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1 GLI IMMIGRATI NEL MERCATO DEL LAVORO a cura del Centro Studi e Ricerche Idos INDICE 1. Dai dati ai modelli analitici: una lettura induttiva 2. La flessibilizzazione del mercato del lavoro e l’inserimento degli stranieri. Gli anni della crescita 3. Dal consolidamento della domanda al consolidamento degli studi sui lavoratori stranieri: le Indagini Istat sulle Forze Lavoro 4. Gli anni della crisi e le strategie di resistenza dei lavoratori stranieri 5. Dieci anni di internità nella subalternità PAROLE CHIAVE Immigrazione, lavoro, economia, Pil, imprenditoria, reti etniche, Decreti flussi, sanatoria, regolarizzazione, occupazione (tasso di), disoccupazione (tasso di), occupati, assunti, saldi occupazionali, settori, comparti, sottoinquadramento, sottoutilizzo, integrazione subalterna, reti etniche, segmentazione, crisi.

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GLI IMMIGRATI NEL MERCATO DEL LAVORO

a cura del Centro Studi e Ricerche Idos

INDICE

1. Dai dati ai modelli analitici: una lettura induttiva

2. La flessibilizzazione del mercato del lavoro e l’inserimento degli stranieri. Gli

anni della crescita

3. Dal consolidamento della domanda al consolidamento degli studi sui lavoratori

stranieri: le Indagini Istat sulle Forze Lavoro

4. Gli anni della crisi e le strategie di resistenza dei lavoratori stranieri

5. Dieci anni di internità nella subalternità

PAROLE CHIAVE

Immigrazione, lavoro, economia, Pil, imprenditoria, reti etniche, Decreti

flussi, sanatoria, regolarizzazione, occupazione (tasso di), disoccupazione

(tasso di), occupati, assunti, saldi occupazionali, settori, comparti,

sottoinquadramento, sottoutilizzo, integrazione subalterna, reti etniche,

segmentazione, crisi.

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BIBLIOGRAFIA

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Inps, in collaborazione con Idos - Dossier Statistico Immigrazione Caritas e Migrantes, Regolarità,

normalità, tutela. II° Rapporto su immigrati e previdenza negli archivi Inps (in http://www.inps.it)

Inps, collaborazione con Idos - Dossier Statistico Immigrazione Caritas e Migrantes, Diversità

culturale, identità di tutela. III Rapporto su immigrati e previdenza negli archivi Inps (in

http://www.inps.it)

Inps, in collaborazione con Idos - Dossier Statistico Immigrazione Caritas e Migrantes, La

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negli archivi INPS, Edizioni Idos, Roma, 2011 (in http://www.inps.it)

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Unioncamere, Sistema informativo Excelsior. I fabbisogni occupazionali delle imprese italiane

nell’industria e nei servizi (varie annualità) (in http://excelsior.unioncamere.net/)

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GLI IMMIGRATI NEL MERCATO DEL LAVORO ITALIANO: L’EVOLUZIONE

DELL’ULTIMO DECENNIO

1. DAI DATI AI MODELLI ANALITICI: UNA LETTURA INDUTTIVA

Il fenomeno dell’immigrazione, il cui inizio può collocarsi in Italia a partire dagli anni ’70,

ha dovuto aspettare tempi più lunghi per essere accompagnato da una conoscenza statistica

affidabile e articolata, sia in termini generali, che per quanto concerne il tema oggetto di questo

contributo, l’inserimento lavorativo degli immigrati nel nostro Paese. A distanza di quasi 40 anni, è

opportuno ripercorrere questo tracciato e riflettere su quale modello di inserimento occupazionale

degli stranieri provenienti da Paesi a forte pressione migratoria si sia costruito e quanto questo sia

mutato nel corso del tempo.

Le statistiche utili a studiare la presenza e l’inserimento dei lavoratori immigrati in Italia

possono riassumersi in due grandi gruppi, i dati amministrativi e quelli campionari. Al primo

gruppo appartengono le iscrizioni di lavoratori nati in un Paese estero negli archivi Inail e Inps, i

permessi di soggiorno rilasciati per motivi di lavoro e le registrazioni di lavoratori stranieri presso i

Centri per l’Impiego (iscrizioni, avviamenti e cessazioni); l’esempio più noto di fonte appartenente

al secondo gruppo è, invece, la Rilevazione sulle Forze lavoro straniere condotta dall’Istat.

Ognuna di queste fonti ha una propria specificità, non tutte misurano i medesimi aspetti o

condividono le stesse definizioni. La condizione di disoccupazione rilevata dalle indagini

campionarie dell’Istat, ad esempio, fa riferimento a tutti coloro che hanno dichiarato di trovarsi,

nella settimana immediatamente precedente l’intervista, senza lavoro e disponibili a cercarlo. Una

definizione molto diversa da quella utilizzata dai Centri per l’Impiego, per i quali invece sono

disoccupati tutti gli iscritti alle liste di collocamento, nonostante sia noto che non tutti i disoccupati

vi si iscrivono, che non tutti coloro che vi si iscrivono si attivano poi concretamente per cercare

un’occupazione e che non si possa escludere che gli iscritti non svolgano in assoluto alcuna forma

di occupazione. L’Istat, d’altra parte, intercetta solo le famiglie residenti, e quindi non dà conto di

tutti gli altri lavoratori stranieri, che non rientrano nel campione (autorizzati al soggiorno ma non

iscritti in anagrafe, lavoratori stagionali, persone che vivono negli stessi alloggi per motivi di

convenienza, come è nel caso di molti addetti al lavoro domestico e di cura). Infine, la stessa

definizione di straniero può differire da una fonte all’altra, laddove negli archivi Inail e Inps sono

considerati stranieri tutti i lavoratori nati all’estero, al di là della loro effettiva cittadinanza, mentre

nelle indagini Istat sono considerati tali solo i lavoratori di cittadinanza straniera.

Un’analisi di tipo storico dell’inserimento lavorativo degli immigrati in Italia, quindi, deve

poter fare affidamento su un uso compendiato di tutte le fonti a disposizione e di dati confrontabili

nel tempo, oltre che, per esempio, a livello territoriale. Va, però, precisato che alcuni dati sono stati

rivisti negli anni successivi, per il fatto che derivano da archivi statistici viventi, dunque mobili nel

corso del tempo: è il caso degli archivi Inail, che spesso registrano in ritardo lavoratori la cui

posizione lavorativa era stata avviata in anni precedenti, o dei permessi di soggiorno, che a distanza

di circa 6 mesi dalla pubblicazione del Ministero dell’Interno vengono sottoposti a revisione

dall’Istat, risultando così più numerosi di quanto emerso a chiusura di anno.

Poiché non tutte le fonti sul lavoro degli immigrati sono state disponibili sin dalla comparsa

del fenomeno, ci si soffermerà sugli ultimi dieci anni, provando a tracciare l’evoluzione della

presenza degli immigrati nel mercato del lavoro italiano dal 2001 al 2011. Sono questi anni

particolarmente significativi anche perché tra la fine degli anni ’90 e gli inizi del 2000 gli immigrati

regolari in Italia superano per la prima volta il milione di soggiornanti, assumendo così una

dimensione di assoluto rilievo per gli equilibri del sistema produttivo e occupazionale del Paese.

Le edizioni di quegli anni del Dossier Statistico Immigrazione della Caritas e della

Migrantes, curate dal Centro Studi e Ricerche Idos, consentono di ripercorrere, anno per anno,

l’andamento del fenomeno. La metodologia seguita è di tipo induttivo e rimanda alle edizioni

annuali del Dossier, a loro volta basate sulla produzione statistica e sulla pubblicistica dell’anno di

riferimento. Il progressivo inserimento di lavoratori stranieri viene così seguito e presentato

secondo la sensibilità del tempo, pur nella consapevolezza che a posteriori, specialmente a partire

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dal quinto anno di crisi dal fallimento della Lehman Brothers (autunno 2007), la stessa evoluzione

sarebbe stata presentata in maniera differente.

La ripartizione del decennio per singoli anni e la presentazione per ciascun anno dei

principali dati statistici sul mercato del lavoro, da un lato facilitano la consultazione e dall’altro

aiutano a individuare quegli aspetti che, specialmente nell’ultimo decennio, hanno maggiormente

contribuito a orientare l’inserimento lavorativo degli immigrati in Italia.

2. LA FLESSIBILIZZAZIONE DEL MERCATO DEL LAVORO E L’INSERIMENTO CRESCENTE DEGLI

STRANIERI

All’inizio del 2000 il mercato del lavoro italiano registra circa 20.617.000 occupati

complessivi e, a seguito della progressiva applicazione del cosiddetto “Pacchetto Treu” approvato

nel 1997 (L. n. 196/1997), inizia a caratterizzarsi per la crescita della flessibilità e delle nuove

forme del lavoro atipico (part-time, lavoro a tempo determinato, contratti di formazione-lavoro,

ecc.). Il tasso di disoccupazione medio dell’11,4% (6,7% quello di lunga durata) nasconde profonde

divaricazioni tra le diverse aree geografiche: 22,1% nel Mezzogiorno (con il valore massimo del

28,1% in Calabria) a fronte del 5,2% del Nord e del 4,3% nel Nord-Est. Il dato più preoccupante

riguarda il tasso di disoccupazione giovanile nel Mezzogiorno, pari al 57,1% (quasi 40 punti

percentuali in più rispetto al Nord) e al 64,2% tra le donne. Una netta separazione tra le due aree del

paese è segnata anche dal tasso di disoccupazione di lunga durata: al Nord gli individui disoccupati

da più di un anno ammontano al 2,0%, mentre nel Mezzogiorno sono complessivamente il 14,8% (e

ben il 21,7% tra le donne).

In questo contesto, il sociologo Maurizio Ambrosini, nel descrivere le caratteristiche del

mercato occupazionale italiano (Utili invasori, Milano, Franco Angeli, 1999) e le modalità con cui

vi si inseriscono i lavoratori immigrati, individua i seguenti fattori:

rilevante ruolo delle piccole imprese (in prevalenza nelle regioni del Centro e del Nord Est);

importanza del basso terziario urbano;

precarietà occupazionale;

lavori pesanti e disagiati;

elevati livelli di irregolarità, con notevoli differenze territoriali;

maggiore propensione alla mobilità dei lavoratori stranieri rispetto ai lavoratori italiani;

ricorso alla manodopera immigrata, ma in assenza di una programmazione e di una

concertazione tra politiche economiche e politiche sociali.

All’interno di un siffatto quadro generale, l’inserimento lavorativo degli immigrati vede

consolidarsi quanto già si era iniziato ad osservare nei primi anni ’90, quando l’occupazione

straniera nelle imprese italiane aveva mostrato un dinamismo più elevato rispetto a quello della

popolazione autoctona, anche se tra il 1992 e il 1993 il sistema italiano aveva conosciuto una grave

crisi economica. I lavoratori immigrati, negli anni precedenti, si erano mostrati in grado di cogliere

prontamente la favorevole congiuntura economica, anche grazie a una maggiore flessibilità e

capacità di adattamento. Nonostante questo, si afferma e si rafforza il luogo comune che nega il

ruolo di supplenza e complementarietà da essi svolto, a fronte di un’offerta di lavoro autoctona

insufficiente in alcuni settori e per determinate caratteristiche professionali. Tale supplenza trova

riscontro invece nei dati sull’andamento mensile dell’occupazione degli immigrati, che attestano

l’utilizzo crescente dei lavoratori stranieri per saturare esigenze temporanee e stagionali.

L’8 febbraio 2000 viene emanato il Decreto flussi per lo stesso anno, provvedimento che

stabilisce il numero massimo di lavoratori stranieri non comunitari ammessi nel Paese nel corso

dell’anno. Il provvedimento si basa sul documento programmatico triennale previsto dalla legge

40/1998, che definisce i criteri generali per la gestione di tali flussi di ingresso nel territorio dello

Stato, criteri in base ai quali stabilire la quota massima degli stranieri da ammettere con visti per

lavoro dipendente, lavoro autonomo e professionale. Il decreto annuale tiene conto:

dei ricongiungimenti familiari e delle persone ammesse per misure di protezione

temporanea, avendo queste ultime diritto a svolgere un’attività lavorativa;

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dell’andamento dell’occupazione e della disoccupazione per qualifiche e mansioni, come

anche del numero dei cittadini non appartenenti all’UE iscritti alle liste di collocamento.

Il Decreto stabilisce di ammettere in Italia «per motivi di lavoro subordinato, anche a

carattere stagionale, e di lavoro autonomo, i cittadini stranieri non comunitari residenti all’estero,

entro una quota totale massima di 63.000 persone». Nel provvedimento è contenuta una prima

articolazione di tale quota, poi ulteriormente dettagliata attraverso quattro circolari successive.

A fronte della programmazione stabilita, vengono concesse 58.038 autorizzazioni a persone

provenienti dall’estero, di cui 15.000 con prestazione di garanzia rilasciata direttamente dalle

questure, 3.568 tramite le apposite liste presso le ambasciate italiane in Albania, Tunisia e Marocco

e 1.788 rilasciate dalle Rappresentanze diplomatiche italiane per lavoro autonomo. Le regioni che

usufruiscono maggiormente di tali provvedimenti sono quelle del Nord Est, che ottengono

complessivamente oltre il 68,0% di tutte le autorizzazioni al lavoro dall’estero ed oltre il 90% di

quelle per lavoro stagionale. In particolare, il solo Trentino Alto Adige ottiene il 37,0% di tutte le

autorizzazioni concesse e il 65,0% di tutte quelle relative al lavoro stagionale.

