LA FINANZA PUBBLICA VENEZIANA IN ETA’ MODERNA* · la finanza pubblica veneziana in eta’...

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UNIVERSITA’ CA’ FOSCARI DI VENEZIA Ottobre 2003 LA FINANZA PUBBLICA VENEZIANA IN ETA’ MODERNA* Luciano Pezzolo Nota di Lavoro 2003.08

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UNIVERSITA’CA’ FOSCARIDI VENEZIA

Ottobre 2003

LA FINANZA PUBBLICA VENEZIANA IN ETA’ MODERNA*

Luciano Pezzolo

Nota di Lavoro 2003.08

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Luciano Pezzolo

(Dipartimento di Scienze Economiche, Università Ca’ Foscari di Venenzia)

LA FINANZA PUBBLICA VENEZIANA IN ETA’ MODERNA*

*Il presente teste è stato concepito come introduzione per l’edizione di alcuni bilanci veneziani fra metà Cinquecento e primo Settecento. Sono grato a Fausto Piola Caselli, Dino Martellato, Bepi Tattara, Ugo Tucci, Angelo Ventura e Giovanni Zalin per i loro commenti su una prima versione del lavoro.

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ABBREVIAZIONI Archivio Comunale, Montagnana ACM Archivio Comunale, Salò ACS Archivo General, Simancas AGS Archivio di Stato, Padova ASPd Archivio di Stato, Pordenone ASPn Archivio di Stato, Treviso ASTv Archivio di Stato, Udine ASUd Archivio di Stato, Vicenza ASVi Archivio di Stato, Verona ASVr Archivio di Stato, Venezia ASV Biblioteca Civica, Castelfranco BCC Biblioteca Comunale, Udine BCUd Biblioteca Civica Bertoliana, Vicenza BCVi Biblioteca del Civico Museo Correr, Venezia BCMC Biblioteca Nazionale Marciana, Venezia BNM Bibliothèque Nationale, Paris BNP Bilanci generali della Repubblica di Venezia, Bilanci, I I, a cura di F. Besta, Venezia 1912 Bilanci generali della Repubblica di Venezia, Bilanci, II II, Venezia 1903 Bilanci generali della Repubblica di Venezia, Bilanci, III III, Venezia 1903 Bilanci generali della Repubblica di Venezia, Bilanci, IV IV, a cura di A. Ventura, Padova 1972 AVVERTENZE Il calendario veneziano faceva iniziare l’anno il primo marzo, mentre nella Terraferma iniziava il primo gennaio: le date sono state uniformate secondo lo stile moderno. Nei documenti finanziari l’unità monetaria era generalmente il ducato di conto (o ducato corrente), che apparve come moneta di conto nel 1517, suddiviso in 24 grossi di 32 piccoli ciascuno. Il ducato di conto equivaleva a lire 6 e soldi 4 di piccoli. Una lira di piccoli era costituita da 20 soldi di 12 denari ciascuno. Impiegata in misura minore e per lo più nella contabilità privata e nelle dichiarazioni fiscali, una lira di grossi corrispondeva a dieci ducati di conto1. Nel testo e nelle tabelle, salvo diversa indicazione, i dati sono espressi in ducati di conto. Si avverte inoltre che le cifre nelle tabelle sono state arrotondate non considerando l’unità inferiore al ducato (grossi o lire). 1 Il libro di Mueller cit. in Tab. 1 e quello di F.C. Lane con la collaborazione dello stesso Mueller, Money and banking in medieval and renaissance Venice. Coins and moneys of account, Baltimore 1985, costituiscono la miglior analisi delle questioni monetarie e finanziarie della Venezia medievale. Per quanto riguarda l’età moderna, le ricerche di G. Mandich, Formule monetarie veneziane del periodo 1619-1650, in Studi in onore di Armando Sapori, II, Milano 1957, pp. 1145-1183; e di U. Tucci, Convertibilità e copertura metallica della moneta del Banco Giro veneziano, in “Studi veneziani”, 15 (1973), pp. 349-448, offrono un eccellente punto di partenza.

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Il ducato corrente conobbe un progressivo svilimento in termini di intrinseco, come mostra la tabella. TAB 1 Argento o grano? La questione non è certo oziosa. Già la storia dei prezzi si è scontrata contro le difficoltà di operare una scelta tra valori in moneta di conto o calcolati piuttosto in fino di argento. Le osservazioni di Luigi Einaudi e le giuste perplessità di Carlo M. Cipolla riguardo l’opportunità di convertire in argento fino i prezzi rilevati in moneta di conto sono ancora in gran parte condivisibili2, ma non forniscono aiuto di fronte ai problemi posti dall’analisi comparata dei dati finanziari. Nei casi in cui ho ritenuto utile, pertanto, i dati finanziari espressi in moneta di conto sono stati convertiti in quantità di argento o di grano. Ho preferito ricorrere all’argento piuttosto che al grano per due motivi: anzitutto l’argento permette di attuare confronti con dati conosciuti per altri Stati, nel quadro di una analisi di lungo periodo le distorsioni congiunturali sono limitate e inoltre i mutamenti dell’intrinseco dovrebbero riflettersi sui cambi tra le diverse monete3. Questo ostacolo potrebbe essere facilmente superato impiegando una media mobile novennale dei prezzi del grano che attutisse la marcata volatilità delle quotazioni, ma purtroppo l’attuale indisponibilità di dati continui dei prezzi cerealicoli impedisce la costruzione di una media affidabile4. Va sottolineato poi che il prezzo del grano rappresenta un indice piuttosto discutibile. Si consideri, infatti, che tra Sei e Ottocento la dieta di base di buona parte della popolazione veneta mutò passando dal grano al mais, e pertanto il grano venne parzialmente a perdere il suo valore rappresentativo, almeno in termini di rapporto tra finanza e consumi basilari. Analogamente, calcolare la spesa pubblica in ammontare di grano appare poco plausibile, visto il carattere stesso delle uscite statali, che poco hanno a che vedere con i cereali. Anche per quanto concerne i confronti, i livelli dei prezzi notevolmente differenti in Europa non spingono a privilegiare il grano come utile unità di misura5. Se l’ampio scarto tra i mercati cerealicoli e le diverse congiunture non consigliano la scelta del grano come standard, il prezzo dell’argento in rapporto all’oro sulle piazze europee mostra invece un certo livellamento, con differenziali piuttosto contenuti che non si discostano di molto da quelli veneziani della tabella 16. L’argento, insomma, risulta un parametro talvolta preferibile al grano, ma è anche 2 L. Einaudi, Dei criteri informatori della storia dei prezzi. Questi devono essere espressi in peso d’argento o d’oro o negli idoli usati dagli uomini?, in “Rivista di storia economica”, 5 (1940), pp. 43-51; C.M. Cipolla, Moneta e civiltà mediterranea, Vicenza 1957, pp. 82 sgg. 3 Anche in recenti indagini comparate su prezzi e salari, del resto, sono state proposte elaborazioni in termini di argento. Cfr. J.L. van Zanden, Wages and the standard of living in Europe, 1500-1800, in “European review of economic history”, 2 (1999), pp. 175-97. 4 La serie più lunga di prezzi del grano è quella di D. Lombardini, Pane e denaro a Bassano tra il 1501 e il 1799, Vicenza 1963, che comunque presenta numerose lacune. In alcuni casi ho preferito utilizzare dati più continui anche se più limitati per quanto riguarda la lunghezza del periodo. Per una analisi di lungo periodo, pertanto, ho impiegato i prezzi di Lombardini, mentre per ambiti cronologici più contenuti - specie per il Settecento - ho tratto le cifre da G. Gullino, I Pisani dal banco e moretta. Storia di due famiglie veneziane in età moderna e delle loro vicende patrimoniali tra 1705 e 1836, Roma 1984, pp. 490-95. 5 Cfr. la bella serie di W. Abel, Congiuntura agraria e crisi agrarie. Storia dell’agricoltura e della produzione alimentare nell’Europa centrale dal XIII secolo all’età industriale, Torino 1976 (Hamburg-Berlin 19662), Appendice seconda, tab. 29. 6 Si veda la figura 5 annessa al saggio di F. Braudel e F.C. Spooner, I prezzi in Europa dal 1450 al 1750, in Storia economica Cambridge, IV, a cura di E.E. Rich e C.H. Wilson, Torino 1975 (Cambridge 1967). Alcuni dati sul rapporto Ag/Au per il Cinque e primo Seicento in C.P.

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vero che il giudizio finale dipende dalla natura dei problemi che si vogliono affrontare. Così, se i dati finanziari vengono posti in relazione alla pressione fiscale, è più opportuno assumere indicatori quali il prezzo del grano e i salari, mentre l’ammontare in argento fornisce una adeguata misura nell’ambito di un confronto internazionale tra le performances delle diverse finanze statali. I limiti di questa scelta, semmai, stanno nella consistente svalutazione dell’argento rispetto all’oro che si verificò a partire dal secondo quarto del Seicento, che pone ulteriori problemi per una lettura diacronica di lungo periodo dei dati.

Kindleberger, A financial history of Western Europe, Oxford 19932, pp. 60-61; e per il Settecento, U. Tucci, Le rapport or/argent dans l’économie monétaire européenne du XVIIIe siècle, in Etudes d’histoire monétaire, éd. par J. Day, Lille 1984, pp. 335-51; nonché M.-T. Boyer-Xambeu, G. Deleplace, L. Gillard, Bimétallisme, taux de change et prix de l’or et de l’argent (1717-1873), in “Economies et sociétés”, 7-8 (1995), pp. 5-374, concernente le piazze di Parigi e Londra.

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Che cosa sapevano i governanti veneziani della finanza statale? Nonostante la cultura mercantile che accomunava, almeno sino al XVI secolo, gran parte del patriziato veneziano, e nonostante la città costituisse uno dei maggiori centri di diffusione delle conoscenze tecniche per il mondo dei commercianti del tempo, la documentazione finanziaria statale non riflette pienamente quel grado di competenza che è lecito aspettarsi dal mondo veneziano. Quanto ci è rimasto delle scritture finanziarie statali della prima età moderna non offre, in genere, una testimonianza dell’efficienza amministrativa dei funzionari della Serenissima. I documenti, infatti, risultano piuttosto scarni in quanto a dati e a chiarezza contabile. Ben altra impressione, invece, emerge dalle pagine dei quaderni e dei registri privati, dove sono minuziosamente registrate le varie partite dell’attività di un mercante o di una commissaria. E’ solamente dal XVII secolo che affiorano documenti redatti con una certa organicità, anche se non raggiungono l’accuratezza formale dei bilanci settecenteschi. Al di là delle specifiche questioni tecniche, è opportuno domandarsi quale fosse il livello di conoscenza della finanza della Repubblica da parte del suo ceto dirigente. Se, come era unanimemente riconosciuto, il denaro svolgeva un ruolo essenziale come supporto della struttura materiale di uno Stato, allora il problema andava a toccare uno degli elementi che formavano la cultura di governo del patriziato veneziano. Anzitutto conviene rilevare che la notevole rotazione delle cariche tra i patrizi, una prassi che caratterizzava il meccanismo di governo marciano, metteva a contatto diretto con le materie finanziarie un gran numero di nobili. La moltiplicazione delle magistrature finanziarie tra i secoli XIV e XVI e la gestione di una propria cassa per ciascun ufficio probabilmente comportarono un ampio coinvolgimento nei problemi gestionali dell’apparato statale. Anche se mancano specifiche analisi sugli uffici di carattere finanziario detenuti dai nobili veneziani7, è indubbio che il detentore della carica si avvalesse del proprio bagaglio di conoscenze e di esperienze formatosi nella piazza realtina o nell’amministrazione del patrimonio familiare. Per quanto riguarda un particolare ufficio, quello dei Revisori e Regolatori delle entrate pubbliche in Zecca, vale a dire un importante organo di controllo dell’attività finanziaria statale, è stato provato che oltre la metà degli eletti tra 1646 e 1797 apparteneva alle casate più eminenti del corpo aristocratico8. E non sarebbe difficile tratteggiare biografie di patrizi che, sin dal Cinquecento, acquisirono una profonda conoscenza della finanza statale ricoprendo numerosi incarichi sia nella capitale che nei domini da terra e da mar. Un esempio in tal senso è offerto da Leonardo Donà, i cui manoscritti rimastici costituiscono una fonte eccezionale per la storia finanziaria del secondo Cinquecento proprio per le diverse cariche amministrative esercitate dal futuro doge, e che dimostrano la profonda conoscenza della finanza veneziana che poteva acquisire un nobile marciano9. Che ci fossero patrizi, dunque, che riuscissero a orientarsi nei labirinti della finanza veneziana non deve certo destare sorpresa; conviene tuttavia chiedersi quale fosse il grado di conoscenza dell’intero ceto di governo, che forniva il personale ai principali organismi che dettavano le linee della politica finanziaria dello Stato. Ovviamente tale domanda non ha una 7 Una analisi ristretta ad alcune importanti cariche è stata compiuta da P.F. Grendler, The Tre Savii sopra Eresia 1547-1605: a prosopographical study, in “Studi Veneziani”, n.s. 3 (1979), pp. 283-340; e Id., The leaders of the Venetian state, 1540-1609: a prosopographical analysis, ibid., 19 (1990), pp. 35-85. 8 A. Zannini, Il sistema di revisione contabile della Serenissima. Istituzioni, personale, procedure (secc. XVI-XVIII), Venezia 1994, p. 156; e soprattutto O.T. Domzalski, Politische Karrieren und Machtverteilung im venezianischen Adel (1646-1797), Sigmaringen 1996. 9 Cenni a incarichi di Donà nelle magistrature finanziarie in F. Seneca, Il doge Leonardo Donà. La sua vita e la sua preparazione politica prima del dogado, Padova 1959, pp. 168, 230, 245. Numerosi documenti finanziari redatti da Donà si trovano in BCMC, Donà dalle Rose.

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risposta sicura, ma credo sia interessante affrontare la questione per tentare di comprendere alcuni elementi del sistema politico-finanziario della Repubblica. Così come il patriziato veneziano era percorso da profonde differenze di carattere economico, culturale e politico, anche il livello di conoscenza delle questioni finanziarie era piuttosto disuguale. Accanto a nobili esperti sedevano molti altri che sembravano avere una vaga idea dell’effettiva capacità finanziaria dello Stato. E forse ciò era dovuto più alla struttura costituzionale veneziana - fortemente basata sulla sovrapposizione di competenze e sul reciproco controllo tra le magistrature - che al disinteresse di alcuni patrizi. Così, ad esempio, poteva capitare che nel 1529 il Consiglio dei Dieci decidesse di impegnare 100.000 ducati del dazio sull’olio, 50.000 di quello sul vino e altrettanti di quello della macina non sapendo che le entrate dei primi due erano già state obbligate in precedenza10. Perciò non deve sorprendere che in una discussione del Senato nel 1532 a Tommaso Mocenigo, che richiedeva 70.000 ducati per le necessità dell’Arsenale, si contrapponesse Gerolamo Pesaro affermando semplicemente che “non bisogna a l’Arsenal tanto”11, e non portando altri argomenti a sostegno della sua opposizione. La dispersione dei flussi di denaro tra i mille rivoli delle magistrature e le intersezioni giurisdizionali impedirono per lungo tempo l’emergere di un’immagine complessiva della capacità finanziaria dello Stato. Sarebbe stata necessaria l’azione di un organo coordinatore - se non proprio accentratore - che raccogliesse le informazioni e i dati sui vari flussi e che fosse in grado di fornire il quadro della situazione finanziaria in ogni momento; ma una simile magistratura andava a cozzare contro uno dei pilastri della concezione costituzionale veneziana, caratterizzata dalla distribuzione della giurisdizione tra più organi nel quadro di una fitta sovrapposizione di competenze. Nonostante questi limiti, comunque, l’impressione è che in genere le autorità veneziane riuscissero ad avere una sufficiente conoscenza dello stato della loro finanza e che fossero in grado di effettuare con una discreta capacità, superiore rispetto ad altri gruppi dirigenti, calcoli e valutazioni tecniche12. Le implicazioni politiche del bilancio non sfuggivano certo ai veneziani. “Le rendite della veneziana Repubblica - affermava Giuseppe Tentori nel Settecento - formano uno di quei politici segreti che non pervengono alla cognizione dei privati per le molteplici viste di una ben regolata polizia”13. La capacità finanziaria era un argomento scabroso, che metteva in evidenza l’effettiva forza di uno Stato, e non era certo un caso che nelle relazioni che gli ambasciatori veneziani presentavano al governo la finanza pubblica fosse un argomento topico. La quantità di denaro raccolta dalla Repubblica, perciò, doveva essere un segreto ma, come spesso accadeva, cifre e stime circolavano. Non sorprende allora che Montaigne, di passaggio a Venezia nel 1580, fosse stato in grado di valutare le entrate veneziane con una buona approssimazione. E cifre a riguardo, in alcuni casi piuttosto strampalate, venivano ipotizzate da viaggiatori e diplomatici14. 10 M. Sanudo, I diarii, a cura di F. Stefani et al., 56 voll., Venezia 1879-1903, L, coll. 227-28 (28 aprile 1529). 11 Ibid., LV, coll. 431-32 (3 febbraio 1532). 12 P.G.M. Dickson, The financial revolution in England. A study in the development of public credit, 1688-1756, Aldershot 19932, p. 52, ritiene le autorità finanziarie inglesi incapaci ancora a fine Seicento di effettuare sofisticati calcoli finanziari. Analogo giudizio di J.C. Riley, The Seven Years War and the old regime in France. The economic and financial toll, Princeton 1986, p. 174, per l’amministrazione francese. 13 La frase è citata da G. Gullino, Considerazioni sull’evoluzione del sistema fiscale veneto tra il XVI e il XVIII secolo, in Il sistema fiscale veneto. Problemi e aspetti, XV-XVIII secolo, a cura di G. Borelli, P. Lanaro e F. Vecchiato, Verona 1982, p. 61. 14 M. de Montaigne, Journal de voyage en Italie par la Suisse et l’Allemagne en 1580 et 1581, éd. par M. Rat, Paris 1955, p. 72; L. Pezzolo, L’oro dello Stato. Società, finanza e fisco nella Repubblica veneta del secondo ‘500, Venezia 1990, p. 214. Una diversa interpretazione del passo sembra data da E. Concina, Venezia nell’età moderna. Struttura e funzioni, Venezia 1989, p. 13. Una relazione su Venezia, databile agli anni tra la conclusione della guerra di Candia e l’inizio del

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Gli strumenti della conoscenza Il documento fondamentale per conoscere la finanza statale, di allora come di oggi, è il bilancio, dove vengono registrate le entrate e le uscite alla fine dell’anno finanziario (bilancio consuntivo) o quelle previste (bilancio di previsione). Nonostante il bilancio nelle finanze d’antico regime non assumesse quell’importanza quale strumento di politica economica che invece svolge oggi, esso costituiva nondimeno un punto di riferimento fondamentale per la politica governativa, permettendo di individuare quei settori che necessitavano di particolare attenzione e di eventuali interventi correttivi. Dati particolareggiati sulla finanza veneziana scarseggiano sino alla metà del XVI secolo: da quell’epoca iniziano a emergere rendiconti e bilanci più o meno dettagliati per alcuni anni, sino ad arrivare alla compilazione annuale dei bilanci generali nel Settecento. Il progressivo addensarsi di documentazione finanziaria non deriva unicamente dai capricci del caso e dalle vicende che hanno interessato gli archivi della Repubblica. E’ plausibile supporre che la gestione autonoma delle numerose casse e il relativamente contenuto volume gestionale della finanza del Comune Veneciarum non avessero spinto a una redazione regolare di documenti riassuntivi. Con il crescere degli impegni connessi alla costituzione di un ampio Stato territoriale in terraferma e con la necessità di regolare i flussi di spesa verso la macchina militare, che stava assumendo contorni stabili, forse aumentarono le spinte verso la redazione di documenti che mostrassero con maggior precisione le relazioni tra le risorse finanziarie e i bisogni dello Stato. Ma un bilancio non rappresenta solamente una determinata situazione finanziaria, dovrebbe altresì consentire di stimare il potenziale finanziario in vista di impegni futuri. Il problema, dunque, che si prospettava ai governanti veneziani era quello, tra l’altro, di avere a disposizione un documento affidabile di previsione finanziaria. E’ necessario perciò chiedersi quale fosse la capacità di previsione delle autorità veneziane responsabili della politica finanziaria. La previsione finanziaria, o almeno un atteggiamento in tal senso, era una caratteristica propria dell’ambiente mercantile veneziano, teso all’individuazione delle diverse possibilità speculative offerte dal mercato internazionale e locale. L’acquisizione di informazioni era il fattore cruciale per la scelta economica del mercante; ma egli tendeva a una valutazione di breve periodo che gli offrisse l’opportunità di speculare e di ottenere un lucro in poco tempo15. Gli assicuratori e gli appaltatori invece basavano le loro previsioni su attente osservazioni dell’andamento degli incidenti navali, i primi, e sulle previsioni dei flussi di traffico e dei consumi in un determinato ambito, gli altri16. A differenza del mercato cerealicolo - pesantemente influenzato dall’oscillazione dei raccolti e dai capricci del clima - il settore finanziario sembrava offrire qualche dato più certo. I conflitto per la Morea, indica in oltre quattro milioni le entrate complessive della Repubblica; una cifra che in effetti si avvicina ai dati dei bilanci dell’epoca (BNP, Fonds français, 15757, c. 182r). Una valutazione eccessiva sulla capacità finanziaria veneziana nel primo Seicento si trova in T. Coryat, Crudezze. Viaggio in Francia e in Italia 1608, a cura di F. Marenco e A. Meo, Milano 1975, p. 303; mentre Montesquieu, Viaggio in Italia, a cura di M. Colesanti, Roma-Bari 1995, p. 16, fornisce cifre inferiori per il primo Settecento. Anche in Francia, nonostante il bilancio fosse circondato dal segreto, cifre e stime non mancavano. Secondo, R. Doucet, Les finances de la France en 1614 d’après le traité du revenu et dépense des finances, in “Revue d’histoire économique et sociale”, 1930, pp. 133-63, il bilancio del 1614 era conosciuto diffusamente. Cfr. anche F. Bayard, Le poids financier des régions françaises à l’époque d’Henry IV (1600-1610), in “Etudes et documents”, 3 (1991), p. 40. 15 U. Tucci, Alle origini dello spirito capitalistico a Venezia: la previsione economica, in Studi in onore di Amintore Fanfani, III, Milano 1962, p. 556. 16 U. Tucci, Gli investimenti assicurativi a Venezia nella seconda metà del Cinquecento, in Id., Mercanti, navi, monete nel Cinquecento veneziano, Bologna 1981, pp. 150-51.

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movimenti ampi e repentini dei prezzi cerealicoli rendevano la previsione assai difficile e soggetta ad ampi margini di incertezza; movimenti che, invece, erano assai meno bruschi per chi avesse voluto determinare gli andamenti - poniamo - delle importazioni di olio o del consumo del vino a Venezia. Si può dunque affermare che i veneziani avevano buone opportunità per analizzare alcuni settori dell’attività economica in una prospettiva di medio periodo. Alcuni elementi, tuttavia, potevano intervenire a sconvolgere le previsioni degli attori, appaltatori di imposte e autorità finanziarie. La guerra, anzitutto: il sorgere di un conflitto limitava i traffici e gli scambi17, mentre l’aumento della pressione fiscale comprimeva i consumi globali. La peste e la carestia - altri eventi imperscrutabili - contribuivano a rendere il futuro ulteriormente oscuro18. Se questi fattori agivano nel breve periodo, la congiuntura commerciale internazionale influiva invece nel medio-lungo termine; i mutamenti in atto nel mercato incidevano sui gettiti delle imposte, ma gli effetti si sarebbero individuati nel giro di qualche anno. Non pare invece che il fenomeno dell’inflazione - particolarmente marcato tra la metà del Cinque e i primi decenni del Seicento - fosse tenuto in considerazione nel momento di redigere un bilancio. Tra 1541 e 1591 l’incremento annuo non composto del prezzo del grano a Bassano fu del 7,84 per cento; tra 1593 e 1610 il tasso annuo risultò del 2,77 per cento; mentre tra 1611 e 1629 il prezzo registrò un aumento annuo del 6,1 per cento19. Ebbene, non è certo dato registrare analoghi incrementi nelle entrate statali. Il problema, semmai, riguardava gli appaltatori dei dazi, che dovevano svolgere le loro considerazioni tenendo conto delle variazioni dei prezzi. Il governo, invece, era costretto a valutare l’impatto della congiuntura di prezzi elevati nel caso delle forniture di cereali per la flotta. Non sorprende, dunque, che nel 1594, in una drammatica fase di cattivi raccolti e di importazioni granarie dall’Europa orientale, il Senato guardasse preoccupato all’inadeguatezza dei fondi assegnati qualche anno prima per l’acquisto delle “biave” destinate alla flotta20. D’altro canto, la tendenziale stabilità dei prezzi nel tardo Medioevo aveva abituato i governanti a cambiamenti piuttosto lenti, mentre l’aumento verificatosi lungo il XVI secolo non era assolutamente prevedibile, ponendo problemi che sino allora non erano emersi. Era dunque possibile compilare un bilancio previsionale? Se volessimo riferirci a un bilancio così come lo intendiamo attualmente, la risposta apparirebbe decisamente negativa; tuttavia sarebbe inopportuno rigettare la possibilità che i governi d’antico regime non tentassero di immaginare un livello plausibile di entrate e di uscite. Non sarei pertanto così netto nell’affermare che il tentativo di determinare grosso modo l’entità di un bilancio statale fosse destinato all’insuccesso21. Non desta certo stupore riscontrare ai vari livelli amministrativi dello Stato - dalle comunità soggette alle tesorerie - documenti di previsione finanziaria che offrono un importante strumento di controllo nella gestione locale e centrale22. Non sempre rendiconti, bilanci 17 Cfr., ad esempio, le difficoltà provocate dalla guerra di Cipro sul dazio muda di Treviso, che colpiva, tra l’altro, le merci levantine inviate verso l’Europa centrale via Venezia: ASV, Collegio, Risposte di fuori, filza 324 (26 ottobre 1570), e passim. I dati in Bilanci, I, pp. 591-92; BCMC, PD, 399c, fasc. 29, comunque, non registrano cali drammatici. 18 Sulla diminuzione delle riscossioni in tempo di peste, ASV, Senato Terra, filza 99 (scrittura dei Governatori delle entrate allegata al decreto 27 novembre 1586; ivi, Senato Zecca, reg. V, c. 148r (16 agosto 1630); Collegio, Risposte di fuori, filze 383-84, passim. 19 Lombardini, Pane e denaro, p. 56. 20 ASV, Senato Zecca, reg. 1, c. 127v (4 febbraio 1594). 21 Cfr. invece le recise affermazioni di A.W. Lovett, Spain and the revolt of the Netherlands 1559-1648. A comment, in “Past and Present”, n. 55 (1972), pp. 156-57; e la convincente risposta di G. Parker, ibid. Si vedano anche le osservazioni, relative ai bilanci dello Stato della Chiesa, di P. Partner, Papal financial policy in the Renaissance and Counter-Reformation, "Past and present", n. 88 (1980), pp. 33-35. 22 Sin dagli inizi del Cinquecento le comunità romagnole dovevano sottoporre al governo pontificio un bilancio preventivo: cfr. C. Penuti, Finanza locale, pressione fiscale e società a Cesena nei

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formalmente chiari e stati di finanza risultavano affidabili, ma è opportuno sottolineare che in taluni casi le cifre di carattere generale costituivano il risultato finale di un’ampia raccolta di dati provenienti dalle tesorerie provinciali confluiti al centro, dove venivano elaborati e sintetizzati. Questo materiale, poi, forniva la base per la redazione di un bilancio “previsionale”. Così sembra, per esempio, che sia stato il caso di alcuni rendiconti finanziari della Repubblica di Venezia redatti tra gli anni Settanta e Ottanta del XVI secolo23. Sin dalla fine del Quattrocento si era tentato di razionalizzare i flussi di entrata delle Camere del Dominio da terra in funzione delle spese, soprattutto per quelle di carattere militare24, mentre il gettito di alcuni dazi riscossi a Venezia era stato destinato al pagamento degli interessi sul debito statale. Verso la metà del XVI secolo invece si levarono varie voci che richiesero un controllo più attento sulla documentazione finanziaria centrale. Abbiamo numerosi documenti che attestano lo sforzo dell’amministrazione veneziana di ordinare e indirizzare i flussi di denaro che giungevano nelle casse della capitale25: varie entrate furono destinate alle più importanti voci di spesa, ma non sia ha l’impressione che vi fosse ancora un progetto globale che abbracciasse il meccanismo del bilancio. Un tentativo in tal senso venne attuato nel 1566, quando il Consiglio dei Dieci prese un’iniziativa per la redazione di rendiconti finanziari affidabili; pochi anni dopo l’opera non risultava ancora terminata, poiché i contabili incaricati di raccogliere i dati avevano avuto difficoltà a gestire un materiale piuttosto ampio (14 libri di entrate e uscite)26. Lo scoppio della guerra di Cipro probabilmente pose fine all’iniziativa. Ben altra fortuna ebbero le regolazioni che vennero compilate tra Cinque e Seicento. Non è forse un caso che si possano trovare vari documenti di provenienza diversa relativi agli anni 1579-80, vale a dire il periodo della prima regolazione generale delle entrate e delle uscite che sia giunta a noi27. La raccolta di dati e la loro elaborazione in medie annuali rendono tali cifre piuttosto affidabili e permisero alle autorità veneziane di stimare una previsione di bilancio in termini abbastanza soddisfacenti. Una verifica delle cifre assegnate alle varie voci di spesa e degli introiti previsti risulta opportuna, anche allo scopo di accertare la reale capacità previsionale del governo marciano. In base ai dati conosciuti risulta che il 97,4 per cento di quanto era stato previsto venne effettivamente riscosso nel 1587; mentre una percentuale di poco inferiore (94,8 per cento) giunse nei forzieri veneziani nel 1603-4 rispetto a ciò che la regolazione aveva stabilito nel 1602. Occorre poi aggiungere che le regolazioni potrebbero altresì essere considerate dei veri e propri bilanci, visto che tale documento imponeva una stretta relazione tra una voce in entrata e un’altra in uscita. Il sistema della regolazioni, tuttavia, comportava qualche limite: l’ammontare assegnato talvolta poteva non essere sufficiente per soddisfare le necessità

secoli XVI e XVII, in Storia di Cesena, III, a cura di A. Prosperi, Rimini 1989, p. 274. Piuttosto realisticamente, il redattore di un bilancio preventivo toscano nel 1567 scriveva di entrate che “si spera saranno l’anno prossimo”: cit. da E. Stumpo, Aspetti e problemi della storia politico-diplomatica dell’Italia non spagnola nell’età di Filippo II, in “Quaderni sardi di storia”, 2 (1981), pp. 113-14 n. 23 Anche in Francia ci si basava, ovviamente, su dati precedenti: P. Hamon, “Gouverner, c’est prévoir”: quelques remarques sur la prévision financière dans la première moitié du XVIe siècle, in L’administration des finances sous l’Ancien Régime, Paris 1997, pp. 8 sgg. 24 ASV, Senato Terra, reg. 11, cc. 36r-v (8 dicembre 1490); reg. 14, cc. 108r-v (24 settembre 1502); reg. 16, cc. 61v-63v (23 dicembre 1508); ivi, Consiglio dei Dieci, reg. 32, c. 54r (14 dicembre 1508). 25 Bilanci, I, ; BCMC, Donà dalle Rose, 161, cc. 30r, 100r. 26 ASV, Consiglio dei Dieci, Comuni, reg. 27, c. 153r (5 novembre 1566); reg. 29, cc. 5v-6v (23 marzo 1569). 27 Dati finanziari circa le Camere del Dominio da terra ed entrate daziarie di Venezia in ASV, Secreta, Materie miste notabili, 59 bis, cc. 16v, 17r, 50r, 61r, 63r-v, 123v; Governatori delle entrate, busta 491, c.n.n. (30 aprile 1579); Misc. Gregolin, buste 54, 55, passim.

