizione della detenzione è d’obbligo, se

vogliamo mantenerne l’efficacia, cambiare anche il regolamento.

Tuttavia, se osserviamo le procedure che sottostanno la costruzione e

l’applicazione di un regolamento d’istituto, la cosa si complica alquanto.

Per essere approvato, un regolamento, deve passare dal Provveditorato

Regionale per l’Amministrazione Penitenziaria (PRAP),

successivamente al Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria

(DAP) e poi nuovamente al PRAP ed infine all’istituto di provenienza.

Tutto questo processo rischia di scoraggiare la maggior parte dei direttori

d’istituto ad apportare modifiche a regolamenti già esistenti anche se

obsoleti. Vengono allora usati gli Ordini di Servizio, veri e propri

emendamenti al regolamento base, che, di fatto, sostituiscono il

regolamento stesso. La responsabilità e la professionalità dei direttori

d’istituto e dei loro collaboratori, soprattutto dell’area pedagogica, è la

vera fonte di attaccamento alla realtà situazionale in continua evoluzione

e fermento di un carcere, cosa che un regolamento generalistico uguale

per tutti, rigido e burocratico, perde rapidamente di vista.

179

Page 180: La Formazione imprigionata

Capitolo Quarto

4.5 Quadri di ordinaria coercizione

Lo stato di coercizione è un contenitore concettuale che rischia di

rimanere vuoto se non ci occupiamo di riempirlo con le storie cui

veniamo in contatto quando si entra nell’universo carcerario di persona.

La mia esperienza nel carcere di Pisa, nelle cooperative sociali e

nelle strutture di accoglienza si è arricchita, nel corso degli anni, di storie

individuali che nell’insieme possono aiutare a dare un quadro più

completo, al di là delle pur necessarie teorizzazioni,

sull’istituzionalizzazione che, incidentalmente, ciascuno di noi può

incontrare nel corso della propria esistenza.

Riporto, di seguito, alcune sfaccettature ed esempi che mi hanno

particolarmente colpito nel corso di queste esperienze.

Nel carcere di Pisa esiste una sezione femminile dotata di una

ventina circa di posti, anche se talvolta si sono raggiunte le quaranta

presenze. È una sezione molto variegata, dal punto di vista sia dei reati

ascritti alle persone in essa ristrette, sia alle loro caratteristiche culturali.

La cosa che ci ha colpito fin dall’inizio è l’elevata incidenza di

comportamenti omosessuali tra le detenute.

È abbastanza frequente che nei colloqui individuali si faccia

riferimento a relazioni amorose, quindi non soltanto sessuali, tra le

donne detenute nella sezione. Non solo, ho assistito con inquietante

frequenza a consigli di disciplina originati da litigi, spesso furiosi e con

conseguenze fisiche sulle contendenti, dovuti a gelosie verso compagne

di detenzione. Intervistando le agenti di Polizia Penitenziaria dislocate

nel reparto la cosa si fa ancora più nitida. Queste riferiscono che non è

180

Page 181: La Formazione imprigionata

Capitolo Quarto

affatto inconsueto trovare nello stesso letto due detenute durante i vari

giri di perlustrazione.

Se nella sezione femminile il fenomeno emerge in modo palese non

si può asserire la stessa cosa per le sezioni maschili. Probabilmente, ad

una prima e superficiale analisi, ciò potrebbe derivare da due ragioni

fondamentali: la prima fa riferimento alla ipotetica prevalenza della

dimensione sessuale su quella affettiva nelle relazioni intime degli

uomini; la seconda, in qualche modo derivante dalla prima, riguarda la

tabuizzazione della dimensione omosessuale che concerne il mondo

maschile, in particolare nel mondo carcerario dove i rapporti

omosessuali, pur esistenti, vengono fortemente negati. È difficile, infatti,

che un detenuto confessi al proprio educatore di riferimento, al

cappellano, al direttore, al volontario o a chicchessia di aver avuto

rapporti omosessuali con altri detenuti, non solo, egli nega a priori che

tale fenomeno esista. Raccontano, infatti, gli operatori della casa

circondariale, che una volta fu deciso di sperimentare la collocazione di

un apparecchio distributore di preservativi all’interno delle sezioni

maschili allo scopo di evitare, o quanto meno ridurre la possibilità che

dai rapporti fisici derivassero malattie sessualmente trasmissibili.

Ebbene, ne venne fuori una mezza rivolta. Tutti i detenuti, compresi gli

omosessuali dichiarati, negarono recisamente che esistessero tali

comportamenti all’interno delle loro celle. Risultato: non fu installata la

macchinetta.

Al contrario, nella sezione femminile, non sono infrequenti gli

scambi di doni tra fidanzate e le crisi quando questi fidanzamenti

vengono rotti: per un osservatore uomo, e mi riferisco qui alla mia

181

Page 182: La Formazione imprigionata

Capitolo Quarto

personale esperienza, assistere a tali fenomeni è alquanto imbarazzante e,

al tempo stesso, interessante.

Nella quasi totalità, queste donne, sono, nella vita esterna al carcere,

o sposate con figli, o, almeno, fidanzate. Hanno, insomma una vita

sentimentale e sessuale normale. La coercizione, la privazione della

libertà riguardo la sfera affettiva e sentimentale, si può tradurre, così, in

distorsioni emotive che comunque sono a carico degli operatori del

trattamento e che, in ogni caso, poco hanno a che fare con la

rieducazione e lo sviluppo personale di questi soggetti in vista del ritorno

alla libertà ma, piuttosto, rappresentano fattori per cui vale quasi

unicamente la funzione di contenimento e regolazione interne alla vita

carceraria.