A livello nazionale il 46,6% delle persone autorizzate all’ingresso per lavoro trova sbocco

nell’agricoltura, il 18,4% nell’industria e il 35,0% nel terziario, con la componente a tempo

indeterminato che, tendenzialmente assente in agricoltura (dove rappresenta soltanto il 4,4%), è

invece fortemente presente nel terziario (circa il 65,0%) e – soprattutto – nell’industria, dove

raccoglie l’88,4% degli inserimenti. A livello di macro area le differenze sono molto sensibili:

l’agricoltura rappresenta lo sbocco prevalente nel Nord Est (58,0% delle autorizzazioni al lavoro),

ma quasi esclusivamente con rapporti a tempo determinato (98,6% dei casi); l’opposto, invece, si

registra nelle Isole, dove l’agricoltura rappresenta uno sbocco soltanto nel 12,0% dei casi, ma per il

44,0% con rapporti a tempo indeterminato. Le Isole sono fortemente rappresentate nel settore

terziario, dove si concentra il 75,0% delle autorizzazioni per lavoro dall’estero, mentre nel Sud, nel

Centro e nel Nord Ovest il terziario ne raccoglie poco più del 50,0%, in massima parte a tempo

indeterminato (fino al 94,0% nel Centro). Il settore industriale, invece, costituisce uno sbocco

rilevante solo nel Nord Ovest (28,0%) e nel Centro (25,0%), mentre nel Meridione il suo peso è

decisamente inferiore (11,0% nel Sud e 16,0% nel Nord Est).

Considerando i Paesi di provenienza, va sottolineata la rilevanza assunta da quelli

dell’Europa dell’Est (una novità per quegli anni), che occupano ben otto tra i primi dodici posti

della graduatoria delle autorizzazioni concesse, assorbendone il 71,3% (e addirittura l’85,2% di

quelle per lavoro stagionale). La Romania copre da sola il 20% di tutte le autorizzazioni al lavoro e

la Polonia oltre il 23% di quelle per lavoro stagionale, seguita da Slovacchia (20,6%) e Repubblica

Ceca (14,6%); questi quattro Paesi coprono complessivamente oltre il 70% del fabbisogno di

lavoratori stagionali.

Nel corso dello stesso anno, gli archivi Inail registrano un saldo occupazionale annuo

positivo di 110.575 unità per i lavoratori stranieri per effetto dei nuovi ingressi per lavoro stabiliti

dal Decreto flussi, dell’accesso al lavoro di familiari di immigrati già presenti e dell’occupazione di

altri immigrati in precedenza disoccupati. Il saldo positivo, dovuto alla differenza tra 512.580

assunzioni e 402.005 cessazioni, è il segno del grande dinamismo del mercato del lavoro nel suo

insieme e di quello immigrato più in particolare e quindi della rilevanza ricoperta in esso dai lavori

a termine o a carattere stagionale. A riprova di un mercato segmentato, ma comunque orientato alla

crescita, le assunzioni, almeno in termini relativi, prevalgono sulle cessazioni in misura più

rilevante tra gli stranieri di quanto non avvenga nello stesso periodo per la totalità dei lavoratori,

che pure aumentato sensibilmente (+27,5% vs +16,8%).

L’incidenza degli immigrati sul totale delle assunzioni (8,6%) supera la media nazionale nel

Nord (Nord Ovest 10,5% e Nord Est 13,6%), mentre nelle altre aree è inferiore, in misura molto

limitata nel Centro (8,2%) e molto più consistente nel Mezzogiorno (Sud 3,7% e Isole 3,4%).

La mancata corrispondenza tra l’aumento dei lavoratori stranieri registrato dall’Inail e le

autorizzazioni all’ingresso concesse nell’anno a nuovi lavoratori stranieri, va imputata al fatto che i

neoassunti non sono necessariamente le stesse persone entrate a seguito di nulla osta rilasciato sulla

base delle quote di ingresso, ma anche persone già presenti in Italia e in possesso di un titolo di

soggiorno abilitante allo svolgimento di attività lavorativa non espletata in precedenza; vanno

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considerati, inoltre, i tempi burocratici per l’espletamento delle pratiche di ingresso e di assunzione,

che possono indurre un certo sfasamento temporale.

L’archivio forse più utile a ricavare il numero totale di lavoratori stranieri presenti in Italia

nel 2000 è, però, quello dei permessi di soggiorno rivisto dall’Istat, che conta per quell’anno

837.945 soggiornanti per motivi di lavoro, numero che rimarrà tendenzialmente stabile anche negli

anni 2001 e 2002, e che supererà il milione di persone solo nel 2003, a seguito della “grande

regolarizzazione” indetta l’anno precedente.

Infine, l’archivio Inps, registra nel 2000 un aumento di immigrati dipendenti dalle aziende

del Paese di circa 32mila unità rispetto al 1999. In precedenza, un aumento paragonabile si era

verificato solo nel 1996, quando l’incremento era stato di 29.950 unità (in termini percentuali di 27

punti). Il 1996 e il 2000 hanno in comune il fatto di essere degli anni a ridosso di una sanatoria, la

prima disposta nel novembre 1995 e chiusa l’anno successivo, la seconda disposta nel novembre

1998 e espletata in parte nel 1999, in parte nel 2000 e in parte anche successivamente. Va inoltre

considerato che la concreta applicazione del sistema delle quote introdotto dalla legge 40/1998

consentiva di affiancare alla chiamata nominativa (prima unico meccanismo di ingresso per lavoro)

il ricorso alle liste di lavoratori concordate con i Paesi convenzionati, la venuta sotto garanzia altrui

o sotto autogaranzia (quest’ultima, a dire il vero, rimasta solo una possibilità teorica) e nuove

possibilità anche per i lavoratori stagionali.

Nonostante le difficoltà di comparazione dei dati dei diversi archivi, il Dossier Statistico

Immigrazione Caritas e Migrantes stima che alla fine dell’anno i lavoratori immigrati si inseriscano

per il 13% nel settore agricolo, per il 28% nell’industria e per il 59% nei servizi.

Inoltre, tenendo conto delle difficoltà di trasmissione dei dati dei Centri per l’impiego (di

competenza provinciale) al Ministero del Lavoro, il Dossier Statistico Immigrazione stima anche le

cifre relative alla disoccupazione degli immigrati alla fine del 2000, utilizzando i dati sui permessi

di soggiorno per motivi di lavoro validi a fine anno (in particolare quelli per attesa occupazione,

iscrizione alle liste di collocamento, ricerca per lavoro ex articolo 23 e inserimento nel mercato del

lavoro). A tale data gli immigrati in possesso di un permesso attestante lo status di disoccupati

risultano 91.040, l’87% dei quali rappresentati da disoccupati già presenti nel Paese e soltanto il

13% residuo dai nuovi ingressi per ricerca lavoro o per inserimento nel mercato del lavoro. I

disoccupati stranieri costituiscono, cioè circa il 7% di tutti gli immigrati regolari, circa l’11% di

tutte le forze di lavoro immigrate e il 4% di tutti i disoccupati italiani. Va tuttavia considerato che

tra i permessi di soggiorno con tali motivazioni e l’effettiva condizione di disoccupazione non c’è

una perfetta corrispondenza: molti disoccupati effettivi potrebbero avere un permesso di soggiorno

per lavoro ancora valido e non averlo convertito in un permesso per ricerca di lavoro nel momento

in cui hanno perduto l’occupazione; viceversa, altri che avevano ottenuto un permesso legato allo

status di disoccupazione, potrebbero avere nel frattempo trovato lavoro senza aver ancora convertito

il permesso. Ma, in assenza di dati più affidabili, tali cifre possono comunque costituire indicazioni

di massima molto preziose sulle dinamiche occupazionali del momento.

Il 2001 segna per l’Italia una fase congiunturale d’arresto rispetto alla precedente tendenza

espansiva, anche se l’attività economica aggregata non registra cadute di rilievo. Si assiste alla

creazione di 335mila nuovi posti di lavoro a tempo indeterminato e di 55mila a termine o a tempo

parziale, dopo un periodo – tra il 1997 e il 2000 – nel quale il lavoro dipendente full-time era

cresciuto solo dell’1,0%, mentre quello temporaneo e quello part-time erano aumentati entrambi del

26,0%.

Le nuove forme di lavoro, pur non comportando la soppressione di quelle classiche,

coinvolgono soprattutto lavoratori a bassa qualifica e privi di precedenti esperienze lavorative e

sono preferite dalle imprese per la loro flessibilità. Per queste ragioni, i posti di lavoro non coperti

dai tradizionali contratti, tenendo conto anche delle collaborazioni coordinate e continuative,

superano ormai i tre milioni e coinvolgono il 23% degli occupati nell’industria e nei servizi, in

prevalenza le donne. Complessivamente, dal 1996 al 2001 i contratti di lavoro atipici sono

aumentati del 40,5%.

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Con una serie di atti diversi, il Ministero del Lavoro autorizza nel corso dell’anno l’ingresso

di 83.000 stranieri non comunitari per ragioni di lavoro (di cui 39.400 stagionali). A fronte di tale

provvedimento, le autorizzazioni registrate sono 50.881, di cui 32.545 a tempo determinato (69,9%

nell’agricoltura, 2,9% nell’industria, 27,2% nei servizi).

Tra le nazioni di provenienza spiccano la Romania (16,8%), la Polonia (14,8%) e l’Albania

(12,7%).

Il saldo tra le assunzioni e le cessazioni relative a lavoratori stranieri attestato dai dati Inail

risulta leggermente inferiore all’anno precedente, ma continua ad essere positivo (+98.386 unità).

Nel frattempo, essendo in atto il processo di riforma dei Centri per l’impiego, non è possibile

disporre dei dati relativi agli immigrati disoccupati. L’incidenza dei permessi rilasciati per

iscrizione al collocamento sul totale dei permessi per lavoro dipendente ed autonomo, utile a

valutare l’area della disoccupazione, è pari al 10%.

Alla fine dell’anno l’archivio dei permessi di soggiorno del Ministero dell’Interno, rivisto

dall’Istat, registra un numero di stranieri regolarmente soggiornanti per motivi di lavoro pari a

840.966 persone.

Il 2002 è l’anno in cui viene approvata la legge n. 189 sull’immigrazione – più conosciuta

come “Bossi-Fini” –, che entra in vigore il 10 settembre, modificando in senso restrittivo l’impianto

normativo preesistente. La nuova normativa prevede – tra le altre cose – l’introduzione del contratto

di soggiorno e l’abolizione della possibilità di entrare in Italia per ricerca di lavoro; l’indizione di

una regolarizzazione, con la possibilità di regolarizzare un solo lavoratore domestico per famiglia

(ma senza alcun limite per addetti alla cura di persone non autosufficienti) e di regolarizzare, per

ogni datore di lavoro, i dipendenti stranieri non in regola con uno stipendio superiore a 439 euro

(fornendo garanzie sulla disponibilità di un alloggio per il lavoratore); la possibilità per ogni

cittadino non comunitario in regola di essere raggiunto dal coniuge, dai figli minori o dai figli

maggiorenni purché a carico e impossibilitati a provvedere al proprio sostentamento.

Tale provvedimento si inserisce in un contesto che, a livello mondiale, continua a

manifestare segnali di debolezza, caratterizzato da grandi tensioni politiche internazionali (dopo

l’attentato alle Torri Gemelle) e generale incertezza dei mercati finanziari, aggravata da una

notevole impennata del prezzo del petrolio. All’interno di questa cornice, la situazione italiana

appare piuttosto problematica, con un tasso di crescita del Pil pari alla metà di quello dei Paesi

dell’unione monetaria (appena lo 0,4%), investimenti stranieri prossimi a zero, salari reali cresciuti

meno della produttività e un tasso di inflazione elevato (2,5%), probabilmente anche a seguito del

passaggio dalla lira all’euro. Il confronto con i Paesi europei mostra l’Italia in una condizione di

svantaggio su più fronti, con un tasso di attività sensibilmente inferiore alla media Ue (60,3% vs

69,0%), al pari del tasso di occupazione (54,5% vs 63,9%), e un tasso di disoccupazione superiore

(9,6% vs 7,4%). Altri indicatori che non offrono segnali confortanti sono il calo demografico, la

carenza di manodopera, le infrastrutture insufficienti. L’economia più dinamica, quella del Nord

Est, inizia a delocalizzare le proprie unità produttive (prima in Romania e poi nei mercati asiatici, a

partire dalla Cina), sia quelle a carattere manifatturiero e a minor valore aggiunto, per fruire di

manodopera a più basso costo, sia le produzioni tecnologicamente più avanzate, per aprirsi a nuovi

mercati, lasciando però sul territorio i centri di ricerca, progettazione, marketing e finanza.

Nello stesso anno viene sostanzialmente completato il percorso di modifica della normativa

in materia di collocamento, regolata da nuovi provvedimenti emanati a partire dal 2000:

- decreto legislativo 21 aprile 2000, n. 181, “Disposizioni per agevolare l’incontro tra

domanda e offerta di lavoro”;

- d.p.r. 7 luglio 2000, n. 442, “Regolamento recante norme per la semplificazione del

procedimento per il collocamento ordinario dei lavoratori”;

- decreti ministeriali 30 maggio 2001 riguardanti contenuto e modalità di trattamento

dell’elenco anagrafico, della codifica di base delle professioni, della classificazione dei

lavoratori e della scheda professionale;

- decreto legislativo 19 dicembre 2002, n. 297, “Disposizioni modificative e correttive del

decreto legislativo 181/2000.

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La drastica modifica del collocamento pubblico – che tra l’altro abolisce le liste di

collocamento (sostituite dalle schede professionali e anagrafiche dei lavoratori), modifica le

modalità di comunicazione fra i datori di lavoro, i Centri per l’impiego e gli altri soggetti

amministrativi, quali l’Inps e l’Inail, attraverso la definizione di un modello unificato per le

comunicazioni relative ad assunzione, cessazione o trasformazione del rapporto di lavoro – ha il

fine di agevolare l’incontro tra domanda e offerta di lavoro, conferendo ai Centri per l’impiego un

ruolo più attivo per l’inserimento e la formazione/riqualificazione dei lavoratori. Il panorama che ne

risulta è abbastanza complesso e non sorretto da un’esperienza adeguatamente stabilizzata.