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dell’ufficio oppure, viceversa, si tendeva a spendere l’intera somma nonostante gli impegni di spesa si fossero dimostrati inferiori al previsto. Gli ostacoli che si frapponevano alla redazione di un bilancio complessivo dello Stato risiedevano anche nell’assenza di una tesoreria centrale che fungesse da valvola dei flussi finanziari. Del resto, come è stato giustamente osservato, la costituzione di una cassa centrale sarebbe andata a cozzare contro i principi costituzionali della Signoria, poiché ciò avrebbe implicato il controllo da parte di un solo organo di un settore nevralgico dell’attività statale28. In effetti un fugace tentativo d’istituire una cassa unica dove “debbano capitare tutte le intrade della Signoria Nostra” fu attuato nel giugno del 1615, ma dopo poco tempo il Senato ritornò sulla sua decisione ristabilendo il sistema consueto29. Certo, una tesoreria centrale avrebbe agevolato il processo - considerato moderno - di unificazione delle entrate tributarie e di controllo di bilancio, ma una gestione basata su un’unica cassa sarebbe stata un’eccezione negli Stati dell’Europa d’ancien régime (e talvolta oltre)30. L’autonomia gestionale delle numerose casse era una caratteristica diffusa, e Venezia non faceva eccezione: i costi di controllo e di informazione probabilmente contribuivano a rendere difficile l’istituzione di un organo finanziario centrale che, soprattutto, avrebbe incontrato l’opposizione dei vari uffici gelosi delle proprie prerogative. La raccolta del denaro Agli occhi di qualche smaliziato patrizio - e non solo - un bilancio, benché se ne riconoscesse l’utilità, poteva apparire come un mero documento che, spesso, non rifletteva la realtà. Le entrate tributarie - veniva lamentato verso la fine del Cinquecento - “non se scuode de anno in anno, che è de dodese mesi, ma l’anno a scuoder è de 16 e de 18 mesi”; quanto allo spendere è “il contrario”, poiché nel giro di una decina di mesi “se dà tutto anticipatamente”31. E in realtà questa osservazione indicava nei tempi lunghi della riscossione uno dei problemi più gravi del meccanismo tributario, tanto da vanificare talvolta i calcoli connessi alle previsioni di bilancio annuale. A ben vedere, infatti, la critica ai tempi lunghi di riscossione trovava conferma nella contabilità, pubblica e privata. Se durante i drammatici anni della crisi di Cambrai il nobile Nicolò Donà q. Luca si mostrò piuttosto sollecito nel soddisfare il fisco, verso la metà del Cinquecento Antonio Barbarigo faceva trascorrere sino a duecento giorni tra l’imposizione della decima e l’effettivo pagamento32. Vettor Correr e i suoi fratelli furono abbastanza solerti durante il conflitto di Cipro, mentre lasciarono passare più tempo qualche anno dopo33. Una somma cospicua (in media circa 67.000 ducati fra 1571 e 1585) venne annualmente riscossa dai Governatori alle entrate a titolo di decime e tanse non versate entro i termini dai contribuenti veneziani; una somma che corrispondeva pressappoco al 40 per cento del gettito annuo teorico34. I dati relativi al pagamento del sussidio di Verona nella seconda metà del Cinquecento dimostrano che nel giro di tre-quattro anni rimaneva ben poco ancora da riscuotere35. Ma il gettito 28 A. Ventura, Introduzione a Bilanci, IV, pp. XXXI-XXXII. 29 ASV, Senato Zecca, reg. per gli anni 1608-26, cc. 88r, 91r (10 giugno e 3 ottobre 1615). 30 R. Bonney, Revenues, in Economic Systems and State Finance, ed. by R. Bonney, Oxford 1995, pp. 444-45. 31 BCMC, Donà dalle Rose, 27, c. 17. 32 L. Pezzolo,Il fisco dei veneziani. Finanza pubblica ed economia tra XV e XVII secolo, Verona 2003, pp. 46-48; Id., L’oro dello Stato, p. 310. 33 ASV, Archivio privato Correr in Archivio privato Marcello Grimani Giustinian, busta 9, fasc. 12: pagamenti di tanse e decime dal 1570 al 1587. 34 Cfr. i dati in ASV, Senato Terra, filza 99 (27 novembre 1586). 35 Pezzolo, L’oro dello Stato, pp. 308-10. Verona risultò pagare regolarmente l’intera quota del sussidio anche nel periodo 1696-1722 (ASV, Dieci Savi alle decime in Rialto, 2016). Un quadro più controverso è dato invece dal pagamento dei sussidi ordinari e straordinari di Vicenza negli anni

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dei campatici imposti nel 1617 e 1619 sui proprietari fondiari veneziani raggiunse rispettivamente il 70 e il 57 per cento della somma teorica, mentre si dovettero attendere una decina di anni perché i circa 150.000 ducati del campatico del 1626 fossero interamente pagati36. Un’immagine diversa è invece fornita dalle riscossioni dei sussidi straordinari in Terraferma decretati tra il 1646 e il 1658: stando ai dati disponibili per il Bergamasco, al gennaio 1661 risultava che i contribuenti di quella provincia avevano sostanzialmente pagato l’intero ammontare37. Se i bergamaschi si dimostrarono, almeno in questo caso, dei discreti contribuenti, assai più preoccupazioni per il governo veneziano provenivano dal corpo ecclesiastico, sempre attento a frapporre un qualsivoglia ostacolo alla mano del fisco statale. Non è forse un caso che nel 1602 i rettori di Vicenza rilevassero che le decime sul clero vicentino degli ultimi anni fossero state pagate in una misura inferiore alla metà dell’importo teorico38. Trarre delle conclusioni da questi dati, concernenti imposte dirette, sarebbe però pericoloso: il buon esito di una riscossione tributaria dipendeva da numerosi fattori, economici, istituzionali, politici e ideologici. Certamente il consenso all’imposizione poteva facilitare il lavoro degli esattori, ma non bisogna neppure sottovalutare la capacità coercitiva dell’apparato statale che, pur non avendo la possibilità di controllare minuziosamente il territorio, poteva esercitare una non irrilevante pressione sui contribuenti. E del resto clamorosi casi di inadempienze dei contribuenti si riscontravano anche in aree dove la presenza del potere centrale appare più pervasiva che nella Repubblica veneta. In Francia, e in particolare nella Normandia del secondo Seicento, le somme percepite dagli esattori della taglia raggiungevano con difficoltà il 70 per cento della quota imposta39. Ciò che preme qui sottolineare, comunque, è che ai fini di una realistica redazione di un bilancio i tempi della riscossione risultavano spesso sfasati rispetto alla teoria.

1648-64 (ivi, Senato, Dispacci rettori, Vicenza, filza 47, 20 febbraio 1665). Ampi ritardi nei pagamenti delle tasse delle genti d’arme da parte del Territorio padovano si riscontrarono nei difficili anni 1587-99: cfr. ASPd, Archivio civivo antico, Territorio, busta 297, fasc. 1170, cc. 7v-8v. L’ammontare dei resti delle gravezze imposte in terraferma nel 1726 e ‘27 raggiunse appena il 32 per cento entro un anno: BCMC, Morosini-Grimani, 586, c.n.n. (20 giugno 1729). 36 ASV, Compilazione leggi, busta 221, cc. 529-30 (29 febbraio 1636) 37 Le cifre e la discussione a riguardo in L. Pezzolo, Fiscalità e congiuntura, 1630-1715, in Storia economica e sociale di Bergamo, Storia economica e sociale di Bergamo. Il tempo della Serenissima, III a cura di M. Cattini A. De Maddalena e M.A. Romani, Bergamo, Fondazione per la storia economica e sociale di Bergamo, 2000, pp. 217-35. Si veda anche ASV, Senato, Dispacci rettori, Bergamo, filza 45 (29 aprile 1655); e ibid., filza 42, i dispacci di dicembre 1650 e gennaio 1651 inerenti alla tansa sulle arti di Bergamo. Un quadro più controverso è dato invece dal pagamento dei sussidi ordinari e straordinari di Vicenza negli anni 1648-64 (ivi, Senato, Dispacci rettori, Vicenza, filza 47, 20 febbraio 1665). Padova, invece, si mostra una solerte contribuente per i sussidi straordinari dal 1639 al 1671, almeno a quanto risulta dalla documentazione in ASPd, Cassa della città, busta 272, fasc. n.n. I tempi di pagamento della taglia ducale da parte della Riviera di Salò negli anni 1686-92 non sembrano eccessivi (generalmente il saldo si effettua nel giro di due-quattro anni): ACS, Archivio della Magnifica Patria, busta 483, fasc. “1699: in materia di taglia ducale”. 38 Cfr. Pezzolo, L’oro dello Stato, pp. 254-55. 39 Cfr. i dati particolari in E. Esmonin, La taille en Normandie au temps de Colbert 1661-1683, Paris 1913 (rist. anast., Genève 1978), pp. 476-77, 523, 528. Gli anni Trenta e Quaranta del Seicento registrarono forti arretrati nel versamento della taille anche in altre regioni: cfr. J.B. Collins, Fiscal limits of absolutism. Direct taxation in early seventeenth-century France, Berkeley 1988, pp. 203-5. Un altro esempio relativo al gettito nominale e alle somme effettivamente incassate in E. Conti, L’imposta diretta a Firenze nel Quattrocento (1427-1494), Roma 1984, pp. 80 sgg.

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Dilazioni e compensazioni di debiti e crediti, del resto, erano caratteri tipici di quella che è stata definita “economia barocca”40. I pagamenti fra privati, e non solo, spesso venivano rateizzati, erano oggetto di trattative e discussioni che si prolungavano per lungo tempo. Analogamente, sarebbe ingenuo ritenere che i tesorieri si aspettassero di raccogliere l’intero ammontare dell’imposta: così nel settore “pubblico” come in quello “privato” - anche se con motivazioni diverse - i tempi dei saldi risultavano lunghi. Il cittadino udinese Antonio Arrigoni giunse a concludere nel 1603 un accordo con le autorità cittadine per il pagamento della sua quota di donativo imposto ben trent’anni prima in occasione della guerra di Cipro. Egli riuscì inoltre a ottenere che la somma venisse saldata in varie soluzioni41. La vicenda di Arrigoni fa sospettare connivenze e complicità fra i deputati cittadini e il contribuente moroso, ma non costituiva certo un episodio isolato. La prontezza nei versamenti non sembra essere una necessità dell’epoca. Quanto all’imposizione indiretta, il sistema prevalente di riscossione, cioè l’appalto a uno o più “conduttori”, facilitava una certa approssimazione previsionale. Sia le autorità centrali che le Camere fiscali del Dominio concedevano in appalto per uno o più anni la riscossione di una determinata imposta. L’appaltatore solitamente anticipava una parte della somma concordata e si impegnava a versare il resto in rate sino al termine dell’appalto. Questo sistema, generalmente additato come uno dei meccanismi più odiosi della fiscalità d’antico regime e che esacerbava gli animi dei contribuenti verso i collettori d’imposte, considerati come personaggi che si arricchivano a spese del popolo42, aveva tuttavia qualche vantaggio per lo Stato. Certo, le vittime designate erano i contribuenti, costretti a soddisfare le aspettative di profitto dei “conduttori” del dazio e inoltre vi era un ampio margine per vessazioni e soprusi da parte dei dazieri; ma, a ben vedere, dal punto di vista delle autorità governative il sistema rappresentava un “mezzo eminente - come ha scritto Max Weber - di razionalizzazione finanziaria”43. Gli appalti daziari, tra l’altro, permettevano alle autorità di contare su una determinata somma per un periodo relativamente lungo, e ciò apriva la possibilità di costituire un debito statale a lungo termine44. Diversamente dal caso francese, basato in genere su grandi appalti controllati da un ristretto numero di persone legate per lo più all’ambiente cortigiano, nella Repubblica veneta, come in Olanda, la geografia degli appalti rifletteva, salvo poche eccezioni, i confini amministrativi e gli ambiti sociali locali; l’esazione era dunque un affare che si svolgeva nella piccola scala dei contadi, città e sub-distretti45. Tra le maggiori imposte percepite in terraferma solo il dazio del sale - venduto in regime di monopolio - e l’imposta sul tabacco venivano appaltati nella capitale, mentre la riscossione delle tasse provinciali veniva deliberata nelle Camere fiscali e offerta a “conduttori” del Dominio. La scarsa presenza di grandi appalti - suddivisi poi in ulteriori subappalti - sul modello 40 R. Ago, Economia barocca. Mercato e istituzioni nella Roma del Seicento, Roma 1998. 41 ASUd, Famiglie nobili, busta n.n., Giornale e diario di casa Arrigoni, cc. 2v, 9r. 42 L’assalto alle dimore dei finazieri e degli appaltatori è una scena che ricorre quasi sistematicamente durante i moti di ribellione. Un esempio emblematico è dato dalla rivolta napoletana del 1647: A. Musi, La rivolta di Masaniello nella scena politica barocca, Napoli 1989, pp. 125-26. 43 M. Weber, Storia economica. Linee di una storia universale dell’economia e della società, Roma 1993 (Berlin 1958; I ed. 1923), p. 250. 44 Cfr. le osservazioni relative alla finanza pontificia di fine Quattrocento svolte da M.M. Bullard, Raising Capital and Funding the Pope’s Debt, in Renaissance Society and Culture. Essays in Honor of Eugene F. Rice, Jr., ed. by J. Monfasani and R.G. Musto, New York 1991, pp. 27-28; Ead., Farming Spiritual Revenues: Innocent VIII's 'Appalto' of 1486, in Renaissance Studies in Honor of Craig Hugh Smyth, I, Florence 1985, p. 38. 45 F. Bayard, Le monde des financiers au XVIIe siècle, Paris 1988, p. 105; M. ‘t Hart, War, finances and the structure of the Dutch state, in Der Absolutismus - ein Mythos?. Strukturwandel monarchischer Herrschaft in West- und Mitteleuropa (ca. 1550-1700), hrsg. von R.G. Asch und H. Duchhardt, Köln 1996, p. 342.

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francese limitava i costi amministrativi, anche se un ampio numero di gestori tributari poteva rendere difficoltoso il recupero di crediti da parte delle autorità governative46. Il sistema diffuso di concessioni, inoltre, assumeva una particolare importanza sul piano delle relazioni politiche all’interno dello Stato. In Francia il centro di trattativa e di distribuzione degli appalti era l’ambiente che ruotava attorno alla corona; chi avesse goduto di particolari rapporti con ministri e alti funzionari di corte sarebbe stato in grado di accedere a vantaggiosi appalti, godendo di un’intricata e complessa rete di legami di reciprocità e di clientelismo. Vi era però l’altro lato della medaglia: se gli equilibri di potere interni alla corte si fossero spostati, l’emergere di una nuova fazione e la nomina di un nuovo ministro avrebbe comportato la ridiscussione della distribuzione degli appalti47. L’incertezza, insomma, era la caratteristica di tale meccanismo di concessione; questo pesante limite nel mercato dei diritti in Francia rendeva perciò gli appalti assai rischiosi e le cifre concordate piuttosto aleatorie. L’incertezza degli appaltatori trovava un altro motivo nelle pressioni che la corona esercitava su di loro per ottenere denaro liquido in prestito minacciando, in caso contrario, la revoca della concessione. Le congiunture economiche, le resistenze dei contribuenti e i pesanti condizionamenti istituzionali provocarono così un drammatico divario tra le somme degli appalti e la quantità di denaro che effettivamente entrava nelle casse statali48. Fu solamente con l’ascesa di Colbert che venne creata una nuova atmosfera, che permise di rassicurare gli appaltatori e di allargare la base degli investitori nella riscossione delle imposte49. Sarebbe tuttavia riduttivo giudicare il meccanismo degli appalti a privati alla luce dell’esperienza francese senza tener presente che tale sistema, come nell’Inghilterra degli Stuart50, si combinava con i canali del prestito a breve messi a disposizione dagli appaltatori al governo. Diversi elementi, dunque, influivano sensibilmente sull’efficienza o meno del sistema. E’ indubbio, comunque, in base alle evidenze contabili, che l’esazione fiscale attribuita a privati nell’Inghilterra del Seicento funzionasse - in termini di differenza tra prezzo dell’appalto ed entrata statale - meglio che in Francia51. Per quanto riguarda la Repubblica veneta, lo stato attuale delle conoscenze non permette nemmeno di avvicinarsi alla questione cruciale dei rapporti fra appaltatori e governo; questione che, invece, sarebbe necessario affrontare approfonditamente per tentare di individuare i fili, talvolta invisibili, che collegano gli uomini e le istituzioni. Sebbene non pare che a Venezia vigesse un sistema clientelare pari a quello che ruotava attorno alla figura del re di Francia, qualche indizio fa sospettare che, almeno in qualche caso, la concessione di un appalto daziario si giocasse tra i corridoi piuttosto che nelle sale di Palazzo ducale. Anche nella Dominante l’appalto di un dazio poteva provocare tensioni, dispute e scontri che trovavano l’esito finale nella decisione di una magistratura superiore. Nel caso del dazio sul vino, uno tra i maggiori cespiti tributari della città, gli 46 Vedi le osservazioni sul sistema francese di J. Dent, Crisis in Finance. Crown, Financiers and Society in Seventeenth-Century France, New York 1973, p. 38; e di R. Bonney, The Failure of the French Revenue Farms, 1600-60, in “Economic History Review”, 32 (1979), p. 17. 47 Bonney, The Failure, pp. 14-15. 48 Bonney, The Failure, pp. 17, 20-23, e 26-28 per il divario tra prezzi d’appalto ed entrate della tesoreria; Bayard, Le monde, pp. 144-46. H.L. Root, The Fountain of Privilege. Political Foundations of Markets in Old Regime France and England, Berkeley - Los Angeles 1994, sottolinea, pur con qualche enfasi, i limiti allo sviluppo economico imposti dal sistema francese basato sui meccanismi clientelari di corte. In Spagna gli appaltatori avevano due o tre anni per saldare le somme pattuite: C. Hermann - J.-P. Le Flem, Les finances, in Le premier âge de l’état en Espagne (1450-1700), coordination de C. Hermann, Paris 1989, p. 309. 49 Bonney, The Failure, pp. 24-25. 50 R. Ashton, Revenue Farming under the Early Stuarts, in “Economic History Review”, 8 (1955-56), pp. 315-16; Id., The Crown and the Money Market 1603-1640, Oxford 1960, pp. 79 sgg. 51 Oltre ai dati francesi di Bonney e Bayard si veda, per l’Inghilterra, C.D. Chandman, The English Public Revenue 1660-1688, Oxford 1975, Appendix 2.

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inizi del Cinquecento videro un’aspra conflittualità che ebbe come protagonisti aspiranti dazieri, in gran parte patrizi veneziani, Governatori delle entrate, Collegio e Consiglio dei Dieci. Una ridda di allettanti offerte, denunce, decisioni prese da un organo e contestate da un altro, segnò per alcuni anni la concessione del dazio52. Del resto il dazio, salvo particolari congiunture, offriva discreti margini di profitto: a dar retta a Marin Sanudo, Francesco Pizzamano, “conduttore” del dazio nel 1500, ricavò 68.000 ducati che, detratta la quota d’appalto (56.000 ducati) e le spese (5000 ducati), gli procurarono un profitto netto attorno al dieci per cento53. Non c’è dunque da stupirsi se coloro che investivano nell’appalto, in genere come soci, fossero tra i patrizi più eminenti della città54; e una vasta partecipazione di patrizi sembra riscontrarsi anche in altri appalti d’inizio secolo55. Si ha l’impressione che con il progressivo abbandono della mercatura da parte di ampi settori del patriziato fra Cinque e Seicento anche l’investimento negli appalti diminuisca, ma per ora si deve rimanere nel campo delle congetture, in attesa di uno studio che identifichi gli attori che agirono in questo delicato campo56. Spostandoci nei Domini il quadro non sembra mutare di molto: una fitta nebbia avvolge gli investitori negli appalti, che qualche barlume di luce non riesce certo a penetrare, tanto più che gli 52 Si possono ricostruire le vicende per gli anni dal 1500 al 1507 in base a Sanudo, Diarii, III, coll. 715, 733-34, 840, 864, 974; IV, coll. 339, 351; VI, coll. 64, 70, 74. 53 Sanudo, Diarii, III, coll. 733-34. Ibid., LVIII, col. 597 (19 luglio 1533), è ricordato il profitto del “conduttore” Piero Orio q. Bernardin. 54 Cfr. per esempio le annotazioni di Sanudo, Diarii, IX, col. 122; XVII, col. 241. Interessi di nobili capitolini si ritrovano anche negli appalti daziari di Roma nel primo Quattrocento: L. Palermo, Capitali pubblici e investimenti privati nell’amministrazione finanziaria della città di Roma all’epoca di Martino V, in Alle origini della nuova Roma. Martino V (1417-1431), Roma 1992, pp. 514-15, 527-31. 55 Vedi una lista per il 1501 in Sanudo, Diarii, IV, coll. 218-19: in 12 appalti sono presenti un solo cittadino e sei patrizi; nonché, per gli anni 1506-12, Bilanci, I, pp. 181-83. 56 Un cenno alla identificazione tra appaltatori e assicuratori marittimi è in Tucci, Gli investimenti assicurativi, pp. 150-51. Nel 1630 tra coloro - per lo più mercanti - che si offrono come “conduttori” e garanti del dazio sul vino a spina non compare nessun patrizio (ASV, Senato Terra, filza 319, 18 settembre 1630). Se la figura del finanziere ha trovato qualche studioso anche in Italia, manca ancora per i secoli della prima età moderna una analisi approfondita sul mondo degli appaltatori. Si possono trarre utili spunti dagli ampi lavori relativi alla Francia di Dent, Crisis in Finance; Bayard, Le monde; D. Dessert, Argent, pouvoir et société au Grand Siècle, Paris 1984. Per l’Inghilterra, oltre ad Ashton, The Crown; C. Clay, Public Finance and Private Wealth. The Career of Sir Stephen Fox, 1627-1716, Oxford 1978. Per la Spagna, tra la vasta bibliografia, conviene segnalare J.C. Boyajian, Portuguese Bankers at the Court of Spain 1626-1650, New Brunswick 1983. Per il Piemonte, E. Stumpo, Finanza e Stato moderno nel Piemonte del Seicento, Roma 1979, pp. 411-18, fornisce una serie di nominativi, mentre S. Cerutti, Mestieri e privilegi. Nascita delle corporazioni a Torino, secoli XVII-XVIII, Torino 1992, pp. 97-98, 131 sgg., indaga i rapporti tra la finanza sabauda e alcuni prestatori torinesi. Per il Granducato di Toscana, J.-C. Waquet, La ferme de Lombart (1741-1749). Pertes et profits d’une compagnie française en Toscane, in “Revue d’historie moderne et contemporaine”, 25 (1978), pp. 513-29. Per il Regno di Napoli, la figura di Bartolomeo d’Aquino (sul quale cfr. A. Musi, Finanze e politica nella Napoli del '600: Bartolomeo d'Aquino, Napoli 1976) svolge ancora un ruolo centrale. Interessante anche il caso di Gianangelo Belloni, analizzato da A. Caracciolo, L’albero dei Belloni. Una dinastia di mercanti del Settecento, Bologna 1982, pp. 34 sgg., che operò nell’ambiente pontificio. Ricerche sullo stesso ambito sono state compiute da P. Bellettini, La lenta trasformazione: finanze e società a Cesena nel Settecento in Storia di Cesena, pp. 358-78. Non ho invece ancora potuto consultare A. Palombarini, I Ciccolini di Macerata, Ancona 1986, sulle vicende di due tesorieri e appaltatori della provincia della Marca a metà Seicento.