Un altro spaccato di vita carceraria come universo sociale parallelo

è fornito dal commercio, traffico nel gergo carcerario, di beni di ogni

tipo che poco ha a che fare con l’ordinario scambio di beni e denaro che

avviene nella società. Chi finisce in carcere impara presto o tardi a

seguire un modello economico del tutto particolare. Per esempio, il

regolamento penitenziario prevede che sia consentito l'acquisto presso

lo spaccio interno e il consumo giornaliero di vino in misura non

superiore a mezzo litro e di gradazione non superiore a dodici gradi o di

birra in misura non superiore ad un litro156 da parte di qualunque

detenuto, indipendentemente dal fatto che ne faccia effettivo consumo o

meno, può accadere che, visto che una buona metà dei soggetti che

popolano le nostre carceri non fa uso di alcolici per motivi religiosi,

pensiamo soprattutto a quelli di fede islamica, si utilizzi il vino o la birra

156 Art 14, c.3 del D.P.R. del 30 giugno 2000 n.230, Regolamento recante norme sull'ordinamento penitenziario e sulle misure privative e limitative della libertà.

182

Page 183: La Formazione imprigionata

Capitolo Quarto

come merce di scambio sia per ottenere altre merci, sia per ottenere o

ricambiare favori.

Nell’istituto di Pisa si è ovviato al problema chiudendo la “cantina”

con una decisione condivisa tra direzione del carcere ed una larga

rappresentanza dei detenuti stessi. Oltretutto questa decisione ha avuto

molti altri vantaggi: ridurre il tasso alcolemico medio dei detenuti con

conseguenze utili sulla gestione della disciplina; un migliore e più

affidabile controllo su coloro che escono a vario titolo dal carcere

(semiliberi, detenuti in permesso, art.21 ecc.) che possono essere

sottoposti ad esami, al loro rientro in istituto, per accertare la presenza di

sostanze psicotrope alcol compreso di cui abbiano eventualmente

abusato.

A mio giudizio questo è un altro esempio di come il diritto, quando

espresso sganciato dal senso di responsabilità, invece di condurre ad un

maggiore ordine sociale di fatto talvolta rischi di creare i presupposti per

ulteriori problemi che, nella fattispecie, ricadono sul personale carcerario

dell’area sicurezza, dell’area sanitaria ma, in particolare, dell’area

pedagogica che si trova così ulteriormente gravata e distolta dai compiti

ad essa riservati. Spesso, infatti, l’opera degli educatori è più volta al

contenimento degli effetti del carcere che alla preparazione dei detenuti

al ritorno alla libertà con migliori prospettive di inserimento sociale.

Viene in questo modo suffragata ulteriormente l’affermazione di

coloro che sostengono l’impossibilità del lavoro sociale nel contesto

coercitivo. L’unica possibilità sembrerebbe data dalla fantasia del

singolo operatore e dalle sue capacità di adottare strategie adattive o di

scavalcamento dei rigidi meccanismi dell’amministrazione. Questo è uno

183

Page 184: La Formazione imprigionata

Capitolo Quarto

dei motivi, probabilmente il principale, per cui la maggior parte del

trattamento, quello vero, quello che più si avvicina al “senso di umanità”

inserito dai Padri Costituenti nell’art. 27 della Costituzione, viene

dall’esterno. Volontari, associazioni, cooperative sono sempre più i veri

animatori del mondo carcere. Non possiamo meravigliarci troppo di

questo visto che, come dice Margara, il carcere è nato per escludere e

non possiamo chiedere ad una struttura costruita per questo di occuparsi

dell’inclusione sociale. O meglio, il senso di umanità esiste in forma

espressa nella Costituzione, si manifesta in forma evidente nei volontari

e nelle associazioni esterne all’amministrazione carceraria ma, in coloro

che la stessa amministrazione ha deputato allo scopo in via istituzionale

questo senso umanitario sembra rimanere schiacciato dalla pressione

esercitata dalla prospettiva correzionalistica e meramente punitiva

tutt’oggi prevalente.

La dimensione punitiva, tra l’altro, tende ad invadere gli spazi

altrimenti tipici del trattamento penitenziario157. La tecnologia

disciplinare, fondata sul sistema sanzioni-ricompense laddove chiamata a

“stimolare il senso di responsabilità e la capacità di autocontrollo” dei

detenuti158, di fatto è storicamente quasi inalterata, ad eccezione delle

punizioni corporali, e vede nel Consiglio di disciplina la manifestazione

evidente della sua supremazia sul trattamento rieducativo vero e

proprio.159

157 Il trattamento si attua avvalendosi “dell’istruzione, del lavoro, della religione, delle attività culturali, ricreative e sportive e agevolando opportuni contatti con il mondo esterno ed i rapporti con la famiglia” (Art.15 L.354/1975 Ordinamento Penitenziario)158 Art.36 L.354/1975159 Cfr. Claudio Massa, “Pedagogia penitenziaria e pedagogie reclusive”, in Claudio Massa (a cura di) L’educatore e la pedagogia penitenziaria. Contributi teorici e metodologici , Cagliari, Cooperativa Universitaria Editrice Cagliaritana, 2005, p.107

184

Page 185: La Formazione imprigionata

Capitolo Quarto

Avendo avuto la ventura di partecipare a vari consigli di disciplina

durante il tirocinio nel carcere di Pisa, le impressioni che ne ho tratto

confermano ciò che la letteratura sul tema riporta diffusamente ed in

modo variamente argomentato. La fonte di informazioni prevalente, e

quella che ha peso determinante sul giudizio finale, è senz’altro la

sorveglianza. Ovviamente è molto frequente che la segnalazione

dell’infrazione regolamentare sia effettuata dall’agente di polizia

penitenziaria, data la sua vicinanza ai luoghi fisici della detenzione ma,

come capita quasi sempre, questo è l’unico testimone diretto del fatto

che viene portato in consiglio di disciplina e, quindi, il rapporto

disciplinare è lasciato alla sua soggettiva valutazione. Il peso dell’area

della sorveglianza in tutta la vita dell’istituzione totale carcere si misura

in modo chiaro proprio durante quella sorta di processo, talvolta, mi sia

consentito, grottesco, che è il consiglio di disciplina dove il direttore fa

da giudice, pubblico ministero e avvocato difensore e il Gruppo di

Osservazione e Trattamento, qualora preso in considerazione, viene

trattato allo stesso modo in cui una volta si trattava, nello stesso

consiglio, il cappellano di cui, tra l’altro, con la riforma penitenziaria ha

preso il posto. Il detenuto viene ascoltato ma, come è facile intuire, la

sua collaborazione, specie dove venga chiamato a riferire sul

comportamento di compagni, è fortemente limitata dai timori, fondati, di

ritorsioni, vendette ed etichettamenti infamanti da parte di questi ultimi.