In questo contesto la programmazione dei flussi per il 2002 viene realizzata inizialmente a

più riprese con diversi decreti del Ministro del Lavoro (le quote di stagionali sono di 33.000 il 4

febbraio, di 6.400 il 12 marzo, di 6.600 il 22 maggio e di 10.000 il 16 luglio) che autorizzano

complessivamente 56.000 ingressi per lavoro stagionale (oltre a 3.000 ingressi per lavoro

autonomo). Nonostante le critiche mosse dall’opposizione, non vengono seguite le modalità

previste dalla legge Turco-Napolitano (vigente senza modifiche per buona parte dell’anno) e, anche

in previsione di una eventuale regolarizzazione, si preferisce attendere la legge Bossi-Fini, entrata

in vigore nel mese di settembre. L’atto formale di programmazione dei flussi per il 2002 è quindi

tardivo: si tratta del decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri del 15 ottobre 2002 (Gazzetta

Ufficiale 15 novembre 2002, n. 268), che non a caso trova concreta applicazione nel 2003 e la cui

efficacia viene prorogata fino al 31 marzo dello stesso anno. Il decreto autorizza 20.500 ingressi, di

cui 4.000 per lavoro stagionale.

Non mancano le critiche al nuovo sistema di regolazione dei flussi configurato dalla

normativa. Ad esempio, l’economista Tito Boeri lamenta una eccessiva rigidità burocratica

(“Immigrati, la via del realismo”, Il Sole 24Ore, 3 giugno 2003): «L’immigrato dovrebbe, innanzi

tutto, avere trovato lavoro ancora prima di venire in Italia. In altre parole, i nostri efficientissimi

uffici di collocamento dovrebbero cominciare a notificare i posti vacanti in Marocco, Sri Lanka

ecc.». Il carico degli adempimenti burocratici in caso di assunzioni, unito al fatto che gli immigrati

cambiano mediamente lavoro due volte l’anno, diventa un fattore di intasamento degli sportelli

unici polifunzionali, che devono anche sbrigare i rinnovi dei permessi già in essere.

Nonostante tutte queste criticità, il saldo occupazionale dei lavoratori immigrati anche nel

2002 risulta positivo e sale a 140.222 unità, incidendo per il 26,8% sul totale del saldo complessivo

(da 19,8% nel 2001).

Tenendo conto delle variazioni intervenute nella normativa in materia di immigrazione e

della regolarizzazione (che però si riflette sulle statistiche lavorative soprattutto a partire dall’anno

successivo), rapportando il numero degli stranieri senza lavoro registrati al 31 dicembre 2002

(43.116) a quello dei titolari di permesso di soggiorno per motivi di lavoro alla stessa data

(834.478), si ricava un valore molto contenuto e pari al del 5%.

A distanza di qualche mese, l’Istat ha rivisto il numero di permessi di soggiorno rilasciati

per motivi di lavoro a fine anno, attestandone 829.761.

All’inizio del 2003 il panorama occupazionale italiano, con riferimento ai lavoratori

immigrati, può essere così riassunto:

crescita delle assunzioni di lavoratori non comunitari;

aumento delle assunzioni più consistente nelle aree economicamente più dinamiche;

necessità di lavoratori immigrati anche nelle zone economicamente più deboli;

segregazione occupazionale dei lavoratori stranieri nelle cosiddette “nicchie etniche” (ne è

un esempio il settore domestico, peraltro in forte aumento a seguito della regolarizzazione),

ma anche inizio di un primo e timido inserimento anche a livelli più alti;

gli immigrati restano, comunque, i “salariati della precarietà” per eccellenza (L. Gallino, Il

costo umano della flessibilità, Bari, Laterza, 2001, p. 35), in quanto per lo più assunti con

contratti a tempo parziale o a tempo determinato e continuamente costretti ad entrare nel

mercato e ad uscirne per rientrarvi nuovamente;

crescita delle iniziative di imprenditorialità promosse dagli immigrati.

9

Il 5 febbraio 2003 il Senato approva in via definitiva la riforma del mercato del lavoro

(legge 30/2003), recependo le indicazioni del “Libro Bianco” curato dal prof. Marco Biagi e

aprendo la via ai decreti legislativi di attuazione. Si tratta di un’apertura a nuove flessibilità e forme

contrattuali (job sharing, staff leasing, outsourcing, job on call). La legge, inoltre, liberalizza il

collocamento (saranno i privati a gestire l’intermediazione tra domanda e offerta di lavoro) e

introduce nuove norme sulla collaborazione coordinata e continuativa e su alcune altre forme

contrattuali già esistenti. Tutte innovazioni che riguarderanno, ovviamente, anche la manodopera

immigrata. Tuttavia, secondo l’Istat nel 2003 il Prodotto interno lordo aumenta solo dello 0,4%, la

quota italiana nel commercio mondiale diminuisce ulteriormente, il saldo attivo della bilancia

commerciale si riduce, l’inflazione arriva al 2,7% (più alta rispetto alla media UE), la pressione

fiscale passa dal 41,9% al 42,8% e la produzione industriale diminuisce, con una flessione di 24mila

posti di lavoro nell’industria e una crescita di 3mila posti nei servizi. L’economia perde colpi anche

in regioni forti come la Lombardia, che in precedenza era stata l’area più trainante. La stagnazione

dell’economia italiana si protrae ormai da un triennio, durante il quale il Pil è cresciuto

complessivamente solo del 2,4%.

La Banca d’Italia puntualizza che il Made in Italy, nel periodo 1996-2003, ha conosciuto

una riduzione progressiva della sua quota nell’export mondiale, scendendo dal 4,5% al 3,0%. Nel

2003, in particolare, le esportazioni registrano risultati negativi, non soltanto a causa

dell’apprezzamento dell’euro ma anche per difetti preesistenti del sistema italiano. È almeno a

partire dal 2000 che la grande industria (quella con più di 500 addetti) è in crisi, con una perdita di

oltre 100.000 posti di lavoro, specialmente nei settori a maggiore internazionalizzazione come

l’auto, la chimica e l’elettronica. Da dieci anni non nasce in Italia una grande impresa, qualcuna

rischia di morire e mancano i segnali di un’adeguata capacità di rinnovamento.

Giuseppe De Rita, segretario generale del Censis, in un intervista rilasciata a Giuseppe

Turani (Affari e Finanza, 22 marzo 2004) delinea il seguente quadro d’insieme della situazione

economica del nostro Paese:

l’Italia è un Paese ormai privo di una grande industria, a parte il tentativo della FIAT di

restare sul mercato mondiale;

vi è una piccola industria che continua a esistere e a lavorare, ma della quale si sa poco

perché i distretti si sono “polverizzati” e non vi sono più aree specializzate per realizzare un

solo prodotto, fattore che rende più difficile l’interpretazione di quanto sta accadendo;

vi sono 200-300 aziende medie italiane che continuano ad essere competitive sui mercati

internazionali;

nascono nel mercato italiano nuove esigenze legate al vivere di qualità, potenzialmente

importanti per il sistema produttivo (prodotti tipici, turismo, recuperi urbanistici ecc.).

Non deve quindi sorprendere che l’immigrazione in Italia non si sia inserita a livelli di

elevata professionalità, perché non è stata la qualità a caratterizzare il nostro sistema produttivo

dagli anni ’90 in poi, pur non mancando tra gli italiani le figure professionali necessarie. Le

produzioni manifatturiere e l’agricoltura richiedono manovali o, comunque, manodopera da inserire

in mansioni medio-basse, e a questa domanda hanno risposto gli immigrati. Inoltre,

l’invecchiamento della popolazione, l’assistenza degli anziani e dei malati e il servizio presso le

famiglie richiedono collaboratrici e collaboratori familiari, e anche in questo caso la risposta la si è

trovata negli immigrati. Non che mancassero lavoratori immigrati a scolarizzazione medio-alta da

inserire in sbocchi più alti, ma è il “Sistema Italia” ad essere in ritardo e a non riuscire a valorizzare

meglio il capitale umano dei propri lavoratori e di quelli immigrati.

I Decreti flussi emanati per l’anno 2003 (il DPCM del 20 dicembre 2002 e il DPCM del 6

giugno 2003) consentono 79.500 nuovi ingressi dai Paesi non comunitari (di cui 68.500 stagionali),

a fronte degli oltre 254mila nuovi posti di lavoro previsti dalle imprese, che hanno dichiarato di

voler assumere a tempo indeterminato nel 56,5% dei casi. La programmazione dei flussi di nuovi

lavoratori non comunitari concede quindi quote molto inferiori rispetto al fabbisogno previsto sulla

base delle segnalazioni delle aziende rilevate dal Sistema Informativo Excelsior, che Unioncamere

cura dal 1998 in collaborazione con il Ministero del Lavoro. Bisogna comunque tener presente che

il fabbisogno previsto si riferisce ad una parte consistente del mercato del lavoro italiano, ma non

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alla sua totalità: riguarda infatti il settore privato delle imprese che hanno dipendenti, ma non le

famiglie o le imprese senza dipendenti; il lavoro dipendente, ma non quello autonomo; le forme

contrattuali tipiche, ma non quelle cosiddette atipiche. Altri aspetti problematici del sistema

Excelsior verranno poi sottolineati nel documento programmatico relativo alla politica

dell’immigrazione 2004-2006 (D.P.R. 13 maggio 2005: «Tali studi segnalano le previsioni, non le

richieste effettive, dei datori di lavoro relative alle assunzioni complessive e la loro utilità risiede

soprattutto nella disaggregazione settoriale della domanda e nell’indicazione dell’evoluzione del

fabbisogno, piuttosto che nel valore stimato del fabbisogno in sé». Inoltre, si aggiunge nel

documento, «i fabbisogni sono generalmente individuati sulla base di aspettative future di

assunzioni, piuttosto che su effettive offerte di lavoro, mentre la congiuntura economica cambia

rapidamente, rendendo talvolta obsolete le stime. È difficile separare la domanda di

regolarizzazione di lavoratori irregolari già presenti da quella di nuovi ingressi. Le stime indicano i

fabbisogni dei datori di lavoro ma non tengono conto delle capacità di integrazione territoriale e

dell’impatto in termini di servizi pubblici, abitazioni, ecc. Le stime contenute in tali analisi tendono

inoltre a sottostimare la domanda di lavoro stagionale e a sopravvalutare quella di lavoro non

stagionale. Inoltre sopravvalutano la domanda di lavoro di non comunitari nel Mezzogiorno e la

sottovalutano nel Nord; ciò soprattutto se si confrontano con i dati sulle assunzioni effettive

dell’anno precedente».

Peraltro, i responsabili del sistema curato da Unioncamere invitano a soffermarsi su alcuni

aspetti di prudenza nel mettere a confronto i fabbisogni espressi con le esigenze effettive del

mercato occupazionale (cfr. Dossier Statistico Immigrazione Caritas e Migrantes, 2004, p. 240),

richiamando in particolare l’attenzione sui seguenti aspetti:

i fabbisogni sono stimati all’inizio dell’anno e compresi tra un minimo e un massimo;

le stime includono anche i rapporti a tempo determinato;

una parte di queste richieste può essere soddisfatta dagli immigrati disoccupati già presenti

in Italia, dai familiari insediatisi ex novo e abilitati a svolgere attività lavorativa, dai nuovi

ultraquattordicenni che hanno ultimato la scuola;

è difficile conoscere le uscite di personale immigrato e, quindi, i relativi saldi occupazionali

e le dinamiche di turnover in base al confronto con le previsioni di assunzione;

va messo in conto che in una certa misura si attinge ai lavoratori irregolari;

sono esclusi dal computo – come ribadito nel documento programmatico – i lavoratori

domestici e i lavoratori agricoli stagionali.

La grande utilità dell’indagine Excelsior consiste, tuttavia, non solo nella sua capacità di

dare una dimensione quantitativa al fabbisogno dei lavoratori, ma ancora di più di qualificare questa

necessità, precisando dove serve e con quali caratteristiche, elementi indispensabili per impostare

un reclutamento più confacente alle esigenze effettive, a partire dalla programmazione mirata

(anche in collaborazione con i vari Paesi di origine) di apposite politiche ed interventi formativi e

orientativi, nonché una migliore pianificazione e gestione dei successivi percorsi di inserimento e

sviluppo sociale.

La questione della programmazione dei flussi, oggetto di valutazioni contrastanti sia tra i

tecnici che nel mondo imprenditoriale e politico, è oggetto di approfondimento nel corso di un

seminario di studio organizzato nel 2003 dal Cnel (Regolazione dei flussi migratori: tra

programmazione e precarietà degli interventi, Roma, 3 dicembre), durante il quale vengono

sottolineate le seguenti criticità:

la mancata tempestività nell’emanazione del Decreto annuale dei flussi e la prassi di Decreti

provvisori e di continui rinvii sono di per sé di pregiudizio all’incontro tra domanda e offerta

di lavoro per cui, per cogliere le opportunità della congiuntura, i datori di lavoro provvedono

altrimenti e ciò aiuta a spiegare la persistenza dei flussi irregolari;

i livelli delle quote fissate non sono realistici perché non riflettono i fabbisogni del mercato

del lavoro, né quantitativamente né qualitativamente, e in particolare viene criticato

l’inglobamento nelle quote dei posti di lavoro stagionali, che non costituiscono un “peso

rigido” in quanto si tratta di persone che vivono nei rispettivi Paesi e vengono per la prima

volta o ritornano a lavorare in Italia;

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gli standard di regolarità (stabilità occupazionale, livello reddituale, qualità dell’alloggio)

vengono definiti in maniera eccessivamente rigida, diventando un ostacolo per gli stessi

datori di lavoro e finendo per ampliare la sfera della irregolarità;

la soppressione dell’istituto della sponsorizzazione ha praticamente escluso dai meccanismi

ufficiali di programmazione le famiglie e la maggior parte delle imprese italiane, quelle con

meno di 10 dipendenti, settori nei quali è del tutto comprensibile che, oltre alla

professionalità delle persone da assumere, si sia interessati anche ad un rapporto di fiducia;

è necessaria una nuova messa a punto del sistema delle quote privilegiate a favore dei Paesi

convenzionati con l’Italia in materia di immigrazione, avendo perso efficacia e, quindi, forza

incentivante;

è incoerente non aver incluso nella normativa sull’immigrazione le forme di lavoro flessibile

previste dalla legge 30/2003 e non averle considerate valide anche per l’ingresso di

lavoratori dall’estero nella consapevolezza che molti immigrati vengono assunti con

contratti flessibili;

le quote, introdotte per sostituire il precedente obbligo di accertamento preventivo di una

indisponibilità di manodopera locale, sono state mantenute anche con il ripristino di tale

accertamento, riproponendo una previsione della legge 943/1986 alla quale va ricollegata la

creazione di consistenti flussi irregolari.