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appaltatori svolgono talvolta la mera funzione di prestanome. Così si denuncia nel 1611, per esempio, a Vicenza, dove mercanti che fungono da garanti degli appaltatori sono di fatto i principali investitori57. Nella terraferma, ad ogni modo, nobili e “borghesi” sembrano partecipare a questa attività sia come “conduttori” che in qualità di garanti. La sensazione è che, almeno nei principali appalti, emerga una sorta di professionisti, per lo più non nobili, che gestiscono con una certa frequenza la riscossione daziaria58. Anche a livello urbano qualche caso fa ritenere che la gestione fosse riservata a un nucleo piuttosto limitato di personaggi59. Sebbene l’aspettativa di profitto potesse avere un notevole incentivo all’assunzione della riscossione60, non si deve sottovalutare il potente strumento di controllo e di clientela che la gestione di un appalto offriva. Le collusioni tra dazieri e personaggi eminenti locali erano all’ordine del giorno; e nello stesso tempo la funzione impositiva attribuita a un notabile del villaggio o della città rafforzava la sua capacità di controllo sui contribuenti. Insomma, la doppia natura dell’appaltatore - privato investitore in un’impresa e riscossore di imposte dotato di una forte valenza “pubblica” - rendeva questo personaggio un protagonista importante e nello stesso tempo sfuggente del sistema fiscale d’antico regime. La tendenza, soprattutto in alcuni Stati lungo il Settecento, ad abbandonare il meccanismo degli appalti e basarsi sempre più sulla riscossione diretta trovò forse più motivazioni di carattere politico che strettamente economico. Infatti non è sempre sicuro che la gestione statale fosse più vantaggiosa per le tesorerie di quanto fosse stato l’appalto61. La concessione della riscossione tributaria a privati, in effetti, deviava le ire e i rancori dei contribuenti dal governo alla congerie di “ministri” e dazieri incaricati della raccolta delle imposte. Probabilmente il crescente odio verso le imprese d’appalto lungo il Settecento costrinse i governi a trovare nuove soluzioni che limitassero da una parte gli spazi goduti dai dazieri privati e che calmassero dall’altra gli animi irrequieti dei sudditi. Nella Repubblica veneta le autorità, sia centrali che periferiche, manifestarono una generale propensione verso gli appalti piuttosto che la conduzione diretta (“per Serenissima Signoria”) delle imposte. Sebbene il gettito tra i due sistemi non mutasse sostanzialmente62, l’appalto offriva numerosi vantaggi sia sul piano della previsione gestionale che su quello più squisitamente politico. Un appaltatore locale, in ultima analisi, era in grado di ridurre al minimo i costi di transazione rappresentati dalla raccolta di informazioni sui beni e sulle attività da sottoporre a tassazione, dal controllo sul movimento delle merci, sui consumi e sulla produzione. Il groviglio di tariffe diverse (tra capitale, città, contadi, laici, ecclesiastici...), inoltre, imponeva la costituzione di appalti su scala ridotta, che si conformassero alla struttura socio-economica e istituzionale dello Stato. A metà degli anni ‘70 del XVIII secolo anche a Venezia affiorarono prese di posizione contro il sistema degli appalti concessi a privati63. La congerie di imposte e di relative gestioni 57 Relazioni rettori, VII, p. 206 (9 novembre 1611). 58 Qualche elemento in Pezzolo, L’oro dello Stato, pp. 172-74. Per il caso del dazio sul vino a spina di Udine nel Settecento, G. Panjek, La vite e il vino nell’economia friulana: un rinnovamento frenato. Secoli XVII-XIX, Torino 1992, pp. 141, 145. 59 Si veda, per esempio, ASV, Senato, Dispacci rettori, Bergamo, filza 57, numerose informazioni su appalti e “conduttori” a Bergamo e a Romano nel 1665-66. 60 E’ stato stimato che nel periodo 1754-74 l’appalto del dazio del vino a spina di Udine abbia reso un profitto del 29,34 per cento dell’investimento; mentre negli anni 1774-94 la percentuale fu del 17 per cento (Panjek, La vite e il vino, pp. 142, 144-45). 61 Un riferimento all’esperienza olandese di metà Settecento in J. de Vries - A. van der Woude, The first modern economy. Success, failure, and perseverance of the Dutch economy, 1500-1815, Cambridge 1997, p. 123. 62 Si vedano a titolo esemplificativo i dati circa i gettiti dei dazi vicentini tra 1628 e 1675 in ASV, Senato, Provveditori da terra e da mar, filza 278 (4 marzo 1676); nonché BCVi, Archivio Torre, busta 1556, fasc. 5, introiti per gli anni 1681-91. 63 P. Ulvioni, Politica e riforme a Venezia nel secondo Settecento. Il “Piano daziale”, in Profili di storia veneta. Sec. XVIII-XX, Venezia 1985, pp. 65-94. Sulla Ferma generale in Lombardia, C.

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autonome era enorme, almeno 151 dazi erano riscossi nello Stato, con connessi costi e sperperi. Una fazione del patriziato sostenne che era necessaria una riforma che conducesse alla drastica riduzione dei dazi e alla gestione diretta dello Stato. Non se ne fece nulla: troppe i timori, le gelosie e le tensioni che percorrevano il corpo aristocratico. Il sistema fiscale giunse così alla fine della Repubblica con caratteri che, in larga misura, non erano apparentemente cambiati di molto lungo almeno tre secoli. Dalla periferia al centro Lo schema ipotetico presentato nella figura 1 solleva numerose questioni che, sebbene non troveranno purtroppo valide risposte, meritano di essere affrontate. FIG. 1 Lo schema evidenzia come solo una parte, benché rilevante, del denaro pagato dai contribuenti veneti giungesse nelle casse di Venezia, per poi essere redistribuito tramite i canali della spesa pubblica. Ciò comporta che allorché si analizzino le entrate nette non si possa parlare di pressione fiscale, se non altro perché il denaro versato dai sudditi era maggiore di quello ricevuto dallo Stato, oltre al fatto che non abbiamo a disposizione validi parametri per rapportare il gettito fiscale con l’andamento del reddito nazionale. Rinviando a una sezione successiva tale argomento, vediamo di affrontare la questione dello scarto tra prelievo nel Dominio ed entrate centrali. Se seguire i flussi dei dazi appaltati e delle imposte riscosse a Venezia non costituisce un problema particolarmente spinoso, il denaro raccolto in terraferma poteva seguire vie diverse, disperdendosi tra i mille rivoli delle spese locali, essere intascato direttamente dai soldati, oppure essere trasportato nella capitale in sacchetti scortati dai cavalleggeri. La rilevanza di una via rispetto alle altre dipendeva dalla congiuntura militare e, talvolta, da quella economica. Con l’emergere di un nucleo di un esercito stabile in terraferma durante la prima metà del Quattrocento, alle Camere fiscali del Dominio da terra venne assegnato in prima istanza il pagamento delle truppe64. Ma se in tempo di pace le risorse finanziarie delle tesorerie provinciali potevano soddisfare le necessità di un esercito piuttosto ridotto, durante i numerosi conflitti che impegnarono la Repubblica i fondi camerali dovettero essere sensibilmente integrati da denaro proveniente dalla capitale. La seconda metà del secolo vide una serie di tentativi di centralizzare a Venezia il pagamento delle truppe, obbligando i rettori a inviare tutto il denaro rimasto disponibile una volta soddisfatte le spese locali. Il sistema, tuttavia, non risultò particolarmente efficiente e dunque si tornò a responsabilizzare le tesorerie provinciali per il pagamento dei soldati. Nel 1490 il Senato indicò in 167.400 ducati la “limitation”, vale a dire la somma che le Camere dovevano versare alle truppe; nel 1502 l’ammontare fu ridotto a 160.890 ducati, mentre nel 1508 venne deciso un incremento sino a poco meno di 252.000 ducati65. Si trattava di cifre piuttosto consistenti, considerando che il Dominio da Capra, Il Settecento, in D. Sella e C. Capra, Il Ducato di Milano dal 1535 al 1796, Torino 1984, pp. 290 sgg., 455-57; A. Tirone, Finanza pubblica e intervento privato in Lombardia durante la Guerra di successione austriaca. Precedenti e cause dell’istituzione della Ferma generale, in “Annali di Storia moderna e contemporanea”, 2 (1996), pp. 131-46; e, per la Toscana, J.-C. Waquet, Les fermes générales dans l’Europe des Lumières: le cas toscan, in “Mélanges de l’Ecole française de Rome”, 84 (1977), pp. 983-1027. 64 Sul finanziamento dell’esercito cfr. M. Mallett - J.R. Hale, The Military Organization of a Renaissance State. Venice c. 1400 to 1617, Cambridge 1984, pp. 128 sgg. 65 Bilanci, I, pp. 159-60, 179-81; ASV, Senato Terra, reg. 16, cc. 61v-63v (23 dicembre 1508): circa 26.000 ducati venivano destinati a reparti d’oltremare. Da notare che i Dieci obbligarono altri 16.000 ducati della Camera di Cremona da aggiungere alla “limitation” (ivi, Consiglio dei Dieci, Misti, reg. 32, c. 54r, 14 dicembre 1508).

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terra nella seconda metà del Quattrocento forniva all’erario all’incirca 430.000 ducati annui (inclusi il dazio del sale e altre imposte che giungevano direttamente a Venezia)66. Passata la guerra di Cambrai, il sistema della “limitation” fu ripristinato limitandolo però alle somme da destinare pressoché unicamente ai reparti di cavalleria (104.448 ducati nel 1517, e una quota di poco inferiore l’anno successivo; 59.970 ducati nel 154867); ma in seguito la maggior parte degli introiti fiscali del Dominio prese la via della capitale, salvo poi ritornare sotto forma di pagamenti alle guarnigioni. La “limitation” infatti assunse il significato di quota assegnata alle spese locali delle Camere, mentre il pagamento della cavalleria (il cosiddetto “quartiron delle genti d’arme”) venne gestito dall’Officio sopra Camere della capitale. Dalla metà del XVI secolo, pertanto, in genere la maggior parte delle entrate camerali, come la tabella 2 mostra, affluiva a Venezia68; qui, il denaro veniva assegnato alle diverse magistrature preposte al pagamento di beni e servizi. TAB 2 Naturalmente questi dati prospettano un quadro normale, dove gli impegni della macchina militare erano ridotti al minimo: una situazione invece ben diversa e assai più pesante si presentava in caso di guerra. Le impellenti necessità di soddisfare le truppe al fronte spingevano verso un’azione sollecita da parte del governo; i rettori veneziani, quindi, inviavano il denaro al pagador in campo o nelle Camere più prossime all’esercito. Se fino alla metà del Cinquecento la camera di Padova costituiva uno dei principali centri di pagamento delle truppe, successivamente i camerlenghi delle province occidentali si trovarono a maneggiare in misura notevole il denaro destinato ai soldati. Vi era un continuo flusso di denaro trasferito, ad esempio, tra Brescia e Bergamo: nel 1618, in particolare, la Camera bergamasca ricevette ben 209.295 ducati - per lo più in buone monete d’oro e d’argento - dal camerlengo di Brescia69. In effetti la città orobica era sede di una cospicua guarnigione e inoltre costituiva uno dei nodi più importanti dell’apparato militare veneziano in periodo di emergenza. Così, nel 1605 le spese militari impedirono ai rettori di spedire nella capitale il denaro previsto dalla regolazione finanziaria; e pure nel 1620 solo una minima quota delle entrate prese la via della laguna70. Anche quando la guerra si svolgeva lontano dai confini della terraferma le Camere, chiamate comunque a versare somme cospicue, impegnavano un 66 M. Knapton, Il fisco nello Stato veneziano di Terraferma tra Trecento e Cinquecento: la politica delle entrate, in Il sistema fiscale veneto. Problemi e aspetti, XV-XVIII secolo, a cura di G. Borelli, P. Lanaro, F. Vecchiato, Verona 1982, p. 43. G.M. Varanini, Il bilancio d’entrata delle Camere fiscali di Terraferma nel 1475-76, in Id., Comuni cittadini e Stato regionale. Ricerche sulla Terraferma veneta nel Quattrocento, Verona 1992, pp. 73-123, ha dimostrato la sostanziale stabilità delle entrate camerali nel secondo Quattrocento. 67 ASV, Senato Terra, reg. 20, cc. 23r-v (27 giugno 1517), 152r-v (25 settembre 1518); G. Del Torre, Venezia e la Terraferma dopo la guerra di Cambrai. Fiscalità e amministrazione (1515-1530), Milano 1986, pp. 127-28; BNM, Ms. it., VII, 1213 (8656), c.n.n. 68 Oltre ai dati della tabella molti altri documenti finanziari del secondo Cinquecento suffragano questa affermazione. Si veda, per esempio, il caso di Brescia nel 1588 in BNM, Ms. it., VII, 1913 (9047), cc. 150 sgg.; e i numerosi riferimenti ibid., 1187 (8971), passim; nonché ASV, Collegio, Relazioni, busta 54, rel. dei sindaci inquisitori in terraferma (3 aprile 1591). Nel 1622 si dichiarava che su 1.043.586 ducati di entrate camerali 187.380 (18 per cento) venivano spesi in “occorrenze ordinarie”: ibid., busta 52, rel. (postuma) del provveditore generale Andrea Paruta, c. 39r (17 novembre 1622). 69 ASV, Senato, Dispacci rettori, Bergamo, filza 14 (allegato 26 giugno 1619). Altri casi di arrivi di denaro da Brescia, ibid., filza 10 (16 gennaio 1616); filza 15 (novembre 1620). 70 ASV, Senato, Dispacci rettori, Bergamo, filza 3 (25 maggio 1605); ibid., filza 15, passim: nel 1620 (escluso il mese di marzo) su 1.714.079 lire uscite dalle Camere appena 81.075 (4,7 per cento) giunsero a Venezia.

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quota significativa in spese locali; spese che derivavano prevalentemente dalle necessità militari. La tabella 3 offre un quadro della destinazione del denaro in uscita dalla Camera di Vicenza durante un periodo della guerra di Candia (1645-69). TAB 3 La quota relativamente ridotta di denaro spedito a Venezia non deve sorprendere: se da un canto le richieste della Dominante puntavano a ottenere denaro contante in tempi brevi e in gran quantità, dall’altro lato i rettori dovevano farsi carico del reclutamento e del pagamento di rematori per la flotta, dell’anticipo di stipendi per le truppe in transito nonché di tutti quei costi necessari per la mobilitazione e di supporto della struttura militare (milizia locale, legname per l’Arsenale, trasporti ecc.), compreso il versamento degli interessi ai prestatori locali. La guerra, dunque, poteva catalizzare un movimento di denaro sia verso Venezia che in ambito provinciale, coinvolgendo investitori locali, mercanti, fornitori e comunità rurali, richieste di fornire beni e servizi alle truppe. E’ necessario sottolineare, inoltre, che il caso vicentino - probabilmente estensibile all’intera terraferma71 - fa emergere i limiti dei bilanci di vertice, che registrano unicamente il denaro giunto agli uffici veneziani. Sarebbe perciò un errore calcolare i costi della guerra basandosi solamente sui bilanci della Repubblica; una percentuale piuttosto alta del gettito fiscale rimaneva infatti in ambito provinciale ad alimentare circuiti che apparirebbero altrimenti offuscati limitando il punto di osservazione alla sola Venezia. La questione, comunque, sarà ripresa allorché si affronterà la questione circa l’effettiva pressione tributaria sui sudditi e la redistribuzione del prodotto fiscale. L’andamento di lungo periodo I bilanci generali, se da un lato risultano una fonte piuttosto limitata per chi voglia approfondire i concreti rapporti fra contribuenti e fisco, dall’altro rappresentano uno strumento fondamentale per comprendere l’evoluzione della finanza pubblica, dell’attività statale, della politica finanziaria seguita dall’élite di governo e, in un quadro adeguato, delle relazioni tra finanza ed economia. La tendenza generale registrata dai bilanci veneziani fra la metà del XIV secolo e la fine della Repubblica è crescente, sebbene si manifestino momenti in cui il gettito segna delle flessioni. TAB. 4 E FIG. 2 Il passaggio dalla finanza del Comune Veneciarum al bilancio di uno Stato territoriale è rappresentato dal livello delle entrate - e di conseguenza degli impegni finanziari - che si quadruplica, in termini di argento, in poco più di un secolo. Rispetto alla metà del Cinquecento il tasso d’incremento non appare rilevante sino ai primi del Seicento, nonostante quei decenni siano caratterizzati da una marcata crescita dei prezzi: la variazione di +0,2 per cento annuo tra 1550 e 1609 risulta assai contenuta, considerando che il prezzo del grano, espresso in argento, conobbe una crescita media percentuale di 1,37 all’anno72. Sembra, piuttosto, che la risposta alla congiuntura dei prezzi si sia manifestata con un certo ritardo, nel primo trentennio del Seicento, quando le entrate crebbero in misura consistente. Del resto, come è stato giustamente osservato, è pericoloso correlare l’andamento generale dei bilanci con la congiuntura economica, poiché è sufficiente un lieve incremento tariffario o un ampliamento del prodotto tassabile per distorcere il risultato finale73. La peste del 1630 colpì anche la finanza pubblica, decurtando il gettito tributario e rendendo lenta la 71 Cfr., per esempio, ASV, Senato, Dispacci rettori, Bergamo, filza 52 (12 e 29 maggio 1660). 72 Ho calcolato il prezzo medio del grano a Bassano negli anni 1546-54 e 1605-13. I prezzi in Lombardini, Pane e denaro, pp. 58-60. 73 Vedi le opportune osservazioni di P.K. O’Brian e P.A. Hunt, The Rise of Fiscal State in England, 1485-1815, in “Historical Research”, 66 (1993), pp. 156.

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ripresa. E’ interessante notare che la congiuntura del 1630 incise in misura assai più grave di quanto accadde per la peste del 1576. Probabilmente il quadro economico generale era nel frattempo mutato e le risorse che erano state disponibili per recuperare il livello delle entrate in poco tempo negli anni dopo Lepanto non erano pienamente a disposizione una cinquantina di anni dopo. E’ probabile che il conseguimento dei livelli pre-peste coincidesse con l’inizio della lunga guerra di Candia: sebbene manchino cifre globali affidabili, è plausibile affermare che la forte richiesta tributaria promossa dal governo fece aumentare gli introiti monetari da destinare alla flotta e alle truppe impegnate a Creta. Al termine del conflitto il ritmo di crescita si mantenne piuttosto costante, anche a seguito dell’assestamento delle imposte decretate durante la guerra e rese permanenti in seguito. La guerra di Morea, poi, provocò un ulteriore aumento, sino a raggiungere un livello medio che restò costante per alcuni decenni, finché gli ultimi anni della Repubblica segnarono un’altra crescita del gettito, che risulta abbastanza consistente. L’andamento delle entrate centrali, sebbene delineato in maniera assai schematica, evidenzia la stretta correlazione con le vicende politiche che interessarono la Repubblica di Venezia: sono le necessità militari, infatti, che spingono - così a Venezia come altrove - verso l’incremento delle entrate. Occorre tuttavia rilevare che il periodo rinascimentale (grosso modo dalla pace di Lodi alla fine delle guerre d’Italia) non aveva invece prodotto drammatici mutamenti nel livello delle entrate ordinarie, nonostante quei decenni avessero visto numerosi e pesanti impegni bellici sia nel Levante che in Italia. Non bisogna certo sottovalutare la scarsità di informazioni sulla finanza pubblica tra metà Quattro e metà Cinquecento, ma non può non colpire la sostanziale lentezza del tasso d’incremento delle entrate: un dieci per cento tra 1469 e 1550 non è certo clamoroso, considerando che vi furono parecchie occasioni in cui vennero decisi nuovi aggravi tributari. Del resto, prendendo in mano altre fonti emerge un quadro diverso: i bilanci della Camera di Bergamo, per esempio, registrarono un aumento delle entrate in argento del 37 per cento fra 1464 e 1555 (media annua +0,4 per cento); e un’analoga crescita (31 per cento) si ebbe a Brescia74. E’ dunque plausibile ritenere che i bilanci centrali non abbiano registrato afflussi di denaro che invece si erano verificati in periferia durante gli anni di emergenza militare. Il nesso tra finanza e politica risulta più evidente, invece, lungo il XVII secolo. Il primo ventennio del secolo fu segnato da un crescente aumento delle entrate centrali, che trova riscontro - come vedremo - anche nella contabilità a livello locale. Le guerre di Candia e della Morea, poi, spinsero a un ulteriore incremento, forse in misura maggiore di quanto lascino intendere i bilanci statali. Il XVIII secolo, che vide Venezia impegnata nella difesa della Morea e successivamente nella neutralità armata, registra pressoché fedelmente le strette relazioni fra il ritmo di crescita delle entrate tributarie e la congiuntura politica. La guerra, dunque, cadenzava il ritmo espansivo delle entrate centrali, a un tasso che, comunque, non appare particolarmente elevato se lo confrontiamo con altre esperienze. TAB 5 Il confronto con la Francia, seppur discutibile, fornisce un esempio interessante. Certo, i due Stati conobbero esigenze, percorsi ed esiti politici assai diversi; oltre a ciò bisogna sottolineare la differente struttura dei due paesi, l’entità della popolazione e il ruolo che la Francia venne ad assumere nel teatro europeo della prima età moderna. E’ comunque interessante notare che negli anni trenta del XIV secolo le entrate della corona francese si aggiravano attorno alle 26 tonnellate di argento contro probabilmente la decina di tonnellate della Signoria veneziana; sul medesimo livello di Venezia si poneva il bilancio inglese. Francia e Inghilterra poco dopo innalzarono 74 Elaborazione in base a L. Pezzolo, Finanza e fiscalità, 1450-1630, in Storia economica e sociale di Bergamo. Il tempo della Serenissima, II, Il “lungo” Cinquecento, a cura di M. Cattini e M.A. Romani, Bergamo, Fondazione per la storia economica e sociale di Bergamo, 1998, p. 64; M. Knapton, Cenni sulle strutture fiscali nel Bresciano nella prima metà del Settecento, estr. da La società bresciana e l’opera di Giacomo Ceruti, s.n.t., p. 58; BCMC, Morosini-Grimani, 302.

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considerevolmente i propri cespiti, sotto la spinta della lunga guerra tra le due monarchie. Compiendo un balzo verso gli anni sessanta del Quattrocento, le 46 tonnellate di argento raccolte dal governo veneziano fanno un’eccellente figura di fronte alle 49 del re di Francia e alle 15-20 del regno inglese75. Si può dunque ipotizzare che, in base agli scarsi e incerti dati disponibili, il bilancio dello Stato veneziano del tardo medioevo si ponesse su livelli tutt’altro che disprezzabili anche sul piano europeo. Il quadro invece si presenta piuttosto mutato a metà Cinquecento: mentre gli introiti di Venezia - come già osservato - non segnarono incrementi sostenuti, le entrate della corona di Francia manifestarono una notevole vivacità, pur nel quadro di una tendenza non sempre lineare. Se durante il regno di Francesco I il tasso di crescita delle entrate fu moderato, con Enrico II mostrò un periodo di evidente accelerazione76. Mentre la Francia si avviava a raggiungere una posizione di primo piano in Europa, con ovvie conseguenze sulle proprie finanze, il confronto con lo Stato pontificio forse appare più consono. Nel raffronto la capacità finanziaria di Venezia si mostra superiore, nonostante la Camera apostolica raccogliesse in parte denaro proveniente dalle diocesi del cattolicesimo. La Repubblica marciana, insomma, presentava un livello di entrate finanziarie consone alla posizione politica, lentamente in declino, che essa ricopriva nello scenario europeo e mediterraneo lungo i secoli XVII e XVIII. E che questo andamento non riguardasse l’intera penisola italiana è testimoniato dalla finanza dello Stato di Milano nel Settecento che, sotto il dominio austriaco, registrò significativi incrementi d’entrata a seguito del coinvolgimento negli impegni militari dell’impero77. Come valutare le performances della finanza pubblica dello Stato veneziano? Il sistema fiscale riuscì a raccogliere denaro in termini soddisfacenti per il governo? Rispondere a tali domande non è impresa semplice: i confronti con altri Stati hanno messo in evidenza l’efficacia del fisco veneziano sino al tardo Rinascimento, che ha poi perso il passo dei più forti. Se consideriamo invece il prodotto fiscale come la risultante di fattori politici interni, la progressione delle entrate farebbe supporre che la capacità coercitiva del governo marciano sia aumentata di pari passo con l’espansione del gettito. Talvolta la quantità di denaro raccolto tra i sudditi è stata assunta come indicatore della forza dello Stato. Recentemente, però, l’equazione Stato forte/gettito elevato è stata messa in discussione da ricerche e interpretazioni che pongono invece l’accento sulle relazioni fra i corpi rappresentativi, le istituzioni, le forze locali, l’apparato statale e la struttura politico-istituzionale. Si tratta, insomma, di valutare il prodotto fiscale in funzione della capacità del gruppo dirigente di creare consenso tra le élites del Paese. Una lettura comparativa è così giunta a concludere che il fisco più pesante si ebbe proprio in quegli Stati che avevano forti istituzioni rappresentative (Inghilterra e Olanda), mentre nelle monarchie cosiddette assolute (Francia e Spagna) la capacità del fisco risultò inferiore78. Si tratta di un modello assai interessante, ma che tuttavia non poggia ancora - a mio avviso - su adeguati dati quantitativi. La misura della pressione 75 I dati francesi e inglesi sono tratti da W.M. Ormrod, The West European Monarchies in the Later Middle Ages, in Economic Systems, pp. 138 sgg. 76 Una discussione sull’andamento delle entrate fiscali della prima metà del Cinquecento è in P. Hamon, L’argent du roi. Les finances sous François Ier, Paris 1994, pp. 75-77, che tuttavia considera i dati in termini nominali. Ad ogni modo, anche secondo J. Jacquart, Francesco I e la civiltà del Rinascimento, Milano 1983 (Paris 1981), p. 401, il “vero giro di vite fiscale della monarchia francese è posteriore alla morte del re”. 77 Ho proposto un confronto tra la finanza veneziana e quella di altri Stati nel XVIII secolo nel mio Economia e fiscalità nella Terraferma del Settecento, in Veneto, Istria e Dalmazia tra Sette e Ottocento, a cura di F. Agostini, Venezia, Marsilio, 1999, pp. 29-42. 78 Cfr. le conclusioni di P.T. Hoffman e K. Norberg in Fiscal crises, liberty, and representative government, 1450-1789, a cura degli stessi, Stanford 1994, pp. 299 sgg. Ma si vedano anche le importanti pagine di S.R. Epstein, Taxation and political representation in Italian territorial states, in Finances publiques et finances privées au bas moyen âge, éd. par M. Boone et W. Prevenier, Leuven 1996, pp. 101-15.

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fiscale in base agli introiti delle tesorerie centrali, infatti, esclude la quota, più o meno elevata, che veniva percepita a livello locale. Così, ad esempio, il prelievo attuato dal fisco governativo e locale in Francia potrebbe risultare ben superiore di quanto appaia dalla contabilità centrale. Nel caso di Venezia i dati, comunque, conducono a ritenere che la capacità di prelievo dell’amministrazione centrale era discreta. Una volta delineato il trend delle entrate in termini reali, è necessario individuare se si siano verificati dei mutamenti significativi tra le diverse categorie d’entrata. Anzitutto credo sia opportuno chiarire che la scelta di suddividere le imposte in “dirette” e “indirette” è dettata da motivi di semplicità. I bilanci veneziani distinguevano le “gravezze” - tributi distribuiti in base agli estimi, alle teste o a indagini specifiche sull’imponibile - dai dazi, che comprendevano imposte sugli scambi, sui consumi e sulla produzione. Vi erano tuttavia alcune tasse la cui natura non è sempre chiara ai nostri occhi: il dazio del sale, per esempio, in taluni momenti assunse le forme di un vero e proprio testatico che pesava sulla popolazione della terraferma, mentre almeno dalla metà del XV secolo la quantità di sale, venduta per mezzo di dazieri in regime di monopolio, era funzione dell’entità della popolazione e degli animali bovini79. Analogamente qualche problema sorge per il dazio macina che, nonostante la denominazione, nel XVII secolo si trasformò in un’imposta sulle persone in tutto lo Stato. Questo tipo di onere, comunque, rappresentava già una caratteristica del Padovano e del Polesine, dove il tributo (denominato boccatico) veniva riscosso sui distrettuali oltre i tre anni di età80. Il dazio sulla macinazione dei grani, in effetti, era presente sia a Venezia che nelle città della terraferma sin dal XV secolo almeno; ma fu solo nella seconda metà del Seicento che l’imposizione venne allargata sostanzialmente all’intero corpo contribuente e stravolta nella sua natura. L’originario peso sul consumo venne mutato infatti in una contribuzione di carattere personale che colpiva i sudditi tra i cinque e i settant’anni81. A complicare il quadro si aggiungeva il sistema della “limitazione” concessa a varie comunità e aree del Dominio: particolari concessioni, risalenti per lo più al periodo della conquista veneziana, prevedevano che i comuni interessati potessero versare nella Camera provinciale una quota fissa che di fatto sostituiva una parte degli obblighi fiscali dovuti a Venezia. Poiché la gestione della riscossione ricadeva unicamente sulle istituzioni locali (comuni, vallate, subdistretti, Territori), i metodi di raccolta del denaro potevano variare dall’imposizione diretta sui beni immobili o sulle persone al prelievo sul consumo o sugli scambi. Il congegno della “limitazione”, comunque, riguardava in genere aree collinari e montuose poste ai confini dello Stato e non rappresentava, in termini finanziari, una quota rilevante del gettito fiscale complessivo. Conviene comunque notare che un analogo sistema vigeva anche in ambiente urbano: il dazio sulla seta riscosso a Venezia, per esempio, era affidato alla corporazione locale che versava una quota fissa (3000 ducati fra Cinque e Seicento) al fisco. Anche la suddivisione tra oneri personali e reali, poi, talvolta sfuma allorché si analizzino i concreti meccanismi di prelievo a livello locale. In qualche caso, infatti, si ha l’impressione che gli esattori comunali non distinguessero sempre le imposte che ricadevano sulle terre da quelle che pesavano sulle persone. A ciò si aggiunga che alcune gravezze 79 I tempi del passaggio da boccatico a vendita a prezzo imposto rimangono oscuri; a ciò si aggiunge che sistemi diversi erano presenti nelle province del Dominio almeno sino agli inizi del XVI secolo. Cfr. G. Del Torre, Venezia e la Terraferma, pp. 106 sgg.; un cenno ai metodi d’esazione in M. Brazzale, Il mercato del sale nella Repubblica veneta nella seconda metà del XVI secolo, Venezia 1971, pp. 27-28. 80 Sul dazio macina o boccatico nel distretto di Padova vedi L. Favaretto, L’istituzione informale. Il Territorio padovano dal Quattrocento al Cinquecento, Milano 1998, pp. 37-50, 129-148. 81 Par di capire che la trasformazione in testatico avvenne prima nel Veronese (le prime notizie certe risalgono al 1640) che nel Vicentino (dati relativi al 1681): su ciò cfr. F. Vecchiato, Il mondo contadino nel Seicento, in Uomini e civiltà agraria in territorio veronese, a cura di G. Borelli, I, Verona 1982, pp. 350-53; L. Pezzolo, Dal contado alla comunità: finanze e prelievo fiscale nel Vicentino (secoli XVI-XVIII), in Dueville, a cura di C. Povolo, I, Vicenza 1985, pp. 403-7.