Sembrerebbe che, in alcuni casi, come conseguenza di una lite tra

due compagni di cella si sia giunti a punire l’intera sezione con svariati

giorni di interdizione dalle attività sportive e ricreative. Il tutto contro il

185

Page 186: La Formazione imprigionata

Capitolo Quarto

parere degli educatori che ritenevano inutile, anzi dannosa la punizione

generalizzata.

Il reale vantaggio che il consiglio di disciplina parrebbe aver portato

al sistema carcerario è la riduzione delle azioni repressive, se non

proprio violente, da parte della sorveglianza nei confronti di detenuti

particolarmente “difficili” ed una maggiore presa di controllo da parte

della direzione sui fatti critici che avvengono in istituto. Tuttavia, resta

invariata la considerazione della sua scarsa utilità dal punti di vista

trattamentale e rieducativo, soprattutto visto lo sganciamento dal piano

dell’osservazione e del trattamento propriamente inteso che in esso viene

operato tramite la marginalità del coinvolgimento, nelle decisioni

assunte, dell’area trattamentale.

4.6 Il terzo (in)comodo: il volontariato

Una delle novità degli ultimi anni è senz’altro l’aumento della

partecipazione dei volontari alla vita del carcere. Un tempo essi erano

rappresentati in larghissima parte da religiosi, soprattutto suore, che

portavano conforto spirituale ai condannati senza influire minimamente

sulla vita dell’istituzione.

Oggi il volontariato rappresenta una delle componenti più

importanti nello svolgimento delle attività interne, ma anche esterne, al

carcere, al punto che è legittimo chiedersi come potrebbe sopravvivere

l’intero impianto penitenziario in assenza della “partecipazione della

comunità esterna”.

A Pisa, attualmente, le persone che possono accedere al

penitenziario tramite autorizzazione come da articolo 17 OP sono una

186

Page 187: La Formazione imprigionata

Capitolo Quarto

sessantina, molte delle quali insegnanti o formatori assegnati alle scuole

od ai corsi professionali interni, altre persone, invece, si occupano di

colmare alcune lacune, talvolta clamorose, soprattutto per quel che

riguarda l’igiene personale ed il vestiario dei detenuti. Basti pensare che

spazzolino e dentifricio, in un carcere, sono considerati sopravvitto,

quindi a carico del detenuto che può acquistarli nel magazzino interno,

se ha soldi, altrimenti, evidentemente, si ritiene possa farne a meno. Per i

vestiti il discorso è un po’ più articolato. Può capitare, con una frequenza

maggiore di quello che ci si aspetterebbe, che un detenuto subisca un

trasferimento in un altro istituto, quello che in gergo viene chiamato

sfollamento. Egli porterà con sé soltanto ciò che entrerà nel sacco

consentito dalla norma che, significativamente, è solitamente uno di

quelli destinati alla spazzatura condominiale. Il resto delle sue cose

resteranno nella cella. Un fenomeno tipico della dinamica carceraria è

l’iter dei pacchi portati dai familiari o, comunque, provenienti

dall’esterno che stazionano anche per mesi nel magazzino dell’istituto,

ufficialmente per essere accuratamente controllati. Solitamente questi

pacchi contengono vestiario ma anche altri oggetti dai più profondi

significati, come, per esempio, fotografie di familiari, figli, mogli,

fidanzate ecc.. Ora, durate uno di questi sfollamenti, può capitare che il

pacco presente in magazzino non segua automaticamente il detenuto nel

luogo del trasferimento ma, anzi, può rischiare di andare anche perduto a

meno che non intervenga un volontario che, posto a conoscenza della

cosa, si interessi attivamente del recupero dei beni del detenuto ed abbia

la costanza e la motivazione per affrontare il muro burocratico che

sicuramente gli si parerà di fronte durante tutta l’operazione.

187

Page 188: La Formazione imprigionata

Capitolo Quarto

Il più delle volte il lavoro dei volontari è oscuro ma indispensabile

allo svolgimento di molte delle attività veramente formative all’interno

del carcere. Spesso gli educatori, come abbiamo altrove affermato,

hanno la maggior parte del tempo lavorativo impegnato a risolvere

problemi di ordine amministrativo-burocratico ed i volontari, siano essi

insegnanti, formatori o semplici assistenti, consentono che il carcere sia

un po’ meno una scatola vuota e grigia per chi vi vive all’interno e, al

contempo, consentono all’istituzione stessa di sentirsi e mostrarsi

pubblicamente in una forma più presentabile.

Cosa spinga una persona ad entrare in un carcere come volontario è

argomento molto interessante che in questa sede tratteremo soltanto

marginalmente. Tuttavia vale la pena di riflettere sul dualismo altruismo-

egoismo che, a seconda della loro miscelazione, possono dar vita a

diversi comportamenti e motivazioni negli stessi operatori volontari, sia

carcerari che rivolti ad altri settori, per esempio le case-famiglia.

La tensione interna tra spinte altruistiche e pulsioni egoistiche, così

come analizzata da Moscovici160, dà vita ad un continuum ai cui estremi

abbiamo situazioni di altruismo egoistico ed egoismo altruistico. Con

questo si intende sostenere che non esista un totale disinteresse, nella

relazione altruistica, ma che, anzi essa si fondi essenzialmente

sull’interesse per l’altro ma anche per la realizzazione, più o meno

consapevole, di propri obbiettivi personali.

Una divertente ma calzante classificazione delle tipologie di

volontari presenti nel carcere di Prato ma estensibile a tutto il sistema

penitenziario è stata stilata da Pasquale Scala, responsabile dell’area

160 Serge Moscovici, “Le forme elementari dell’altruismo”, in Serge Moscovici (a cura di), La relazione con l’altro, Milano, Cortina, 1997, p. 100. Orig.: Psychologie sociale des relations à altrui, Paris, Nathan, 1994

188

Page 189: La Formazione imprigionata

Capitolo Quarto

pedagogica del suddetto istituto, durante una lezione nell’ambito di un

corso per volontari carcerari tenutosi a Firenze nel novembre del 2005161.