Tuttavia, nel corso dell’anno vengono assunti quasi un milione di lavoratori non comunitari

(986.701, di cui 771.813 a tempo indeterminato), praticamente il doppio rispetto a due anni prima,

innanzi tutto per effetto della formalizzazione nel 2003 di buona parte dei circa 650mila nuovi

rapporti di lavoro emersi con la regolarizzazione introdotta dalla legge 189/2002, dei quali circa

300mila nel solo comparto del lavoro domestico.

Insieme, la domanda espressa dal mercato del lavoro nazionale e la regolarizzazione del

2002, portano alla fine del 2003 il numero degli stranieri titolari di un permesso di soggiorno per

motivi di lavoro a 1.479.381. Ciò testimonia che l’impatto degli immigrati sul mercato

occupazionale italiano è divenuto ormai strutturale.

3. DAL CONSOLIDAMENTO DELLA DOMANDA AL CONSOLIDAMENTO DEGLI STUDI SUI LAVORATORI

STRANIERI: LE INDAGINI ISTAT SULLE FORZE LAVORO

Nel corso del 2004 prosegue l’andamento negativo dell’economia italiana e la sua

debolezza a livello di competitività internazionale. Il saldo commerciale con l’estero risulta

complessivamente negativo per 1,5 miliardi di euro, con la Germania, nostro principale acquirente,

sempre più orientata verso i fornitori dell’Est Europa e quelli asiatici, mentre crescono – invece – le

esportazioni tedesche verso l’Italia per quanto riguarda, in particolare, la chimica, la telefonia e

l’elettronica di consumo.

Il tasso di disoccupazione, tuttavia, diminuisce ulteriormente (8,0%, rispetto all’8,4%

dell’anno precedente), attestandosi al livello più basso conosciuto dal 1993, con un aumento di

167mila posti di lavoro. Aumenta il lavoro a tempo indeterminato, mentre si assiste ad una flessione

del lavoro a tempo parziale. Nel settore del lavoro atipico, quello che cresce con più facilità, vi sono

a fine anno circa 407mila posizioni Co.co.co (1,8% del totale) e oltre 2 milioni di lavoratori con

contratti “non standard”. Va inoltre sottolineato che alla fine dell’anno risulta diminuito il numero

delle persone in cerca di lavoro, imputabile però anche al fatto che molti, soprattutto tra le donne

del Mezzogiorno, hanno rinunciato a cercare un’occupazione.

Per quanto riguarda i lavoratori stranieri, il 2004 è un anno di confine e di grande

importanza, perché a partire dal primo trimestre di quell’anno l’Istat modifica i criteri di rilevazione

dell’Indagine trimestrale sulle forze di lavoro, che in precedenza sottostimava notevolmente la

quota di cittadini stranieri tra gli intervistati. Dal questo momento, quindi, è possibile utilizzarne i

dati per un monitoraggio delle principali caratteristiche dei lavoratori stranieri.

La “nuova” indagine evidenzia che nel 2004 la stagnazione del Pil non ha esercitato un

grande influsso sulla dinamica degli occupati e che sono stati creati circa 300.000 nuovi posti di

lavoro (+1,4%) per effetto delle nuove norme in materia di flessibilità, del maggior apporto dei

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lavoratori tra i 50 e i 59 anni e della regolarizzazione degli immigrati. A questi ultimi va riferita in

particolare la sensibile crescita in settori quali l’edilizia e i servizi alle persone. Va comunque

sottolineato che l’aumento dei posti di lavoro riguarda quasi interamente il Nord e, in misura più

modesta, il Centro, accentuando il forte divario territoriale già esistente.

I dati relativi al primo trimestre 2004 evidenziano che circa il 70% della popolazione

straniera con più di 15 anni partecipa al mercato del lavoro italiano o sta cercando un impiego e che

il tasso di attività degli stranieri supera di circa 20 punti percentuali quello degli italiani, per l’età

più giovane dei primi e perché il lavoro ne rappresenta il principale motivo di ingresso in Italia.

Il settore dei servizi assorbe poco più della metà della forza lavoro straniera occupata (a

fronte dei due terzi registrato per l’insieme degli occupati). I lavoratori stranieri dei servizi per i due

terzi lavorano nei comparti del commercio, alberghi e ristorazione e servizi alle famiglie (questi

ultimi quasi del tutto riservati alla componente straniera). L’industria assorbe invece il 40% dei

lavoratori stranieri (dieci punti percentuali in più rispetto alla totalità dei lavoratori).

Circa un terzo degli occupati stranieri (rispetto al 10% riferito al totale degli occupati) è

inserito nei segmenti inferiori del mercato del lavoro, svolge mansioni non qualificate e che

richiedono sforzo fisico e resistenza: facchini, operai nelle imprese di pulizia, portantini nei servizi

sanitari, collaboratori domestici, braccianti, manovali edili, ecc. È comunque da segnalare che una

quota significativa della popolazione straniera occupata inizia a esercitare anche attività in cui sono

richieste maggiori competenze professionali. Nel gruppo degli artigiani, degli operai specializzati e

degli agricoltori, considerato congiuntamente a quello dei conduttori di impianti, si colloca poco

meno del 40% degli stranieri occupati: si tratta di fabbri, elettricisti, carpentieri, meccanici,

conduttori di impianti e professioni simili, che al lavoro manuale uniscono margini di responsabilità

e di autonomia.

Tra gli stranieri che svolgono un lavoro non qualificato o di conduzione di impianti, quattro

su dieci possiedono un diploma di scuola media superiore e tre su dieci un diploma di scuola media,

poco meno di due hanno conseguito al massimo la licenza elementare, mentre la parte rimanente ha

un diploma di laurea. Rispetto al titolo di studio sembra quindi emergere un sotto-inquadramento

della componente straniera.

Gli stranieri rappresentano circa il 4% delle persone in cerca di occupazione, valore

notevolmente inferiore a quello degli altri Paesi dell’Unione Europea a 15, ad eccezione della

Spagna. Va però considerato che in Italia la disoccupazione per un lavoratore straniero, fin quando

resta sprovvisto della carta di soggiorno, può essere in generale solo una condizione temporanea.

Oltre la metà dei disoccupati stranieri si trova nelle regioni del Nord (dove il loro tasso di

disoccupazione è più che doppio rispetto a quello complessivo) e circa il 65,0% dei cittadini

stranieri senza lavoro è costituito da donne. Complessivamente, la quota di stranieri in cerca

d’impiego, specialmente se si tratta di donne, è più elevata della media complessiva (8,7%), in parte

a causa della concentrazione degli stranieri nei lavori a bassa qualificazione, più esposti alla perdita

del posto nei periodi di congiuntura debole.

Secondo i dati Inail, nel corso dell’anno si registrano 783.303 assunzioni e 595.755

cessazioni nel lavoro a tempo indeterminato; 252.438 assunzioni e 278.002 cessazioni nel lavoro a

tempo determinato (comprese 76.293 assunzioni per lavoro interinale).

Alla fine del 2004 sono 1.412.694 gli stranieri soggiornanti in Italia per motivi di lavoro.

Persiste la netta prevalenza di lavoratori provenienti dall’Europa centro-orientale, seguiti da

africani e asiatici. Risultano in sensibile aumento i lavoratori provenienti dall’Asia orientale e

dall’Asia centro-meridionale (le aree cui appartengono la Cina, le Filippine e l’India), anche se ad

un ritmo che non si configura come una “invasione”. Con riferimento ai paesi di provenienza, è

confermato il primato delle assunzioni a tempo indeterminato di lavoratori romeni, albanesi e

marocchini, in misura doppia rispetto ai lavoratori ucraini, che mantengono la quarta posizione; ma

va sottolineato il balzo della Cina in quinta posizione, al posto occupato nel 2003 dalla Polonia.

Tra il 2004 e il 2005 assume particolare consistenza la diffusione dell’imprenditoria

straniera, cresciuta gradualmente nel corso degli anni, e si comincia a prendere coscienza degli

impulsi che gli imprenditori immigrati dimostrano di poter fornire ai sistemi produttivi locali e a

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quello nazionale. L’accordo tra la Regione Piemonte ed alcune imprese artigiane marocchine (La

Repubblica, Piemonte-Economia, 17 febbraio 2005), finalizzato alla cooperazione e allo scambio

commerciale, rappresenta una chiara testimonianza del riconoscimento della validità dell’iniziativa

imprenditoriale straniera.

I dati sull’imprenditoria straniera in Italia sono elaborati dall’Ufficio di Statistica della

Confederazione Nazionale dell’Artigianato (CNA) a partire dall’archivio informatico delle Camere

di Commercio (Infocamere) e si riferiscono ai titolari d’impresa di cittadinanza straniera.

L’intensità e la rapidità della crescita dell’imprenditoria straniera sono sicuramente gli

aspetti maggiormente caratterizzanti il fenomeno. Il numero dei titolari di impresa con cittadinanza

estera operanti in Italia è passato dalle 56.421 unità rilevate nel 2003 alle 71.843 del 2004, fino a

raggiungere le 94.633 al 30 giugno 2005. L’aumento registrato nel corso del 2005 è circa del 32%,

superiore a quello già rilevante riscontrato tra il 2003 ed il 2004 (+27%). Sembra quindi

confermata la particolare vivacità dell’iniziativa imprenditoriale degli immigrati, che in un contesto

generale scarsamente dinamico come quello italiano, continuano a fornire stimoli importanti per lo

sviluppo del sistema produttivo. A livello regionale l’incremento tra il 2004 e il 2005 è più rilevante

nel Centro e nel Nord-Ovest del Paese. La Liguria (+68%), la Puglia (+54%) e la Toscana (+40%)

fanno registrare gli aumenti percentuali più consistenti. Nel Veneto si osserva, invece, l’incremento

più basso (+10%), anche se in questa regione il numero di imprenditori immigrati risultava piuttosto

elevato già nell’anno precedente. In quasi tutte le regioni la crescita di queste imprese tra il 2004 ed

il 2005 è stata superiore a quella registrata tra il 2003 e il 2004, con le sole eccezioni di Veneto,

Marche, Molise e Calabria.

Dal 2003 al 2005 non si notano sostanziali mutamenti nella distribuzione territoriale dei

titolari di impresa con cittadinanza estera: ne risulta confermata la maggiore concentrazione nel

Nord (circa il 63% del totale). Rispetto al 2004, il Veneto vede diminuire di quasi due punti

percentuali il proprio peso sul totale nazionale (dal 10,4 all’8,6%), in conseguenza del rallentamento

osservato nell’ultimo anno. La quota di imprenditori stranieri nel Meridione (14%

complessivamente per Sud ed Isole), invece, si mantiene decisamente al di sotto dei livelli

riscontrati nelle altre aree della penisola. Al 30 giugno 2005, 24.344 titolari di impresa stranieri,

cioè poco più di un quarto di quelli presenti su tutto il territorio nazionale, risultano attivi nella sola

Lombardia, al cui interno Milano consolida il suo primato di polo di maggiore attrazione anche

dell’iniziativa imprenditoriale degli immigrati. La fetta più cospicua dei restanti titolari si

distribuisce con una certa uniformità tra le regioni Emilia Romagna (11.220, pari all’11,9% del

totale), Piemonte (10.385, 11,0%), Lazio (9.844, 10,4%) e Toscana (9.274, 9,8%).

L’analisi per settore di attività evidenzia una marcata tendenza dell’iniziativa

imprenditoriale straniera ad indirizzarsi verso i comparti del commercio e delle costruzioni. Nel

2005 i titolari di imprese a carattere commerciale ammontano a 38.727, il 41% del totale dei titolari

stranieri, risultando il gruppo più numeroso tra gli imprenditori immigrati. Quello delle costruzioni

costituisce il secondo comparto di attività economica per numero di imprenditori, con 29.432

titolari, corrispondenti al 31% di quelli complessivamente presenti in Italia. Sensibilmente

distanziati seguono gli altri principali ambiti di inserimento lavorativo: il settore dei servizi (8.264

titolari, pari circa al 9% del totale), il comparto tessile, dell’abbigliamento, delle calzature e della

pelletteria (5.926, pari al 6%), i trasporti (3.824, pari al 4%). Il comparto alberghiero e della

ristorazione (1.665), il settore agricolo (1.654) e il comparto della produzione e della lavorazione

dei metalli (1.516) presentano tutti pesi percentuali intorno al 2%. L’incremento delle attività

imprenditoriali rispetto al 2004 è risultato particolarmente consistente nei servizi (+69%), oltre che

nei comparti delle costruzioni (+44%) e del commercio (+29%), sebbene per questi ultimi

l’incremento risulti inferiore a quello verificatosi tra il 2003 ed il 2004. A tale proposito, appare

rilevante sottolineare come l’ambito dei servizi sia l’unico per il quale si registra un aumento dei

titolari di impresa superiore a quello osservato tra il 2003 ed il 2004. D’altronde anche

l’imprenditoria straniera, seppur molto vitale, è spesso costretta a fare i conti con la crisi della

media e della piccola impresa, aggravata in questi anni dall’importazione dei prodotti asiatici e dai

processi di delocalizzazione produttiva. Un caso emblematico è rappresentato dalle imprese cinesi

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operanti nella confezione di abbigliamento nella provincia di Prato, anch’esse incalzate dalla

concorrenza impetuosa proprio dei prodotti Made in China (La Repubblica, 10 Marzo 2005).