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potevano essere soddisfatte, almeno in parte, con le entrate derivanti da affitti di beni comunali e da dazi locali di pertinenza della comunità. Così, per esempio, nel 1625 Lonigo dichiarava di pagare le gravezze con i cespiti comunali e nel caso non fossero sufficienti di ripartire il gravame in base all’estimo82. Del resto questa prassi non si limitava alle comunità della terraferma, ma sembra costituisse una modalità comune anche ad altre situazioni83: in fin dei conti al governo centrale interessava ottenere una determinata somma di denaro; era preferibile che i comuni potessero soddisfare la richiesta sfruttando le proprie risorse patrimoniali piuttosto che prelevando il denaro dalle tasche dei contribuenti. Bisogna però sottolineare che questi casi costituivano più un’eccezione che una regola: le entrate comunali, quando erano disponibili, solo di rado erano in grado di far fronte alla pressione fiscale del governo; ed è probabile che ciò potesse accadere più facilmente per quelle comunità montane e periferiche che avevano mantenuto il controllo sui beni comunali piuttosto che per i villaggi di pianura, sottoposti alla continua erosione del patrimonio collettivo a favore dei privati e, dal 1646, all’alienazione delle terre demaniali che avevano in concessione dalla Signoria. TAB 6 Imposte “dirette” e “indirette” dunque sembrerebbero perdere il loro significato se analizziamo in profondità i metodi di riscossione, ma sarebbe esagerato negarne la distinzione, almeno sul piano generale della finanza statale. La differenza tra gravezze e dazi era ben chiara agli occhi dei governanti e dei contribuenti: i meccanismi di prelievo e di ripartizione del carico innescavano lunghe e aspre tensioni e coinvolgevano interessi economici e politici. Analogamente, la variazione di lungo periodo del peso di gravezze e dazi all’interno dei bilanci statali riflette scelte di politica fiscale dettate dalla congiuntura e dalla lenta trasformazione della struttura dell’economia di Venezia e della terraferma tra Cinque e Settecento. Sebbene manchino dati globali sulla finanza del Comune veneciarum, il pilastro del bilancio era costituito dai dazi che si riscuotevano in città: dazi sulle merci in transito, anzitutto, e sui consumi. A questi cespiti di carattere ordinario si affiancavano poi, nei momenti di necessità, prestiti obbligatori e imposte a perdere sulle proprietà. La crisi finanziaria provocata dalla guerra di Chioggia probabilmente condusse a un appesantimento della leva impositiva diretta rispetto ai dazi, il cui gettito presumibilmente diminuì durante il conflitto. I dati relativi alla seconda metà del Quattrocento, benché scarsi e incerti, ci mostrano comunque un bilancio tipico di uno Stato territoriale a marcata base commerciale. I dazi infatti fornivano, in anni non perturbati da tensioni politiche, circa l’80 per cento dei proventi di Venezia e delle Camere di terraferma, a rimarcare quanto cruciale fosse l’economia di scambio per la finanza marciana. Tale struttura delle entrate era analoga a quella del bilancio genovese verso la fine del Trecento, dove il 64 per cento derivava dalle imposte indirette; e anche nella Firenze del primo Quattrocento dazi e gabelle fornivano l’80 per cento degli introiti. Un quadro diverso si trova invece nel regno di Napoli, le cui entrate centrali

82 BCVi, Archivio Torre, busta 215, fasc. 9, c. 59r (27 ottobre 1625). Altri esempi in ASV, Collegio, Relazioni, busta 54, relazione del 3 aprile 1591, cc. 13v, 21v, 23v. 83 Sulla vaghezza della riscossione del sussidio triennale nello Stato pontificio cfr. E. Stumpo, Il capitale finanziario a Roma fra Cinque e Seicento. Contributo alla storia della fiscalità pontificia in età moderna (1570-1660), Milano 1985, p. 104. A Valladolid l’imposta sulla ricchezza del millones venne pagata con la vendita di beni comunali e con dazi sui consumi: F. Ruiz Martìn, Credit procedures for the collection of taxes in the cities of Castile during the sixteenth and seventeenth centuries: the case of Valladolid, in The Castilian crisis of the seventeenth century. New perspectives on the economic and social history of seventeenth-century Spain, ed. by I.A.A. Thompson and B. Yun Casalilla, Cambridge 1994, pp. 176-77.

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si basavano per i due terzi sull’imposizione diretta84. Prendendo dei termini di riferimento europei, potremmo dire che la struttura delle entrate degli Stati mercantili cittadini italiani si avvicinava a quella inglese, mentre il bilancio napoletano si avvicinava al modello monarchico francese. I motivi che stanno alla base di bilanci strutturalmente differenti sono molteplici: a favorire un certo tipo di prelievo anziché un altro non era solo il quadro economico generale, ma anche i rapporti e gli equilibri politici interni agli Stati. L’opzione tra imposta diretta e indiretta comportava altresì una delicata contrattazione tra le parti in causa (governo centrale e corpi locali); le tasse dirette presumibilmente necessitavano di un’attenta e talvolta lunga negoziazione con le élites territoriali, mentre i dazi, specie quelli commerciali, potevano essere imposti - in linea di massima - con una relativa minor difficoltà. Non bisogna poi sottovalutare le tradizioni e le consuetudini fiscali che caratterizzavano un territorio e che tendevano a mutare assai lentamente, come tutte le strutture portanti dell’antico regime. Conviene comunque rilevare che la netta predominanza dell’imposizione daziaria implicava una sorta di riconoscimento da parte del ceto mercantile veneziano - vale a dire del gruppo di potere, almeno sino a metà Cinquecento - che i costi di protezione del commercio e dell’espansione economica e politica dovevano essere sostenuti in buona parte dal settore mercantile e dai suoi protagonisti (patrizi e cittadini veneziani, mercanti e consumatori stranieri)85. Se circa quattro quinti delle entrate veneziane provenivano dall’imposizione indiretta è altresì vero che le tensioni politico-militari richiedevano urgenti provvedimenti che, in genere, facevano aumentare la quota delle gravezze. Così, la percentuale anomala delle gravezze del bilancio relativo alla fine del Quattrocento (tabelle 7 e 8) è dovuta all’inasprimento del prelievo diretto a Venezia e delle difficoltà nei traffici marittimi che si riflettevano sul gettito daziario. TABB 7 E 8 I dati di metà Cinquecento e del primo Seicento invece presentano un quadro per certi versi normale: il gettito delle gravezze è piuttosto ridotto e il rilevante apporto dei dazi riflette il discreto momento che stava vivendo l’economia della Repubblica veneta. I decenni tra Cinque e Seicento furono per la finanza statale veneziana i più felici della propria storia. Se il bilancio relativo al 1550 risente ancora degli strascichi del conflitto del 1537-40 (inasprimenti daziari e pesante indebitamento), superata la bufera della successiva guerra turca e la crisi della peste, il governo riuscì nel giro di pochi anni ad azzerare l’onere dell’indebitamento e nello stesso tempo a moderare la leva dell’imposizione diretta. E’ dunque paradossale che, proprio in un periodo in cui si manifestò una gravissima crisi agraria (nei primi anni ‘90 del secolo), il settore finanziario statale non sembri risentirne: anzi, pressoché tutti gli indici testimoniano una crescita nel medio periodo, specie per gli introiti derivanti dai dazi riscossi nella capitale86. Il paradosso si risolve allorché, come si vedrà in seguito, spostiamo il campo di osservazione dalla finanza di vertice all’ottica dei contribuenti. Risulta comunque significativo che i bilanci statali di fine Cinque inizi Seicento riflettano più la favorevole congiuntura commerciale piuttosto che il difficile momento vissuto dall’economia agraria, che di fatto costituiva la base della vita materiale della popolazione. Così come, secondo Ruggiero Romano, la crisi agraria di fine Cinquecento si riflesse negativamente sul

84 I dati sono riportati da F. Piola Caselli, Il buon governo. Storia della finanza pubblica nell’Europa preindustriale, Torino 1997, p. 170. 85 Su alcune implicazioni della tassazione daziaria nell’Inghilterra medievale cfr. le rapide ma interessanti osservazioni di M. Mann, States, war and capitalism. Studies in political sociology, Oxford 1988, pp. 89-90. 86 Per un’analisi della finanza statale fra Cinque e Seicento rinvio a due miei lavori: L’oro dello Stato; e Il fisco dei veneziani.

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comparto mercantile e manifatturiero dopo il 162087, anche nel settore della finanza statale la congiuntura negativa si manifestò fra il secondo e terzo decennio del secolo. Nonostante sia opportuno ribadire che risulta pericoloso adottare indici finanziari come prova del mutamento economico di breve periodo, appare nondimeno significativo che l’incremento del gettito registrato nei bilanci del 1609 e del 1625 sia dovuto in gran parte a prelievi sui consumi interni. L’aumento delle entrate ordinarie in 17 anni fu del 36,8 per cento; gli introiti addebitati alla capitale crebbero del 25 per cento, mentre quelli della Terraferma e della Dalmazia si collocarono al 65 per cento. La scelta di gravare sui consumi più diffusi è evidenziata dal gettito del dazio della macina nel Dominio da terra, che nel ‘25 apportò 265.820 ducati annui, e del dazio del ducato per botte, che ne rese 70.000. Le imposte sul cuoio e sulla seta introdotta dalla terraferma assicurarono un gettito di altri 140.000 ducati. Per quanto riguarda Venezia, invece, la voce più rilevante è data dai diritti di signoraggio della Zecca, che fornirono ben 360.000 ducati, mentre altri 45.000 ducati provennero dal dazio sulle carni e da un ulteriore inasprimento del dazio sulla farina giunta in città (28.000 ducati). L’unica imposta diretta che prese piede fu la seconda decima sui salari degli officiali, che fornì 38.000 ducati; la decima sui livelli (prestiti ipotecari) venne imposta saltuariamente e produsse appena 20.000 ducati. La peste del 1630, come già detto, inferse un duro colpo alle capacità contributive del sistema economico: mentre le entrate tendevano a riprendersi, seppur lentamente, la pressione fiscale si mantenne su livelli piuttosto elevati. L’inizio della guerra di Candia produsse un ulteriore aumento dell’imposizione diretta, sia sui veneziani che sui contribuenti della Terraferma. Anche se le tabelle 8 e 9 non consideraNO la totalità delle imposte emanate dal governo, è evidente che dalla metà degli anni quaranta il carico fiscale sui beni sottoposti a tassazione venne ulteriormente aumentato. La scelta da parte del governo di accentuare l’imposizione diretta, in effetti, fu pressoché obbligata. Il conflitto rese difficoltosi, anche se non li interruppe del tutto, i traffici marittimi, e queste difficoltà andarono ad aggiungersi alla situazione complicata che Venezia stava vivendo nel settore del commercio internazionale. La dura concorrenza dei “nordici” aveva ridotto l’area commerciale controllata dalla Signoria e la ristrutturazione del mercato mondiale stava spingendo Venezia verso un ruolo ridotto rispetto al passato. In tale contesto appesantire la mano sulle entrate doganali avrebbe comportato aggravare lo stato dei commerci veneziani: la decisione di imporre addizionali tariffarie in sole tre occasioni durante gli anni del conflitto (1645, 1648 e 1668), e per una percentuale piuttosto contenuta (globalmente il 15 per cento), lascia emergere la cautela con cui le autorità veneziane si mossero riguardo la politica tariffaria. La leva della tassazione sui beni immobili e sui consumi fu quindi la scelta che il governo compì per fronteggiare la finanza di guerra. TAB 9 Gli strascichi tributari della guerra perdurarono anche nei decenni a seguire: le guerre per la Morea (1684-99 e 1714-18) e le connesse emergenze condussero a un assestamento della struttura delle entrate fiscali che avrebbe caratterizzato l’ultimo secolo della Repubblica. La guerra di Candia provocò una sorta di effetto di dislocamento stabile88. La cospicua tassazione diretta, conseguenza degli anni del conflitto, non diminuì in seguito ma, anzi, la sua quota nel bilancio statale si assestò

87 R. Romano, Tra XVI e XVII secolo. Una crisi economica: 1619-22, in Id., L’Europa tra due crisi (XIV e XVII secolo), Torino 1980, pp. 76-147. 88 “...allorché la guerra è finita, il sistema tributario non ritorna alla situazione pre-bellica anzi, alcune delle imposte introdotte in occasione degli avvenimenti bellici e le eventuali maggiorazioni delle aliquote permangono, così che il trend di crescita delle entrate e delle spese si sposta permanentemente ad un livello più alto. Questo movimento è chiamato ‘effetto di dislocamento’”: O. Eckstein, La finanza pubblica, Bologna 1970 (Englewood Cliffs 1964), p. 14.

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su livelli superiori al 20 per cento89. Una percentuale, questa, che solitamente aveva marcato i momenti della storia finanziaria veneziana legati a forti tensioni finanziarie dovute alla guerra. Il campatico, dapprima riscosso come imposta straordinaria, divenne uno dei cardini del prelievo diretto lungo il Settecento e il gettito del partito del tabacco conobbe una progressione evidente. I caratteri regressivi del sistema impositivo veneziano nel XVIII secolo affondavano le loro radici nel secolo precedente, quando l’emergenza finanziaria e il mutamento economico avevano spinto verso una reimpostazione della struttura del gettito fiscale della Repubblica. Finanza ed economia E’ evidente, come è emerso anche dalle pagine precedenti, che esiste uno stretto legame tra la finanza statale, il suo andamento generale, la struttura del prelievo, e il quadro economico complessivo, nel quale si colloca l’economia della Repubblica veneta. L’espansione commerciale tardomedievale e rinascimentale permise a Venezia di sostenere i costi della formazione di un ampio Stato territoriale traendo le risorse in via ordinaria soprattutto dalle entrate doganali e, in caso di necessità, dai prestiti obbligatori. Ancora all’alba del XVII secolo il quadro della finanza statale non era preoccupante: la fase espansiva dell’economia veneta non mostrava segni di cedimento e di conseguenza i bilanci statali se ne avvantaggiavano. Il secondo e terzo decennio del secolo, invece, sembrano segnare una svolta: benché la guerra contro gli arciducali (1615-17) non sembrava aver pesato drammaticamente sulla finanza statale, gli anni immediatamente successivi videro il governo prendere una serie di iniziative tese a incrementare le entrate. Le disposizioni che andavano a colpire i prestiti livellari, la proprietà fondiaria e il consumo dei cereali più diffusi testimoniano da un lato di una febbrile ricerca di nuove risorse, in parte toccate ancora marginalmente dal fisco, e dall’altro sono sintomi di qualcosa che sta cambiando nella base imponibile. Gli strumenti della fiscalità straordinaria puntavano su settori particolarmente delicati (proprietà fondiaria, consumi primari) che forse costituivano l’estrema risorsa per un bilancio che mostrava segni di affanno. La ripresa dopo la peste, infatti, risultò piuttosto lenta, quasi in sintonia con i ritmi rallentati dell’economia reale. Il rapporto invece tra finanza ed economia nel XVIII secolo appare ancora oscuro, mancando un’adeguata analisi delle performances dell’economia veneta nell’ultimo secolo della Repubblica. Alcuni studi fanno intendere che la tendenza di settori importanti, quale il laniero, non fu affatto negativa, o perlomeno manifestò segni piuttosto confortanti90. Per quanto concerne l’agricoltura, poi, prescindendo dal quadro assai ottimista offerto da Georgelin, si potrebbe affermare che il comparto riuscì a mantenere livelli discreti, sebbene non paragonabili con l’agricoltura che si stava sviluppando contemporaneamente in Inghilterra91. Insomma, è tuttora piuttosto pericoloso tentare di proporre un giudizio netto sulle relazioni tra finanza pubblica ed economia settecentesca. Ciò, tuttavia, non impedisce di valutare alcuni indicatori di lungo periodo che possono fornire qualche spunto utile. I legami tra finanza statale ed economia sono enfatizzati dal problema della valutazione del prelievo fiscale in relazione alla ricchezza di uno Stato; l’uso dello stesso termine di pressione fiscale sarebbe inadeguato se non venisse posto in rapporto con il reddito, la popolazione ecc. E’ già stato rilevato come le entrate daziarie, specie sulle merci in transito, costituissero il pilastro del 89 Una analisi dei bilanci settecenteschi è stata fornita da G. Mazzuccato, La politica finanziaria nella repubblica di Venezia del Settecento, in “Rivista di storia economica”, 13 (1997), pp. 173-96. Si veda inoltre A. Zannini, La finanza pubblica: bilanci, fisco, moneta e debito pubblico, estr. da Storia di Venezia, VIII, Roma 1998, pp. 431-77. 90 W. Panciera, L’arte matrice. I lanifici della Repubblica di Venezia nei secoli XVII e XVIII, Treviso 1996. 91 J. Georgelin, Venise au siècle des lumières, Paris-La Haye 1978, pp. 349 sgg. Ma si vedano anche le osservazioni di G. Gullino, Le dottrine degli agronomi e i loro influssi sulla pratica agricola, in Storia della cultura veneta, V,2, Il Settecento, Vicenza 1986, pp. 379-410.

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gettito fiscale veneziano sino al XVI secolo. Grazie alla preminente funzione di centro nevralgico dei commerci internazionali e a un apparato militare che assicurava tale ruolo nel Mediterraneo orientale, Venezia riuscì a far gravare una parte dell’onere tributario sui mercanti stranieri e, di conseguenza, sui loro clienti. L’espansione politica e commerciale del Basso Medioevo, dunque, aveva ripagato di gran lunga i costi affrontati per sostenerla. Tra Cinque e Seicento la situazione iniziò a evolversi in misura meno favorevole al mercato realtino e, di conseguenza, il vantaggioso meccanismo imperniato sulle gabelle non fu più in grado di soddisfare le necessità della finanza. Il restringimento dell’area economica controllata dalla Repubblica marciana comportò una diminuzione di quei vantaggi che le avevano permesso di mantenere - salvo in momenti eccezionali - una tassazione sui contribuenti relativamente moderata. I primi segni della fase di marcato rallentamento dell’economia veneta furono segnati, come abbiamo visto, da una crescente domanda fiscale dovuta agli impegni militari in Italia settentrionale e poi in Levante. Nello stesso momento una sempre minor quota del carico tributario venne traslata sugli operatori stranieri, dato il forte ridimensionamento dello scalo lagunare. I contribuenti veneti, così, furono di fatto chiamati a sostenere un maggior peso tributario. Nonostante i limiti che la tabella 10 denuncia, essa rende tuttavia l’immagine dell’aumento dell’onere tributario sui sudditi tra Cinque e Seicento; onere che non sembra essere diminuito anche lungo il XVIII secolo. Una volta chiarito che la fiscalità nei secoli XVII e XVIII risultò essere più gravosa, è necessario tentare di individuare quali tipi di imposte vennero particolarmente impiegati e quali effetti ebbero sulla popolazione e sulle diverse categorie economiche. Come già accennato, gli impegni bellici seicenteschi spinsero il governo ad accentuare la leva daziaria sui consumi. Parrebbe, pertanto, che la politica fiscale veneziana sia venuta assumendo un carattere di regressività, concentrandosi sui consumi interni. I pochi dati a disposizione, comunque, non ci permettono di essere così perentori nel giudizio. Anzitutto occorre considerare quali generi di consumo vennero colpiti (di larga diffusione, riservati alle fasce più elevate della società, consumati più in città che in campagna...) e che relazione vi sia tra l’incremento del gettito e l’andamento della popolazione. Purtroppo non conosciamo i livelli della popolazione veneta tra la metà del Sei e gli anni ‘60 del Settecento; e analogamente la struttura sociale dei consumi non è oggetto di particolare attenzione. In base alle cifre dei bilanci, però, emerge che il gettito delle principali imposte sui generi di consumo più diffusi crebbe in misura notevole nel XVII secolo. Il dazio sul vino a Venezia, ad esempio, se nel 1608 rendeva 306875 ducati nel 1670 ci si aspettava che se ne potessero trarre 350.000; il dazio sul sale, poi, nel medesimo arco di tempo passò da 300.000 a 488.000 ducati; e il dazio sulle “biave” raddoppiò. E’ opportuno precisare, inoltre, che tali introiti non vennero erosi dall’inflazione, anzi: il prezzo medio del grano a Bassano diminuì del 39 per cento in quegli anni92. I dazi sul vino e sui cereali probabilmente colpirono in maggior misura gli abitanti delle città, costretti in gran parte ad accedere al mercato, che non i contadini, che si basavano generalmente sulla produzione dei poderi che lavoravano. Ciò non significa, come vedremo, che i distrettuali fossero avvantaggiati, ma pare lecito supporre che gli incrementi daziari fossero maggiormente sentiti dentro le mura cittadine. Nel Settecento il governo accentuò invece l’onere su un prodotto che nel secolo precedente era apparso solo timidamente nei bilanci: il tabacco. Prodotto di largo consumo sia in città che nelle campagne, la vendita del tabacco venne affidata in appalto a imprese che assicurarono un considerevole introito alle casse statali. Dai 9200 ducati che il daziere Francesco Rinaldi si era impegnato a versare alla Repubblica nel 1657, si giunse ai 116.240 nel 1717, sino a oscillare attorno ai 350.000 ducati di gettito annuo negli anni ‘8093. Si trattava di somme cospicue, che venivano 92 Ho calcolato il tasso inflattivo sulla media del periodo 1606-10 e 1667-73. I dati fiscali in A.S.V., Archivio privato Correr, 189; ivi, materie miste notabili, 106. 93 Oltre ai dati in Bilanci, IV, si veda F. Bianco, Contadini, sbirri e contrabbandieri nel Friuli del Settecento, Pordenone 19952, pp. 87 sgg.; e M. Berengo, La società veneta alla fine del Settecento. Ricerche storiche, Firenze 1956, pp. 121-26, anche per le tensioni tra comunità rurali e dazieri.

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riscosse con estrema durezza e capillarmente su tutto il territorio. Il sale, invece, era un prodotto che vantava una lunghissima tradizione per la fiscalità veneziana: fonte di ingentissimi introiti grazie al controllo del mercato mediterraneo, il sale fornì a Venezia crescenti risorse finanziarie che vennero destinate, tra l’altro, al pagamento del debito statale. La tabella 11, che mostra l’andamento del gettito di lungo periodo, evidenzia come l’inasprimento del dazio avvenne agli inizi del Seicento e come il tendenziale aumento degli introiti non venne rallentato dalla drastica caduta della popolazione veneta dopo la peste del 1630. Anzi, il denaro raccolto dall’Officio del sal aumentò in anni che invece videro una lenta ripresa demografica. Il Settecento, a ulteriore conferma di quanto osservato, sembra limitarsi piuttosto a mantenere un plafond che ha le basi nel secolo precedente. TAB 10 Se consideriamo, dunque, la serie di guerre che Venezia condusse nel Mediterraneo come uno strumento per il controllo delle vie e dei flussi commerciali tra Oriente e Occidente, allora potremmo ritenere che, in linea di massima, i conflitti sino a Lepanto furono per lo più finanziati dal commercio estero e da un relativo sfruttamento delle risorse interne; con il Seicento il quadro cambia, e i consumatori vennero chiamati ad accrescere il loro contributo. Accanto a questi, però, anche i proprietari fondiari videro aumentare il loro carico fiscale. Il campatico, dapprima riscosso in via straordinaria, divenne un’imposta ordinaria ed esteso anche al Dominio da terra. Analogamente, la decima subì varie addizionali che ne resero il peso piuttosto consistente. Occorre chiedersi, comunque, quale sia il rapporto fra l’aumento del carico sulla proprietà fondiaria e l’andamento della rendita agraria. Si tratta di verificare, insomma, se tale incremento fu assorbito, e in che misura, dall’espansione dei redditi dei proprietari agrari. Problema in verità non semplice da risolvere, data la scarsità di dati generali, ma che merita di essere affrontato, ancorché in via preliminare. Le ricerche, benemerite, sull’economia agraria veneta si sono particolarmente concentrate sull’assetto e la trasformazione della proprietà lungo l’età moderna. Mancano a tutt’oggi approfonditi studi che permettano di tracciare con una certa sicurezza le congiunture della rendita fondiaria, che affrontino la questione della produttività della terra e del lavoro e che trattino dei risultati economici delle trasformazioni agrarie nella Terraferma veneta. Qualche esempio, tuttavia, ci permette di proporre qualche pur labile ipotesi per delineare l’andamento del reddito agrario lungo il XVIII secolo94. Il caso è quello delle fattorie dei Pisani Moretta e Dal banco, analizzate in una vasta ricerca condotta da Giuseppe Gullino. I dati forniti da Gullino, infatti, possono dare qualche indicazione, sebbene piuttosto limitata, della rendita offerta da grandi aziende agrarie in mano a veneziani. Anche se vi sono alcune lacune, la contabilità dei Pisani risulta estremamente interessante per il quadro che presenta. TAB 11 Come la tabella 12 mostra, le aziende dei Pisani fecero segnare dei discreti incrementi di reddito nella seconda metà del secolo, mentre gli stessi indici, valutati in base al prezzo del grano, registrano un aumento piuttosto moderato. Ora, al di là dei problemi tecnici che riguardano l’impiego accurato di indici reali, il trend ci consente di stimare l’impatto della tassazione sulla grande proprietà fondiaria. Assumendo che le aziende Pisani siano rappresentative di una certo tipo di conduzione fondiaria (quella, per intenderci, capitalista attenta al mercato e di vaste dimensioni), risulterebbe che nel secondo Settecento il prelievo fiscale sulla terra tramite il campatico (tabella 94 Gullino, I Pisani dal banco e moretta. Dati sui redditi, in gran parte seicenteschi, di una istituzione assistenziale bergamasca sono stati forniti da A. Moioli, Una grande azienda del Bergamasco durante i secoli XVII e XVIII, in Agricoltura e aziende agrarie nell’Italia centro-settentrionale (secoli XVI-XIX), a cura di G. Coppola, Milano 1983, pp. 682 sgg.

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13) non riuscì a seguire l’andamento della rendita netta in termini reali. In sostanza, dunque, i grandi possidenti riuscirono a far fronte all’onere del campatico grazie a un incremento dei propri redditi agricoli. TAB 12 Purtroppo la scarsità di dati sulle altre categorie che costituivano la società veneta impedisce analoghi tentativi per valutare le relazioni fra redditi e prelievo fiscale. Occorrerebbero informazioni sia sulla struttura dei redditi e dei consumi della popolazione che sulla loro ripartizione sociale. Nonostante queste pesanti lacune, tuttavia, crediamo sia utile proporre una stima, pur assai grossolana e incerta, del rapporto fra reddito nazionale e gettito fiscale. Un recente saggio di Paolo Malanima ha proposto alcuni ordini di grandezza che riguardano l’Italia centro-settentrionale. Ebbene, Malanima ha stimato che verso il 1570 il prodotto pro capite si aggirasse attorno a 900 Kg di grano o 765-855 gr. di argento; intorno al 1750 le valutazioni indicano rispettivamente 850 kg e 702-780 gr. Queste cifre, che dovranno essere attentamente meditate e - nel caso - riviste, hanno comunque il merito di offrire dei punti di riferimento. In linea generale, dunque, sembrerebbe che tra la metà del Cinque e la metà del Settecento l’Italia centro-settentrionale non abbia subito quella drastica caduta del reddito che si soleva attribuirle. Certo, la caduta della produzione in alcuni settori è innegabile, ma nello stesso tempo la crisi sembra aver colpito la struttura produttiva lungo un periodo relativamente contenuto tanto che la ripresa appare già in atto a metà del XVIII secolo. E per quanto riguarda la Repubblica veneta? Sarebbe arduo sostenere che l’economia veneta non abbia partecipato del trend generale; il problema piuttosto sta nell’individuare con un certo margine di affidabilità la parte svolta da Venezia e dalla sua terraferma. Alcuni recenti studi hanno ridimensionato le tinte fosche con cui gli storici avevano dipinto il quadro veneto; manca però un’analisi globale che chiarisca tempi e modi della ripresa. Un metodo per cercare di calcolare il reddito nazionale - e in parte impiegato anche da Malanima - è stato elaborato da Paul Bairoch. Egli ha notato che vi è una stretta correlazione tra il livello salariale di un semplice lavoratore edile e il reddito nazionale. Conviene segnalare che anche in altri casi, seguendo altre vie, sono stati raggiunti risultati piuttosto vicini a quelli di Bairoch95. Usando tale metodo dunque e accogliendo gli accorgimenti proposti da Malanima, la tabella 13 suggerisce alcuni stime per la Repubblica marciana. TAB 13 I dati ipotizzati probabilmente sottostimano i livelli di reddito: in effetti un confronto in termini assoluti con le stime di Malanima mostrerebbe che un suddito della Repubblica poteva contare su un reddito inferiore alla media (fra 765 e 855 gr. di Ag fino); e ciò impone qualche dubbio, specie per la metà del XVI secolo. Conviene rilevare, comunque, che è stato stimato un consumo pro capite di 45 ducati annui nella Venezia di metà del Seicento96, il che non si discosta di molto dalla quarantina di ducati ipotizzati nel 1670 come reddito pro capite nello Stato. Il trend di lungo periodo, ad ogni modo, riflette quello italiano delineato da Malanima. La tabella propone inoltre un rapporto tra il reddito globale stimato e le entrate finanziarie governative. A causa della sottostima di quello che osiamo denominare PIL la percentuale rappresentata dalle entrate statali potrebbe essere considerata troppo elevata, ma occorre considerare che i bilanci presi in esame si situano in periodi di stress finanziario. Una quota attorno al cinque per cento del reddito globale,

95 Cfr. ad esempio N.J. Mayhew, Population, money supply, and the velocity of circulation in England, 1300-1700, in “Economic History Review”, 48, 1995, p. 251. 96 Pezzolo, Il fisco dei veneziani, p. 158.