Abbiamo così il volontario missionario, spinto dall’obbiettivo di

diffondere un qualche messaggio, inteso in senso ampio, quindi sia

politico che religioso; il filantropo, l’altruista perbenista che ha bisogno

di sentirsi utile per qualcuno; il semplice curioso che sfida la paura del

carcere per vedere in faccia i detenuti; l’esistenzialista in cerca della

propria identità e dell’approvazione altrui che forse non è riuscito a

trovare in altri ambiti e spera di trovare laddove la situazione di bisogno

spinge il detenuto ad aggrapparsi a qualunque fonte di aiuto; il

materialista che vuole aiutare ma in concreto, senza troppe chiacchiere:

è il volontario che maggiormente riesce ad ottenere con tenacia ciò che

di materiale il detenuto ha bisogno; l’opportunista è colui che cerca,

attraverso l’esperienza del carcere, di approfondire i suoi studi, di fare

ricerca nel carcere come in un campo-laboratorio, per trarre vantaggi

personali; gli empirici sono coloro che si avvicinano al carcere per trarne

un’esperienza estrema, “esotica”; gli idealisti, invece, lo fanno per il

bisogno intimo di confutare i propri ideali, di metterli in discussione

tramite il carcere, per dar loro ancora più forza; infine troviamo i

volontari pragmatici, quelli, cioè, che non si pongono troppe domande:

hanno la necessità di impiegare in modo produttivo il proprio tempo e se

poi questo tempo impiegato può aprire qualche spiraglio lavorativo tanto

meglio.

Si tratta sicuramente di una classificazione incompleta, come nella

natura delle classificazioni umane, ma a nostro giudizio abbastanza

significativa delle motivazioni che portano una persona ad avvicinarsi al

161 Corso tenutosi a Firenze a cura del CESVOT.

189

Page 190: La Formazione imprigionata

Capitolo Quarto

mondo carcere e, soprattutto, utile a togliere il velo buonista dall’opera

dei volontari per ricollocarli nel novero delle persone normali anche se

fanno cose non-normali.

Purtroppo, in questa classificazione manca una fattispecie che è

quella della pratica della cittadinanza. I beni di cittadinanza (come lo

sono, fra gli altri, la libertà, la salute, la formazione, il riconoscimento

della dignità di persone), sono costosi, ci ricorda Enrico Rusconi:

“Essere cittadini non significa soltanto fruire di beni-diritti soggettivi,

ma impegnarsi a contribuire alla loro produzione. I diritti sono beni

costosi e l’impegno dei cittadini ad assumersene la propria parte non è

frutto di altruismo, ma un comportamento intrinseco allo status di

cittadini, che riconoscono di avere vincoli di reciprocità.[...] I motivi

che portano i cittadini ad assumersi i costi della cittadinanza implicano

il riconoscimento che dimensioni significative della loro identità sono

parte della identità collettiva storicamente condivisa con altri cittadini.

Questa condivisione identitaria si traduce in accettazione di impegni

reciproci di solidarietà, non a titolo privato ma a titolo pubblico, perché

toccano lo status di cittadini che si sono costituiti storicamente in

nazione, la nazione-di-cittadini, appunto”.162

162 Gian Enrico Rusconi, Possiamo fare a meno di una religione civile?, Bari, Laterza, 1999, p. 35.

190

Page 191: La Formazione imprigionata

Conclusioni

Alain Brossat, filosofo francese, intitola nel 2001 un suo libro Pour

en finir avec la prison163. In effetti, alla fine di questo lavoro

sembrerebbe naturale pensare di farla finita col carcere, e non è

un’emozione, è qualcosa che è in discussione da molto tempo. Certo è

che se da una parte abbiamo l’estrema difficoltà di questo sistema di

automodificarsi, dovuta a secoli di storia che lo hanno incrostato e

irrigidito, dall’altra esiste un’opinione pubblica continuamente orientata

al suo rinforzo.

Secondo Brossat non occorre tanto cercare di capire gli spazi vuoti

dei diritti – non-diritti, in carcere – come unica operazione umanitaria

orientata ai detenuti; occorre fare un passo in più per rendere decisivo e

strutturale un cambiamento del carcere, da cloaca sociale ermeticamente

chiusa, a luogo di effettivo recupero dell’individuo alla società collettiva:

recuperare la comunità intera con i suoi punti di vista collettivi, con

un’azione strategica educativa che riesca a non mandare nessuno in

carcere. Se non adottassimo questa strategia otterremmo al massimo

detenuti più curati ma pur sempre detenuti.

Solitamente, è ancora il pensiero del filosofo francese, si ricerca il

diritto negativo (diritto a non… qualcosa) e individuale; non esiste il

diritto ad una politica, in carcere, ad azioni collettive: “[in carcere] non

si può tollerare che si formi il minimo spazio pubblico, il minimo spazio

di auto-organizzazione o di auto-istituzione di una comunità di detenuti.

163 Alain Brossat, Scarcerare la società, Milano, Elèuthera editrice, 2003 (Paris, La Fabrique éditions, 2001)

191

Page 192: La Formazione imprigionata

Conclusioni

[…] Anche quando conserva i diritti civili il detenuto è disconnesso da

tutte le condizioni della cittadinanza (chi vota in carcere e come?). […]

In carcere gli imperativi della sicurezza hanno regolarmente la meglio

su tutto il resto e l’ideologia securitaria del personale penitenziario è

l’alibi sempre invocato da una politica penitenziaria finalizzata a

perpetuare lo stato di gregge amministrativo della popolazione

carceraria”164. Più oltre, egli afferma che “quando il diritto avrà fatto il

suo ingresso in carcere non saremo entrati nell’era del «dopo-carcere»

ma avremo un diritto incarcerato”165.