Diversi studi dedicati al lavoro autonomo degli immigrati evidenziano la graduale

formazione delle cosiddette “specializzazioni etniche”, in parte riconducibili all’esportazione di

peculiari esperienze lavorative e formative maturate nei paesi di provenienza. Un’analisi di questo

tipo può apparire molto suggestiva, anche se non esente dal rischio di forzature. Infatti, è bene

ricordare come gli spazi di inserimento per l’imprenditoria straniera siano in larga parte determinati

dalla struttura e dalla normativa del mercato del lavoro italiano e dalla capacità degli immigrati di

adattarsi alle esigenze in continua evoluzione della popolazione locale. I dati della CNA, basati su

un riesame dell’archivio di Unioncamere finalizzato a individuare, tra i titolari d’impresa nati

all’estero, quelli effettivamente in possesso di cittadinanza straniera, consentono di approfondire

questi aspetti, offrendo la possibilità di analizzare la distribuzione per settore di attività

imprenditoriale di ogni singola collettività immigrata. Il primo risultato che emerge con chiarezza è

la fortissima propensione degli immigrati provenienti dall’Est europeo e dai Balcani a intraprendere

attività nel comparto delle costruzioni, dove sono canalizzati anche nel lavoro dipendente. Per

queste collettività si riscontrano, infatti, percentuali di titolari di impresa operanti nel settore

superiori al 60%, ed in qualche caso vicine all’80%, come accade per albanesi, romeni e macedoni.

Quello delle costruzioni è il principale ambito di inserimento anche per egiziani e tunisini, con

quote di titolari altrettanto significative (rispettivamente 50% e 68%). Le attività commerciali

costituiscono di gran lunga il principale sbocco imprenditoriale per marocchini e, più in generale,

asiatici e centrafricani. La percentuale di titolari di impresa attivi nel commercio raggiunge il 90%

tra i senegalesi e l’82% tra i cittadini del Bangladesh. L’imprenditoria cinese risulta attiva con quote

rilevanti di imprese sia nel comparto del commercio (45%) che in quello del tessile e

dell’abbigliamento (32%). In tutti i casi, seppure con proporzioni differenti, si tratta di comparti nei

quali i membri delle stesse collettività tendono a concentrarsi anche in qualità di lavoratori

dipendenti.

Quello del lavoro indipendente è certamente un fenomeno complesso. Si intreccia, anzitutto,

con le dinamiche di un sistema economico come quello italiano, in cui nel 2004 più di un lavoratore

su quattro risulta almeno formalmente indipendente, con conseguenze ambivalenti. In generale, la

nostra economia richiede molti piccoli operatori, giacché numerosi processi produttivi sono

frammentati e distribuiti su più aziende. In alcuni casi, si verifica un insediamento solido di

operatori italiani che non lasciano che spazi marginali ai nuovi arrivati, grazie anche a strette

regolamentazioni, come nel caso dei taxi o dei bar. In altri settori, più liberalizzati e meno ambiti

dagli italiani, come le pulizie, i piccoli trasporti o le consegne rapide, invece, gli immigrati riescono

ad entrare massicciamente.

Nella categoria complessiva dei piccoli imprenditori, inoltre, rientrano anche un certo

numero di soggetti con scarsa autonomia effettiva. Nel settore edile, per esempio, un muratore o un

imbianchino con partita Iva può averla aperta perché sollecitato dal datore di lavoro a mettersi in

proprio per ragioni contributive e fiscali, rimanendo però di fatto vincolato all’impresa committente.

Si riscontrano almeno quattro ordini di ragioni nell’emergere del protagonismo

imprenditoriale degli immigrati in Italia.

Il primo è la cosiddetta “successione ecologica”. Quando gli operatori italiani invecchiano e

decidono di ritirarsi, non sempre trovano in famiglia parenti interessati a rilevarne l’attività.

Subentrano così nuovi operatori, provenienti in genere dalle classi popolari e, sempre più spesso,

sono gli immigrati a rilevare le attività degli italiani, a partire da quelle più faticose e con basse

barriere all’ingresso, come il commercio ambulante.

Il secondo motivo è la “mobilità bloccata”. Gli immigrati stentano a vedersi riconosciute

credenziali formative e professionali pregresse, non riescono facilmente a fare carriera, rischiano di

rimanere intrappolati in forme di integrazione subalterna. Mettersi in proprio rappresenta un modo

per reagire a tutto questo, perseguendo una promozione sociale altrimenti irrealizzabile.

In terzo luogo, la popolazione immigrata che vive stabilmente in Italia esprime anche una

domanda di prodotti e servizi legati ai paesi di origine, cui rispondono altri membri delle stesse

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collettività immigrate. Nascono così attività quali i phone centers, le macellerie islamiche, i servizi

di money transfer, tra gli esempi più noti.

Infine, si vanno affermando un mercato transnazionale e una serie di attività economiche

promosse dai migranti, capaci di valorizzare le connessioni tra le due sponde dei movimenti

migratori, promuovendo attività che, quindi, giovano alle economie di entrambe le parti: è

l’orizzonte dell’import-export, del commercio di cibi e prodotti artigianali esteri.

Le ombre comunque non mancano, in particolare fenomeni quali lo sfruttamento di

connazionali impiegati come manodopera, il favoreggiamento dell’immigrazione irregolare, il ruolo

subalterno delle donne nelle imprese di famiglia. Con le cautele necessarie, l’area del lavoro

indipendente è comunque considerata un interessante spazio di espressione dei talenti e delle

potenzialità dei migranti, generando promozione sociale per loro e dinamismo economico per tutti.

Quanto al lavoro dipendente, alla fine del 2005 questo per l’88,1% è coperto da italiani, per

il 10,1% da cittadini nati in Paesi non comunitari e per l’1,8% da cittadini comunitari (inclusi i

neocomunitari, cioè i nati nei Paesi entrati dell’UE dal 1° maggio 2004: Cipro, Estonia, Malta,

Lettonia, Lituania, Polonia, Repubblica Ceca, Slovacchia, Slovenia e Ungheria). Lo scarso peso

esercitato da questi ultimi dipende dal fatto che solo i polacchi costituiscono un gruppo di una certa

consistenza nel panorama dell’immigrazione italiana.

Il totale complessivo dei saldi occupazionali dell’anno riferiti ai lavoratori dipendenti è

negativo (-38.438), ma disaggregando il dato si rileva che l’andamento è stato negativo per i

lavoratori italiani (-57.941), mentre il saldo per i lavoratori stranieri è stato positivo (19.507) quasi

ovunque, con l’unica eccezione del Piemonte e della Campania e, a livello provinciale, di alcune

realtà del Nord come Brescia, Belluno, Treviso, Vicenza, Pordenone e Gorizia, Bologna e Forlì. Più

equilibrata risulta la situazione al Centro, in cui i saldi negativi, laddove si verificano, sottendono

valori assoluti veramente esigui. Anche al Sud e nelle Isole i saldi sono praticamente ovunque

positivi, a parte il già citato caso della Campania (ad eccezione della provincia di Salerno) e delle

province di Reggio Calabria e Oristano. I settori in cui i saldi dei lavoratori stranieri incidono di più

sono la sanità e assistenza sociale (68,3%), l’agricoltura (28,6%), l’informatica e servizi alle

imprese (25,2%, quasi sempre con mansioni di pulizia), le costruzioni (22,4%).

Alla fine del 2005, i dati sui permessi di soggiorno rivisti dall’Istat registrano una presenza

complessiva di 1.419.285 persone presenti per motivi di lavoro.

I lavori svolti dagli immigrati rimangono però troppo spesso definibili come i lavori delle

cinque P: precari, pesanti, pericolosi, poco pagati, penalizzati socialmente. Nei Paesi europei con

esperienze di immigrazione più consolidate è ugualmente riscontrabile una concentrazione degli

immigrati nei segmenti inferiori del mercato del lavoro, ma dagli anni 2000, in maggiore o minore

misura, le politiche degli ingressi insistono sull’esigenza di attrarre immigrati qualificati

(informatici, scienziati, medici, imprenditori), in concorrenza con i grandi paesi sviluppati

extraeuropei (Stati Uniti, Canada, Australia), che da più tempo e con maggiore intensità hanno

insistito sull’importazione di “cervelli” come risorsa competitiva. Indipendentemente dal giudizio

su queste linee politiche, che presentano il contrappeso di depauperare di risorse umane i paesi

d’origine, in Italia mancano iniziative analoghe (ad eccezione del settore infermieristico) e la

domanda di manodopera si concentra nelle fasce più basse del mercato.

Una conseguenza di questa integrazione subalterna è il sottoutilizzo delle capacità degli

immigrati, che trova una sponda istituzionale nelle difficoltà che segnano l’iter burocratico-

amministrativo per il riconoscimento dei titoli di studio. Le indagini disponibili – pur con le cautele

sempre necessarie quando si tratta di comparare le credenziali educative – mostrano che

mediamente hanno livelli di istruzione superiori agli italiani occupati nelle medesime mansioni e

talvolta a quelli degli stessi datori di lavoro. L’esempio tipico è la donna immigrata laureata che

assiste un anziano di una famiglia italiana di classe popolare.

Va aggiunto che gli immigrati di solito accettano senza troppi problemi posizioni lavorative

inferiori a quelle che occupavano prima della partenza o cui potrebbero aspirare in base

all’esperienza e all’istruzione pregresse. È una logica di investimento, che si alimenta della

speranza di migliorare e del confronto con le condizioni di vita nei paesi di origine. Il problema più

grave è quello delle opportunità di mobilità socio-occupazionale, che appaiono in Italia (e in

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Europa) scarse e poco accessibili ai nuovi arrivati, se confrontate con quelle offerte, ad esempio,

dall’America della grande immigrazione europea di un secolo fa.

Grandi protagoniste dei processi di incontro tra domanda di lavoro italiana e offerta

immigrata sono le cosiddette reti etniche, ossia le reti di sostegno e mutuo aiuto tra parenti, amici e

connazionali. In un mercato deregolato e opaco, la diffusione di informazioni sui posti di lavoro

vacanti – e spesso anche azioni più incisive di accompagnamento, sponsorizzazione, socializzazione

al lavoro – passano attraverso i contatti tra persone legate tra loro da rapporti personali e vincoli

affettivi. Per gli immigrati arrivati da poco e privi di contatti sociali nei luoghi di insediamento che

possano metterli in rapporto con i potenziali datori di lavoro, questi legami sono determinanti e nel

caso, non certo infrequente, di arrivi irregolari e di ricerca di opportunità occupazionali

nell’economia sommersa, diventano fondamentali: la stessa possibilità di aggirare le norme, di

trovare protezione dai controlli delle autorità, di guadagnarsi da vivere nonostante la mancanza di

documenti che autorizzino il soggiorno, di cercare appena possibile di regolarizzare la propria

posizione, dipendono principalmente dall’appoggio delle reti di parenti e connazionali. Il differente

grado di coesione interna, di anzianità di insediamento, di dotazione di risorse spendibili nel

mercato del lavoro italiano, è una variabile di importanza fondamentale per spiegare il differente

grado di “successo” nel mercato del lavoro delle varie componenti nazionali, nonché della loro

canalizzazione in specifici comparti.

Dal punto di vista dei datori di lavoro, non essendo disponibili altri indicatori più affidabili

circa la personalità e le effettive capacità dei candidati a un’assunzione, il legame o l’appartenenza

allo stesso gruppo nazionale di altri assunti che hanno già dato buona prova di sé, diventa un criterio

di preferenza, grossolano, pregiudiziale, ma comunque molto influente: si tratta dei processi che gli

economisti del lavoro americani hanno definito con il termine di “discriminazione statistica”,

attraverso i quali si applicano a tutti gli individui ascrivibili ad un certo collettivo le caratteristiche

(positive o negative) riscontrate in alcuni di loro.

Incidono poi altri aspetti, come la possibilità che i lavoratori connazionali già inseriti

facciano da tramite e possano comunicare disposizioni e regole del lavoro ai nuovi arrivati,

scavalcando le barriere linguistiche, o che esercitino un controllo informale sui patrocinati. In ogni

caso, negli schemi cognitivi dei datori di lavoro, e più in generale dell’opinione pubblica, la

provenienza diventa rapidamente un indicatore della capacità del lavoratore di inserirsi in

determinati ambiti occupazionali. Si formano così quelle “specializzazioni etniche” che tanto spesso

si riscontrano nei mercati del lavoro locali. Tra le più note si possono citare quella degli albanesi

nell’edilizia, degli indiani sikh nell’allevamento bovino, delle donne filippine nei servizi domestici,

di peruviane, ecuadoriane, ucraine, romene e moldave nella cura degli anziani. Quelle che agli occhi

dei datori di lavoro e dell’opinione pubblica più ampia appaiono come “attitudini” a lavorare in

determinati ambiti, sono in realtà gli effetti, oltre che dei limiti normativi legati alle esigenze

specifiche del mondo del lavoro italiano, dell’azione congiunta delle reti etniche attivate dagli

immigrati e degli stereotipi cognitivi di chi opera le assunzioni. L’individualità del lavoratore si

perde, mentre viene assolutizzata la sua appartenenza ad una categoria collettiva, definita da una

sola variabile, quella dell’appartenenza nazionale. Il fatto di essere istruito o semi-analfabeta,

competente linguisticamente o poco in grado di esprimersi, in possesso di una certa esperienza

oppure a digiuno di quel determinato lavoro, rischia di contare meno per l’assunzione dell’essere –

ad esempio – marocchino, senegalese o rumeno.

Vi sono poi forme di “specializzazione etnica” che si riproducono anche nel lavoro

indipendente, dando vita a nicchie economiche in cui gli immigrati non sono soltanto lavoratori

subordinati, ma anche datori di lavoro: alcune componenti migratorie, come quella cinese, sono

particolarmente note per la loro tendenza a formare nicchie di questo tipo, denominate “economie

etniche”. Purtroppo si riscontrano anche interventi di mediazione non sempre disinteressati, con la

richiesta di denaro o di altri benefici in cambio del posto di lavoro, fino a forme di “caporalato” e ad

altri abusi, tra cui lo sfruttamento di connazionali.

Nel 2006 la base occupazionale in Italia continua ad ampliarsi e, secondo i dati della

rilevazione Istat sulle Forze di lavoro, circa i due quinti dell’aumento complessivo degli occupati

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(425mila persone) sono attribuibili a stranieri regolarmente residenti, un contributo che riguarda

l’intero anno, interessando entrambe le componenti di genere e tutte le aree territoriali.