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tuttavia, sembra plausibile e confermerebbe la relativa capacità dello Stato di antico regime a prelevare quote significative di reddito97. Come si colloca la quota prelevata dal (sarebbe meglio dire arrivata al) governo veneziano in confronto ad altri casi? E’ ovvio che incertezze e remore accompagnano le congetture che seguiranno, ma è necessario tentare di situare il caso veneziano in un contesto più ampio, al fine di evidenziarne similitudini e differenze. Le ricerche più approfondite che affrontano il problema della determinazione del reddito nazionale e della finanza pubblica concernono l’Inghilterra. Un’ampia messe di dati e una lunga tradizione di studi economici hanno permesso di stimare ordini di grandezza plausibili sul PIL. Ebbene, in base alle best guesses proposte, la quota del fisco statale sul reddito inglese negli anni settanta e ottanta del Seicento risulta attorno al 3,5 per cento, per giungere al 10,5 nel 177098. Quest’ultimo dato sottolinea da un lato l’accresciuta capacità economica e finanziaria della potenza inglese e, dall’altro, il divario che oramai si era allargato rispetto alla Repubblica veneta; divario che, forse, non era stato così ampio sino alla fine del XVII secolo. Per quanto riguarda la Castiglia, è stato supposto che le entrate della Corona corrispondessero a circa il 5 per cento del reddito nazionale nel 1557, attorno al 10 per cento nel 1601, e all’11 per cento a metà Seicento99. Gli impegni della potenza asburgica sono evidenziati dallo sforzo finanziario, pressoché continuo, cui il Paese venne sottoposto. Si tratta di percentuali di una finanza di guerra, che alla lunga non può essere sostenuta se non da un sistema economico in espansione, come effettivamente avvenne per l’Inghilterra. Conviene rilevare, inoltre, che nel 1765 le entrate centrali francesi costituivano il 9 per cento del prodotto nazionale; e che verso il 1780 il fisco prelevava attorno all’11 per cento del reddito dello Stato di Milano100. Cosa concludere, dunque? A voler prestar fiducia a queste cifre emergerebbe una fiscalità veneziana che, in termini relativi, non appare affatto opprimente: anche nel corso di periodi difficili - come nel decennio precedente la peste del 1630 - la percentuale delle entrate non superava i livelli di guardia, mentre nel Settecento l’ammontare di denaro prelevato dal centro rispetto alla ricchezza nazionale non può certo essere paragonato alla percentuale raccolta dalle grandi potenze: la struttura economica e la portata degli impegni militari di queste erano drasticamente diversi rispetto a quelli dello Stato marciano. Un’analoga immagine emerge dall’analisi della tabella 15, che presenta la quota pro capite delle entrate nette centrali in termini di giornate lavorative di un manovale edile. E’ superfluo avvertire che le cifre sono oltremodo indicative. TAB 14 Confrontando le performances della finanza veneziana, comunque, viene confermata la sua discreta capacità di prelievo a metà Cinquecento, anche di fronte alla Corona francese, che però riesce a raccogliere al centro una quota limitata del prodotto fiscale. L’Inghilterra, poi, si dimostra ancora su livelli piuttosto ridotti agli inizi del XVII secolo. Viene inoltre ribadita la posizione veneziana nel XVIII secolo: una fiscalità che, pur maggiormente strutturata che nel passato, non riesce a tenere il passo delle maggiori potenze europee. I tassi d’incremento, infatti, fatti segnare dalla fiscalità inglese (+470 per cento), francese (+196 per cento) e olandese (+116 per cento) rispetto a quella 97 Secondo C.M. Cipolla, Storia economica dell’Europa pre-industriale, Bologna 19945, p. 54, il fisco non riusciva a prelevare più del 5-6 per cento del PIL. 98 P.K. O’Brien, The political economy of British taxation, 1660-1815, in “Economic History Review”, 41 (1988), p. 3. 99 I.A.A. Thompson, Taxation, military spending and the domestic economy in Castile in the later sixteenth century, in Id., War and society in Habsburg Spain, Aldershot 1992, p. 4 del secondo saggio. 100 L. Pezzolo, Economia e fiscalità nella Terraferma del Settecento, in Veneto, Istria e Dalmazia tra Sette e Ottocento, a cura di F. Agostini, Venezia, Marsilio, 1999, pp. 29-42.

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veneziana (+ 46 per cento) mostrano evidenti differenze. Come giudicare ciò? Se ci poniamo dal punto di vista del protagonista della tabella - un operaio non specializzato - quello veneziano ha minor motivi di rattristarsi dei suoi colleghi. Vista dal tesoriere, invece, la situazione è più preoccupante: ma occorre ribadire che il ruolo della Signoria veneziana era assai inferiore a quello degli Stati qui considerati. E’ lecito inoltre chiedersi quale sia il rapporto tra andamento dell’economia ed entrate fiscali. I dati della tabella confermerebbero il mutamento che si verificò nel sistema economico europeo della prima età moderna: dapprima le Province Unite e poi l’Inghilterra soppiantarono la funzione di Venezia nell’economia-mondo; un segno di tale cambiamento si sarebbe riflesso anche nella capacità di trarre risorse finanziarie dal sistema economico nazionale. Sarebbe tuttavia un errore assegnare unicamente a fattori economici il divario creatosi tra la Repubblica e le altre potenze europee, dato che le performances della finanza pubblica sono il risultato di una complessa miscela di fattori. E’ indubbio che le Province Unite e l’Inghilterra svilupparono un sistema fiscale abbastanza equilibrato, limitando fortemente le aree di esenzione e privilegio, diversamente da quanto si riscontrava in Francia e in Spagna. Per quanto riguarda Venezia, sebbene anche qui sussistessero aree di privilegio, esse vennero contenute e lungo il Sei-Settecento pressoché svuotate di contenuto effettivo. Il prelievo tributario probabilmente risultò più efficace rispetto al passato, ma nello stesso momento non sembra aver indebolito in misura significativa le potenzialità della struttura economica veneta. Per una valutazione della pressione fiscale Le pagine precedenti ci portano ad affrontare uno dei nodi cruciali della storia finanziaria e fiscale: l’incidenza effettiva del prelievo tributario. Le stime proposte hanno messo in relazione l’ammontare delle entrate che giungevano al centro e alcuni parametri economici, ma questo non permette di parlare di pressione fiscale. I bilanci generali, infatti, non riescono a documentare il prelievo effettivo che veniva attuato nello Stato. Il suddito doveva affrontare sia la richiesta fiscale dello Stato - per lo più mediata dalle istituzioni periferiche - che la domanda locale, destinata a sostenere oneri di diversa natura. Così nella Repubblica veneta come in altri Stati i sudditi, e in particolare gli abitanti delle campagne, dovevano fornire forza-lavoro, generi e servizi in gran parte destinati al mantenimento della macchina militare101. Tra Quattro e primo Cinquecento i contadini veneti dovettero provvedere agli approvvigionamenti e all’alloggio dei reparti dislocati o in transito nei distretti; in seguito una parte di queste corvées venne convertita in un versamento in denaro, ma ai distrettuali fu richiesto di sostenere una parte dei costi di mantenimento dei soldati almeno sino ai primi decenni del Seicento. Oltre alla fornitura di vitto e alloggio alle truppe i sudditi rurali dovevano fornire nei momenti di necessità altri servizi, quali trasporti di munizioni, materiali vari e vettovaglie, lavori di apprestamento del campo militare, manodopera per la costruzione delle fortezze e per i lavori di sistemazione dei corsi fluviali e della rete stradale, forniture di legname per l’Arsenale. A tutto ciò si aggiungevano gli oneri dell’apparato della milizia locale (paghe, armi, 101 Il problema del mantenimento delle truppe nel territorio francese è stato trattato, ad esempio, da J.A. Lynn, How war fed war: the tax of violence and contributions during the Grand Siècle, in “Journal of modern history”, 65 (1993), pp. 286-310, che individua una attenuazione del fenomeno dopo il 1670. Per quanto riguarda alcuni Stati italiani, si vedano M.N. Covini, “Alle spese di Zoan Villano”: gli alloggiamenti militari nel dominio visconteo-sforzesco, in “Nuova rivista storica”, 76 (1992), pp. 1-56; M. Rizzo, Militari e civili nello Stato di Milano durante la seconda metà del Cinquecento. In tema di alloggiamenti militari, in “Clio”, 23 (1987), pp. 563-96; M. Mallett e J.R. Hale, The military organization of a renaissance state. Venice c. 1400 to 1617, Cambridge 1984, pp. 131 sgg.; C. De Frede, Gli alloggiamenti di truppe nel Mezzogiorno d’Italia durante il Cinquecento, in “Studi storici meridionali”, 2 (1982), pp. 15-24; qualche elemento anche in Penuti, Finanza locale, pp. 287-88, 291.

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esercitazioni) e dei rematori da inviare alla flotta veneziana. I costi per i salari degli amministratori locali, per le vertenze giudiziarie e per l’annona completavano l’insieme delle uscite ordinarie generalmente riconosciute ai bilanci delle istituzioni territoriali. Non deve sorprendere, così, che verso la fine del Cinquecento il Territorio di Verona pagasse meno del 20 per cento delle proprie uscite a titolo di imposte camerali, mentre oltre il 40 per cento era destinato a forniture di legname, trasporti e manodopera per le fortezze. Nel 1579 il Territorio bresciano figurava versare in gravezze 16640 ducati, e altrettanti (16800) venivano spesi in oneri extracamerali. L’analoga istituzione vicentina pagava 28572 ducati alla Camera fiscale attorno al 1633, ma ne spendeva oltre 14.000 per costi legati al mantenimento della milizia, dei reparti di cavalleria e fanteria professionale102. Seppure le cifre si debbano accogliere con cautela, il Territorio padovano affermava che tra 1580 e 1639 almeno due milioni di lire erano state spese “per servicio et commodi” di Venezia, e in particolare per trasporti, alloggi di truppe, milizie e cantieri103. Analogamente, la Contadinanza del Friuli calcolò che tra il 1560 e il 1583 il versamento in gravezze ordinarie fu di 502.012 lire, contro oneri straordinari - dovuti in parte al conflitto del 1570-73 - per 1.907.637 lire (79,2 per cento della spesa globale)104. Con il venir meno delle necessità belliche si ha l’impressione che il peso delle corvées sia diminuito sensibilmente anche se, in taluni casi, erano ancora i corpi territoriali che dovevano affrontare i costi dell’emergenza. Nel Friuli, ad esempio, la Contadinanza impegnò nel 1741 il 35 per cento delle uscite per la difesa del territorio dalla minaccia della peste105. Bisogne tener presente inoltre che una parte degli obblighi extra-camerali addossati ai distretti venne ridistribuita - lungo il Seicento - tra le città e i contribuenti ecclesiastici. Negli ultimi anni della Repubblica, comunque, le gravezze rappresentarono la voce passiva più importante dei bilanci del Territorio vicentino, situandosi attorno al 65-70 per cento delle uscite106. Il peso considerevole delle “fazioni” assegnate alle comunità rurali emerge anche dalla documentazione contabile locale. I pochi elementi che abbiamo a disposizione per il XV secolo confermano che le prestazioni richieste ai comuni dei distretti di Terraferma costituivano una voce consistente del bilancio107. Tra 1589 e ‘90 le gravezze camerali assorbivano meno di un terzo delle uscite di trentatre comuni bergamaschi: una quota relativamente moderata considerando che circa il 40 per cento veniva speso in carreggi, ordinanza e manutenzione di strade108. Un minuzioso elenco 102 ASVr, Archivio antico del Comune, Processi, busta 95, fasc. 1828, cc. 29 sgg.; A. Rossini, Le campagne bresciane nel Cinquecento, Milano 1994, p. 244; M. Knapton, L’organizzazione fiscale di base nello Stato veneziano: estimi e obblighi fiscali a Lisiera fra ‘500 e ‘600, in Lisiera. Immagini, documenti e problemi per la storia e cultura di una comunità veneta, a cura di C. Povolo, I, Vicenza 1981, pp. 402-3. Conviene notare che verso il 1540 le uscite imputate a gravezze camerali costituivano la maggior parte (73,1 per cento) delle spese della città di Verona (ASVr, Archivio antico del Comune, Processi, busta 187, fasc. 1866, cc. 26v-27r). 103 ASPD, Territorio, busta 466. 104 I dati sono riportati da A. Tagliaferri, Udine nella storia economica, Udine 1983, p. 165. 105 BCUD, Fondo principale, busta 967, fasc. 1, c. 12r. La Contadinanza dichiarò di aver speso per i “sospetti di contaggio” tra 1712 e 1716 quasi nove milioni di lire. 106 I dati in ASV, Revisori e regolatori delle entrate pubbliche in Zecca, buste 349-51. 107 Esempi in U. Soldà e M. Knapton, Documenti amministrativi per una nuova storia dei contadi veneti nel Quattrocento: il libro dei manifesti e colte della comunità di Castelgomberto (1446-1452), in “Annali veneti”, 1 (1984), pp. 31-45; C. Ferrari, Com’era amministrato un Comune del Veronese al principio del sec. XVI (Tregnago dal 1505 al 1510), in “Atti e memorie dell’Accademia di agricoltura, scienze, lettere, arti e commercio di Verona”, s. IV, 3 (1902-3), p. 68 dell’estratto. Si veda altresì ASTv, Archivio storico comunale, busta 1297, fasc. 1487 (invio di guastatori e cernide in Valsugana nel 1487). 108 Pezzolo, L’oro dello Stato, p. 297. Sulle fazioni cui venivano sottoposte le comunità bergamasche cfr. Una “informazione” sui carichi del territorio bergamasco nella seconda metà del Cinquecento, in “Bergomum”, 19 (1935), pp. 205-10. Da notare che in Valencia, a Sueca, analoghi

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delle spese sostenute dal comune di S. Sofia, nel Veronese, dal 1584 al 1627 prova che il 10,7 delle uscite fu dovuto al pagamento della dadia delle lance e del sussidio, mentre almeno il 20 per cento fu imputato ai costi della milizia, dei passaggi di truppe, dei guastatori per i cantieri delle fortezze, per la manutenzione delle strade e per i carreggi109. Nella comunità bergamasca di Adrara, poi, il bilancio del 1658 assegnava ai dazi che il comune pagava in Camera fiscale il 15 per cento delle uscite, il 6,6 per cento era costituito dalle gravezze distribuite in base all’estimo territoriale e il 13 per cento era riferito alle spese per l’ordinanza e i rematori110. La rilevante presenza di pagamenti in beni e servizi, almeno sino a tutto il XVII secolo, merita qualche commento. Anzitutto occorre sottolineare che tale forma di prelievo era strettamente connessa al mondo rurale; uno dei caratteri distintivi della città stava proprio nell’esenzione dalle corvées e da gran parte dei pesi (in natura) per il mantenimento delle truppe. Tale situazione comunque venne parzialmente riequilibrata a seguito delle aspre controversie fiscali sorte tra città e Territori a cavallo del Cinque e Seicento. In secondo luogo, per certi versi l’imposizione in natura veniva incontro ai contribuenti delle campagne, dove la circolazione di buona moneta poteva essere scarsa, sebbene non si debba enfatizzare questo aspetto della vita economica rurale. I costi di transazione, inoltre, erano piuttosto limitati e non riguardavano le istituzioni statali. Interessa sottolineare poi il carattere “arcaico”, quasi “feudale” di questi strumenti tributari: essi rievocavano gli antichi obblighi personali, per lo più militari, che avevano legato le persone nella lontana età feudale111. La progressiva monetizzazione di tali oneri significò, tra l’altro, un fondamentale mutamento anche sul piano della filosofia fiscale, poiché, se uno dei requisiti del tributo “moderno” è che il prodotto dell’imposta (la moneta) sia impiegato a piacimento dal principe, allora la trasformazione della corvée in una vera e propria imposta liberava verso qualsiasi destinazione il denaro riscosso. Dopo queste evidenze sarebbe affatto arduo ritenere che le cifre dei bilanci possano esprimere l’effettivo prelievo fiscale sui sudditi. La commistione fra imposte statali, obblighi oneri sembrano assai contenuti (circa il 9 per cento del bilancio comunale destinato alla difesa costiera): A.J. Mira Jòdar, Las finanzas del municipio. Gestiòn econòmica y poder local. Sueca (s. XV-XVI), Valencia 1997, pp. 139, 151-54. Anche i bilanci di Lione a fine Seicento non registrano significative uscite di carattere militare: N. Neyret, Les budgets municipaux à Lyon de 1680 à 1699, in “Etudes et documents”, 3 (1991), pp. 71-85. 109 Ho calcolato le percentuali sulle voci chiaramente definite dalla documentazione; si tratta dunque di una soglia minima: ASVr, Antichi estimi provvisori, busta 584. Vario materiale sui costi di alloggio delle truppe sostenuti dal Trevigiano nella guerra di Gradisca in ASTv, Archivio storico comunale, busta 1334, fasc. 1617; ibid., busta 1341 contiene documentazione per Bergamo tra 1628 e 1634. Un cenno all’aumento degli oneri militari delle comunità del lago di Garda in ACS, Archivio della Magnifica Patria, busta 178, c. 77r (28 settembre 1615); busta 180, c. 353r (21 maggio 1616). Le principali voci di spesa di Castelfranco (crediti, amministrazione, imposte camerali, liti) emergono dai registri delle deliberazioni consiliari: BCC, Archivio storico del comune, Consigli, vol. 2 (1565-88). Da notare che la comunità castellana stipendiava un medico pagandolo con 200 ducati d’oro all’anno e l’alloggio (ibid., c. 97r, 11 marzo 1571). 110 M.L. Madornali, Patrimonio e giurisdizione di una famiglia feudataria nello stato veneto: i conti Calepio (secoli XVI-XVII), in “Società e storia”, 17 (1994), p. 67. Alcuni esempi per le comunità vicentine in L. Pezzolo, Una fonte privilegiata d’indagine: l’estimo comunale, in Bolzano Vicentino, a cura di C. Povolo, Vicenza 1985, pp. 293, 295-96. Polizze di spese sostenute da comunità padovane per passaggi di milizie nel primo Seicento in ASPd, Archivio civico antico, Territorio, busta 461; e per alcuni oneri di carattere militare gravanti su Montagnana, in particolare nel secondo Seicento, ivi, Milizie della Repubblica veneta, busta 131, fasc. 7, da confrontare con le entrate della comunità (ACM, busta 307, fasc. 8. 111 Cfr. le osservazioni di W. Beik, Etat et société en France. La taille en Languedoc et la question de la redistribution sociale, in “Annales ESC”, 39 (1984), pp. 1287-88.

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personali e oneri locali rendeva il peso fiscale un insieme complesso che non risulta semplice suddividere tra le sue componenti, per non parlare del corpo contribuente, diviso da esenzioni, privilegi e immunità. Se nelle pagine precedenti abbiamo proposto alcuni calcoli basandoci sui bilanci, allo scopo principale di trarre qualche dato confrontabile con altri casi, è ora necessario partire dalla documentazione prodotta “dal basso” per individuare l’andamento della richiesta fiscale sui contribuenti. Ogni singola comunità godeva di una notevole autonomia finanziaria e le diverse spese gravavano quasi interamente sui contribuenti registrati nell’estimo locale. Se il comune godeva di entrate patrimoniali (concessioni, affitti di terre, diritti vari) i proventi relativi dovevano essere destinati anzitutto al pagamento delle gravezze camerali, sollevando così gli abitanti da una parte dell’onere fiscale. E’ presumibile che la progressiva riduzione delle terre comuni a vantaggio dei privati e la vendita delle terre comunali - come già accennato - a partire dallo scoppio del conflitto per Candia abbiano limitato la capacità contributiva dei comuni e che, di conseguenza, il peso tributario sui privati sia aumentato. La contabilità comunale, dunque, dovrebbe essere in grado di offrire il reale andamento della domanda fiscale generata dalle istituzioni centrali (Stato), intermedie (Territorio, subdistretti, vallate...) e locali (comunità). Iniziamo l’analisi dalla figura 3, che presenta l’andamento del prelievo sui contribuenti di Padova e Treviso: la lira d’estimo rappresentava un coefficiente calcolato in base a uno sporadico accertamento patrimoniale. Il medesimo meccanismo vigeva anche nelle comunità rurali, dove veniva redatto l’estimo comunale. FIG 3 Ora, il grafico conferma alcune osservazioni già svolte in precedenza: i momenti di accentuato aumento della domanda fiscale si situarono tra il secondo e terzo decennio del Seicento e nei primi anni della guerra di Candia. Successivamente la pressione, pur tendendo a diminuire, si mantenne su livelli piuttosto elevati per i trevigiani e, presumibilmente, anche per i padovani112. Il trend delle uscite finanziarie di un gruppo di comunità rurali veronesi conferma l’osservazione precedente. FIG 4 L’indice delle uscite raddoppia nei primi anni Venti del Seicento rispetto agli anni Ottanta del secolo precedente. Purtroppo gli interessanti dati veronesi vengono meno alla vigilia della grande peste, e pertanto per i decenni successivi dovremo rivolgerci alle poche informazioni fornite dalla contabilità vicentine. I costi di carattere militare sostenuti dai comuni rurali del Vicentino crebbero da un indice 100 negli anni 1615-17 a 342 nel 1624-26 e addirittura a 659 nel triennio 1630-32113. FIG 5 Il grafico relativo al comune di Nanto evidenzia l’incremento delle spese connesso ai primi anni della guerra di Candia. Il periodo bellico tuttavia non fu contrassegnato, almeno nel caso di Nanto, da un’ininterrotta tensione finanziaria: gli anni Cinquanta non paiono particolarmente drammatici, mentre l’andamento altalenante del periodo seguente potrebbe trovar motivo nella fluttuazione delle spese locali. Gli anni della vittoriosa guerra di Morea e della successiva sconfitta hanno lasciato poche tracce finanziarie; è probabile che lo sforzo militare sia stato sostenuto con ulteriori inasprimenti tributari, ma, allo stato attuale delle ricerche, l’entità e la durata di tali misure non è chiaramente identificabile. Con la seconda metà del Settecento si aprì un lungo periodo che non mostra significativi sbalzi del prelievo fiscale: il livello delle spese locali del Territorio vicentino,

112 Il coefficiente di correlazione tra le due serie su base media quinquennale è 0,79. 113 Pezzolo, Dal contado alla comunità, p. 389.

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per esempio, si mantenne piuttosto stazionario, a dimostrazione che la domanda statale non produsse sensibili incrementi delle uscite. Giunti al termine di questa lunga parte infarcita di cifre, tentiamo di proporre qualche conclusione. Il quesito che affiora dai dati esposti riguarda la relazione tra i bilanci centrali e le finanze locali. E’ stato opportunamente osservato che i bilanci dello Stato non sono in grado di offrire un valido supporto allorché si voglia affrontare la questione dell’effettivo prelievo fiscale, ma essi possono comunque fornire un valido aiuto per delineare l’andamento della domanda fiscale sui sudditi. Se poniamo a confronto i dati delle entrate statali e delle uscite delle comunità veronesi già esaminate osserviamo che, perlomeno per i decenni tra Cinque e Seicento, le curve seguono percorsi analoghi114. FIG 6 In questo caso non sembra perciò azzardato ritenere che la richiesta tributaria di Venezia guidò l’andamento delle uscite dei comuni veronesi. Sarebbe tuttavia inopportuno, mancando un’adeguata documentazione, estendere questa osservazione ad altri periodi. Per una valutazione del carico fiscale rimane imprescindibile una visione “dal basso”, sostenuta da contabilità locale, che fornisca i dati necessari per illustrare una serie di oneri che altrimenti non emergerebbero. A ciò si deve aggiungere, per una corretta valutazione del peso del fisco, la quota di denaro che veniva reimmessa in circolazione tramite la spesa pubblica; un aspetto, questo, che troppo spesso è stato trascurato dagli studiosi, ma che assume una rilevante importanza per comprendere gli effetti del sistema fisco-finanziario115. I circuiti della redistribuzione Da un certo punto di vista questa sezione avrebbe dovuto precedere quella dedicata alle entrate: sono le necessità finanziarie dello Stato, infatti, che dettano la politica tributaria e guidano l’andamento degli introiti. A rigor di logica, pertanto, sarebbe stato necessario dapprima misurare i bisogni dello Stato e, successivamente, analizzare i mezzi cui si è ricorso per fronteggiarli. Ponendosi da un altro angolo di visuale, tuttavia, la spesa statale assume il significato di una redistribuzione che il centro attua dopo aver raccolto il denaro sotto forma di tassazione116. La finanza pubblica appare dunque come un’enorme pompa che raccoglie il denaro dai contribuenti e lo suddivide tra diversi ambiti socio-economici. Ma l’analisi delle spese riflette altresì la trasformazione che nel lungo periodo hanno assunto le funzioni richieste ed esercitate dallo Stato: nato sostanzialmente dalla necessità militare, lo Stato fiscale ha ampliato nel tempo il suo campo d’azione traendo motivo dall’esercizio della giustizia e della politica estera, sino a entrare in settori quali la conservazione del territorio, la costruzione di infrastrutture e così via. Ora osserveremo l’altro versante della finanza pubblica veneziana, quello meno illuminato, cercando di individuare i mutamenti - se ve ne furono - nella struttura della spesa in base ai bilanci centrali. Anche l’andamento di lungo periodo della spesa pubblica veneziana (tabella 4), così come quello delle entrate, è strettamente correlato alle vicende politico-militari della Repubblica; e, 114 Ho considerato i dati della tab. *** e le medie triennali delle spese veronesi centrate sull’anno considerato. Il coefficiente di correlazione è un significativo 0,89. 115 L’espressione è presa a prestito da Dessert, Argent, pouvoir et société. Il versante delle spese statali non trova alcun cenno in Prodotto lordo e finanza pubblica. Secoli XIII-XIX, a cura di A. Guarducci, Firenze 1988; nonostante il titolo, spazio insufficiente è stato dato da Genèse de l’état moderne. Prélèvement et redistribution, éd. par J.-Ph. Genet et M. Le Mené, Paris 1987; mentre l’argomento è ancora piuttosto limitato in Economic systems and State finance 116 Ovvio il riferimento a K. Polanyi, La sussistenza dell’uomo. Il ruolo dell’economia nelle società antiche, Torino 1983 (New York 1977), in particolare pp. 66-69.