Le tesi abolizioniste si potrebbero inquadrare nella categoria delle

utopie, oppure darne una lettura pessimistica ricordandoci che i

principali teorizzatori dell’abolizione del carcere o, più in generale, del

sistema penale, provengono da paesi, come l’Olanda e la Scandinavia,

che sembrano non conoscere tutte le perfidie latine del sistema penale,

come l'accentuazione della pena nella pena e la politica delle emergenze

continue; neppure hanno conosciuto bene, come farina del proprio sacco,

le deviazioni totalitarie della democrazia come il fascismo e il nazismo;

neppure il totalitarismo sovietico. Alcuni di loro, lo svedese Christie in

particolare166, sembrano ignorare i risultati del caso italiano, del paese di

164 Brossat, cit., 2003, p.101165 Brossat, cit., 2003, p.108166 Il riferimento è a Nils Christie, Abolire le pene? Il paradosso del sistema penale (1981), Torino, Edizioni Gruppo Abele, 1985. Orig.: Limits to pain, Oxford, Martin Robertson Comp., 1981. Lo studioso propone un’abolizione della pena, più che del carcere in sé, sostituendola con un sistema alternativo che sia in grado di fungere da mediatore nel conflitto generato tra vittima e reo. In un’intervista rilasciata a Zenone Sovilla e pubblicata su “Nonluoghi” il 27 ottobre 2000, egli afferma, comunque: “L'abolizionismo va oltre le mie intenzioni, mi sembra poco realistico. Credo che da un lato vada trasferita a metodi di soluzione alternativi - sul modello del giudice di pace - la gran parte dei reati, ma che dall'altro si debba conservare un sistema di garanzie cui una delle parti (la più debole) possa ricorrere per evitare un accordo iniquo. Se io ti ho spaccato il naso con un pugno e poi tu - che sei socialmente più attrezzato e potente - pretendi da me, oltre alle scuse e alle spiegazioni, un risarcimento che mi renderebbe schiavo, devo poter optare per un normale processo in un'aula di tribunale. Insomma, non si tratta di gettare alle ortiche la forma di difesa dei diritti individuali sviluppata nel corso dei secoli; si tratta di migliorarla... “

192

Page 193: La Formazione imprigionata

Conclusioni

quel dottor Stranamore che fu il positivista-socialista Lombroso, del

paese che oggi ha conosciuto il neopositivismo penale. Nella maggior

parte dei paesi europei che non siano l'Italia le pene sono più brevi, c'è

più certezza sulla quantità di pena da scontare perché c'è meno

esasperazione premiale, i benefici ti vengono in genere concessi

automaticamente a meno che tu non abbia combinato qualche guaio in

carcere, guaio in ogni caso da dimostrare. Qui da noi tutto dipende dal

giudizio dell'équipe che si occupa di te. La prigione delle menti che si

nasconde dietro alla trasformazione del detenuto in un paziente si

aggiunge alla prigione del corpo e aumenta pure quest'ultima.167

Questa ipotesi, tuttavia, ci pare porga il destro a coloro che

affermano, come Tancredi nel “Gattopardo”, che nel nostro paese

bisogna cambiare tutto per non cambiare nulla per lasciare, quindi,

un’istituzione obsoleta nella struttura, inefficace nelle funzioni ed

economicamente assolutamente fallimentare come il carcere, così com’è

oppure, nella migliore delle ipotesi, appoggiarsi ad una distaccata

solidarietà come tappeto sotto il quale nascondere lo sporco.

Una via d’uscita, se non altro metodologica, ce la offre Thomas

Mathiesen, norvegese, che nel 1987 delinea un piano operativo per

l’abolizione del carcere, da lui stesso definito indifendibile168.167 Vincenzo Guagliardo, Dei dolori e delle pene. Saggio abolizionista e sull'obiezione di coscienza, Tivoli, Sensibili alle Foglie, 1997. Reperito sul sito www.ristretti.it il 20 gennaio 2008.168 Thomas Mathiesen, Perché il carcere?, Torino, Edizioni Gruppo Abele, 1996. (Oslo, Pax Forlag, 1987). Scrive, l’autore: “Abbiamo mostrato, in precedenza, la doppiezza delle autorità sul problema del carcere. Da un lato abbiamo presentato una serie di loro dichiarazioni, secondo cui il carcere è indifendibile; e d'altro canto, esse stesse vanno costantemente in cerca di argomenti in suo favore e si tengono stretto il sistema carcerario. Prenderemo allora come punto di partenza la percezione, che esiste ai livelli superiori della politica criminale, del fiasco del carcere. Idealistico? Certo! Ma sono pronto ad accettare critiche di questo tipo, perché ormai è importante, una buona volta, prendere in parola i responsabili della politica criminale per quanto riguarda la loro opinione più fondata. Alcuni anni fa, in Svezia, un ampio dibattito sull'energia nucleare sfociò in una consultazione popolare. I sostenitori del nucleare, noti come il «partito del sì», vinsero. Ma essi stessi ritenevano che l'energia nucleare dovesse essere eliminata entro il 2010. Resta loro una ventina d'anni di tempo. I tempi di smantellamento delle centrali nucleari svedesi possono essere seguiti anche per lo

193

Page 194: La Formazione imprigionata

Conclusioni

Sulla cui falsariga potremmo assegnarci ora, in Europa, una serie di

obbiettivi come del resto si sta facendo in altri settori come, per esempio,

il lavoro oppure l’ambiente.