Dall’indagine si desume che gli stranieri partecipano al mercato del lavoro più degli italiani.

Il tasso di attività degli stranieri (ossia il rapporto tra le persone appartenenti alle forze di lavoro,

ovvero gli occupati e le persone in cerca di occupazione, e la corrispondente popolazione di

riferimento) è del 73,7%, superiore di circa 12 punti percentuali rispetto a quello riferito alla

popolazione italiana. Il divario a vantaggio dei cittadini stranieri accomuna tutto il territorio

nazionale, ma è particolarmente ampio nelle regioni meridionali, e coinvolge sia gli uomini che le

donne, con l’eccezione della componente femminile del Nord Ovest. In questo caso, il tasso di

attività del 56,3% delle donne straniere si confronta con il 59,2% delle italiane. Per altro verso, nel

Mezzogiorno, dove il tasso di attività delle donne è strutturalmente basso, oltre la metà della

popolazione femminile straniera partecipa al mercato del lavoro, avendo un impiego o cercandolo.

Il grado di partecipazione della componente maschile straniera è poi decisamente elevato in tutte le

ripartizioni e, in media, risulta di poco inferiore al 90%. Lo scarto nel tasso di attività tra stranieri e

italiani trova ragione soprattutto nella differente quota di popolazione occupata.

Il tasso di occupazione degli stranieri supera quello degli italiani di circa nove punti

percentuali (67,3% vs 57,9%). Il differenziale tra i tassi di occupazione è particolarmente ampio per

la componente maschile: nel caso degli uomini con cittadinanza straniera l’indicatore raggiunge

l’84%, oltre 14 punti percentuali in più rispetto agli italiani, a conferma del ruolo centrale del lavoro

nel processo migratorio; il tasso di occupazione delle donne straniere, poco al di sotto del 51%, è

invece relativamente più vicino a quello delle italiane.

Il differenziale relativo all’incidenza della disoccupazione è invece più modesto, essendo il

tasso di disoccupazione degli stranieri pari all’8,6%, circa due punti percentuali in più rispetto a

quello degli italiani. Il risultato sconta esclusivamente la differenza tra il tasso di disoccupazione

femminile straniero e italiano, rispettivamente pari al 13,4% e all’8,5%. A conferma delle maggiori

difficoltà per le donne straniere nell’inserimento nel mercato del lavoro, il rapporto tra il tasso di

disoccupazione femminile e quello maschile aumenta da circa una volta e mezzo per gli italiani a

oltre il doppio per gli stranieri.

Tra gli indicatori offerti dai risultati della rilevazione appare significativo sottolineare quelli

relativi al lavoro in orari disagiati (la sera, la notte, la domenica). Complessivamente circa un

quarto degli occupati stranieri lavora abitualmente in almeno una fascia oraria disagiata. In

particolare, il 19% degli occupati immigrati lavora la sera (dalle 20 alle 23), il 12% la notte (dopo le

23) e il 15% la domenica. Naturalmente il lavoro in orari disagiati è connesso all’organizzazione del

processo produttivo e al ruolo che il lavoratore ricopre al suo interno. Ne consegue che il lavoro in

tali fasce orarie è legato principalmente sia al settore di attività sia alle mansioni svolte. In questo

quadro, ad esempio, la più larga diffusione del lavoro domenicale nel Mezzogiorno è sostenuta dal

settore turistico e alberghiero, con la presenza soprattutto di cuochi e camerieri. Come per gli

italiani, una quota elevata di occupati stranieri è poi impiegata nelle giornate prefestive

(abitualmente il 41% lavora il sabato).

La condizione degli immigrati nel mercato del lavoro mette in luce alcuni elementi rilevanti

delle nuove dinamiche socio-economiche e del mercato occupazionale che si sono man mano

manifestate e affermate nei primi anni del nuovo millennio. Spicca in particolare la dinamica di

crescente mobilità e flessibilità, precarietà o incertezza cui tutto il lavoro contemporaneo è chiamato

a piegarsi, stretto tra le tenaglie di una congiuntura economica debole e una crisi del sistema del

welfare che aveva garantito finora diritti e garanzie, ma che appare sempre più privo di sostenibilità.

Questo scenario sta investendo tutto il sistema economico internazionale e, con particolare forza ed

effetti dirompenti, paesi ed aree strutturalmente più deboli come l’Italia, in particolare il Sud. Tali

dinamiche, sviluppatesi non solo nel nostro paese ma in tutti i paesi mediterranei (Grecia,

Portogallo e Spagna), mettono in evidenza soprattutto:

- una crescente segmentazione del mercato del lavoro, che alle vecchie demarcazioni

territoriali e di settore aggiunge nuove linee di divisione in base a variabili “etniche” e di

genere, tendendo a trasformare la separazione tra fasce protette (residuali) e fasce precarie

(maggioritarie) in differenze scontate e quasi naturali legate al genere ed allo status di

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cittadinanza dei lavoratori. Tale processo di segmentazione ed “etnicizzazione” nel nostro

paese corrisponde ad una crescente divaricazione di condizioni e prospettive tra lavoratori

autoctoni e lavoratori immigrati, tra lavoratori e lavoratrici, tra lavoratori più giovani e più

anziani (fuori mercato) da un lato e lavoratori in età mediana, tutelati e sindacalizzati,

dall’altro;

- una crescente divaricazione delle dinamiche economiche e sociali tra aree forti e aree deboli,

che nel nostro Paese corrisponde grosso modo alle aree del Nord (e del Nord Est in

particolare) da un lato e del Mezzogiorno dall’altro, le prime arroccate in difesa del proprio

potere di tassazione e di spesa pubblica, le seconde lasciate spesso in balia della criminalità

organizzata.

L’immigrazione rivela inoltre anche alcune delle dinamiche territoriali in atto nel Paese. La

distribuzione dei lavoratori immigrati nelle diverse aree territoriali evidenzia che il lavoro

domestico prevale nell’area centro-meridionale e il suo impatto è minimo, per quanto rilevante, nel

Nord Est, mentre il lavoro alle dipendenze di aziende non agricole incide maggiormente nel

Settentrione, soprattutto nell’area orientale, e raggiunge i valori minimi nel Centro Sud. Anche il

lavoro autonomo vede ridurre la propria quota man mano che si scende lungo la Penisola, ma lo

scarto più significativo, in questo caso, è quello tra l’area centrale e il Mezzogiorno. Il lavoro

agricolo, invece, prevale nettamente nelle regioni meridionali. Le diverse forme di ricorso ai

lavoratori immigrati sembrano in grado di indicare diversi sistemi territoriali, diverse Italie, che

rischiano di allontanarsi sempre più l’una dall’altra, ognuna fatta di due facce: una fatta dagli e per

gli autoctoni, l’altra dagli e per gli immigrati; l’Italia del commercio, del terziario, dell’apertura

internazionale, dell’industria pesante nel Nord; l’Italia dell’impiego pubblico, del lavoro domestico

e dell’agricoltura al Sud; l’Italia del commercio e dell’impresa a carattere individuale al Centro.

A fine anno, in Italia sono 1.463.058 gli stranieri titolari di un permesso di soggiorno

rilasciato per lavoro.

4. GLI ANNI DELLA CRISI E LE STRATEGIE DI RESISTENZA DEI LAVORATORI STRANIERI

Nel corso del 2007 si registra un’impennata del numero di lavoratori stranieri. Alla fine

dell’anno gli archivi dell’Inail registrano in Italia un totale di 2.704.450 occupati nati in Paesi esteri,

dei quali 1.320.608 assunti proprio nel corso del 2007. Tra questi, il 45,4% (599.466 unità) è

costituito da nuovi assunti, cioè persone che in precedenza non avevano mai avuto un rapporto di

lavoro regolare in Italia (perché non ancora presenti sul territorio o perché presenti per motivi

diversi da quello lavorativo). Si tratta di un dato eccezionale, da ricondurre in buona misura

all’allargamento dell’Unione europea a Romania e Bulgaria, avvenuto il 1° gennaio del 2007, e

alla libera circolazione dei cittadini di questi Paesi che ne è conseguita e soprattutto alla

conseguente emersione dal sommerso di lavoratori, principalmente romeni (che costituiscono infatti

il 48,9% dei nuovi assunti stranieri), già precedentemente presenti in Italia, ma non visibili

attraverso gli archivi ufficiali, perché inseriti irregolarmente. Influisce anche l’emanazione di un

Decreto flussi-bis nel 2006, che secondo molti ha agito come una sorta di “regolarizzazione de

facto”.

Da questo momento in poi, l’archivio dei permessi di soggiorno sarà invece sempre meno

utile a monitorare la presenza e le caratteristiche degli immigrati in Italia, escludendo tutti i

neocomunitari, e acquisteranno invece sempre maggiore importanza la Rilevazione Istat sulle Forze

di lavoro e l’archivio Inail. I permessi di soggiorno per motivi di lavoro, infatti, a fine 2007

risultano diminuiti a 1.239.263.

Il 2007 si distingue dagli anni precedenti anche per un altro primato: per la prima volta

l’incremento degli immigrati occupati nel Sud e nelle Isole supera quello registrato in media nel

Paese (+323% e +321,8%, a fronte di una media del 309,5%), mostrando da una parte come queste

aree territoriali vadano sempre più conoscendo una stabilizzazione della presenza immigrata e un

recupero rispetto al passato, dall’altra come siano anche le zone più afflitte dal fenomeno del

sommerso e in cui, quindi, l’emersione dei nuovi comunitari è stata più forte e visibile.

19

Questi dati, che mostrano l’eccezionalità che caratterizza il 2007, vanno tuttavia ricollegati

anche al fatto che dal 2002 in poi l’Italia non ha più attuato alcuna procedura di regolarizzazione. È

quindi aumentata la presenza irregolare, soprattutto nei flussi di arrivo più recente come quello

romeno. La politica di blocco delle sanatorie sembra quindi non aver “protetto” l’Italia dall’arrivo e

dalla permanenza di migranti irregolari, tanto dal punto di vista del soggiorno che delle condizioni

di lavoro. Anzi, la Corte dei Conti si spinge oltre, definendo inefficiente la gestione dei flussi in

Italia nel 2005 e nel 2006 per diversi motivi: dall’esiguità delle quote previste rispetto alle domande

di fatto presentate (ma si può aggiungere anche rispetto alle richieste avanzate da aziende e

imprenditori) all’eccessiva lunghezza dei tempi di attesa tra la presentazione della domanda e

l’effettivo rilascio del permesso di soggiorno, pari in media a 400 giorni, a causa di ritardi e intoppi

burocratici che si accumulano nel passaggio delle pratiche tra i diversi uffici competenti (Questure,

Direzioni Provinciali del Lavoro, Centri per l’Impiego, Sportelli Unici per l’Immigrazione e

rappresentanze diplomatiche). La stessa Corte dei Conti rileva poi che la politica delle quote e la

sua gestione operativa, se non adeguatamente collegate a una realistica e tempestiva lettura delle

esigenze del mercato del lavoro nazionale, possono «accrescere, anziché reprimere, il fenomeno

della clandestinità, e arrecare danni al sistema economico favorendo il lavoro sommerso, l’evasione

contributiva e quella fiscale» (Corte dei Conti, Programma controllo 2006, L'attività di gestione

integrata dei flussi di immigrazione, p. 39).

Nel corso del 2008 anche in Italia iniziano a manifestarsi gli effetti della grande crisi

economica mondiale seguita alla crisi finanziaria originatasi negli Stati Uniti con la bolla dei mutui

subprime, esplosa nell’estate del 2007. E in alcuni settori dell’opinione pubblica sorge

l’interrogativo se non sia meglio riservare i posti di lavoro agli italiani disoccupati. Tale domanda

sottintende l’idea, che sembrava superata, che gli immigrati siano una minaccia perché sottraggono

lavoro agli italiani, in una sorta di guerra fra poveri che si contendono i pochi impieghi disponibili.

Diversi dati e studi condotti nell’anno dimostrano, invece, che gli immigrati si concentrano

nelle province con i redditi più alti e i livelli di disoccupazione più bassi. Consentono agli italiani di

vivere meglio, perché accettano di assistere gli anziani, accudire i bambini, tenere in ordine le

abitazioni, liberando le donne italiane da incombenze che altrimenti ne frenerebbero la

partecipazione al lavoro extradomestico; oppure, inserendosi nelle posizioni inferiori delle gerarchie

organizzative, permettono agli italiani di passare a posizioni più qualificate e redditizie. I dati

mostrano inoltre una sostanziale stabilità dell’occupazione immigrata, malgrado la crisi e

nonostante le perdite di posti di lavoro fra gli italiani. Ciò conferma indirettamente che italiani e

immigrati trovano lavoro in segmenti diversi del mercato e a soffrire maggiormente sono gli ambiti

in cui lavorano i primi. Una vera concorrenza si riscontra invece nell’economia sommersa, dove si

genera una pressione al ribasso dei salari e delle condizioni di lavoro.

L’occupazione, sotto la spinta della dinamica particolarmente positiva della prima parte

dell’anno, registra un aumento ancora sostenuto. Il risultato è comunque dovuto esclusivamente alla

componente straniera. La crescita dell’occupazione è infatti sintesi di un incremento di 249mila

stranieri e di un calo di 66mila italiani. Con il procedere della crisi economica, le condizioni del

mercato del lavoro si vanno tuttavia deteriorando anche per la popolazione straniera. Mentre il tasso

di occupazione degli stranieri, sceso nel secondo trimestre, si posiziona nella seconda parte del 2008

sui livelli già raggiunti un anno prima, si allarga la quota dell’offerta di lavoro straniera che cerca

un impiego. Nel quarto trimestre del 2008 questa, infatti, supera il 10% del totale dell’area dei senza

lavoro.

Alla fine dell’anno i lavoratori nati in un Paese estero e occupati in Italia sono, negli archivi

Inail, circa 3 milioni, ma meno di 2 milioni nella Rilevazione campionaria Istat, attestandosi

probabilmente su un valore di mezzo.