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analogamente, i confronti con altri bilanci statali evidenziano il mutamento che la potenza veneziana registra nel teatro europeo. Le 37 tonnellate d’argento che la Repubblica era in grado di spendere annualmente verso la fine del Quattrocento, infatti, dimostrano la sua posizione di grande potenza, con livelli di spesa quasi pari a quelli inglesi, non molto inferiori a quelli castigliani e francesi, e di gran lunga superiori a quelli milanesi e napoletani117. Lungo il XVI secolo le grandi monarchie continentali ampliarono il divario, arrivando a picchi di oltre 440 tonnellate per la Francia degli anni ottanta e oltre 500 tonnellate per la Spagna; con poco meno di 66 tonnellate la Repubblica marciana era comunque ancora su posizioni discrete118. Nel secolo successivo la tendenza all’espansione delle uscite nei bilanci europei fu ancor più manifesta, e mentre la Spagna raggiunse il suo apice nella prima metà del secolo, Francia e Inghilterra la imitarono nei decenni seguenti. Accanto a queste potenze emerse anche l’Olanda, che con un potenziale di spesa di 250 tonnellate nel 1641 può essere considerata un elemento importante nello scacchiere internazionale. E’ interessante notare che mentre la giovane repubblica olandese dimostrava una cospicua capacità finanziaria la vecchia repubblica del leone, colpita duramente dalla peste, non riusciva ad arrivare a 60 tonnellate. Solo la guerra di Candia riuscì a imprimere una brusca impennata al livello di spesa. Il centinaio di tonnellate d’argento che, presumibilmente, Venezia sborsò annualmente per i bisogni della guerra e della propria macchina amministrativa rappresentarono uno sforzo considerevole, sebbene non possa certo essere paragonabile all’attività di Stati più potenti. Il livelli post-guerra, ad ogni modo, si assestarono a una quota piuttosto elevata che, ad esempio, era superiore al complesso delle uscite dell’emergente Stato sabaudo (poco più di 47 t. nel 1684)119. Gli anni a ridosso della seconda guerra di Morea riportarono l’entità delle uscite a un livello d’emergenza, superando le 100 t. Il Settecento fu contrassegnato da un lungo periodo nel quale la spesa oscillò in media tra 80 e 90 t., per raggiungere nuovamente il plafond delle 100 t. negli ultimi anni della Repubblica. Una volta delineata la tendenza delle uscite statali occorre analizzare la struttura della spesa, avvertendo che, ancora una volta, le cifre proposte devono essere considerate come indicative di un ordine di grandezza. Non diversamente dalla altre compagini statali, anche la Repubblica di Venezia devolveva la maggior parte delle proprie entrate all’apparato militare e al servizio del debito, che può essere considerato a buon titolo come un costo connesso agli impegni militari (tabella 15 e fig. 7). TAB 15 E FIG 7 I dati del 1575 ci presentano un quadro che era ancora fortemente gravato dalla guerra appena finita: la macchina militare non era stata ancora del tutto smobilitata e l’indebitamento aveva toccato livelli elevati. Siamo dunque ancora in una situazione d’emergenza, che si riflette sul complesso degli impegni finanziari dello Stato mobilitato per la guerra. Dopo pochi anni i costi del sistema militare diminuirono notevolmente grazie a un periodo di relativa quiete, mentre le uscite per il debito rimasero elevate anche per il sopraggiungere della peste del 1576. I decenni tra Cinque e Seicento, nonostante la percentuale assorbita dall’esercito e dalla flotta fosse rilevante, non videro particolari tensioni finanziarie sul lato delle spese. Il debito pubblico venne sostanzialmente azzerato e la finanza veneziana fu in grado di accantonare mezzo milione di ducati l’anno, destinato alla costituzione di una riserva (il deposito grande) da sfruttare in caso di guerra. La somma accumulata regolarmente in pochi anni fu cospicua: tra aprile 1587 e aprile 1597 il tesoro passò da 1.214.000 a 6.406.884 ducati, e nel 1609 risultavano depositati 117 M. Körner, Expenditure, in Economic systems and State finance, p. 399. 118 Ibid, p. 400. 119 I dati sui bilanci sabaudi in Stumpo, Finanza e Stato moderno, pp. 376-77. Ho considerato un fino di g. 5,636 di Ag per la lira di Piemonte: S.J. Woolf, Sviluppo economico e struttura sociale in Piemonte da Emanuele Filiberto a Carlo Emanuele III, in “Nuova rivista storica”, 46 (1962), pp. 25-29, e le osservazioni di Stumpo, Finanza e Stato moderno, pp. XVI-XX.

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9.166.720 ducati, per lo più in pezzi pregiati120. Le necessità della guerra di Gradisca condussero a notevoli travasi di denaro dal deposito grande ai commissari addetti al pagamento delle truppe121, e da quegli anni le tracce del tesoro di riserva si fanno più tenui sino a scomparire dai bilanci. Probabilmente i continui salassi e l’erezione nel 1619 del Banco giro, che gestì il settore del debito statale a breve termine, portarono a una forte contrazione della riserva che aveva rappresentato il simbolo della salute finanziaria della Repubblica122. Agli inizi del Settecento riemerse l’idea di formare “depositi intangibili” come riserva di numerario, ma non pare sia stata realizzata. La capacità di risparmiare ogni anno tra un quarto e un quinto delle entrate (circa 13 t. di argento) non era cosa di poco conto; si consideri che nel periodo 1581-90 giunsero a Genova dalla Spagna in media all’anno poco meno di 55 t. di questo metallo, e che la capacità di spesa del Ducato piemontese non superava le dieci t. annue. Spostandoci a Venezia, è stato calcolato che nel 1587 il valore delle polizze assicurative sottoscritte nella piazza raggiungesse i 3.600.000 ducati; il dazio del sale, poi, procurava un gettito pari alla metà del denaro destinato al deposito123. E’ lecito chiedersi, vista la sua entità, se questa riserva abbia avuto effetti sull’economia veneta. La sottrazione di mezzo milione di ducati all’anno avrebbe potuto incidere su un sistema che necessitava di una continua circolazione di buona moneta? Pur mancando approfonditi studi sui flussi e sullo stock monetario nella Repubblica, pare che, a differenza di altre aree italiane, sullo scorcio del Cinquecento Venezia non abbia sofferto di “strettezza” di denaro124. Analogamente, il tasso d’interesse, che dovrebbe riflettere l’andamento della domanda e dell’offerta di denaro sul mercato, non registrò alcuna variazione a cavallo dei due secoli. Se è vero che a Firenze il tesoreggiamento degli avanzi di bilancio mise in difficoltà il mercato locale125, è altresì vero che a Venezia la costituzione della riserva si collocò in un quadro espansivo dell’economia che non accusò la sottrazione di denaro dai circuiti. E’ tuttavia verosimile che il tesoreggiamento di buone specie monetarie potesse alla lunga far diminuire lo stock di monete pregiate e di converso far affluire sulla piazza monete straniere di basso pregio126; del resto, il Deposito grande rappresentò una riserva cui attingere specie pregiate per le necessità della Zecca127. Conviene comunque sottolineare che la formazione di un tesoro di riserva rifletteva una particolare concezione del ruolo della finanza pubblica dell’epoca: la spesa statale non era considerata come uno strumento d’investimento produttivo e pertanto, venendo a mancare una forte domanda per l’apparato militare e per il credito pubblico, era ovvio che la quota risparmiata finisse nei forzieri del deposito. Tra i 120 Pezzolo, L’oro dello Stato, p. 208. 121 Numerosi storni dal deposito grande in ASV, Senato Zecca, reg. per gli anni 1608-26, passim. La liquidazione parziale del debito pubblico nel 1638 fu agevolata da prelievi dal deposito grande (ivi, Senato Affrancazioni Zecca, busta unica, 6 marzo 1638). Nel 1647 si accenna ancora a un “deposito riservato” (ivi, Senato Zecca, reg. XV, 11 agosto e 10 ottobre). Si veda anche BCMC, Donà dalle Rose, 26, cc. 124 sgg. 122 Una relazione non datata, ma presumibilmente dei primi anni del Seicento, riporta la diceria che il denaro accumulato dal governo veneziano arrivasse a “15 millioni d’oro”: BNP, Fonds italiens, 381, c. 446v. 123 G. Doria, Conoscenza del mercato e sistema informativo: il know-how dei mercanti-finanzieri genovesi nei secoli XVI e XVII, in La repubblica internazionale del denaro tra XV e XVII secolo, a cura di A. De Maddalena e H. Kellenbenz, Bologna 1986, p. 71; Körner, Expenditure, p. 400; Tucci, Gli investimenti assicurativi, pp. 147-48. 124 U. Tucci, Le emissioni monetarie di Venezia e i movimenti internazionali dell’oro, in Id., Mercanti, navi, pp. 305-6. 125 C.M. Cipolla, La moneta a Firenze nel Cinquecento, ora in Id., Il governo della moneta a Firenze e a Milano nei secoli XIV-XVI, Bologna 1990, p. 249. 126 U. Tucci, L’avventura orientale del tallero veneziano nel XVIII secolo, in La moneta nell’economia europea, secoli XIII-XVIII, a cura di V. Barbagli Bagnoli, Firenze 1981, p. 239. 127 ASV, Senato Zecca, reg. n.n., cc. 102v-3r, 107r (16 dicembre 1616 e 11 gennaio 1617).

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patrizi non emersero, a quanto pare, critiche che indicassero nella riserva una sottrazione di denaro da investire in attività produttive. L’impiego del denaro del deposito grande, ad ogni modo, contribuì ad attenuare la domanda fiscale che la guerra di Gradisca avrebbe senza dubbio alimentato: circa cinque milioni di ducati furono ingoiati dal conflitto128, denaro fornito dalla tassazione ordinaria e, assai verosimilmente, dalla riserva. Ciò non significa che i contribuenti non vennero gravati dalla fiscalità d’emergenza: corvées e forniture varie - come abbiamo visto - furono richieste ai sudditi, appesantendo notevolmente i bilanci comunali. La guerra contro gli arciducali giunse in un momento in cui la macchina militare veneziana stava già da tempo assorbendo rilevanti quote del bilancio. Infatti se gli oneri del debito erano assai ridotti, quelli militari oltrepassavano la metà delle uscite globali nel primo decennio del Seicento, toccando i livelli di uno stato di guerra. Livelli che non si abbassarono, al contrario, nei decenni a venire. Anche se purtroppo non disponiamo di dettagliati rendiconti finanziari degli anni della guerra di Candia, una grossolana stima indica in 125 milioni di ducati il costo globale del conflitto. E’ una valutazione che, pur essendo assai indicativa, sembra verosimile. Nel 1665 fu previsto che le sole spese per la macchina militare (soldati, flotta, cibo, Arsenale, artiglierie) avrebbero assorbito circa tre milioni di ducati; e un altro milione e mezzo se ne sarebbe andato in pagamento di interessi. Insomma, cinque milioni di ducati annui rappresentavano il livello minimo per sostenere la guerra; e a ciò si dovevano aggiungere i costi di amministrazione e le spese ordinarie. Forse il rendiconto di oltre quattro milioni di ducati all’anno bruciati a Candia che l’ambasciatore veneziano sottopose al papa nel 1668 fa sospettare una certa strumentale esagerazione, ma certo lo sforzo finanziario affrontato dalla Repubblica risultò cospicuo129. Truppe, flotta, materiali, approvvigionamenti e creditori assorbirono l’intera capacità di spesa della Repubblica lasciando in seguito una pesante eredità sui bilanci, gravati dal pagamento dei pro’ (interessi) del debito130. Nel 1670 il disavanzo tra entrate e uscite venne calcolato in 1.218.000 ducati, dovuto in gran parte ai pro’131. Non appena terminò il conflitto l’apparato bellico venne ridimensionato e furono intraprese iniziative per diminuire l’onere del debito. La pace durò poco: l’impresa della Morea riportò la finanza veneziana in una situazione d’emergenza che si protrasse per una quindicina di anni. Emergenza che non finì nemmeno con la vittoriosa conquista della penisola greca: dal 1700 al 1714 la Signoria dovette sostenere i costi della prima neutralità armata, immediatamente seguita dalla seconda guerra di Morea, con la quale i turchi riconquistarono i territori ceduti a Venezia pochi anni prima. Il bilancio, così come in altri momenti di crisi, registrò somme enormi destinate all’esercito e alla flotta nonché al soddisfacimento dei creditori: 2.605.000 ducati vennero assorbiti dal sistema bellico e altrettanti (2.593000) dai pro’132. Guerra e debito dunque mobilitarono rispettivamente il 41,8 e il 41,6 per cento delle uscite globali dello Stato. I dati precedenti fanno ritenere che i costi finanziari diretti e indiretti della guerra rappresentassero l’80-90 per cento delle uscite del bilancio veneziano lungo la prima età moderna. Naturalmente questa stima non prende in considerazione quegli oneri extra-bilancio che, come abbiamo visto, ricadevano sui sudditi. La percentuale delle uscite indirizzate alla macchina bellica e al servizio del debito non era certo tipica del solo bilancio veneziano: si tratta di ordini di grandezza che si riscontrano un po’ ovunque. E’ stato calcolato che oltre il 90 per cento delle spese della Repubblica olandese verso il 1641 fosse assorbito dalle forze armate e dagli interessi sul debito; e i costi militari sostenuti dal

128 La stima è in Mallett e Hale, The military organization, p. 484. 129 I riferimenti alle cifre sono nel mio Il fisco dei veneziani, p. 213. Per la previsione di bilancio del 1665, ASV, Senato Rettori, filza 61 (19 gennaio 1665). 130 Un esempio, pur parziale, di fondi mobilitati pressoché unicamente per la guerra in ASV, Senato Zecca, filza 125 (28 gennaio 1659). 131 Bilanci, II, p. 54. 132 BCMC, Donà dalle Rose, busta 425, fasc. 38.

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governo inglese durante i maggiori conflitti settecenteschi variarono dal 61 al 74 per cento delle uscite totali133. Si trattava di un impegno, quello della finanza veneziana in periodo di guerra, considerevole. E’ lecito chiedersi pertanto quali siano stati gli effetti della finanza di guerra sull’economia. La guerra è un fenomeno che non è facile affrontare: troppi i condizionamenti etici e ideologici che possono influenzare un corretto approccio al problema. Così, Carlo M. Cipolla ha ritenuto utile parlare di “produzione negativa” connessa alla guerra134, vale a dire delle distruzioni di capitale umano e beni che i conflitti provocano. Ma, ponendoci dal punto di vista della storia economica, un tale concetto non permette di cogliere i diversi aspetti del fenomeno. In fin dei conti, le guerre portano con sé vinti e vincitori e ciò non è affatto ininfluente sulle possibilità di crescita economica. Certo, gli impegni bellici provocano un aumento della pressione fiscale, difficoltà commerciali, tensioni politico-sociali, per non parlare delle perdite umane. I drammatici saldi negativi nei bilanci statali, inoltre, farebbero intendere che la guerra fosse mal vista dai tesorieri e da coloro che avevano l’oneroso compito di far quadrare i conti. Tutto ciò è indubbio: ma è altresì lecito tentare di capire se un conflitto può essere considerato proficuo per un Paese; se cioè un’azione di forza abbia recato successivi vantaggi in termini di controllo di spazi economici, di flussi di risorse e di sicurezza. Frederic Lane ha giustamente affermato che i “costi della protezione sono fattori essenziali della produzione, in quanto accade spesso che siano le loro variazioni a determinare i profitti”135; ed è altresì opportuno individuare chi furono coloro che sopportarono, sotto forma di imposte e prezzi, tali costi. Ora, sembra evidente che il periodo di splendore della potenza economico-politica veneziana (all’incirca dal XII al XV secolo) coincise con elevati costi di protezione che, tuttavia, vennero in parte addossati sui mercanti stranieri e in parte sui territori soggetti. La conquista di scali commerciali e la tutela delle rotte marittime comportò da un lato ingenti spese militari - verrebbe da dire investimenti di capitale136 - che dall’altro indubbiamente favorirono gli operatori realtini e la crescita economica della città. Il controllo di buona parte dell’interscambio commerciale tra i mercati ponentini e quelli europei consentì a Venezia di imporre prezzi che le permettevano di sostenere gli alti costi di protezione, costi che, in ultima istanza, vennero sopportati parzialmente dai consumatori stranieri. La comparsa di agguerriti concorrenti nella seconda metà del Cinquecento e il progressivo sgretolamento dell’impero coloniale mutarono drammaticamente il quadro sino allora favorevole a Venezia. Le guerre di difesa contro il Turco assorbirono inoltre enormi risorse che contribuirono solo a frenare il declino. Nello stesso momento l’area controllata dalle imbarcazioni di S. Marco si ridusse lasciando spazio ai “nordici” e ai pirati. I viaggi dei mercanti veneziani acquisirono un elevato grado di incertezza che impose maggiori costi di transazione (assicurazioni, protezione...) mentre non si verificò una corrispettiva espansione degli utili. I contribuenti veneti, pertanto, tra Cinque e Seicento iniziarono a pagare in misura superiore rispetto all’incremento marginale dei costi di protezione137.

133 M.C. t’Hart, The making of a bourgeois state. War, politics and finance during the Dutch revolt, Manchester 1993, pp. 61-62; J. Brewer, The sinews of power. War, money and the English state, 1688-1783, New York 1989, p. 40. 134 Cipolla, Storia dell’Europa pre-industriale, pp. 127-29. 135 F.C. Lane, Il significato economico della guerra e della protezione, in Id., I mercanti di Venezia, Torino 1982; Id., The role of governments in economic growth in early modern times, in “Journal of Economic History”, 35 (1975), pp. 8-17. Si veda anche N. Steensgaard, Violence and the rise of capitalism: Frederick C. Lane’s theory of protection and tribute, in “Review”, 5 (1981), pp. 247-73. 136 Cfr. S. Kuznets, National product in wartime, New York 1945, p. 7. 137 Cfr. gli importanti spunti di D.C. North, Structure and change in economic history, New York 1981, p. 25. Utile anche F.C. Lane, Public debt and private wealth: particularly in sixteenth century Venice, in Mélanges en l’honneur de Fernand Braudel, I, Toulouse 1973, pp. 317-25.

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Un ulteriore elemento da considerare riguarda la redistribuzione geografica delle spese militari. Non pare inverosimile ritenere che il denaro impiegato per la flotta e il suo mantenimento (materiali, alimenti, infrastrutture) rimanesse per lo più all’interno dei confini dello Stato. Le galee solitamente si rifornivano presso gli scali del Dominio da mar e le paghe dei marinai venivano spese nelle basi. La cospicua somma di denaro occorrente all’Arsenale, poi, avvantaggiava l’economia urbana della capitale e la rete di fornitori di legname, metalli e altre materie prime. Il denaro profuso per l’esercito terrestre, invece, seguiva vie diverse, in relazione alla composizione della forza militare. E’ probabile che l’impiego dei grandi condottieri, reclutati in special modo nel periodo tra le prime guerre di conquista in terraferma e le guerre d’Italia, abbia deviato una parte, in verità decrescente, dei fondi verso le aree di origine dei comandanti militari, specie verso le regioni dell’Italia centrale. Il governo veneziano, comunque, favorì la stabilizzazione di reparti all’interno dei confini che, perlomeno in tempo di pace, rappresentavano la maggior aliquota del potenziale militare veneziano. La guerra del 1645-69 spostò l’area di spesa oltre i confini statali tramite l’arruolamento di truppe straniere e bruciò enormi quantità di denaro a Candia. Gli scarsi impegni militari dopo la perdita della Morea permisero che il denaro destinato alle forze di terra rimanesse invece nell’ambito dei confini138. Gli effetti della spesa militare, dunque, devono essere valutati considerando l’andamento dell’economia nel suo complesso e l’effettiva distribuzione del denaro impiegato. Inoltre non bisogna sottovalutare il fatto che dal primo Cinquecento sino alla caduta della Repubblica la terraferma veneta non conobbe sostanziali pericoli e devastazioni di carattere bellico; la popolazione visse protetta e salvaguardata da quei drammatici fenomeni che accompagnavano abitualmente il passaggio degli eserciti. A ciò concorsero, oltre alla diplomazia marciana, l’esercito e soprattutto il sistema fortificatorio, eretto lungo il Cinquecento a difesa dei centri strategici dello Stato. E’ lecito dunque ritenere che la sostanziale assenza di importanti eventi bellici nella terraferma abbia contribuito a mantenere, così come è stato ipotizzato essere avvenuto nell’area occidentale delle Province Unite139, un discreto livello di vita della popolazione veneta. Si potrebbe paragonare la situazione della Venezia bassomedievale a quella dell’Inghilterra all’epoca dell’espansione settecentesca. La notevole spesa militare simbolizzò per l’Inghilterra la sua ferma volontà di ricoprire un ruolo cruciale nello scacchiere economico-politico mondiale140. Fu uno sforzo che, in fin dei conti, le permise di ottenere immensi vantaggi dall’impero coloniale e dal controllo dei traffici internazionali. Sebbene su una scala inferiore, Venezia aveva operato in maniera analoga, investendo risorse nella forza militare allo scopo di costituire e tutelare uno spazio economico che, a sua volta, indirizzasse ulteriori risorse al centro. I mutamenti che intervennero nel contesto internazionale e l’affacciarsi di nuovi rivali comportarono, così per la Venezia barocca quanto per l’Inghilterra fin de siècle, un duro ridimensionamento. L’esercito, la flotta e i costi connessi non erano comunque gli unici impegni della finanza veneziana: rinviando alla sezione successiva l’analisi del debito statale, vediamo quali altri settori di spesa emergono dai bilanci. Occorre anzitutto dire che le voci in uscita non sempre chiariscono l’effettiva destinazione del denaro; e ciò dipende anche dai diversi ambiti gestiti dai vari uffici. Sotto la voce “occorrenze del Cassiere del Collegio”, ad esempio, rientravano le spese più disparate: dalla sanità ai trasferimenti di truppe, dallo scavo dei canali lagunari alle elemosine141. 138 Dati sui costi dell’esercito sono stati esaminati da S. Perini, La difesa militare della Terraferma veneta nel Settecento, Venezia 1998, pp. 83-88. 139 L. Noordegraaf e J.L. van Zanden, Early modern economic growth and the standard of living: did labour benefit from Holland’s Golden Age?, in A miracle mirrored. The Dutch republic in European perspective, ed. by K. Davids and J. Lucassen, Cambridge 1995, pp. 430-31. 140 Le ricerche che accompagnano il fervido dibattito sulle relazioni fra economia, finanza e guerra in Inghilterra sono assai numerose: rinvio all’eccellente sintesi di H.V. Bowen, War and British society 1688-1815, Cambridge 1998; al quale si aggiunga, G. Clark, Debt, deficits, and crowding out: England 1727-1840, in “European review of economic history”, 5 (2001), pp. 403-36. 141 BCMC, Donà dalle Rose, 27, c. 21; e cfr. anche ivi, Prov. div., 396 c.II, c. 406v.

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Sembra che la spesa di carattere civile, comunque, si indirizzasse grosso modo verso il personale amministrativo, i lavori pubblici e l’annona. Per quanto riguarda l’approvvigionamento granario, in talune circostanze il governo si fece carico della domanda alimentare sia veneziana che dei centri del Dominio da terra. Nel gennaio del 1590 il governo investì almeno 219.000 ducati nell’acquisto di cereali a Senigallia142. Tra dicembre 1628 e novembre ‘29, vale a dire in un momento di grave carestia, i provveditori alle biave inviarono in terraferma grani per un valore di oltre 236.000 ducati143, poco meno di un decimo delle uscite statali del 1633. E nel 1783 il bilancio registrò più di 268.000 ducati spediti in Dalmazia “per sovegno a popoli per carestia”144. Non è usuale, tuttavia, che i bilanci distinguano gli oneri dell’annona da quelli relativi ai rifornimenti militari. Le sommosse che sconvolsero le grandi monarchie - ha affermato Trevor Roper nel contesto di un acceso dibattito sulla crisi del Seicento - trovarono motivo nei costi del crescente apparato statale e del mantenimento della corte145. L’ipotesi dello studioso inglese venne giustamente ridimensionata, ma è comunque utile per affrontare il problema, apparentemente estraneo, nel caso veneziano. Certo, la corte e il suo apparato clientelare non costituivano una spesa per lo Stato repubblicano, ma ciò non significa che non vi fossero uscite destinate al mantenimento di un’area sociale di clientelismo. Sebbene i bilanci, specialmente quelli cinque-seicenteschi, non siano particolarmente espliciti a tal riguardo, è plausibile ritenere che una buona parte dei salari e delle utilità versate dal governo fosse considerata come il prezzo per tacitare le rimostranze del patriziato povero e per legare al governo marciano famiglie della borghesia cittadina. Mano a mano che il problema dei patrizi indigenti si rese manifesto, il governo attuò misure di sostegno quali la moltiplicazione delle cariche minori, l’incremento dei salari e alcuni sgravi fiscali146. E non era affatto questione di poco conto, ché mercedi e provvisioni erano considerate da molti patrizi benefici da difendere a tutti i costi, sino a ostacolare decisioni di spesa che avrebbero potuto metterne in pericolo il pagamento147. Volker Hunecke è giunto a scrivere che “esercitando il loro potere per mezzo del diritto di voto in Maggior Consiglio, i nobili poveri contribuirono a rendere la Repubblica incapace di compiere riforme e a pietrificare le sue istituzioni”148. I bilanci settecenteschi riflettono, in effetti, la consistenza del problema, che si evidenzia con un progressivo incremento della spesa per provvisionati, salariati, benemeriti e stipendiati nella capitale. TAB 16

142 ASV, Senato Zecca, filza 2 (5 gennaio 1590). Cfr. anche M. Aymard, Venise, Raguse et le commerce du blé pendant la seconde moitié du XVIe siècle, Paris 1966. 143 ASV, Senato Giro, filza 3 (7 marzo 1630). Un precedente invio di grani a Belluno ivi, Senato Terra, reg. 98, cc. 436v-37r (24 febbraio 1628). 144 Bilanci, IV, p. 97. Tucci, L’avventura orientale del tallero, pp. 275-76, considera tali interventi piuttosto eccezionali. 145 H.R. Trevor Roper, La crisi generale del XVII secolo, in Crisi in Europa 1560-1660, a cura di T. Aston, Napoli 1968 (London 1965), pp. 83-133. 146 Oltre a L. Megna, Riflessi pubblici della crisi del patriziato veneziano nel XVIII secolo: il problema delle elezioni ai reggimenti, in Stato società e giustizia nella Repubblica veneta (sec. XV-XVIII), a cura di G. Cozzi, II, Roma 1985, pp. 255-99, si veda ora la vasta ricerca di V. Hunecke, Il patriziato veneziano alla fine della Repubblica, 1646-1797. Demografia, famiglia, ménage, Roma 1997 (Tübingen 1995), in particolare pp. 68, 178-79, 192-93, 248-50, 341-47, 386-88. 147 Si veda il ruolo dei nobili poveri riguardo il tentativo da parte del governo di acquisire il servizio postale nel quadro della correzione del 1774-75: F. Venturi, Settecento riformatore, V, 2, La Repubblica di Venezia (1761-1797), Torino 1990, pp. 174 sgg. 148 Hunecke, Il patriziato veneziano, p. 341.

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I dati dimostrano che a una chiara stabilità delle spese corrispose, sia in termini percentuali che assoluti, un netto aumento dei costi per provvigioni, sinecure e salari che andavano a vantaggio dei patrizi e del personale burocratico veneziano. Se è vero che a Venezia mancò una corte che sperperasse il denaro dei contribuenti è altresì vero che una parte significativa (probabilmente i due quinti verso la fine della Repubblica) del corpo aristocratico fu di fatto sostenuta per mezzo di prebende e salari che, specie verso la fine del Settecento, costituivano una non modesta quota dei costi a bilancio. L’indebitamento: coercizione, investimento, rischio e gioco Come ampiamente illustrato in precedenza, il precario equilibrio fra entrate e uscite che caratterizzava i bilanci degli Stati era continuamente messo in pericolo da conflitti, impegni politico-militari e occasioni straordinarie. Poiché i tempi di riscossione delle tasse decretate per fronteggiare le emergenze non permettevano un veloce utilizzo del denaro, era d’obbligo rivolgersi a prestatori che anticipassero il necessario. L’accensione di mutui, per lo più a breve termine, era una prassi piuttosto usuale per il Comune veneciarum. Accanto ai prestiti volontari si affiancarono, sin dal tardo XII secolo, forme di prestito forzoso, che ricadeva sui veneziani registrati nell’estimo. I contribuenti avrebbero dovuto versare un importo in funzione del patrimonio stimato; in cambio avrebbero ricevuto un interesse del 5 per cento sino alla completa restituzione del capitale. Il sistema, che in una fase politico-economica si dimostrava piuttosto vantaggioso sia per la finanza statale, affamata di denaro, che per i prestatori, che potevano contare su un moderato ma sicuro utile, venne messo in crisi durante la guerra di Chioggia. Il conflitto fece impennare il livello di indebitamento ma, soprattutto, diede inizio a una spirale che aggravò le condizioni strutturali della finanza pubblica. La pressante richiesta sui contribuenti, che comportò fra 1378 e l’81 un prelievo del 41 per cento dell’imponibile stimato; le difficoltà del governo nel versare regolarmente gli interessi ai creditori, tanto da portare alla decisione di sospenderne il pagamento nel 1379-81; il crollo sul mercato secondario delle quotazioni dei titoli statali, che precipitarono sino al 18 per cento del valore nominale; la redistribuzione di ricchezza che la guerra e la pressione fiscale provocarono nella città, con la conseguente incapacità del fisco di scovare i nuovi patrimoni149: tutti questi elementi furono alla base della prima vera crisi finanziaria dello Stato veneziano, crisi che ebbe significative ripercussioni anche nei decenni a venire. Le guerre quattrocentesche, infatti, misero in continua tensione la finanza veneziana e, nonostante qualche breve intervallo di pace, il quadro si degradò progressivamente. L’ammontare dei pro’ arretrati crebbe lungo il XV secolo: il ritardo nei versamenti ai creditori arrivò durante la guerra turca del 1463-79 a vent’anni e nessun pro’ venne pagato nel 1480150. Oramai i titoli del Monte venivano quotati ben sotto la parità e, di fatto, l’importo totale del debito ai prezzi di mercato poteva essere valutato, alla vigilia della guerra di Ferrara, a un decimo del valore nominale. Questa differenza deve essere tenuta presente osservando i dati della tabella 17 (e fig. 8): dalla fine del Trecento sino agli inizi del Seicento il debito globale veneziano fu gravato, in termini nominali, dai capitali raccolti nei Monti, che in gran parte subirono una forte svalutazione sul mercato secondario. Il totale dell’indebitamento, perciò, 149 Oltre al classico G. Luzzatto, Il debito pubblico della Repubblica di Venezia dagli ultimi decenni del XII secolo alla fine del XV, Milano 1963 (pubblicato come Introduzione a I prestiti pubblici della Repubblica di Venezia (sec. XIII-XV), a cura di G. Luzzatto, Padova 1929), si veda ora Mueller, The Venetian money market, pp. 461-63 e passim; e Id., Effetti della guerra di Chioggia (1378-1381) sulla vita economica e sociale di Venezia, in “Ateneo veneto”, 19 (1981), pp. 27-41. Riprendo in queste pagine alcune osservazioni esposte in L. Pezzolo, The Venetian government debt 1350-1650, in Urban public debts, urban governments and the market for annuities in Western Europe, 14th – 18th centuries, ed. by K. Davids, P. Janssens, and M. Boone, Leuven, 2003, pp. 21-36. 150 Mueller, The Venetian money market, p. 469.