A proposito del lavoro e dell’occupazione, soprattutto giovanile,

bisogna ricordare che, nel marzo del 2000, si è tenuto a Lisbona un

Consiglio europeo straordinario con l’intento dichiarato di fare

dell’Unione l'economia basata sulla conoscenza più competitiva e

dinamica del mondo, in grado di realizzare una crescita economica

sostenibile con nuovi e migliori posti di lavoro e una maggiore coesione

sociale. La discussione ha prodotto una strategia (la Strategia di Lisbona,

smantellamento del carcere. Si può metterla così: se qualcosa formidabile come l'energia nucleare, con gli interessi e le funzioni che le si intrecciano, viene eliminata entro il 2010, altrettanto si può fare con il carcere. Le funzioni che garantiscono la sopravvivenza del sistema carcerario sono poco più rilevanti delle funzioni attribuite all'energia nucleare dalle società che ne fanno uso. E per quanto riguarda i fini il carcere è, come detto, un puro fiasco, mentre in genere non si può dire altrettanto per l'energia nucleare: dopotutto produce elettricità, anche se la fonte è pericolosa. L'obiettivo che dovrebbero porsi le nostre autorità di politica criminale - legislatori ed esecutori - è smantellare il carcere entro la medesima scadenza posta per lo smantellamento delle centrali nucleari svedesi. Si tratta di un obiettivo ragionevole e di una ragionevole richiesta. Il 2010 è l'anno decisivo.”[…] “Nel periodo di tempo prefissato per l'abolizione, i primi due o tre anni vanno dedicati al dibattito e alla pianificazione. Nel tempo che rimane l'abolizione deve avvenire gradualmente, per poter essere accettata dalla popolazione. Un periodo di circa venti anni, come vedremo oltre, dovrebbe in effetti offrire una garanzia per questa accettazione. Più precisamente l'abolizione dovrebbe svolgersi con rapidità crescente, con un avvio moderato negli anni 1990-95, seguìto da uno smantellamento più accentuato negli anni 1995-2000, considerevolmente accelerato infine negli anni 2000-10.”“L'abolizione può avvenire in tre modi: il primo consiste nel diminuire progressivamente i limiti massimi di pena, seguendo l'andamento della «curva» di abolizione. “[…]“Il secondo procedimento richiede lo smantellamento materiale della struttura carceraria, che dovrebbe avvenire parallelamente alla riduzione del numero dei detenuti prodotta dalla diminuzione dei massimi di pena.” […]“In terzo luogo l'abolizione dovrebbe avvenire mediante il continuo trasferimento delle risorse precedentemente assegnate al sistema carcerario, in ragione di metà della somma risparmiata sul budget delle carceri, al sistema dell'affidamento ai servizi sociali, rivalutando di anno in anno le somme disinvestite […]. E' molto importante che l'affidamento ai servizi sociali, che sarebbe rafforzato in modo eccezionale, non sia organizzato in modo da accrescere la funzione di controllo. E' facile immaginare che sullo sfondo dello smantellamento del carcere possa avvenire qualcosa del genere e bisogna evitarlo, sia "vincolando" specificamente i mezzi finanziari a tre scopi: lavoro, casa e trattamento volontario per coloro che - in misura crescente - verrebbero rilasciati; sia con un "continuo dibattito critico" sulle funzioni di queste misure. Bisogna attendersi che le attività su cui si vincolano i fondi abbiano al tempo stesso un significativo effetto di prevenzione della criminalità. Dopo l'abolizione, si dovrebbe impiegare un corrispondente stanziamento per creare opportunità di lavoro per i gruppi poveri e marginali, ma questo dovrebbe essere integrato amministrativamente nei servizi sociali, per evitare che si sviluppi un sistema di assistenza separato.”

194

Page 195: La Formazione imprigionata

Conclusioni

appunto) che ha fissato non soltanto gli obbiettivi concreti per realizzare

l’intento iniziale ma ne ha delineato anche i tempi di realizzazione fissati

nell’anno 2010, e cioè: raggiungere un tasso medio di crescita economica

del 3% circa; portare il tasso di occupazione delle persone di età

compresa tra 15 e 64 anni al 70%; far arrivare il tasso di occupazione

femminile al 60%.

Attualmente ci sono paesi che hanno raggiunto già il 75%

dell’occupazione mentre in Italia ci attestiamo intorno al 60%.

Nonostante la discrepanza esistente tra i vari paesi dell’Unione, nel

raggiungimento degli obbiettivi, resta valida la considerazione che una

strategia di questo tipo ha senso nella misura in cui essa viene adottata di

comune accordo da tutti i paesi coinvolti. Si tratta di un compito

comune, il ché di per sé legittima l’intervento, tramite risorse particolari,

verso i singoli paesi che non saranno, per le più svariate ragioni, in grado

di raggiungere quegli obbiettivi. Essa ha senso, altresì, in quanto viene

fornita una scadenza precisa ed è attivo un monitoraggio periodico sul

percorso verso i traguardi prefissati.

L’Unione Europea ci ha assegnato altri obbiettivi di quel tipo,

come, per esempio, quello di risolvere il problema energetico e del

mutamento climatico entro 25 anni. Questo rappresenta un problema di

straordinaria complessità, visto soprattutto che, malgrado si ritenga

comunemente il contrario, per combattere la crisi petrolifera non basta

ridurre il consumo di carburante per autoveicoli. Il petrolio è ovunque,

intorno a noi, fa parte del nostro vivere quotidiano, potremmo dire della

nostra cultura. Quindi, è inutile illudersi, non è soltanto un problema

195

Page 196: La Formazione imprigionata

Conclusioni

tecnologico di riduzione dell’inquinamento, va affrontato un mutamento

culturale, e non è poco.

Viene da chiedersi se sia più facile risolvere il problema del

mutamento climatico mondiale oppure fare a meno del carcere.

Sicuramente il carcere offre minori difficoltà oggettive, rispetto al

problema ambientale come pure confrontato col problema della

disoccupazione.

Ma per poter affrontare un tale mutamento occorre che ciascuno si

senta parte di quel mutamento: una volta a conoscenza del problema

nessuno ci legittima a tirarci indietro. Sarebbe, questa, una posizione

moralmente non censurabile ma eticamente discutibile, non ce la

possiamo cavare così a buon mercato. Come dice Rusconi nel brano

riportato in conclusione del precedente capitolo, i beni collettivi costano

e bisogna produrli, non nascono da soli.

Sembrerebbe un problema senza soluzioni; però, la cosa importante,

è che l’idea di farla finita con questi sistemi debba entrare nella cultura.

Entrare nella cultura vuol dire che occorre del tempo, molto tempo, ma

da qualche parte bisogna pur iniziare. Per esempio si potrebbe iniziare

dalla formazione delle persone: bisogna che molte persone, nella loro

formazione, acquistino consapevolezza della possibilità di fare

diversamente, a quel punto tutto diviene possibile.