La diminuzione dell’occupazione italiana e il concomitante aumento di quella straniera

riguardano posizioni e settori lavorativi distinti. L’occupazione italiana diminuisce principalmente

tra i lavoratori autonomi della piccola impresa dell’industria e dei servizi (artigiani, commercianti);

il calo riguarda esclusivamente la componente maschile, concentrandosi nelle regioni meridionali

(Campania, Calabria e Sicilia). L’occupazione straniera aumenta invece tra i dipendenti con basse

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qualifiche nell’industria, nel commercio, nel comparto alberghi e ristorazione e nei servizi alle

famiglie; nella metà dei casi la crescita interessa le donne e in sette casi su dieci una regione del

Nord. In definitiva, lo sviluppo dell’occupazione straniera si posiziona nei settori dove già era

maggiormente presente, accentuando il carattere duale del mercato del lavoro, con gli immigrati

concentrati nei lavori meno qualificati e a bassa specializzazione.

Questo quadro emerge dalla rilevazione Istat sulle forze di lavoro, che nell’occasione ha

ulteriormente ampliato il numero delle interviste rivolte alle famiglie straniere, per migliorare la

rappresentatività e robustezza delle stime. Va comunque tenuto presente che l’indagine tiene conto

della sola popolazione iscritta in anagrafe e residente in famiglia. Oltre agli stranieri che, sebbene in

possesso di un permesso di soggiorno, non sono iscritti nelle liste anagrafiche, vengono pertanto

esclusi dal campione dell’indagine quelli presenti in Italia in modo irregolare, sebbene una quota

consistente della componente irregolare dell’immigrazione contribuisca alla produzione del reddito

e al sostegno dell’attività economica. In base ai dati disponibili, si stima infatti che nel 2006 gli

stranieri irregolari abbiano contribuito al mercato del lavoro con circa 350mila unità. Con il

deteriorarsi del ciclo economico, la dinamica del lavoro irregolare potrebbe risentire di spinte

contrapposte: da un lato, le minori opportunità d’impiego potrebbero ridurre anche le prestazioni

lavorative non regolari; dall’altro, le aumentate difficoltà di ingresso - o reingresso dopo la perdita

dell’occupazione - nel mercato del lavoro, potrebbero aumentare la disponibilità dell’offerta verso il

lavoro irregolare.

Va peraltro considerato che nel 2008 non è stato emanato il Decreto flussi annuale con cui si

fissano le quote di ingresso di nuovi lavoratori, avendo il Governo deciso di assorbire

esclusivamente quanti erano rimasti esclusi dal Decreto flussi 2007. Questo, insieme

all’approvazione del cosiddetto “pacchetto sicurezza” (legge n.94/2009), che introduce una vasta

gamma di restrizioni normative, non solo per chi voglia ancora entrare in Italia, ma anche per quanti

già vi vivono, delinea un quadro particolarmente complesso, con ricadute fortemente problematiche

per i cittadini immigrati e le loro famiglie.

Nel corso del 2009 la crisi economica manifesta conseguenze ulteriormente negative anche

sull’occupazione degli immigrati. Il tasso di disoccupazione degli stranieri raggiunge il 12,6%,

rispetto all’8,8% di un anno prima. Per la prima volta in vent’anni, l’analisi della partecipazione

degli stranieri al mercato del lavoro deve confrontarsi con una brusca contrazione della

domanda. La principale motivazione dell’accoglienza degli immigrati, ossia il fabbisogno di

manodopera, sembra entrare in crisi.

Il tasso di occupazione degli stranieri residenti in Italia, malgrado sia rimasto superiore a

quello degli italiani di quasi otto punti percentuali, registra invece una dinamica del tutto peculiare.

Ad una prima parte dell’anno caratterizzata da flessioni tendenziali ancora contenute, fanno seguito

cadute più marcate nel terzo e nel quarto trimestre. La quota di popolazione femminile straniera

occupata, in aumento nella prima parte del 2009, accusa tra luglio e settembre una brusca caduta

(dal 54,1% nello stesso periodo dell’anno precedente al 51,0%), cui si accompagna un’ulteriore

flessione nel quarto trimestre (dal 53,9% al 52,1%).

La discesa del tasso di occupazione, estesa su tutto il territorio nazionale, coinvolge

soprattutto il Nord. Le riduzioni più accentuate interessano il Piemonte (dal 67,5% del 2008 al

63,5% del 2009) e il Veneto (dal 68,5% al 64,7%). D’altro canto, nelle regioni settentrionali, in

linea con l’esteso deterioramento del mercato del lavoro, la quota di occupazione maschile straniera

si porta nel 2009 ad un livello pari al 78,5%, oltre cinque punti percentuali inferiore a quello di un

anno prima.

Al calo del tasso di occupazione si associa l’allargamento dell’area della disoccupazione che

interessa con intensità progressivamente crescente l’intero 2009. Mentre il tasso di disoccupazione

degli italiani passa dal 6,9% nel quarto trimestre del 2008 all’8,2% alla fine del 2009, quello degli

stranieri raggiunge il 12,6% dall’8,8% di un anno prima. La crescita della disoccupazione riguarda

in misura decisamente più ampia gli uomini, che costituiscono oltre i due terzi dell’incremento della

disoccupazione complessiva straniera.

21

Ad un’analisi più attenta i dati rivelano però una situazione più articolata. Anzitutto, tra gli

immigrati sono aumentati non solo i disoccupati, ma anche gli occupati. Nel complesso, l’incidenza

degli immigrati sull’universo degli occupati aumenta, portandosi all’8,2%. La partecipazione ad

ambiti occupazionali diversi spiega questi andamenti: la caduta dell’occupazione ha infierito

meno sulle attività scarsamente qualificate svolte da molti immigrati. Consolidando il modello

di specializzazione degli ultimi anni, la moderata crescita dell’occupazione straniera nel 2009 (147

mila unità) interessa in otto casi su dieci le professioni non qualificate: dal manovale edile

all’addetto nelle imprese di pulizie, dal collaboratore domestico al bracciante agricolo,

dall’assistente familiare al portantino nei servizi sanitari. Se poi alle professioni non qualificate si

aggiungono quelle svolte dagli operai (carpentiere, camionista, addetto a macchinari e impianti),

l’aumento dell’occupazione straniera viene spiegato completamente. In buona sostanza, la nuova

occupazione straniera si posiziona proprio nei settori dove era già maggiormente presente

accentuando ulteriormente il carattere duale del mercato del lavoro, con gli immigrati concentrati

nei lavori meno qualificati e a bassa specializzazione che risentono in misura più ridotta del ciclo

economico negativo. Più in dettaglio, la componente maschile degli stranieri svolge una professione

operaia in circa il 60% dei casi e un’attività non qualificata in un ulteriore 23%, la componente

femminile si colloca per il 54% nelle professioni a bassa qualificazione, rappresentando il 37% del

totale delle donne (italiane e straniere) che svolgono lavori non qualificati.

In sintesi, si conferma ulteriormente che la forte presenza degli stranieri negli impieghi a

bassa specializzazione risponde sia alla persistente domanda rivolta a questi lavori sia all’ampia

disponibilità dell’offerta ad accettare impieghi lasciati scoperti dalla popolazione italiana. Gli

immigrati, dunque, risentono relativamente meno della crisi per il fatto di accettare tutti i tipi di

lavoro, anche i meno qualificati e meno retribuiti, pagando tuttavia il prezzo di una particolare

svalorizzazione del loro capitale umano.

Il totale dei lavoratori stranieri in Italia risulta essere pari a 1.898.000 nella Rilevazione Istat

e a 3.087.023 negli archivi Inail, ma trattandosi nel primo caso di un dato campionario e nel

secondo di una dato che include anche gli italiani nati all’estero, la loro dimensione ammonta

probabilmente a poco più di 2 milioni.

Cresce comunque, anche se in misura più moderata rispetto al passato, la partecipazione

degli immigrati alle attività indipendenti. Solo per gli immigrati le nuove attività avviate hanno

superato quelle cessate. Per molti, può essere stata probabilmente una scelta di ripiego, in mancanza

di migliori opportunità. Resta però assodato che, tra i modi con cui gli immigrati rispondono alla

crisi, spicca l’avvio di nuove imprese: nei due settori portanti del piccolo commercio e dell’edilizia

si accelera la sostituzione degli italiani da parte di immigrati che vi subentrano.

Nonostante gli effetti della crisi, non risultano massicci fenomeni di rientro nei paesi di

origine. Gli immigrati si sforzano tenacemente di trovare le strade per rimanere in Italia malgrado

tutto: ripiegano sulla sottoccupazione, accettano orari inferiori a quelli desiderati, si spostano sul

territorio, compensano una minore occupazione maschile con un maggior lavoro femminile,

probabilmente accettano più di prima anche il lavoro nero. Non intendono rinunciare alla speranza

che li ha fatti partire. Preferiscono essere male occupati qui che falliti al loro paese, in attesa di

tempi migliori.

Sotto il profilo del funzionamento del mercato del lavoro, l’evento di maggiore rilievo

nell’anno 2009 consiste però indubbiamente nella sanatoria, riservata ai collaboratori familiari e

addetti all’assistenza domiciliare, avvenuta nel mese di settembre. Il provvedimento, il sesto in

ventidue anni, riafferma una costante delle politiche migratorie italiane: il ricorso alle sanatorie a

posteriori per riaggiustare l’equilibrio tra occupazione effettiva e occupazione legale. Ribadisce poi

che la domanda di lavoro espressa dalle famiglie è il motore primario dell’immigrazione irregolare.

Da una parte, i fabbisogni si presentano assai sovente in maniera improvvisa e non possono

aspettare le prudenti e macchinose previsioni dei Decreti flussi. Dall’altra parte, il lavoro in

convivenza, e soprattutto l’assistenza a persone anziane e ammalate, è un’occupazione usurante e

sacrificata; dopo qualche anno subentra quindi l’esigenza di cercare un lavoro diverso, o almeno di

riconquistare una vita privata, magari di ricongiungere i familiari. Servono allora nuovi arrivi di

persone disponibili alla convivenza, per compensare le uscite. Pertanto il fenomeno si riproduce,

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così come l’esigenza di sanatorie. Soltanto politiche diverse, come la possibilità di regolarizzare

immediatamente i lavoratori da parte delle famiglie, sia pure a determinate condizioni, potrebbero

arginare la simbiosi tra famiglie italiane e immigrazione irregolare. Ma il dato forse più

significativo emerso dalla sanatoria, dato il contesto politico del momento, riguarda la

contraddizione per cui gli immigrati in condizione irregolare, definiti giuridicamente colpevoli di un

reato, sono in realtà in larga misura occupati nelle famiglie e dalle famiglie italiane. Si è prodotta

una divaricazione allarmante tra l’immagine pubblica dell’immigrazione, specialmente irregolare, e

il suo profilo effettivo. Per dare una misura di tale distanza basti pensare che alle 14mila espulsioni

avvenute nel 2009 hanno corrisposto quasi 300mila domande di emersione.

Ma il 2009 è anche l’anno dei “fatti di Rosarno”, dove esplode la rabbia degli immigrati,

esasperati dalle condizioni disumane di vita e di lavoro nei campi del Meridione e da alcuni atti di

violenza operati da qualche abitante del posto. Gli incidenti rivelano la dimensione nascosta, e

spesso negata, del contributo degli immigrati all’economia italiana, quella della persistenza e forse

dell’allargamento di sacche inquietanti di sfruttamento, offrendo il palcoscenico nazionale ad una

delle piaghe sociali più antiche del paese. Nell’audizione presso la Camera dei Deputati del 15

aprile 2010, l’Istat sottolinea che «il settore con la maggiore incidenza di unità di lavoro non

regolari è quello dell'agricoltura, che ha visto il tasso di irregolarità crescere dal 20,9 per cento del

2001 al 24,5 per cento del 2009». L’Istituto sottolinea inoltre che esiste una variabilità territoriale

limitata quanto a irregolarità occupazionale: il primo posto spetta al Sud con il 25,3% (Campania e

Calabria in testa); al Centro è il Lazio a occupare il primo posto, con un tasso di irregolarità in

agricoltura del 32,8%. È una piaga antica del mercato del lavoro italiano, che non riguarda solo gli

immigrati, ma che trova terreno favorevole nel loro bisogno di lavoro. Dai campi dell’agricoltura

mediterranea, ai cantieri edili, alle imprese di pulizia, fino alle stesse famiglie, molti immigrati sono

esposti ogni giorno a trattamenti e condizioni di lavoro che ricordano altri tempi. Ma siccome

questo lavoro a basso costo innesca catene di interessi e convenienze che coinvolgono molti,

vigilanza e repressione latitano.

A fronte della migliorata situazione nell’Unione europea, la situazione occupazionale

complessiva degli immigrati in Italia peggiora ulteriormente nel corso del 2010. Aumento della

disoccupazione, deterioramento delle condizioni di lavoro, incremento degli ostacoli alla

stabilizzazione e alla promozione professionale, acuirsi della povertà, ne sono i principali segnali.

Il tasso di occupazione, già sceso sensibilmente nel 2009, diminuisce ulteriormente. Il ritmo

di discesa (dal 64,5% del 2009 al 63,1%) è più che doppio rispetto a quello degli italiani.

Particolarmente consistente è soprattutto la flessione subita dagli uomini. Nel primo trimestre 2011,

la quota di popolazione straniera occupata si è poi abbassata al 62,4%, in calo di quattro decimi di

punto rispetto a un anno prima. Al protrarsi della discesa del tasso di occupazione degli stranieri si è

accompagnato un accrescimento del tasso di disoccupazione: l’aumento della popolazione straniera

in cerca di un impiego ha riguardato entrambe le componenti di genere (dal 9,8% al 10,4% per gli

uomini e dal 13% al 13,3% per le donne).

Tuttavia, l’Istat rileva anche nel 2010 una crescita di occupazione straniera di 183mila unità,

seppure in oltre la metà dei casi in professioni non qualificate. Alla fine dell’anno il numero di

lavoratori stranieri nel paese sale a 2.081.000 nella Rilevazione Istat e a 3.134.843 negli archivi

Inail, probabilmente attestandosi realisticamente attorno ai 2,5 milioni.