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deve essere scontato considerando che di fatto i capitali raccolti vennero successivamente restituiti a prezzi di gran lunga inferiori al titolo nominale. TAB 17 E FIG 8 Allo scopo di ravvivare la fiducia dei contribuenti-prestatori, nel 1482 il governo aprì una nuova serie di titoli, in occasione della guerra di Ferrara (1482-84). La serie assunse il nome di Monte nuovo, per distinguerla dai titoli sino allora emessi (Monte vecchio), che erano giunti a conseguire un capitale nominale di 8.269.000 ducati. Il Monte nuovo riuscì a ridestare l’interesse dei veneziani, ma per breve tempo. Le difficoltà della guerra e l’accentuata pressione fiscale riportarono i veneziani all’incertezza sulla solvibilità del loro governo. La notizia della pace fu dunque accolta con un diffuso sollievo e, conseguentemente, anche le quotazioni di mercato della nuova serie di crediti ripresero quota. Anche le vicende del Monte nuovo furono strettamente legate ai coinvolgimenti militari della Repubblica; i problemi politici facevano scendere le quotazioni, mentre era sufficiente che si diffondessero voci di pace per ridar vigore ai prezzi. Così, per esempio, il titolo del Monte nuovo arrivò a essere trattato oltre la pari nel 1505-6151. Breve euforia, quella che si vide a Rialto, ché la guerra ricomparve dopo poco tempo. La crisi di Cambrai mise in ginocchio il Monte nuovo, che fu affiancato nel 1509 dal Monte novissimo, istituito con gli stessi scopi che avevano spinto a creare la precedente serie. Verso la metà degli anni Venti lo stato del debito statale non appariva certo eccellente: i pro’ venivano pagati con notevole ritardo, i crediti del Monte vecchio erano valutati al tre per cento, quelli del nuovo al dieci e al 25 per cento quelli del novissimo. Il sistema dei prestiti forzosi, insomma, oramai si stava dimostrando inadeguato sia per finanziare velocemente le guerre intraprese da Venezia che per i veneziani, che erano diventati più contribuenti che prestatori dello Stato. Tuttavia, secondo Lane, i gruppi agiati veneziani riuscirono a trarre profitto dal meccanismo del debito, in quanto ricevettero in pro’ e restituzioni di prestiti più di quanto avessero versato a titolo di imposte dirette152. La risposta alla crisi finanziaria emerse tra gli anni Venti e Trenta e si affermò verso la metà del secolo. Dopo l’erezione nel 1526 del Monte del sussidio, il meccanismo del prestito obbligatorio, divenuto logoro e inceppato dalle continue guerre, venne progressivamente sostituito dal finanziamento direttamente attinto sul mercato dei capitali. Il governo iniziò in maniera più sistematica che in passato a rastrellare capitali fra quei veneziani che sceglievano liberamente di investire nel debito statale. La serie di prestiti volontari assunse il nome di depositi in Zecca e rappresentò il più importante e potente mezzo di finanziamento dello stato veneziano in età moderna. Ai prestatori veniva assicurato il versamento dell’interesse in base all’assegnazione del gettito di una determinata imposta; il pro’, generalmente moderato, non era sottoposto a tassazione, diversamente dai crediti nei Monti; i termini per la restituzione del capitale non erano prefissati; il titolo era liberamente commerciabile e trasferibile agli eredi. Si tratta di elementi che permettono di affermare che i depositi in Zecca veneziani rappresentavano un’avanzata forma finanziamento del disavanzo e che, per certi versi, anticipavano i caratteri di “modernità” che solitamente si attribuiscono ad altri debiti statali153. La gamma dei prestiti variava in funzione della durata e del tasso d’interesse offerto. TAB 18 E FIG 9 151 Per quanto segue cfr. i dati in Pezzolo, Il fisco dei veneziani, pp. 35 sgg. 152 Lane, Public debt, p. 322. 153 Cfr. ad esempio Körner, Public credit, in Economic systems, p. 536, che mi sembra enfatizzi l’originalità del debito pubblico inglese. Ho sottolineato le innovazioni che emersero in alcune aree italiane in Elogio della rendita. Sul debito pubblico degli Stati italiani nel Cinque e Seicento, in “Rivista di storia economica”, 12 (1995), pp. 284-330.

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Nel 1538 - durante la guerra turca - il governo emise una serie di titoli vitalizi a un tasso del 14 per cento, mentre i depositi redimibili arrivavano in quel periodo a garantire un pro’ dell’8 per cento. E’ interessante notare che i vitalizi rappresentavano una certa novità per quanto riguardava il debito veneziano, sebbene essi fossero ben conosciuti nelle città della Germania meridionale, della Svizzera, della Francia settentrionale e delle Fiandre154. In Italia i primi vitalizi emessi dai maggiori governi si diffusero verso la metà del Cinquecento: a Roma venne eretto nel 1550 un Monte vacabile al 12 per cento, e nel medesimo periodo a Napoli il governo pagava un tasso sui vitalizi addirittura del 20 per cento, ridottosi al 12 nei primi anni Ottanta155. Nell’Olanda impegnata dalla guerra, nel 1553, un vitalizio rendeva il 16,66 per cento156. E’ assai probabile che la determinazione del tasso sui vitalizi fosse il risultato di osservazioni e calcoli, seppur non molto sofisticati, sulla speranza di vita della popolazione: così, ad esempio, la circolazione nella Firenze rinascimentale di una tabella antica sulla speranza di vita potrebbe trovar spiegazione nell’istituzione del Monte delle doti, che raccoglieva capitali per le fanciulle da sposare a un tasso assai simile a quello di un vitalizio157. Venezia, ad ogni modo, nei decenni successivi all’istituzione dei depositi in Zecca non fece ricorso ai vitalizi in misura consistente: se nel conflitto del 1537-41 il 37,5 per cento del denaro versato nei depositi fu destinato ai vitalizi, solo 50.000 su un ammontare di 3.500.000 ducati vennero raccolti nel 1570-73. I depositi si dimostrarono per i veneziani ottimi investimenti, con un rendimento del 7-8 per cento in tempo di guerra, e attirarono ingenti quantità di denaro grazie alla fase espansiva dell’economia e alle condizioni allettanti offerte dalla Zecca. Passata la bufera del conflitto turco e la peste si dette avvio, nonostante forti resistenze interne al patriziato, all’ammortamento del debito che, nel giro di un ventennio, portò al sostanziale azzeramento degli oneri passivi sul bilancio (tab. 17). Vennero restituiti dapprima i capitali in Zecca e successivamente venne liquidato il vecchio debito dei Monti pagando i titoli al prezzo di mercato. Si trattò di una grandiosa operazione che senza dubbio rafforzò l’immagine della Repubblica e della sua finanza. L’operazione di liquidazione del debito comportò il pagamento di una decina di milioni di ducati, pari a quattro volte l’entrata statale annua. Si trattò dunque di uno sforzo considerevole, che riversò sui veneziani ingenti quantità di denaro che presumibilmente presero la via della terraferma, sotto forma di acquisti di terre e di prestiti ipotecari158. Ogni abitante della città ricevette in media oltre 66 ducati, l’equivalente di quanto potesse aspettarsi come retribuzione annua un lavorante edile. Le vicende del primo trentennio del XVII secolo condussero il governo a tornare a chiedere denaro agli investitori: tra 1609 e 1641 la media annua dei capitali raccolti in Zecca fu di 244.500

154 E.B e M.M. Fryde, Il credito pubblico, con particolare riferimento all’Europa nordoccidentale, in Storia economica Cambridge, III, a cura di M.M. Postan, E.E. Rich e E. Miller, Torino 1977 (Cambridge 1965), pp. 618 sgg.; M. Körner, Solidarités financières suisses au XVIe siècle, Lucerne-Lausanne 1980, pp. 299-301. 155 F. Piola Caselli, La diffusione dei luoghi di monte della Camera apostolica alla fine del XVI secolo. Capitali investiti e rendimenti, in Credito e sviluppo economico in Italia dal Medio Evo all'Età Contemporanea, Verona 1988, p. 198; A. Calabria, The cost of empire. The finances of the Kingdom of Naples in the time of Spanish rule, Cambridge 1991, p. 143. 156 J.D. Tracy, A financial revolution in the Habsburg Netherlands. Renten and renteniers in the County of Holland, 1515-1565, Berkeley 1985, p. 94. 157 A. Molho, Marriage alliance in late medieval Florence, Cambridge (Mass.) 1994, pp. 31-33, 41, 43, sui rendimenti; R. Trexler, Une table florentine d’espérance de vie, in “Annales ESC”, 26 (1971, pp. 137-39; e le osservazioni critiche di J. Dupâquier, Sur une table (prétendument) florentine d’espérance de vie, ibid, 28 (1973), pp. 1066-70. Un eccellente saggio sulla questione dei vitalizi è fornito da G. Alter e J.C. Riley, How to bet on lives: a guide to life contingent contracts in early modern Europe, in “Research in economic history”, 10 (1986), pp. 1-53. 158 Sulla liquidazione del debito, Pezzolo, Il fisco dei veneziani, pp. 90 sgg.

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ducati, con punte durante gli anni attorno alla guerra di Gradisca (900.000 ducati nel 1616)159. La finanza pubblica comunque non fu aggravata dall’indebitamento: nel 1619 il Senato, per soddisfare le pressanti richieste di investitori, emise una serie al 5 per cento e al 10 per cento vitalizio160; condizioni, queste, piuttosto favorevoli per la Repubblica e che denotano un rapporto abbastanza equilibrato tra domanda statale e offerta privata di capitali. Si consideri che in Olanda, l’area che forse era la più dotata di capitali nell’Europa del Seicento, nel medesimo periodo i prestiti pubblici redimibili (losrenten) offrivano una rendita del 6,25 per cento e i vitalizi (lijfrenten) dall’11 al 14 per cento161. Ciò fa intendere che la fiducia nello Stato veneziano come debitore era piuttosto alta e che, a sua volta, il governo sapeva di poter attrarre capitali nonostante i tassi non fossero particolarmente elevati. Il rendimento del 5 per cento, infatti, si collocava di poco al di sotto del ventaglio di tassi che si riscontravano sul mercato privato dei capitali: nel secondo e terzo decennio del Seicento il tasso medio a Venezia e nella terraferma centrale era attorno al 6 per cento, mentre in Friuli i prestiti generalmente si contrattavano al 7 per cento162. Del resto occorre considerare che la contrazione delle possibilità di investimenti nel commercio marittimo probabilmente ampliò la base dei veneziani che cercavano nella rendita finanziaria garantita dallo Stato un impiego sicuro dei propri gruzzoli. A rafforzare l’offerta di denaro a Venezia tra il secondo e terzo decennio del Seicento giunsero investitori genovesi; costoro stavano progressivamente, seppur non del tutto, spostando i loro impegni dal credito agli Asburgo di Spagna ai debiti italiani, in particolare veneziani e pontifici163. Pare che i genovesi abbiano fatto la loro prima apparizione tra i depositanti in Zecca nel 1617, in occasione della guerra di Gradisca, e da allora i finanzieri della Superba svolsero un ruolo assai importante sino alla metà del Settecento. Essi predilessero i titoli vitalizi, tanto per l’eccellente rendimento quanto, forse, per il fatto che, nonostante gli sforzi del rappresentante della Signoria a Genova, le notizie sui decessi dei titolari potevano essere celate a lungo ai pagatori della Zecca164. Nel 1641 risultò che i titolari genovesi detenevano 1.008.648 ducati su un ammontare complessivo di 2.177.795 ducati di titoli vitalizi165; ciò significa che il 46,3 per cento dei fondi al 10, 12 e 14 per cento era stato fornito da prestatori genovesi. 159 I dati relativi ai depositi in Zecca derivano dallo spoglio sistematico per i secoli XVI e XVII dei registri del Consiglio dei Dieci, Zecca e del Senato Zecca; purtroppo le delibere, a partire dagli anni di Gradisca, non riportano regolarmente il valore delle emissioni. 160 ASV, Senato Zecca, reg. III, cc. 11v-12r (11 aprile 1619). Cfr. anche ibid., c. 28r (3 maggio 1619) per ulteriori richieste di depositare denaro al 5 per cento. 161 ‘t Hart, The making, pp. 162-63. 162 Per il mercato veneziano, G. Corazzol, Livelli stipulati a Venezia nel 1591. Studio storico, Pisa 1986, pp. 26-34, che rileva un tasso prevalente del 6 per cento; a Padova sembra che il tasso fosse attorno al 5,5-6 per cento (ASPd, Archivio Selvatico, 1206); nel Veronese era diffuso il 6 per cento (G. Borelli, Città e campagna in età preindustriale, XVI-XVIII secolo, Verona 1986, pp. 375-76); nel Pordenonese e in Carnia, invece, il tasso si collocava usualmente al 7 per cento: ASPn, Notarile, buste 676, 688, passim (anno 1625); A. Fornasin, Ambulanti, artigiani e mercanti. L’emigrazione dalla Carnia in età moderna, Verona 1998, pp. 72-73; I. Zenarola Pastore, Dalla solidarietà al prestito su interesse. Itinerari archivistici per una storia del credito in Friuli tra tredicesimo e diciottesimo secolo, estr. s.n.t., pp. 106-7. 163 Per quanto segue cfr. G. Felloni, Gli investimenti finanziari genovesi in Europa tra il Seicento e la Restaurazione, Milano 1971, pp. 143 sgg. 164 Le “fedi di vita” dei sottoscrittori dovevano recare la firma del rappresentante veneziano e lo stemma di San Marco: si veda ASV, Senato, Dispacci Genova, busta 3 (21 ottobre 1618); nonché ivi, Provveditori in Zecca, buste 1540-41; e ivi, Compilazione leggi, busta 379, cc. 294, 306 (26 marzo 1650 e 29 ottobre 1652). L’inventario de L’archivio dei Durazzo marchesi di Gabiano, Genova 1981, pp. 177-78, registra l’esistenza di “fedi di vita”, presumibilmente utili per la riscossione di vitalizi a favore di componenti della famiglia genovese. 165 Bilanci, I, pp. 552-53; Felloni, Gli investimenti, p. 145.

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Il ricorso a rendite vitalizie si estese lungo il Seicento, così a Venezia come nel resto d’Europa, ma con qualche elemento diverso rispetto al secolo precedente. Alcuni governi, infatti, iniziarono a suddividere l’insieme dei sottoscrittori variando il tasso d’interesse in relazione alla fascia d’età. Così, nel 1625 il Senato veneziano emise vitalizi che avrebbero assicurato il 10 per cento ai creditori di età inferiore ai 30 anni, il 12 a coloro tra i 30 e 50 anni e infine il 14 per gli ultracinquantenni166. I Provveditori in Zecca avrebbero verificato l’età dei titolari in base ai registri parrocchiali, mentre gli investitori stranieri avrebbero dovuto presentare una dichiarazione sottoscritta dai rappresentanti veneziani all’estero. Subito dopo lo scoppio della guerra di Candia il governo offrì agli investitori un deposito vitalizio al 6 per cento limitato a 100 ducati per ciascun sottoscrittore. Il tasso era piuttosto ridotto per un vitalizio, ma era giustificato dal fatto che il denaro dei pro’ risparmiato a seguito dei decessi sarebbe stato suddiviso tra i sopravvissuti. Anche se in forma ancora vaga, è verosimile ritenere che a Venezia circolassero progetti che anticipavano in qualche modo analoghi meccanismi di finanziamento (tontine) cui si ricorse dalla fine del Seicento in Europa settentrionale, specialmente in Francia. Nel 1669 venne lanciato un vitalizio basato su ben otto classi d’età con tassi che, par di capire, sarebbero aumentati a vantaggio dei titolari superstiti167. Conviene sottolineare che il meccanismo che diversificava i tassi non era affatto una prassi comune nell’Europa del tempo; sia il governo inglese che quello olandese emisero per lungo tempo annualità vitalizie che non prendevano in considerazione le diverse fasce d’età dei sottoscrittori168. Sembra, dunque, che a Venezia l’ambiente politico e culturale fosse particolarmente pronto a raccogliere le novità che si stavano profilando nel settore dei calcoli attuariali; novità che riflettevano un mutamento nel sistema di valori e nelle credenze legate ai concetti di caso, fortuna, probabilità, previsione e malasorte169. Sebbene il governo si rendesse conto del pesante onere che questi titoli comportavano170, l’emissione fu seguita negli anni da numerose altre. Dapprima si cercò di limitare l’area dei titolari ai soli abitanti dello Stato, ma le impellenti necessità della guerra costrinsero a cercare investitori anche all’estero. La situazione esposta per il 1641 evidenziò che perlomeno un settimo del debito consolidato nei depositi in Zecca (7.435.723 ducati) apparteneva a non veneziani. La presenza di investitori stranieri nel debito veneziano non era certo una novità; già nel Tre e Quattrocento le autorità avevano autorizzato investimenti stranieri171, ma l’impressione è che la loro quota fosse piuttosto limitata. Nel secondo decennio del Seicento, invece, il governo si preoccupò di allargare la base dei potenziali sottoscrittori dichiarando la sua disponibilità ad accettare denaro “da quelli d’ogni conditione - si legge in una parte del 1625 - et tanto di questa città et del stato nostro quanto de stati

166 ASV, Senato Zecca, reg. n.n., cc. 133r-v (8 aprile 1625). 167 ASV, Provveditori in Zecca, filza 34 (28 dicembre 1645); ivi, Compilazione leggi, busta 379, c. 436 (8 febbraio 1669). Su tutta la questione dei vitalizi e delle tontine si veda il saggio di R.M. Jennings e A.P. Trout, The tontine: from the reign of Louis XIV to the French revolutionary era, Philadelphia 1982. 168 Dickson, The financial revolution, pp. 53-54; in Olanda si iniziò a emettere vitalizi differenziati dopo il 1671 (Tracy, A financial revolution, p. 213). 169 Cfr. le interessanti osservazioni di K. Thomas, La religione e il declino della magia. Le credenze popolari nell’Inghilterra del Cinquecento e del Seicento, Milano 1985 (London 1971), pp. 736-41. Pubblicazioni su vitalizi e tontine appartenevano ai genovesi Durazzo (cfr. L’archivio dei Durazzo, pp. 186-87). 170 La delibera del 1625 venne sospesa nel 1627, non appena venne a mancare il motivo per il finanziamento straordinario (ivi, reg. V, cc. 10r-v, 29 aprile 1627). Non a caso le successive affrancazioni iniziarono con la liquidazione dei debiti vitalizi. Un interessante prospetto non datato (ma probabilmente di metà Settecento) sull’istituzione di un “Monte sulla vita” che suddivide i creditori in varie fasce d’età si trova in BCMC, Donà delle Rose, 470, fasc. 5. 171 Mueller, The Venetian money market, pp. 373-94.

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alieni”172. E’ un segnale di scarsità di capitali a Rialto? In effetti vi sono testimonianze che indicano che la buona moneta era rara; e la stessa Zecca cercò di attrarre con facilitazioni coloro che avessero voluto portare paste d’argento173. Non si trattava, comunque, di un espediente congiunturale, poiché gli appelli a creditori esteri continuarono e anzi si intensificarono durante la guerra di Candia. Quantificare la partecipazione del capitale straniero al finanziamento della guerra è impossibile, ma è assai probabile che il denaro proveniente da Genova sia aumentato in misura cospicua. Dei quattro partiti (prestiti a breve) stipulati dal governo marciano di cui si ha notizia negli anni 1654-56 l’81,5 per cento fu fornito da genovesi. Pochi anni dopo la fine della guerra risultò che il 30,3 per cento dei fondi nel deposito al 3 per cento apparteneva a finanzieri di Genova174. L’allargamento dell’area dei sottoscrittori dei depositi in Zecca merita qualche riflessione. Si potrebbe supporre che l’istituzionalizzazione del debito estero fosse, come si è detto, un sintomo di difficoltà del capitale veneziano, che non era più disponibile nella stessa misura del passato. Ma le prove che il denaro scarseggiasse tra i veneziani non sono affatto numerose o convincenti. L’arrivo di sottoscrittori sudditi potrebbe altresì indicare che il gruppo dirigente veneziano volle coinvolgere in qualche maniera potenziali investitori che, pur non essendo mai stato loro impedito di partecipare al debito veneziano, non avevano mai avuto sollecitazioni in tal senso. Il patriziato veneziano si mostrò particolarmente interessato, nei primi decenni del Seicento, a tentare di tessere una serie di fili che legassero i diversi ambiti dello Stato, la capitale e i territori soggetti. La possibilità formalmente decretata di investire nel debito veneziano potrebbe essere dunque interpretata in tal senso: un tentativo cioè di creare, per mezzo di un potente strumento quale il debito pubblico, una sorta di partecipazione alle sorti della Repubblica. Per quanto riguarda gli investitori stranieri, l’afflusso dei loro capitali è senza dubbio una prova che i depositi in Zecca godevano di ampia e, spesso, meritata fiducia. Fiducia che doveva essere corrisposta, e non a caso dalla documentazione traspare la preoccupazione del governo di far fronte ai propri impegni finanziari anzitutto nei confronti dei creditori della Superba175. Certo, la dipendenza finanziaria dal capitale genovese, sebbene niente affatto soffocante, avrebbe potuto indurre il patriziato lagunare a prestare particolare attenzione agli umori e alle voci provenienti da Genova. Pericolo, questo, che tuttavia sembra non essersi verificato, almeno a giudicare dagli esiti negativi che in alcuni frangenti conseguirono i rappresentanti genovesi inviati a Venezia per difendere gli interessi degli investitori176. Le pressanti necessità finanziarie spinsero il governo a sfruttare nuovi strumenti di raccolta del denaro; tali mezzi riflessero la sempre più diffusa propensione al rischio e alle scommesse che interessò l’intera Europa del Seicento. Accanto alle emissioni di vitalizi venne proposta anche una serie di lotterie. La lotteria (o lotto) non era certo sconosciuta a Venezia: già nel Quattro e Cinquecento erano state istituite delle lotterie pubbliche che avevano come premi edifici e botteghe a Rialto, mentre anche i privati potevano avere il permesso d’indire un lotto, solitamente per soddisfare i creditori177; ma fu dalla metà del Seicento che il governo impiegò la lotteria come una particolare via di finanziamento. 172 ASV, Senato Zecca, reg. n.n., cc. 133r-v (8 aprile 1625). Cfr. anche AGS, Estado, Venecia, legajo 3834, c. 156 (11 dicembre 1634), per la ricerca di denaro a Genova. 173 Ibid., cc. 134v-35r (14 giugno 1625), c. 136r (26 agosto 1625). 174 Felloni, Gli investimenti, p. 145. 175 A luglio del 1630, nel pieno della pestilenza, si pose il problema di pagare i pro’ scaduti a giugno, “et specialmente [dei] genovesi, che ne fanno efficace instanza” (ASV, Senato Giro, filza 3, 16 luglio; e anche 4 gennaio 1631). 176 Cfr. per la prima metà del Settecento, Felloni, Gli investimenti, pp. 146-50. 177 I banchieri Dolfin, falliti nel 1570, istituirono un lotto su autorizzazione del Consiglio dei Dieci (ASV, Misc. codici, I, Storia veneta, 66, cc. 251v-52r). Un quadro del fenomeno a Venezia si trova in A. Fiorin, Lotto, lotterie e altro ancora, in Fanti e denari. Sei secoli di giochi d’azzardo, Venezia

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Nell’aprile del 1648 il Senato, accogliendo una proposta del “fedelissimo” Francesco Riva, deliberò l’emissione di una serie di depositi in Zecca al 7 per cento per un ammontare di 500.000 ducati distribuito in “carati” (quote) di 100 ducati ciascuno178. I sottoscrittori avrebbero ricevuto un “bollettino” che permetteva loro di partecipare a un’estrazione annuale da tenersi per i successivi 14 anni con le seguenti modalità: il primo anno sarebbero stati estratti in Maggior Consiglio 250 balle d’argento e 10 d’oro abbinate ai bollettini; quest’ultime avrebbero assegnato ai fortunati 1000 ducati ciascuno ed estinto il prestito; mentre agli altri 250 sarebbe stato concesso il capitale e il pro’ sino ad allora maturato. Le estrazioni si sarebbero susseguite sino al tredicesimo anno, allorché il primo estratto con la bolla d’oro avrebbe ottenuto ben 20.000 ducati, il secondo 14.000 e gli altri 2000 ducati. Nel quattordicesimo e ultimo anno si sarebbero ripetute le stesse modalità salvo che l’ultimo estratto delle balle d’argento avrebbe vinto una “grazia” di 1000 ducati. A finanziare il lotto vennero vincolati 70.000 ducati provenienti dalla vendita del sale in Lombardia. Dopo circa 5 mesi il deposito aveva raccolto quasi 250.000 ducati: cifra ritenuta soddisfacente tanto da consigliare di chiudere il lotto e, pertanto, di dimezzare il numero dei bollettini e l’ammontare delle vincite. Nel giro di circa sei mesi il lotto raccolse dunque 250.000 ducati: una somma discreta, considerando che una grave carestia aveva colpito il Paese nel 1648 e che la guerra e la dura tassazione rendevano l’atmosfera piuttosto pesante. Certo, i governanti avrebbero preferito raggiungere la somma prevista, ma probabilmente le condizioni generali e le iniziali incertezze dei sottoscrittori circa gli effettivi vantaggi del lotto svolsero un ruolo importante. Anche il lotto lanciato nell’agosto del 1650 non soddisfece le speranze iniziali. Accogliendo la proposta di Bernardin Contino, il Senato istituì un Monte formato da 120.000 “luoghi” acquistabili a 5 ducati l’uno entro due mesi. In cambio gli acquirenti avrebbero ricevuto dei “bollettini” per accedere a “grazie” di diversa entità, da 100.000 a 100 ducati di valore. Gli estratti sarebbero stati resi creditori in Zecca al 4 per cento e avrebbero ricevuto immediatamente i pro’ o dalla Zecca stessa o dalla Camera di terraferma più prossima al titolare. A dicembre si registrò una certa lentezza nella sottoscrizione e, dopo alcune proroghe, i termini vennero estesi sino a metà marzo 1651. A luglio iniziarono le operazioni di estrazione dei “bollettini”, che erano stati acquistati per un ammontare di 234.000 ducati; le “grazie” ovviamente furono proporzionate alla somma raggiunta. Nel giugno del 1652 le estrazioni vennero concluse “con grand’allettamento, concorso et applauso egualmente de sudditi et esteri beneficati dalla fortuna”. La soddisfazione dei sottoscrittori e del governo condusse a riproporre il Monte per i 73.200 “luoghi” rimasti invenduti. Forse la distribuzione dei premi rassicurò quei potenziali sottoscrittori che sino ad allora erano rimasti titubanti di fronte alla sfida della sorte. L’anno successivo venne istituito un nuovo lotto del valore di 100.000 ducati che avrebbe distribuito ai sottoscrittori beni immobili di pari valore. Altri 26.000 ducati vennero raccolti nel 1661 mettendo in palio tre uffici perpetui a Venezia, nove cariche vitalizie in terraferma e 90 “grazie” in denaro. I lotti dunque costituirono una sorta di prestito statale incentivato dalla possibilità di vincere somme discrete; dal punto di vista del sottoscrittore la somma impegnata era abbastanza contenuta (corrispondente alla retribuzione da 3 a 15 giornate lavorative di un semplice muratore) e permetteva di aspirare a “qualificare la propria conditione”; dal punto di vista del governo il lotto non rappresentava nel breve periodo un onere particolare, anche se occorre considerare che questo sistema era solitamente impiegato in caso di estrema necessità179. La lotteria veneziana, ad ogni modo, riscosse un notevole successo e fu presa a modello dal governo inglese180. 1989, pp. 122-36. Sulle lotterie statali nell’Europa della prima età moderna cfr. Jennings e Trout, The tontine, pp. 28-29; e il bel saggio di P. Macry, Giocare la vita. Storia del lotto a Napoli tra Sette e Ottocento, Roma 1997, pp. 21-2. 178 Per quanto segue, ASV, Provveditori in Zecca, filza 34. 179 Sembra prematuro sottoscrivere, almeno per il caso veneziano, il giudizio di B.G. Carruthers, City of capital. Politics and markets in the English financial revolution, Princeton 1996, p. 76, che vede nella diffusione delle lotterie in Inghilterra nel 1711-12 “a sign of financial desperation”. 180 Dickson, The financial revolution, p. 45.