Potremmo intanto porci l’obbiettivo realistico di avere un sistema

carcerario fatto di ventimila detenuti trattati dignitosamente, piuttosto

che sessantamila trattati in maniera disumana. Questo lo potremmo fare

senza molti sforzi, visto che basterebbe applicare le misure alternative

prima del carcere, togliere di mezzo alcune leggi che non servono a

196

Page 197: La Formazione imprigionata

Conclusioni

nient’altro che a riempire le galere di poveri disgraziati e,

contemporaneamente, potenziare ed attrezzare meglio l’esterno, magari

valorizzando le potenzialità di un privato sociale che, malgrado tutto,

viene ancora considerato secondario rispetto all’istituto.

La legge Basaglia, per portare un altro esempio, è nata in

conseguenza di un mutamento culturale progressivo che ha portato a

ritenere obsoleti i manicomi e, quindi, a chiuderli. Obbiezione facile

sarebbe, a questo punto, quella di affermare che, in quel caso, poco si è

fatto per attrezzare l’esterno, visto che si sono sì svuotati i manicomi ma

si sono messe in crisi le famiglie, quando i pazienti vi hanno fatto

ritorno, e si sono riempite le strade – e le prigioni – di barboni

psichiatrici. Questo, però, ci dovrebbe servire da monito affinché, nel

caso del carcere, si proceda per gradi e pensando contemporaneamente

allo sviluppo delle soluzioni esterne al carcere.

Si creeranno dei sostituti al carcere? Può darsi. Non ci dobbiamo

stupire di fronte all’ipotesi di equivalenti funzionali del carcere, del resto

il carcere stesso rappresenta un equivalente di altri sistemi più cruenti ma

orientati ai medesimi scopi. Dobbiamo, invece, avere ben chiaro che la

convivenza umana si costruisce storicamente, non è già scritta. Se

abbiamo, qui ed ora, gli strumenti e le conoscenze per poter decidere di

fare a meno del carcere, per poterci assegnare obbiettivi analoghi a quelli

delineati da Mathiesen per arrivare ad una certa data alla chiusura delle

carceri, o, comunque per metterci in cammino verso quella direzione,

vuol dire che avremo ancora più conoscenze e strumenti ancora più

avanzati per affrontare gli eventuali equivalenti funzionali.

197

Page 198: La Formazione imprigionata

Conclusioni

I problemi del sistema penitenziario, alcuni dei quali sono emersi

nel corso del presente lavoro, esistono però qui ed ora e non possiamo

aspettare che maturino determinate condizioni per agire nella direzione

del suo superamento. Alcuni elementi assumono, quindi, estrema

rilevanza ed una priorità assoluta. Ad esempio la formazione

professionale di coloro che hanno, a vario titolo, contatto con i detenuti,

a partire dagli educatori penitenziari ma, è bene sottolineare, senza

escludere, anzi considerandolo integrato a pieno titolo, anche del

personale di polizia penitenziaria cui è assegnata per legge una parte

attiva nel trattamento penitenziario169: non è più tempo di guardiani o di

“miopi carcerieri”.

Adriano Sofri, in un’intervista rilasciata al Corriere della Sera

rispose così alla domanda dell’intervistatore che chiedeva da dove

avrebbe dovuto cominciare un politico “lungimirante” per risolvere il

problema del sovraffollamento nelle carceri italiane: “Dalla giustizia.

Infatti quella che viene chiamata «questione carceraria» è la

quintessenza della «questione giustizia». Si continua a separare il

momento del pronunciamento della giustizia dal momento del

trattamento dei corpi.”

“La giustizia si ferma al momento dell’emissione di un verdetto.

Poi l’imputato diventa un corpo che viene passato agli esperti del

trattamento del corpo, che lo buttano in una cella. Invece la chiave di

volta è imparare a tenere in cella solo chi è davvero pericoloso.”

169 Art.5 c.2 della L.395/1990 “Ordinamento del Corpo di Polizia Penitenziaria” : Il Corpo di polizia penitenziaria attende ad assicurare l'esecuzione dei provvedimenti restrittivi della libertà personale; garantisce l'ordine all'interno degli istituti di prevenzione e di pena e ne tutela la sicurezza; partecipa, anche nell'ambito di gruppi di lavoro, alle attività di osservazione e di trattamento rieducativo dei detenuti e degli internati […].

198

Page 199: La Formazione imprigionata

Conclusioni

“La vera modernità è mettere la gente fuori, non metterla dentro.

Puntando sulla reciproca trasparenza della società esterna e dei luoghi

chiusi”[…] “Per esempio migliorando il sistema delle pene alternative e

dei permessi, che è assolutamente inadeguato. Anche per colpa della

miopia e della sciocca cattiveria di chi applica queste leggi. I carcerieri.

Perché sono loro che, come si dice in gergo carcerario, «scrivono».

Cioè ti fanno un «rapporto» se ti capita un qualunque piccolo incidente.

Poco importano le tue ragioni. Il «rapporto» automaticamente ti toglie

qualunque beneficio. Non dei magistrati, ma alcune persone qualunque

che si trovano a fare gli agenti di custodia in una prigione decidono

della tua libertà, delle tue speranze, delle tue aspettative. E’ giusto?”170.

Naturalmente immediata fu la levata di scudi del Sindacato

Autonomo di Polizia Penitenziaria che indirizzò all’allora ministro

Castelli, una vibrata protesta minacciando azioni legali contro il

“carcerato” (sic) Sofri ed il giornale che aveva pubblicato l’articolo.171

Tuttavia, dal coro degli agenti, si levò una voce nuova e controcorrente.