Le principali comunità straniere presenti in Italia sono state però colpite dalla crisi in modo

differenziato, a motivo soprattutto della composizione per genere e degli specifici percorsi

lavorativi, influenzati dal modo di operare delle reti etniche di appartenenza come pure dal grado di

concentrazione in nicchie occupazionali. Gli albanesi e i marocchini, prevalentemente uomini

occupati nell’industria, hanno mostrato variazioni sensibilmente più elevate della media sia nella

diminuzione dei tassi di occupazione (rispettivamente, dal 62,2% del 2008 al 54,8% del 2010 e dal

59,1% al 48,7%) che nell’aumento di quelli di disoccupazione (dall’8,3% al 13,5% per gli albanesi

e dal 10,7% al 19,2% per i marocchini). La comunità filippina – al di là del moderato calo del tasso

di occupazione nel 2009, ampiamente recuperato l’anno successivo – e quella polacca, hanno

invece risentito della crisi in misura decisamente più contenuta. Entrambe le comunità, in

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maggioranza rappresentate dalla componente femminile, hanno infatti continuato in gran parte a

trovare impiego nei servizi alle famiglie, risparmiati dai contraccolpi della crisi. Anche le donne

ucraine, prevalentemente occupate nei servizi domestici e nella cura degli anziani, hanno mantenuto

pressoché stabile nel corso della crisi il tasso di occupazione e aumentato solo leggermente quello

di disoccupazione. D’altro canto, altre comunità, come quella cinese, hanno registrato significative

contrazioni nella quota di popolazione occupata e un ampliamento della disoccupazione. In

generale, soprattutto tra le donne, si sono accentuate le differenze tra le comunità straniere, con tassi

di occupazione che spaziano da quelli molto bassi delle marocchine e albanesi (rispettivamente

23,1% e 33,9% nel 2010) a quelli intorno al 90% delle filippine. In modo speculare, i tassi di

disoccupazione delle marocchine e albanesi (25,8% e 19,3%) si confrontano con valori nettamente

più bassi delle altre comunità. Peraltro, la crescita dell’area dei senza lavoro durante la fase ciclica

negativa ha riguardato in modo diffuso la componente maschile delle diverse comunità.

La crisi ha inoltre ulteriormente ampliato la distanza tra il titolo di studio e il tipo di

lavoro svolto. Nel 2010, 880mila stranieri hanno un livello di istruzione e un profilo culturale più

elevato rispetto a quello richiesto dal lavoro svolto, rappresentando il 42,3% dell’occupazione

complessiva, una quota più che doppia di quella degli italiani con le stesse caratteristiche (19,0%).

Il divario tra situazioni di dequalificazione professionale è dunque ampio: per ogni italiano

occupato in mansioni non consone al proprio grado di istruzione ve ne sono 2,2 stranieri. I fenomeni

di “brain waste” (spreco di conoscenze) hanno peraltro teso ad accrescersi nel corso degli ultimi

anni. Più in particolare, gli stranieri in possesso di una laurea, che già prima della crisi svolgevano

un lavoro non qualificato o un’attività manuale nel 40% dei casi, segnalano nel 2010 un’incidenza

del 46%. Anche l’estesa collocazione nei segmenti di minore qualifica dei diplomati, con valori

intorno al 70% tra il 2005 e il 2008, si è rafforzata fino a coinvolgere oltre i tre quarti degli stranieri

in possesso di un diploma. Rispetto al periodo precedente alla crisi, il divario tra titolo di studio e

professione svolta è aumentato sia per gli uomini sia per le donne. Ormai una straniera su due è

occupata in una professione per la quale è richiesto un titolo di studio più basso di quello posseduto,

mentre per le italiane il rapporto è di una a cinque. Tra gli uomini stranieri la quota dei sovraistruiti

ha invece toccato il 36% del totale degli occupati. La disparità di genere è dovuta non solo al

maggiore livello di istruzione delle donne, ma anche alla loro più ampia concentrazione nelle

professioni meno qualificate, soprattutto in quelle legate ai servizi alle famiglie. In questo comparto

l’incidenza della sovraistruzione ha superato il 60%. Tra le principali comunità straniere, le donne

romene, polacche, ucraine e moldave hanno manifestato le più elevate quote di sottoutilizzo del

proprio capitale umano. Inoltre, mentre nella gran parte dei casi il fenomeno della sovraistruzione

riguarda gli occupati italiani nella fase di inserimento nel mercato del lavoro, per gli stranieri tende

a protrarsi nel tempo. L’ampiezza del bacino dei lavoratori stranieri sovraistruiti rimane pressoché

invariata al crescere dell’anzianità lavorativa, mettendo di conseguenza ancora più in risalto la

difficoltà di migliorare la posizione occupazionale. Prevalgono in sostanza percorsi di mobilità

orizzontale che non modificano sostanzialmente la posizione sociale degli stranieri.

Va infine sottolineato, ancora una volta, che una delle più significative pratiche di

adattamento e di risposta dei lavoratori immigrati alla crisi economica è l’aumento delle partite

IVA, ossia della partecipazione alle attività indipendenti. Il dato non è facile da interpretare: può

coprire forme di auto-impiego di rifugio, in mancanza di meglio; può contenere un certo numero di

para-imprese, ossia di attività soltanto formalmente autonome, in realtà dipendenti da un unico

committente; può persino rappresentare un semplice espediente per poter rinnovare il permesso di

soggiorno. Pur con queste avvertenze, rimane comunque un indicatore di dinamismo e di

intraprendenza. Mentre le imprese degli italiani diminuiscono, quelle degli immigrati crescono

anche in tempi di crisi.

A fine 2010 il numero totale dei titolari di impresa stranieri presenti in Italia è pari a

228.540, con un aumento di 19.712 unità rispetto all’anno precedente. Tale crescita si inserisce in

un trend di medio periodo molto dinamico. Nel corso del periodo 2005-2010 il numero di

imprenditori stranieri in Italia è cresciuto in termini assoluti in maniera rilevante (circa 20mila unità

all’anno, con un picco nel 2007, quando si è registrato un incremento di oltre 27mila unità),

cosicché lo stock di fine periodo risulta quasi raddoppiato rispetto a quello rilevato nel 2005.

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Tuttavia, la crescita della imprenditoria straniera, pur elevata, è stata frenata dalla crisi economica.

Se infatti fino al 2007 essa era aumentata mediamente a un ritmo annuo di venti punti percentuali,

successivamente si assiste a una riduzione drastica dei tassi di espansione che, di fatto, risultano

quasi dimezzati rispetto a quelli pre-crisi.

Il profilo della crescita dell’imprenditoria straniera negli ultimi anni si riflette negli

andamenti territoriali. L’imprenditoria straniera è infatti concentrata in un numero ridotto di territori

che, presentando un tessuto produttivo più fitto e articolato, hanno subito sicuramente in misura

maggiore il peso della crisi del biennio 2008-2009. Si tratta della Lombardia, della Toscana,

dell’Emilia Romagna, del Lazio, del Piemonte e del Veneto, regioni che da sole ospitano il 78,2%

dell’imprenditoria straniera del nostro paese. In particolare, la Lombardia rappresenta il principale

polo di attrazione per l’imprenditoria straniera, col 23% del totale dei titolari di impresa immigrati.

La distribuzione territoriale dell’imprenditoria straniera in Italia è per certi versi ovvia,

poiché riflette il dualismo economico che caratterizza l’economia italiana. Più interessanti sono

invece le informazioni relative alla propensione all’imprenditorialità degli immigrati nelle varie

regioni date dal rapporto tra numero di imprenditori immigrati e popolazione straniera complessiva.

In questo modo emerge che la propensione imprenditoriale è massima in Toscana (circa 14 titolari

di impresa per mille residenti) e che regioni in cui il numero di imprenditori stranieri è poco

consistente (Sicilia, Campania, Calabria, Abruzzo e Sardegna) presentano una propensione

all’imprenditorialità ben superiore di quelle dove esso è più significativo. Si tratta di realtà regionali

con un più basso tasso di sviluppo nelle quali, probabilmente, l’essere titolari di impresa (ovvero di

partita Iva) è la contropartita alla difficoltà di inserimento nel mercato del lavoro.

Infine, i tassi di variazione annui del numero di imprenditori stranieri nel 2007 e nel 2010

chiariscono come l’andamento del fenomeno nel tempo rifletta l’insorgere della crisi. Se, infatti, tra

il 2006 e il 2007 il tasso di crescita dello stock dei titolari di impresa stranieri era stato del 19,3%,

tra il 2009 e il 2010 è sceso al 9,4%. In particolare, nel 2010 i tassi di crescita nelle regioni più

sviluppate (che lo ricordiamo sono anche quelle in cui ha attecchito maggiormente l’imprenditoria

straniera) diminuiscono, nella maggior parte delle altre regioni rimangono costanti e, in taluni casi,

aumentano. Quello che è opportuno sottolineare, tuttavia, è che anche nel 2010, nonostante la crisi

economica, i titolari d’impresa stranieri sono cresciuti di circa 20mila unità a fronte di una

decrescita rilevata, invece, tra gli italiani.

5. DIECI ANNI DI INTERNITÀ NELLA SUBALTERNITÀ

Dieci anni di osservazione statistica sull’inserimento degli stranieri nel mercato del lavoro

italiano sono un periodo sufficientemente lungo per poter avanzare qualche riflessione conclusiva

sul posto e sul ruolo ricoperti da questi lavoratori nel nostro Paese.

L’evoluzione registrata dal 2000 all’inizio del 2011 mostra in primo luogo una domanda –

certamente più forte e dai ritmi di crescita decisamente più intensi negli anni tra il 2000 e il 2007,

ma perdurante anche durante la crisi – esercitata costantemente dal mercato del lavoro nazionale nei

confronti di una forza lavoro aggiuntiva, cui hanno essenzialmente risposto i flussi migratori in

entrata nel Paese. Una domanda la cui origine va rintracciata nel carattere fortemente segmentato

del mercato del lavoro nazionale, che vede rispondere categorie differenziate di lavoratori a livelli e

condizioni di lavoro fortemente gerarchizzati, con il risultato di trovare i lavoratori nazionali per lo

più nei posti di lavoro più ambiti e quelli stranieri per lo più in quelli più marginali.

L’analisi di lungo periodo mostra, altrettanto costantemente, un’ampia e continua offerta di

lavoro dall’estero, caratterizzata da una forte disponibilità di adattamento e di risposta a quanto

richiesto dal mercato, al di là del livello professionale e formativo posseduto dalle persone

coinvolte, nella gran parte dei casi più elevato dei lavori ricoperti per anni in Italia.

L’elevato e crescente fabbisogno di forze lavoro aggiuntive è dimostrato tuttora da

un’incidenza dei lavoratori e delle lavoratrici immigrate sulle forze lavoro che si avvicina all’8%, e

da un loro peso di grande rilievo in molti settori, prima tra tutti la collaborazione domestica dove i

cittadini stranieri sono più dell’80% del totale.

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I lavoratori stranieri – in particolare nei primi sette anni del Duemila – hanno potuto trovare

un proprio posto solo accettando condizioni di lavoro segnate da condizioni costanti di sotto-

inquadramento rispetto ai titoli in loro possesso (con conseguente dequalificazione professionale),

sottoutilizzo delle capacità potenzialmente disponibili per la crescita del Paese e del lavoratore,

orari e turni disagiati, retribuzioni più basse di quelle riconosciute agli italiani, concentrazione in

pochi settori e in mansioni pericolose e di basso profilo. Le conseguenze delineatesi e consolidatesi

nel corso del tempo, secondo dinamiche spontanee o indotte, sono state una concentrazione dei

migranti nel mercato del lavoro fortemente orientata non soltanto dalla “linea del colore”, ma anche

da quella del “genere” – interna alla prima – riassumibile in una “settorializzazione”

dell’inserimento degli stranieri rispetto agli italiani e in una “etnicizzazione” tra gli stranieri stessi,

anche dovuta all’agire informale delle cosiddette “reti etniche”, che da una parte sostengono e

assicurano un aiuto ai nuovi arrivati, dall’altra reiterano e riproducono le stesse linee di separazione

e segregazione che già avevano operato nei confronti dei primi arrivati.

Una risposta da parte dei lavoratori stranieri è stata e continua ad essere, anche come

strategia di resistenza alla crisi e alla disoccupazione, l’auto-imprenditoria, che da una parte vede

crescere il numero di stranieri titolari di un’impresa e dei loro dipendenti, dall’altra riproduce

ancora una volta quella “specializzazione etnica” consolidatasi nel lavoro dipendente, dando vita,

soprattutto nel commercio, a vere e proprie “nicchie economiche” a forte caratterizzazione straniera.

La costante mai mutata, se possibile anzi rafforzata dalla crisi economica e dalle sue ricadute

in termini di occupazione e disoccupazione, è il definirsi e consolidarsi progressivo di un modello di

integrazione subalterna e di un mercato del lavoro dal carattere duale. Il tutto, accompagnato da

una mai risolta incapacità di programmazione degli ingressi e dell’inserimento di lavoratori

stranieri, che sempre trovato una soluzione a posteriori nelle ripetute procedure di regolarizzazione,

tanto da poter affermare che la regolarizzazione possa considerarsi la parola chiave delle politiche

migratorie italiane in materia di lavoro e di ingresso dall’estero.

Ma soprattutto, emerge nettamente l’immagine di un’immigrazione fatta in misura ridotta di

persone da assistere e, invece, per la gran parte di uomini e donne che si comportano come veri e

propri operatori economici, sia nel paese di origine – con l’invio periodico delle rimesse – che in

quello di arrivo e insediamento. Basti solo ricordare che, negli ultimi sei anni, la forza lavoro

immigrata in Italia è aumentata di quasi un milione di unità e che i nuovi posti di lavoro creati nel

Paese sono da attribuire in prevalenza al loro inserimento, anche grazie alla creazione di nuove

piccole imprese capaci di dare lavoro non solo agli immigrati, ma a volte agli stessi italiani.