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Il gioco del lotto quale intendiamo noi, comunque, giunse ufficialmente a Venezia nel 1715, quando il Senato assegnò per 25.000 ducati l’appalto del gioco “ad uso di Genova”, mentre ne assunse la gestione diretta nel 1734181. I bilanci settecenteschi registrano gli introiti netti per una media di poco oltre 111.000 ducati annui: si tratta di un gettito altalenante che, analogamente al caso napoletano, non è affatto in correlazione con l’andamento dei prezzi cerealicoli. Le spinte a giocare non derivavano infatti dalla necessità della contingenza, bensì dall’aspirazione a migliorare la propria condizione economica e sociale182. Oltre che ai prestiti volontari il governo ricorse, seppure in misura meno accentuata che in passato, anche al sistema dei prestiti forzosi sotto forma di decime e tanse183, mentre sviluppò la vendita di rendite da assegnare direttamente ai creditori, evitando perciò il passaggio attraverso la Zecca. I depositi fuori Zecca - come vennero denominati - rappresentarono un segno delle difficoltà che stavano passando le finanze pubbliche. Nonostante tale pratica fosse assai diffusa in altri Stati, il patriziato veneziano si era mostrato assai parco nell’alienare quote di entrate fiscali; ma l’estrema urgenza della guerra comportò il ricorso anche a questo espediente. Così, ad esempio, nel novembre del 1645 vennero venduti 28.000 ducati da riscuotere sul dazio olio ad un interesse del 7 per cento, che possiamo considerare il tasso corrente negli anni del conflitto184. L’alienazione avrebbe dovuto durare per un ventennio. Questo tipo di operazioni si moltiplicarono negli anni a venire, tanto che alla fine della guerra l’ammontare dei depositi fuori Zecca era giunto a superare i 13 milioni di ducati (tabella 19). In effetti le modalità di versamento dei pro’ erano piuttosto semplificate, poiché l’investimento in uffici doganali e Camere fiscali permetteva ai creditori di essere pagati direttamente dai cassieri dell’imposta o dagli appaltatori. Inoltre la qualità e l’importanza dei dazi alienati (vino, olio, sale...) rassicuravano i creditori sulla regolarità dei pagamenti; infatti la riscossione delle imposte indirette, e in particolare quelle basate sui consumi, appariva più sicura delle gravezze. Il sistema funzionò in maniera soddisfacente, e dunque venne pertanto applicato diffusamente lungo tutto il Settecento. La guerra di Candia, dunque, segnò un momento estremamente importante per la finanza pubblica veneziana, e soprattutto per i mezzi che furono posti in atto per affrontare l’emergenza. Così come in altre occasioni, dopo la fine del conflitto il governo mise mano al debito esaminando l’ammontare dei pro’ non ancora versati e iniziando le operazioni di riconversione a un tasso inferiore. TAB 19 Nel 1672 le varie serie redimibili che durante il conflitto erano state emesse tra il 5 e 7 per cento vennero unificate in un solo deposito al tasso del 3 per cento; un rendimento, questo, che si poneva sul medesimo livello, se non inferiore, dei tassi del debito olandese185. Se l’erario abbassò sensibilmente il costo del servizio del debito, i creditori che avevano acquistato i titoli sul mercato secondario poterono considerarsi comunque soddisfatti: il tasso di rendimento effettivo del deposito 181 G. Dolcetti, Le bische e il giuoco d’azzardo a Venezia 1172-1807, Venezia 1903, pp. 13-15; Bilanci, I, pp. CXXXVIII-CXXXIX. 182 Tali aspirazioni non mutarono qualche decennio dopo: cfr. E. Saurer, A proposito di disciplinamento dei desideri: il gioco del lotto nel Lombardo-Veneto, in “Società e storia”, 6 (1983), pp. 565-87. 183 Decime “a restituir” erano state imposte già negli anni Venti del Seicento: cfr. i numerosi dati in ASV, Archivio Tiepolo, I cons., busta 227, fasc. “Libro d’entrata Badoer”. 184 ASV, Compilazione leggi, busta 379, c. 258 (17 novembre 1645). 185 Dopo il 1650 i tassi olandesi si stabilizzarono attorno al 4 per cento toccando il 3 in poche occasioni: M. ‘t Hart, The merits of a financial revolution: public finance, 1550-1700, in A financial history of the Netherlands, ed by M. ‘t Hart, J. Jonker and J.L. van Zanden, Cambridge 1997, pp. 18-19.

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in Zecca al 3 per cento risultò essere nel 1688-89 del 4,2 per cento; un utile niente affatto disprezzabile considerando i bassi rischi e le ridotte alternative di investimento proficuo offerte da altri comparti. Le poche informazioni che si hanno sul mercato dei crediti statali a Venezia danno l’impressione che si trattasse di un settore abbastanza vivace, almeno per particolari titoli. I dati della tabella 20 mostrano che nel periodo 1645-71 furono trattati sul mercato secondario crediti per un ammontare medio annuo di 236.388 ducati e che oltre un quarto delle obbligazioni cambiò titolare. Sembra una quota piuttosto elevata186, che oltrepasserebbe il valore medio delle transazioni operate sulla piazza londinese delle azioni della East India Company negli anni 1661-72187. TAB 20 Un consistente traffico di titoli denuncia una notevole febbre nel mercato veneziano, pressato dalla domanda statale - sotto forma di emissioni di titoli e di imposte -, attento alle notizie che giungevano dal Levante e percorso da atteggiamenti speculativi da parte degli investitori più avvertiti. I dati evidenziano inoltre che alcuni titoli erano commerciati più di altri: in effetti, i depositi a elevata redditività (i vitalizi non vincolati) furono quelli che registrarono una circolazione maggiore, mentre i crediti del deposito al 4 per cento, che aveva ereditato i prestiti forzosi decretati durante la guerra, furono scambiati assai poco. Probabilmente da una parte i prestatori-contribuenti preferirono mantenere i titoli di credito sperando di recuperare il capitale in breve tempo, mentre i possibili acquirenti, dall’altra, temevano che tali titoli, una volta venduti dai titolari, potessero essere penalizzati dal governo, come era accaduto in passato. La velocità di circolazione dipendeva altresì dai vincoli burocratici che venivano frapposti dalle autorità: se è vero che l’elevato tasso di commercializzazione delle azioni inglesi nel primo Settecento era favorita dalla semplicità delle operazioni di transazione188, allora è probabile che anche a Venezia le modalità di passaggio fossero piuttosto agevoli e poco onerose. Merita sottolineare, poi, che la presenza di capitali stranieri contribuì a vivacizzare il mercato. Nel 1673 risultava che il 30,3 per cento del deposito in Zecca al 3 per cento fosse detenuto da stranieri (in gran parte genovesi), a dimostrazione della credibilità che il governo veneziano ancora godeva tra i maggiori specialisti della finanza internazionale. Alla fine della guerra di Candia le operazioni di riconversione portarono un sollievo solo momentaneo alle finanze statali; i livelli di indebitamento ripresero a innalzarsi con le due guerre di Morea e le fasi di neutralità armata. In questo periodo si fece ricorso a un ulteriore sistema di finanziamento statale, che coinvolse le arti e corporazioni di Venezia e della terraferma. Il governo infatti, constatata la scarsa fiducia che correva tra i potenziali investitori, impiegò le arti come intermediarie nella fornitura di credito. Le corporazioni, in sostanza, avrebbero preso a prestito denaro dagli investitori tramite un contratto notarile e successivamente lo avrebbero trasferito allo Stato189. La mediazione di un’istituzione locale, che poteva vantare prestigio anche in virtù della cospicua capacità finanziaria, venne così usata per attirare denaro che altrimenti, forse, non sarebbe affluito direttamente nelle casse statali. Accanto alle arti vennero coinvolti anche i luoghi pii e le comunità ebraiche dello Stato. Nel bilancio del 1710 molte Camere di terraferma registrano 186 Partner, Papal financial policy, p. 26, stima che un sesto del debito pontificio nei Monti venisse negoziato in un anno normale nel primo Seicento. Dickson, The financial revolution, p. 466, ipotizza che solo il 4 per cento dei titoli statali inglesi cambiasse possessore in un anno. 187 Ho calcolato 3522 Kg di Ag per il mercato veneziano e 3382 Kg per le azioni inglesi. L’ammontare degli scambi a Londra è in Carruthers, City of capital, p. 167; quantitativo destinato a crescere negli anni a seguire. 188 L. Neal, The rise of financial capitalism. International capital markets in the Age of Reason, Cambridge 1990, pp. 92-93. 189 Cfr. il caso analizzato da L. Bovolato, L’arte dei luganegheri di Venezia tra Seicento e Settecento, Venezia 1998, pp. 82 sgg.

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versamenti di pro’ a favore di enti morali; il ricorso a queste istituzioni non era certo una novità, ma è probabile che l’ammontare dei capitali e l’estensione dei creditori non avessero precedenti. Anche per quanto riguarda gli ebrei, spesso furono chiamati a pagare tasse specifiche e contributi a titolo di prestito. La comunità veneziana, ad esempio, fu obbligata a depositare in Zecca denari e argenti durante gli anni di Candia190; e nei decenni seguenti ulteriori richieste del governo certamente non mancarono. La ricerca di liquidità tra i diversi corpi sociali, sia nella capitale che in terraferma, era un indizio della difficoltà di reperire denaro dai tradizionali investitori, incapaci o restii in questo periodo a impegnare grandi cifre a Venezia. L’ulteriore riduzione dei tassi al 2 per cento sui redimibili e al 6 per cento sui vitalizi, decretata tra il 1714 e il 1715 in concomitanza con lo scoppio del conflitto turco, inferse un duro colpo alla fiducia degli investitori genovesi. Coloro che avevano acquistato le partite di Zecca direttamente dallo Stato videro decurtare i rendimenti e nello stesso tempo ampliarsi il differenziale con i tassi ‘privati’. TAB 21 E’ comunque importante rilevare che il governo veneziano riusciva comunque a pagare il denaro a prestito a un tasso inferiore rispetto al mercato privato; in Francia la corona dovette assicurare per i propri debiti un premio di circa il 2 per cento sui prestiti privati; mentre in un mercato all’avanguardia, come quello londinese, il differenziale risultava assai contenuto se non inesistente. Sebbene l’istituzione dei depositi della macina e dell’olio rispettivamente nel 1716 e nel 1720, offerti al 4 per cento, avesse ravvivato l’attenzione del pubblico, le relazioni tra la finanza veneziana e i finanzieri liguri si avviarono verso un progressivo allentamento. Nel 1739 e nel 1746 le autorità ritoccarono ulteriormente verso il basso i tassi, e successivamente vennero anche intraprese alcune operazioni di parziale affrancamento dei prestiti più onerosi. Certo, i genovesi non apprezzarono simili decisioni, e scelsero in buona parte di ritirare i capitali offerti piuttosto che trasferirli in fondi della Zecca a tassi inferiori191. Ma ciò non significa che il debito statale non esercitasse ancora una notevole attrattiva fra i veneziani: la fraterna Pisani, ad esempio, dal 1768 al 1784 incrementò del 24 per cento l’ammontare di denaro investito nel debito statale192. Il capitale nominale detenuto da stranieri si ridusse da circa 21 milioni di ducati nel 1760 a 13 milioni e mezzo nel 1787193; ma l’attenuarsi degli investimenti stranieri non significò che il debito veneziano fosse considerato un impiego rischioso, visto che ancora nel 1797 risultava che il 17,9 per cento del debito era detenuto da creditori stranieri194. Se da un lato la progressiva riduzione dei tassi d’interesse aveva indotto a disinvestimenti, dall’altro lato la finanza veneziana trasse 190 B. Pullan, Gli Ebrei d’Europa e l’Inquisizione a Venezia dal 1550 al 1670, Roma 1985 (Oxford 1983), pp. 487-88. 191 Felloni, Gli investimenti finanziari, p. 148. 192 Gullino, I Pisani, p. 288. Qualche esempio dell’incidenza dei titoli del debito nei grandi patrimoni del Settecento in A. Ventura, Considerazioni sull’agricoltura veneta e sulla accumulazione originaria del capitale nei secoli XVI e XVII, in “Studi storici”, IX (1968), p. 125; ASV, Notarile, Atti, 7466, c. 33v: patrimonio di Alberto Gozzi q. Giovan Antonio (febbraio 1726); e ibid., 7470, sugli investimenti dei Corner nel 1747. 193 Felloni, Gli investimenti finanziari, p. 151. Le conseguenze di tale fuga di capitali non sono ancora state studiate. Sarebbe interessante valutare gli eventuali effetti sul livello dei tassi nel mercato veneziano sulla scorta della ricerca di S.E. Oppers, The interest rate effect of Dutch money in eighteenth-century Britain, in “Journal of economic history”, 53 (1993), pp. 25-43, che ipotizza l’importante funzione del capitale olandese nell’influenzare il movimento dei tassi inglesi. 194 G. Zalin, La finanza pubblica e le sue difficoltà nello Stato Veneto tra ancien régime e restaurazione austriaca, in La finanza pubblica in età di crisi, a cura di A. Di Vittorio, Bari 1993, pp. 97, 120

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indubbi benefici da tali operazioni e affrontò la seconda parte del secolo con risultati eccellenti. Il quadro comparativo esposto nella tabella 22 evidenzia, in effetti, che i parametri finanziari veneziani nel 1788 erano discreti. TAB 22 In apparenza la Francia godeva di una condizione invidiabile, ma l’impegno del pagamento degli interessi costituiva un fardello difficilmente sostenibile nel lungo periodo; sorprende, piuttosto, quanto versasse in acque turbolente la finanza pontificia, che presenta indicatori preoccupanti. Non è questa la sede per proporre ulteriori considerazioni, ma sembra plausibile affermare che, in base ai dati esposti, la gestione del debito veneziano fosse tra le più brillanti nell’Europa del secondo Settecento195. Sebbene il debito pubblico possa essere visto come un potente strumento politico, le vicende veneziane del XVIII secolo lasciano intendere che la politica governativa privilegiò, almeno tendenzialmente, gli interessi dello Stato rispetto a quelli dei sottoscrittori. La serie di conversioni che interessò il secolo colpì i creditori, che videro abbassarsi progressivamente la rendita; si trattò di una sorta di tassazione sui titoli che attuò una redistribuzione di redditi fra sottoscrittori e contribuenti. Meccanismo, questo, che venne messo in atto in diverse occasioni lungo la storia veneziana e che puntava a colpire soprattutto coloro che cercavano di trarre profitto dall’acquisto dei titoli sul mercato secondario. Finanza pubblica e istituzioni La Venezia medievale e rinascimentale era vista, a buon diritto, come un centro cruciale nell’ambito della rete finanziaria internazionale. Un ruolo, questo di Venezia, che era consentito dal buon funzionamento delle sue istituzioni finanziarie. L’attenta gestione del debito - sia a lungo che a breve termine - e l’atmosfera politica, che garantiva una certa sicurezza e stabilità del regime, attirarono capitali e operatori stranieri. Il governo controllava il mercato e gli uomini, tutelando gli investitori e i mercanti con una legislazione volta ad assicurare i diritti di proprietà e la gestione delle ricorrenti crisi finanziarie. Il tramonto dei banchi di scritta privati portò alla costituzione, nel 1587, del Banco della piazza di Rialto, che acquisì il ruolo di istituto di deposito, giro e compensazione per i numerosi correntisti. La Camera del frumento prima e la Camera del sale poi funzionarono come uffici che amministravano una sorta di debito pubblico fluttuante, i cui principali partecipanti erano i fornitori di beni e servizi allo Stato196. La funzione di questi istituti venne assunta successivamente, nel 1619, dal Banco giro, che svolse compiti di tesoreria sino alla caduta della Repubblica. Questi organismi, conosciuti in tutta Europa, suscitarono interesse e spesso ammirazione; contribuirono al rafforzamento e alla diffusione del mito di Venezia anche nel settore finanziario, un mito che coniugava il buon funzionamento dei meccanismi della piazza con la presenza efficiente dello Stato197. Ma è doveroso chiedersi quali fossero gli elementi che 195 Segni positivi della finanza veneziana emergono dall’analisi di G. Mazzuccato e G. Petrovich, La politica di bilancio della Repubblica di Venezia intorno alla metà del Settecento, in “Per sovrana risoluzione”. Studi in ricordo di Amelio Tagliaferri, a cura di G.M. Pilo e B. Polese, Venezia 1999, pp. 115-20; e cfr. anche Zalin, La finanza pubblica, pp. 113-15. Una visione meno pessimistica rispetto ai giudizi consolidati sulla finanza francese è proposta da E.N. White, Was there a solution to the ancien regime’s financial dilemma?, in “Journal of economic history”, 49 (1989), pp. 545-68, con interessanti osservazioni sulla sostenibilità del debito statale. 196 Mueller, The Venetian money market, pp. 359 sgg.; J.-C. Hocquet, Guerre et finance dans l’état de la Renaissance: la Chambre du Sel et la dette publique à Venise, in Etudes sur la fiscalité au Moyen Age (Actes du 102e Congrès national des Sociétés savantes), Paris 1979, pp. 109-31. 197 U. Tucci, Miti e realtà di Venezia negli scritti degli economisti, in Storia della cultura veneta, V, 2, Vicenza 1986, pp. 435-58.

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permisero questo successo; perché, in definitiva, le istituzioni finanziarie veneziane funzionarono generalmente bene? La struttura costituzionale e la forma repubblicana probabilmente non devono essere fattori da sottovalutare. E’ stato giustamente affermato che il Senato veneziano può essere visto come un consiglio di amministrazione, che dettava le linee guida della politica economica; un organo costituito, almeno sino agli albori del Cinquecento, in prevalenza da mercanti. Vi era dunque una stretta identificazione fra ceto dirigente e ceto economico; e se consideriamo che il governo sovrintendeva agli allestimenti navali, ai convogli commerciali e inoltre aveva a disposizioni numerosi strumenti per agire sulla sfera economica, non è affatto sorprendente rilevare nel patriziato un diffuso sentimento che legava indissolubilmente gli interessi privati con quelli pubblici. La struttura costituzionale, poi, tendeva a limitare il formarsi di forti interessi di parte che potessero prevalere. Certo, gruppi di potere, fazioni e clan agivano anche nelle sale di palazzo ducale, così come nelle corti principesche, ma l’assenza di un unico punto di riferimento, quale era il principe, rendeva i giochi assai più complicati. La messa in discussione dei diritti di proprietà, ad esempio, era una questione che interessava l’intero corpo aristocratico e nel quale doveva essere dibattuta; in un regime monarchico, invece, la distribuzione dei diritti trovava il suo centro nella persona del principe, vertice assoluto della rete di relazioni e di clientele. Ciò non significa che a Venezia non esistessero, più o meno palesi, forti interessi che innescavano aspre lotte e tensioni all’interno del patriziato. Basti pensare al controllo delle rendite dei benefici ecclesiastici - il cui valore Angelo Ventura ha stimato essere attorno ai 100.000 ducati nel 1531198 - e che probabilmente non rappresentarono l’ultima causa dello scontro fra “vecchi” e “giovani”. Quali furono gli effetti di questa struttura sulla politica finanziaria? La risposta non è certo semplice, mancando approfondite indagini sui meccanismi che sottostavano alle decisioni del gruppo dirigente marciano; tuttavia non pare inopportuno proporre qualche considerazione. Per quanto riguarda l’amministrazione finanziaria, abbiamo già visto che la pletora di casse e la sovrapposizione di competenze se da una parte rifletteva la costituzione veneziana dall’altra procurava forti inefficienze e gravi ritardi per la gestione del denaro pubblico. Tuttavia i pochi dati a disposizione fanno supporre che il differenziale tra il denaro riscosso tramite la leva fiscale e quello effettivamente sborsato dal contribuenti fosse relativamente contenuto. Ciò induce a ritenere che il sistema tributario veneziano presentasse costi di transazione inferiori rispetto a quelli riscontrabili altrove. Da questo punto di vista, dunque, la fiscalità appare efficiente. Un ulteriore fattore da considerare riguarda il rapporto fra entrate fiscali e politica. La crescita degli introiti fiscali può essere valutata in termini spesso ambigui e talvolta contraddittori. L’aumento delle entrate può essere visto sia come l’affermazione della capacità coercitiva dello Stato sia come il risultato di un equilibrio tra i diversi attori politici. L’elevato livello del gettito nei secoli XV e XVI, ad esempio, fa ritenere che la via scelta dai dirigenti veneziani fu la ricerca del compromesso e lo smussamento dei conflitti con i sudditi piuttosto che l’impiego della forza per estorcere i tributi. L’ottica politica, nel settore fiscale così come in quello giudiziario, prevalse sulle mere necessità di cassa, anche se in definitiva l’erario stesso ebbe a giovarsene. I limiti fiscali della Repubblica, così come in Francia199, erano dettati dalla struttura del potere, centrale e locale, e dal potenziale economico sfruttabile a fini fiscali. A Venezia, però, i costi politici ed economici della fiscalità non risultarono così pesanti come in Francia. L’effettiva flessibilità del meccanismo fiscale veneziano permise di attenuare le tensioni e di modulare, entro certi limiti, le necessità statali sulle dinamiche politiche ed economiche della società. Nel momento in cui - tra Cinque e Seicento - gli equilibri politico-sociali in terraferma erano in discussione il governo scelse, di fatto, di coinvolgere i ceti emergenti nelle campagne, ottenendone così la collaborazione in un periodo di urgenti necessità finanziarie. Questo coinvolgimento, che ovviamente aveva come elementi principali una certa autonomia delle istituzioni locali in cambio dell’aumento del gettito fiscale, interessò altresì la 198 Ventura, Considerazioni sull’agricoltura veneta, pp. 679-80. 199 Collins, Fiscal limits of absolutism, pp. 214 sgg.

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stessa città di Venezia. Sebbene le arti di mestiere stessero perdendo, tra Sei e Settecento, la loro fondamentale funzione economica, nondimeno rappresentarono un importante strumento di leva fiscale e di raccolta di capitali a prestito. Politica lungimirante, dunque, quella del patriziato veneziano? Non sempre. L’impressione è che dalla guerra di Candia in poi i nuovi fermenti della società non abbiano più trovato attento orecchio a palazzo ducale. Nonostante i reiterati tentativi di riforma, il patriziato veneziano non riuscì a stare al passo della società in mutamento. Prigioniero del proprio mito, della sacralità delle istituzioni, sospettoso nei confronti delle novità, che avrebbero toccato gli equilibri di potere e quindi il ruolo stesso del ceto dirigente, il patriziato lagunare non seppe attuare quei propositi che trovavano esempio nell’esperienza riformista degli altri Stati; esperienza che veniva riportata dagli osservatori più attenti dell’aristocrazia. L’incapacità di percorrere la strada di riforme strutturali nel settore fiscale, per esempio, evidenzia i limiti della classe di governo. Eppure, le vicende del debito pubblico, che può essere considerato a buon diritto un campo privilegiato per valutare la credibilità goduta da uno Stato, dimostrano che in genere gli investitori accordavano fiducia al governo200. Da cosa derivava una tale fiducia? In termini piuttosto sintetici, la Repubblica appariva un debitore affidabile per il semplice fatto che il ceto dirigente partecipava in larga misura al credito statale, e quindi la sovrapposizione, seppur parziale, fra creditori e debitori garantiva la sicurezza dell’investimento. Il governo, costituito da importanti prestatori, non avrebbe mai preso decisioni che avrebbero pesantemente svantaggiato i detentori dei titoli; da ciò deriva che si ritenesse che i patrizi avrebbero preferito aumentare le tasse piuttosto che ripudiare il debito201. Alla base della fiducia giocava anche la reputazione del governo circa la gestione del debito: nonostante alcune acute crisi, lo Stato veneziano non decretò mai la bancarotta e le operazioni di riconversione non furono mai drastiche e offrirono l’opportunità di restituire il capitale. La grande affrancazione di fine Cinquecento, poi, costituì un prestigioso e rassicurante punto di riferimento per la reputazione del governo. Decidere di tagliare i flussi assicurati dalla rendita statale non era una decisione affatto semplice. Basti pensare che in un’altra Repubblica, quella genovese, quando nel primo Cinquecento emersero proposte di liquidare il debito il patriziato attuò una ferma opposizione che vanificò il progetto; progetto lodevole sul piano finanziario, certo, ma che andava contro gli interessi particolari del ceto dirigente202. Se a Genova gli interessi privati prevalsero, a Venezia l’affrancamento della Zecca può a ben diritto essere considerato una vittoria del pubblico interesse. La relativa pace sociale che regnò nei territori della Repubblica, inoltre, contribuì a rendere il problema della riscossione fiscale meno drammatico rispetto ad altre situazioni - si pensi alla Francia -; e se consideriamo che il regolare afflusso di fondi - provenienti per lo più dall’imposizione indiretta - era la condizione necessaria per pagare i pro’, anche la tassazione rappresentava uno dei pilastri della fiducia. La diffusione delle informazioni sulla finanza pubblica, anche se era vietata nondimeno esisteva all’interno del patriziato. Ora, nonostante l’asimmetria delle informazioni fra governanti e prestatori, il fatto che i patrizi investissero nel debito pubblico poteva spingere altri investitori a imitarli, rassicurati dal comportamento dei dirigenti politici. Del resto è probabile che l’asimmetria delle informazioni fosse meno evidente che in altre situazioni, e questo potrebbe aver mantenuto il livello dei tassi più basso che altrove. Naturalmente questo modello di lungo periodo presenta eccezioni e necessita di ulteriori approfondimenti. La fiducia che il governo marciano godeva all’estero sino alla seconda 200 Cfr. la discussione di A. Pagden, La distruzione della fiducia e le sue conseguenze economiche a Napoli nel secolo XVIII, in Le strategie della fiducia. Indagini sulla razionalità della cooperazione, a cura di D. Gambetta, Torino 1989 (Oxford 1988), pp. 165-82; ma tutto il volume offre interessanti spunti. 201 Riprendo le osservazioni che Root, The fountain of privilege, pp. 179-80 e 190-91, svolge per l’Inghilterra settecentesca. 202 Un cenno alla questione in C. Costantini, La Repubblica di Genova nell’età moderna, Torino 1978, p. 27.

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metà del Seicento venne progressivamente indebolita dalle varie riconversioni dei tassi e dall’accumulo di paghe arretrate; a ciò si fece in parte fronte con l’ampliamento della base dei prestatori, più o meno forzati a versare denaro o attratti dalla possibilità di conseguire rendite e cariche. Se da una parte la quota del debito all’estero si riduceva, dall’altra si espandeva quella detenuta da istituzioni assistenziali, corporazioni e privati della terraferma. Di conseguenza si potrebbe vedere nella rendita pubblica un’importante fonte di redistribuzione di denaro finalizzata, almeno in parte, al mantenimento della pace sociale. Lo Stato veneziano, così, si presenta con caratteri di lungo periodo piuttosto sfumati, ambigui, difficili da costringere in un unico giudizio, che da una parte non renderebbe pienamente giustizia dell’operato di una classe dirigente e, dall’altra, sarebbe pesantemente influenzato dalla fine, invero poco gloriosa, della Repubblica. Il confronto con altre realtà e istituzioni straniere ha messo in luce che i sistemi di gestione e di finanziamento della Repubblica non erano certo inferiori rispetto a quelli di Stati - segnatamente l’Olanda e l’Inghilterra - che sono considerati dalla storiografia corrente all’avanguardia nell’Europa preindustriale. Anzi, è probabile che a Venezia talune innovazioni finanziarie siano state applicate in anticipo, a riprova del fertile ambiente e del vivace dibattito che si poteva trovare a Rialto. Gli elementi emersi nelle pagine precedenti spingono a ritenere, dunque, che valga la pena di cercare ulteriori tasselli per la composizione di un quadro che senz’altro è ancora affascinante.