Un Commissario di Polizia Penitenziaria rispose, infatti: “[…] è

sbagliato assumere posizioni drastiche come quella assunta dal

sindacato, che addirittura dice di non poter tollerare oltre la libertà

concessa ad un carcerato che fruisce di agevolazioni di giornali

170 Intervista rilasciata da Adriano Sofri, detenuto a Pisa, a Roberto Delera e pubblicata sul Corriere della Sera del 15 settembre 2004 con il titolo: Sofri: l’indultino? Una beffa, nelle carceri c’è solo disperazione171 Così si legge in una nota del Sappe riportata dall’agenzia Ansa il 15 settembre 2004: "[…] Il Sappe, e tutta la Polizia Penitenziaria si ritengono offesi e vilipesi dalle gravi accuse di «miopia e sciocca cattiveria» indirizzate dal detenuto Sofri al Corpo, per il solo fatto che i poliziotti penitenziari (e non «agenti di custodia» o «carcerieri» come ironicamente ci definisce il carcerato) compiono il proprio dovere elevando rapporti disciplinari a detenuti che infrangono il Regolamento penitenziario. […] Non è più possibile per la Polizia Penitenziaria continuare a subire i farneticanti attacchi che un «signore», condannato e detenuto per gravissimi reati, continua a portare contro un Corpo di Polizia dello Stato è non più tollerabile che grazie all’uso di mass-media compiacenti un detenuto condannato definitivamente possa continuare ad offendere lo Stato ed i suoi rappresentanti".

199

Page 200: La Formazione imprigionata

Conclusioni

compiacenti. In primo luogo credo che queste affermazioni siano

sbagliate solo per il semplice assunto di non concepire che un detenuto,

che rimane un cittadino privo della libertà personale ma ancora titolare

dei diritti civili costituzionalmente garantiti, possa avere questa

possibilità. Non esistono norme che vietino espressamente la possibilità

di usufruire di queste opportunità […]. In secondo luogo, e questa è la

parte secondo me più grave, si rischia la miopia quando si

stigmatizzano affermazioni di questo tenore, lette senza farle rientrare

nel senso generale contenuto nell’articolo, e si ritiene di essere offesi

dal carcerato che può scrivere liberamente sui giornali. Non è ai

fronzoli che bisogna guardare, a mio giudizio, ma alla sostanza. Un

detenuto parla di condizioni inumane, ed in fondo stuzzica il lettore

sull’azione, che egli giudica miope, del carceriere.”

“Io ritengo che un agente debba segnalare i comportamenti

contrari alle norme regolamentari, per il semplice fatto che rientra nei

suoi doveri. Semmai è al livello decisionale che vanno eventualmente

mosse critiche: non si decide con lo stampino, ma le situazioni riferite

dal personale di polizia sui fatti che sono registrati nel quotidiano

devono assumere, con l’eventuale azione disciplinare, un contenuto

educativo. È questa la ratio della parte di regolamento riserva alle

norme sulla disciplina in ambito penitenziario; non esiste, o meglio non

dovrebbe esistere punizione fine a se stessa, ma la comminazione della

sanzione, lo dicono le norme, devono cercare di sortire l’effetto

educativo nei confronti del sanzionato. E peraltro non esiste

automatismo sancito per norma che precluda ad un detenuto rapportato

di usufruire dei benefici; probabilmente è la magistratura di

200

Page 201: La Formazione imprigionata

Conclusioni

sorveglianza che non funziona adeguatamente, perché se si regola solo

sulla presenza o sull’assenza di procedimenti disciplinari per decidere

se concedere o meno un beneficio, allora proprio non ci siamo.”

“Dalla visuale del detenuto l’essere rapportato, per come vanno le

cose, significa non poter sperare nei benefici. Le norme invece

prevedono, per l’accesso ai benefici, anche altri elementi di valutazione,

che insieme al comportamento del soggetto devono portare ad una

valutazione sull’ammissione o meno. Anche questa volta, purtroppo,

credo che ci siamo persi una occasione di sereno e proficuo confronto.

Invece, purtroppo, le occasioni per le polemiche vengono colte al volo,

ed i problemi rimangono al palo.”

“Per finire poi, sul disciplinamento il discorso sarebbe lungo.

Foucault, nel suo "Sorvegliare e punire", ha spiegato molte cose. Credo

che un testo del genere, nell’ambito della formazione del personale di

polizia penitenziaria, sia indispensabile. Ma questi tempi sono lunghi a

venire. Peccato.”172

Quest’ultima nota ci fa capire che il sistema penitenziario non è

omogeneo quanto si pensi; soprattutto continuano a vivere al suo interno

elementi che fanno ben sperare per un suo cambiamento. È su queste

basi che deve poggiare il percorso di modifica del sistema. Non

dobbiamo correre il rischio di gettare il bambino con l’acqua sporca.

Così come esistono agenti lungimiranti e preparati esistono anche

dirigenti, magistrati e politici responsabili, coscienti e motivati di cui non

possiamo fare a meno.

172 Giuseppe Pilumeli, commissario di Polizia Penitenziaria, Comandante presso la Casa Circondariale di Prato, in una sua lettera pubblicata sul sito www.ristretti.it in data 16 settembre 2004

201

Page 202: La Formazione imprigionata

Conclusioni

Per questo riteniamo si debba andare nella direzione di un

superamento del sistema penale attuale partendo dalla sensibilizzazione

di tutti attraverso un coinvolgimento ed una responsabilizzazione

collettiva facendo tuttavia attenzione ad evitare compromessi di comodo,

come il recente indulto. Don Oreste Benzi, a coloro che obbiettavano

sulla reale possibilità di realizzare effettivamente le sue proposte audaci

e proponevano soluzioni di compromesso, rispondeva: “Non dobbiamo

cercare le soluzioni possibili ma rendere possibili le soluzioni”.

202

Page 203: La Formazione imprigionata

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Siti web visitati negli ultimi sei mesi:

www.ristretti.it: sito del Centro di Documentazione Due Palazzi, attivo

nella Casa di Reclusione di Padova da circa sette anni. Ne fanno parte il

Gruppo Rassegna Stampa e la redazione del periodico Ristretti

Orizzonti. Complessivamente vi lavorano oltre settanta persone, tra

detenuti e volontari esterni.

www.ohchr.org/english/law/treatmentprisoners.htm: sito dell’Alto

Commissariato per i Diritti Umani presso le Nazioni Unite. L’indirizzo

completo riportato conduce al testo delle Regole Standard Minime per il

Trattamento dei Detenuti adottate dal primo congresso delle Nazioni

Unite sulla prevenzione del crimine

www.giustizia.it: sito del Ministero della Giustizia italiano da cui

abbiamo estrapolato molti dei dati statistici del Dipartimento

dell’Amministrazione Penitenziaria utilizzati nel presente lavoro.

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